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Verità e legge.

‘Linguaggi di parole’ e ‘storia della


natura’ in Bruno, Galilei, Spinoza
Elias Canetti
(1905-1994)
“ La verità è un mare di fili d’erba che si piegano al
vento; vuole essere sentita come un movimento,
assorbita come un respiro. È una roccia solo per chi
non la sente e non la respira; quegli vi sbatterà
sanguinosamente la testa.

E. Canetti, La provincia dell’uomo.
Quaderni di appunti (1942-1972), Milano, Adelphi, 1978
Nola, 1548 Pisa, 1564 Amsterdam, 1632
Roma, 1600 Arcetri, 1642 L’Aja, 1677
Nola, 1548
Roma, 1600
Il conflitto di Bruno
con l’ortodossia
Napoli 1565- 1576:
gli anni della formazione
a San Domenico Maggiore
A San Domenico Maggiore
due ‘incidenti’ disciplinari
Primo ‘incidente’:
1566-67
Le prime infrazioni disciplinari contestate a Bruno risalgono al periodo
del noviziato, quando il maestro dei novizi Eugenio Gagliardo «fece
una scrittura» «per mettermi terrore», poi stracciata, perché il filosofo
si era liberato delle immagini di santa Caterina da Siena e
sant’Antonino, e aveva consigliato a un novizio che leggeva un libro di
preghiera da rosario (Le sette allegrezze della Madonna) di passare alla
lettura delle Vite de santi Padri di Domenico Cavalca – testo assai più
appassionante, che narra le imprese dei santi come atti eroici.
“ L’anno del 1576 […], trovandomi in Roma nel convento
della Minerva, sotto l’obedienza de maestro Sisto de Luca,
procuratore dell’ordine, dove era andato a presentarmi,


perché a Napoli ero stato processato due volte.

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 157
(Primo costituto di Bruno, Venezia, 26 maggio 1592)
Prima per haver dato via certe figure et imagine de’ santi et
“ retenuto un crucifisso solo, essendo per questo imputato de
sprezzar le imagine de’ santi; et anco per haver detto a un
novitio che leggeva la Historia delle sette allegrezze in versi,
che cosa voleva far de quel libro, che lo gettasse via, et
leggesse più presto qualche altro libro, come è la Vita de’
santi Padri. ”
L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 157
(Primo costituto di Bruno, Venezia, 26 maggio 1592)
“ Il qual processo fu rinovato, nel tempo che io andai a Roma,
con altri articuli ch’io non so; per il che uscì dalla religione
et, deposto l’abito, andai a Noli […], dove mi trattenni


quattro o cinque mesi a insegnar la grammatica a putti.

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 157
(Primo costituto di Bruno, Venezia, 26 maggio 1592)
Rotterdam, 1466
Basilea, 1536
Erasmo: il modello di vita cristiana

Erasmo sostiene che, per giungere a Dio, la via delle pratiche


esteriori di devozione  andare in chiesa, recitare i salmi,
digiunare  non è adeguata se non corrisponde a una
convinzione profonda e intima. Credere che le cerimonie
religiose da sole bastino a salvarci significa «rimanere nella
carne della legge, confidare in cose che non valgono nulla e che
in realtà Dio detesta».
Erasmo: il modello di vita cristiana

Esempi classici di devozione cerimoniale degenerati nel formalismo


e nella vuota apparenza sono, per Erasmo, il culto dei santi e delle
reliquie. È meglio imitare la vita e le virtù dei santi.
E piuttosto che venerare un frammento della croce di Cristo, è
preferibile ascoltare la sua parola: «Come niente è più simile al
Padre del Figlio, il Verbo del Padre che promana dall'intimità del
suo cuore, così niente è più simile a Cristo della sua parola».
“ [Bruno] Si vantava che da putto cominciò a essere
nemico de la fede catholica, e che non poteva vedere
l’imagine de’ santi, ma che vedea bene quella di
Christo, e poi se ne cominciò a distor anco da quella.

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni,
Roma 1993, p. 251
“ Prima ch’io andasse a Roma l’anno 1576 […], il Provinciale
fece processo contro di me sopra alcuni articuli, ch’io non so
realmente sopra quali articuli, né de che in particular; se
non che me fu detto che si faceva processo contra di me di


heresia, nel quale si trattava di questa cosa del novitiato et
altro.

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 191
(Primo costituto di Bruno, Venezia, 26 maggio 1592)
“ Per il che dubitando di non esser messo preggione, me
partì da Napoli et andai a Roma [...].


L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 191
(Primo costituto di Bruno, Venezia, 26 maggio 1592)
“ Et fuggì di Roma, perché [...] hebbi lettere da Napoli et fui
avisato che, doppo la partita mia da Napoli, erano stati trovati
certi libri delle opere di san Grisostomo et di san Hieronimo
con li scholii di Erasmo scancellati, delli quali mi servivo


occultamente; et li gettai nel necessario quando mi partì da
Napoli, acciò non si trovassero, perché erano libri suspesi per
rispetto de detti scholii […].

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 191
(Primo costituto di Bruno, Venezia, 26 maggio 1592)
A seguito di questo secondo
procedimento Bruno si reca dunque a
Roma (non sappiamo se già con
l’intenzione di fuggire, o perché
convocato dal Procuratore
dell’ordine Sisto Fabbri da Lucca).
È la prima tappa della sua lunga
peregrinatio europea.
I caratteri dell’antitrinitarismo di Bruno

In età moderna i dubbi, le riflessioni critiche o il completo rifiuto


del dogma trinitario tornano ad acquisire una rilevanza cruciale
nel dibattito teologico e nell’eversione dell’ortodossia innescata
dalla Riforma, ponendosi alla confluenza di tradizioni culturali
diverse – dal platonismo umanistico alla filologia critica di
Valla e di Erasmo, alle suggestioni potentemente monoteiste
provenienti da ambienti marrani o giudaizzanti.
Il tema della ‘sproporzione’
tra infinito e finito
I caratteri dell’antitrinitarismo di Bruno

