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Una volta entravo spesso nel recinto per cani, con una ragazza con un cappotto r

osso che era quasi come me. Lei aveva due cani, io tenevo la femmina e lei il ma
schio.
Entravamo, chiudevamo il cancello e li slegavamo.
Poi ci sedevamo sullo schienale di una panchina, le spalle contro un albero.
Lei fumava una sigaretta, intrecciava la mano con la mia.
Su quella panchina abbiamo lasciato tante parole da poter ricostruire noi stessi
.
Quando finiva di fumare appoggiava la testa sulla mia spalla e io la stringevo c
on un braccio,sopra al cappotto rosso.
E poi cominciavamo a parlare.
Avevamo problemi che ci sembravano grandi come il mondo, eppure c’era in noi, e fo
rse era solo in noi, lì, in quel momento, la sicurezza che sarebbero svaniti.
Portavamo fuori i cani di sera. A volte un treno passava vicino a interrompere l
e nostre parole. Il treno era pausa di riflessione, era la parola da dire dopo.
A volte restavamo in silenzio anche quando il treno era ormai lontano.
A volte erano silenzi di lacrime. A volte erano silenzi e basta. A volte, se riu
scivamo a dimenticarci di noi, erano silenzi di baci.
Su quella panchina ho vissuto più che nel mondo. Ci ho vissuto mille volte tutti i
miei passati. Ci ho vissuto mille anni di futuro, ci ho vissuto mille morti.
Lei aveva labbra morbide e braccia calde. Sapevamo tutti e due che non erano per
me e non lo sarebbero mai state.
Spesso abbiamo pianto baciandoci. Abbiamo pianto da soli e piangendo eravamo ins
ieme.
Lei era la mia capacità di sognare.
Sono stati pochi anni, ma saranno i miei anni, nel ricordo.
Pochi anni, pieni di lacrime e di addii.
Ma in quegli anni ho capito cos’è essere giovane davvero.
Ora sono già vecchio, vecchio di quegli anni e di molti altri, e la sola cosa che
mi ricordo è che non sono mai stato in grado di darle quel che chiedeva.
Non voleva molto e io lo sapevo, ma dietro le nostre troppe scuse c’era forse una
paura grande più di noi.
Io per lei sono morto piano, un giorno alla volta.
Sono morto nelle bugie e nella paura di fare qualcosa.
Ha compiuto gli anni poco tempo fa. So che è felice ora.
So che noi non saremo mai più, se non dentro me, se non nel mio stomaco che mi fa
ancora male come su quella panchina, a volte.
Il parco c’è ancora. L’albero e la panchina sono sempre lì. I cani stanno bene, credo, l
ei è felice.
Ma io non mi sono mai più seduto lì.
Non ho mai avuto il coraggio di sedermi su quella panchina, nemmeno da solo.
Io sono morto e condannato all’ergastolo del ricordo.
E così è giusto.

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