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STORIA DELLA FILOSOFIA

1) CONFLITTO CON L'AUTORITA ECCLESIASTICA

BRUNO (Nola 1548-Roma 1600)


Napoli 1565- 1576: gli anni della formazione a San Domenico Maggiore
2 INCIDENTI DISCIPLINARI: 1- lettera di richiamo del maestro dei novizi 1566/67

2- inchiesta ufficiale del Padre Provinciale per sospetto di eresia

PRIMO INCIDENTE:
Le prime infrazioni disciplinari contestate a Bruno risalgono al periodo del noviziato, quando il maestro dei
novizi Eugenio Gagliardo «fece una scrittura» «per mettermi terrore», poi stracciata, perché il filosofo si era
liberato delle immagini di santa Caterina da Siena e sant’Antonino, e aveva consigliato a un novizio che
leggeva un libro di preghiera da rosario (Le sette allegrezze della Madonna) di passare alla lettura delle Vite
de santi Padri di Domenico Cavalca – testo assai più appassionante, che narra le imprese dei santi come atti
eroici.
Il giovane Bruno mostrava inoltre di sprezzare le immagini dei santi, tenendo solamente un crocefisso. Dava
dunque segni di religiosità erasmiana.

ERASMO DA ROTTERDAM (Rotterdam 1466-Basilea 1536)

MODELLO DI VITA CRISTIANA


Erasmo sostiene che, per giungere a Dio, la via delle pratiche esteriori di devozione - andare in chiesa,
recitare i salmi, digiunare - non è adeguata se non corrisponde a una convinzione profonda e intima.
Credere che le cerimonie religiose da sole bastino a salvarci significa «rimanere nella carne della legge,
confidare in cose che non valgono nulla e che in realtà Dio detesta».
Esempi classici di devozione cerimoniale degenerati nel formalismo e nella vuota apparenza sono, per
Erasmo, il culto dei santi e delle reliquie. È meglio imitare la vita e le virtù dei santi.
E piuttosto che venerare un frammento della croce di Cristo, è preferibile ascoltare la sua parola: «Come
niente è più simile al Padre del Figlio, il Verbo del Padre che promana dall'intimità del suo cuore, così niente
è più simile a Cristo della sua parola».

SECONDO INCIDENTE:
< ... L’anno del 1576 […], trovandomi in Roma nel convento della Minerva, sotto l’obedienza de maestro
Sisto de Luca, procuratore dell’ordine, dove era andato a presentarmi, perché a Napoli ero stato processato
due volte... Il qual processo fu rinovato, nel tempo che io andai a Roma, con altri articuli, se non che me fu
detto che si faceva processo contra di me di heresia, nel quale si trattava di questa cosa del novitiato et
altro. Per il che uscì dalla religione et, deposto l’abito, andai a Noli […], dove mi trattenni quattro o cinque
mesi a insegnar la grammatica a putti...>>

Bruno fugge da Roma quando viene avvisato da Napoli che, dopo la sua dipartita, erano state trovate nella sua
cella alcune opere di San Geronimo e San Grisostomo con gli appunti di Erasmo cancellati. Di questi scritti Bruno
si serviva occultamente, e per non farli reperire dopo la sua partenza li aveva gettati nel necessario.
A seguito di questo secondo procedimento Bruno si reca dunque a Roma (non sappiamo se già con
l’intenzione di fuggire, o perché convocato dal Procuratore dell’ordine Sisto Fabbri da Lucca).
È la prima tappa della sua lunga peregrinatio europea.
ANTITRINITARISIMO BRUNIANO

CARATTERI:
In età moderna i dubbi, le riflessioni critiche o il completo rifiuto del dogma trinitario tornano ad acquisire
una rilevanza cruciale nel dibattito teologico e nell’eversione dell’ortodossia innescata dalla Riforma.
Confluenza di tradizioni culturali diverse:
1. dal platonismo umanistico;
2. filologia critica di Valla e di Erasmo;
3. suggestioni potentemente monoteiste provenienti da ambienti marrani o giudaizzanti.

Bruno rielabora anche gli spunti antitrinitari tradizionali in forme assai personali e originali. Si confronta con
problemi teologici, ma punta a individuare una propria via filosofica. E riformula le eresie dei primi secoli
del cristianesimo (soprattutto quella di Ario), ponendole alle radici di quello che per lui resterà sempre un
nodo teorico fondamentale: la questione dell’infinito, dell’ente, di Dio, e della distanza incolmabile che
corre fra questa dimensione e quella del finito, dell’accidente, dell’uomo.

<<...Nella divinità intendo tutti li attributi esser una medesima cosa, insieme con theologi et più grandi
filosofi; capisco tre attributi, potentia, sapientia et bontà, overamente mente, intelletto et amore, col quale
le cose hanno prima l’essere [per] raggion della mente, doppoi l’ordinato essere et distinto per raggione
dell’intelletto, terzo la concordia et simitria per raggione dell’amore...
Questo intendo essere in tutto et sopra tutto: come nessuna cosa è senza participatione dell’essere et
l’essere non è senza l’essentia, come nessuna cosa è bella senza la beltà presente, cusì dalla divina
presentia niuna cosa può esser esenta; et in questo modo per via di raggione et non per via di substantiale
verità intendo distintione nella divinità>>

TEMA DELLA SPROPORZIONE TRA FINITO ED INFINITO

<<... Tra la substantia infinita et divina, et finita et humana, non è proprortione alcuna...>>

Così quanto al Spirito Santo (divino per una terza persona), non ho potuto capire secondo il modo che si
deve credere solitamente; ma secondo il modo pitagorico, conforme a quel modo che mostra Salomone, ho
inteso come anima dell’universo, overo assistente all’universo, che tutto conforme pare alla dottrina
esplicata da Vergilio nel sesto dell’Eneide:

In principio lo spirito dentro anima il cielo, le terre,


le limpide pianure, il globo lucente della luna,
le stelle titanie e l'anima diffusa per le membra
smuove tutta la mole e s’unisce al grande corpo.
Di qui la specie umana ed animale, le vite degli uccelli,
e i mostri che il mare offre sotto l’onda marmorea.
Virgilio, Eneide, l. VI, vv. 725-730

PROCESSO

INTERROGATORE: Havendo voi dubitato dell’incarnatione del Verbo, che opinione havete havuto
di Christo?

BRUNO: Io ho stimato che la divinità del Verbo assistesse a quell’humanità de Christo individualmente, et
non ho possuto capire che fosse una unione ch’havesse similitudine di anima et corpo, ma una assistentia
tale, per la quale […] si potesse dire di questo huomo che fosse Dio et di questa divinità che fosse homo.
....
Et la causa è stata, perché tra la substantia infinita et divina, et finita et humana, non è proportione alcuna
come è tra l’anima et il corpo, o qual si voglian due altre cose le quali possono fare uno substente. Et per
questo credo che sant’Agustino ancora temesse di proferir quel nome “persona” in questo caso, che hora
non mi riccordo in che loco sant’Agustino lo dica. Sì che per conclusione, quanto al dubio dell’incarnatione,
credo haver vacillato nel modo ineffabile di quella […].

DICHIARANDO L'OPINIONE DI ARIO

Presbitero di Alessandria, vissuto fra il 256 e il 336, Ario è protagonista – insieme ai suoi principali
oppositori, il vescovo della città egiziana Alessandro e il suo successore Atanasio – di uno dei massimi
conflitti teologici e dottrinali non solo delle Chiese orientali di lingua greca, ma dell’intero cristianesimo.

La controversia ariana – destinata a contribuire in modo decisivo alla formulazione definitiva del dogma
trinitario – ha inizio, con ogni probabilità, negli anni immediatamente precedenti il 320, si snoda attraverso
sinodi e opposti pronunciamenti di membri dell’episcopato africano e orientale, scomuniche, intensa
attività di propaganda, per poi concludersi, sul piano dottrinale, con la condanna sancita dal Concilio di
Nicea del 325.

Il Concilio elabora una formula dogmatica nella quale si affermano l’eterna generazione del Figlio dal Padre
e la sua piena partecipazione e consustanzialità alla natura del Padre.
Ario è così costretto all’esilio, mentre si ordina la distruzione delle sue opere (di cui restano solo alcuni
frammenti). Ma, in una battaglia teologico-politica destinata a continuare, appassionata e violenta, per
buona parte del secolo, l’arianesimo dimostrerà una lunga capacità di resistenza, tanto da essere presto
riabilitato da Costantino, per poi spostare decisamente il suo asse verso il nord Europa, trovando seguaci
presso i popoli germanici che cominciano a forzare i confini dell’Impero Romano, fra i quali continua a
mantenere forza e consistenza almeno fino al VII secolo.

Sul piano dottrinale, l’eresia di Ario parte da una riflessione sulla natura della relazione fra Dio Padre e
Figlio di Dio, e sullo statuto ontologico del Figlio.
Una questione molto attuale e dibattuta fra III e IV secolo, in un arcipelago di posizioni (e di eresie) che
vede i teologi al fondo divisi tra un monoteismo rigoroso, che mantiene l’unicità di natura e di persona del
Dio veterotestamentario e impone di vedere nel Figlio solo un nome o un “modo” di essere e di
manifestarsi di questo unico Dio, e un’impostazione subordinazionista, che insiste piuttosto sull’alterità tra
Padre e Figlio, istituendo di fatto una gradualità gerarchica tra le persone trinitarie.

La dottrina di Ario nasce in polemica dichiarata con le idee del suo conterraneo (entrambi erano di origine
libica) Sabellio: attivo all’inizio del III secolo, Sabellio pensa Dio come una monade di per sé invisibile, che
prende nomi diversi in base ai tre aspetti o volti nei quali si manifesta, in un movimento di espansione e
contrazione che articola e scandisce fasi distinte delle sue funzioni divine: come Padre, egli dà origine al
mondo e dona agli uomini la Legge; come Figlio, redime il genere umano; come Spirito, santifica gli uomini,
trasmettendo loro la grazia.

Diversamente, la premessa fondamentale dell’arianesimo è l’affermazione dell’unità indivisibile e


dell’assoluta trascendenza di Dio, principio ingenerato di tutta la realtà:
«in quanto monade e principio di tutto, Dio esiste prima di tutto». «Sappiamo che esiste un unico Dio –
scrive Ario –, solo ingenerato, solo eterno, solo senza principio, solo vero, solo che possiede l’immortalità,
solo sapiente, solo buono, solo potente, che giudica, regge e governa ogni cosa, immutabile e inalterabile».
È evidente come un Dio così concepito non possa condividere né partecipare in alcun modo la sua
sostanza, a meno di perdere gli attributi fondamentali dell’indivisibilità e dell’immutabilità.
Ogni cosa che si dà oltre e al di fuori del Padre è dunque creata, chiamata alla vita dal nulla, e a lui
subordinata. Ario e i suoi seguaci sostengono così che il Figlio non possiede la stessa natura né aderisce
alla stessa sostanza del Padre, dal momento che non ne condivide l’eternità:
«Il Figlio ha principio, mentre Dio è senza principio».
Egli è infatti il prodotto di un atto creatore del Padre, volontario e posto fuori dal tempo, «prima dei tempi e
dei secoli»
(e nella prima, e più radicale, formulazione della sua dottrina Ario scrive: «[Il Figlio] prima di essere stato
[…] generato […], definito […], fondato […] non esisteva»).

Il Figlio è dunque la prima creatura del Padre e, insieme, colui che, per volere del Padre, ha il compito di
creare e amministrare il mondo naturale, per poi redimerlo attraverso l’incarnazione.
Una creatura superiore, perenne e perfetta, imparagonabile agli altri enti naturali («genitura, ma non come
una delle geniture»), e tuttavia dissimile, «estraneo, altro e separato rispetto alla sostanza di Dio» (oppure,
nella formulazione più moderata dell’ultimo Ario, «simile al Padre non per proprietà di natura, bensì per
dono di grazia») e a lui inferiore per natura, per autorità e per potenza: «in questo senso Dio è suo
principio. Infatti comanda su di lui, in quanto è il suo Dio ed esiste prima di lui».

Accostato al mondo delle creature, in definitiva un dio minore o tale solo in senso figurato, il Figlio non
«conosce il padre esattamente e perfettamente, né lo può vedere perfettamente».
E sebbene già nella lettera a Eusebio Ario affermi che il Figlio è «inalterabile», non soggetto alla dimensione
del cambiamento, fin dalle prime battute della controversia egli sarà al contrario accusato di considerarlo
anche «mutevole e alterabile per natura, alla pari di tutte le creature razionali».

L’interpretazione corrente, «volgarmente intesa», individua, a parere di Bruno, il tratto fondamentale e la


“perniciosità” dell’eresia ariana nell’inferiorità del Figlio-Verbo rispetto al Padre – «creatura ed opera» di
Dio e non Dio, figlio di Dio per partecipazione e grazia, e non per consustanzialità.
Diversamente, Bruno propone una lettura che fa forza piuttosto sull’altro versante della concezione ariana
del Figlio quello, cioè, per cui il Verbo si colloca in posizione intermedia fra Dio e il mondo della creazione ,
costituendosi come strumento di cui Dio si serve per la produzione di tutti gli altri esseri: «medio»,
appunto, «intra il creatore et la creatura, come il verbo è mezzo intra il dicente et il detto».

Un’interpretazione del Verbo come «medio» che, se da un lato, conduce direttamente alla dissoluzione del
dogma trinitario, dall’altro lato illumina un tratto costante della riflessione di Bruno: la sua idea di Dio
come pienezza che si compie nel molteplice e come molteplice e la conseguente attenzione per le forme e
i canali attraverso i quali egli si apre al mondo e si manifesta in esso come principio di vita, traducendo la
sua ricchezza inesauribile proprio nella dimensione altra del molteplice e del differente.

Infatti, pur salvaguardando e ribadendo sempre l’assoluta trascendenza e immutabilità del principio
supremo, Bruno non perde mai di vista l’unità di fondo che, nel continuo comunicarsi della vita, stringe
insieme la fonte infinita e le parti finite dell’essere – espressione di una «deità» «una» e «absoluta in se
stessa», eppure «multiforme et omniforme in tutte le cose».

< […] quel dio, come absoluto, non ha che far con noi; ma per quanto si comunica alli effetti della natura,
ed è piú intimo a quelli che la natura istessa; di maniera che se lui non è la natura istessa, certo è la natura
de la natura; ed è l'anima de l'anima del mondo, se non è l'anima istessa...>>

Per Bruno c’è un unico principio che si pone all’inizio, nel grado intermedio come Verbo o Intelletto primo –
«principio efficiente rispetto agli enti esplicati» –, nella realtà esplicata e poi «all’ultimo fine»: e questo fine
non è altro che il ritorno a sé stesso di quel principio, di quell’origine, nel ricondurre e comprendere tutti gli
enti nella propria unità.
CRISTO MAGO: IMPOSTORE E SEDUTTORE
In realtà la vera posizione di bruno si presentava maggiormente radicale e critica nei confronti della figura
cristica: «Cristo fu un tristo et faceva opere triste di sedur popoli»

POSIZIONE ANTITRINITARIA: SEMPLICITÀ DI DIO E MODALISMO-->RIFIUTO DELL'INCARNAZIONE DEL


VERBO O DELL'INTELLETTO
Non vi è distintione in Dio di persone, che questo sarebbe imperfetione in Dio.

SPACCIO DELLA BESTIA TRIONFANTE

INGANNO, SEDUZIONE, IMPOSTURA


L'inganno strutturale nei confronti degli uomini contenuto negli insegnamenti di Cristo è rappresentato
sarcasticamente dal cacciatore Orione: «un uomo abietto, vile et ignorante, un forfante mascherato ed
incognito». Egli è un ingannatore, un ammaliatore, così come la natura del Cristo, cerca di convincere gli uomini
che Giove non è mai esistito, agendo così in maniera subdola. Orione è figlio di Poseidone, anche lui cammina
nelle acque, niente più che un prestigiatore, i suoi miracoli non hanno senso. Il suo insegnamento
è però il punto più grave, lui nega la divinità della natura, in questo modo rende gli uomini ancora più
bestie. La sua menzogna ha portato cecità e menzogna. La sua concezione di Cristo è viziata soprattutto
dalla lettura del “de Servo Arbitrio” di Lutero. Gli uomini non sono vicini al divino, sono completamente
impotenti, entra dunque in gioco l’impotenza e la decadenza. La verità religiosa è così completamente
rovesciata, laddove crediamo di essere sapienti sbagliamo, laddove vediamo la certezza della carne vi è in
realtà l’instabilità del peccato. Per Cristo natura e Dio sono separate, ma l’uomo è inserito dentro la
natura, dunque anche uomo e Dio sono irrimediabilmente separati.

UNIONE IPOSTATICA
(CONNESSIONE FRA PIANO INFINITO E PIANO FINITO DELL'ESSERE)
La Ipostatica Unione tra le due sostanze è rappresentata dal centauro Chirone: «cosa alta e grande mistero
fondante il cristianesimo, impossibile da comprendere razionalmente». Egli è invece la rappresentazione del
secondo attributo del Cristo, cioè l'inganno attorno al quale questo sia il Figlio del Padre. A rappresentarlo
metaforicamente è quest'unione grottesca e bestiale del centauro, metà uomo e metà bestia, che
simboleggia l'incompatibilità tra finito e infinito in uno stesso corpo. Il centauro si presenta agli uomini, in
quanto corrotto, come portatore di una nuova religione che passa dal culto della vita (ricerca di Dio) a
quello delle cose morte: del giudizio, dei peccati e della condanna post mortem. Chirone racchiude in sé un
mistero irrazionale. I centauri nella mitologia sono di solito rozzi, Chirone nella mitologia era però un
precettore, sceglie la morte per donare l’immortalità a Prometeo. Chirone è mite, saggio e pio. Il linguaggio
di Bruno è fortemente blasfemo in questi punti. Chirone è pur sempre mezzo bestia, in realtà non è però
né uomo né bestia, è una terza cosa, questa sarà meglio o peggio? Per Bruno non ci sono dubbi, questa è
una figura imperfetta, nascosta da una nube misteriosa e dogmatica difesa da Giove.

LA DENUNCIA ALL'INQUISIZIONE E I TEMI DEL PROCESSO

LA PRIMA DENUNCIA (23 MAGGIO 1593) -> Giovanni Mocenigo

Io Zuane Mocenigo […] dinuntio a Vostra Paternità […] haver sentito dire a Giordano Bruno nolano, alcune
volte che ha ragionato meco in casa mia:

• che è biastemia grande quella de’ cattolici il dire che il pane si transustantii in carne;
• che lui è nemico della messa;
• che niuna religione gli piace;
• che Christo fu un tristo et che, se faceva opere triste di sedur populi, poteva molto ben predire di
dover essere impicato;
• che non vi è distintione in Dio di persone, et che questo sarebbe imperfetion in Dio;
• che il mondo è eterno, et che sono infiniti mondi, et che Dio ne fa infiniti continuamente, perché dice
che vuole quanto che può.
• che Christo faceva miracoli apparenti et che era un mago, et così gl’appostoli, et che a lui daria
l’animo di far tanto, et più di loro;
• che non vi è punitione de’ peccati, et che le anime create per opera della natura passano d’un
animal in un altro;
• et che come nascono gl’animali brutti di corrutione, così nascono anco gl’huomini, quando doppo i
diluvii tornano a nasser.

Ha mostrato dissegnar di voler farsi autore di nuova setta sotto nome di nuova filosofia;
ha detto che la nostra fede cattholica è piena tutta di bestemie contra la maestà di Dio;
che non habbiamo prova che la nostra fede meriti con Dio;
et che il non far ad altri quello che non voressimo che fosse fatto a noi basta per ben
vivere; et che se n’aride di tutti gl’altri peccati;
et che si meraviglia come Dio supporti tante heresie di cattolici.
Dice di voler attender all’arte divinatoria, et che si vuole far correr dietro tutto il mondo;
che tutti li dottori non hanno saputo niente a par di lui, et che chiariria tutti i primi theologhi del mondo, che
non sapriano rispondere.

LA SECONDA DENUNCIA (25 MAGGIO 1593)


LA TERZA DENUNCIA (29 MAGGIO 1593)

[...] mi son riccordato d’havergli sentito dire che il proceder che usa adesso la Chiesa non è quello che usavano
gl’apostoli, perché quelli con le predicationi et con gl’esempi di buona vita convertivano la gente, ma che hora chi
non vuol esser catholico, bisogna che provi il castigo et la pena, perché si usa la forza et non l’amore.

Che questo mondo non poteva durar così, perché non v’era se non ignoranza, et niuna religione che fosse
buona; che la cattolica gli piaceva ben più de l’altre, ma che questa ancora havea bisogno di gran regole;
et che non stava bene così, ma che presto presto il mondo haverebbe veduto una riforma generale di se
stesso, perché era impossibile che durassero tante corruttele; et che sperava gran cose su ’l re di Navarra,
et che però voleva afrettarsi a mettere in luce le sue opere et farsi credito per questa via perché, quando
fosse stato tempo, voleva esser capitano; et che non sarebbe stato sempre povero, perché haveria goduto i
thesori degl’altri.

Oltre di questo, mi disse che gli piacevano assai le donne, et che non havea arivato ancora al numero di
quelle de Salamone; et che la Chiesa faceva un gran peccato nel far peccato quello con che si serve così
bene alla natura, et che lui lo havea per grandissimo merito.

SOMMARIO DEL PROCESSO (Roma, marzo 1589)

Questioni di carattere RELIGIOSO:


Bruno ha una cattiva opinione della fede cattolica e si è espresso contro i suoi Ministri:
• Sulla transustanziazione e la Santa Messa;
• Sulla invocazione dei Santi;
• Sul breviario e le bestemmie;
• Sul peccato della carne;
• Sul sommo pontefice;
• Sulla lettura dei libri proibiti e i viaggi in Paesi non cattolici.

Questioni di carattere BIBLICO:


• Su Caino e Abele;
• Su Mosè e i profeti.

Questione sulla figura del CRISTO:


• Sulla TRINITÀ, la divinità di Cristo e l'INCARNAZIONE;
• Su Cristo (tristo, opere triste e seduttore di popoli);
• Sul peccato di Cristo,

Questione di carattere FILOSOFICO:


• Sull'inferno;
• Sulla pluralità dei mondi;
• Sulla eternità del mondo;
• Sulle anime degli uomini e degli animali;
• Sull'arte divinatoria;
• Sulla punizione dei peccati;
• Sulle sue intenzioni future, qualora fosse stato costretto a riprendere l'abito.

Quel ch’ha fatto il breviario, o vero ordinato, è un brutto cane, becco fottuto, svergognato; […] il breviario è
come un leuto scordato, e in esso molte cose profane e fuori di proposito si contengono, e però non è degno
d’esser letto da huomini da bene, ma dovrebbe esser abbruggiato.

Ha proferito in diverse occasioni, mentre è stato prigione, biasteme molto horrende e più di venticinque
volte ha fatto con i pugni fichi al Cielo, dicendo: «Piglia, can tristo, becco fottuto», et alle volte la notte,
subito ch’era svegliato, biastemava horrendissimamente, chiamando Christo con le soddette parole, et alle
volte soggiongeva che Dio era un traditore, perché non governava bene il mondo, presenti li prigioni.

Se sarà forzato tornar frate di san Domenico, vuol mandar in aria il monasterio dove si trovarà, e ciò fatto
subito vuol tornare in Alemagna o in Inghilterra tra heretici, per più commodamente vivere a suo modo et
ivi piantare le sue nuove et infinite heresie, [...] ma poi havria abbruggiato il monasterio e tornato in
Inghilterra; e queste cose le diceva fuori di proposito, da sé, et alle volte di rabbia. Non ho inteso, se non che
voleva supplicar il Papa, o la Signoria, di poter stare con l’habito secolare; e quando fosse stato sforzato a
tornare nella religione, non voleva star sottoposto né al generale, né al priore, se non a questa Signoria.

Mi disse anco in proposito del non saper di questi tempi, che, adesso che fiorisse la maggior ignoranza che
habbi havuto mai il mondo, si gloriano alcuni di haver la maggior cognitione che sia mai stata, perché
dicono di saper quel che non intendono, che è che Dio sia uno et trino, et che queste sono impossibilità,
ignoranze et bestemie grandissime contra la maestà di Dio.

Due volte ragionando meco disse che non vi era Trinità in Dio, e ch’era una grande ignoranza e biastema
dire che Dio fosse Trino et uno, […] perché in Dio non v’era queste tre persone, e che era una pazzia a dirlo…

La strategia difensiva del processo:


«parlar filosoficamente» e «parlar secondo la Theologia»
Sono temi su cui Bruno tornerà più volte negli interrogatori, soprattutto veneziani – contrapponendo il
«parlar filosoficamente» e il «parlar secondo la Theologia», le posizioni acquisite e sostenute «per via di
raggione» da quelle professate «per via di substantiale verità» –, per chiarire la sua interpretazione degli
attributi di Dio (potenza, sapienza, bontà) «nelli termini della filosofia», cioè non come articolazione e
distinzione personale della sostanza divina, ma come modalità della sua manifestazione. Dunque Bruno è
un eretico anomalo in quanto in quanto eretico per motivi filosofici e non teologici. Non è sbagliato per
Bruno pensare Dio attraverso quei 3 attributi che abbiamo visto, è però sbagliato attribuirli realtà
sostanziale. Bruno reinterpreterà dunque il lessico metafisico (sostanza, potenza e atto) in maniera
antitradizionale. C’è un modo di parlare teologico (quello della fede) e uno filosofico (quello della ragione) e
sarà passando per questo sottile filo che Bruno condurrà la sua difesa, cercando di convincere il tribunale
del fatto che lui non stesse sconfinando effettivamente in un terreno altro rispetto a quello della filosofia.

Lo spazio della Dissimulazione


Spaccio della Bestia Trionfante - Dialogo II

< […] Gloria, Decoro, Dignità, Onore et altri compagni de la lor corte, che per ordinario versano ne li campi
della Simplicità, Verità et altri simili talvolta per forza di Necessitade [versano] in quello de la
Dissimulazione et altri simili, che per accidente possono esser ricetto de virtudi.
La Dissimulazione occolta, e finge di non haver quel ch’have, e mostra posseder meno di quel che si trova.
Questa pedissequa de la Veritade non deve lungi peregrinare dalla sua regina, benché talvolta la dea
Necessitade la costringa di declinare verso la Dissimulazione: a fine che non venga inculcata la Simplicità o
Veritade, o per evitar altro inconveniente.
[…] talvolta sogliono servirsi anco gli dèi: perché talora per fuggir invidia, biasmo et oltraggio, con gli
vestimenti di costei la Prudenza suole occultar la Veritade.
[la studiosa Dissimulazione] a cui Giove fa lecito che talvolta si presenti in cielo, e non già come Dea, ma
come tal volta ancella della Prudenza, e scudo della Veritade […] >>

Bruno usa la strategia della dissimulazione, ovvero ammantare, addolcire la sua posizione. Chi ha a che fare
con la verità deve usare queste strategie. Il rapporto del filosofo con la verità non è mai semplice, per
questo a volte può essere scusato nell’utilizzo di ciò che solitamente è un vizio. Il filosofo deve fingere di
“sapere meno” di quello che effettivamente sa, in questo senso la dissimulazione è contigua della verità,
sua seguace e sua servitrice in caso di necessità. La verità ha per Bruno le stesse caratteristiche della
sostanza inserita però nelle storicità, ciò non toglie che vada usata con prudenza.

T. Accetto, Della dissimulazione onesta, 1641


Definizione della dissimulazione: «Dar riposo al vero, per dimostrarlo a tempo».

Secondo Leo Strauss, nella storia, la «scrittura tra le righe» di molti filosofi è un effetto della soppressione
della libertà di parola verso il pensiero eterodosso e la ricerca della verità.

Processo FASE VENEZIANA


23 maggio 1592-febbraio 1593

DOCUMENTI:
• 3 denunce di Giovanni Mocenigo;
• Deposizioni dei testimoni;
• 7 costituti di Bruno.

FASE ROMANA
febbraio 1593-febbraio 1600

DOCUMENTI:
• Estratti deposizioni testimoni ed estratti costituti di Bruno;
• Registro delle decisioni della corte;
• Copia parziale della sentenza.

PROPOSIZIONI CENSURATE
1. Eternità dell'anima del mondo e della materia prima;
2. Creazione e natura dell'anima umana;
3. Sul movimento della Terra e la sua animazione;
4. Sull'interpretazione dell'anima come forma del corpo;
5. Sulla consistenza ontologica dei singoli individui;
6. Sulla possibilità che gli infiniti mondi siano abitati.

Sentenza del processo, nella copia destinata


al governatore di Roma

<<[…] Essendo stato visto e considerato il processo contra di te formato et le confessioni delli tuoi errori
et heresie con pertinacia et ostinatione, benché tu neghi essere tali, et tutte le altre cose da vedersi et
considerarsi , dicemo, pronuntiamo, sententiamo et dichiariamo te, fra Giordano Bruno predetto, essere
heretico impenitente, pertinace [et ostinato], et perciò essere incorso in tutte le censure ecclesiastiche et
pene [dalli sacri] Canoni, leggi et constitutioni imposte.
Et come tale te degradiamo verbalmente et dechiariamo dover esser degradato, sì come ordiniamo et
comandiamo che sii attualmente degradato da tutti gl’ordini ecclesiastici maggiori et minori nelli quali
sei constituito […]; et dover essere scacciato, sì come ti scacciamo, dal foro nostro ecclesiastico e dalla
nostra santa et immaculata Chiesa, della cui misericordia ti sei reso indegno.
Di più, condanniamo, riprobamo et prohibemo tutti i tuoi libri et scritti come heretici et erronei e continenti
molte heresie et errori, ordinando che tutti quelli che sin’hora si son havuti, et per l’avenire verranno in
mano del Santo Offitio siano publicamente guasti et abbrugiati nella piazza di san Pietro, avanti le scale,
et come tali che siano posti nell’Indice de’ libri prohibiti, sì come ordiniamo che si facci [...]>>

La cosmologia di Bruno è fortemente legata al suo modo d’intendere l’anima: stelle e pianeti sono grandi
animali che funzionano per armonie di flussi vitali. Il suo modo di studiare la natura indipendente dalla
matematizzazione gli ha permesso di arrivare molto più in fondo rispetto ai suoi contemporanei, gli ha
permesso di pensare l’infinito attuale pur tagliandolo fuori da quello che sarà il paradigma vincente.
Bruno sta dunque dentro o fuori dalla modernità? Tutto per lui è in scorrimento, infinito cambiamento, la
matematica per lui irrigidisce questa prospettiva: “misurare è mentire”. L’anima in Bruno non può più
essere aristotelicamente la forma del corpo.