Bruno rielabora anche gli spunti antitrinitari tradizionali in forme


assai personali e originali. Si confronta con problemi teologici,
ma punta a individuare una propria via filosofica. E riformula le
eresie dei primi secoli del cristianesimo (soprattutto quella di
Ario), ponendole alle radici di quello che per lui resterà sempre
un nodo teorico fondamentale: la questione dell’infinito,
dell’ente, di Dio, e della distanza incolmabile che corre fra questa
dimensione e quella del finito, dell’accidente, dell’uomo.
“ Nella divinità intendo tutti li attributi esser una medesima cosa, insieme
con theologi et più grandi filosofi; capisco tre attributi, potentia, sapientia
et bontà, overamente mente, intelletto et amore, col quale le cose hanno
prima l’essere [per] raggion della mente, doppoi l’ordinato essere et
distinto per raggione dell’intelletto, terzo la concordia et simitria per
raggione dell’amore. ”
L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 168
(Terzo costituto di Bruno, Venezia, 2 giugno 1592)
“ Questo intendo essere in tutto et sopra tutto: come nessuna cosa è
senza participatione dell’essere et l’essere non è senza l’essentia,
come nessuna cosa è bella senza la beltà presente, cusì dalla divina
presentia niuna cosa può esser esenta; et in questo modo per via di
raggione et non per via di substantiale verità intendo distintione
nella divinità. ”
L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 168
(Terzo costituto di Bruno, Venezia, 2 giugno 1592)
“ Quanto poi a quel che appartiene alla fede, non parlando filosoficamente, per
venir all’individuo circa le divine persone, quella sapienza et quel figlio della
mente, chiamato […] da’ theologi Verbo, il quale se deve credere haver preso
carne humana, io stando nelli termini della filosofia non l’ho inteso, ma
dubitato et con inconstante fede tenuto; non già che mi riccordi de haverne


mostrato segno in scritto né in ditto, eccetto, sì come nelle altre cose,
indirettamente alcuno ne potesse raccogliere, come da ingegno et professione che
riguarda a quello che si può provar per raggion et conchiudere per lume
naturale.

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 168-169
(Terzo costituto di Bruno, Venezia, 2 giugno 1592)
“ Così quanto al Spirito divino per una terza persona, non ho possuto capire
secondo il modo che si deve credere; ma secondo il modo pittagorico,
conforme a quel modo che mostra Salomone, ho inteso come anima
dell’universo, overo assistente all’universo, iuxta illud dictum Sapientiae


Salomonis: «Spiritus Domini replevit orbem terrarum, et hoc quod
continet omnia», che tutto conforme pare alla dottrina […] esplicata da
Vergilio nel sesto dell’Eneida.

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 169
(Terzo costituto di Bruno, Venezia, 2 giugno 1592)
“ In principio lo spirito dentro anima il cielo, le terre,
le limpide pianure, il globo lucente della luna,
le stelle titanie e l'anima diffusa per le membra
smuove tutta la mole e s’unisce al grande corpo.
Di qui la specie umana ed animale, le vite degli uccelli,
e i mostri che il mare offre sotto l’onda marmorea. ”
VIRGILIO, Eneide,
l. VI, vv. 725-730
“ Per maggior dechiaratione di quanto ho detto questa mattina, io dico d’haver
tenuto et creduto che vi sia un Dio distinto in Padre in Verbo et in Amore, che è il
Spirito divino, et sono tutti questi tre un Dio in essentia; ma non ho possuto


capir, et ho dubitato, che queste tre possino sortir nome di persone; poiché non
mi pareva che questo nome di persona convenisse alla divinità […].

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 172-173
(Quarto costituto di Bruno, Venezia, 2 giugno 1592)

Interrogatus: Havendo voi dubitato dell’incarnatione
del Verbo, che opinione havete havuto di Christo?

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 173
(Quarto costituto di Bruno, Venezia, 2 giugno 1592)
“ Respondit: Io ho stimato che la divinità del Verbo assistesse a
quell’humanità de Christo individualmente, et non ho possuto
capire che fosse una unione ch’havesse similitudine di anima et
corpo, ma una assistentia tale, per la quale […] si potesse dire
di questo huomo che fosse Dio et di questa divinità che fosse
homo. ”
L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 173
(Quarto costituto di Bruno, Venezia, 2 giugno 1592)
“ Et la causa è stata, perché tra la substantia infinita et divina, et finita
et humana, non è proportione alcuna come è tra l’anima et il corpo,
o qual si voglian due altre cose le quali possono fare uno substente.
Et per questo credo che sant’Agustino ancora temesse di proferir
quel nome “persona” in questo caso, che hora non mi riccordo in
che loco sant’Agustino lo dica. Sì che per conclusione, quanto al
dubio dell’incarnatione, credo haver vacillato nel modo ineffabile di
quella […].

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 173
(Quarto costituto di Bruno, Venezia, 2 giugno 1592)
“ Interrogatus se esso constituto in effetto ha tenuto, tiene et crede la
Trinità, Padre, Figliuolo et Spirito Santo in una essentia, ma distinti
però personalmente, secondo che viene insegnato et creduto dalla
catholica Chiesa.

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 169-171
(Terzo costituto di Bruno, Venezia, 2 giugno 1592)
“ Respondit: Parlando christianamente et secondo la theologia et che ogni
fidel christiano et catholico deve creder, ho in effetto dubitato secondo il
nome di persona del Figliuolo et del Spirito santo, non intendendo queste
due persone distinte dal Padre se non nella maniera che ho detto de sopra
parlando filosoficamente, et assignando l’intelletto del Padre per il


Figliuolo et l’amore per il Spirito santo, senza conoscer questo nome
persona, che appresso sant’Agustino è dechiarato nome non antico, ma
novo et di suo tempo; questa opinione l’ho tenuta da disdotto anni della
mia età sino adesso […].

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 169-171
(Terzo costituto di Bruno, Venezia, 2 giugno 1592)
“ Quanto alla seconda persona io dico che realmente ho tenuto essere in
essentia una con la prima, et cusì la terza; perché, essendo indistinte in
essentia, non possono patire inequalità, perché tutti li attributi che


convengono al Padre convengono anco al Figliuol et Spirito santo; solo ho
dubitato come questa seconda persona se sia incarnata […] et habbi patito.

