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“Bush ? Spazzatura umana”, parola di Diego Armando Maradona (come dargli torto?,
ndr).
Centinaia di persone, tra cui molti tifosi del Boca Juniors, hanno salutato ieri sera a
Buenos Aires El Pibe de Oro insieme alla comitiva di manifestanti che lo ha accompagnato
sul treno 'Alba', che giungerà questa mattina a Mar del Plata, sede del IV Vertice delle
Americhe dove si svolgerà una marcia di protesta contro la visita del presidente americano
George W. Bush.
L'ex Pibe de Oro, che sarà filmato nel suo viaggio dal regista
Emir Kusturica, ha anche chiarito che lui e i manifestanti del
treno vanno a Mar del Plata “per la dignità. Non andiamo
per la violenza - ha spiegato - ma per difendere quello che è
nostro”. Maradona ha indossato una maglietta con la scritta “Stop-Bush”.
La grande marcia contro il presidente USA si svolgerà nelle vie di Mar del Plata e si
concluderà nello stadio della città, dove parlerà anche il presidente “anti-Bush” del Vertice
delle Americhe, il venezuelano Hugo Chavez. Entusiasta del viaggio anche Emir
Kusturica: “È il treno della rivoluzione. Questo è un sogno molto romantico per me”, ha
detto prima della partenza.
Nel primo semestre del 2006 erano stati nove i giornalisti assassinati nel continente
sudamericano. In appena tre mesi - luglio, agosto e settembre - ne sono stati assassinati
altri 13.
Il caso più grave, proveniente dalla remota Guyana, è passato completamente sotto
silenzio. L'8 d'agosto, una banda armata ha assaltato la sede del quotidiano “Kaieteur
News” facendo cinque morti: Richard Stewart, Chetram Pergaud, Elion Wegman, Mark
Mikoo, y Shazim Mohamed. In Colombia, due giornalisti radiofonici che lavoravano su
denunce di corruzione, sono morti a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro: Milton Fabián
Sánchez, 37 anni, è stato ammazzato a colpi di pistola il 9 agosto a Yumbo; Atilano Pérez
Barrios è caduto in condizioni simili a Cartagena. In condizioni simili, in Venezuela, Jesús
Flores Rojas, è stato ammazzato a pistolettate il 23 agosto. Un altro giornalista
radiofonico, Eduardo Maaz, guatemalteco, è stato ucciso con cinque colpi di pistola il 10
settembre. In questo caso, unico, il suo presunto assassino, di nome Orlando Vázquez, è
stato arrestato 48 ore dopo il crimine. Il 28 di agosto, nel Salvador, Douglas Hernández,
26 anni, mentre stava investigando a El Congo - è la versione ufficiale - è stato vittima del
fuoco incrociato tra poliziotti e presunti delinquenti.
Nella Repubblica Dominicana, negli ultimi tre mesi sono stati assassinati due giornalisti:
Domingo Disla Florentino, avvocato e giornalista, assassinato a Boca Chica, e Facundo
Lavatta, corrispondente di Radio Comercial. Mercedes Castillo, Presidente dell'Ordine dei
Giornalisti dominicano, ha denunciato l'insostenibile livello di aggressioni, minacce di
morte, sequestri lampo, interrogatori abusivi che subiscono i giornalisti del paese.
Ma gli omicidi non completano le statistiche. Ci sono anche i sequestri, i ferimenti, gli
attentati, per non parlare delle minacce personali e alle famiglie che rendono arduo il
lavoro informativo. Il caso più clamoroso si è avuto il 12 agosto a San Paolo, in Brasile,
dove l'organizzazione criminale “Primer Comando de la Capital” (PCC) ha sequestrato un
giornalista ed un tecnico della TV Globo. Il secondo è stato liberato con un video sulle
condizioni di vita nelle carceri brasiliane che la televisione ha mostrato per ottenere la
liberazione del primo.
Infine, nell'elenco dei fatti più clamorosi, il primo settembre a Merida, una granada è
esplosa nella sede del periodico “Esto” e il 22 agosto raffiche di mitra sono state sparate
contro la sede della Radio Universidad di Oaxaca in Messico. Tutto questo è il risultato di
una guerra civile che da più di 40 anni sta insaguinando il sudamerica: la guerra della
coca.
Il 23 settembre scorso, aveva fatto sensazione la
performance del presidente boliviano Evo Morales
che ha sventagliato una foglia di coca davanti
l'assemblea delle Nazioni Unite a New York. Abito
colorato, viso angelico, ad un certo punto del suo
discorso Evo Morales ha estratto dalla tasca
un'innocente foglia di coca e l'ha fatta vedere a tutti i
presenti. E a tutti ha ricordato l’uso ancestrale che in
Bolivia si fa della pianta della coca: dai medicinali alle
tisane ma serve anche a far svanire la fame e la
fatica da lavoro alle tremende altitudini degli altipiani
boliviani. Morales, che non si è certo risparmiato di offrire informazioni relative alla pianta,
ha soprattutto chiesto di non criminalizzare la foglia di coca solo perché il suo uso è stato
snaturato dai narcotrafficanti.