Dal «Giornale» dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato


(Roma, 17 febbraio 1600)

[Rubrica marginale] Giustitia di un eretico impenitente bruciato vivo.

"...A hore 2 di notte fu intimato alla Compagnia che la mattina si dovea far giustitia di un inpeniente; et
però alle 6 hore di notte radunati li confortatori e capellano in Sant’Orsola, et andati alla carcere di Torre
di Nona, entrati nella nostra capella e fatte le solite orazioni, ci fu consegnato l’infrascritto a morte
condennato, cioè:
Giordano del quondam Giovanni Bruni frate apostata da Nola di Regno, eretico impenitente. Il quale
esortato da’ nostri fratelli con ogni carità, e fatti chiamare due Padri di san Domenico, due del Giesù, due
della Chiesa Nuova e uno di san Girolamo, i quali con ogni affetto et con molta dottrina mostrandoli
l’error suo, finalmente stette sempre nella sua maladetta ostinatione, aggirandosi il cervello e l’intelletto
con mille errori e vanità.
E tanto perseverò nella sua ostinatione, che da’ ministri di giustitia fu condotto in Campo di Fiori, e quivi
spogliato nudo e legato a un palo fu brusciato vivo, aconpagniato sempre dalla nostra Compagnia
cantando le letanie, e li confortatori sino a l’ultimo punto confortandolo a lasciar la sua ostinatione, con la
quale finalmente finì la sua misera et infelice vita."

Avviso di Roma
(Roma, 19 febbraio 1600)
Di Roma, li 19 febraro 1600 […].
Giovedì mattina in Campo di Fiore fu abbruggiato vivo quello scelerato frate domenichino da Nola, di che
si scrisse con le passate: heretico ostinatissimo, et havendo di suo capriccio formati diversi dogmi contra
nostra fede, et in particolare contro la Santissima Vergine et Santi, volse ostinatamente morir in quelli lo
scelerato; et diceva che moriva martire et volentieri, et che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel
fumo in paradiso. Ma hora egli se ne avede se diceva la verità.

Kaspar Schoppe (1576-1649)

Lettera a Konrad Rittershausen sulla morte di Bruno


(17 febbraio 1600)
[Bruno ha sostenuto] «che solo gli Ebrei hanno avuto origine da Adamo ed Eva, mentre tutti gli altri
popoli da quei due progenitori che Dio aveva creato il giorno precedente»

Andreas Osiander
Al lettore sulle ipotesi di questa opera
Osiander secondo Bruno:
«un asino ignorante e presuntuoso»

COESTENSIVITÀ DIVINA
Ritornando al problema della coestensività divina, se gli attributi di Dio sono uguali come agisce? Ad
esempio nel De infinito, si prende in esame il dialogo che avviene tra Paride e le 3 dee ed il parametro
decisionale viene affidato alla comparazione. La bellezza è una qualità presente in tutte e tre come
soggetto (substrato, base) mentre in Bruno, questa base del bello non è una cosa accessibile ad un essere
finito come l'uomo, tanto che per definire la donna più bella la si idealizza costruendone l'immagine su
varie caratteristiche di bellezze femminili. Dentro a queste bellezze ci sono più qualità, ma nel generale
esse verranno ad identificarsi per quella più preponderante, quella presente in maggior numero. Questo
primato viene posseduto per Bruno attraverso un procedimento di riflessione dell'attributo nel soggetto,
queste caratteristiche vengono possedute nel momento in cui vengono classificate come tali dal soggetto
giudicante. Per Bruno, queste caratteristiche si posseggono per proprietà derivata, e non in maniera
sostanziale come avviene per quelle divine.
Nel divino, non si partecipa, gli attributi sono presenti in maniera sostanziale, compresenti in tempo e
modo. In Dio non c'è misura in quanto ne deriverebbero differenze o eccessi. Nei confronti dell'infinito
l'uomo è sia stella che formica, in quanto non ci può essere parametro di paragone tra natura e divino.
Nella dimensione divina tutto è uguale (matrice filosofica cusaniana). Solo quando tramite uno sforzo di
ragione proviamo ad afferrarne il significato possiamo parlarne per distinzioni.
Nelle fonti di Bruno il rapporto tra Uno e Molteplice di Cusano è importante per la sua idea di infinito: una
sfera ad esempio possiede uguali dimensioni tra lunghezza, altezza e profondità, e così, allo stesso modo si
manifestano le attribuzioni divine. Quando pensiamo a Dio allora, non possiamo pensarlo tramite nostri
criteri semantici (inadeguatezza linguistica di Agostino), bisogna abbandonare il paragone e la proporzione
antropomorfica, ciò ricorrere per tutto al paragone con l'uomo. Non si può conoscere Dio attraverso
un’enfasi massima delle caratteristiche umane (tanto che anche per Spinoza, Dio, non possiederà attributi
umani): un Dio dei triangoli verrà pensato per forza di cose ad un triangolo che possiede le più eminenti
caratteristiche di quel genere, ma questo è sbagliato.
Per Spinoza Dio è altero, è altro rispetto a noi, e identificarlo attraverso le eminenze antropomorfistiche è
sbagliato. Dunque, come lo possiamo pensare allora? In quanto se si nega ogni legame a Dio, si ignora
cosa si possa intendere per tale (critica a Spinoza).
Quello di Spinoza rischia di non essere più un Dio, si ascrive a questa categoria: Dio in Spinoza è cosa libera:
"E' libero in quanto risponde unicamente alle necessità provocate dalle sue stesse caratteristiche, dunque
dipende solo da se stesso"; ma questo non è un Dio libero, in quanto si necessita.
Per Bruno gli attributi divini sono coestensivi come lo sono volontà e potenza: dunque pensare
filosoficamente ad un suo prodotto come finito da parte di Dio non può essere congruo alla sua potenza
infinita. I teologi, per Bruno, danno solo un'immagine zoppa di Dio. Allo stesso modo se sono parimenti
potenza e bontà, pensare che la nostra bontà sia prodotto di Dio, farebbe si che ne emergesse una sua
immagine oziosa in quanto non ci dona tutta quella che possiede, ma solo una parte della sua bontà
infinita. Dio come Padre, non può avere riserve della sua bontà.
L'idea di Dio infinito e immenso integra la religiosità attraverso la filosofia ma al tempo stesso smonta il
costrutto teologico. Dio allora non può essere altro che ciò che è, però infinitamente e necessariamente
non potrà fare altro di quello che fa, perché se distinguessimo la sua potenza secondo criteri di possibilità
lo ingabbieremmo nella nostra dimensione di finitudine: "quello che non è mai stato non sarà mai".
L'azione necessaria di Dio è la stessa necessità: il fare, il poter fare e il saper fare, allo stesso modo
e tempo. E dunque si aprono due scenari:
1. L'universo è infinito e si viene a creare una perfetta specularità tra principio e filosofia;
2. Da Dio infinito dipende un universo finito: e allora Dio avrà potenza diversa dalla sua
realizzazione. Perché allora i teologi hanno costruito un Dio finito? La questione risale alla matrice
morale: i teologi sono coloro che dispensano un'idea concreta a pratica di Dio, sono dunque consapevoli
di questa idea propedeutica alla civiltà, a dare un senso e un benessere morale. "Dio serve a noi per
giudicare noi, per dare un codice morale" e se si togliesse la volontà di Dio, ne verrebbero meno il merito
delle nostre buone azioni.
Bisogna dunque distinguere tra verità e leggi? La verità non è per tutti, i teologi sono coloro che esercitano
la legge morale e questo per i filosofi non è problema, ma è lo è per l'esercizio di una vita associata. Il Dio
finito, il Dio concreto, quello permette una spiegazione al nichilismo esistenziale è una favola morale,
favola ma che serve. La legge morale è fondamentale per la società, già Platone e Aristotele erano consci di
questa necessità divina per l'esercizio della libertà tanto che l'umanità per star bene deve
necessariamente essere sottratta alla verità. Per questo i teologi, sono sempre stati affascinati e hanno
riconosciuto la libertà filosofica, così come i filosofi hanno da sempre riconosciuta la necessità teologica per
la morale sociale. La verità filosofica è contemplativa ed è per chi non ha bisogno di essere governato, non
ha bisogno di codici morali per stare bene, ma per chi si sa governare. Con Bruno si avvia quella che sarà
poi matrice essenziale di distinzione tra Filosofia e Teologia.

G. Bruno, De monade,
Capitolo IV
Allorché la Terra generò gli esseri animati, assegnò a tre popoli tre patriarchi: Ennoc,
Leviathan e Adamo, al contrario di quanto prevalentemente sostenevano i Giudei, secondo i
quali una sacrosanta generazione aveva avuto origine da un unico patriarca; attraverso
altrettanti individui (dicono tutti) Sem, Cam e Japet, la generazione umana venne rinnovata dal
progenitore Noè (dopo che il mondo fu sommerso dalle acque).

G. Bruno, De immenso,
Libro VII, Cap. 18
L’efficiente è il padre, gli elementi sono i semi, il cielo è lo spazio, il seno della madre di tutte le cose.
Innumerevoli sono le generazioni, ovunque appaiono i corpi dei mondi, le Terre, i Soli e le orbite;
ovunque puoi vedere che c’è addensamento di materia nella massa corporea dei mondi che l’etere
abbraccia, offrendo ovunque lo stesso volto.
Quando, in estate, cadono dall’aria gocce di pioggia sulla Terra infuocata […], dalla polvere non cotta nasce
repentinamente la rana e uguaglia il numero delle gocce, tanto che tu potresti credere, guardando al
suolo, che tante rane siano cadute dal cielo; così nell’immenso spazio ed etere che tutto comprendono, c’è
una potenza grazie alla quale i mondi si riproducono per il grande vuoto, poiché da ogni parte è la vita e
da ogni parte si manifesta l’atto dell’anima.
Tale è l’origine del serpente, del pesce, del topo, della rana gracidante, tale quella del cervo, della
volpe, dell’orso, del leone, del mulo e dell’uomo.

C'è la potenza divina che genera mondi infiniti perché in ogni parte dell'universo c'è la vita in atto, non
come in Aristotele, e la potenza generatrice della natura agisce sugli animali come sull'uomo senza alcuna
gerarchia. La natura può darsi da capo senza unione, è allo stesso tempo il patriarca primordiale e la
generatrice, in quanto si autogenera.
Come si spiegano allora le diverse etnie per Bruno? Fondamentalmente è impossibile pensare che siano
arrivati attraverso navigazione dunque bisogna pensare al mondo come capacità generatrice in ogni dove,
così come non saranno di una specie diversa le forme di vita di altri pianeti.
Il ragionamento di Bruno è fortemente cosmologico, per lui infatti le stesse stelle o il Sole non sono altro
che l'inversione prospettica della Terra: ogni stella è una Terra, solo che noi chiamiamo la nostra tale,
ma dal punto di vista di una stella anche la nostra Terra sarebbe stella in quanto risplenderebbe di luce
anch'essa. Vale allora la necessità di approfondire il tema della generazione negli altri mondi: ci sarà lo
stesso principio di autogenerazione.
C'è un principio di reciprocità: la perfezione è generatrice di sé stessa e la vita sulla Terra non esclude la
vita di altri mondi. In ciascun mondo c'è la stessa composizione elementare della Terra. Ma sono essi
ragionevoli come noi? Alla risposta o meno di questa domanda Bruno ricorre ad un mito platonico dove si
spiega che vi sono entità mortali rese immortali per mano divina come gli angeli che si nutrono in modo
conveniente come facciamo noi ma che si riproducono in un modo sottratto alla generazione e alla morte.
Bruno nel De immenso parla dell’origine della materia. La capacità riproduttiva della sostanza è infinita,
non si dà realmente differenza tra materia sub-lunare ed etere. La potenza generatrice divina è
immanente e agisce sugli animali come agisce sull’uomo. Solo in base ai luoghi vengono prodotti individui
diversi. Ovunque è testimoniata la grandezza divina dunque ogni cosa si può individuare solo
prospetticamente, secondo un rapporto. Questa prospettiva va dilatata «volgendo l’animo alle altre
stelle», la forza è ovunque nella natura. Sarebbe insensato affermare di essere il centro dell’intera vita
dell’universo. In ciascun mondo l’unica cosa necessaria è la complicità dei 4 elementi. Bruno non esclude
che possano esistere altri esseri razionali, che essi siano corruttibili o incorruttibili. Bruno lo ipotizza
riferendosi agli angeli, o almeno così risponde quando interrogato…

BRUNO
VERITA’ E SCRITTURA
Nella Cena la ferma convinzione bruniana che la verità sia appannaggio di pochi si salda alla critica nei
confronti di coloro che si appellano alle Scritture per confutare l’eliocentrismo. Ed è qui che si radica la
netta separazione tra l’ambito di pertinenza dei testi sacri − che forniscono precetti validi «in proposito del
convitto e reggimento comune, e prattica de la civile conversazione» (quindi per guidare la maggioranza
degli uomini, incapaci di autoimporsi limiti dettati dalla propria ragione) − e quella della filosofia, che
ricerca «la cognizione de la verità, e regola di contemplazione».

RAPPORTO CON LA VERITA’

BRUNO
IL RAPPORTO CON IL CONCETTO DI VERITÀ

Io dirò la verità: più volte m’è stato minacciato de farmi venire a questo Santo Offitio, et sempre l’ho
tenuto per burla, perché io son pronto a dar conto di me.

«Io in miei pensieri, paroli e gesti non so, non ho, non pretendo altro che sincerità, simplicità, verità»: con
queste parole Bruno si presenta nell’Epistola esplicatoria dello Spaccio de la bestia trionfante.

C’è dunque una contrapposizione tra:

1. SINCERITA’/FALSITA’;
2. SEMPLICITA’/MANIPOLAZIONE;
3. VERITA’/MENZOGNA

Il nucleo del progetto filosofico di Bruno è il ritorno all’antiqua vera filosofia.


Bruno è convinto di essere un Mercurio inviato dagli dèi per richiamare «il mondo all’antico volto» e
riallacciare i fili della comunicazione tra i vari piani dell’essere, tra Dio, uomo e natura, tramite il ritorno
dell’«antiqua vera filosofia». Con il termine di ‘antichi’ Bruno individua sostanzialmente la tradizione
filosofica greca prearistotelica, espressione di un sapere conosciuto ma male interpretato, se non
tradito, da Aristotele. La categoria di ‘antico’ quale espressione di un momento prolifico del sapere
contrapposto alla sterilità dell’aristotelismo si definisce progressivamente, insieme al precisarsi di
un’idea di riforma come necessità di un cambiamento culturale e insieme religioso.

È con le opere stampate in Inghilterra che la filosofia ‘antica’ assume i suoi caratteri costitutivi, alla luce
dell’inasprimento dei rapporti tra Bruno e la cultura accademica, intrisa di uno sterile aristotelismo. In
questa prospettiva il nesso stringente, proprio dalla cultura quattrocentesca, tra antichi e verità viene
reinterpretato da Bruno: non è più l’antico in quanto tale che decide del vero, ma è il vero che può
occasionalmente legarsi all’antico. ‘Filosofia antica’ diventa così per Bruno un sintagma di scarso valore,
sistematicamente sostituito da «antiqua e vera filosofia».

Nella Cena de le Ceneri, di fronte a Prudenzio – «amico de l’antiquità» e persuaso del fatto che, secondo il
«parer de gli antichi», nell’«antiquità è la sapienza» –, Teofilo rovescia i suoi stessi argomenti ed esplicita il
paradosso che se un’opinione è «vera, in quanto che è antica», allora, quando fu «nuova», era «falsa».
Dimostra così, per questa via, che termini come ‘nuovo’ e ‘vecchio’ sono da intendersi relativamente e che
dunque si rivelano inefficaci ad esprimere valori assoluti come il vero e il falso, legati invece ai frutti che
una filosofia riesce a produrre. Se una filosofia è vera in senso forte tra le sue peculiarità ci sarà quella di
superare i propri limiti temporali. Ne deriva che se si vuole dirsi seguaci di un sapere veridico e autentico, di
cui pure sono salvaguardate le origini remote, bisogna rivolgersi non a un passato indistinto, ma a quello
che si è imposto nell’età della luce e ha espresso frutti e prosperità, ossia all’«antiqua vera filosofia» che si
dà nel «giorno de gli antichi sapienti».

È straordinario, Copernico, come tu sia potuto emergere dalle tenebre così intense del nostro secolo, in cui
la luce di ogni filosofia giace esanime con quella che è propria di altri settori ad essa connessi: infatti tu hai
esposto alquanto più audacemente quelle cose che con voce più sommessa nel secolo immediatamente
precedente aveva espresso Niccolò Cusano nel suo libro Sulla dotta ignoranza. Tu confidavi infatti in tale
difesa: un’opinione, anche se vera, non avrebbe successo se sostenuta di per sé, ma potrebbe essere accolta
solo in funzione di una maggiore semplicità che arreca ai calcoli astronomici, sotto forma di ipotesi.

G. Bruno, De immenso et innumerabilibus

È quella filosofia al contempo ‘antica’ e ‘vera’ che Copernico ha dissepolto, dopo «tanti secoli», dalle
«tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva et invida ignoranza». Questa filosofia di «antichi e veri
filosofi» è quella con cui Copernico ha riannodato i fili della sapienza, trovando una conferma matematica a
quanto i «nostri antichi padri» avevano già intuito, e cioè che la Terra si muovesse intorno al Sole e intorno al
proprio centro. Da questa tradizione dell’«antiqua e vera filosofia» è completamente escluso
Aristotele: «la filosofia d’Aristotele è incomparabilmente più vile di quella de gli antichi». Egli, per Bruno,
è il grande ‘pervertitore’ delle teorie degli antichi, come si vede bene nella Cabala del cavallo Pegaseo,
attraverso le battute dell’asino Onorio.

Cabala del cavallo Pegaseo, Dialogo II, Parte II

<<…benché erudito molto bene nelle umanistiche scienze, nelle quali ero più illustre che tutti li miei
predecessori, entrai in presunzione d'esser filosofo naturale, come è ordinario nelli pedanti d'esser sempre
temerarii e presuntuosi […] E con ciò, per esser estinta la cognizione della filosofia, morto Socrate, bandito
Platone, ed altri in altre maniere dispersi, rimasi io solo lusco intra gli ciechi; e facilmente possevi aver
riputazion non sol di retorico, politico, logico, ma ancora de filosofo. […] Non sarebbono gli ignoranti, se non
fusse la fede; e se non la fusse, non sarebbono le vicissitudini delle scienze e virtudi, bestialitadi ed inerzie
ed altre succedenze de contrarie impressioni, come son de la notte ed il giorno, del fervor de l'estade e rigor
de l'inverno…>>

Il concetto di antichità viene reso più complesso e ricco. Per Bruno nell'antichità c'è sia una Sapienza positiva, la
vera filosofia, sia una Sapienza antiquata da superare come quella di Aristotele. Il personaggio di Onorio nella
Cabala del cavallo pegaseo, ha le caratteristiche di Aristotele. Particolarmente interessanti sono le categorie di
pedanteria e asinità con cui Bruno lo critica. La pedanteria, oltre che renderci prigionieri del testo, rappresenta
un atteggiamento sterile e vuoto. Aristotele in quanto pedante e arrogante non fu un buon filosofo naturale, e
anzi si conquista una reputazione oscurando i risultati altrui. Le colpe vanno però condivise anche qui i suoi
commentatori. L'insegnamento di Aristotele fu perverso e delirante, per colpa sua la teologia e la filosofia
naturale caddero in basso. Nel tempo dei caldei e dei pitagorici queste due scienze erano invece animate da una
Sapienza originaria e positiva. La metafora della ruota entra in ballo proprio in queste riflessioni poiché sta di
indicare il movimento ciclico della conoscenza in cui luce e ombra risultano originarsi l'una dall'altra. La linea
carsica della Sapienza originaria ritorna ora
con Copernico e con lo stesso Bruno. L'astronomia di Copernico è vera e non va relegata al rango di
mere ipotesi.
Se nella Cena il tema dell’antico è sviluppato in relazione alle nozioni di vero e di falso, inserito nel
movimento ciclico universale entro cui il vecchio e il nuovo perdono di senso, nel De Infinito è messo in
luce un altro aspetto della questione: svolgendo in maniera originale il motivo del ‘ritorno dell’antico’,
Bruno afferma qui che l’«antiqua e vera filosofia» riluce anche nel presente («gli antichi e moderni veri
contemplatori della natura»), ma non indistintamente, bensì in quella filosofia che, allo stesso modo, è
portatrice di un contenuto di verità: «sono amputate radici che germogliano, son cose antique che
rinvengono, son veritadi occolte che si scuoprono».
Questa buona filosofia, annunciata da Copernico, coincide con la «Nolana filosofia», capace di raccogliere
l’autentica eredità del pensiero antico sulla base di una continuità sapienziale in virtù della quale si
delineano due schieramenti: ANTICHI E NOI contro ARISTOTELE, I SUOI COMMENTATORI E I SUOI
SEGUACI

GLI ANTICHI E NOI

Sotto il profilo metafisico, è molto positivo il giudizio che Bruno dà sulla concezione della sostanza propria
di Parmenide. Una concezione che si pone a fondamento della stessa visione ontologica bruniana
incentrata sull’unità della sostanza universale, sulla cui superficie si avvicendano gli enti finiti come volti
mutevoli e transeunti. Parmenide ha infatti anch’egli riconosciuto la sostanza delle cose nell’«Uno ente
infinito» assegnando, al contrario, alle cose particolari lo statuto di non enti – aspramente criticato, in ciò,
da Aristotele. Per Aristotele la sostanza sta invece nell’individuo, il resto è accidentale. Per Parmenide
come per Bruno non c'è differenza tra le sostanze singole, siamo tutti “volti” della medesima sostanza. La
diversità delle forme e comunque la diversità di un agglomerato (come una pianta che si sviluppa da un
medesimo seme). La distinzione è un “disglomeramento” che va dalla sostanza alle sue singole
manifestazioni. Questa sostanza unica è eterna, principio di vita e dunque non conosce morte, il resto è
figura, accidente, alterazione e movimento; ma niente si genera o corrompe dentro la sostanza. Di fatto
l'uomo singolo in quanto tale scivola in questa posizione di secondo piano rispetto alla sostanza. Sono
necessarie delle guide per aiutare gli uomini ad uscire da una prospettiva antropocentrica. La ruota del
tempo si muove attraverso momenti per nulla semplici, anzi addirittura violenti. Le guide sono quelle che
Bruno definisce Mercurii, ma di questi ve ne sono di buoni e di cattivi.

Bruno, De la causa, principio et uno, Dialogo V

Onde non essere inconvenientemente detto da Parmenide uno, infinito, immobile (sia che si vuole della sua
intenzione, la quale è incerta, riferita da non assai fidel relatore). […] Dire che quel tutto che si vede di
differenza ne gli corpi quanto alle formazioni, complessioni, figure, colori et altre proprietadi e
communitadi, non è altro che un diverso volto di medesima sostanza; volto labile, mobile, corrottibile di
uno inmobile, perseverante et eterno essere; in cui son tutte forme, figure e membri: ma indistinti e come
agglomerati, non altrimente che nel seme, nel quale non è distinto il braccio da la mano, il busto dal capo, il
nervo dal osso: la qual distinzione e sglomeramento non viene a produrre altra e nuova sustanza; ma viene
a ponere in atto e compimento certe qualitadi, differenze, accidenti et ordini circa quella sustanza. Ne l’uno
infinito, immobile, che è la sustanza, che è lo ente, vi se trova la moltitudine, il numero, che per essere
modo e moltiformità de lo ente, la quale viene a denominar cosa per cosa, non fa per questo che lo ente sia
più che uno: ma moltimodo e moltiforme e moltifigurato. Però profondamente considerando con gli filosofi
naturali, lasciando i logici ne le lor fantasie, troviamo che tutto lo che fa differenza e numero è puro
accidente, è pura figura, è pura complessione: ogni produzione di qualsivoglia sorte che la sia è una
alterazione; rimanendo la sustanza sempre medesima, perché non è che uno ente divino, immortale.
Tutto quello che fa diversità, di geni, di specie, differenze, proprietadi, tutto che consiste nella generazione,
corrozzione, alterazione e cangiamento, non è ente, non è essere: ma condizione e circostanza di ente et essere,
il quale è uno, infinito, immobile, soggetto, materia, vita, anima, vero e buono.
Tutti filosofi […] niente dicono generarsi secondo sustanza né corrompersi: […] perché questa unità è
sola e stabile, e sempre rimane: questo uno è eterno; ogni volto, ogni faccia, ogn’altra cosa, è vanità, è
come nulla, anzi è nulla tutto lo che è fuor di questo uno. Quelli filosofi hanno ritrovata la sua amica Sofia,
li quali hanno ritrovata questa unità.

Dialogo IV

[Aristotele e gli altri filosofi che negano le tesi proprie degli antichi] non son pervenuti ad intendere che il
principio vitale non consiste ne gli accidenti che resultano dalla composizione: ma in individua et indissolubile
sustanza, nella quale se non è perturbazione, non conviene desiderio di conservarsi, né timore di sperdersi; ma
questo è conveniente a gli composti, come composti […]: perché né la spiritual sustanza
che s’intende unire, né la materiale che s’intende unita, possono esser suggette ad alterazione alcuna o
passione: e per consequenza non cercano di conservarsi, e però a tai sustanze non convien moto alcuno,
ma a le composte.

Nel de Umbra idearum si parla dei Mercurii inviati dagli dèi. Chi porta la verità sarà però inevitabilmente
rifiutato e perseguitato. La verità è per pochi se non per pochissimi. Saranno i Mercurii impostori ad avere
successo (Aristotele, Cristo) basando il proprio operato sul proselitismo. Qual è l'idea di verità e del
rapporto tra verità, tempo e filosofia? La persecuzione di Cristo e la riprova del fatto che, chi lo conosceva
bene, non si facesse fregare dai suoi trucchi. I Mercurii buoni devono farsi filosofi per avere un ruolo in
questa ruota del tempo. La scissione, l'oscurantismo e le guerre sono le manifestazioni di un momento
basso della ruota del tempo. Nella commedia del Candelaio, nella dedica alla signora Morgana B. si parla
del ritmo del tempo. “Il fatto della mutazione” e connaturato nel tempo, ed è proprio questa mutazione
che viene messa in scena nella commedia. Qualunque sia il posto in cui ci collochiamo possiamo solo
attendere, tutto è destinato a cambiare. Il mercurio è colui che è in grado di contemplare il momento in cui
vive con razionalità, questo gli permette di non esaltarsi nel bene e non abbattersi nel male. È in questa
prospettiva che il mondo si allarga fino a divenire infinito. Quando parla della “fine dei tempi”, tipica di
una visione lineare del tempo, Bruno è sempre irriverente. Tutt'al più ci saranno varie apocalissi che si
susseguiranno per spazzare via il vecchio mondo per sostituirlo con uno nuovo. Ad ogni crisi corrisponde
una rinascita. Questa concezione ciclica è propria del mondo classico ma in Bruno coesiste con la visione
apocalittica tipica della tradizione giudaico-cristiana. La loro sintesi avviene nel concetto di “tempo
vicissitudinale”, non c'è né un tempo lineare né uno ciclico, c'è un ciclo con infiniti tempi. Le vicissitudini si
alternano, nascono l'una dall'altra. Erasmo da Rotterdam la vicissitudine la intende come passaggio ma
soprattutto gli dà una dimensione giocosa, piacevole. Bruno prenderà proprio questa connotazione: il
piacere sta nel cambiamento; la stasi è noia. Il furioso è colui che pensa sempre al dopo senza apprezzare il
cambiamento: è la dinamis il cambiamento.

La cena de le Ceneri, Dialogo I


Il Nolano […] ha disciolto l'animo umano e la cognizione, che era rinchiusa nel carcere de l'aria turbulento;
onde a pena, come per certi buchi, avea facultà de remirar le lontanissime stelle, e gli erano mozze l'ali, a
fin che non volasse ad aprir il velame di queste nuvole e veder quello che veramente là su si ritrovasse, e
liberarse da le chimere di quei, che, essendo usciti dal fango e caverne de la terra, quasi Mercuri ed Apollini
discesi dal cielo, con moltiforme impostura han ripieno il mondo tutto d'infinite pazzie, bestialità e vizii,
come di tante vertú, divinità e discipline, smorzando quel lume, che rendea divini ed eroici gli animi di nostri
antichi padri, approvando e confirmando le tenebre caliginose de' sofisti ed asini.