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 169-171
(Terzo costituto di Bruno, Venezia, 2 giugno 1592)
“ Et se ho detto qualche cosa di questa seconda persona, ho detto per
refferir l’opinione d’altri, come è de Ario et Sabellio et altri seguaci; et
dirò quello che devo haver detto et che habbi potuto dar scandalo, come
suspico che sia notato dal primo processo fatto in Napoli […]: cioè che,
dechiarando l’opinione d’Ario, mostrava esser manco perniciosa di quello
che era stimata et intesa volgarmente. ”
L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 169-171
(Terzo costituto di Bruno, Venezia, 2 giugno 1592)
«Dechiarando l’opinione d’Ario»
Presbitero di Alessandria, vissuto fra il 256 e il 336, Ario è protagonista – insieme ai
suoi principali oppositori, il vescovo della città egiziana Alessandro e il suo successore
Atanasio – di uno dei massimi conflitti teologici e dottrinali non solo delle Chiese
orientali di lingua greca, ma dell’intero cristianesimo.
La controversia ariana – destinata a contribuire in modo decisivo alla formulazione
definitiva del dogma trinitario – ha inizio, con ogni probabilità, negli anni
immediatamente precedenti il 320, si snoda attraverso sinodi e opposti pronunciamenti
di membri dell’episcopato africano e orientale, scomuniche, intensa attività di
propaganda, per poi concludersi, sul piano dottrinale, con la condanna  sancita dal
Concilio di Nicea del 325.
«Dechiarando l’opinione d’Ario»
Il Concilio elabora una formula dogmatica nella quale si affermano l’eterna
generazione del Figlio dal Padre e la sua piena partecipazione e consustanzialità alla
natura del Padre. Ario è così costretto all’esilio, mentre si ordina la distruzione delle
sue opere (di cui restano solo alcuni frammenti) Ma, in una battaglia teologico-politica
destinata a continuare, appassionata e violenta, per buona parte del secolo, l’arianesimo
dimostrerà una lunga capacità di resistenza, tanto da essere presto riabilitato da
Costantino, per poi spostare decisamente  il suo asse verso il nord Europa, trovando
seguaci presso i popoli germanici che cominciano a forzare i confini dell’Impero
romano, fra i quali continua a mantenere forza e consistenza almeno fino al VII secolo.
«Dechiarando l’opinione d’Ario»
Sul piano dottrinale, l’eresia di Ario parte da una riflessione sulla natura
della relazione fra Dio Padre e Figlio di Dio, e sullo statuto ontologico del
Figlio. Una questione molto attuale e dibattuta fra III e IV secolo, in un
arcipelago di posizioni (e di eresie) che vede i teologi al fondo divisi tra un
monoteismo rigoroso, che mantiene l’unicità di natura e di persona del Dio
veterotestamentario e impone di vedere nel Figlio solo un nome o un 
‘modo’ di essere e di manifestarsi di questo unico Dio, e un’impostazione
subordinazionista, che insiste piuttosto sull’alterità tra Padre e Figlio,
istituendo di fatto una gradualità gerarchica tra le persone trinitarie.
«Dechiarando l’opinione d’Ario»
La dottrina di Ario nasce in polemica dichiarata con le idee del suo
conterraneo (entrambi erano di origine libica) Sabellio: attivo all’inizio del
III secolo, Sabellio pensa Dio come una monade di per sé invisibile, che
prende nomi diversi in base ai tre aspetti o volti nei quali si manifesta, in un
movimento di espansione e contrazione che articola e scandisce fasi distinte
delle sue funzioni divine: come Padre, egli dà origine al mondo e dona agli
uomini la Legge; come Figlio, redime il genere umano; come Spirito,
santifica gli uomini, trasmettendo loro la grazia.
«Dechiarando l’opinione d’Ario»
Diversamente, la premessa fondamentale dell’arianesimo è l’affermazione
dell’unità indivisibile e dell’assoluta trascendenza di Dio, principio ingenerato
di tutta la realtà: «in quanto monade e principio di tutto, Dio esiste prima di
tutto». «Sappiamo che esiste un unico Dio – scrive Ario –, solo ingenerato,
solo eterno, solo senza principio, solo vero, solo che possiede l’immortalità,
solo sapiente, solo buono, solo potente, che giudica, regge e governa ogni
cosa, immutabile e inalterabile». È evidente come un Dio così concepito non
possa condividere né partecipare in alcun modo la sua sostanza, a meno di
perdere gli attributi fondamentali dell’indivisibilità e dell’immutabilità.
«Dechiarando l’opinione d’Ario»
Ogni cosa che si dà oltre e al di fuori del Padre è dunque creata, chiamata alla
vita dal nulla, e a lui subordinata. Ario e i suoi seguaci sostengono così che il
Figlio non possiede la stessa natura né aderisce alla stessa sostanza del Padre,
dal momento che non ne condivide l’eternità: «Il Figlio ha principio, mentre
Dio è senza principio». Egli è infatti il prodotto di un atto creatore del Padre,
volontario e posto fuori dal tempo, «prima dei tempi e dei secoli» (e nella
prima, e più radicale, formulazione della sua dottrina Ario scrive: «[Il Figlio]
prima di essere stato […] generato […], definito […], fondato […] non
esisteva»).
«Dechiarando l’opinione d’Ario»
Il Figlio è dunque la prima creatura del Padre e, insieme, colui che, per volere
del Padre, ha il compito di creare e amministrare il mondo naturale, per poi
redimerlo attraverso l’incarnazione. Una creatura superiore, perenne e perfetta,
imparagonabile agli altri enti naturali («genitura, ma non come una delle
geniture»), e tuttavia dissimile, «estraneo, altro e separato rispetto alla
sostanza di Dio» (oppure, nella formulazione più moderata dell’ultimo Ario,
«simile al Padre non per proprietà di natura, bensì per dono di grazia») e a lui
inferiore per natura, per autorità e per potenza: «in questo senso Dio è suo
principio. Infatti comanda su di lui, in quanto è il suo Dio ed esiste prima di
lui».
«Dechiarando l’opinione d’Ario»
Accostato al mondo delle creature, in definitiva un dio minore o tale solo in
senso figurato, il Figlio non «conosce il padre esattamente e perfettamente,
né lo può vedere perfettamente». E sebbene già nella lettera a Eusebio Ario
affermi che il Figlio è «inalterabile», non soggetto alla dimensione del
cambiamento, fin dalle prime battute della controversia egli sarà al contrario
accusato di considerarlo anche «mutevole e alterabile per natura, alla pari di
tutte le creature razionali».
“ Quello che devo haver detto et che habbi potuto dar scandalo […] è che,
dichiarando l’opinione d’Ario, mostrava esser manco perniciosa di quello
che era stimata et intesa volgarmente. Perché volgarmente è intesa, che
Ario habbi voluto dire che il Verbo sia prima creatura del Padre; et io
dichiaravo che Ario diceva che il Verbo non era creatore né creatura, ma


medio intra il creatore et la creatura, come il verbo è mezzo intra il
dicente et il detto, et però essere primogenito avanti tutte le creature […]
per il quale si rifferisce et ritorna ogni cosa all’ultimo fine, che è il Padre,
essagerandomi sopra questo.