Il numero uno boliviano, che prima di darsi alla politica è stato un leader sindacale dei
contadini “cocaleros”, che coltivano la coca, ha chiesto come mai la foglia di coca che si
usa per produrre Coca Cola sia legale, mentre quella boliviana utilizzata per produrre
medicinali sia considerata fuorilegge. Morales ha poi spiegato la differenza tra coca e
cocaina: “la foglia di coca è di colore verde, il colore rappresentativo della cultura andina e
della speranza delle popolazioni indigene. Non è bianca come la cocaina”. E poi ha
continuato: “Vogliamo dire anche che le università statunitensi in collaborazione con
quelle europee hanno studiato a fondo gli effetti della foglia di coca e hanno confermato
che non danneggia assolutamente la salute umana”.
Riguardo al narcotraffico: “Siamo coscienti del fatto che il narcotraffico sia un problema.
Abbiamo, però, cercato di risolverlo”. La Bolivia contende a Haiti il triste record di paese
più povero del continente americano e Morales ne è consapevole. “Siamo un paese con
problemi economici ma abbiamo lottato contro il narcotraffico mettendo dei freni alla
produzione”.
Riguardo alla politica estera USA. “Gli Stati Uniti hanno detto che non accettano
l'esistenza delle coltivazioni della pianta della coca e che ci possono mettere in condizione
di modificare le nostre regole. Ecco io dico all'amministrazione statunitense che non
cambieremo le nostre regole, e non accettiamo minacce da nessuno. Crediamo che la
loro forma di lotta al narcotraffico sia uno strumento per colonizzare nuovamente i paesi
andini. Questo non lo accettiamo e non lo permetteremo”.
Riguardo la guerra alla droga: “La guerra alla droga non può essere uno strumento o un
pretesto con il quale gli USA sottomettono i Paesi della regione andina. Come hanno fatto
con la guerra preventiva che hanno inventato per intervenire in alcuni paesi del Medio
Oriente. Quindi chiedo all'ONU che vengano firmati accordi che aiutino a combattere il
narcotraffico e non che questo sia scusa o pretesto per dominarci o per umiliarci”.
A dare manforte al suo collega boliviano, è salito in
cattedra qualche giorno dopo il presidente
venezuelano Hugo Chavez, che ha definito Bush “il
diavolo in persona”: “Il diavolo è stato qui ieri - ha
detto il carismatico presidente di Caracas, facendosi
il segno della croce - ha parlato da questo stesso
podio dal quale vi parlo io e c'è ancora puzza di
zolfo. Ieri, il presidente degli Stati Uniti, la persona
che io chiamo il diavolo, è venuto qui e ha parlato
come se fosse il padrone del mondo”.
New information emerges about motives behind the "Kaieteur News" killings 22-08-
2006
Bolivian president Evo Morales brandished a coca leaf on the floor of the United
Nations 22-09-2006
La guerra di Bush dopo l'11 settembre 2001 è stata chiamata in più modi: lotta del Bene
contro il Male, difesa della libertà, battaglia per la democrazia nel mondo. La verità è che,
dietro i proclami solenni, si nasconde un progetto di dominio planetario. È questa la tesi di
fondo che Noam Chomsky espone in “Egemonia o Sopravvivenza”.
Chi, come Chomsky, ha esaminato tutte le guerre americane degli ultimi quarant'anni, sa
benissimo che l'attuale orientamento dei “neocon” non è la risposta ad un attacco inatteso,
ma la prosecuzione della strategia inaugurata da Reagan e
perfezionata dai falchi della Casa Bianca capeggiati da
Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz.
LA RIVOLTA DI OAXACA
All'inizio del secolo XX, il governo di Porfirio Díaz affrontò l'ennesima ribellione degli
yaquis deportando gli indios arrestati in Yucatan, Jalisco, Tlaxcala e Veracruz. All'inizio del
secolo XXI, l'amministrazione di Vicente Fox risponde all'insurrezione di Oaxaca inviando i
141 arrestati nella prigione di San José del Rincón, in Nayarit.