De umbris idearum (= Le ombre delle idee) ed. Adelphi 2004, p. 23

Filotimo. La provvidenza degli dèi – dissero i sacerdoti egizi – non cessa d’inviare agli uomini, in tempi
stabiliti, certi Mercuri, pur sapendo già che saranno male accolti o rifiutati. Nemmeno l’intelletto, al pari di
questo sole sensibile, cessa di risplendere
perché non tutti né sempre ce ne accorgiamo.
Logifero. Non avrei difficoltà a consentire con quanti ritengono che opere simili non debbano essere
divulgate. Sento invece che Filotimo ne dubita: ma se avesse udito con le proprie orecchie quanto abbiamo
udito noi, certo preferirebbe gettarle a bruciare nel fuoco piuttosto che curarne la pubblicazione. Fino ad ora
queste carte hanno procurato all’autore un raccolto tutt’altro che lieto e non so cos’altro di buono potrà
adesso sperare per il futuro: fatta eccezione per pochissimi, di per sé capaci di intenderle, nessuno potrà
infatti giudicarle in modo corretto.

In un intreccio straordinariamente forte tra biografia e filosofia, in Bruno appaiono collegati in modo
diretto due punti centrali per la sua riflessione:
• la consapevolezza di un proprio ruolo mercuriale nella «ruota del tempo»;
• un giudizio sul proprio tempo storico quale epoca di crisi universale e di degenerazione finale del
ciclo ebraico-cristiano.

La «ruota del tempo» per Bruno

<<…Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che non può mutarsi,
un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesmo. Con questa filosofia l'animo mi
s'aggrandisse, e me si magnifica l'intelletto. Però, qualunque sii il punto di questa sera ch'aspetto, si la
mutazione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano la notte:
tutto quel ch'è, o è cqua o llà, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi…>>

Bruno, Candelaio, Alla Signora Morgana


B.

La vicenda ciclica del sapere

La rivendicazione dell’universo infinito, omogeneo, pieno di mondi infiniti, comporta la morte del mondo
aristotelico (finito, unico, gerarchico, con la Terra vile e immobile al centro), sostituito dalla nuova
immagine bruniana dell’universo: «Et in questi libri particularmente si può veder l’intenzion mia e quel che
ho tenuto; la qual insomma è ch’io tengo un infinito universo, cioè effetto della infinita divina potentia,
perché io stimavo cosa indegna della divina bontà et potentia, che possendo produr, oltra questo mondo
un altro et altri infiniti, producesse un mondo finito. Sì che io ho dechiarato infiniti mondi particulari simili a
questo della terra; la quale con Pittagora intendo uno astro, simile alla quale è la Luna, altri pianeti et altre
stelle, le qual sono infinite; et che tutti questi corpi sono mondi et senza numero, li quali constituiscono poi
la università infinita in uno spatio infinito; et questo se chiama universo infinito, nel quale sono
mondi innumerabili.»

Non si tratta però di un evento escatologico, che accade alla fine dei tempi, come è stato interpretato
dalla tradizione cristiana, bensì di una riscoperta della vera realtà dell’universo e della Terra come era
conosciuta nel ciclo storico precedente a quello delle ‘tenebre’ aristotelico-cristiane.

Bruno recupera questo schema, ma lo rielabora, a favore della compenetrazione e coesistenza di entrambi
i registri. Nella sua concezione del tempo, e in alcuni temi ad essa connessi strutturalmente – nascita,
progresso, Apocalisse, rinnovamento –, Bruno oltrepassa questo dualismo e le sue opposizioni. Nel
superamento bruniano della distinzione tradizionale del tempo è centrale la nozione di vicissitudine: tempo
ciclico e tempo lineare trovano infatti una mediazione proprio nel concetto di ‘tempo vicissitudinale’, che
intreccia eternità e finitezza. Si tratta di un concetto che perviene alla cultura del Rinascimento dalla
letteratura latina classica, dove vicissitudo (voce derivata da vicis = cambiamento per alternanza o
vicendevole) designa sostanzialmente tre cose:

1. Il cambiamento e la mutazione in generale come caratteristica strutturale della natura (e in questo


senso appare associata in Cicerone al moto della Fortuna e alla successione dei reggimenti politici);
2. L’alternanza regolata tra contrari e elementi di una serie ( es. giorno e notte);
3. La trasmutazione reciproca degli elementi.

Omnium rerum vicissitudo est, iucunda vicissitudo rerum.

In questi due adagi erasmiani sono raccolti motivi che risulteranno poi centrali in Bruno:

• «Nelle realtà mortali non si dà nulla di perpetuo, nulla di stabile, ma tutte le cose vanno e
vengono, come il flusso e il riflusso dell’acqua nell’estuario di un fiume. […] Circolo delle cose
mortali […]».

• Come in Aristotele (Retorica, I, 137), il piacere consiste nel movimento, nel cambiamento,
mentre al contrario la stabilità produce sazietà e dispiacere. Per questa ragione la natura si trova
in perpetuo movimento («La vicissitudine di tutte le cose appare piacevole […], dato che non può
darsi nulla di così piacevole da non risultare, a lungo andare, nauseante; nulla di così pregevole da
poter piacere a lungo restando inalterato»).

< Talché se ne li corpi, materia et ente non fusse la mutazione, varietade e vicissitudine, nulla
sarrebe conveniente, nulla di buono, niente delettevole >>

«La felicità de dei è descritta per il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per il gustare non per aver
gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo et alla bevanda, e non con esser satolli e senza desio
de quelli. Indi, hanno la sazietà come in moto et apprensione, non come in quiete e comprensione, non
son satolli senza appetito, né sono appetenti senza essere in certa maniera satolli».
Eroici furori, Parte II, Dialogo 3

Caratteristica dell’uso bruniano del concetto di ‘vicissitudine’ è l’inserzione del motivo della mutazione
incessante e del cambiamento vicissitudinale (nel senso di un moto circolare, ma anche dell’alternanza tra
contrari) all’interno di una teoria cosmologica generale radicalmente nuova e di una concezione metafisica
rigorosamente definita, in base alla quale la sostanza è una, infinita e immobile, un soggetto indifferente
dove i contrari coincidono.
Essendo un movimento, la vicissitudine non tocca e coinvolge la totalità dell’essere, la sostanza (Dio o
l’universo), che rimane rigorosamente una, infinita, immobile: «È dunque l’universo uno, infinito,
immobile.
[ Oltre, che per comprender tutte contrarietadi nell’esser suo, in unità e convenienza, e nessuna
inclinazione posser aver ad altro e novo essere, o pur ad altro et altro modo di essere, non può esser
soggetto di mutazione secondo qualità alcuna, né può aver contrario o diverso che lo alteri» (De la
causa, principio et uno).
La vicissitudine, dunque, si dà nell’ambito delle nature particolari, degli infiniti modi finiti che si trovano in
movimento o mutazione incessante: «[la materia di cose inferiori] con certa vicissitudine per le parti, si fa
tutto; et a tempi e tempi, si fa cosa e cosa, però sempre sotto diversità, alterazione e moto».
Come movimento delle parti dell’unica sostanza, la vicissitudine si presenta sia al livello del
macrocosmo, sia al livello del microcosmo.
Nel macrocosmo, nell’ambito della conservazione dell’identità della natura: esempio della Terra, che
persevera nel suo essere proprio attraverso vicissitudini innumerevoli: «è cosa conveniente e necessaria
che il moto della Terra sia tale, per quale con certa vicissitudine dove è il mare sia il continente, e per il
contrario».
Nei singoli microcosmi, comportando la trasformazione o metamorfosi in altro «volto» della sostanza. Negli
Eroici Furori, immagine della ‘ruota delle metamorfosi’, strettamente associata alla metempsicosi o
metasomatosi.
Il «fato della mutazione» è dunque una manifestazione universale della natura, anzi la legge
fondamentale della natura, espressione del dispiegarsi della potenza divina infinita, senza escludere il
mondo umano e la storia, come dimostrano le «vicissitudini delle scienze e virtudi, bestialitadi et inerzie»
evocate nella Cabala. In un universo non creato nel tempo eppure dipendente da Dio, in un complesso
rapporto di implicazione, rappresentazione e specularità, la potenza divina agisce nella storia non
attraverso una creazione scandita e circoscritta dal tempo, ma dipanando il movimento della vicissitudine.
Conseguentemente con questa dimensione, la vicissitudine è precisamente lo strumento o il mezzo per
il quale l’universo (la divinità esplicata) raggiunge la sua causa finale, la sua perfezione, «la quale è che
in diverse parti della materia tutte le forme abbiano attuale esistenza: nel qual fine tanto si deletta e si
compiace l’intelletto, che mai si stanca suscitando tutte sorte di forme da la materia».
Anche i movimenti della Terra vanno interpretati in questa prospettiva. Essi sono infatti causati dall’anima
intelligente della Terra per raggiungere il fine della «rinnovazione e rinascenza di questo corpo [de la
Terra]» e degli individui particolari in essa viventi. Al di là delle connessioni astronomiche, si tratta anche
di movimenti fisici di carattere geologico che mutano le condizioni dell’organismo terrestre nella
prospettiva della vicissitudine universale, allo scopo di permettere la piena realizzazione di tutte le
potenzialità, l’esistenza in atto di tutte le forme possibili: «la causa del moto locale […] è il fine della
vicissitudine, […] perché con tal mezzo tutto abbia tutte disposizioni e forme».
Attraverso la vicissitudine associata al suo movimento composto e complesso, la Terra (come, in generale,
tutti gli astri) riesce a mantenersi nell’essere, evitando la morte e la dissoluzione: «le sustanze che non
possono perpetuarsi sotto il medesimo volto, si vanno tutta via cangiando di faccia […] in vari istanti di
eternità, successiva e vicissitudinalmente». Tuttavia: «[La sostanza] giammai cangia o varia l’esser suo,
ma circa lei è ogni varietà e mutazione».
La vicissitudine, dunque, non è solo sinonimo di tempo ciclico, cioè della dimensione finita e passeggera di
ciò che è soggetto al tempo in opposizione a ciò che, essendo eterno, vi si sottrae, ma è una sorta di nuova
qualità del tempo. Se la materia vitale infinita è il principio infinitamente differente da cui tutti gli enti
scaturiscono, ne deriva che la vicissitudine, che connota il ritmo del prodursi infinito delle differenze, ne
rappresenta un tratto essenziale. Nel vortice della vicissitudine, l’alternanza di stati, condizioni e situazioni,
a tutti i livelli, non avviene in base a un semplice processo di superamento e sostituzione: ciò che scompare
resta presente, perché ciò che muta è contenuto in una struttura costante.

La verità per PARMENIDE


Secondo Sesto Empirico, Parmenide stabilisce un discrimine netto tra il «saldo edificio della scienza»,
l’«animo della verità ben rotonda», da un lato, e «tutto il campo delle opinioni dei mortali, che non è
saldo», dall’altro. Alla verità corrisponde «ciò che realmente è», l’intelligibile; all’opinione, «ciò che
diviene, il sensibile, che non credettero di chiamare essere assoluto, ma essere apparente». Ragion per cui
dicono che «dell’essere c’è verità, di ciò che diviene opinione».

La verità per PLATONE

VERITA’ ≠ OPINIONE

«Del pensiero si può sempre rendere conto razionalmente secondo verità; dell’altra, invece, [cioè
dell’opinione] non si può rendere conto razionalmente». In Platone, a queste due configurazioni
diverse della conoscenza umana fanno da contraltare «un genere di realtà sempre identico, ingenerato
e incorruttibile […], invisibile e impercettibile agli altri sensi» e «un secondo genere di realtà, sensibile,
generato e sempre in movimento che nasce in qualche luogo e lì successivamente si corrompe», e che si
coglie con l’opinione, connessa alla sensazione. Questo nesso tra verità, mondo intelligibile e intelletto,
presente nel Timeo, si riscontra anche in altri dialoghi platonici. Ad esempio nel Fedone, dove alla
convinzione che i sensi del corpo «non hanno niente di preciso né di sicuro» si accompagna l’idea che
«esclusivamente nel puro ragionamento […] si rivela all’anima la verità». Dunque, la verità assoluta non
può essere oggetto dei sensi, ma del solo pensiero, che concentrandosi su se stesso deve trascendere i
turbamenti provenienti «da occhi e da orecchi e insomma da tutto il corpo» per «acquistare verità e
intelligenza», facendo riaffiorare la «comunanza tra l’anima e le idee».

La verità nella BIBBIA

VERITA’ ≠ VANITA’

Già nell’Antico Testamento si parla di un «Dio di verità», le cui parole sono sempre aderenti alla realtà
delle cose, in opposizione alla vanità di quanti non sanno affidarsi alla misericordia divina. La verità è un
luogo della comunicazione tra Dio e uomo. È il dono della comprensione profonda della realtà delle cose
che Dio concede a chi gli si rivolge con fede. Un concetto, questo, destinato a diventare centrale nel Nuovo
Testamento, soprattutto in relazione alla funzione mediatrice di Cristo. Nel Vangelo di Giovanni Cristo è
presentato come «luce vera, che illumina ogni uomo», incarnazione della verità divina che si fa strada nel
mondo e si manifesta pienamente agli uomini, indicando loro la via della salvezza.

Giovanni 14,6
«Io sono la via, la verità e la vita, e nessuno può giungere al Padre mio, se non attraverso di me».

Il rapporto di Bruno con il concetto di ‘verità’

In questa concezione ciclica, vicissitudinale del tempo, la Verità assume un ruolo fondamentale, e
decisamente complesso. Bruno costruisce e innesta la propria riflessione sulla verità su due piani distinti,
ma strettamente intrecciati, il piano della VERITA’ ASSOLUTA e quello della VERITÀ COMUNICATA.
Spaccio de la bestia trionfante, Epistola esplicatoria
La Verità […] è più alta e degna de tutte cose: anzi la prima, ultima e mezza; perché ella empie il campo
de l’Entità, Necessità, Bontà, Principio, Mezzo, Fine, Perfezzione. Si concepe ne gli campi contemplativi
metafisico, fisico, morale, logicale.

Esiste la Verità Assoluta, “la più degna a alta di tutte le cose”, si identifica con l’Essere e riempie tutti i
campi. La verità assoluta e la stessa unità divina. A fianco a questa c'è il piano della verità comunicata. Essa
partecipa di quella Assoluta formando con lei un circuito, da questa verità parziale si può tendere verso
quella assoluta. Noi però non potremo mai conoscere l’Assoluto, ma solo ciò che la natura ci comunica di
esso. L'essere dell'anima e ineffabile al di fuori della sua manifestazione nelle cose.

SBT Dialogo III, Parte II


SOFIA: Talmente dunque quel dio, come absoluto, non ha che far con noi; ma per quanto si comunica alli
effetti della natura, ed è piú intimo a quelli che la natura istessa; di maniera che se lui non è la natura istessa,
certo è la natura de la natura; ed è l'anima de l'anima del mondo, se non è l'anima istessa.


V.ASSOLUTA Da un lato, la verità indica un attributo divino, che nell’assoluta semplicità del primo
principio si identifica con l’unità, la bontà, il principio stesso dell’essere.


V.COMUNICATA Dall’altro lato, nel mondo della natura e del finito, la verità rappresenta il predicato
in virtù del quale una certa affermazione è considerata vera; un predicato che si riferisce all’aderenza
della conoscenza umana all’effettiva realtà delle cose.

Tra l’uno e l’altro livello di specificazione della verità non si dà una distanza incolmabile. Piuttosto la verità
superiore, che è «causa delle cose, e si trova sopra tutte le cose», rappresenta il fondamento eterno e
immutabile di quella inferiore, che ne incarna il comunicarsi secondo modalità e livelli differenti.

→ →
COMUNICATA NELLE COSE VERITA’ COMUNICATA COMUNICATA DOPO E DALLE COSE

VERITA’ COMUNICATA ORDINE CHE REGOLA LA VITA NELL’UNIVERSO + CONOSCENZA DELLA REALTA’
NATURALE NEL MONDO INTERIORE DELL’UOMO


ORDINE DELLE COSE ORDINE DELLE IDEE
Per l’uomo cercare la verità significa certo tentare di individuare l’unità posta oltre la molteplicità,
«profondare alla cognizione di questa unità et indifferenza de la costante natura et essere».
Ma l’uomo, per Bruno, anche se alla verità «in ogni tempo, in ogni etade et in qualsivoglia stato che si trove
[ sempre aspira», non può mai attingerla in maniera immediata, né in maniera completa.
Nella sua filosofia, la ricerca della verità assume dunque la forma di una “caccia” incessante, di un
cammino svolto in quella dimensione ‘umbratile’ che circoscrive la conoscenza dell’uomo, ormai privo di
una collocazione privilegiata nel cosmo.

Bruno, De la causa, principio et uno, Dialogo II


<<… Ecco dunque, che della divina sustanza, sí per essere infinita sí per essere lontanissima da quelli effetti
che sono l'ultimo termine del corso della nostra discorsiva facultade, non possiamo conoscer nulla, se non
per modo di vestigio, come dicono i platonici, di remoto effetto, come dicono i peripatetici, di indumenti,
come dicono i cabalisti, di spalli o posteriori, come dicono i thalmutisti, di spechio, ombra ed enigma,
come dicono gli Apocaliptici…>>
«Thalmutisti» = Esodo 33, 20-23
Disse ancora: «Tu non puoi vedere il mio volto, perché l'uomo non può vedermi e vivere». E il Signore disse: «Ecco qui un luogo
vicino a me; tu starai su quel masso; mentre passerà la mia gloria, io ti metterò in una buca del masso, e ti coprirò con la mia mano
finché io sia passato; poi ritirerò la mano e mi vedrai da dietro; ma il mio volto non si può vedere».

«Apocaliptici» = Prima lettera ai Corinzi 13,12


Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in
modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.

LA CELEBRAZIONE DELLA VERITÀ NELLO SPACCIO:

Nello Spaccio Bruno ripropone lo stesso schema per mostrare la centralità e, allo stesso tempo, la pervasività
di una verità che, identificandosi con la divinità stessa, è insieme fondamento dell’esistenza delle cose, del
loro ordine e della loro intelligibilità: La verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose; è
sopra tutto, con tutto, dopo tutto: ha raggione di principio, mezzo e fine. (Dialogo II),
La «dea Veritade» nell’«eminentissima sedia»

Dialogo II
SOFIA: […] Sopra tutte le cose, o Saulino, è situata la verità; perché questa è la unità che soprasiede al tutto,
è la bontà che è preeminente ad ogni cosa; perché uno è lo ente, buono e vero; medesimo è vero, ente e
buono. La verità è quella entità che non è inferiore a cosa alcuna; perché, se vuoi fengere qualche cosa
avanti la verità, bisogna che stimi quella essere altro che verità; e se la fingi altro che verità,
necessariamente la intenderai non aver verità in sé ed essere senza verità, non essere vera; onde
conseguentemente è falsa, è cosa de niente, è nulla, è non ente. Niente può essere prima che la verità.
Cossí non può essere altro insieme con la verità, ed essere quel medesimo senza verità; percioché, se per
la verità non è vero, non è ente, è falso, è nulla. È ideale, naturale e nozionale; è metafisica, fisica e logica.
Sopra tutte le cose, dunque, è la verità […]. Per questa causa, dunque, raggionevolmente Giove ha
voluto che nella piú eminente parte del cielo sia vista la veritade.
SAULINO […]. Degnamente, o Sofia; perché la verità è la cosa piú sincera, piú divina di tutte; anzi la
divinità e la sincerità, bontà e bellezza de le cose è la verità.

[…]

La Sofia, come la verità […], è di due specie: l’una è quella superiore, sopraceleste ed oltremondana, se
cossí dir si puote; […] che è la luce istessa. L'altra è la consecutiva, mondana ed inferiore; e non è verità
istessa, ma è verace e partecipe della verità; non è il sole, ma la luna, la terra ed astro, che per altro riluce.

La Verità può conoscere l’oblio? No, dice Bruno, essa è eterna e non può essere sottratta con la violenza.
Inoltre la verità non invecchia, essa è al di sopra del tempo e non patisce diminuzione. Come fosse il fuoco
di una candela la verità può accendere molte menti senza per questo venire diminuita d’intensità. Quando
viene combattuta essa acquista forza legandosi alla compagnia di pochi sapienti e odiando la moltitudine
addirittura. La Verità è dunque per pochi poiché la sua ricerca richiede impegno e fatica fino al dolore. C’è
ovviamente sullo sfondo la sua vicenda biografica e il discorso sui mercuri. Accanto alla Verità c’è dunque
la Sofia, la Sapienza, la Verità comunicata, che non si identifica con la Verità stessa ma ne partecipa, come
la luna col sole. La Verità comunicata segna l’ineliminabile passaggio sul piano della vicissitudine, il ritmo
della sostanza. In questa vicissitudine, anche a causa del discorso sui cicli, noi non siamo più in grado di
rapportarci in maniera completamente limpida con la Verità, come ci fosse uno schermo, che rappresenta
gli errori, le superstizioni ecc. Per superare questo ostacolo dobbiamo superare lo scoglio dei sensi che
sono parzialmente causa di questo intorbidimento della Verità, questo lo possiamo fare solo legandoci
all’intelletto.
È molto più facile seguire il flusso delle false verità piuttosto che nuotare controcorrente. Per poter fare
questo Bruno ribadisce l’utilità di strumenti non sempre canonici come ad esempio la già citata
dissimulazione per tutelare la Verità. C’è quasi un carattere aristocratico o comunque elitario della
Sapienza in riferimento alla Verità, che va cercata al di fuori dell’orizzonte comune e volgare. Nella Cena
delle ceneri Bruno porta la sua riflessione sulla Verità nella prospettiva delle Scritture. L’eliocentrismo è una
verità nonostante in superficie vada contro le Scritture. Infatti si tratta di ambiti distinti: i precetti delle
Scritture sono di carattere civile e sociale. La filosofia invece cerca altro: la regola di contemplazione come
ricerca dei principi più alti. La conquista ultima della Verità è una sorta di illuminazione istantanea, appare
come la luce del sole, con come graduale. Tuttavia c’è un percorso di ricerca che precede questa
illuminazione istantanea: può apparire solo a chi la ricerca. Colui che cerca questa Verità sta ad un tempo
dentro e fuori dalla società e per questo la sua è una situazione complicata

[Della DISSIMULAZIONE] talvolta sogliono servirsi anco gli dèi: perché talora per fuggir invidia, biasmo et
oltraggio, con gli vestimenti di costei la Prudenza suole occultar la Veritade. [la studiosa Dissimulazione]
a cui Giove fa lecito che talvolta si presenti in cielo, e non già come Dea, ma come tal volta ancella della
Prudenza, e scudo della Veritade.

La verità in Niccolò CUSANO

Anche per Cusano «la verità è tutto ciò che può essere e non è né aumentabile, né diminuibile, ma è
eternamente permanente». La verità rappresenta «ciò che rende vero sé e tutte le cose», fondamento
dell’esistenza e, nello stesso tempo, dell’intelligibilità degli enti. Ma Cusano rappresenta un punto di
riferimento importante per Bruno soprattutto per quanto riguarda l’individuazione di un limite preciso alle
possibilità umane di raggiungere la verità. La comprensione della verità per un verso rappresenta il destino
stesso dell’uomo; per un altro verso, non può darsi che in modo indiretto, «in immagine», come sia Cusano
che Bruno non si stancano di ripetere. Per sviluppare il suo ragionamento, Cusano parte da un presupposto
preciso: la conoscenza umana procede sempre in maniera discorsiva e comparativa. La ragione mette in
relazione e confronta i dati della realtà, cercando di comprendere i rapporti logici che collegano fra loro gli
enti finiti attraverso una catena di proporzioni, paragoni e collegamenti tra quello che è noto e quello che è
ignoto, quello che è certo e quello che è incerto.
«Ma l’infinito, in quanto infinito, poiché si sottrae a ogni proporzione, ci è sconosciuto».
Questo procedimento proporzionale e comparativo, dunque, non riuscirà mai a farci cogliere Dio, che è
il fondamento ontologico dell’intera realtà e l’infinito in atto, vale a dire l’essere in cui tutte le possibili
proprietà sono realizzate nella forma più piena e completa. In quanto tale, Dio si sottrae a ogni sforzo
conoscitivo dell’uomo e rimane indecifrabile, impenetrabile alla nostra ragione.
Egli è per noi un «Dio nascosto» – come recita il titolo di un dialogo cusaniano –, inaccessibile proprio in quanto
incommensurabile e sottratto a ogni forma di correlazione, a ogni riduzione nei canoni della logica umana, che
opera nell’ambito del finito e si fonda sul principio di non contraddizione. Nessun concetto riesce a definire, a
“catturare” l’essenza di Dio, perché egli non esclude nulla, ma concentra tutto in sé e dà origine a ogni cosa. In
lui le cose esistono nella sua unità semplicissima (anteriore a ogni forma di distinzione) e senza alcuna
opposizione tra loro. La mente umana, quindi, di fronte all’idea di Dio, può solo intuire (grazie alla potenzialità
dell’intelletto, in grado, per alcuni aspetti, di intravedere e oltrepassare i limiti della ragione), senza poter
comprendere, che in lui si realizza quella composizione dei contrari, quella coincidenza degli opposti che la
logica classica tradizionalmente esclude e la mente umana non riesce neppure a pensare. L’uomo, di fronte
all’inattingibile infinità di Dio, deve consapevolmente rifugiarsi nella dotta ignoranza, vale a dire in una
consapevole ammissione di insufficienza e di inadeguatezza dei suoi
strumenti concettuali. Tuttavia, la consapevolezza del carattere limitato e provvisorio della conoscenza non
comporta una svalutazione del sapere umano. Al contrario, Cusano dà al concetto di congettura (che è la
conoscenza di cui l’uomo è capace) una connotazione positiva. Come qualsiasi prodotto delle facoltà
umane, la congettura è conoscenza parziale, limitata, determinata, mai coincidente con la verità degli enti
reali; eppure, si tratta di una conoscenza che in qualche modo partecipa della verità.
Questo perché la verità assoluta rimane sempre trascendente e nascosta, ma si rivela in ognuna delle sue
manifestazioni finite e parziali. La verità si frantuma nella molteplicità e nell’alterità: eppure, ogni
frammento, ogni congettura riflette un aspetto o un momento della stessa verità. E anzi è proprio in quanto
origine delle congetture che la mente umana si mostra in qualche modo partecipe dell’infinità creativa di
Dio.

Carannante: Doppia Verità nel Rinascimento


Bruno distingue 2 ambiti della conoscenza: filosofia della natura e leggi morali. Attraverso la consuetudine
si distingue chi può dedicarsi alla filosofia e chi no. La consuetudine impedisce alle persone di accedere
alla verità. La consuetudine trasforma malignamente il veleno dell’ignoranza in gustoso nutrimento. Per
questo i filosofi sono più restii a sviluppare una fede sufficientemente salda, perché non si bevono questo
veleno. C'è un baratro tra il mondo dei filosofi e quello degli altri. Entrambi hanno le loro verità le quali
possono scontrarsi o essere addirittura incompatibili come afferma Averroè.
Già Aristotele stesso era dovuto a passare in questo vaglio per poter essere accettato. Aristotele per
Averroè si discosta sia nell’idea di creazione che nella dottrina dell'anima dalle Scritture. Sigieri di Brabante
si rende conto di quanto filosofia e religione siano incompatibili. Dobbiamo accettare questo: lui sostiene,
in accordo con Aristotele, che l'universo non sia stato creato, dà un'interpretazione mortalistica del De
Anima di Aristotele. Nel medioevo c'era però la volontà di parificare le 2 verità, ciò cambierà nel ‘500 in cui
si cercherà invece di far valere solo la verità della filosofia. A questo si oppone Tommaso d'Aquino che
invece sosteneva la possibilità di accordare la filosofia di Aristotele con la fede cristiana. Siccome sia la
ragione che la fede derivano da Dio, non si può dare diversità, significherebbe che Dio in uno dei due casi
dica il falso. Il problema sta ovviamente nel cattivo uso della ragione che si fa nella filosofia, in particolare in
quella aristotelica. Proprio in questo con testo si sviluppa il tema della doppia verità. Spesso chi sosteneva
l'esistenza di questa celava, con questa corrispondenza, quello che era in realtà un rifiuto della verità di
fede. Raimondo Lullo dunque sosterrà l'impossibilità di ammettere questa dicotomia.
Il campo di battaglia sarà quello dell'esegesi di Aristotele. Leone X condannerà addirittura chi si permetterà
di avanzare dubbi sull'immortalità dell'anima. Pomponazzi era stato accusato di eresia per avere insegnato
delle interpretazioni di Averroè della filosofia aristotelica. Pomponazzi stesso divideva mondo dei filosofi e
mondo della vita associata. Egli si chiedeva semplicemente se Aristotele potesse convivere aderentemente
con la Scrittura, e la sua risposta è sostanzialmente negativa. Sulla base di uno studio fenomenologico
sostiene che nell'uomo prevalga maggiormente la parte mortale. Senza affermarlo chiaramente
Pomponazzi sostiene la non aderenza delle Scritture al lume della ragione. La sua tesi è dunque abbastanza
radicale. Quella della doppia verità rappresenterebbe dunque solo un passaggio dell’argomentazione che si
concluderebbe invece con un trionfo della verità filosofica. I dogmi della fede sarebbero delle sorta di
“apologhi” neanche passabili di un giudizio di verità o falsità. La verità infatti è un ambito di ricerca aperto
solo ai filosofi. Ricordiamo che Bruno non avrà invece la volontà di mettere Aristotele al centro della sua
filosofia. Quando Bruno sosterrà la sua tesi citando Averroè, attribuirà per un motivo di dissimulazione,
quelle tesi ad Al Khazari. Solo successivamente Bruno sosterrà un possibile accordo tra legge religiosa e
filosofia, laddove si intende la creazione di una nuova religione che sia espressione della filosofia di Bruno.
Bruno spesso dà l'idea di usare “teologia”, “legge” e “religione” come sinonimi. Lui usa solitamente l'idea di
doppia verità per separare, circoscrivere ed isolare le sue riflessioni più problematiche nell'ambito della
filosofia. Spesso alcune sue tesi le nasconde come opinioni altrui. Un altro metodo di simulazione è
quello di degradare il dibattito a delle mere differenze lessicali.