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 171
(Terzo costituto di Bruno, Venezia, 2 giugno 1592)
«Dechiarando l’opinione d’Ario»
L’interpretazione corrente, «volgarmente intesa», individua, a parere di Bruno, il
tratto fondamentale e la ‘perniciosità’ dell’eresia ariana nell’inferiorità del Figlio-
Verbo rispetto al Padre – «creatura ed opera» di Dio e non Dio, figlio di Dio per
partecipazione e grazia, e non per consustanzialità.
Diversamente, Bruno propone una lettura che fa forza piuttosto sull’altro versante
della concezione ariana del Figlio quello, cioè, per cui il Verbo si colloca in posizione
intermedia fra Dio e il mondo della creazione, costituendosi come strumento di cui
Dio si serve per la produzione di tutti gli altri esseri: «medio», appunto, «intra il
creatore et la creatura, come il verbo è mezzo intra il dicente et il detto».
«Dechiarando l’opinione d’Ario»
Un’interpretazione del Verbo come «medio» che, se da un lato, conduce
direttamente alla dissoluzione del dogma trinitario, dall’altro lato illumina
un tratto costante della riflessione di Bruno: la sua idea di Dio come
pienezza che si compie nel molteplice e come molteplice e la conseguente
attenzione per le forme e i canali attraverso i quali egli si apre al mondo e si
manifesta in esso come principio di vita, traducendo la sua ricchezza
inesauribile proprio nella dimensione altra del molteplice e del differente. 
«Dechiarando l’opinione d’Ario»

Infatti, pur salvaguardando e ribadendo sempre l’assoluta trascendenza e


immutabilità del principio supremo, Bruno non perde mai di vista l’unità di
fondo che, nel continuo comunicarsi della vita, stringe insieme la fonte
infinita e le parti finite dell’essere – espressione di una «deità» «una» e
«absoluta in se stessa», eppure «multiforme et omniforme in tutte le cose».
“ […] quel dio, come absoluto, non ha che far con noi; ma per
quanto si comunica alli effetti della natura, ed è piú intimo a
quelli che la natura istessa; di maniera che se lui non è la natura
istessa, certo è la natura de la natura; ed è l'anima de l'anima del
mondo, se non è l'anima istessa. ”
G. BRUNO, Spaccio de la bestia trionfante,
Dialogo III, Parte II
«Dechiarando l’opinione d’Ario»

Per Bruno c’è un unico principio che si pone all’inizio, nel grado intermedio
come Verbo o Intelletto primo – «principio efficiente rispetto agli enti
esplicati» –, nella realtà esplicata e poi «all’ultimo fine»: e questo fine non è
altro che il ritorno a sé stesso di quel principio, di quell’origine, nel
ricondurre e comprendere tutti gli enti nella propria unità.
Orione Chirone
La denuncia all’Inquisizione e
i temi del processo
La prima
denuncia
(23 maggio 1593)

Io Zuane Mocenigo […] dinuntio a Vostra Paternità […] haver sentito dire a
Giordano Bruno nolano, alcune volte che ha ragionato meco in casa mia: che
è biastemia grande quella de’ cattolici il dire che il pane si transustantii in
carne; che lui è nemico della messa; che niuna religione gli piace; che Christo
fu un tristo et che, se faceva opere triste di sedur populi, poteva molto ben
predire di dover essere impicato; che non vi è distintione in Dio di persone, et
che questo sarebbe imperfetion in Dio; che il mondo è eterno, et che sono
infiniti mondi, et che Dio ne fa infiniti continuamente, perché dice che vuole
quanto che può.

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 143-144
(Denuncia di Giovanni Mocenigo all’Inquisitore di Venezia,
23 maggio 1592)

[…] che Christo faceva miracoli apparenti et che era un mago,
et così gl’appostoli, et che a lui daria l’animo di far tanto, et più
di loro; […] che non vi è punitione de’ peccati, et che le anime
create per opera della natura passano d’un animal in un altro; et
che come nascono gl’animali brutti di corrutione, così nascono
anco gl’huomini, quando doppo i diluvii tornano a nasser.
aaaaaaaaaaa ”
L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 143-144
(Denuncia di Giovanni Mocenigo all’Inquisitore di Venezia,
23 maggio 1592)
“ Ha mostrato dissegnar di voler farsi autore di nuova setta sotto nome
di nuova filosofia; ha detto […] che la nostra fede cattholica è piena
tutta di bestemie contra la maestà di Dio; […] che non habbiamo
prova che la nostra fede meriti con Dio; et che il non far ad altri
quello che non voressimo che fosse fatto a noi basta per ben vivere;
et che se n’aride di tutti gl’altri peccati; et che si meraviglia come
Dio supporti tante
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa.
heresie di cattolici. ”
L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 143-144
(Denuncia di Giovanni Mocenigo all’Inquisitore di Venezia,
23 maggio 1592)
“ Dice di voler attender all’arte divinatoria, et che si
vuole far correr dietro tutto il mondo; che […] tutti li
dottori non hanno saputo niente a par di lui, et che
chiariria tutti i primi theologhi del mondo, che non
sapriano rispondere.
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa.
aaaaaaaaaaaaaaa ”
L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 143-144
(Denuncia di Giovanni Mocenigo all’Inquisitore di Venezia,
23 maggio 1592)
La seconda
denuncia
(25 maggio 1593)
La terza
denuncia
(29 maggio 1593)
“ Poiché la Paternità Vostra molto reverenda m’ha imposto ch’io vada
molto ben pensando a tutto quello che io havessi udito da Giordano
Bruno, che facesse contro la nostra fede catholica, mi son riccordato
d’havergli sentito dire […] che il proceder che usa adesso la Chiesa non è
quello che usavano gl’apostoli, perché quelli con le predicationi et con
gl’esempi di buona vita convertivano la gente, ma che hora chi non vuol
esser catholico, bisogna che provi il castigo et la pena, perché si usa la
forza et non l’amore. aaaaaaaaaaaaaaa aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa.

