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E adesso cosa gli dico a casa?…, pensò Luca guardando il fondo del boccale,
l’ennesimo di una serie infinita. Aveva appena perso il lavoro, l’ultima di una
falange di rogne che sembravano accavallarsi e rincorrersi come i tori alla
sagra di San Firmino. Solo che a Pamplona, che il diavolo se li porti, tori e
scalmanati sembrano divertirsi un mondo. Gli scalmanati, almeno, chissà i
tori… magari quando alla fine gli riesce di prendere qualcuno a cornate nella
trippa.
Massa di ebeti, qui non c’è proprio niente da ridere!, sibilò nell’aria,
sentendo l’acre rigurgito dei guai che gli scavava la parete dello stomaco.
Già, perdere il lavoro non è mai uno scherzo. Perderlo poi a
cinquant’anni, con una moglie e due figli piccoli, il mutuo che ti si incolla al
groppone come una maledizione biblica, non è certo il massimo della goduria.
E l’Enel? E quelli del gas? Ma mi mettono in conto tutti i consumi del
condominio? Perché ce l’hanno con me? Che gli ho fatto?
Quasi non si rendeva conto della gente al bar che lo guardava in silenzio,
che si scambiava occhiate e scuotimenti di testa. Una voce ordinò un’altra
birra. Una voce così bassa e raspante che stentò a riconoscere come la sua.
Meglio che mi fermi qui, si sorprese a calcolare, non so neppure se ho
abbastanza soldi. Ci mancava che lo cacciassero in strada, ubriaco e
squattrinato, puzzolente di un sudore che gli si era raffreddato addosso con la
paura. Paura di doversi umiliare. Paura di non vedere la soluzione. Paura di
vivere.
Pescate di tasca un paio di monete da due euro che sembravano
guardarlo con dolore, se ne separò con la sensazione di aver perso dei cari
amici. Varcò la porta del bar afferrando allo stesso tempo un pacchetto di
sigarette che lo ricompensò con un suono di cartone vuoto. Si diresse rabbioso
contro il distributore nel vicolo, che sfavillava come un’insulsa slot-machine.
Addio, mormorò lisciando con le dita l’ultima banconota da venti che aveva
faticosamente repertato nel portafoglio. Troppo intento a infilare la fessura,
troppo attento a non sbagliare il bottone con la marca giusta, non vide in
tempo che lo schermo ammiccava “resto massimo 5 euro”. Si chinò a
raccogliere il prezioso pacchetto di sigarette e un pugno di monetine, e rimase
bloccato con il braccio nello sportello, incapace di vedere la banconota da dieci
che c’era, lo sapeva. Doveva esserci.
Cominciò a rigirare l’avambraccio in su, grattando per tutta la larghezza
dello sportello, e intercalando le grattate con una fantasia di litanie non scritte.
Cominciò a guardarsi attorno; magari la banconota era scivolata fuori ed era lì
a terra, che aspettava solo di essere raccolta.
Ma in terra non c’era traccia di banconote, né da dieci, né da altro.
Prese allora a schiacciare tutti i bottoni che gli capitavano, prima con un
dito, poi due, poi tutto il pugno, finendo per prendere a calci la lamiera, con il
risultato di incastrare una scarpa nello sportello. La strattonò furioso,
accorgendosi che così aveva sfregiato irrimediabilmente la pelle, senza contare
che il piede gli faceva un male boia.
«Cos’è successo, le ha fregato il resto?»
Voltatosi di scatto, tutto il suo essere che urlava no, imbecille, sto solo
provando una mossa di karate, si trovò di fronte un vecchietto alto non più di
un metro e cinquanta, che lo commiserava appoggiato a un’enorme bicicletta
nera, e racimolò l’aplomb per latrare:
«Sì, beh, farò finta di aver fatto la carità, buonanotte.»
***
Già, buonanotte, proprio. Cosa diceva sua nonna? Quando arrivano le disgrazie,
bisogna tenergli aperta la porta. E cosa ci sarebbe di consolatorio in questa
saggezza popolare, di grazia? Forse che la miseria accompagnata dai proverbi
diventa meno misera? Forse che se devi andare in rovina, almeno prova a farlo
con stile? Ma per piacere… Gli dava sui nervi sentire in TV quel ministrino con
la vocina flebile e l’erre moscia che parlava della crisi dall’alto dei suoi
cinquantamila euro al mese. Era stufo di vedere i prezzi in salita e le entrate in
discesa. Loro parlavano di crisi con il sorriso sulle labbra, mentre lui si sentiva
morire.