MICHELE CILIBERTO
LA RUOTA DEL TEMPO

Introduzione.

Negli ultimi tempi, in seguito a un’opera di F.A. Yates si è imposta l’immagine di Bruno come “mago
ermetico”, in questo modo, assorbita da uno stereotipo, la sua figura si è eccessivamente semplificata: alla
visione laica, scientifica e progressiva si è sostituito l’altro mito del Bruno magico, religioso e spirituale. La
verità è invece che il pensiero del nolano è segnato da uno sviluppo originalissimo che intreccia costanti e
mutamenti, Ciliberto parla di veri e propri “cicli”.
Una costante è sicuramente l’idea della decadenza dell’umanità: c’è bisogna di una riforma etico-religiosa
in senso civile perché si possa dare un progresso filosofico e scientifico. Oggetto polemico sono in
particolare le prospettive pedanti e asinine che intrappolano nell’ozio la religione, queste impediscono una
totale renovatio mundi. Bruno fa questo ricostruendo il primato della fatica, la base solida scientifica da cui
poi arriverà alla magia.
Egli rimane comunque estraneo alle tematiche teologiche in senso stretto, c’è sempre una connessione alla
morale della società civile; nondimeno si sforza di trovare compromessi con le Chiese. Bruno è sicuramente
segnato da una asimmetria rispetto ai pensatori suoi contemporanei, era un riformatore in tutti i sensi,
segnato da una vita a metà tra il caso e la volontà. Non essendoci un percorso univoco nella lettura del
corpus bruniano si dovrà procedere per topoi caratteristici.

Archetipi: asinità e pedanteria.

Questi due archetipi s’intrecciano nell’ambito della problematica etica e ne assumono un ruolo filosofico
fondamentale nella critica contro il cristianesimo paolino e luterano. La pedanteria incarna una visione
innaturale e oziosa della vita, dietro il personaggio di Manfurio, che rappresenta questo vizio nel
Candelaio, si nasconde proprio Lutero. Pedanteria, asinità e cristianesimo, inizialmente indipendenti l’una
dall’altra, si incontrano nel corso dell’opera di Bruno: perché la religione possa rinascere la ruota del
tempo impone che la pedanteria finisca. I rapporti tra Bruno è la religione tradizionale sono vari e oscillano
tra il polemico e il concordista.
I pedanti son prima di tutto i pedagoghi ginevrini, i quali atteggiamenti verranno ripresi nello Spaccio
della Bestia Trionfante. La polemica è connessa allo slittamento dal problema gnoseologico a quello
cosmologico. Il pedante standard è legato indissolubilmente alla filosofia aristotelica e alla cosmologia
tolemaica, e difende queste teorie rifacendosi grammaticalmente al testo biblico. In ultima istanza lo
stesso asino sbeffeggiato nella Cabala del Cavallo Pegaseo è proprio Lutero, al contrario il pedante del
Candelaio è una degenerazione puramente letteraria ed estranea alla tematica scientifica, questi ultimi
fanno quasi ridere al contrario di Lutero. I pedanti dello Spaccio pericolosi ingannatori: «Sileni alla
rovescia». Non si può negare l’influsso dell’Elogio alla Follia in queste figure bruniane. I pedanti letterari
sono grammatici che parlano volutamente in modo contorto, si tratta di personaggi grotteschi e
caricaturali, solo successivamente emerge il carattere vizioso del loro operare poetico.
Stranamente il luogo dell’asinità religiosa è assente nella commedia del Candelaio, nonostante sia pregna
di battute contro la religione. Se in questa commedia il tema della giustizia come legame tra uomo e Dio è
sbeffeggiato, nello Spaccio viene riattualizzato: gli dei hanno donato le leggi agli uomini perché potessero
ben vivere; la divinità nello Spaccio non è più disinteressata. Il culto divino ha quindi il bene vivere come
obiettivo, la religione ha quindi qui un’utilità sociale, nel Candelaio questa prospettiva manca totalmente.
Ma vi è una differenza anche con la Cena delle ceneri e nel De infinito dove la religione è semplicemente
uno strumento per il controllo del rozzo popolo, nello Spaccio parliamo della religione come una
dimensione sociale universale, che ha per tutti valore fondamentale. Una buona religione è necessaria a
un buono Stato, ma tale è una religione che sappia unire il tema civile, come quella dei Romani, col tema
della natura, come quella degli Egizi. Se nella Cena i diversi pani di realtà venivano distinti, nello Spaccio
abbiamo un ritorno all’unità, una ricomposizione, la legge ridiventa un affare divino, non semplicemente
riducibile a dinamiche di potenza tra individui. Bruno per ora non arriva comunque a una distinzione netta
tra il campo della scienza e quello della fede.
Bruno muoverà quindi la riflessione verso il testo biblico dove troverà conferme della sua visione
umbratile della conoscenza esposta nel De umbris idearum: la condizione conoscitiva umana è dunque
instabile, egli ha bisogno di una mediazione per avvicinarsi alla verità e dunque a Dio, l’ombra infatti non è
né tenebra né luce. Qui espone anche la teoria dell’eternità e dell’immutabilità di quella sostanza che è
l’idea. In questo testo si cerca di trovare un terreno di concordanza con la Scrittura, non è comunque
impossibile stabilire punti di contatto col testo del Candelaio, quale il tema della vicissitudine. La
commedia serve in qualche modo a introdurre, illuminando sarcasticamente la folle pedanteria teologica,
alle ombre del De umbris. L’anarchia del Candelaio non deve oscurare la tendenza all’ordine e all’armonia
tipica del nolano. In questo testo c’è inoltre in nuce la distinzione tra una buona e una cattiva allegoria.
La categoria dell’asinità è trattata a partire dalla Cabala seppur già nelle prime opere si parlava degli asini
come paradigma di rozzezza. Asinità e pedanteria nell’opera di Bruno si intrecciano tanto da essere
necessari l’uno all’altro per una adeguata comprensione, riferiti alla religione cristiana in particolare alla
Chiesa riformata. Bruno era ben cosciente del carattere decisamente poco ortodosso di questa categoria
(ben peggio della pedanteria) che sarebbe poi stata ricordata nelle accuse di Mocenigo. L’asinità
rappresenta infatti lo sviluppo “metafisico” della pedanteria: un atteggiamento pedante verso lo studio
conduce inevitabilmente alla decadenza del mondo, la santa ignoranza, il contrario della curiosità.
Condurre asininamente uno studio vuol dire, tra le altre cose, perdere di vista gli elementi importanti per
concentrarsi sulle inezie. I due rappresentanti sono ancora una volta Lutero e san Paolo.
A questo proposito è possibile che il testo perduto dell’Arca di Noè fosse proprio uno stimolo al
rinnovamento contro questa tradizione. Bruno inoltre opererà varie modifiche alla Cena per alleviare i
riferimenti all’asinità, specialmente nei momenti in cui viene usato come paradigma morale. Tra i rapporti
fondamentali quanto problematici che Bruno intratteneva c’era quello con gli studiosi di Oxford. L’Arca di
Noè fu dedicata a Pio V e presentava infatti spunti antiprotestanti: all’inizio il tema dell’asinità è rivolto
unicamente contro di questi, seppur ci fossero già elementi dell’antipaolinismo, considerato in rapporto
strettissimo con la Chiesa Riformata. L’ignoranza asinina è quella che permette più facilmente di
conformarsi alla Scrittura senza approcciarvisi criticamente.
Un altro autore col quale Bruno intrattiene un rapporto complesso è sicuramente sant’Agostino, Bruno lo
conosce profondamente e lo cita per supportare le sue posizioni antitrinitarie. Al contrario sia nello
Spaccio che nella Cabala criticherà fortemente il filosofo di Tagaste per le sue posizioni antiscientifiche,
rientrerebbe dunque a pieno titolo tra gli asini cristiani. Al contrario si servirà di Agostino per la critica alla
concezione aristotelica della materia come nuda potenza, per portarla invece a una dimensione positiva.
Da Parigi a Oxford.

Il De umbris è il libro archetipo della filosofia nolana specialmente poiché da esso emergono aspetti
fondamentali della sua ricerca gnoseologica sviluppata nella prospettiva neoplatonica, oltre alla concezione
dell’ordine universale, del ciclo vicissitudinale, il motivo della conoscenza umbratile la problematica
ermetica, la distinzione tra Dio, universo e uomo ecc. Gli Eroici furori costituiscono una riscrittura di questo
testo che può essere descritto come una sorta di laboratorio della ricerca bruniana. Rimane però tagliata
fuori la problematica morale che inizia ad affiorare nel Cantus Circaeus e nel Sigillus sigillorum. La grande
varietà di temi nel De umbris non ci deve indurre a pensare che Bruno avesse già un’intenzione unitaria e
sistematica.
Dopo la pressa d’atto che quella umana sia una conoscenza umbratile Bruno si sposta verso
un’indagine cosmologica. Fondamentale è qui il concetto di spiritus inteso come:
• Spirito animale e vitale;
• Spiritus in opposizione a caro;
• Spiritus come modo di pensare.
Ma nel De umbris manca ancora l’idea di uno spirito universale, animatore di tutto le cose, contenuto nel
De la causa.
Un tema fondamentale del De umbris è quello dell’ermetismo, viene introdotta infatti la categoria dei
Mercuri. Inizialmente raffigurano personalità unicamente positive (opposte ai Saggitari), mandate dagli dei
per illuminare gli uomini, tali figure vengono però spesso rifiutate e maltrattate dall’umanità. Più avanti,
nella Cena ad esempio, quelle dei Mercuri diventeranno figure più complicate in quanto ingannatori e falsi
profeti della verità, discesi dal cielo per gettare il mondo nel caos. Tale rovesciamento troverà il suo
culmine nello Spaccio dove dei Mercuri si parlerà come figure radicalmente negative, portatrici di tenebre,
metafora dei riformati. Per schematizzare potremmo semplicemente distinguere tra “veri” Mercuri
portatori di concordia e “falsi” Mercuri ingannatori rappresentanti delle tenebre. Il problema principale del
De umbris è infatti proprio quello di mettere luce nella connessione tra il nostro mondo e quello divini della
verità, il rapporto tra ombre e idee. Un motivo predominante in questo discorso sarà quello del carattere
silenico della realtà: niente è come appare, e appare quasi impossibile distinguere l’ombra dalla verità
senza l’intervento divino. Per restaurare la corrispondenza, l’ordine naturale, viene chiamata in causa la
magia, ma il disordine resta sempre in agguato. Rilevante è qui la figura di Circe, la Πότνια Θηρῶν, che
rappresenta le forze positive della natura nell’atto di smascherare gli inganni umani: questo è il senso del
ritmo vicissitudinale, il mutamento, la corruzione. Nel Cantus mancano però riferimenti espliciti al Lutero al
contrario che nello Spaccio dove si passa agilmente dalla dimensione naturale a quella politico-religiosa.
Un altro luogo fondamentale è quello delle mani, le quali rappresentano sia uno strumenti di sopraffazione
dominio sia il mezzo dell’attitudine creatrice e trasformatrice dell’uomo. È la mano che distingue l’uomo
dalle bestie, rendendolo più temibile e pericoloso: ma a Bruno, specialmente nello Spaccio, preme di
sottolineare il suo valore positivo, la mano è un dono degli dei per operare sulla natura oltre di essa. La
mano è condizione della divinità dell’uomo e della sua libertà, è il motore dello sviluppo ciclico della civiltà.
Si contrappone a questa facoltà liberà della manipolazione quella dell’udito, tipica dei servi, che possono
solo obbedire.
Nel Sigillus Bruno matura una concezione unitaria del processo conoscitivo sotto un accento di forte
realismo. Vi è una condanna di ascetismo e misticismo, pratiche oziose, a cui viene legata la riflessione
sulla solitudine, difficilmente ricercata per motivi giusti e degni. Tutta questo si ricollega alla polemica
anticristiana, contro la sua chietineria, al contrario Tommaso D’Aquino viene assunto come esempio tutto
sommato positivo. Va comunque sottolineato che la polemica con la Chiesa controriformata non sarà mai
aspra quanto quella contro la pedanteria paolina e luterana. La Chiesa della Controriforma è malinconica,
in questo quasi grottesca, ma non è la principale responsabile della decadenza: è la differenza tra
malinconici e oziosi. La struttura sacramentale è particolarmente presa di mira, in quanto soffocava
gerarchicamente la possibilità di ben vivere in un pacifico convitto umano.
Questo spiraglio per una possibile convivenza tra la sua filosofia e la religione cristiana cessa dopo
l’esperienza a Oxford, finita con l’accusa di plagio (Ficino) e copernicanesimo. Sarà infatti nella Cena che
Bruno inizierà a calcare sulle differenze incolmabili che intercorrono tra religione e sfera civile. Solo un
lavoro in senso etico-civile può portare all’amore universale, a questo si unisce anche il bisogno di una
libera ricerca cosmologica. In tutto questo Bruno si rivela comunque aperto a una conciliazione, evita se
può le rotture radicali, Ciliberto rifiuta l’idea che vuole il nolano perennemente in rivolta.
In questo senso elabora un concetto di Verità fondato non sulle categorie di corrispondenza o uguaglianza ma
su quelle di utilità e differenza, la verità si dà nel confronto-scontro di diverse teorie per provarne la coerenza
e la ragionevolezza: questo suo studio è approdato nella riscoperta dell’antica verità.

Verità e legge.

La Cena è la prima opera volgare pubblicata da Bruno in Inghilterra, essa si muove nel delicatissimo terreno
tra filosofia e religione. Contro la pedanteria luterana oppone un mondo unitario, animato e infinito: metta
a fuoco questa pluralità attraverso la distinzione tra linguaggio morale e linguaggio naturale all’interno
della Scrittura. La Bibbia non fa speculazioni naturali ma espone la “bontà dei costumi” al volgo in modo
che la possano comprendere. Il linguaggio della legge serve al popolo, quello della verità è accessibile solo
ai sapienti. La legge e il suo linguaggio sono intrinsecamente connessi, sarebbe pazzo uno che pretendesse
di distinguerli applicando quel sistema linguistico ad altri campi, questo lo sapeva bene anche Aristotele:
ogni oggetto ha un suo metodo di studio. Qual è dunque il metodo dell’esegesi biblica? Sicuramente non
sarà quello filosofico, la Scrittura non contiene queste verità, al contrario da essa va riconosciuto un
compito civile. Bisogna dunque distinguere i “codici” del discorso divino, ma questo compito è al di fuori
della portata della moltitudine.
Il testo sacro si rivela così strutturalmente plurale, denso di verità laddove vi siano i cosiddetti luoghi
d’indifferenza, che si rivelano come privi di scopo, come ad esempio il libro di Giobbe (“pieno di ogni buona
teologia, naturalità et moralità”), ma altrove, dove espone la legge, si deve interpretare diversamente. Dunque,
è nella distinzione tra verità e legge che si riafferma la loro unità e reciprocità. La filosofia deve quindi servirsi
della religione per annunciarsi agli uomini come legge, l’unica discriminante tra i due campi è la natura, qui la
filosofia dev’essere autonoma. Va comunque sottolineato come la riflessione nolana non sia mai univoca in
questi sensi tant’è che di volta in volta prevale una parte sull’altra, questa prospettiva “concordista” si afferma in
relazione ai bisogni reali del filosofo di trovare un piano di discussione comune (come nella Cena dove la figura
del pedante non è ancora connessa a un referente reale).
Nella Cena particolare rilevanza è concessa alla critica del modo di affrontare lo studio in Inghilterra,
esemplari sono i dottori oxoniensi che scambiano la Lettera al lettore del De revolutionibus orbium
coelestium per uno scritto di Copernico e non di Osiander. Questo sosteneva una versione ipotetico-
fenomenista del copernicanesimo, in pratica si comporta come un pedante del calcolo. Egli era uno dei
seguaci di Lutero, il che dimostra quanto i protestanti fossero molto più ostili alla possibilità di
riconoscere la teoria copernicana come reale: per loro contraddire la Scrittura è peccato, segno di
superbia, solo la “follia della Croce” può rendere savi nel filosofare. Nella Cena la Lettera di Osiander è
proposta dal Torquato, “ignorantissimo del disputare”. Ma la antica verità, seppur nascosta si è
comunque conservata. Tuttavia, sono anche presenti diverse rielaborazioni nella Cena volte a eliminare i
luoghi in cui si tratta il tema dell’asinità intesa come ignoranza.
Sarà nel De la causa che si esporrà come un’alleanza malsana tra filosofia e religione conduca
inevitabilmente alla corruzione e alla decadenza della civiltà: il dominio della pedanteria e dell’eloquenza,
l’elogio incondizionato della parola che ignora i fatti, coincidono col punto più tenebroso del ciclo
vicissitudinale, si tratta della classica polemica tra res et verba. “Senza qualche frutto di prattica” è “vana
ogni contemplazione”, la filosofia e il sapere antico si fanno consistenti proprio nello studio della natura. La
radice di questi frutti è l’anima del mondo, l’intelletto universale, tale radice è infinita e inesauribile come i
mondi a cui dona la vita. Lo Spaccio si distinguerà proprio nel trovare nella religione questa radice
fruttuosa, quest’opera è la più radicale di Bruno proprio in quanto supera la visione della religione come
mero strumento di dominio sui rozzi (come nel De la causa o nel De infinito): Dio, natura e umanità si
riunificano.
Nel De la causa la figura del filosofo veniva presentata non come portatrice di una verità superiore, ma
come semplice conoscitore della natura, dentro la verità stessa si danno dunque diversi piani e livelli
(natura e sopranatura). Nel De infinito peculiare, anche se con toni non accesi, è la differenziazione che
si dà tra l’occhio osservatore e della natura e l’orecchio che accoglie la fede. La distensione in Bruno è
sintomo di una speranza di conciliazione (conversione dell’aristotelico Albertino).
C’è invece un’interruzione tra i dialoghi cosmologici e quelli morali (Cabala e Spaccio). Qui si manifesta il
bisogno di riscendere alla radice che ha portato alle cattive degenerazioni, per modificare tutto a favore
dell’antica religione. Del resto, la conoscenza di Dio non si può ottenere che attraverso le copie, le vestigia,
dalle quali si deve però tentare di riscendere all’essenza. È la perfezione di Dio e la sua infinitezza a
generare effetti infiniti, in lui potenza, volontà e azione coincidono. Dio si presenta come materia
complicata e immutabile al contrario della materia di “cose inferiori” che si presenta come esplicata e
soggetta alla vicissitudine. L’universo è tutto quello che può essere, e questo tutto è il suo fondamento,
ovvero Dio, si parla sempre di materia seppur ci sia una distinzione tra corporea e incorporea. L’universo
non è che l’ombra del suo principio primo, corporeo e incorporeo comunicano attraverso il nesso
luce/ombra. Tale comunicazione avviene attraverso una produzione infinita, una creazione continua, mai
oziosa. Questa stretta connessione necessaria non mette però a repentaglio la nostra libertà. Da questa
condizione così vicina al divino, continuamente attiva, Bruno deriva la “natural santità” dell’uomo.
La composizione dello Spaccio è fortemente collegata alla storia politico-religiosa dell’Inghilterra, ovvero
allo scontro tra Elisabetta e i puritani. Lo Spaccio prendeva aperta posizione contro i puritani e chiedeva alla
regina di assumere come modello Enrico III di Valois, principe amante della pace in tutte le sue forme e
devoto alla giustizia. Le affermazioni su questo principe fanno seguito alle posizioni “ariane” contro
l’incarnazione che Bruno assume presentando Chirone. La religione che Bruno promuove è un
cristianesimo pacifico, civile e antipuritano.

Angeli nocentes.

La connessione tra pedanteria e Riforma non è una scoperta di Bruno, ma rappresenta un tema ricorrente
già Pietro Aretino. La pedanteria luterana promuove la simulazione, l’ipocrisia e l’ozio, temi che sono
trattati da Aretino sia con serietà che con ironia. Per Bruno la pedanteria civile si congiunge a quella
scientifica, filosofica e scritturale, in questo senso Lutero è rappresentato come capostipite degli angeli
nocentes del Lamento di Asclepio. I luterani non sono semplicemente i bigotti cattolici, sono ben più
pericolosi. Bruno unisce i luoghi dei Sileni erasmiani con quello del Lamento di Ermete mostrando come nel
tempo le opinioni siano riuscite a mutare il linguaggio in modo tale da sostituirsi alla verità, ormai antica. La
paura di Ermete si è attuata totalmente, i nessi tra uomo, natura e divinità sono spezzati a causa degli
inganni di questi angeli. Tra questi c’è lo stesso Cristo, rappresentato nello Spaccio da Orione, il quale parla
con le parole di Lutero. Bruno tradurrà, attualizzandolo, il Lamento di Ermete. Nel Lamento si descrive la
decadenza dell’Egitto dopo l’abbandono delle divinità, dopo di esse qualsiasi uomo pio e realmente
religioso sarà perseguitato per legge, al contrario per Bruno saranno uomini falsamente religiosi a imporre il
loro culto vizioso e ozioso. La renovatio mundi è prima di tutto distruzione di questa religione corrotta,
infatti cadono anche le profezie sui disastri naturali. Gli angeli perniciosi cambieranno il significato della
devozione e della giustizia, le quali andranno in contrasto con la natura, l’uomo e la divinità: «Ciò che
secondo la raggione pare eccellente, buono ed ottimo, è vile, scelerato ed estremamente malo» dice
Orione.
La riscoperta ella verità passa per la comprensione delle innumerevoli vie di comunicazione che l’uomo ha
per incontrare Dio, quelle che gli Egizi ben conoscevano: la natura è l’essere comunicato, l’ombra di Dio. Le
divinità si comunicano attraverso le voci naturali che vanno a costituire la Provvidenza. Leggi e magia non
sono altro che linguaggi, la crisi del rapporto tra uomo e divinità non è altro che una crisi di linguaggi. Uno
dei primi problemi che affronta Bruno riguarda i peccati “interiori”: per Bruno solo i peccati con effetto
esteriore possono essere giudicati. Queste considerazioni “giuridiche” Bruno le prende anche dalle
considerazioni sulla religione civile dei Romani, esempi di diritto e giusta legislazione: essere buoni religiosi
vuol dire essere buoni cittadini, ma soprattutto cittadini attivi. Essi conoscono il timor di Dio e da esso sono
esortati alla virtù, per questo Bruno aderisce alle considerazioni di Machiavelli. La religione dello Spaccio è
intrinsecamente civile e naturale, che promuova una società basata sul merito. Bruno dissolve così la
teologia in una religione civile.
I pedanti (tra cui vi sono anche Origene e Girolamo) si distinguono per la loro ignoranza anche nel non
comprendere le allegorie di certi passi biblici, un buon filosofo non può essere servo della lettera, ma
d’altra parte anche la solo interpretazione figurata non porto a buoni risultati. Lutero ha la colpa di aver
spezzata il nesso tra le parole e le cose, dopo di lui nulla ha più senso.
Per quanto riguarda la problematica etica c’è però da specificare come questa si dia solo in relazione
all’uomo, Dio nella sua infinitezza non conosce bene, male, virtù o fortuna. Un sapiente comprende questa
infinitezza nel momento in cui scopre il suo essere nella ciclicità vicissitudinale. Ma nello Spaccio affiora la
problematica individuale che pone al centro il fare, la costruzione più che l’essere. Se la fortuna è cieca, il
discrimine è dato dalla fatica che ogni uomo mette nel suo lavoro, questa è la dimensione propositiva e
meritocratica che emerge nel 1584. La Provvidenza si presenta come intreccio dell’azione di Dio (la
fortuna) e di quella del singolo (il merito). Gli uomini dunque differiscono nella virtù, per questo una
equalizzazione completa sarebbe una “cattiva uguaglianza”, in queste differenze, al di là del ritmo
vicissitudinale, si trova la libertà di ogni individuo.
Il compito del principe sarà dunque quello di armonizzare e promuovere le spinte energetiche dei cittadini
in un continuo progresso. Le funzioni sociali devono dunque essere distribuite in base alla capacità e al
merito. Lo Stato bruniano si oppone alla barbara uguaglianza fondandosi sull’ideale della mobilità delle
classi: ristabilire l’ordine vuol dire ristabilire le differenze tra le forze in infiniti livelli di realtà. La realtà è
fatta dunque di mutazioni, alterazioni, si scompone e ricompone. I principi ideali sono Enrico III e Giulio II di
Sassonia, quest’ultimo si è distinto in particolare nella promozione del sapere. L’obiettivo è la pubblica
felicità, che si può raggiungere solo grazie a leggi derivate dalla sapienza: la legge è divinamente fondata e
su di essa si deve fondare lo Stato, essa deve fondare l’equilibrio elevando i buoni e punendo i cattivi. In
tutto questo la religione deve rivelarsi funzionale alla legge come vincolo etico-politico della società. Ma la
religione cristiana che sperimenta la società del XVI sec. è quella oziosa nella quale Bruno riconosce il
culmine della sintesi tra asinità e pedanteria.
Il Candelaio si rivela in questo senso una commedia erasmiana col chiaro intento di mettere a nudo le
follie della società. Le virtù e la giustizia, come la verità sembrerebbero tendere a nascondersi. Andando
avanti nella riflessione Bruno, al contrario di Erasmo, troverà nella radice del cristianesimo il motivo della
decadenza, la «divina pazzia» erasmiana in Bruno diventa «sovrumana asinità». La riforma della Chiesa
ricercata da Erasmo è ormai una lontana utopia.
Lingua e linguaggi.

La distinzione tra legge e verità si rivela soprattutto in relazione al riconoscimento di una pluralità di accessi
al filosofare. Aderire acriticamente a una sola tradizione vuol dire fraintendere tutte le altre posizioni.
Proprio per questi motivi Bruno tenterà a tutti costi di costruire un vocabolario filosofico che chiarisse il
significato dai termini aristotelici fino alle parole di uso comune. Bruno si dimostra così in grado di entrare
in ambienti a lui filosoficamente estranei, utilizzando un linguaggio comprensibile che però veniva
modificato nei significati più profondi. Aristotele al contrario ha sempre svolto le sue ricerche
fraintendendo i suoi avversari, senza riconoscere la possibilità di una molteplicità di posizioni. L’unica via
per poter giudicare una filosofia è quella della prova naturale. Ammettere una molteplicità di vie per la
riflessione filosofica vuol dire aprirsi alla complessità della realtà.
Non c’è corrispondenza tra nomi e cose: non esiste una lingua filosofica perfetta che risolva il mondo come
vorrebbero i pedanti. Questo lo dimostra il fatto che ad esempio Averroè, pur con conoscendo il greco, è
stato il miglior interprete di Aristotele. Bisogna seguire il movimento dei concetti, in questo trova elementi
di sintonia con Speroni e Pomponazzi, quest’ultimo interpreta la lingua in chiave puramente
convenzionale, rivendicando l’autonomia della filosofia. I dottori oxoniensi col loro sterile esercizio
sofistico risultano incapaci a risalire dalle parole alle cose. In questo senso Bruno si mette anche al di là del
matematico Copernico, lui vede la realtà attraverso i suoi occhi, non tiene lo sguardo fisso sulla carta
limitandosi alle ipotesi: ai segni della matematica Bruno preferisce le verificazioni. I matematici come i
traduttori e i grammatici non sono in grado di scavare nei sentimenti della realtà, tale era Copernico «più
studioso della matematica che de la natura». Questo non vuol dire comunque disconoscergli i suoi meriti.
È necessario dissolvere in sede filosofica la via filologica, in questo un’arma potente tra le mani di Bruno è
senza dubbio il sarcasmo. Infatti i periti delle lettere nella maggior parte dei casi si rivelano ignoranti nello
studio filosofico, perfino in quello degli autori a cui si rifanno pedissequamente. Per Bruno è quindi
necessario fondare un metodo radicalmente alternativo a quello di stampo pedantesco: partendo dai
molteplici linguaggi bisogna riuscire a “risalire” le parole fino ai sentimenti che esprimono, il tema della
comunicazione diventa dunque centrale. L’ipotetica infinità delle lingue rende infinita anche la serie dei
piani comunicativi, ma alla base di questi ci sta i sensi etici, religiosi, politici e filosofici che sono il vero
obiettivo della ricerca. L’unico linguaggio “migliore” sarà il più efficace, quello in grado di comunicare al
meglio all’interlocutore il concetto chiave, per questo Bruno non disdegna l’uso del volgare. Nello Spaccio è
evidente il contrasto tra l’infinità dei linguaggi umani in cui la divinità si comunica, e la semplicità e
assolutezza della divinità stessa. Uno è Dio raggiungibile attraverso innumerevoli vie.
Tutto questo va inserito nel ciclo vicissitudinale, niente è dato una volta per tutte. Gli Egizi furono nel punto
più alto poiché seppero comunicare con la divinità in maniere molteplici, sapevano vederla ovunque.
Estraniare la divinità dalla natura vuol dire non riuscire più a comunicare con essa. Dobbiamo superare la
parola umana per ritrovare questa connessione, riscoprire la lingua originaria. A volte può rendersi
necessario anche un linguaggio ermetico per difendere la verità nascondendola. Solo operando sul
linguaggio, riconnettendolo all’essere, si potrà riacquistare l’antica armonia: l’uso del dialogo è funzionale
proprio alla riapertura di questi orizzonti, la riscoperta dell’atto naturale del parlare.

GALILEO (Pisa, 1564-Arcetri, 1642)


A Pisa ottiene nel 1589 il suo primo incarico universitario come lettore di matematica. Nel 1592 si
trasferisce all'Università di Padova. Nel marzo 1610 Galileo pubblica a Venezia il Sidereus Nuncius, nel
quale annuncia le scoperte fatte con il cannocchiale e le conseguenze (copernicane) che ne derivano per
la filosofia naturale e per l’intera concezione del mondo.