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 143-144
(Terza denuncia di Giovanni Mocenigo all’Inquisitore di Venezia,
29 maggio 1592)

Che questo mondo non poteva durar così, perché non v’era se non ignoranza,
et niuna religione che fosse buona; che la cattolica gli piaceva ben più de
l’altre, ma che questa ancora havea bisogno di gran regole; et che non stava
bene così, ma che presto presto il mondo haverebbe veduto una riforma
generale di se stesso, perché era impossibile che durassero tante corruttele; et
che sperava gran cose su ’l re di Navarra, et che però voleva afrettarsi a
mettere in luce le sue opere et farsi credito per questa via perché, quando
fosse stato tempo, voleva esser capitano; et che non sarebbe stato sempre
povero, perché haveria goduto i thesori degl’altri.

aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
. a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 143-144
(Terza denuncia di Giovanni Mocenigo all’Inquisitore di Venezia,
29 maggio 1592)
“ Et dicendogli io che tacesse, et che di gratia si espedisse di
quello che egli havea da far per me, perché essendo io catholico
et lui pegio che luterano, non lo potevo sopportare, mi dise:
«Oh, vederete quello che ne avanciarete del vostro credere!». Et
ridendo mi diceva: «Aspettate il giuditio, quando tutti
resussiteranno, che vederete all’hora il premio del vostro
merito!». aaaaaaaaaaaaaaaa

. L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 143-144
(Terza denuncia di Giovanni Mocenigo all’Inquisitore di Venezia,
29 maggio 1592)
“ Et in altro proposito mi disse che, sicome riputava per altro
saviissima questa Republica, così come non poteva fare che
non la dannasse a lasciar così richi i fratti; et che doveriano fare
come hanno fatto in Francia, che le entrate dei monasterii se le
godano i nobili, et li fratti mangiano un pocco di prodo; et che
cossì sta bene, perché quelli che entrono frati il dì d’oggi sono
tutti asini, a’ quali il lasciar goder tanto bene è grandissimo ”
peccato..
L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 143-144
(Terza denuncia di Giovanni Mocenigo all’Inquisitore di Venezia,
29 maggio 1592)
“ Oltre di questo, mi disse che gli piacevano assai le
donne, et che non havea arivato ancora al numero di
quelle de Salamone; et che la Chiesa faceva un gran
peccato nel far peccato quello con che si serve così
bene alla natura, et che lui lo havea per grandissimo
merito. aaaaaaaaaaaaaaaa

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 143-144
(Terza denuncia di Giovanni Mocenigo all’Inquisitore di Venezia,
29 maggio 1592)
“ Ivi si ristorarà quella legge naturale, per la quale è lecito a
ciascun maschio di aver tante moglie quante ne può nutrire ed
impregnare; perché è cosa superflua ed ingiusta, ed a fatto
contrario alla regola naturale, che in una già impregnata e
gravida donna, o in altri soggetti peggiori […] che per tema di
vituperio provocano l'aborso, vegna ad esser sparso
quell'omifico seme che potrebbe suscitar eroi e colmar le vacue

sedie de l'empireo.

G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante,


Dialogo I, Parte I
“ Quel ch’ha fatto il breviario, o vero ordinato, è un
brutto cane, becco fottuto, svergognato; […] il
breviario è come un leuto scordato, e in esso molte
cose profane e fuori di proposito si contengono, e però
non è degno d’esser letto da huomini da bene, ma
dovrebbe esser abbruggiato.

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 280-281
(Testimonianza del compagno di cella Celestino da Verona)
“ Ha proferito in diverse occasioni, mentre è stato prigione,
biasteme molto horrende e più di venticinque volte ha fatto con
i pugni fichi al Cielo, dicendo: «Piglia, can tristo, becco
fottuto», et alle volte la notte, subito ch’era svegliato,
biastemava horrendissimamente, chiamando Christo con le
soddette parole, et alle volte soggiongeva che Dio era un
traditore, perché non governava bene il mondo, presenti li ”
prigioni. aaaaaaaaaaa

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 280-283
(Testimonianza del compagno di cella Francesco Graziano)
“ Se sarà forzato tornar frate di san Domenico, vuol mandar in
aria il monasterio dove si trovarà, e ciò fatto subito vuol tornare
in Alemagna o in Inghilterra tra heretici, per più
commodamente vivere a suo modo et ivi piantare le sue nuove
et infinite heresie.

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 293
(Testimonianza del compagno di cella Celestino da Verona)
“ Diceva che […] se fosse stato sforzato a tornar nel monasterio,
per un pezzo havria fatto il chiotto, ma poi havria abbruggiato il
monasterio e tornato in Inghilterra; e queste cose le diceva fuori


di proposito, da sé, et alle volte di rabbia.

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 293-294
(Testimonianza del compagno di cella Francesco Graziano)
“ Non ho inteso, se non che voleva supplicar il Papa, o la
Signoria, di poter stare con l’habito secolare; e quando fosse
stato sforzato a tornare nella religione, non voleva star


sottoposto né al generale, né al priore, se non a questa Signoria.

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 293
(Testimonianza del compagno di cella Giulio da Salò)
“ Mi disse anco in proposito del non saper di questi tempi, che,
adesso che fiorisse la maggior ignoranza che habbi havuto mai
il mondo, si gloriano alcuni di haver la maggior cognitione che
sia mai stata, perché dicono di saper quel che non intendono,


che è che Dio sia uno et trino, et che queste sono impossibilità,
ignoranze et bestemie grandissime contra la maestà di Dio.

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 158
(Terza denuncia di Giovanni Mocenigo)
“ Due volte ragionando meco disse che non vi era Trinità in Dio,
e ch’era una grande ignoranza e biastema dire che Dio fosse
Trino et uno, […] perché in Dio non v’era queste tre persone, e


che era una pazzia a dirlo.