Morire, che idea. Certo i problemi se ne vanno all’istante. Mai esistiti, chi
li ha mai visti? Via, via, via. Un colpo, un attimo, e ciao mutuo, ciao stipendio
che non c’è più, ciao, miei cari, io vado. Ora pensateci voi. Non ce la faccio, voi
senza di me potete cavarvela. La nonna darà una mano, gli zii vi aiuteranno.
Magari andrete ad abitare con la zia, che è sola e vi ospiterebbe con piacere,
forse. Tu, Laura, sei ancora giovane, puoi trovarti un lavoro. Tra un po’ magari
si farà avanti uno che non ti dispiace poi tanto, e che magari ha anche i soldi. I
bambini avrebbero vestiti nuovi, potrebbero studiare e crescere in pace. Il
papà? Se n’è andato che noi eravamo piccoli, ce lo ricordiamo appena. Ora
abbiamo una bella casa, la mamma è felice.
Un bel quadretto, non c’è che dire. Peccato che in questo quadretto non
c’è posto per me, pensò Luca sempre più torvo, mentre camminava scalciando
la polvere, le braccia che pendevano di lato senza nervo.
Senza accorgersene, era arrivato sull’alzaia, quel tratto di argine quasi in
centro città che segue il Livenza nel suo moto serpentino.
Il sole stava chiudendo la sua discesa in un rosso che colorava l’acqua di
sangue. Il cielo viola assurdo, con finissime strie rosa e oro. Una scena che in
altri tempi avrebbe fotografato, smaniando per una stampa che poi non
mostrava manco l’ombra della magia.
Gli venne in mente quel suo amico che vent’anni prima aveva placato i
suoi demoni nel Livenza. Quali demoni, poi? Non era vero niente che aveva
problemi di denaro; la ditta andava bene, la famiglia lo adorava, gli amici lo
apprezzavano. Era la sua testa che non era d’accordo; qualcosa gli aveva
succhiato via la voglia di vivere. Uno scrittore lo aveva chiamato Il Male Oscuro.
E un male lo è sul serio, se si porta via ogni anno migliaia di anime
nell’impotenza di familiari e amici, che non possono che assistere al lento
spegnimento di una vita senza alcuna arma se non l’amore, che troppo spesso
non basta neppure. Non si può fare niente, non serve colpevolizzarsi. Certo, ci
sono coloro che vogliono lasciare un messaggio, quelli che vogliono lanciare il
loro grido d’aiuto, che in realtà non intendono farla finita. Coloro che si
organizzano per essere salvati all’ultimo momento, e che qualche volta vanno
oltre l’intenzione. E finisce che muoiono davvero. E il mondo fatica a capire che
anche loro soffrono, che il loro non è un dolore di serie B.
E ci sono quelli che fanno sul serio, che lì ci arrivano perché è proprio lì
che vogliono arrivare. Quelli, pensava Luca, sono già morti da prima; è per
questo che non si può far nulla per loro. Perché una persona può odiare la vita?
Che razza di bestia atroce può scavare in testa un dolore così insopportabile?
E allora perché stai guardando l’acqua? Pensò tentando di scrollarsi di
dosso quei dolorosi fantasmi. Perché non posso andare a casa con la novità e
pretendere un’accoglienza da eroe. Perché provocherei una delusione enorme,
perderei la faccia di fronte alla famiglia, al mondo. Perché non riuscirei più a
guardarmi allo specchio. Perché non c’è altra soluzione, ecco perché.
Ah, questa invece sarebbe una soluzione, signor genio?, gli sussurrò quel
briciolo di ragione che ancora lo teneva in piedi. Tentò di girarsi indietro, di
prendere la strada di casa, ma si vide mentre apriva la porta con la faccia nera,
vide i figli che gli saltavano addosso raccontandogli delle loro minuscole
tragedie di bambini, vide la faccia di Laura, che pareva aver già capito. Udì se
stesso dire quelle parole che avrebbero stappato rimproveri, recriminazioni,
lacrime, insulti. Pensò che no, non aveva nessuna voglia di morire, ma non
poteva evitarlo. Cosa gli restava?