“La tolleranza è finita”, ha detto il generale Ardelio Vargas, capo di Stato Maggiore della
Polizia Federale Preventiva (PFP), uno degli eroi, insieme all'ammiraglio Wilfrido Robledo,
della repressione di Atenco (la località dove a maggio la polizia fu lasciata libera di
stuprare oltre 40 donne). I suoi cani sono per strada. Lanciano lacrimogeni, picchiano con
brutale violenza, fermano senza mandati di cattura, invadono abitazioni senza
autorizzazione, distruggono proprietà, occupano ospedali e cliniche, impediscono il libero
transito delle persone, offendono sessualmente le donne. Gli arrestati vengono sono
maltrattati, torturati e rinchiusi con i detenuti comuni. Non si permette che i loro difensori e
familiari li visitino. Poi sono deportati.
Edifici storici come la sede del Tribunale Superiore di Giustizia e del Teatro Juárez sono
stati incendiati, così come la Segreteria del Turismo, la delegazione della Segreteria delle
Relazioni con l'Estero, i quattro tribunali giudicanti del Potere Giudiziario della
Federazione, una filiale bancaria di Banamex, una casa privata e l'Associazione degli
Hotel e dei Motel. Il conflitto era iniziato il 22 maggio scorso, con uno sciopero di 70.000
maestri per rivendicazioni salariali, ma la situazione si è radicalizzata il 14 giugno, quando
la polizia statale ha cercato di far sgombrare con la forza gli educatori.
La violenta repressione a Oaxaca è la spilla d'oro con la quale Vicente Fox chiude il suo
sessennio, ma è anche il biglietto da visita di Felipe Calderón. Senza ammetterlo, hanno
decretato nei fatti uno Stato d'assedio. Nello stato, le garanzie individuali sono sparite.
Tutti i gruppi, APPO (Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca), FAP (Frente Amplio
Progresista) e gli altri movimenti popolari, hanno deciso di unire le proprie forze
convergendo verso la formazione di un unico fronte di resistenza, con l'obiettivo unico di
insistere nel chiedere la definitiva uscita di scena del governatore Ulises Ruiz e di riavere
liberi tutti i detenuti irregolari.
Oggi la APPO non ha media dai quali parlare. L'ultima persecuzione è proprio rivolta ai
difensori dei diritti umani vittime di sistematiche campagne di discredito personale e di
diffamazione (difendono i terroristi).Joel Aquino, studioso e rappresentante delle comunità
indigene, ha analizzato i metodi repressivi utilizzati da Ruiz, e dall'appena insediato Felipe
Calderón. Nota che sono gli stessi utilizzati dalle dittature militari e qui in Messico dalla
dittatura di Porfirio Díaz (1876-1910): allontanamento dai luoghi di residenza, isolamento,
trappole che rendono difficile la difesa. Il punto più caldo è la questione di Nayarit, la
località tra gli stati di Jalisco e Sinaloa, a 16 ore di autobus da Oaxaca dove 140 prigionieri
politici sono stati trasferiti immediatamente dopo l’arresto tra il 25 e il 28 ottobre.
In un muro della città di Oaxaca c'èra questa scritta: “Il fascismo è repressione delle lotte
dei popoli e delle loro organizzazioni, controllo dei mezzi di comunicazione, favorire i
grandi monopoli sfruttatori, discriminazione razziale, sessuale, uso permanente della
menzogna e odio, molto odio”. L'hanno affogata sotto un'alluvione, litri di pittura, quella
scritta.
MORTE A OAXACA
È il messaggio che ha portato il presidente boliviano Evo Morales arrivato all'Avana per
partecipare alle celebrazioni per l'ottantesimo compleanno di Fidel Castro e per
l'anniversario della Rivoluzione. «Adesso non c'è più un solo Paese e un solo comandante
che fanno fronte all'impero. Adesso alcuni altri paesi, alcuni altri popoli e alcuni altri
presidenti si sono aggregati alla lotta antimperialista», ha detto Morales. «Dall'America
Latina, dobbiamo estenderci all'Africa e, perché no, formare anche una grande alleanza
con Paesi del Medio Oriente per farla finita con l'imperialismo americano», ha aggiunto,
qualificando Castro come «fratello maggiore, amico, saggio, compagno instancabile nella
lotta antimperialista». «Gli ho portato in regalo, come promesso - ha concluso - uno
sformato a base di coca».
Il giorno della sua trionfale investitura, Morales aveva proclamato: «Il mio sarà un governo
di uguaglianza, giustizia sociale, equità e pace, che metterà fine al neoliberalismo
sfruttatore». Poi, rivolgendosi al suo popolo, ha promesso: «Finirà l'odio e il disprezzo a
cui, come indios, siamo sempre stati sottoposti». L'annunciato programma di
nazionalizzazione degli idrocarburi non è completo, ma i contratti stipulati con le
multinazionali – anche con quelle che in futuro probabilmente saranno espropriate – è un
passo avanti fondamentale. Ora le aziende non potranno più permettersi il lusso di fissare
un prezzo per il gas boliviano inferiore ai parametri regionali come quando vendevano alle
loro succursali all'estero. I primi introiti derivanti dalla nazionalizzazione saranno utilizzati
nella lotta contro l'analfabetismo: Morales ha già istituito un buono di 25 dollari, chiamato
“Juancito Pinto”, a favore di più di un milione di bambini che frequentano le scuole
primarie. Per questo programma, Cuba ha ricevuto il premio Unesco (Organizzazione
delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura) per l'alfabetizzazione.