L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, p. 253
(Testimonianza di G. Mocenigo nella fase ripetitiva)
La strategia difensiva del processo:
«parlar filosoficamente»
e «parlar secondo la Theologia»
Sono temi su cui Bruno tornerà più volte negli interrogatori,
soprattutto veneziani – contrapponendo il «parlar filosoficamente» e
il «parlar secondo la Theologia», le posizioni acquisite e sostenute
«per via di raggione» da quelle professate «per via di substantiale
verità» –, per chiarire la sua interpretazione degli attributi di Dio
(potenza, sapienza, bontà) «nelli termini della filosofia», cioè non
come articolazione e distinzione personale della sostanza divina, ma
come modalità della sua manifestazione.
Lo spazio della dissimulazione
“ Gloria, Decoro, Dignità, Onore et altri compagni de la lor corte,
che per ordinario versano ne li campi della Simplicità, Verità et
altri simili […] talvolta per forza di Necessitade [versano] in
quello de la Dissimulazione et altri simili, che per accidente
possono esser ricetto de virtudi.

G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante,
Epistola esplicatoria
“ La Dissimulazione […] occolta, e finge di non haver
quel ch’have, e mostra posseder meno di quel che si
trova.

G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante,
Dialogo II
“ Questa pedissequa de la Veritade non deve lungi peregrinare
dalla sua regina, benché talvolta la dea Necessitade la costringa
di declinare verso la Dissimulazione: a fine che non venga
inculcata la Simplicità o Veritade, o per evitar altro
inconveniente.

G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante,
Dialogo II
“ [Della Dissimulazione] talvolta sogliono servirsi anco
gli dèi: perché talora per fuggir invidia, biasmo et
oltraggio, con gli vestimenti di costei la Prudenza suole
occultar la Veritade.

G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante,
Dialogo II
“ [la studiosa Dissimulazione] a cui Giove fa lecito che
talvolta si presenti in cielo, e non già come Dea, ma
come tal volta ancella della Prudenza, e scudo della
Veritade.

G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante,
Dialogo II
La strategia difensiva del processo:
il ricorso alla dissimulazione

Bruno, con lucido realismo, individua nella


dissimulazione la forza che può garantire al sapiente, al
filosofo, una straordinaria libertà di movimento,
consentendogli di inserirsi con efficacia all’interno di
delicati equilibri culturali, ma anche sociali, politici e
religiosi.
T. ACCETTO,
Della dissimulazione onesta,
1641

Definizione della
dissimulazione: «Dar riposo al
vero, per dimostrarlo a tempo».
Scrittura, persecuzione, dissimulazione
Secondo Leo Strauss, nella storia,
la «scrittura tra le righe» di molti
filosofi è un effetto della
soppressione della libertà di
«Reading between parola verso il pensiero eterodosso
the lines» e la ricerca della verità.
Il sigillo di Spinoza
Le fasi del processo a Bruno
“ […] Essendo stato visto e considerato il processo contra di te formato et le
confessioni delli tuoi errori et heresie con pertinacia et ostinatione, benché
tu neghi essere tali, et tutte le altre cose da vedersi et considerarsi […],
dicemo, pronuntiamo, sententiamo et dichiariamo te, fra Giordano Bruno
predetto, essere heretico impenitente, pertinace [et ostinato], et perciò
essere incorso in tutte le censure ecclesiastiche et pene [dalli sacri]
Canoni, leggi et constitutioni […] imposte. ”
L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 341-343
(Sentenza del processo, nella copia destinata
al governatore di Roma)
“ Et come tale te degradiamo verbalmente et dechiariamo dover
esser degradato, sì come ordiniamo et comandiamo che sii
attualmente degradato da tutti gl’ordini ecclesiastici maggiori et
minori nelli quali sei constituito […]; et dover essere scacciato,


sì come ti scacciamo, dal foro nostro ecclesiastico e dalla nostra
santa et immaculata Chiesa, della cui misericordia ti sei reso
indegno.

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni,
Roma 1993, pp. 341-343
(Sentenza del processo, nella copia destinata al governatore di Roma)
“ Et dover essere rilasciato alla Corte secolare, sì come ti
rilasciamo alla Corte di voi monsignor Governatore di Roma
qui presente, per punirti delle debite pene, pregandolo però
efficacemente che voglia mitigare il rigore delle leggi circa la


pena della tua persona, che sia senza pericolo di morte o
mutilatione di membro.

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni,
Roma 1993, pp. 341-343
(Sentenza del processo, nella copia destinata al governatore di Roma)

Di più, condanniamo, riprobamo et prohibemo tutti i tuoi libri
et scritti come heretici et erronei e continenti molte heresie et
errori, ordinando che tutti quelli che sin’hora si son havuti, et
per l’avenire verranno in mano del Santo Offitio siano
publicamente guasti et abbrugiati nella piazza di san Pietro,
avanti le scale, et come tali che siano posti nell’Indice de’ libri
prohibiti, sì come ordiniamo che si facci. ”
L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,
a cura di D. Quaglioni,
Roma 1993, pp. 341-343
(Sentenza del processo, nella copia destinata al governatore di Roma)
“ Et così dicemo, pronuntiamo, sententiamo, dechiaramo,
degradiamo, commandiamo et ordiniamo, scacciamo et
rilasciamo et preghiamo in questo et in ogni altro meglior modo


et forma che di ragione potemo et dovemo.

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno,


a cura di D. Quaglioni,
Roma 1993, pp. 341-343
(8 febbraio 1600: Sentenza del processo,
nella copia destinata al governatore di Roma)
“ [Rubrica marginale] Giustitia di un eretico impenitente bruciato
vivo.aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
aaaaaaa
A hore 2 di notte fu intimato alla Compagnia che la mattina si dovea far
giustitia di un inpeniente; et però alle 6 hore di notte radunati li
confortatori e capellano in Sant’Orsola, et andati alla carcere di Torre di
Nona, entrati nella nostra capella e fatte le solite orazioni, ci fu
consegnato l’infrascritto a morte condennato, cioè:

Dal «Giornale» dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato
(Roma, 17 febbraio 1600)

Giordano del quondam Giovanni Bruni frate apostata da Nola
di Regno, eretico impenitente. Il quale esortato da’ nostri
fratelli con ogni carità, e fatti chiamare due Padri di san
Domenico, due del Giesù, due della Chiesa Nuova e uno di san
Girolamo, i quali con ogni affetto et con molta dottrina
mostrandoli l’error suo, finalmente stette sempre nella sua
maladetta ostinatione, aggirandosi il cervello e l’intelletto con
mille errori e vanità.