***
Si ritrovò in piedi sulla rampa dei mezzi militari, uno scivolo di cemento che
pareva messo lì apposta. Gli venne persino da ridere, mentre immaginava di
guardarsi da fuori, come a teatro, di vedersi lì indeciso tra il tuffarsi in avanti e
picchiare il naso, e il buttarsi di lato e impantanarsi nel fango. Oppure
camminare lungo lo scivolo fino a entrare in acqua, e proseguire piano:
caviglie, ginocchia, torace, una piccola spinta. Niente da fare, bisogna
organizzarsi meglio. Gli sembrava di aver letto da qualche parte che dev’essere
una specie di rituale. Togliersi le scarpe, innanzi tutto. Questa non l’aveva mai
capita, ma tant’è, aveva letto che tutti quelli che si annegano fanno così, e lui
non doveva essere da meno. Alcuni si legano le mani, perché l’istinto non ti
porti in salvo a riva. Ma io con che mi lego? pensò Luca, e perché poi, che tanto
non so nuotare, e in quest’acqua andrebbe giù anche Mark Spitz. Sì, prima che
se lo acciuffino le pantegane, che qui saranno grandi come orsi. L’immagine lo
fece sorridere, e per poco, sentendo la voce, non cascò davvero in acqua come
un cretino:
«Beh, vedo che almeno ha conservato il senso dell’umorismo.»
***
***
Riuscì a raggiungere casa e a buttarsi a letto senza svegliare Laura. Chiuse gli
occhi, e contro ogni previsione cadde pressoché all’istante in un sonno di
piombo.
Si trovò a fissare il soffitto prima che la radio intonasse la sua versione
rock della sveglia, e completò in silenzio la sua routine mattutina ascoltando il
leggero russare di Laura. Diede un saluto silenzioso a moglie e bambini e uscì
in strada.
***
***
Qualche tempo dopo, davanti a un aperitivo con il suo amico e nuovo capo
Franco, Luca stava pensando a come la vita fosse cambiata in un lampo e lo
avesse catapultato in un mondo diverso e impegnativo, ma più tranquillo e
libero di quanto non fosse mai stato.
Vide con la coda dell’occhio che una figura snella aveva appena occupato
il tavolino accanto al loro. Riconobbe con un misto di stupore e di gratitudine la
donna che lo aveva avvicinato al fiume quella sera di, quand’era?, cent’anni
prima?
«Allora ci si rivede. Come va, Luca?»
«Oddio, non potrebbe andar meglio, sul serio! Franco, posso presentarti
la mia amica…»
«Maria», lo salvò in tempo la donna. Quella sera non le aveva neppure
chiesto come si chiamava.
«Maria, lei è di Motta come il nostro Luca, qua? Perché lo sa che a Motta
hanno una Maria che fa i miracoli? È famosa in tutto il mondo!»
«Sì, credo di averne sentito parlare» rispose la donna, abbassando lo
sguardo con un sorriso, il suo sorriso.
Luca era stravolto. La testa gli pareva piena di cotone, non riusciva quasi
a sentire nulla tutt’intorno. Capiva che Franco stava parlando con la donna che
si chiamava Maria, capiva che lei rideva di qualcosa che lui le aveva detto, ma
uno schermo nero gli oscurò la vista e il resto.
***
«Oh ben, gèra ora che te tornasse in qua; te me ghè fato ciapàr un
colpo!»
«Franco, cosa succede? Dove siamo?»
Luca era steso su un divanetto del bar, le gambe sollevate e un tovagliolo
bagnato sulla fronte. Franco e il barista erano in piedi al suo fianco,
visibilmente sollevati di saperlo vivo.
«Ti xe deventà bianco che ti parevi trasparente, ti xe ‘ndà par tera come
un pero, e te ghémo messo destirà. Adesso va mejo, vèro?» gli chiese Franco.
«Benissimo, grazie. Forse è stato un calo di pressione, niente di grave.»
«La to amiga te saùda. La gà dito che ghe tocava ‘ndar via, e de farte
tanti auguri.»
«Maria? Se n’è andata?», chiese Luca. Ma lo sapeva già, come sapeva
che non l’avrebbe mai più rivista.
***
La donna chiamata Maria, intanto, stava in piedi sotto al porticato all’altro lato
della piazza. Come vide Luca rialzarsi, sorrise tra sé e, voltate le spalle, sparì
tra la gente.
Paolo Sanchetti
luglio 2010