I TENTATIVI DI CONCILIAZIONE, LA CONDANNA, L'ABIURA

Galileo, accusato da più parti di voler sovvertire, con i suoi argomenti, la filosofia naturale aristotelica e le
Sacre Scritture, prova a difendersi in una lettera indirizzata all’amico Benedetto Castelli il 21 dicembre
1613. Ma questo tentativo di conciliazione tra teologia ufficiale e astronomia copernicana si rivela troppo
debole. Nel 1615 Galileo viene denunciato all’Inquisizione romana dai domenicani fiorentini per le
affermazioni «sospette e temerarie» contenute nella lettera a Castelli.
Nel febbraio 1616 i teologi del S. Uffizio stendono l’atto di censura sulle affermazioni che sostengono il
moto della Terra intorno al Sole, e pochi giorni dopo Galileo viene convocato e ammonito dal cardinal
Bellarmino: dovrà, in futuro, «abbandonare completamente detta opinione, non accoglierla, difenderla e
insegnarla in alcun modo con parole e scritti».
Poco dopo viene pubblicato il decreto di condanna della Congregazione dell’Indice, con il quale si
proibiscono tutti i libri che sostengono la dottrina copernicana, a partire dallo stesso De revolutionibus
orbium coelestium (pubblicato nel 1543).
Nel 1621 il cardinale Bellarmino muore e nel 1623 viene eletto come nuovo papa (Urbano VIII) il cardinale
Maffeo Barberini, che in più occasioni aveva manifestato la sua stima per Galileo.
In questo nuovo clima di apparente maggiore tolleranza, Galileo si sente incoraggiato a proseguire la sua
opera in difesa del copernicanesimo;
nel 1632 pubblica quindi il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano.
Il Dialogo viene pubblicato a febbraio, e già nel corso dell’estate la reazione ostile contro le tesi di Galileo
diventa così forte da suscitare una presa di posizione da parte dello stesso Urbano VIII.
Consapevole della portata della sua opera, Galileo aveva cercato di mitigarne l’impatto, alludendo, nel
proemio e nelle pagine conclusive del libro, alla cosidetta interpretazione ipotetica del copernicanesimo.
Nel luglio 1632 l’Inquisitore di Firenze ordina di sospendere la diffusione del Dialogo e di confiscarne tutte
le copie esistenti. Il testo viene inviato al S. Uffizio romano, e in ottobre viene intimato a Galileo di recarsi a
Roma e mettersi a disposizione del Commissario dell’Inquisizione.
La vicenda si conclude con una sentenza di condanna, emessa il 22 giugno 1633.
Nello stesso giorno Galileo è costretto a leggere un atto pubblico di abiura.

La stessa opera di Copernico presentava una prefazione dal titolo “Al lettore sulle IPOTESI di questa opera”
(per lungo tempo fu attribuita a Copernico stesso ma in realtà è da ricondurre al teologo Andrea Osiander).
La teoria viene assunta dai sostenitori, almeno ufficialmente, solo in una prospettiva funzionale:
immaginare questo per spiegare alcuni fenomeni altrimenti inspiegabili. “Non è necessario che le tesi siano
vere”, l’importante è che i calcoli quadrino. L’astronomo adotta la teoria che si accorda meglio coi calcoli, la
verità sarà invece compito del filosofo, che comunque intorno a questa potrà formulare solo ipotesi. Anche
“l’eleganza” risulta essere un elemento fondamentale nel sistema che costruiscono gli astronomi.
Galilei si pone in una prospettiva molto simile a quella di Copernico (o per meglio dire, Osiander).
Tornando a Osiander, questo verrà aspramente criticato da Bruno, egli infatti sosteneva una tesi forte
del copernicanesimo, voleva elevarla a verità della natura. Il limite di Copernico per Bruno sta nel suo
tecnicismo matematico, gli manca la concretezza e l’immanenza della filosofia naturale. Copernico aveva
dedicato la sua opera a Paolo III e ciò testimonierebbe quanto lui realmente credesse alla veridicità
delle sue ipotesi.

IL TESTO D'ABIURA DI GALILEO


Io Galileo, fìglio del quondam Vincenzo Galileo di Fiorenza, dell'età mia d'anni 70, constituto personalmente
in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Eminentissimi e Reverendissimi Cardinali, in tutta la Republica
Cristiana contro l'eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl'occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali
tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l'aiuto di Dio crederò per
l'avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la Santa Cattolica e Apostolica Chiesa.

Ma perché da questo S. Offizio, per aver io, dopo d'essermi stato con precetto dall'istesso giuridicamente
intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si
muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né
insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d'essermi notificato
che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l'istessa
dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione,
sono stato giudicato veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il sole sia centro del
mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova; pertanto volendo io levar dalla mente delle
Eminenze vostre e d'ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con
cuor sincero e fede non fìnta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e
qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più
ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò
alcun eretico o che sia sospetto d'eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all'Inquisitore o Ordinario
del luogo, dove mi trovarò.

Giuro anco e prometto d'adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da
questo S. Offizio imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non
voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e
particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m'aiuti e questi suoi santi
Vangeli, che tocco con le proprie mani
.

Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero,
di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in
Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.
Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.

Galilei sarà trattato con più clemenza rispetto a Bruno, anche perché lui era un eminente professore. E
Galilei ha comunque ufficialmente abiurato e si è detto disponibile a credere “ciò che secondo la Chiesa
doveva essere creduto”. La sua dissimulazione non ha dunque funzionato: le ragioni che mostrava a favore
del copernicanesimo erano comunque troppo forti. Il problema si presenta infatti solo nel momento in cui
si entra in contrasto con le dottrine ecclesiastiche: solo le eresie vengono punite.

GALILEO GALILEI
Galileo: il telescopio e lo studio del cielo:

A Padova, nel 1609, Galileo comincia a scrutare il cielo con un nuovo strumento: il telescopio. Si tratta di una
novità straordinaria, che segna una rottura radicale nell’assetto teorico e nella pratica operativa della scienza
astronomica. Non è Galileo a inventare il telescopio. Questo dispositivo viene costruito in origine (nel 1608) da
un occhialaio olandese, Hans Lippershey, che però non ne intuisce minimamente il potenziale scientifico. Si
trattava di un telescopio a 3 ingrandimenti, che grazie alle modifiche operate da Galileo allo strumento
diventeranno 10 e poi 20. Galileo utilizza lo strumento per osservare con sistematicità il cielo, per fare
«centinaia e migliaia di esperienze in mille e mille oggetti, e vicini e lontani, e grandi e piccoli, e lucidi e oscuri».
Nel marzo 1610 Galileo pubblica a Venezia il Sidereus Nuncius, nel quale annuncia le
scoperte fatte con il telescopio e le conseguenze (copernicane) che ne derivano per la filosofia naturale
e per l’intera concezione del mondo.

Il Sidereus Nuncius: la superficie della Luna e i satelliti di Giove

In questa operetta di sole sessanta pagine − e anche per questo di immediata diffusione − Galileo dà
conto in primo luogo delle sue scoperte relative alla superficie lunare, che gli appare costellata di cavità e
montagne, proprio come la Terra. I corpi celesti, dunque, a differenza di quanto si era creduto per secoli,
non appaiono costituiti da una materia differente da quella terrestre, né dotati di una superficie levigata e
priva di irregolarità.
Ma, oltre alla presenza nel cielo di innumerevoli stelle «invisibili alla vista naturale», Galileo annuncia la
scoperta sensazionale di quattro pianeti satelliti orbitanti intorno a Giove, «così come la Luna attorno alla
Terra». Anche in questo caso, l’impatto della scoperta è dirompente: quattro nuovi astri si aggiungono a
quelli già conosciuti, con il risultato di scompaginare non solo l’assetto dei cieli, ma un’intera cultura,
astrologica e medica, fondata sul numero settenario dei pianeti.
L’idea tradizionale della separazione dei due domini di realtà (terrestre e celeste) appare distrutta dalla
constatazione che entrambi condividono la stessa materia, ovunque soggetta a fenomeni di
trasformazione e corruzione (una «vicissitudine di produzioni e disfacimenti»). Si tratta dunque di una
verità antica che ritorna contro Aristotele proprio come sosteneva Bruno. Ma l'esperienza era un elemento
fondamentale anche nella filosofia dello stagirita, dunque il vero problema non è lui quanto i suoi seguaci
dogmatici. In primo luogo, si conosce grazie all’esperienza sensibile. Aristotele non avrebbe difeso a
oltranza la sua tesi davanti a queste scoperte. In Galilei c'è quasi l'idea di una necessità dello svolgimento
di determinate esperienze, una sorta di provvidenza. Comete, stelle e lo stesso sole sono posti in una
gerarchia ascensiva che dovrebbe portare dimostrazioni inequivocabili della mutabilità del cielo. Quasi
come se questi elementi fossero posti da qualcuno come indizi per gli uomini. Ma i peripatetici ignorano
queste prove esattamente come ignorano la verità.
Come notava Tommaso Campanella dal suo carcere napoletano, Galileo, dunque, aveva davvero ‘purgato’
gli occhi degli uomini, «mostrando loro un nuovo cielo e una nuova Terra nella Luna» (13 gennaio 1611).
Nel poemetto An Anatomy of the World, composto nel 1611, John Donne (1572-1631) espone in versi la
sua visione naturalistica e cosmologica. Nella seconda (e ultima) parte del poema, i versi si snodano avendo
come riferimento l’osservazione del cielo, e in particolare il passaggio dal geocentrismo all’eliocentrismo.
L’Anatomy è uno sguardo su un mondo caduco, segnato dal limite e dalla morte, nel quale il poeta legge
scompiglio e disorientamento, proprio impiegando come spunto il collasso del sistema tolemaico e la
svalutazione del Sole, ormai ridotto a una fra le molte stelle, togliendo certezze e riferimenti anche
all’uomo della strada. Viene persa una rete di rapporti sociali ad ogni livello, per questo la scoperta di
Galilei è pericolosa per il potere. Principi, re e sovrani senza la terra al centro dell'universo non sono più
tali. L'eliocentrismo porta la vecchiaia nell’universo, viene meno l'ordine del mondo e la sua morale.

Il Galileo di Brecht

Bertolt Brecht inizia a interessarsi alla figura di Galilei, nel 1933, in occasione del centenario del suo
processo. Da quell’anno ha inizio la scrittura travagliata, sofferta e ragionata della sua Vita di Galileo.
Galileo diventa una delle figure-simbolo della drammaturgia brechtiana e, per più di vent’anni, la storia di
questo testo segue, e accompagna, le vicende personali dell’autore e il contesto storico che lo circonda.
Brecht, esule in Danimarca dopo l’avvento del nazismo (aveva lasciato la Germania nel 1933), porta a
termine la prima versione dell’opera nel 1939. Le altre due versioni saranno elaborate negli Stati Uniti nel
1943-45, in collaborazione con l’attore Charles Laughton e poi nel 1956 (edizione berlinese, con
messinscena postuma nel 1957, pochi mesi dopo la morte dell’autore). Nell’opera teatrale Brecht mette in
scena anche elementi di carattere autobiografico, svolgendo il motivo del comportamento da tenere di
fronte al tiranno («farsi piccolo di fronte alla tempesta»). Egli pone con chiarezza l’equazione tra il rifiuto
dell’oscurantismo religioso e il fondamentale dubbio sulla compiutezza, sulla perfezione della scienza,
sulle strade più corrette per difenderne la verità, ma anche sulle conseguenze del progresso scientifico, e
sull’uso che gli scienziati fanno del loro sapere. Incalzato dagli avvenimenti e dai dubbi, Brecht ritocca più
volte il giudizio sul ‘suo’ Galileo.

La prima interpretazione: l’abiura come espediente


Il “primo” Galileo è modellato con l'intenzione di offrire un esempio di come possa essere condotta la lotta
dell’intellettuale contro l'oppressione nazista. Sotto questo profilo, Galileo sembra incarnare una politica
efficace di non-resistenza: abiurando potrà scrivere i Discorsi intorno a due nuove scienze, sopravvivendo
all’oppressore e preparando un terreno fecondo per il momento della liberazione.
L'abiura è dunque un tradimento. Ma si tratta sostanzialmente di un tradimento verso se stesso, di cui la
storia potrà non tener conto e, che dà comunque effetti positivi, poiché, come conclude l’allievo Andrea
Sarti: «Quando la polvere si diradò, si vide che erano crollati solo i dodici piani superiori. I trenta piani
inferiori erano ancora in piedi e si poteva ricominciare a costruire».

Esteriormente il ‘secondo’ Galileo non presenta molte differenze rispetto al primo: ma un mutamento
sostanziale riguarda la scena nella quale il vecchio scienziato, semicieco e prigioniero dell'Inquisizione,
chiarisce ad Andrea la sua posizione al momento dell'abiura e in seguito. In questa versione Galileo ha
abiurato per paura del dolore fisico; e l'idea che abiurando avrebbe potuto continuare a lavorare non
viene avanzata neppure come giustificazione a posteriori.
Il suo ritorno alla ricerca scientifica − quella ricerca che gli frutterà appunto i Discorsi − non ha avuto
dunque il senso di una prosecuzione della lotta nella clandestinità, quanto piuttosto di un cedimento a un
impulso irresistibile e fine a se stesso. La ricerca è per lui ormai un vizio, una sorta di intemperanza
intellettuale cui egli indulge di nascosto per un bisogno egoistico di sapere, per curiosità, ma non si
propone nessun fine pratico e morale che la superi e la nobiliti.

Se dunque il ‘primo’ Galileo nasce nel quadro della resistenza al nazismo, il ‘secondo’ nasce nel quadro dei
problemi che l'energia atomica apriva alla scienza ed all'umanità. Ancora una volta, alle soglie di
un’epoca nuova, di fronte a un bivio che propone la scelta tra un nuovo, più alto grado di benessere e
l’autodistruzione, lo scienziato è posto di fronte alle proprie responsabilità e al problema dei fini della sua
professione. Dunque, Galileo come un antieroe, e per certi versi un colpevole. Il Galileo di Brecht, a
differenza di Giordano Bruno, ha optato in definitiva per un compromesso («Un suono che mi somiglia.
Nuova scienza, nuova etica»).

Galileo: la polemica con gli aristotelici

Su un punto Simplicio ha certamente ragione: la battaglia fisico-cosmologica condotta da Galileo non è di


natura strettamente scientifica, ma mira a mettere integralmente in discussione le basi filosofiche e
metodologiche sulle quali si sorregge la visione tradizionale del cosmo, allo scopo di liberare la
conoscenza scientifica dai pregiudizi che la imbrigliano, ostacolandone lo sviluppo autonomo.
Ai sostenitori della filosofia peripatetica, che tentano di disconoscere con ogni mezzo la validità delle novità
celesti scoperte da Galileo, egli ribatte con decisione che l’esperienza del telescopio è vera, evidente,
inconfutabile, tanto che lo stesso Aristotele «quando ’l senso gli avesse mostrato ciò che a noi fa manifesto,
arebbe seguita la contraria opinione» [Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari, Lettera II].
La polemica con gli aristotelici dà modo a Galileo di sviluppare importanti riflessioni di carattere filosofico.
In particolare, egli mette bene in luce come alcune tesi della tradizione (per es. quella della perfetta
sfericità dei corpi celesti) scaturiscano dall’abitudine di attribuire criteri e valori tipicamente umani
all’operare della natura. Galileo afferma l’esigenza di un atteggiamento antiantropocentrico e
antifinalistico, in grado di comprendere la struttura e il funzionamento dei fenomeni naturali per come ci si
presentano, senza proiettarvi desideri e auspici propri del mondo umano.
Galilei, pur non negando l’esistenza di un disegno provvidenziale divino, ne afferma l’imperscrutabilità da
parte dell’intelligenza umana. Critica inoltre la presunzione di chi – come Simplicio – pretende di spiegare le
caratteristiche del mondo sulla base della loro supposta utilità per l’uomo.
Nella terza giornata del Dialogo sui massimi sistemi il confronto fra modelli astronomici si traduce nel
contrasto fra differenti concezioni del mondo e dell’uomo. La discussione verte intorno alle dimensioni
della «sfera stellata», ossia della volta apparente del cielo. Salviati aveva affermato in precedenza che la
sfera delle stelle fisse è smisuratamente più vasta dell’«orbe di Saturno», il più esterno dei pianeti allora
conosciuti, e che esiste una distanza immensa tra la Terra, i pianeti a lei vicini e la volta celeste. Ma per
Simplicio ammettere un tale spazio vuoto, «superfluo e vano», perché del tutto inutile all’uomo,
comporterebbe la rinuncia a uno dei principi fondamentali dell’aristotelismo scolastico: quello secondo il
quale “la natura non fa nulla invano”. Simplicio, con questo pregiudizio, “abbrevia la mano Di Dio”, lo
costringe a limitarsi ad un fine definito. Lui in realtà non è concentrato solo sull’uomo. La luce del sole
illumina tutto indistintamente, come se si occupasse di ogni singolo, e allo stesso modo fa Dio con tutte le
sue creature. È infine Sagredo, introducendosi nel discorso, ad appoggiare Salviati. Ci sono tante cose di cui
non conosciamo lo scopo, ciò non vuol dire che non esistano o che non debbano esistere. La misura
dell'uomo è irrimediabilmente limitata e decentrata. Queste posizioni ovviamente sono le posizioni di
Galilei e di Spinoza. Quello finalistico è il “pregiudizio dei pregiudizi”, l'antropocentrismo impone alla
divinità un aspetto determinato tramite la superstizione. Dio non ha fatto le cose per l'uomo, pensare così è
solo segno di stoltezza ed ignoranza. Il finalismo fu causato dalla tendenza di pensare Dio come libera
volontà e non necessario. Gli uomini proiettano i loro desideri in una realtà di cui sono ignoranti. Gli stessi
desideri non sono frutto di una volontà diretta a un fine ma sono causati da “meccanismi” naturali. La
natura dunque non è stata creata per l'uomo, è l'uomo semmai ad essere nella natura.
Gli onori che si tributano a Dio non sono altro che superstizione: cercare di rendere propizia una volontà
che non esiste. I tasselli che sembrano combaciare in questo sistema sono retti unicamente da
conoscenze erronee. Dio non ha fini perché non ho bisogno di niente. L'impostazione finalistica precipita
inevitabilmente nell’aporia dell’esistenza del male.

L ’autonomia di pensiero e la critica al principio di autorità

Accanto alla prospettiva antifinalistica, Galileo sottolinea che la ricerca non deve mai essere sottoposta
«all’autorità delle nude parole di questo o di quell’autore», fosse pure Aristotele, perché «il consumarsi
sopra gli scritti d’altri non farà mai un uomo filosofo». Un’esperienza sensata è in grado di cancellare libri
e libri di verità autoritarie. Questo non vuol dire che tutto Aristotele vada gettato via: ad esso bisogna
approcciarsi criticamente. Il monito a non rinchiudersi nell’immaginario «mondo di carta» dei polverosi
volumi aristotelici si accompagna all’invito a servirsi in modo sistematico dell’esperienza, in quanto solo
quest’ultima può attestare con certezza la verità delle nostre conclusioni.
→ →
- MONDO SENSIBILE CONOSCENZA= SENSATE ESPERIENZE AMPLIAMENTO AL

CIELO DEL MONDO DELL’ESPERIENZA osservazioni condotte attraverso i sensi
≠ rapporto involontario e immediato attraverso il quale la nostra sensibilità
esperisce normalmente i suoi oggetti
- MONDO DI CARTA

La formalizzazione dell’esperienza avverrà poi attraverso la tematizzazione razionale operata dalla


matematica che si occuperà di sottolineare le proprietà geometriche dei fenomeni osservati, mettendo tra
parentesi le soggettive qualità sensibili.
Le caratteristiche del mondo sensibile

Nel Saggiatore (1623), pubblicato a Roma e dedicato al neoeletto papa Urbano VIII (Maffeo Barberini),
combattendo la teoria anticopernicana sulla natura delle comete e sul loro moto esposta dal gesuita Orazio
Grassi nella sua Libra astronomica et philosophica, Galileo introduce una distinzione famosa:

• QUALITA’ OGGETTIVE (primarie) = geometrico-meccaniche, si considerano realmente inerenti


ai corpi (figura, grandezza, movimento, posizione etc…);
• QUALITA’ SOGGETTIVE (secondarie) = indicano le sensazioni percettive del soggetto (cinque sensi)
comprese quelle del dolore e del piacere.

[Locke, Saggio sull’intelletto umano]: le qualità che sono interamente inseparabili dal corpo io le
chiamo originali o qualità primarie, e sono la solidità, l’estensione, la figura, il numero, il movimento;
esse producono in noi delle idee semplici. In secondo luogo, vi sono delle qualità che nei corpi non sono
nient’altro che il potere di produrre in noi diverse sensazioni, come colori, suoni, sapori, ecc. A queste
attribuisco il nome di qualità secondarie.

Quindi:

• le qualità primarie esistono nei corpi oggettivamente e indipendentemente dal soggetto che le
percepisce;

• le qualità secondarie non hanno alcuna oggettività, ma sono piuttosto stati mentali provocati dalle
modificazioni che il nostro corpo subisce nell’incontro con i corpi esterni.

Queste posizioni rappresentano un rovesciamento radicale di una fondamentale dottrina aristotelica:


quella degli accidenti reali, secondo la quale colori, odori, sapori etc. sono enti appartenenti alla realtà.

Le caratteristiche del mondo sensibile


La riflessione di Galileo nel Saggiatore riguarda il rapporto tra percezione e realtà, tra ciò che ci appare e
ciò che esiste veramente. La conoscenza scientifica deve essere indipendente dalle particolarità del
«corpo sensitivo»; deve rivolgersi, cioè, soltanto a quello che realmente caratterizza il mondo esterno.
Solo in questo modo, vale a dire rifacendosi alle qualità oggettive, la conoscenza può progredire verso la
verità. Nella descrizione della natura devono essere eliminati tutti gli elementi soggettivi e qualitativi, che
non fanno parte dell’architettura oggettiva dell’universo. La verità sulla struttura dell’universo è
oggettiva, quantitativa, matematica. E le teorie sulla natura devono essere valutate in base alla verità o
meno di quello che dicono, non in base a criteri di autorità. Rovesciando l’impianto tradizionale fondato
sulle categorie aristoteliche, che chiudeva l’indagine della natura entro i confini di una descrizione
meramente qualitativa dei fenomeni, Galileo introduce un nuovo modo di pensare nel quale la
matematica diventa centrale e non più solo strumentale.

SOGGETTO  PERCEZIONE → OGGETTO


Qualità soggettive (colori, sapori…) Qualità oggettive (caratteristiche misurabili/conoscenza scientifica)

Per Galileo, oltre al piano dell’esperienza così come si presenta alla sensibilità individuale, soggettiva, c’è il
piano dell’essenza oggettiva del reale, che è una struttura razionale costituita da rapporti matematici
misurabili e calcolabili o a essi riconducibile. Questa struttura matematica, la lingua in cui è scritto il libro della
natura, esprime una realtà assoluta e una verità necessaria. La filosofia naturale non può dunque basarsi sulle
fantasie dei vari autori. Il libro della natura si contrappone dunque a questi libri di carta garantiti solo dalla
forza dell’autorità. Campanella, paragonato a più riprese a Pico della Mirandola, sosterrà
di essere diverso proprio per il tipo di libro che è solito consultare. Campanella si dice orgoglioso di
avere imparato a consultare il libro dell'universo.

La matematica e lo studio della natura

Come vedremo nelle lettere degli anni 1613-15, Galileo è profondamente convinto della verità delle teorie
scientifiche. Pur consapevole della difficoltà del compito che egli affida alla matematica, afferma che essa
resta la più rigorosa e sicura tra le conoscenze umane, dal momento che le proposizioni della matematica
sono conosciute con necessità.
Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, Salviati fa le veci di Galileo:

“L’intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive o vero extensive.”

INTENSIVE= con riguardo alla profondità e certezza della conoscenza

EXTENSIVE= con riguardo al numero delle conoscenze acquisite

L'intensività della verità riguarda la profondità, il grado di conoscenza, l’estensività invece il numero delle
conoscenze acquisite. Le conoscenze sono estensivamente infinite, è impossibile per un uomo conoscerne
più di una minuscola parte. Ma per quanto riguarda l'intensività l'uomo può raggiungere un grado di
certezza massima che si rivelerà essere la verità, questa sarà raggiungibile solo grazie al linguaggio
matematico. Se il divino ha infinitamente più conoscenze, per le poche che noi abbiamo possiamo
raggiungerne il grado di certezza massima che è lo stesso che ne ha Dio. Un cerchio ha le stesse proprietà
sia dalla nostra prospettiva che da quella divina, con l'unica differenza che noi apprendiamo
discorsivamente e non intuitivamente.


AUTONOMIA DELLA SCIENZA RISPETTO ALL’AUTORITA’ VALORE CONOSCITIVO DELLE SCIENZE
Aristotelici, nuova scienza e Scrittura
La divulgazione del copernicanesimo e il successo delle scoperte galileiane, che del copernicanesimo
erano diventate un veicolo formidabile, suscitano la reazione degli ambienti teologici e scientifici
aristotelico-scolastici, volta a ridimensionare e contrastare l’affermazione e la validità del nuovo sistema.
Con la diffusione del copernicanesimo la verità dei fenomeni della natura si fa infatti plurale e pubblica,
non compete più ai teologi e ai filosofi di professione, bensì agli astronomi e ai matematici, ed è sottoposta
al controllo e alla verifica dei dati dell’osservazione. Si assiste al tentativo filosofico di definire una nuova
suddivisione delle competenze tra filosofia e teologia, al fine di rivendicare un’autonomia per la ragione
circa l’indagine delle questioni naturali, disarticolando il vincolo sedimentato da secoli tra cristianesimo e
tradizione aristotelico-tolemaica. Brecht nella Vita di Galileo mostra l'incontro dello scienziato con un
monaco. Il monaco, allievo di Galilei, spiega come i suoi genitori ripongano fiducia nell'ordine che le
Scritture assicurano, come potrebbe andare a dirgli che in realtà la terra non è posta da Dio al centro
dell'universo? La fame non sarebbe più un sacrificio ma un semplice e “materiale” non aver mangiato. A chi
dovrebbe spettare dunque l'ultima parola? La bolla apostolica di Papa Leone X si confronta proprio col
problema della verità, nello specifico della dottrina dell'immortalità dell'anima. In questa bolla viene
limitata la libertà dei filosofi nel contraddire questa parte della dottrina tomistica. I professori universitari
dovranno anzi impegnarsi ad elaborare tesi in favore di questa dottrina. In questa bolla la verità viene
presentata come unica e inamovibile, chi la contraddice incorre inevitabilmente nell'accusa di eresia,
anche nel caso in cui riconoscesse la fede cristiana. Quello della doppia-verità era un problema
fondamentale per la Chiesa, per questo verità alternative più o meno discordanti da quello ufficiale erano
considerate illegittime. L'eresia viene posta come un rischio reale qualora anche solo ci si approcci allo
studio scientifico.

Leone X, 1513: Bolla Apostolici regiminis

Nel dicembre 1513, il Concilio Laterano V aveva approvato il testo della bolla Apostolici regiminis,
riaffermando – contro la possibilità di una dimostrabilità filosofica dell’immortalità dell’anima – il dogma
dell’immortalità dell'anima individuale nella formulazione datane dalla psicologia tomistica; insistendo
sull’accordo fondamentale fra verità di fede ed esiti della ricerca razionale; proibendo espressamente di
sostenere posizioni diverse come vere dal punto di vista della ragione naturale.
Accanto alla definizione dogmatica e alla rinnovata condanna di ogni interpretazione mortalista del destino
dell’anima, la bolla stabilisce una serie di disposizioni disciplinari volte a limitare la diffusione di interpretazioni
teologicamente inammissibili: i professori universitari, che per obbligo didattico commentano testi in tutto o in
parte contrastanti con la fede, non debbono limitarsi a dichiarare la propria adesione alle dottrine cristiane, ma
sono chiamati a concludere l’esposizione delle tesi filosofiche contrarie alla posizione della Chiesa (l’eternità del
mondo, la mortalità dell’anima, l’unità dell’intelletto) rendendo manifesta e persuasiva la verità cristiana e
confutando gli argomenti contrari all’ortodossia con il massimo impegno personale. Queste prescrizioni
rappresentano una netta inversione della politica ecclesiastica nei
confronti delle università, fino ad allora ispirata a una scelta di non ingerenza nell’insegnamento
universitario, e rappresentano di fatto una riaffermazione del principio tomistico della concordia tra
ragione filosofica e fede rivelata.

Eresia come rischio permanente del confronto del cristiano con le scienze speculative.

I detrattori e oppositori di Galileo cominciano a ricorrere ben presto (già dal 1610, con il discorso Contro il
moto della terra del filosofo peripatetico Ludovico Delle Colombe) all’autorità della Scrittura come
strumento di controffensiva alla divulgazione delle teorie copernicane. Il 2 novembre 1612 il domenicano
Niccolò Lorini, predicatore generale dell’Ordine e lettore di Storia ecclesiastica presso lo Studio fiorentino,
dichiara pubblicamente che la nuova cosmologia è in aperto contrasto con la Scrittura. Alla teoria
eliocentrica viene principalmente imputata la contraddizione con quanto è invece attestato dai passi della
Scrittura, di cui il più noto è quello dove Giosuè chiede che il Sole si arresti (Giosuè 10, 12-13).
Altri brani impugnati contro la nuova dottrina sono il Salmo 18 ed Ecclesiaste 1. Galilei si pone ovviamente
in una prospettiva aperta e dialogica verso i difensori delle scritture. Le 3 lettere che prendiamo in
considerazione, mai pubblicate in vita, ruotano proprio intorno a questi problemi. Sono dei testi di
battaglia politico-culturale nel corso dei quali Galilei è costretto a “limare” le sue argomentazioni. Castelli
ad esempio è affidabile, un suo allievo a cui non serve nascondere niente. La lettera a Cristina di Lorena è
invece in forma maggiormente istituzionale e cauta. Gli avversari saranno Ludovico delle Colombe ed un
“partito” fiorentino espressamente anti-copernicano vicino all’arcivescovo Di Firenze.