Dal «Giornale» dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato
(Roma, 17 febbraio 1600)
“ E tanto perseverò nella sua ostinatione, che da’ ministri di
giustitia fu condotto in Campo di Fiori, e quivi spogliato nudo e
legato a un palo fu brusciato vivo, aconpagniato sempre dalla
nostra Compagnia cantando le letanie, e li confortatori sino a
l’ultimo punto confortandolo a lasciar la sua ostinatione, con la
quale finalmente finì la sua misera et infelice vita. ”
Dal «Giornale» dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato
(Roma, 17 febbraio 1600)
“ Di Roma, li 19 febraro 1600 […]. aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
Giovedì mattina in Campo di Fiore fu abbruggiato vivo quello scelerato
frate domenichino da Nola, di che si scrisse con le passate: heretico
ostinatissimo, et havendo di suo capriccio formati diversi dogmi contra
nostra fede, et in particolare contro la Santissima Vergine et Santi, volse
ostinatamente morir in quelli lo scelerato; et diceva che moriva martire et
volentieri, et che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in
paradiso. Ma hora egli se ne avede se diceva la verità.

Avviso di Roma
(Roma, 19 febbraio 1600)
MICHELE DI SIVO E ORIETTA
VERDI,
Bruno e Celestino da Verona: le
immagini del rogo nelle carte
criminali dell’Archivio di Stato di
Roma
«Bruniana & Campanelliana»,
Vol. 18, n. 2 (2012), pp. 519-527
Kaspar Schoppe,
1576-1649

Lettera a Konrad
Rittershausen sulla
morte di Bruno
(17 febbraio 1600)
[Bruno ha sostenuto]
«che solo gli Ebrei
hanno avuto origine da
Adamo ed Eva, mentre
tutti gli altri popoli da
quei due progenitori
che Dio aveva creato il
giorno precedente»
Allorché la Terra generò gli esseri animati,

“ assegnò a tre popoli tre patriarchi: Ennoc,


Leviathan e Adamo, al contrario di quanto
prevalentemente sostenevano i Giudei, secondo
i quali una sacrosanta generazione aveva avuto
origine da un unico patriarca; attraverso


altrettanti individui (dicono tutti) Sem, Cam e
Japet, la generazione umana venne rinnovata
dal progenitore Noè (dopo che il mondo fu
sommerso dalle acque).

G. Bruno, De monade,
Capitolo IV
“ L’efficiente è il padre, gli elementi sono i semi, il cielo è lo
spazio, il seno della madre di tutte le cose.
Innumerevoli sono le generazioni, ovunque appaiono i corpi
dei mondi, le Terre, i Soli e le orbite; ovunque puoi vedere


che c’è addensamento di materia nella massa corporea dei
mondi che l’etere abbraccia, offrendo ovunque lo stesso volto.

G. Bruno, De immenso,
Libro VII, Cap. 18
“ Quando, in estate, cadono dall’aria gocce di pioggia sulla Terra
infuocata […], dalla polvere non cotta nasce repentinamente la
rana e uguaglia il numero delle gocce, tanto che tu potresti
credere, guardando al suolo, che tante rane siano cadute dal
cielo; così nell’immenso spazio ed etere che tutto comprendono,
c’è una potenza grazie alla quale i mondi si riproducono per il
grande vuoto, poiché da ogni parte è la vita e da ogni parte si
manifesta l’atto dell’anima.

G. Bruno, De immenso,
Libro VII, Cap. 18

Tale è l’origine del serpente, del pesce, del topo, della
rana gracidante, tale quella del cervo, della volpe,
dellorso, del leone, del mulo e dell’uomo.

G. Bruno, De immenso,
Libro VII, Cap. 18
“ Inoltre: se un caraclisma distruggesse ogni cosa, la natura genitrice
creerebbe ancora animali perfettui, senza bisogno dell’unione.
Multicolori sono le specie degli uomini: la nera stirpe degli Etiopi,
quella che genera la rossa America, quella abituata a vivere nell’acqua,
nascosta negli antri di Nettuno, i pigmei che trascorrono la vita in chiusi
gioghi, cittadini delle vene della Terra, custodi delle miniere e i Giganti
[…] non presentano origini simili e non si riconducono alle forze
generatrici di un unico progenitore di tutti gli uomini.

G. Bruno, De immenso,
Libro VII, Cap. 18
“ Qualsiasi isola potrà generare ogni cosa, ma non ogni cosa
generata può conservarsi ovunque; la vittoria permette la
conservazione di alcune specie in un luogo, quella di altre in


un altro. Ad ogni natura simile corrispondono forze simili; da
indole diversa scaturiscono vicende diverse.

G. Bruno, De immenso,
Libro VII, Cap. 18
“ Tutto ciò che vedi prodotto e conservato in vita nel nostro
mondo, solo stoltamente dirai che non è della medesima
specie di quello degli altri mondi, che non constano di una
mole minore, né di un volto, di un moto, di un’origine e
disposizione diversi; anzi lo stesso beneficio li rende luminosi
e la medesima natura li conserva, affinché non sia abitato solo
questo mondo e gli altri non siano dotati invano di questa ”
forma.

G. Bruno, De immenso,
Libro VII, Cap. 18

Così tante stelle godono di tanto grande corpo per
poter apparire nel loro splendore a questo mondo.

G. Bruno, De immenso,
Libro VII, Cap. 18
“ Ovunque è un’unica anima, un unico spirito del
mondo, tutto nel tutto ed in qualsiasi sua parte […],
anche in un piccolo mondo. In rapporto alla
condizione della presente materia e della idea
soprastante (se la qualità del luogo […] non lo
impedisce), questo mondo produce tutte le cose […].

G. Bruno, De immenso,
Libro VII, Cap. 18
“ Frutto di profezia e tradizione tramandata da qualche popolo è
la credenza secondo cui tutte le stirpi degli uomini si
riferiscano ad un unico progenitore o a tre, come apprendiamo
dalle testimonianze degli Ebrei e fermamente crediamo; di


esse, solamente il genere eletto, vale a dire la stirpe giudaica,
riferiscono ad un unico progenitore, mentre riferiscono gli
altri popoli a due altri progenitori, creati due giorni prima.

