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Immigrati, la necessità di ''denutrire un pensiero unico convergente''

03/12/2007 - CAPODARCO DI FERMO – “Mamadou”, un nome di fantasia per un protagonista


delle nuove paure nell’era della sicurezza turbata: l’immigrato. E Mamadou è appunto il titolo di
uno dei tre workshop tenutisi nell’ambito della quattordicesima edizione del seminario per
giornalisti Redattore Sociale.
Gabriele del Grande, giornalista e autore del libro “Mamadou va a morire”, Francesco Vacchiano,
psicologo e antropologo del centro Frantz Fanon e dell’Università di Torino, e Mussie Zerai,
presidente dell’Agenzia Habeshia, associazione per i rifugiati politici eritrei ed etiopi, hanno parlato
di clandestini, rifugiati, nuovi ghetti, minori stranieri e devianza e, in generale, delle rotte della
migrazione e della difficoltà degli stranieri di inserirsi nei Paesi di arrivo, vittime di vecchie
ingiustizie e nuovi abusi.

Del Grande ha ricordato il viaggio di tre mesi sull’altra sponda del Mediterraneo, nel tentativo di
incontrare i migranti in viaggio verso l’Europa, capire le loro aspettative, i loro problemi, le loro
speranze. Tutte cose finite poi nel libro edito da Infinito Edizioni
Uno spaccato di estrema attualità, di cui i mezzi di informazione solo parzialmente riescono ad
avere un’idea. “Dal Canale di Sicilia – ha affermato Del Grande – arriva solo l’8% di immigrati
presenti in Italia ma oltre il 60% di richiedenti asilo politico. E crimini e repressioni continue alle
frontiere non riescono a fermare questi flussi”. Flussi che cambiano. Parlando della soppressione
dei diritti, dell’ingiustizia imperante nelle carceri libiche (circa 21 centri, di cui 3 finanziati
dall’Italia) e degli accordi fatti anche dal nostro Paese proprio con la Libia, sottolineato il
mutamento delle logiche che sottintendono gli sbarchi. “In Sicilia gli sbarchi sono diminuiti del
30% - ha affermato – mentre sono raddoppiati i morti. Meno viaggi, dunque, ma condizioni di
viaggio peggiori e rinuncia preventiva agli scafisti, con imbarcazioni affidate direttamente agli
stessi migranti”.
Ma a pesare è, ha affermato Del Grande, la contraddizione tra le normative internazionali e le leggi
nazionali. “Ma questo non fa notizia: siamo di fronte ad una violazione sistematica dello stato di
diritto. Ma c’è un problema culturale: certe pratiche vengono assunte come normali anche dai
giornalisti”.

Concetti ripresi da Mussie Zerai, che ha definito i migranti nei Paesi di arrivo “precari di vita”. “E’
lo Stato che genera insicurezza – ha affermato – perché non crea un sistema di accoglienza. Che
deve essere di due livelli: burocratico (concernente cioè gli accertamenti su chi arriva in Italia) e
informativo, vale a dire concernente l’educazione e la conoscenza del Paese che accoglie chi arriva.
Insomma, i migranti vanno ‘scolarizzati’. Tutto questo non avviene. Chi crea allora insicurezza? Lo
dico io: un sistema che non funziona”. “Per rinnovare un permesso di soggiorno – ha aggiunto – ci
vogliono 8 o 9 mesi. E io per nove mesi ho la vita paralizzata”.

Infine Francesco Vacchiano, che ha voluto porre delle domande ai giornalisti. Domande un po’ vere
e un po’ retoriche: un modo per invitare chi fa informazione e parlare di migranti ad approfondire, a
documentarsi, a non generalizzare. “Perché – ha chiesto – il giornalismo non può impegnarsi a
‘denutrire un pensiero convergente’?”
E capire significa conoscere: conoscere chi sono i migranti, sapere che per loro rientrare in patria
così rappresenta il “ritorno degli sconfitti”. “E’ un compito storico quello che grava sulle spalle dei
migranti”, ha aggiunto, evidenziando il carico di aspettative di chi parte per migliorare le sue
condizioni di vita e quello della sua famiglia e del proprio Paese.
Ma il dito è sempre puntato su chi fa informazione: “La comunicazione insegna a vedere ciò che cè
intorno alle cose. E se è vero che non genera di per se stessa insicurezza, è sicuro che influenza la
qualità del senso di insicurezza. I fenomeni, oggi, non sono più oggetto di indagine ma di semplice
descrizione”.
“Ma – si è chiesto – perché questo ‘ovvio’ non viene interrogato? Perché non ci interroga sul perché
una cosa è ritenuta ovvia? Perché non ci interroga e si scrive delle deportazioni dei migranti? E
quali sono le ragioni per cui molti ragazzini stranieri sono sulle nostre strade, spesso per
spacciare?”.
E a concluso: “Spesso, parlando con gli operatori e la gente comune, si nota come i migranti siano
percepiti male. Le loro richieste vengono percepite come rivendicazioni eccessive. Ma dobbiamo
sapere che questi dei diritti (la casa, la cittadinanza…)è una battaglia che i migranti fanno anche per
noi. Sono in prima linea per rivendicare ciò che spetterebbe a tutti”. (da.iac)

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