«Allora Giosuè parlò al Signore, il giorno che il Signore diede gli Amorei in mano ai figli d'Israele, e disse in presenza d'Israele: «Sole,
fermati su Gabaon, e tu, luna, sulla valle d'Aialon!». E il sole si fermò, e la luna rimase al suo posto, finché la nazione si fu
vendicata dei suoi nemici. Questo non sta forse scritto nel libro del Giusto? E il sole si fermò in mezzo al cielo e non si affrettò a
tramontare per quasi un giorno intero.» [Giosuè 10,12-13]

«Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole? Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per
sempre. Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.» [Ecclesiaste 1,3-5]

→ →
SIDERUS NUNCIUS 1610 LETTERE COPERNICANE 1613/15 CONDANNA DOTTRINA COPERNICANA 1616
LETTERE COPERNICANE 1613/15

1. L. CASTELLI (21 DIC. 1613) Stampata in Francia, in latino, nel 1649

2. L. DINI (23 MAR 1615) Pubblicata per la prima volta negli anni 1813-14

3. L. CRISTINA LORENA (PRIMAVERA/ESTATE 1615) Pubblicata nel 1636 a Strasburgo, con traduzione latina a
fronte

Momenti di una battaglia politico-culturale in corso Conflitto di crescente intensità, che influisce nella

redazione di singoli testi Differenze di contenuto e cambiamenti di ritmo.
CASTELLI discepolo fidato, scritta per circolare entro una cerchia ristretta – testo meno disciplinabile e più

libero CRISTINA rappresentante ufficiale di un potere al quale è legata la sorte del progetto politico-
culturale galileiano

Bendetto CASTELLI (1577-1643): Benedettino, conosce Galileo a Padova, dando avvio a una collaborazione
e a un’amicizia che durerà per tutta la vita. È a Firenze dal 1611, e nel 1613 viene nominato professore alla
cattedra di matematica dello Studio di Pisa. Nel 1626, su istanza del papa Urbano viii, si trasferirà
all’Università di Roma. Lo scopo della lettera a lui indirizzata è quello di liberare la verità scientifica da
forme di tutela esterna, rivendicando una fondazione autonoma della ricerca scientifica. A questo punto
Galileo confida ancora nell’adesione al copernicanesimo di settori ampi e influenti della cultura cattolica.

3) RAPPORTO CON LE SCRITTURE

GALILEO

Nella filosofia naturale gli argomenti trattati dalle Scritture non devono entrare. Le Scritture contengono la
verità, almeno a quanto dice qua Galilei, il problema sta nell'interpretazione che se ne dà. Nella Lettera a
Benedetto Castelli, Galileo espone i pericoli del letteralismo. L'antropomorfismo di Dio ad esempio non può
essere preso alla lettera. Galilei arriva a citare Tommaso che ammette l'impossibilità interpretare letteralmente
certe parti della Bibbia e la necessità di interpretarle figurativamente. Se per la filologia umanistica, da Lorenzo
Valla a Erasmo da Rotterdam (egli definisce la Scrittura “silenica” in quanto non basta fermarsi a una sua lettura
superficiale, la verità non è ciò che appare in superficie), la Bibbia resta pur sempre un libro, sia pure di origine
divina, e in quanto tale scandito, al pari di ogni altro libro, da contenuti e verità evidenti e luoghi meno limpidi o
addirittura oscuri, per Lutero la Scrittura è fonte esclusiva di verità, e perciò imparagonabile a qualsiasi altro
testo. Nessuna forma di sapienza umana, neppure la filosofia, può affiancarsi a essa o presentarsi come
disciplina propedeutica alla sua comprensione.

INTERPRETAZIONI/ quattro sensi della Scrittura:



- SENSO LETTERALE La storia (la lettera) è il supporto di una trasposizione a realtà soprastoriche di cui gli
eventi sono figura (quanto è avvenuto);

- SENSO ALLEGORICO Comprensione più profonda degli avvenimenti in prospettiva evangelica;

- SENSO MORALE Gli eventi narrati dalla scrittura possono indurci a comportarci correttamente;

- SENSO ANAGOGICO Possiamo vedere certi avvenimenti nel loro significato eterno, che ci conduce verso la
nostra beatitudine futura.

La verità essenziale delle cose è sempre nascosta nel profondo, affinché questa non sia qualcosa di
banale né di facilmente accessibile ai molti. Erasmo da Rotterdam

Il «punto matematico» della teologia, afferma Lutero, «sta qui, nella parola di Dio e in nessun altro luogo»: essa
è la fonte esclusiva della verità. Chiarissimo in ogni sua parte in quanto opera divina, il testo sacro appare tale
a chiunque lo legga con mente pura. L’origine della sua eventuale oscurità riposa piuttosto nel peccato che
ottenebra la mente degli uomini, e che solo l’azione dello Spirito è in grado di dissolvere.
Soltanto attraverso la Scrittura si può elaborare un discorso intorno a Dio e intendere la possibilità e i
caratteri della salvezza. Solo la mediazione della Scrittura consente di contemplare la luce della
rivelazione: la Bibbia è lo strumento mediante il quale Dio rivela la sua Parola, che è Gesù Cristo. Tutte le
chiese riformate considerano perciò le Scritture come unica fonte di rivelazione e quindi suprema autorità
per la fede, la dottrina e la vita.
Mediante il suo Spirito, Dio ha guidato profeti e apostoli dalla Parola alla Scrittura; mediante lo stesso
Spirito conduce anche i credenti dalle Scritture all’ascolto della sua Parola. La parola di Dio ha un carattere
e un potere davvero vivificante, consolatorio, emancipatore; essa agisce nell’interiorità dei fedeli e li
trasforma, sottraendoli al giudizio e al condizionamento delle tradizioni, delle leggi, della sapienza degli
uomini. L'insegnamento della Bibbia, ispirata da Dio, è considerato sufficiente di per sé stesso e
sufficientemente chiaro ed accessibile a tutti (Lutero era stato definito da Nietzsche “plebeo” proprio per
aver consegnato il testo sacro nelle mani del popolo che non può che operare una lettura letterale) nelle
sue linee essenziali per portare gli uomini a conoscere la via della salvezza dal peccato attraverso la
persona e l’opera di Cristo. Il concetto della Sola Scriptura implica anche che la Bibbia contiene in sé i suoi
stessi criteri interpretativi: «la Scrittura è interprete di se stessa».

Bruno parla invece di “occhio silenico”, che deve saper scavare in profondità, ovviamente non tutti saranno
in grado. Il letteralismo di Lutero appare pericoloso non solo alla filosofia ma soprattutto al popolo stesso
che viene ingannato. La stessa scrittura di Bruno viene definita da questo come “silenica”. Bruno si rifà ad
Origene per giustificare il suo tipo di analisi sostanzialmente allegorica. Galilei sostiene l'interpretazione
simbolica che svelerebbe i “veri sensi” delle parole attraverso la mediazione dello studio degli esperti. Tra
questi esperti ci sarebbero ovviamente gli scienziati.

Origene (185-225), teologo cristiano convinto sostenitore della necessità di interpretare la Scrittura in
chiave eminentemente allegorica, è uno degli autori prediletti da Erasmo e, al contempo, uno dei bersagli
polemici ricorrenti negli scritti di Lutero.

INTERPRETAZIONE LETTERALE INTERPRETAZIONE SIMBOLICA


“Nude parole” diverse dalla verità “Veri sensi” di quelle parole
Dirette a un volgo incapace. Necessità della mediazione dell’interprete.

Il carattere «inesorabile» della natura

Galileo impiega il termine ‘inesorabile’ a proposito della natura in un’accezione etimologica – dal latino
inexorabilis = ciò che non è passibile di preghiere o invocazioni.
Per Galileo, quindi, la natura è strutturata secondo leggi immutabili e necessarie e, come tale, non si cura
degli auspici e delle speranze umane. In questa prospettiva, si deve pertanto riconoscere che «nulla
mutarsi giamai dalla natura per accomodare le fatture sue alla stima e opinione degl’huomini».


CARATTERE INESORABILE DELLA NATURA ANTIFINALISMO
Linguaggio verbale e linguaggio “reificato”

Mentre il linguaggio verbale (proprio della Scrittura) postula, e anzi esige, una mediazione interpretativa, il
linguaggio “reificato” della natura è retto da norme necessarie e immutabili, e pertanto non è passibile di
interpretazione. La natura parla per fatti e dati, essa se interrogata correttamente non può che mostrarci il
vero. Le opere di Dio sono molto più esplicative della parola per Galilei. È la Scrittura anzi, in questo, che
deve trovare la concordanza con la natura, poiché la descrizione di questa nella Scrittura è solo accidentale.
Di conseguenza, nel caso di divergenze tra l’uno e l’altro linguaggio, occorre sempre tener presente che il
dato naturalistico consegnatoci dall’attività dei sensi e della ragione si impone in modo inderogabile,
senza che si dia la possibilità di rimodularne i significati. La Lettera a Castelli si chiude su un tentativo di
interpretazione “copernicana” dell’episodio di Giosuè.

- L’interpretazione della Scrittura non può limitarsi al significato letterale del testo.
- Se si dà apparente contrasto tra proposizioni scientifiche e versetti biblici, questo è l’effetto di
un’interpretazione erronea della parola di Dio.
- Alla Scrittura è affidata in primo luogo la Rivelazione che ha valore per la morale e per la salvezza.
- Il linguaggio della Scrittura è necessariamente immaginoso e metaforico, perché deve essere
compreso anche dai popoli rozzi ed indisciplinati.
- Nelle discussioni di carattere scientifico non deve prevalere la Bibbia, ma sensate esperienze e
necessarie dimostrazioni. Queste ultime ci danno accesso diretto alla verità della natura.
- Scrittura e natura sono entrambe parola di Dio, opera del Verbo divino.
- La Natura è la fedele esecutrice degli ordini di Dio e delle leggi a lei imposte con la Creazione.
A differenza della Scrittura, non deve discostarsene per farsi intendere dagli ignoranti.

Contro Galileo: le ragioni di Bellarmino

All’indomani della pubblicazione del Sidereus Nuncius Galileo lavora a un tentativo di far accettare a Roma
una concezione copernicana realista; ma all’altezza del 1615 è lo stesso Copernico, a oltre settant’anni
dalla pubblicazione del De revolutionibus, a rischiare di finire all’Indice. A Roma la questione cosmologica
viene affrontata da uno dei massimi esponenti della cultura controriformista del tempo, intellettuale
raffinato ed esperto teologo e politico: Roberto Bellarmino.

La posta in gioco:

• Nuova sistemazione dei poteri intellettuali all’autorità dei teologi rimangono sottomesse solo le
questioni di fede e di morale.

• Il dominio della natura viene sottratto al potere ecclesiastico l’interpretazione dei passi naturali
della Scrittura richiede il concorso dei matematici e filosofi naturali.

• La teologia perde il dominio assoluto sul concetto di verità il potere dei matematici cresce,
modificando radicalmente la gerarchia dei saperi accademici.

I domenicani fiorentini contro Galileo: Il 7 febbraio 1615 il domenicano Niccolò Lorini invia all’Inquisizione
romana una copia della lettera a Castelli, con un messaggio di accompagnamento. Il 20 marzo il suo
confratello Tommaso Caccini denuncia al Sant’Uffizio l’opinione copernicana di Galileo e la propaganda che
ne viene fatta nella città di Firenze.

Dio ha posto il suo tabernacolo nel sole, ed esso è simile a uno sposo che esce dalla sua camera nuziale; balza come un gigante
lieto di percorrere il suo corso. Esce da una estremità dei cieli, e il suo giro arriva fino all'altra estremità; nulla sfugge al suo calore.
[Salmo 18,4-6]

Galilei nel mentre scriverà a Dini (23 marzo 1615) sostenendo che uno dei documenti analizzati dall'Inquisizione
sia stato “manomesso” e reso più radicale di quanto fosse. In realtà era semplicemente una versione non
sbozzata e smussata di una lettera scritta realmente da Galilei. Dini fa ricadere il problema della teoria
copernicana sul Salmo 18. Galilei dunque nella lettera a Dini cercherà di “espugnare” questa difesa del
geocentrismo. Cercherà dunque di operare una lettura allegorica su questo passo,
secondo un linguaggio considerato dai critici leggermente strumentale che si fonda su delle teorie di
metafisica della luce di stampo neoplatonico e ficiniano. In ciò comunque sosterrà che Copernico non
possa essere “attenuato” o “moderato”, neanche secondo una lettura meramente ipotetica. La soluzione
delle ipotesi è invece proprio quella che consigliava Bellarmino: un potenziamento di questa prospettiva
sarebbe stato troppo pericoloso.

OBIETTIVO LETTERE COPERNICANE = Proseguire la Ricerca Scientifica E Rivendicare l’autonomia della



scienza dai condizionamenti teologico-politici obiettivo medesimo ma sostenuto in maniere diverse.
A differenza delle lettere a Castelli e a Dini, la lettera a Cristina di Lorena – chiamata in causa per ragioni
politiche, come scudo protettivo a tutela dello scritto e del suo autore – contiene numerosi rinvii a testi
teologici. Si riscontrano qui 27 citazioni di commenti alla Scrittura e di opere di Padri della Chiesa (delle
quali ben 14 riguardano Agostino, De Genesi ad litteram). Secondo Galileo, il comune consenso dei Padri
vale soltanto per le materie di fede. Per il resto, ciò che conta è sapere se si è di fronte a proposizioni di
«indubitata certezza» oppure a qualche «probabile opinione». Il principio strenuamente difeso da Galileo è
questo: prima di proibire una proposizione naturale, occorre accertarsi che non sia necessariamente
provata. Galilei sostiene che i suoi critici usino le Scritture in maniera volutamente mistificata per fare
scudo ai loro errori. Il copernicanesimo non c'entra niente con la fede, ma solo con le osservazioni, la
geometria e l'astronomia: nella filosofia naturale non c'è bisogno di nessuna ermeneutica. Anche l'autorità
della Scrittura riguarda un ambito preciso, il suo messaggio non riguarda i movimenti del cielo. La teologia
non è superiore alle altre scienze: essa deve essere come un re, egli governa i sudditi, ma non per questo
potrà pretendere di eguagliarli nei loro campi di competenza. Non si può valutare la contraddizione di 2
proposizioni che trovano sede di formulazione in campi diversi. Proibire gli uomini di guardare al cielo e alle
opere di Dio, questo secondo Galilei sarebbe la vera eresia. L'esito della proposta di Galilei naufragherà, e
sulle sue affermazioni cadrà la censura e lui sarà costretto ad abiurare.

Gli esiti della Lettera a Cristina di Lorena: La Lettera non produce nessun risultato concreto.
Il tentativo di Galileo – rafforzato dalle numerose citazioni tratte dai Padri della Chiesa – di ottenere una
pausa di riflessione tra i membri della Congregazione che avevano il compito di esibirsi in merito alla
censura di Copernico non darà i frutti sperati. Nel febbraio 1616 i teologi del S. Uffizio stendono l’atto di
censura sulle affermazioni che sostengono il moto della Terra intorno al Sole, e pochi giorni dopo Galileo
viene convocato e ammonito dal cardinal Bellarmino: dovrà, in futuro, «abbandonare completamente detta
opinione, non accoglierla, difenderla e insegnarla in alcun modo con parole e scritti». A marzo viene
pubblicato il decreto di condanna della Congregazione dell’Indice, con il quale si proibiscono tutti i libri che
sostengono la dottrina copernicana, a partire dallo stesso De revolutionibus orbium coelestium.

Galileo e Bruno
Galileo per ovvie ragioni tace nelle sue opere riguardo a Bruno, nonostante sia innegabile l'influsso che ne
ha subito.

Cena delle ceneri dialogo IV


Anche lui utilizza l'argomentazione sulla differenza del piano in cui si esercitano le autorità delle Scritture e
della filosofia naturale. Teofilo (il portavoce di Bruno) sostiene che sia palese che l'obiettivo della Bibbia non
sia quello di esporre teoricamente la struttura della natura. Se per le rivelazioni parliamo di Fede, per la
filosofia naturale parliamo di certezza. Le “certezze” di Bruno, al contrario di quelle di Galilei, sono di
carattere apertamente metafisico, non esattamente geometrico-matematico. Dio parla al volgo per
metafore e precetti proprio per lasciare ai contemplativi l'onere di sciogliere i nodi della struttura naturale.
Ogni ambito ha un suo linguaggio e deve rimanere fedele a questo, sconfinare altrove provocherebbe delle
cattive interpretazioni e dei fraintendimenti. Lo studio si fa attraverso le parole, il lessico è importante,
deve essere dunque fissato e rispettato. Gli stessi precetti e la stessa legge divina sono senza dubbio
necessari al volgo, come vincoli, i filosofi sanno già da soli quale sia la retta regola per comportarsi. Il
filosofo semmai ha il compito di dare nuovo significato alle parole rinnovando la materia. Lo stesso Averroè
distingue le leggi per la moltitudine dalla speculazione filosofica. Il fine di queste leggi deve essere la pace, il
progresso, non si parla di salvezza individuale bensì collettiva. In questo la figura ripresa è quella di
Salomone che preferisce sacrificare delle verità per non confondere i suoi interlocutori. Non è giusto
pretendere dal popolo più di ciò che può dare e capire. Dove la Bibbia parla con “indifferenza” si può
intravedere un lume poetico che apre una piccola porta di accesso alla verità assoluta che non tutti però
possono carpire. Questi “luoghi dell’indifferenza” sono dei confini epistemologici in cui si smette di parlare
il linguaggio del popolo per avvicinarsi verso una verità che è però dura da apprendere.
Per Bruno il libro di Giobbe è il più ricco di questi luoghi dell'indifferenza. Questo ha una dimensione
divina e naturale insieme. Bruno infatti chiamerà a sostegno Giobbe per difendere la sua dottrina,
specialmente per quanto riguarda la sua cosmologia. L'armonia naturale con la vicissitudine è descritta
secondo Bruno nel libro di Giobbe. Bruno interpreta i movimenti dei pianeti tramite un discorso sui flussi
“ematomici”, e in questa vitalità dei pianeti sostiene di trovare conferme nel libro del profeta. Il tema
dell’ombra viene ripreso da una citazione di Giobbe. Esso insegna che l'ombra trasporto delle
caratteristiche di quello a cui l'ombra appartiene a ciò che si trova sotto di essa.

Bruno insiste sulla complessità della scrittura aggiungendo la categoria dei luoghi dell’indifferenza,
contenuti specialmente in Giobbe. La stessa idea dell’ombra per esempio appare essere fondamentale. E
sempre da Giobbe Bruno riprende il tema della Sapienza. Quella che mostra il libro di Giobbe viene
considerata un'ottima teologia. La stessa idea della vita come militanza, lotta, passaggio delle anime,
reincarnazione e mutamento è ripresa da Giobbe. Bruno sostiene la potenza delle metafore, tanto che la
loro interpretazione di uno stesso concetto può portare a conclusioni addirittura opposte. La stessa
Scrittura è dunque un campo di battaglia, in cui Bruno cerca di far valere la giusta filosofia. Dunque esiste
anche una chiara distinzione nei campi tra quello dei teologi religiosi e quello dei filosofi. La fede è
necessaria ma solo per governare sul popolo rozzo, non per limitare chi è in grado di autogovernarsi come i
filosofi. Bruno però in seguito arriverà alla conclusione che questa posizione risulta limitativa se non
addirittura pericolosa. Negli anni inglesi Bruno vivrà il contrasto tra la corona inglese e i puritani e andrà a
collegare la religione, in qualsiasi sua declinazione, alla decadenza. La religione non può essere così
semplicemente data al popolo come legge, perché essa così finirebbe per sconfinare e divenire pericolosa.
Il termine polemico di riferimento è la religione luterana. Il filosofo ha il dovere di trasferirsi all'occorrenza
nell'ambito religioso per “disinnescare” gli elementi pericolosi o immorali. Se è Dio a decidere della nostra
vita ogni nostra azione dalla sua prospettiva non avrebbe senso, e tantomeno avrebbe senso il nostro
concetto di giustizia. La Riforma è quindi una deformazione rispetto al fiorente e inclusivo cattolicesimo
medievale.
Una religione è buona per Bruno se aderisce a 2 archetipi:
a) Uno che è quello proposto anni prima da Machiavelli e prendi per esempio la religione dei romani;
b) Il secondo aderisce invece all'antica tradizione religiosa degli egizi.
Questi 2 esempi vanno presi più che altro come schemi. Quella auspicata da Machiavelli è una religione
civile, funzionale alla coscienza sociale e alle virtù corrispondenti, proprio come avveniva per i romani. Il
paradigma egiziano ci insegna invece il modo corretto di rapportarsi a Dio, cercandolo appunto nella natura
come facevano gli egizi adorando ciò che c'era di divino negli animali.
La Sapienza che ci aiuta a creare le leggi civili non è qualcosa di diverso dalla verità di Dio, non ne è
svincolata. Per questo governo sfera civile e religione vanno posti in una linea di continuità. La religione è
buona se dà un impulso positivo alla vita associata, attraverso una buona etica e una buona morale fondate
sulla misericordia e sulla magnanimità. La grandezza dei romani, celebrata nella religione, era
principalmente politica e morale. Bruno arriva ad attribuire ai romani un abbozzo di morale cristiana
nonostante fossero pagani. A questo vincolo “orizzontale” e sociale se ne aggiunge un altro “verticale” che
lega l'uomo a Dio. Per descrivere questo legame Bruno fa appunto riferimento alla religione degli egizi. La
semplicità del divino si manifesta come segno negli enti naturali. La divinità, celata nella sua assoluta
perfezione, è però in tutte le cose. Gli egizi, lungi dall’essere pagani e idolatri, erano capaci di adorare in
tutti gli esseri viventi la loro scintilla divina. Questi esseri sono infatti il veicolo della divinità. A questo anche
si collegava la politica, per questo poteva essere considerata in fin dei conti una buona religione. Questo
rapporto col divino della natura si è ormai perso nella forsennata ricerca di un elemento mediatore. Ma
una nuova apocalisse cancellerà la “macchia” del cristianesimo per farci ritornare a quella antica
concezione naturalistica del divino.
Il testo dello Spaccio era dedicato alla regina Elisabetta, ma lei non accettò il modello di sovranità che Bruno le
proponeva. Bruno lavorò infatti anche per creare un legame tra la politica e la retorica attraverso la potenza
della parola. Per quanto riguarda la religione egli non rinuncerà alla reciprocità del cristianesimo.

SPINOZA (Amsterdam 1632- L’Aia 1677)

Nato da una famiglia di mercanti ebrei di origine portoghese, Spinoza è dedito fin da fanciullo allo studio
della lingua ebraica, di cui diventa conoscitore raffinato. Egli ha vissuto comunità ebraica di Amsterdam
attraversata da profonde tensioni, anche di carattere dottrinale come ad esempio la dottrina
dell’immortalità dell’anima e della resurrezione dei morti.

<<…Questa sorta di studi, nei quali consiste tutta la scienza dei giudei, non riusciva ad appagare uno spirito
brillante come il suo. A neppure quindici anni formulava problemi tali che i più dotti tra i giudei penavano a
risolvere: e sebbene una tale età non sia affatto quella del discernimento, pure egli ne possedeva a sufficienza
per rendersi conto che i suoi dubbi mettevano in imbarazzo il suo maestro. Temendo di irritarlo, si finse allora
soddisfatto delle sue risposte, limitandosi a scriverle per servirsene a tempo e luogo.
Dal momento che non leggeva che la Bibbia, fu ben presto in grado di fare a meno dell’interprete: e vi
faceva delle riflessioni così appropriate che i rabbini rispondevano ad esse al modo degli ignoranti i
quali, avendo esaurito i loro argomenti, accusano quelli che li incalzano di avere opinioni poco conformi
alla religione. >>
Jean Maximilien Lucas, La vita del signor Benedetto Spinoza (1719)

Spinoza è descritto come un bambino prodigio, i capi della comunità ebraica riponevano infatti in lui
grande aspettative. I temi teologici di cui si occupò maggiormente in giovinezza furono quelli
dell’immortalità dell’anima e del rapporto tra vita e morte. Ma i dubbi del giovane Spinoza misero spesso in
crisi i suoi maestri. Verrà infatti accusato di non avere opinioni conformi a quelle tradizionali. Spinoza si
allontanerà dunque dalla comunità aprendosi all’ambiente commerciale dei cosiddetti cristiani “senza
Chiesa” dal pensiero prevalentemente liberale. Qua si confronterà teoricamente con un gigante della
filosofia quale Cartesio, senza di lui non sarebbe probabilmente esistito il pensiero spinoziano.
Nel 1656 la sua eterodossia diviene ufficiale: lui viene denunciato ai capi della comunità ebraica dalla quale
verrà drasticamente allontanato e “maledetto”. Questo lo costringerà all’inizio di una peregrinazione. Ma
quali sono i caratteri di questa eterodossia? Non si può definire con certezza, infatti prima di questo evento
Spinoza non aveva ancora pubblicato niente! Le ragioni potrebbero essere queste:
• Spinoza pensava Dio anche come corporeo;
• La sua concezione mortalistica dell’uomo;
• Interpretazione del testo biblico, e in particolare della figura di Mosè, in chiave politica.
Nel racconto di un certo Thomas Solano Spinoza viene identificato addirittura come ateo. L’unico Dio che
accettavano infatti era un Dio che fosse aderente a quello definito dalla prospettiva biblica. C’è in effetti
una palese difficoltà infatti per i contemporanei ad etichettare Spinoza e il suo pensiero, che si muove
agilmente nell’analisi di svariati aspetti dei testi sacri. Di fatto Spinoza viveva umilmente da tornitore di
lenti, viveva in maniera estremamente morale, anzi etica. Capace dunque di istituire e rispettare un sistema
di leggi etiche indipendente da quello della religione.

1652: lascia la scuola ebraica e comincia a frequentare l’ambiente dei cristiani liberali, si avvicina quindi alle
dottrine dei maggiori filosofi contemporanei (Bacone, Descartes, Hobbes).
1654: ditta “Bento y Gabriel d’Espinoza”. A lezione di Franciscus van de Enden.
1656: Spinoza: le opinioni eterodosse e la sentenza di espulsione.
Denunciato ai capi della comunità ebraica per le sue idee eterodosse e, con ogni probabilità, per le sue
frequentazioni di ambienti cristiani, Spinoza viene invitato a difendersi dalle accuse. Ma egli decide di non
presentarsi in sinagoga.
27 luglio 1656: Spinoza viene espulso dalla comunità ebraica di Amsterdam con un durissimo bando di
herem dei Senhores do Mahamad (Consiglio direttivo della comunità), dopo vari tentativi di mediazione
La sentenza pronunciata contro Spinoza è conservata in trascrizione portoghese negli Archivi municipali
di Amsterdam:

«Noi scomunichiamo, espelliamo, malediciamo e danniamo Baruch de Espinoza, col consenso di Dio […] e
col consenso dell’intera santa congregazione, e di fronte a questi rotoli che recano scritti al loro interno i
613 precetti, maledicendolo con la scomunica con la quale Joshua mise al bando Gerico e con la
dannazione che Elisha fece cadere sui fanciulli e con tutti i castighi che sono scritti nel Libro della Legge. Che
egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza,
maledetto quando esce e maledetto quando rientra» […] «Il Signore non lo risparmierà: al contrario, la
collera del Signore e la sua gelosia si abbatteranno su quest’uomo, e tutte le maledizioni scritte in questo
libro penderanno su di lui, e il Signore cancellerà il suo nome da sotto il cielo. Il Signore lo allontanerà con
tutto il male dalla tribù d’Israele in obbedienza a tutte le maledizioni scritte in questo Libro della Legge. Voi
invece, voi che siete fedeli al Signore vostro Dio, ciascuno di voi è vivo quest’oggi».

Borges, Baruch Spinoza, da La moneda de hierro (1976)

Le traslucide mani dell’ebreo


sfaccettano nella penombra i cristalli
e la sera che muore è paura e freddo.
(le sere sono uguali alle sere).
Le mani e lo spazio di giacinto
che impallidisce sul confine del Ghetto
quasi non esistono per l’uomo quieto
che sta sognando un chiaro labirinto.
Non lo turba la fama, quel riflesso
di sogni nel sogno di un altro specchio,
né il timoroso amore delle fanciulle.
Libero dalla metafora e dal mito
sfaccetta un arduo cristallo: l’infinita
mappa di Colui che è tutte le sue stelle.

L’occaso, caligine d’oro, barbaglia


Sulla finestra. L’assiduo manoscritto
Aspetta, già pregno d’infinito.
Qualcuno costruisce Dio nella penombra.
Un uomo genera Dio. È un ebreo
Di tristi occhi e di pelle olivastra;
Il tempo lo trasporta come trascina il fiume
Una foglia nell’acqua che discende.
Non importa. Il mago insiste e foggia
Dio con geometria raffinata;
Dalla sua debolezza, dal suo nulla,
Seguita a modellare Dio con la parola.
Il più generoso amore gli fu largito,
L’amore che non chiede di essere amato.

AZIONI MALVAGIE – ABOMINEVOLI ERESIE – ATTI MOSTRUOSI

Spinoza a questa data non ha ancora pubblicato niente; e nelle lettere che ci sono pervenute non accenna
mai né al periodo, né all’argomento dell’espulsione dalla comunità. Ma i primi biografi sono concordi
nell’indicare soprattutto tre ragioni.