JACHA URU
DICHIARAZIONE DI COCHABAMBA
I presidenti sudamericani si sono proposti un nuovo modello d'unità, con una sua identità
peculiare, pluralista, rispettosa di diversità e differenze, nonché delle diverse concezioni
politiche e ideologiche. La terza edizione di questi incontri si svolgerà l'anno prossimo
nella città colombiana di Cartagena de Indias. Mentre Caracas sarà sede di un Summit
energetico, e Río de Janeiro svolgerà la funzione di segreteria del gruppo di nazioni. Il
Summit dei presidenti del Sudamerica si è svolto simultaneamente al Forum Sociale
Mondiale per l'Integrazione dei Popoli,
che ha visto la partecipazione di più di
4.000 delegati provenienti da tutte le
parti del mondo, a nome di più di 300
organizzazioni. Il presidente boliviano
Evo Morales ha ribadito che questa
città e il suo paese saranno il centro e
lo scenario storico della creazione
della lungamente attesa Unione
Sudamericana. Il capo di stato Boliviano ha detto che l’unità continentale è vicina come
non lo è mai stata prima e ciò si deve fondamentalmente alla lotta dei movimenti sociali.
La chiusura del Forum Sociale e del Vertice dei presidenti sudamericani ha visto un
grande concerto con canti e balli tradizionali, che ha suggellato l'unità di migliaia di uomini
e donne che, dalla città di Cochabamba, hanno scommesso su una nuova America Latina.
L'ALTRA CAMPAGNA
Passamontagna, giacca militare e l'immancabile pipa: questi gli elementi attraverso i quali
il mondo ha imparato a riconoscere il Subcomandante Marcos, guida carismatica del
movimento rivoluzionario in Chiapas, icona mediatica e manifesto vivente di tutte le
minoranze oppresse del pianeta. Secondo i dati in possesso del governo messicano,
Marcos si chiamerebbe in realtà Rafael Sebastian Guillén Vincente, proverrebbe da una
famiglia di commercianti di Tampico, avrebbe studiato filosofia e insegnato Tecniche della
Comunicazione prima di scomparire nella clandestinità.
Marcos nel frattempo é diventato un eroe di dimensioni planetarie. Così come il volto di
Che Guevara era stato capace di catalizzare l'attenzione di milioni di uomini e donne di
ogni età e latitudine, l'identità negata di Marcos lo assurge a simbolo di una lotta
universale: «Marcos è gay a San Francisco, un nero in Sud Africa, un asiatico in Europa,
un chicano a San Isidro, un americano in Spagna, un palestinese in Israele, un indigeno
per le strade di San Cristóbal, un ebreo in Germania, una femminista in un partito politico,
un pacifista in Bosnia, una casalinga in un qualunque sabato sera in una zona qualunque
del Messico, uno studente in sciopero, un contadino senza terre, un editore underground,
un lavoratore disoccupato, un dottore senza pazienti e, certo, uno zapatista nel sud-est
del Messico».
Nel giugno 2005, l'EZLN, dopo un'importante assemblea durata diversi giorni, che ha
coinvolto tutti i popoli zapatisti, emette la Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona. In
base a questo documento, l'EZLN si impegna ad affiancare a tutte le sue attività
precedenti quella che verrà definita in un successivo comunicato del Subcomandante
Marcos l' “Altra Campagna”: l'EZLN ha deciso di uscire dai propri confini ed incontrare
qualunque gruppo (non importa se politico, sociale, collettivo, culturale, artistico, etc.) che
si dica di sinistra, che possa contribuire a salvare il paese dalla crisi. L'intenzione è di
creare un movimento unico di rivolta nazionale che possa andare a sostituire con proposte
dal basso l'attuale sistema elettorale. Questo viene infatti giudicato corrotto e
malfunzionante - e neanche gli esponenti del PRD, il Partito Rivoluzionario Democratico,
ovvero la sinistra messicana, sono esenti da queste critiche.
Ciò che l'EZLN maggiormente desidera è che i popoli indigeni escano finalmente da secoli
di povertà, oppressione e ignoranza, senza però perdere la loro cultura, le tradizioni, lo
stile di vita. Lotta perché venga rispettata l'autonomia dei loro territori, una sorta di
autogoverno che si sostituisce al governo dello stato del Chiapas, che degli indigeni non
tiene conto. In questo modo difendono anche concetti che il resto della società messicana
non ammette, come la proprietà comunitaria e il governo dal basso.