G. Bruno, De immenso,
Libro VII, Cap. 18
“ Nessuno rettamente riferirebbe la stirpe degli Etiopi al nostro
progenitore. Ogni terra, infatti, produce tutti i generi animali,
come è chiaro nelle isole inaccessibili; non sono mai esistiti,
infatti, un primo lupo, un primo leone, un primo bue da cui


siano stati generati tutti i leoni, tutti i lupi e tutti i buoi,
diffusisi successivamente nelle isole, ma da qualsiasi parte la
Terra ha dato origine ad ogni essere.

G. Bruno, De immenso,
Libro VII, Cap. 18
“ Accadde poi che alcuni rimasero in determinati luoghi, altri
sono scomparsi, come in Inghilterra i lupi, le volpi e gli orsi,
per la diffusione della coltivazione della terra, mentre in altre


isole sono scomparsi gli uomini, per la violenza di animali più
potenti e per la mancanza di nutrimento.

G. Bruno, De immenso,
Libro VII, Cap. 18
E negli infiniti
mondi?
Il conflitto di Galileo
con l’ortodossia
Nel marzo 1610 Galileo pubblica a
Venezia il Sidereus Nuncius, nel quale
annuncia le scoperte fatte con il
cannocchiale e le conseguenze
(copernicane) che ne derivano per la
filosofia naturale e per l’intera
concezione del mondo.
Galileo: i tentativi di conciliazione,
la condanna, l’abiura

Galileo, accusato da più parti di voler sovvertire, con i suoi


argomenti, la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, prova
a difendersi in una lettera indirizzata all’amico Benedetto Castelli il
21 dicembre 1613.
 
 
Galileo: i tentativi di conciliazione,
la condanna, l’abiura

Ma questo tentativo di conciliazione tra teologia ufficiale e


astronomia copernicana si rivela troppo debole, e nel 1615
Galileo viene denunciato all’Inquisizione romana dai
domenicani fiorentini per le affermazioni «sospette e temerarie»
contenute nella lettera a Castelli.
 
 
Galileo: i tentativi di conciliazione,
la condanna, l’abiura
Nel febbraio 1616 i teologi del S. Uffizio stendono l’atto di censura sulle affermazioni che
sostengono il moto della Terra intorno al Sole, e pochi giorni dopo Galileo viene convocato
e ammonito dal cardinal Bellarmino: dovrà, in futuro, «abbandonare completamente detta
opinione, non accoglierla, difenderla e insegnarla in alcun modo con parole e scritti».
Poco dopo viene pubblicato il decreto di condanna della Congregazione dell’Indice, con il
quale si proibiscono tutti i libri che sostengono la dottrina copernicana, a partire dallo stesso
De revolutionibus orbium coelestium (pubblicato nel 1543).
 
 
Galileo: i tentativi di conciliazione,
la condanna, l’abiura
Nel 1621 il cardinale Bellarmino muore e nel 1623 viene eletto come nuovo papa
(Urbano VIII) il cardinale Maffeo Barberini, che in più occasioni aveva manifestato
la sua stima per Galileo.
In questo nuovo clima di apparente maggiore tolleranza, Galileo si sente incoraggiato
a proseguire la sua opera in difesa del copernicanesimo; nel 1632 pubblica quindi il
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano.
 
 
Galileo: i tentativi di conciliazione,
la condanna, l’abiura
Il Dialogo viene pubblicato a febbraio, e già nel corso dell’estate la reazione ostile
contro le tesi di Galileo diventa così forte da suscitare una presa di posizione da parte
dello stesso Urbano VIII.
Consapevole della portata della sua opera, Galileo aveva cercato di mitigarne
l’impatto, alludendo, nel proemio e nelle pagine conclusive del libro, alla cosidetta
interpretazione ‘ipotetica’ del copernicanesimo.

 
 
Andreas Osiander,
Al lettore sulle
ipotesi
di questa opera
Osiander secondo
Bruno:
«un asino ignorante
e presuntuoso»
Galileo: i tentativi di conciliazione,
la condanna, l’abiura
Nel luglio 1632 l’Inquisitore di Firenze ordina di sospendere la diffusione
del Dialogo e di confiscarne tutte le copie esistenti.
Il testo viene inviato al S. Uffizio romano, e in ottobre viene intimato a
Galileo di recarsi a Roma e mettersi a disposizione del Commissario
dell’Inquisizione.

 
 
Galileo: i tentativi di conciliazione,
la condanna, l’abiura

La vicenda si conclude con una sentenza di condanna, emessa il 22


giugno 1633.
Nello stesso giorno Galileo è costretto a leggere un atto pubblico di
abiura.

 
 

Io Galileo, fìglio del quondam Vincenzo Galileo di Fiorenza, dell'età mia
d'anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di
voi Eminentissimi e Reverendissimi Cardinali, in tutta la Republica
Cristiana contro l'eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti
gl'occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro
che sempre ho creduto, credo adesso, e con l'aiuto di Dio crederò per
l'avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la Santa Cattolica e
Apostolica Chiesa. ”
Il testo dell’abiura di Galileo

Ma perché da questo S. Offizio, per aver io, dopo d'essermi stato con
precetto dall'istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi
lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si
muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non
potessi tenere, difendere ne insegnare in qualsivoglia modo, ne in voce ne
in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d'essermi notificato che detta
dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro
nel quale tratto l'istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta
efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato

giudicato veementemente

Il testo dell’abiura di Galileo


“ sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e
imobile e che la terra non sia centro e che si muova; pertanto volendo io levar
dalla mente delle Eminenze vostre e d'ogni fedel Cristiano questa veemente
sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non fìnta
abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e
qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per
l'avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali
si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia
sospetto d'eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all'Inquisitore o

Ordinario del luogo, dove mi trovarò.

Il testo dell’abiura di Galileo



Giuro anco e prometto d'adempire e osservare intieramente tutte le
penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Offizio imposte; e
contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio
non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri
canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti
imposte e promulgate.  
Così Dio m'aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie
mani.
 

Il testo dell’abiura di Galileo
“ Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono
obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho
sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in
parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.
Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.

Il testo dell’abiura di Galileo
La copia dell’atto di abiura
destinata a Galileo
(BNCF, Ms. Gal. 13, c. 8v)

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