1. Dio non è soltanto spirito, ma alla divinità appartiene anche la corporeità;


2. L’anima dell’uomo è mortale;
3. Mosè non è fondatore e capo religioso della nazione ebraica, ma ne è il fondatore e capo politico.

C’è poi una testimonianza ulteriore, che risale a un periodo di poco successivo al herem, ma che è stata
scoperta negli archivi soltanto negli anni ’50 del Novecento. Si tratta di documenti dell’Inquisizione di
Madrid. Nel periodo compreso fra il 18 agosto 1658 e il 21 marzo 1659 Tomàs Solano y Robles vive ad
Amsterdam, dove conosce diverse persone che denuncerà al tribunale di Madrid nell’agosto 1659.
Nella sua deposizione egli dichiara di aver conosciuto, tra gli altri, anche Spinoza.

Un «giudeo ateo impudente»?

17 maggio 1661 Lo scienziato danese Olaus Borch, che soggiorna in Olanda per le sue ricerche, scrive nel
suo diario: «Vi sono degli atei ad Amsterdam; ma tra di essi molti sono cartesiani e tra questi un giudeo
ateo impudente […] C’è qui, nella vicina Rijnsburg, uno che da ex giudeo si è fatto cristiano, ma già
quasi ateo, che non tiene in alcuna considerazione il Vecchio Testamento e assegna lo stesso valore al
Nuovo Testamento, al Corano e alle favole di Esopo. D’altra parte quell’uomo vive in modo totalmente
onesto e senza colpe, e si occupa della costruzione di occhiali e microscopi».

A questa data, è considerato ateo non chi nega l’esistenza di Dio, ma chi, come fa Spinoza, non ne
riconosce la trascendenza e l’agire nel mondo in base a un piano razionale.

PIERRE BAYLE “Dizionario Storico Critico”


Pubblicato nel 1696 (in 2 vol.); poi nel 1702 (seconda ed.)
L’articolo Spinoza del Dictionaire historique et critique formula una definizione dello spinozismo destinata a
dominare tutto il Settecento:

«Spinoza, ebreo di nascita, poi disertore dell’ebraismo e infine ateo, era di Amsterdam. Egli fu un ateo
sistematico, secondo un metodo tutto nuovo, quantunque i fondamenti della sua dottrina siano comuni
a quelli di molti altri filosofi antichi e moderni, sia europei sia orientali».

Questo è il celebre inizio dell’articolo, nel quale Bayle sostiene che Spinoza fu il primo a mettere a sistema
l’ateismo «facendone una dottrina coerente e concatenata alla maniera dei matematici».
Ateo di sistema: Bayle aggiunge tuttavia che l’identificazione di Dio con il mondo o con la materia non è
un’invenzione di Spinoza. Anzi, esiste uno spinozismo «antico» e «moderno», «occidentale» e
«orientale». «Non vi è quasi alcun secolo in cui la dottrina di Spinoza non sia stata insegnata». Il problema
essenziale della filosofia spinoziana è assai antico, dato che risale alle origini stesse del pensiero
metafisico, nella concezione degli Eleati, il cui monismo era già «una specie di spinozismo»: il problema di
Spinoza risulta dunque come problema dell’essere. Ma, soprattutto, le stesse categorie centrali dell’Etica
costituiscono il risultato di una tendenza che percorre tutta la storia della filosofia.

1. Unicità della sostanza;


2. Principio della causalità immanente;
3. Identità dio/universo;
4. Relazione sostanza/modi.

Questi quattro nodi concettuali costituiscono altrettante anticipazioni dello spinozismo contenute in
filosofie anche molto diverse. La filosofia di Spinoza si distingue però per il suo carattere sistematico, per il
rigore e la completezza con cui ha riunito in un solo corpo di enunciati metafisici elementi sparsi del
pensiero monistico.
Questa idea, infatti, si trova già professata in alcune sette maomettane e, per la tradizione ebraico-
cristiana, dagli Stoici (con la dottrina dell’anima del mondo), da David di Dinant e da Pietro Abelardo.
Tra le filosofie orientali Bayle ricorda il sufismo, sette indiane e cinesi e la dottrina esoterica di certi bonzi
giapponesi, per i quali «il primo principio di tutte le cose e tutti gli esseri che compongono l’universo si
identificano in una sola sostanza, e pertanto tutte le cose sono Dio e Dio è tutte le cose».
Spinoza si è limitato a dare a idee correnti una formulazione geometrica: il metodo è completamente
nuovo ma, al contrario, «i fondamenti della sua dottrina sono comuni con quelli delle dottrine di molti
filosofi antichi e moderni, europei e orientali».
Secondo Bayle il sistema di Spinoza costituisce «l’ipotesi più mostruosa che si possa immaginare, la
più assurda, la più diametralmente opposta alle nozioni più evidenti del nostro spirito».

Dovendo scegliere fra il sistema filosofico di Spinoza e la visione tradizionale di Dio, secondo Bayle
«bisognerebbe […] optare per il sistema di vita normale, perché, oltre al privilegio del possesso, esso
presenta ancora il vantaggio di promettere grandi beni per l’avvenire, lasciandoci mille risorse consolanti
nelle infelicità di questa vita. Nelle miserie, infatti, quale consolazione è più grande di quella di lusingarsi
che le preghiere che indirizziamo a Dio saranno esaudite e che in ogni caso egli terrà conto della nostra
pazienza per darcene poi una splendida ricompensa?». […] «È certamente una grande consolazione anche
poter fare affidamento sul fatto che gli altri uomini conferiscono una certa importanza alla voce della loro
coscienza e al timore di Dio: ciò significa che l’ipotesi comune è al tempo stesso più vera e più comoda di
quella dell’empietà».

Un Dio spersonalizzato come quello di Spinoza è senza dubbio difficile da pensare. Il Dio di Spinoza non ha
niente di umano: né volontà né intelletto. La creazione non è frutto di un atto volontario, ma è stata anzi
qualcosa di necessario, che non sarebbe potuto non avvenire. Spinoza sottrae dunque questo alla
dimensione della casualità, della contingenza. La volontà presuppone la possibilità di un’azione opposta,
che in questo caso non è contemplabile. Il Dio di Spinoza è sottratto anche alla dimensione dell’affettività: essere
affetti vuol dire essere toccati da qualcosa di esterno, il che implica passività e cambiamento, un Dio immutabile
è estraneo a tutto ciò. È molto chiaro su questo punto specialmente nell’“Etica”. Il destino degli enti viene
pensato secondo una prospettiva inerziale, quasi meccanica, che ha a che fare con l’impulso desiderativo.
Quello di Spinoza è un Dio completamente diverso da quello tradizionale. Togliere a Dio la volontà per Bayle
equivaleva a renderlo un mostro. Spinoza si dimostra però sempre disponibile a spiegare nel dettaglio le sue
posizioni ai critici. La potenza di dio per Spinoza sta nell’ordine e nella regolarità.

Spinoza: contro un Dio “dal volto umano”

«Io, per non confondere la natura divina con quella umana, non assegno a Dio attributi umani, ossia
volontà, intelletto, attenzione, udito ecc. Dico pertanto […] che il mondo è un effetto necessario della natura
divina e che esso non è stato fatto per caso. […] Invece, chi afferma che Dio avrebbe potuto omettere la
creazione del mondo conferma, sebbene con altre parole, che esso è stato fatto per caso, perché è derivato
da una volontà che poteva anche non darsi».

Lettera di Spinoza a Boxel, ottobre 1674

Se a Dio non possono essere attribuite proprietà umane, tanto meno potranno essergli riconosciuti affetti,
come gioia, tristezza, amore, odio, ira, compassione, misericordia. Tutti gli affetti implicano infatti
passività e mutazione, e tali caratteri non sono possibili nell’essere assolutamente infinito e immutabile.

“Infine dici di non concedere a Dio alcun attributo umano per non confondere la natura divina con quella
umana, cosa che ammetto fino a un certo punto; infatti non comprendiamo in che modo Dio agisca né
in che modo voglia, intendi, valuti, veda, ascolti, ecc. In verità, se continui a negare queste operazioni e
le nostre più alte speculazioni riguardo a Dio, sostenendo che esse non si trovano eminentemente e
metafisicamente in Dio, ignoro il tuo Dio o che cosa tu intenda con la parola Dio.
Se attribuisci a Dio la necessità e lo privi di volontà o libera scelta, si potrebbe dubitare che tu lo dipinga e
lo presenti, lui che è ente infinitamente perfetto, alla stregua di un mostro.”

Boxel a Spinoza, ottobre-novembre 1674

Nelle ultime parole di Boxel è evidente la radice dell’equivoco fondamentale rispetto al modo di concepire
Dio. Boxel considera infatti la perfezione divina come un’estensione di quella umana, senza comprendere
che per Spinoza la perfezione non è separabile dall’infinito e che quest’ultimo non è comparabile né con
la categoria del finito, né con quella dell’umano.

<<… Quando dici che ti sfugge quale Dio io abbia, se nego che l’atto di vedere, udire, osservare, volere, ecc.
si diano in Dio in modo eminente, sospetto che tu creda che non esistano perfezioni maggiori di quelle che
si possono spiegare con i ricordati attributi. Non mi meraviglio di questo, perché credo che anche il
triangolo, se avesse la facoltà di parlare, direbbe ugualmente che Dio è triangolare in modo eminente e
ilo cerchio direbbe che la divina natura è circolare in modo eminente. Così ognuno ascriverebbe a Dio i suoi
attributi, si renderebbe simile a Dio e il resto gli sembrerebbe di forma diversa…>>

Spinoza a Boxel, novembre 1674

Credere nei miracoli, eventi extra-ordinari, sarebbe invece uno svalutare la figura di Dio. Per Spinoza infatti
i veri atei sono i suoi detrattori, quelli che intrappolano Dio in una gabbia di imperfezioni umane. I profeti
sono visti da Spinoza come affetti da un’eccessiva immaginazione, vanno dunque “filtrati” per essere
compresi.
Spinoza «ateo virtuoso»

All’interno di un giudizio molto duro, Bayle concede tuttavia un riconoscimento – l’unico – a Spinoza per la
virtù della sua vita:
«Coloro che hanno avuto qualche contatto con Spinoza e gli abitanti del villaggio ove egli visse ritirato per
qualche tempo, sono concordi nel dire che egli era un uomo di buona compagnia, affabile, onesto, gentile
e assai austero nei suoi costumi. Ciò è assai strano ma, in fondo, non bisogna meravigliarsene più di quanto
si faccia vedendo persone che, completamente persuase della verità dell’Evangelo, vivono in pratica assai
malamente».

BAYLE “PENSIERI SULLA COMETA” (1682)

Questione religiosa: religione cristiana, pagana e ateismo.


§ 175-176 È veramente strano, lo ammetto, che un uomo nella sua vita si comporti moralmente
bene senza credere in un paradiso o in un inferno. Ma […] l’uomo è una creatura che, nonostante tutta
la sua ragione, non agisce tuttavia secondo i princìpi nei quali crede. Gli stessi cristiani ce ne danno prove
sufficienti. […] Il vero movente delle azioni umane è ben diverso dalla religione che ciascuno professa.
Poiché, moralmente parlando, vi sono atei con ottime inclinazioni, è facile concludere che l’ateismo non è
una causa necessaria di una cattiva condotta di vita, ma solo una causa accidentale, o meglio una causa
che determina la corruzione dei costumi solo in coloro che hanno già una tendenza al male, sufficiente a
corromperli anche se non sono atei.

§ 178 La ragione, anche se priva della conoscenza di Dio, può talvolta convincere l’uomo dell’esistenza
di cose oneste, che è bello e lodevole fare non già per l’utilità che ne deriva, ma perché sono conformi a
ragione.


§ 181 Se i pagani, seguendo la loro inclinazione, sono talvolta riusciti ad esercitare la virtù, perché
negare agli atei questa possibilità? Forse che il loro desiderio di lode non è abbastanza forte? Ma si può fare
qualcosa di più di ciò che fece Spinoza prima di morire? […] Spinoza era il più grande ateo che sia esistito.
Era rimasto così irretito da certi princìpi filosofici che, per meglio meditarli, si rifugiò in una specie di ritiro,
rinunciando a tutte le cose che si chiamano piaceri e vanità del mondo, per dedicarsi esclusivamente alle
sue astruse meditazioni.

SULLA MORALITA DEGLI ATEI

Sulle scelte morali del credente, oltre alla semplice volontà di agire moralmente bene, insistono anche altri
moventi. E in genere non mancano motivazioni legate all’interesse presente e futuro del soggetto: «I cristiani
più devoti, se vogliono essere sinceri, ammetteranno che il legame più forte che li unisce a Dio […]
è la considerazione che egli distribuisce ricompense infinite a coloro che gli ubbidiscono, ma che
punisce eternamente coloro i quali lo offendono».

[Dictionnaire, voce Epicuro, nota N]

Nelle morali religiose, inoltre, a questo aspetto “mercenario”, si accompagna una tendenza pericolosa a
ritenere i precetti della ragione inferiori rispetto a eventuali comandamenti divini ricevuti nella forma di
presunte ispirazioni: «Se la coscienza [di un cristiano] gli dettasse che è necessario uccidervi, vi ucciderebbe
sul posto, perché crederebbe che lo Spirito Santo glielo ordina».

Bayle compie quindi un vero e proprio rovesciamento della posizione tradizionale:

• la morale tradizionale è interessata, irrazionale e tendenzialmente violenta;


• le buone azioni di chi non crede in Dio sono dettate solo dalla pura ragione, e «avranno tanta
più moralità quanto meno quest’ultima sembrerà loro collegata alle ricompense divine».

TRADIZIONE (Ateismo annienta la morale) VS BAYLE (Ateismo come forma più pura della morale)

Un ateo non può essere spinto a dogmatizzare da nessun motivo di coscienza, e inoltre non potrà mai
contrapporre ai magistrati questa sentenza di san Pietro: “È meglio obbedire a Dio che agli uomini” −
principio che noi consideriamo con giustizia come una barriera impenetrabile a ogni giudice secolare, e
come l'asilo inviolabile della coscienza. Un ateo, una volta privato di quella protezione così grande, resta
giustamente esposto a tutto il rigore delle leggi, e, una volta espressi i suoi sentimenti contro le accuse
che gli verranno rivolte, potrà essere punito come sedizioso, perché, pur non credendo a niente che sia
posto al di sopra delle leggi umane, osa comunque calpestarle.
➔ →
MORALITA’ BELLA OBBEDIENZA A DIO contaminata dalla dimensione passionale.
➔ →
MORALITA’ RAZIONALE RIMANDA ALLA COSCIENZA pura, razionale e disinteressata.
3 esempi che Bayle presenta come atei virtuosi sono: Epicuro, Vanini e infine Spinoza.

ADESIONE ALLA FEDE VS ESERCIZIO DELLA RAGIONE

Vi è quindi una contraddizione di fondo nella riflessione di Bayle: se da una parte si sostiene che la religione
sia necessaria ad educare gli uomini e i popoli ad una corretta morale dall’altra si ammette che la religione
sia inefficace a muovere la coscienza umana nel profondo fino a trasformare un uomo cattivo in uno
buono. Infatti un uomo malvagio resterà tale anche se fortemente religioso.

Gli uomini dipendono da egoismi e passioni dominanti e la religione non è altro che una forza in grado di
stimolarli e potenziarli in quanto capacità di disinibire gli istinti. Se la religione è fanatismo e intolleranza, o
addirittura guerra civile e repressione delle minoranze, allora meglio un «re spinozista» che un re cristiano;
e meglio sudditi increduli che sudditi religiosi, pronti a seguire ciecamente i loro sacerdoti per ribellarsi
contro il potere costituito. Lo Spinoza descritto da Bayle rappresenta una figura piuttosto problematica,
tant’è che la religione per Bayle ha una connotazione tutt’altro che positiva. Tuttavia riconosce come un
individuo corrotto moralmente lo sia indipendentemente dal fatto che creda o meno. Il problema comincia
quando la legge del credo si contrappone a quella civile. Solo l’ateo è “nudo” davanti al magistrato.
Abbiamo già esposto le differenze tra una moralità “bella” e una razionale. La ragione può elaborare una
moralità come fine a sé stessa. Se ci sono stati dei bravi uomini pagani ce ne possono essere anche di atei,
Spinoza è uno di questi: “il più grande ateo”, nonostante un lessico descrittiva tutt’altro che gentile usato
da Bayle.

L’ATEISMO: UNA FILOSOFIA IMPEGNATIVA

L’ateismo “positivo”, cioè l’ateismo di chi nega assertivamente Dio (opposto all’ateismo puramente
negativo di chi non conosce Dio) è per Bayle un fenomeno senz’altro raro, che può diffondersi soltanto fra
le élites intellettuali: non nel popolo, non nelle donne, non nelle corti e negli eserciti.
(Pensieri sulla cometa, §§ 150 sgg.).

L’ateismo, in altri termini, è per Bayle una posizione destinata ad attecchire soltanto fra i filosofi e in quanto
filosofia, al riparo da occhi indiscreti e senza alcuna pretesa di cambiare il mondo. L’ateismo richiede infatti un
esame attento e faticoso delle prove, delle argomentazioni, delle obiezioni, nel rispetto delle leggi della
dialettica e senza nessuna concessione ai luoghi comuni dei moralisti e dei predicatori: non
è fatta per chi trascorre la giornata «tra bicchieri e boccali», ma per chi è disposto a «rompersi il capo a
studiare le cosiddette dimostrazioni di Spinoza».
I veri nemici della religione, coloro che non credono in nulla, che si vantano di essere degli esprits forts e di
dubitare di tutto, che cercano di confutare gli argomenti in favore dell’esistenza di Dio, che rendono sempre
più sottili le difficoltà da sollevare contro la provvidenza, non sono in genere persone molto viziose. (§ 175).

UN GIUDEO ATEO IMPUDENTE

Una sorta di trattato sull’ateismo che traspare dal TTP è costituita dallo scambio epistolario tra Lambert
Van Velthuysen (medico e teologo cartesiano di Utrecht) e il predicatore mennonita Jacob Ostens del
gennaio 1671.

La lettera si conclude con queste battute:

«Hai qui […], a te consegnato in compendio, l’essenziale della dottrina del TTP. Questo libro, a mio giudizio,
cancella e sovverte dalle fondamenta ogni culto e ogni religione, insegna di nascosto l’ateismo oppure finge
un Dio che, per esser soggetto al fato, non incute agli uomini nessun timore reverenziale. Non lascia inoltre
spazio alcuno alla direzione e alla provvidenza di Dio e cancella ogni attribuzione di pene e premi».

E inoltre

«Da questo scritto risulta almeno con immediata evidenza che l’autore annienta l’autorità della Sacra
Scrittura, di cui fa menzione soltanto a parole. Consegue infatti dalla sua posizione che anche il Corano è
parola di Dio. […] E, secondo la dottrina dell’autore, non è per Dio cosa infrequente il ricondurre nel
circuito dell’obbedienza e della ragione, avvalendosi di altre rivelazioni, anche le nazioni alle quali non ha
impartito gli oracoli che affidò a Giudei e Cristiani […] L’autore di questo libro si è convinto che, se avesse
deposto e abbandonato ogni pregiudizio, sarebbe stato in grado di esaminare meglio le opinioni per cui gli
uomini arrivano a scindersi in partiti e fazioni. Perciò si è adoperato più del necessario a liberare il suo
animo da ogni superstizione: per mostrarsi immune da essa ha piegato troppo in dimensione contraria, e
per evitare la colpa del superstizioso si è liberato – mi sembra – di ogni religione…

Non dipende […] dalla volontà umana che il contenuto dei precetti, se trasgredito oppure osservato,
procuri agli uomini qualcosa di male o di bene, così come non è in potere dell’uomo piegare la volontà di
Dio con le preghiere o fargli mutare i suoi decreti eterni e assoluti».

Lettera di Lambert van Velthuysen a Jacob Ostens, 24 gennaio 1671

RISPOSTA DI Spinoza a Jacob Ostens, marzo 1671

«In primo luogo [Van Velthuysen] afferma che è poco importante sapere la mia origine o quale regola di
vita io segua [«Mi sfugge la sua origine e la sua regola di vita»]. Certo, se l’avesse saputo non si sarebbe
convinto così facilmente che io insegni l’ateismo. Gli atei, di solito, sono alla ricerca di onori e ricchezze:
cose che io ho sempre disprezzato, come sanno tutti quelli che mi conoscono. La base del suo
ragionamento consiste nel ritenere che io cancelli la libertà di Dio e sottometta Dio al fato. Il che è falso. Io,
infatti, ho stabilito che tutto consegue per inevitabile necessità dalla natura di Dio […]».

Il Dio di Spinoza c’è, ed è il fatto di essere pensato in maniera non antropomorfa a renderlo realmente
perfetto. Tra noi è Dio c’è un salto che non può essere spiegato né compreso, non si dà una gerarchia
graduale come nella tradizione aristotelico-scolastica. Nell’infinità di Dio si perdono quelle connotazioni
tradizionali: tra un secolo e l’eternità c’è la stessa differenza che tra un secondo e quell’eternità. “Nulla
proportio” è la prospettiva di Spinoza come di Cusano (che tuttavia risolveva il problema attraverso la
mediazione della figura cristica). In Spinoza come in Bruno ogni tipo di umanizzazione viene
perentoriamente esclusa, la stessa Bibbia è solo un prodotto umano, un testo storico, da trattare dunque
come tale.

TEMA DELLA SPROPORZIONE

L’incommensurabilità di finito e infinito è tesi fondamentale sia in Bruno che in Spinoza. Come scrive
Spinoza nella lettera a Hugo Boxel dell’ottobre 1674: «Questo so: che tra finito e infinito non si dà
alcuna proporzione. Sicché la differenza che c’è tra la massima e più eccellente creatura e Dio non è
diversa da quella che c’è tra Dio e la minima creatura».

- Giordano Bruno, De la causa, principio et uno, Dialogo V (1584):


Similmente ne l'immenso non è differente il palmo dal stadio, il stadio da la parasanga; perché alla
proporzione de la inmensitudine non più si accosta per le parasanghe che per i palmi. Dunque
infinite ore non son più che infiniti secoli, e infiniti palmi non son di maggior numero che infinite
parasanghe. Alla proporzione, similitudine, unione e identità de l'infinito non più ti accosti con
essere uomo che formica, una stella che un uomo; perché a quello essere non più ti avicini con
esser sole, luna, che un uomo o una formica; e però nell'infinito queste cose sono indifferenti.
E quello che dico di queste, intendo di tutte l'altre cose di sussistenza particulare.

- Spinoza a Henry Oldenburg, novembre/dicembre 1675


[…] Ho detto espressamente di ignorare che cosa significhi ciò che alcune Chiese aggiungono, che
cioè Dio abbia assunto forma umana; anzi, a dire il vero, mi sembrano affermazioni assurde,
come quella di chi mi dicesse che il circolo ha assunto la natura di quadrato.

Per questa profonda ragione filosofica in Spinoza viene meno, così come in Bruno, ogni possibilità di
umanizzazione o addirittura di incarnazione di Dio. La ragione e la stessa Scrittura, correttamente
interpretata, escludono che Dio possa assumere natura umana o qualsiasi altra natura determinata.
Una volta denunciato il mito dell’incarnazione umana di Dio, Spinoza ne demolisce un secondo: che Dio
possa e debba avere, in modo eminente, le proprietà che costituiscono la perfezione suprema
dell’uomo, ossia intelletto e volontà.
La soluzione che Spinoza elabora per il riscatto del finito non è più, quindi, la consolazione offerta dalla fede in
un Dio provvidente e remuneratore e in una vita ultraterrena. Per Spinoza la strada maestra per raggiungere la
salvezza è piuttosto quella di una saggezza intesa come “meditazione della vita”, fondata su una comprensione
naturalistica del mondo e degli affetti umani. Questa eccentricità del pensiero spinoziano è il risultato
dell’originale confronto critico con suggestioni di natura molteplice. Si tratta di «una delle esperienze filosofiche
più alte, radicali e solitarie dell’Occidente», tra ebraismo e nuova scienza.»

«Filosofo morale e metafisico, pensatore politico e religioso, esegeta della Bibbia, intagliatore di lenti,
commerciante fallito, intellettuale olandese, ebreo eretico in terra calvinista» = complessità e diversità dei
contesti in cui Spinoza si trova a operare.

SPINOZA TRADIZIONE religiosa, filosofica e mistica dell’EBRAISMO + studio dei TESTI della NUOVA
SCIENZA della NATURA e di diverse correnti filosofiche (dalla Scolastica al naturalismo, dal Rinascimento
a Descartes).

Spinoza a Henry Oldenburg, settembre/ottobre 1665

Henry Oldenburg intratterrà con Spinoza un carteggio. Gli argomenti saranno la guerra tra Olanda e Inghilterra
e l’analisi riguardante la natura umana nell’ambito di questi importanti sconvolgimenti politici. Il
compito del filosofo non è quello di giudicare questa natura, l’uomo non risponde a logiche avulse da
quella naturale, noi facciamo parte della natura e in quanto parti come le altre siamo connesse a queste e
governate dal medesimo ordine. Spinoza per la sua etica si rifiuta di creare schemi deontologici (“dover
essere”) astratti, guidati da un’idea della natura umana completamente infondata. I moralisti che
agiscono in questo modo si occupano più di satira che di etica. La politica della prassi invece ostenta un
machiavellismo deteriore. Tra quella astrattezza aerea e questa concretezza deteriore Spinoza decide di
elaborare una “geometria” per comprendere le azioni degli uomini ancor prima di giudicarle. Lui cerca di
individuare le proprietà della natura umana, questo è il significato della filosofia per Spinoza.

A me […] tutto questo finimondo non muove né al riso né al pianto; mi incita piuttosto a filosofare e a osservare
meglio la natura umana. Non ritengo che mi sia lecito, infatti, irridere la natura umana e tanto meno
deplorarla, quando penso che gli uomini, come ogni altra cosa, sono soltanto una parte della natura, e io ignoro
in che modo ciascuna parte si accordi con il tutto e sia coerentemente connessa alle altre.
Sto ora componendo un trattato sul mio modo di comprendere la Scrittura. A farlo mi muovono le
seguenti ragioni:
1. I pregiudizi dei teologi. So, infatti, che essi costituiscono il massimo ostacolo che impedisce agli uomini
di dedicarsi alla filosofia. È dunque mia cura denunciarli e rimuoverli dalla mente dei più prudenti;
2. L’opinione che il volgo ha di me, poiché non cessa di accusarmi di ateismo. Sono dunque costretto,
per quanto mi è possibile, a stornare da me anche questo pregiudizio;
3. La libertà di filosofare e di dire ciò che sentiamo: libertà che desidero affermare in ogni modo, e che
in ogni modo è qui conculcata dall’eccessiva autorità e invadenza dei predicatori.

Spinoza, Trattato politico, Cap. 1

Per indagare gli oggetti di questa scienza con la stessa libertà d’animo che di solito utilizziamo nelle
matematiche, ho curato attentamente di non deridere, né compiangere, né tanto meno detestare le azioni
umane, ma di comprenderle. Ho contemplato dunque gli affetti dell’uomo – l’amore, l’odio, l’ira, l’invidia,
la gloria, la misericordia e le altre commozioni dell’animo – non come vizi, ma come proprietà della natura
umana, che ad essa competono così come alla natura dell’aria appartengono il calore, il freddo, la
tempesta, il tuono e cose simili. Le quali, benché moleste, sono tuttavia necessarie e possiedono cause
certe, per mezzo delle quali ci sforziamo di comprendere la loro natura. E la mente gode tanto nella loro
contemplazione, quanto nell’esperire cose gradite ai sensi.

Il TRATTATO TEOLOGICO POLITICO viene pubblicato anonimo nel gennaio 1670, con l’indicazione di
un falso luogo di pubblicazione (Amburgo) e di un falso editore (Heinrich Künrath) [ma viene stampato
in realtà ad Amsterdam da Jan Rieuwertsz].


La pubblicazione degli Opera posthuma Spinoza muore nel febbraio 1677 e nel novembre dello stesso
anno Jan Rieuwertsz – affidatario dei manoscritti – e altri amici/discepoli curano la pubblicazione degli
Opera posthuma, nella versione latina e olandese. Qui, fra gli altri scritti, sono inclusi l’Etica, il Trattato
politico (redatto negli ultimi anni di vita e rimasto incompiuto), il Trattato sull’emendazione dell’intelletto e
l’epistolario. Manca il Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene, rinvenuto solo nell’Ottocento in due
manoscritti in lingua olandese e pubblicato nel 1862.
• Trattato sull’emendazione dell’intelletto;

• Etica;

• Trattato politico;
• Epistolario;

• Compendio di una grammatica della lingua ebraica (solo nella versione latina)

Una volta resa pubblica anche l’Etica, Spinoza diventerà per più di un secolo l’emblema stesso di
una filosofia ad un tempo, ascetica e “maledetta”, che ha scosso fin nelle fondamenta convinzioni
profondamente radicate nella tradizione occidentale.

- IDEA DI DIO: negazione di una divinità personale e della sua provvidenza.


- IDENTIFICAZIONE DI NECESSITA’ E LIBERTA’: tutto è determinato da un rapporto causa/effetto.
- RIFIUTO DI UN’ETICA DEL SACRIFICIO.