Enlace Zapatista
Nello stesso tempo, a Washington, Gordon Johndroe, uno dei portavoce del Consiglio di
Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, ha avvertito che nel caso Chavez concretizzasse
il suo proposito, «le imprese USA colpite dovranno essere compensate in modo rapido e
giusto». La CANTV è controllata dalla multinazionale USA Verizom con il 28,5% delle
azioni. Ne fanno parte anche la Telefonica spagnola, lo stesso governo venezuelano e i
suoi dipendenti. Il leader del Venezuela, apertamente, anti-americano, sta suscitando
scalpore e preoccupazione col suo progetto di Repubblica Socialista. L'opposizione ha
accusato Chavez, al potere dal 1999, di voler trasformare il quarto esportatore di petrolio
verso gli Stati Uniti in un'economia centralizzata sullo stile di Cuba. Chavez, che a
dicembre ha ottenuto il 63% delle preferenze, ha fornito ulteriori elementi per un parallelo
con Fidel Castro formando un partito unico per guidare la sua rivoluzione, ma insiste sul
fatto che tollererà sempre l'opposizione.
Secondo Lula: «Chavez sta superando i confini della democrazia, perderà l'appoggio dei
settori moderati della sinistra mondiale e finirà prigioniero delle correnti più estremiste. Il
suo piano di nazionalizzazione delle imprese ridurrà gli investimenti esteri, porterà
recessione a tutto il Sud America, bloccherà il processo di integrazione economica
continentale e rischia di isolare completamente il Venezuela nel mondo».
Nel frattempo, il nuovo presidente
dell'Ecuador, Rafael Correa, si è insediato
facendo appello all’Unione Latino-Americana,
alla presenza attiva ed entusiasta del collega
iraniano fondamentalista. Circondato e
confortato dai suoi compagni della nouvelle
vague di sinistra del Sud America, dal
boliviano Evo Morales al venezuelano Hugo
Chavez, Correa ha annunciato: “I nostri
Paesi si stanno liberando e muovono verso
un’integrazione continentale. Non
negozieremo più con nessuno la dignità della
patria, perché la fine dell'illusione neoliberale
significa anche e soprattutto questo: la patria non è più in vendita. Quello cui ci troviamo di
fronte non è semplicemente un'epoca di cambiamenti: è un cambiamento di epoca”.
L'Ecuador, che è pieno di debiti, darà il buon esempio rifiutando di pagarli. Correa ha
sostenuto che questo è un diritto, «perché non è giusto che il rimborso divori fondi di cui
c'è bisogno per la lotta alla povertà. Ci sono debiti che vanno rinegoziati e altri che
semplicemente non debbono essere pagati, ad esempio quelli illegittimi contratti dalle
dittature militari per acquistare armi». E ha aggiunto che un Paese europeo, la Norvegia,
annuncerà di aderire a questa cancellazione. Il neopresidente ha firmato subito un decreto
con il quale ha indetto, per il prossimo 18 marzo, un referendum in cui la popolazione
dovrà decidere se istituire un'Assemblea Costituente con pieni poteri per formulare una
nuova costituzione. Il neopresidente ha poi sottoscritto un altro decreto col quale ha
stabilito che nessun funzionario pubblico può avere uno stipendio superiore al suo,
autoridotto da 8.000 a 4.000 dollari al mese (il governo di Correa è composto di 17
ministri, tra i quali otto donne (una è india); tra gli uomini, per la prima volta, vi è anche un
afro-ecuadoregno).
Ahmadinejad ha concluso a Quito il suo viaggio latinoamericano iniziato con gli abbracci di
Caracas e culminato, almeno simbolicamente, con la presenza alla cerimonia di ritorno al
potere a Managua del leader sandinista Daniel Ortega. Ahmadinejad ha esaltato i «fraterni
legami» fra Iran e Nicaragua, tanto profondi che fino a ieri l’altro Teheran neppure aveva
una rappresentanza diplomatica a Managua. Ortega ha invocato un “nuovo cammino” per
lottare contro povertà e analfabetismo perché “il modello liberista non è riuscito a risolvere
i problemi della gente”, quando, dopo la cerimonia di investitura, insieme con Chavez e
Morales, si è trasferito nella piazza più grande di Managua, gremita da oltre 100.000
simpatizzanti, provenienti da tutto il Paese. Ortega ha
snocciolato alcune cifre: l'80% della popolazione è
povera, l'1,5% dei 5,4 milioni di abitanti fa la fame ed
il 35% sono analfabeti, mentre “quando io ho lasciato
il governo nel 1990 era solo il 12%”. Il leader del
Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSLN),
tornato al potere dopo 17 anni e tre elezioni perdute,
ha comunque assicurato che terrà conto delle
proposte di banchieri ed imprenditori "poiché solo
l'unità può portare alla vittoria" e che manterrà
l'accordo di libero commercio con gli USA, “pur se
dovrà essere rivisto, perché svantaggioso per il Nicaragua”.
Rafael Correa, giovane economista eterodosso eletto alla presidenza in Ecuador col 57%
dei voti, sta con Hugo Chàvez. «C'è una differenza fondamentale tra noi, socialisti del
secolo XXI e i vecchi socialisti: il socialismo tradizionale aveva dello sviluppo un'idea non
diversa da quella capitalista, essenzialmente modernizzazione. Per noi, lo sviluppo non
vuol dire modernizzarsi a tutti i costi, sviluppo significa vivere bene. E vivere bene deve
voler dire anche vivere in armonia con la natura». A quanto pare, Correa sta con gli
ecologisti, gli attivisti dello sviluppo sostenibile, che in Ecuador come in Venezuela
contestano lo sfruttamento indiscriminato delle risorse energetiche anche quando serve a
finanziare governi che promettono la rivoluzione. Per il resto, le posizioni rispecchiano i
comandamenti del socialismo rispolverati dal presidente venezuelano: «Supremazia delle
esigenze del lavoro sui bisogni di accumulazione del capitale e necessità dell'azione dello
Stato».
Il presidente, in sei mesi, qualcosa ha fatto: non ha firmato il trattato di libero commercio
con gli Stati Uniti, ha predisposto il rientro nell'OPEC (l'organizzazione dei paesi produttori
di greggio) e si è messo d'accordo con Chàvez per raffinare il greggio negli impianti
dell'impresa statale del petrolio venezuelano. L'Ecuador, nonostante sia il quinto
produttore del Sud America con 530mila barili al giorno, spende circa 1250 milioni di euro
all'anno per comprare carburante perché i suoi impianti non sono in grado di lavorare più
della metà del crudo estratto nel paese.
Mediante un decreto presidenziale, il 24 aprile 2006, Evo Morales ha ordinato a due fondi
pensione privati amministrati dalla svizzera Zurich Financial Services e dalla spagnola
BBVA di trasferire allo stato boliviano la loro partecipazione azionaria in Entel (l'ex azienda
telefonica statale). Questi due fondi detenevano il 47% delle azioni. La maggioranza
azionaria è invece in mano a Telecom Italia, mentre un 3% è in mano ad investitori privati.
Con un altro decreto, Morales ha poi dichiarato annullata la certificazione degli
investimenti di Telecom Italia, che certificava che l'impresa italiana aveva compiuto le
proprie promesse d'investimento nella telefonica. Il governo boliviano accusa Telecom
Italia d'aver investito negli ultimi dieci anni, invece dei promessi 608 milioni di dollari, una
cifra pari solo a 466 milioni di dollari, e di non aver pagato 25 milioni di dollari di tasse.
Vista anche la pressione dei mezzi di comunicazione boliviani, la Telecom ha così deciso
d'abbandonare il negoziato con il governo di La Paz e lo ha invitato a realizzarlo in Brasile
o negli Stati Uniti ottenendo un netto rifiuto. Secondo il ministro boliviano alla Presidenza,
Juan Ramon Quintana, i colloqui devono essere riavviati “per una questione di
trasparenza” in Bolivia. Della commissione che si sta occupando del caso fanno parte il
ministro Quintana, il ministro dell'Industria, Luis Arce, e quello delle opere pubbliche,
Jerjes Mercado.
Petrocaribe raggruppa 17 Paesi dei Carabi e del Centroamerica ed è stata fondata nel
2005 a La Cruz, in Venezuela, con l’obiettivo di fornire petrolio ai “fratelli” dei Carabi, ad
iniziare da Cuba che è riuscita così ad allentare l'embargo USA, e che, in cambio, fornisce
al Venezuela insegnanti e medici. I Paesi membri di Petrocaribe sono autorizzati a
beneficiare di una dilazione di 25 anni per pagare il 40% dei loro acquisti di greggio
venezuelano, con un tasso di interesse dell'1%, un affarone con il petrolio ormai a cento
dollari al barile.
Agli altri 16 Paesi del Petrocaribe non è rimasto altro che elogiare «la generosità del
Venezuela», sottolineando che l'organizzazione è diventata «un meccanismo strategico
suscettibile di garantire la sicurezza energetica regionale». Una strategia rivoluzionaria,
che, invece dei guerriglieri guevaristi, invia all'estero gas e petrolio a basso costo.
Petrocaribe - Wikipedia
Non sono però tutte rose e fiori. La chiusura di RCTV, il canale televisivo più vecchio del
paese, considerato dal presidente Hugo Chavez - indicato dal Times come una delle 100
persone più influenti del mondo nel 2005 e nel 2006 - troppo critico nei confronti della sua
politica populista, cosiddetta anti-imperialista, in teoria basata su un socialismo
democratico, ha mobilitato il fronte dell'opposizione e del dissenso nei confronti dello stato
autoritario e illiberale che Chavez avrebbe instaurato
in Venezuela.
Chávez silences critical TV station - and robs the people of their soaps
Dopo aver incassato la sconfitta referendaria del 2 dicembre scorso, Chavez ha abbassato
i toni, rallentando il programma per un “Socialismo del XXI Secolo” e parlando di “società
interclassista”. L'ultima trasmissione fiume, “Alò presidente”, si è incentrata sulla necessità
di “mettere un freno” alla rivoluzione bolivariana. Da ora in poi in Venezuela ci dovrà
“essere posto per tutti: gli imprenditori, le classi medie, i movimenti sociali”.
Nel frattempo, il movimento universitario che si oppone al regime di Chavez, è stato
ricevuto a Bruxelles dal Presidente del Parlamento Europeo Hans Gert Pottering, il quale
ha loro espresso solidarietà e appoggio. Mentre il ministro dell’Interno Pedro Carreno ha
fatto una figuraccia mentre era impegnato in una conferenza stampa sulla salvezza del
proletariato: è stato interrotto da un giornalista che ha indicato le sue scarpe Gucci e la
cravatta Louis Vuitton, chiedendo se non era strano criticare il capitalismo indossandone
le griffes più famose. Anche il principale alleato di Chavez, Evo Morales, amatissimo in
Italia (dove ha ricevuto il premio Pio Manzù), passa i suoi guai: un terzo della Bolivia è
fuori controllo e minaccia una guerra civile. La nuova costituzione è stata approvata solo
dalla maggioranza e il 48% dei boliviani è a favore di un suo impeachment.
Sembra che la sconfitta elettorale subita nel referendum che proponeva le modifiche alla
costituzione venezuelana abbia fatto davvero male al Presidente Hugo Chavez che ha
deciso per un rimpasto di governo. Il cambio è stato drastico: tredici ministri, su un totale di
ventiquattro. E lo ha fatto iniziando proprio da quello che è considerato uno dei principali
responsabili della debacle elettorale: il vice presidente Jorge Rodriguez. Al posto di
Rodriguez, che andrà a sedersi sulla poltrona di responsabile del Partito Socialista Unito
del Venezuela, ci sarà Ramon Carrizales, che lascerà il dicastero delle Infrastrutture per
occuparsi pienamente della gestione del governo. Una delle maggiori novità riguarda
Andres Izarra già a capo di Telesur, che diventerà ministro della Comunicazione e
dell'Informazione. Motivo del rimpasto? Dare un nuovo impulso al processo rivoluzionario
venezuelano.
L'intervista va poi avanti con punte di colore. “Mi piace il principe Carlo, ora ha Camilla, la
nuova ragazza. Ma non è bella (come Diana), vero?”, ironizza Chavez. Che, alla domanda
di Naomi se se la sente di posare a torso nudo come Vladimir Putin, risponde “perché
no?”, e invita la top model a 'palpare' i suoi muscoli. Poi elogia il suo amico Fidel Castro
definendolo “il leader mondiale più elegante: la sua uniforme è sempre impeccabile”.
Chavez però alza la voce quando si tratta di difendere il suo paese da chi sostiene che in
Venezuela non c'è rispetto per i diritti umani: ''Stiamo avviando una rivoluzione pacifica –
afferma -, “non abbiamo un solo prigioniero politico, non abbiamo ucciso nessuno,
abbiamo proibito il carcere per ragioni politiche. La presunzione di innocenza vale per tutti
e qui si rispettano i diritti umani. Non credo – conclude - che esista alcun paese al mondo
con maggiore libertà di espressione' del Venezuela”.
“La differenza con l'Europa che salta agli occhi - ha spiegato in una conferenza tenuta
all'Università San Andrès della capitale boliviana - non è la differenza, pur rilevante, di
ricchezza. È che qui la fiducia sorge anche nei punti di maggiore sofferenza”. Etichettare
come “socialista” l'esperienza di Morales e del Movimiento al Socialismo, il partito di
governo, “è improprio”, secondo Bertinotti, perché “il socialismo ha sempre a che fare con
l'obiettivo del superamento del capitalismo, che qui non c'è. Non bastano le
nazionalizzazioni o le politiche di intervento pubblico nell'economia, quelle stanno nella
ricetta di Keynes, e del resto le case popolari le ha fatte Fanfani...”.
In ogni angolo del paese è evidente quanto il Messico sia cambiato da un anno a questa
parte, da quando è salito alla presidenza Felipe Calderon: militari, membri della polizia e
della PFP (Policia Federal Preventiva) sfoggiano le loro divise e i loro mitra e transitano ad
ogni ora, a piedi, a cavallo o sui carri armati, in tutte le città del paese. Radio e televisioni
pubblicizzano a gran voce le operazioni anti-narco e le catture di piccole e grandi figure di
spicco dei cartelli della droga da parte del governo. Mentre le repressioni proseguono nello
Stato di Oaxaca, che continua a chiedere invano l'uscita dell'autoritario governatore della
città, Ulises Ruiz. Del resto, la “mano dura” era stata una delle principali promesse della
campagna elettorale del leader del PAN (Partido de Acción Nacional), che ha assunto la
presidenza in un Congresso circondato da membri dell'esercito per proteggersi dalle
migliaia di oppositori che gridavano alla “frode elettorale”.
A premiare i metodi forti e le scelte economiche di uno dei migliori discepoli delle ricette di
FMI e Banca Mondiale, ci pensa il vicino del nord, Gorge Bush, che ha proposto un “piano
di cooperazione senza precedenti” tra i due paesi per festeggiare l'arrivo del 2008: il “Plan
México”: un'operazione da 500 milioni di dollari per la lotta al narcotraffico. Un “Plan
Colombia” in versione messicana. Il finanziamento è parte di un pacchetto da un miliardo e
mezzo da spalmare in due anni, che fa parte a sua volta del piano di 46 miliardi di dollari
supplementari da destinare alle guerre in Iraq e Afghanistan, richiesti da Bush al
Congresso degli USA. Misure imprescindibili per la sicurezza del proprio paese.
Dopo la nascita della Banca del Sud, la Casa Bianca stringe a sé i propri fedeli. Il Plan
México è volto all’acquisto di armamenti, elicotteri da combattimento, sistemi di
comunicazione e tecnologia avanzata per operazioni di spionaggio e per combattere i
grandi cartelli del narcotraffico, che controllano intere zone del paese, soprattutto alla
frontiera con gli USA. A questo si aggiunge l'addestramento di militari e poliziotti messicani
da parte di contractors privati statunitensi. Il Piano, diffuso in Messico col nome “Iniziativa
Mérida”, prevede anche interventi volti a rafforzare la lotta al terrorismo, la sicurezza
pubblica, la ricerca di giustizia, l'amministrazione delle due frontiere, la tratta di persone e
il rafforzamento delle istituzioni. Sarà uno strumento utile, quindi, per gli USA, al
rafforzamento di quel muro costruito alla frontiera sud contro l'invasione dei migranti
illegali che arrivano da tutto il centro america. E servirà a Calderon per controllare
ulteriormente i movimenti sociali, oltre al narcotraffico.
Oaxaca, non lontano dal Chiapas della selva Lacandona, degli zapatisti del
subcomandante Marcos, ne condivide le problematiche: povertà, emarginazione delle
popolazioni indigene, presenza ostinata di formazioni guerrigliere. E la pesantezza della
repressione operata dall'esercito e dalle forze speciali della polizia federale. Proprio il
tentativo di collegare le proteste sociali condotte dall’Assemblea Popolare dei Popoli di
Oaxaca (APPO) e del movimento dei maestri con la guerriglia e il terrorismo è stata la
linea del governatore Ruiz, avvallata dal governo federale del presidente Calderòn, per
giustificare una violenta azione repressiva che è costata decine di morti, desaparecidos,
arresti abusivi, torture e tutta una sequela di violenze che hanno fatto sprofondare Oaxaca
e il Messico in un clima che non si sentiva più dai tempi della “guerra sporca” degli anni
'70 e '80.
Amnesty afferma che “in questo stato (Oaxaca) c'è un serio problema di pubblica
sicurezza, gravi violazioni ai diritti umani, aggressioni e abusi della polizia contro la
popolazione”. E ha stigmatizzato l'atteggiamento delle autorità: “Né il Governatore né i
suoi funzionari sono stati capaci di dirci cosa sono disposti a fare per risolvere questi
problemi”.
Così, il Messico del presidente Calderòn, uscito vincitore per pochi voti, e con pesanti
accuse di brogli, tanto che la sua vittoria non è stata riconosciuta dal suo rivale Manuel
Lopez Obrador, nelle elezioni del luglio 2006, che vorrebbe essere uno dei paesi guida
della nuova America Latina, si rivela essere uno stato dove, secondo Amnesty, “in molti
casi vi è collusione attiva di elementi dello stato, che sono i violatori dei diritti umani; e le
vittime sono gruppi vulnerabili: poveri, indigeni, donne”.
Man in the mask returns to change world with new coalition and his own sexy novel
12-05-2007
Aló Presidente
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