Nulla, di certo, se non una torva e triste superstizione vieta la gioia. Infatti, perché dovrebbe
convenire di più estinguere la fame e la sete che scacciare la malinconia? Questo è il mio criterio e
così ho disposto il mio animo: nessuna divinità né altro, se non un invidioso, può godere della mia
impotenza e della mia sofferenza, né considerare virtù le mie lacrime, i miei singhiozzi, la mia
paura, e le altre cose di questo genere, che sono segni di un animo impotente.
Al contrario, quanto maggiore è la gioia che proviamo, tanto maggiore è la perfezione alla quale
ci eleviamo, ossia tanto più partecipiamo necessariamente della natura divina. È proprio dunque
dell’uomo sapiente servirsi delle cose e, per quanto è possibile, goderne (non certo fino alla
nausea, perché questo non è più godere). È proprio dell’uomo sapiente, dico, ristorarsi e ricrearsi
con cibi e bevande moderati e piacevoli, con profumi, con la delizia delle piante verdeggianti, con
gli ornamenti, con la musica, con gli esercizi fisici, con gli spettacoli teatrali e altre cose simili, delle
quali ciascuno può godere senza alcun danno altrui.
(Spinoza, Etica 4, Prop. 45, Scolio)

Nell'appendice alla prima parte dell'Etica spiega come sia nato il pregiudizio che vorrebbe Dio agente
secondo un piano. La libertà di Dio diviene paradossalmente ciò che noi chiameremmo necessità, ovvero
non poter fare altrimenti rispetto a quello che si fa. La libertà massima è infatti quella che ci permette di
assumere il punto di vista della causa originaria. L'etica di Spinoza si scaglia contro quella cristiana del
pentimento e della rinuncia. La Cupiditas è desiderio di autoconservazione, e le passioni tristi e gioiose
prendono origine proprio da questa da qui. Non c'è niente di virtuoso nel censurare le passioni, questo anzi
testimonia la meschinità dell'uomo. Noi siamo tanto più perfetti quanto più viviamo in aderenza con la
natura divina, ovvero quella causa necessaria. Sarà dunque un’etica dell’equilibrio, della medietà. E proprio
del sapiente riuscire a godere della bellezza della vita, purché non lo faccia recando danno agli altri.

CRITICHE E CONDANNE

La condanna definitiva del TTP viene pronunciata dalle Corti d’Olanda nel 1674, e una condanna analoga
arriva il 25 giugno 1678 per gli Opera, giudicati come distruttori della fede e della religione cristiana.
Rispettivamente nel febbraio 1679 e nell’agosto 1690 il TTP e gli Opera entrano anche nell’Indice dei
libri proibiti della Chiesa cattolica.

La filosofia di Spinoza viene discussa e confutata in maniera articolata da pensatori importanti


(Malebranche, Arnauld, e soprattutto Leibniz, con cui intrattiene un rapporto particolarmente complesso).

Ma fino alla fine del Settecento il termine “spinozista” riassume tutti i connotati negativi che si possono
attribuire a una filosofia, a una dottrina, a un uomo. Se si vuole accusare qualcuno di ateismo gli si dice
“spinozista”; se lo si accusa di materialismo, di epicureismo, di libertinismo, basta dire: «è uno
“spinozista”», e questo termine sintetizza ogni critica negativa. Il primo Settecento produce addirittura una
serie di testi in prosa e in versi, denigratori non solo dell’opera, ma anche della figura di Spinoza.
Eccone alcuni esempi:

«Sputa su questa tomba! Qui giace Spinoza. Ma insieme vi sia sotterrata la sua parola, così che la peste
delle anime non continui a mietere vittime». OPPURE «Spinoza, capo degli eretici, bestemmiatore del vero
Dio, rinnegato dai giudei, rovina di moltissimi».

PERCORSI SOTTERRANEI E CLANDESTINI

- Tradizione manoscritta;
- Edizioni anonime (o con falsi titoli) del TTP in Olanda, Germania, Francia e Inghilterra;
- Lettura radicale di Spinoza nella lettura filosofica clandestina.

La genesi del Trattato dei tre impostori


1678-1697: nucleo originario, in 6 capitoli, a opera del medico Jean-Maximilien Lucas. Testo
ampiamente rimaneggiato e infine predisposto per l’edizione a stampa (1719) da Charles Levier,
al quale si deve la risistemazione del testo con l’inserimento di capitoli basati su fonti libertine.

una presenza forte nella cultura romantica e idealistica: Nel 1785 esce l’opera con la quale si fa in genere
iniziare la rinascita spinoziana in Germania e in tutta Europa.

La dottrina di Spinoza pubblicata da Jacobi nelle sue Lettere al signor Moses Mendelssohn apre la stagione
romantica tedesca, che vedrà accendersi una vera e propria passione per Spinoza, individuando in lui un
termine di paragone determinante per fondare criticamente la nuova filosofia della natura e dello Spirito che il
nascente idealismo tedesco sta costruendo. Sotto questo profilo, non c’è pensatore che non si pronunci su
Spinoza – da Herder a Schiller (Lettere filosofiche, 1786), da Schleiermacher (Spinozismo, Esposizione del
sistema di Spinoza, Discorsi sulla religione, 1799) a Fichte, da Schelling a Hegel. Nelle Lezioni sulla storia della
filosofia Hegel conia addirittura un termine – «Philosophiren ist spinoziren», scrive – per indicare con ciò che o
la filosofia assume il punto di vista dell’ontologia spinoziana, oppure non è filosofia.

2) RAPPORTO CON LA VERITA’

SPINOZA
Una vita per la verità

“Ma ormai lascio vivere ciascuno come vuole e, se vogliono, muoiano pure in difesa del loro bene, purché
a me sia consentito vivere per la verità”.
Spinoza a Oldenburg, settembre/ottobre 1665

IL NESSO TRA FILOSOFIA E VITA

Spinoza pensa la vita, e non la morte, come fine supremo della filosofia. La filosofia è per lui l’attività
propria dell’uomo libero, che medita sulla vita. Si tratta di un dato originario, a partire dalla descrizione
della propria “conversione filosofica”, descritta nelle pagine iniziali del Trattato sull’emendazione
dell’intelletto (1656-57).
“L’uomo libero a nulla pensa meno che alla morte e la sua sapienza è meditazione non della morte, ma
della vita.”
Etica 4, Prop. 67

Spinoza si è in un certo senso “convertito” nel suo modo di intendere la realtà. Il Bene e il Male non sono
condizioni oggettive come nel pensiero comune, l’unica oggettività è deducibile dal rapporto che
intrattiene il nostro animo con queste situazioni. Spinoza ovviamente sta parlando delle passioni. Noi
dobbiamo comprendere il rapporto con queste passioni per comprenderne la verità. Il Bene della filosofia
è quello che tiene insieme tutte le buone passioni che in generale si muovono nello spettro compreso tra
speranza e timore. Il bene vero è libero dalla tirannia delle passioni ed è in ultima istanza quel bene che è
Dio. Come pervenire a un nuovo regime di vita? Ricchezza, onore e piacere sono considerati i beni
principali per la moltitudine, ma questi allontanano il pensiero da quelli che sono i veri beni. La nostra
felicità riguarda l’oggetto del nostro amore, quello che non si ama non genera passioni.
L’oggetto del vero amore è eterno e infinito, in quanto bene duraturo per eccellenza, questo Bene va
cercato. Tutte le nostre azioni devono essere dirette a questo fine. Bene e Male sono dunque valori
relativi che riguardano il punto di vista del singolo. Tutte le cose derivano dalla perfezione originaria e ci
derivano secondo una catena di causa ed effetti necessaria. La debolezza umana non arriva però a
comprendere quest’ordine perfetto, tuttavia è stimolato a raggiungere quello che chiama Vero Bene. Il
Vero Bene è dunque un mezzo per conseguire la stabilità e il Sommo Bene sta nel godimento di questa
stabilità insieme agli altri individui della società.

TRATTATO SULL’EMENDAZIONE DELL’INTELLETTO

• Non ultimato;
• non trasmesso agli amici;
• visibilmente stratificato


EMENDATIO E-MENDACIUM = azione che libera da errore e inganno (lessico che stringe insieme Bacone e
Hobbes); Prospettiva di una medicina della mente.

Albero della Filosofia

• Centralità della riflessione sul bene;


• Conoscenze dirette e subordinate alla conquista di una vita buona;
• Indagine sul metodo fondata su questo presupposto
• Fine impossibile da conseguire senza un corpo adeguato di conoscenze;


§1 Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che frequentemente si incontrano nella
vita comune sono vane e futili, e quando vidi che tutti i beni che temevo di perdere e tutti i mali che temevo
di ricevere non avevano in sé nulla di bene né di male, se non in quanto l’animo ne era turbato, decisi
infine di ricercare se si desse qualcosa che fosse un bene vero e condivisibile e dal quale soltanto, respinti
tutti gli altri, l’animo fosse affetto; anzi, se esistesse qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e
acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema.

§3 Meditavo dunque se non fosse per caso possibile pervenire a un nuovo regime di vita, o almeno alla
certezza di esso, senza mutare l’ordine e il regime abituale della mia vita: ciò che spesso, invano, tentai. […]
Le cose che si incontrano per lo più nella vita e sono considerate dagli uomini come bene supremo, per
quanto è lecito concludere dalle loro opere, si riducono a queste tre cose: ricchezza, onore e piacere.
Queste tre cose disorientano a tal punto la mente dal renderla del tutto incapace di pensare a qualche
altro bene.


§6 Vedendo dunque che tutte queste cose vi si opponevano tanto [al nuovo regime di vita], […] ero
costretto a indagare che cosa fosse più utile per me; mi sembrava appunto di voler abbandonare, come ho
detto, un bene certo per uno incerto. Però, dopo aver riflettuto un po’ sull’argomento, trovai dapprima
che, se mi fossi applicato al nuovo regime, abbandonate queste cose, avrei lasciato un bene incerto per
sua natura […] per un bene incerto non già per sua natura (cercavo infatti un bene stabile), ma soltanto
riguardo al suo conseguimento.


§9 Tutta la felicità o infelicità risiede soltanto nella qualità dell’oggetto al quale l’amore ci lega. Infatti, a
causa di ciò che non si ama non sorgeranno mai liti, non ci sarà alcuna tristezza se perisce, nessuna invidia se
viene posseduto da un altro, nessun timore, nessun odio o, per dirlo con una parola, nessun turbamento
dell’animo. Tutto questo si dà invece nell’amore per le cose che possono perire, come sono tutte quelle delle
quali abbiamo appena parlato. Ma l’amore verso una cosa eterna e infinita nutre l’animo di sola gioia ed è
privo di ogni tristezza: questo si deve desiderare grandemente e cercare con tutte le forze.


§ 12 Qui dirò soltanto, in breve, che cosa io intenda per vero bene e, insieme, che cosa sia il sommo
bene. Per comprenderlo rettamente, si deve notare che bene e male non si dicono se non in senso relativo,
sicché una sola e identica cosa può esser detta buona e cattiva secondo diversi punti di vista, allo stesso
modo che perfetto e imperfetto. Nulla, infatti, considerato nella sua natura, si dirà perfetto o imperfetto,
soprattutto dopo che avremo conosciuto che tutte le cose che avvengono sono prodotte secondo un ordine
eterno e secondo leggi determinate della natura.


§ 13 Ma poiché l’umana debolezza non giunge a comprendere quell’ordine con il proprio pensiero e,
intanto, l’uomo concepisce una qualche natura umana molto più stabile della propria senza veder nulla che
impedisca di conseguirla, egli è stimolato a cercare i mezzi che lo conducano a tale perfezione: tutto ciò
che può costituire un mezzo per conseguirla si chiama vero bene; invece il sommo bene consiste nel
pervenire, se è possibile insieme ad altri individui, al godimento di tale natura. Quale sia questa natura
mostreremo a suo luogo: senza dubbio essa consiste nella conoscenza dell’unione che la mente ha con
l’intera natura.


§ 14 Questo è dunque il fine al quale tendo: acquisire tale natura e sforzarmi affinché molti
l’acquisiscano con me. Ciò significa che è costitutivo della mia felicità anche adoperarmi a che molti altri
intendano la stessa cosa che intendo io, affinché il loro intelletto e la loro cupiditas convengano
pienamente con il mio intelletto e la mia cupiditas.


§ 16 Ciascuno potrà già vedere che io voglio dirigere tutte le scienze a un unico fine, ossia al
conseguimento della suprema perfezione umana, della quale abbiamo detto. E così, tutto quello che nelle
scienze non ci fa avanzare verso il nostro fine deve essere gettato via come inutile. Per dirlo con una
parola, tutte le nostre azioni e insieme i nostri pensieri devono essere diretti a questo fine.

Cupiditas = Appetito consapevole, che coincide con la pulsione a conservare il proprio essere =

essenza stessa dell’uomo costituisce l’essenza di ogni affetto
AFFETTO + CONSAPEVOLEZZA= ESSENZA DELL’UOMO
LA NATURA E IL FINE DELL’ESPERIENZA FILOSOFICA

La verità non va solo ricercata e praticata, ma anche diffusa e fatta conoscere, in vista della realizzazione di
una comunità di uomini più liberi, perché guidati dalla ragione. Infatti, non c’è nulla di più utile all’uomo
che l’altro uomo guidato dalla ragione, come si legge in Etica 4, Prop. 18, Scolio.

Un circolo «organizzato con adeguata saggezza»


S. De Vries a Spinoza, Amsterdam, 24 febbraio 1663
«Per quanto concerne il circolo, il lavoro è organizzato in questo modo: uno (ma a turno) legge, dà una
spiegazione secondo la sua comprensione e dimostra tutto secondo la serie e l’ordine delle proposizioni.
Quando accade che l’uno non possa soddisfare l’altro, abbiamo ritenuto importante annotare la questione e
scriverti affinché, se è possibile, ci sia resa più chiara e, sotto la tua guida, possiamo difendere la verità contro
quelli che sono religiosi e cristiani in modo superstizioso, resistendo all’assalto di tutto il mondo».

Una conferma dal Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo


bene Conclusione
«Per concludere tutto, mi rimane ancora da dire agli amici per i quali scrivo questo trattato: non
meravigliatevi di queste novità, poiché sapete bene che una cosa non cessa di essere verità soltanto
perché non è accettata da molti. E poiché voi non ignorate neppure la condizione dell’epoca in cui
viviamo, voglio ancora insistere pregandovi di essere ben attenti per quanto riguarda la comunicazione di
queste cose ad altri».

«Non voglio dire che dobbiate tenerle unicamente per voi, ma solo che, se mai cominciaste a comunicarle
a qualcuno, non vi spinga alcun altro scopo che non sia soltanto la salvezza del vostro prossimo, essendovi
assicurati con evidenza riguardo a lui, che non perderete questa ricompensa del vostro lavoro. Infine, se
nel leggere queste cose, incontrate qualche difficoltà contro ciò che io pongo per certo, allora chiedo che
per questo non vi affrettiate subito a confutarlo, prima di averlo ponderato con sufficiente tempo e
meditazione. E, ciò facendo, sono sicuro che perverrete al godimento, che vi ripromettete, dei frutti di
questo albero».

TEI: come si può arrivare a una conoscenza vera?


Per la funzione che svolge all’interno della filosofia di Spinoza, il Trattato sull’emendazione dell’intelletto è
stato paragonato al Discorso sul metodo di Descartes: ma, rispetto a quest’ultimo, risulta maggiormente
sottolineata la finalità morale della conoscenza.

-DISCORSO SUL METODO 1637 Ricerca della verità + approdo alla VERA SCIENZA.

-TEI Ricerca della verità + approdo al VERO BENE.

-MEDITAZIONI METAFISICHE 1641 Ricerca della verità + INGEGNOSO ESPERIMENTO MENTALE+ accenno sul
SEMEL (una sola volta nella vita).

-TEI Ricerca della verità + PROFONDA CRISI personale e spirituale + accenno sull’INTERA vita (esperienza
insegna davvero soltanto a chi fa NON dei propri pensieri, MA della propria vita un campo di ricerca).

Spinoza pone come questione prima del filosofare quella della “vita buona”, in quanto espressione più
profonda del nostro essere, la cui essenza non è, come voleva Descartes, il puro pensiero, ma la tensione
desiderante, la cupiditas. La vera filosofia, come realizzazione della “vita buona”, dipende perciò dalla
possibilità di sciogliere il nodo problematico che lega il desiderio di un vero bene alla conoscenza della sua
natura. Occorrerà dunque rifondare la nostra conoscenza in modo da condurci più rapidamente alla
verità. Spinoza, tuttavia, pensa che la natura dell’intelletto si identifichi con una innata potenza di verità
intesa quale strumento e origine del vero. Se fosse altrimenti − se cioè il nostro intelletto non fosse in
grado di produrre idee vere −, allora niente potrebbe far sì che un giorno noi giungessimo alla verità di una
qualsiasi idea.

Dunque, l’intelletto va purificato da ogni falsa immagine di sé proprio per distinguerlo da ogni altra forma
di percezione, riportandolo alla retta comprensione della sua potenza connaturata al vero. Mentre
Descartes, con l’ipotesi del genio maligno, aveva distinto certezza e verità per arrivare, grazie al dubbio
iperbolico, all’indubitabilità come carattere fondamentale di ogni certezza, per Spinoza la certezza emana
dall’essenza stessa dell’idea vera: «per la certezza della verità non è necessario alcun altro segno che il
possesso di un’idea vera».

Mi chiedi come io sappia che la mia filosofia è la migliore di tutte quelle che furono, sono, saranno mai
insegnate nel mondo. […] Io non presumo di aver trovato la filosofia migliore, ma so di comprendere quella
vera. Se domandi come lo sappia, ti risponderò così: al modo stesso con cui so che i tre angoli del triangolo
sono uguali a due retti. E nessuno negherà che ciò sia sufficiente, almeno nessuno che sia sano di cervello e
non sogni spiriti immondi, che ci ispirano idee false simili a quelle vere. Il vero, infatti, è indice di se stesso
e del falso. (Spinoza ad Albert Burgh, settembre 1675)

Se per qualche ragione di ordine psicologico, quindi estranea alla natura oggettiva del vero, può sussistere
in noi una qualche impressione di incertezza, questa non potrà provenire dalla presenza dell’idea vera,
ma solo dall’influenza che possono esercitare su di noi idee confuse, che ostacolano o offuscano la
consapevolezza di possedere un’idea vera.

Se per Descartes un’idea è vera perché è indubitabile, per Spinoza è indubitabile proprio perché è vera.
Perciò, ordinando tutte le verità a quella indubitabile del Cogito per farne l’inizio e la norma assoluta della
filosofia, Descartes non ha proceduto, secondo Spinoza, come era necessario procedere. Egli, infatti,
avrebbe dovuto porre a principio della sua riflessione un’altra idea. Non un’idea vera qualunque, ma quella
dell’ente perfettissimo.

«Alcuni oggetti sono instabili per loro natura; invece altri non sono instabili [solo] in virtù della loro causa;
ma un terzo è eterno e stabile solo per sua forza e potenza; [..] Instabili sono tutte le cose particolari che
non sono esistite da sempre, ossia che hanno avuto inizio. Gli altri oggetti sono tutti quei modi che
abbiamo detto essere causa dei modi particolari. Ma il terzo è Dio o – ciò che assumiamo come una sola e
medesima cosa – la verità». [Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene, II, cap. 5, § 2]

La verità viene identificata con Dio, perché Dio è conosciuto immediatamente per sé come lo è la verità.
Come la verità non può essere conosciuta che mediante se stessa, così Dio, causa della conoscenza di
ogni altra cosa, non può essere conosciuto che mediante se stesso.
Breve trattato, II, cap. 24, §13: «Concludiamo che Dio, per farsi conoscere agli uomini, non può e non
deve usare parole né miracoli, né alcun’altra cosa creata, ma solo se stesso».
La conoscenza di Dio non può che essere immediata: risulta qui evidente la critica alla rivelazione
(per mezzo di parole, segni esteriori o miracoli) quale strumento della conoscenza di Dio.

Dal momento che la verità è indice di se e del falso, non si può riconoscere e vincere l’ignoranza se non
possedendo la verità. Questo significa che se non si possiede un’idea adeguata di Dio, che si costituisce nella
mente in modo immediato, non vi si potrà mai giungere e non si avrà mai lo strumento fondamentale per
conseguire la propria libertà. Dunque non un’idea vera qualunque viene posta da Spinoza al principio della
sua riflessione, ma quella dell’ente perfettissimo. Così, perfettissimo sarà il metodo che procederà
riflessivamente a partire dall’idea vera dell’ente perfettissimo. E la mente potrà trarre tutte le sue idee solo
da quella che rappresenta la fonte e l’origine di tutte le altre. Da qui seguono le quattro fasi che il metodo
deve poter garantire.

1. Distinguere idea vera da restanti percezioni;


2. Fornire regole per conoscere secondo tale norma le cose sconosciute;
3. Attingere l’idea dell’ente perfettissimo;
4. Istituire un ordine.

Perciò, conclude Spinoza, «all’inizio, si dovrà attendere soprattutto a pervenire quanto più rapidamente
possibile alla conoscenza di tale ente». Nel TEI Spinoza distingue quattro gradi di conoscenza (destinati a
diventare tre nella formulazione dell’Etica): la conoscenza di grado più basso è quella per sentito dire,
che ci porta a seguire acriticamente le opinioni altrui; mentre la conoscenza suprema è l’intuizione, con la
quale conosciamo gli effetti a partire dalle loro cause e l’ente incausato (Dio) direttamente nella sua
essenza. Delle quattro forme di conoscenza, solo la quarta ci consente di comprendere adeguatamente
l’essenza delle cose e ci conduce quindi nell’ambito del vero, ma anche dell’adeguato.

Che cos’è un’idea vera? Secondo Spinoza, l’idea vera si manifesta come tale per i propri caratteri interni ed
è corrispondente al suo oggetto. Spinoza arriverà a sostenere che le idee vere della mente umana sono le
stesse idee possedute dalla mente divina. La ragione, se viene attivata, partecipa della verità delle idee
adeguate quali si trovano in Dio (verità logiche, geometriche, matematiche): «Chi ha idee adeguate
diventa parte dell’intelletto infinito di Dio».

E che cos’è un’idea adeguata? Un’idea adeguata è non solo vera, cioè corrispondente al suo oggetto, ma
permette anche di dedurre tutte le proprietà dell’oggetto che essa rappresenta: è cioè in grado di
definirne l’essenza o la causa. Al contrario, l’idea inadeguata è un’idea carente, e questa carenza non
consente la conoscenza dell’essenza e dell’insieme delle proprietà di ciò che l’idea rappresenta. A
differenza di Descartes, Spinoza ritiene che avere conoscenza adeguata di qualcosa comporti anche la
consapevolezza di averla, grazie alla certezza che l’idea adeguata implica. Il che rende impossibile quel
tipo di dubbio che Descartes aveva pensato di poter estendere anche alle idee chiare e distinte.

Già nel TEI, il buon metodo per condursi nella ricerca della verità per Spinoza non è dunque quello che
indaga i caratteri esterni di un’idea, vale a dire la certezza psicologica (che accompagna un’idea vera) o il
dubbio (che accompagna un’idea falsa), ma è piuttosto quello che insegna a organizzare il sapere in
funzione della fecondità delle idee, a seconda cioè della quantità di conoscenze che può essere ricavata a
partire da un’idea. Il sistema delle conoscenze deve quindi fondarsi su un’idea in grado di far dipendere
da sé tutte le altre. Questa è appunto l’idea di un essere che è causa di tutte le cose. Da essa seguono le
idee delle leggi di natura, che sono valide per tutti gli enti. Qui comincia ad affacciarsi un’idea che sarà
centrale nella metafisica di Spinoza.


ORDINE DELLA CONOSCENZA ORDINE DELLA NATURA
METODO SINTETICO:
- Spinoza chiama i teoremi “proposizioni”;

-Definizioni di assiomi da cui vengono tratte dimostrazioni procedura che riproduce idealmente l’ordine logico

della realtà intero insieme delle dimostrazioni si fonda sulle prime verità, e ogni proposizione si fonda e rimanda
alle precedenti.

La deduzione delle proprietà di una cosa dalla sua definizione è, nel pensiero, ciò che in natura è la
produzione di un effetto dalla causa. Se quindi si troveranno delle definizioni vere, quella da cui tutte le
proprietà del definito derivano, il pensiero avrà la garanzia di muoversi nella dimensione dell’oggettività.
È proprio della natura della ragione percepire le cose secondo verità, cioè come sono in sé, ossia non
come contingenti, ma come necessarie.

La conoscenza umana (quando è vera) e la conoscenza divina sono identiche e, di conseguenza, per Spinoza
non è richiesta alcuna garanzia per avallare la certezza del sapere umano. Ma ogni forma di pensiero che
non rispetti questo ordine, e che parli degli effetti senza conoscerne le cause, è irrimediabilmente erronea e
inadeguata. La mente umana, al contrario di quella divina, non possiede infatti soltanto idee adeguate. Per
Spinoza il modello della conoscenza inadeguata è quello della conoscenza immaginativa che, ignorando le
cause, finge spiegazioni fantastiche per ogni fenomeno naturale.


DIVERSI GENERI DI CONOSCENZA LIVELLI DELLA VITA AFFETTIVA ED ETICA DELL’UOMO

Un nuovo modello di uomo

Eliminate le sostanze finite della tradizione (aristotelico-scolastica, ma anche cartesiana), per Spinoza
corpo e mente non sono pensati come qualcosa di separato (che pur non avendo nulla in comune riescono
a costituire una terza sostanza individuale), ma come un solo e medesimo individuo, che si esprime e si
conosce simultaneamente sotto due attributi diversi. Il rapporto mente/corpo non va pensato in termini di
relazione. Spinoza dice espressamente che l’uomo è una sola e medesima cosa, che può essere pensata
simultaneamente sotto l’attributo del pensiero o sotto l’attributo dell’estensione. Dunque, non due cose:
ma una sola cosa, che, per poter essere pensata simultaneamente sotto attributi diversi, in sé non può
essere né pensante, né corporea. E la stessa mente umana non è altro che l’idea complessa (ossia costituita
da molte idee) di un corpo umano esistente in atto, e assimilabile a un individuo composto da molti altri
individui, di ognuno dei quali si dà un’idea nella mente.
Questo unico e medesimo individuo, in cui consiste ogni uomo, è una determinazione dell’unica potenza
della sostanza sotto attributi diversi. Ed è così per ogni determinazione del finito: dal punto di vista
ontologico, ogni espressione finita della sostanza è soltanto una certa determinazione della sua potenza,
ossia è una forza determinata che tende alla conservazione di sé in un mondo di forze che tendono
parimenti alla propria conservazione.
Determinazione dell’unica potenza della sostanza sotto attributi diversi, l’uomo è corpo ed è mente, ossia
due modi che non hanno nulla in comune tra loro, e che, pertanto, non possono agire l’uno sull’altro. Tutta
la problematica secolare dell’unione tra sostanze separate viene completamente annullata, e si istituisce
una nuova nozione di uomo. L’uomo appare ora come una forza neutra (non fisica e non psichica), posta in
relazione con le infinite altre forze neutre che costituiscono le espressioni del finito nell’universo.
Ecco perché Spinoza ci dice che l’essenza dell’uomo non va cercata né nel corpo, né nella mente, ma
altrove. In Etica 3 Spinoza dice che l’essenza dell’uomo è espressa dalla cupiditas – la forza desiderante
con cui l’uomo tende a conservare se stesso. Nell’universo di Spinoza, ciascun ente ha una sua identità solo
in quanto tende a conservare il proprio stato e ad accrescere la propria potenza (conatus) di fronte ai corpi
esterni. In più, l’uomo è consapevole di se e della propria tensione desiderante.
Nell’uomo, dunque, il conatus prende il nome di cupiditas (= tensione desiderante unita
alla consapevolezza della presenza di tale tensione).

Per Spinoza la cupiditas è la forma originaria a partire dalla quale si modulano e si generano tutti gli affetti.
Cosa dobbiamo intendere per affetto? «Per affetto intendo le affezioni del corpo con le quali la potenza di
agire dello stesso corpo è aumentata o diminuita, favorita o ostacolata e, simultaneamente, le idee di
queste affezioni».

I gradi della conoscenza in Spinoza

Spinoza istituisce un nesso indissolubile tra il possesso di idee adeguate (= in grado di riflettere la struttura
delle cose) e la possibilità per l’uomo di liberarsi dalla schiavitù degli affetti e delle passioni.
In tutte e tre le redazioni della teoria della conoscenza che ci ha tramandato (Trattato sull’emendazione
dell’intelletto, Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene, Etica) Spinoza distingue diverse forme del
conoscere. Nell’Etica troviamo la versione più matura e, ad un tempo, più sintetica (Etica 2, Prop. 40, Scolio
II).

1. CONOSCENZA DI PRIMO GRADO PERCEZIONI PER CONOSCENZA VAGA: cose singole,
rappresentate a noi mediante i sensi in modo mutilato, confuso e senza ordine per l’intelletto +
OPINIONE/IMMAGINAZIONE: segni, ad esempio da questo che, udite o lette certe parole, ci
ricordiamo delle cose e formiamo di esse certe idee simili a quelle mediante le quali le
immaginiamo.

2. CONOSCENZA DI SECONDO GRADO RAGIONE: nozioni comuni e idee adeguate delle
proprietà delle cose. La ragione e l’intelletto sono le due facoltà alle quali è concesso di
raggiungere la conoscenza adeguata.

3. CONOSCENZA DI TERZO GRADO SCIENZA INTUITIVA: conoscenza procede dall’idea adeguata
dell’essenza formale di certi attributi di Dio alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose.


1. CONOSCENZA DI PRIMO GENERE esperienza vaga, e idee mutile e confuse
La conoscenza di primo genere, che il Breve Trattato chiama credenza, fede, opinione nell’Etica si
identifica con l’immaginazione. Quello che Spinoza chiama imaginatio va inteso nel senso di
“capacità di riproduzione del mondo esterno”, e consiste sia nella capacità di produrre
rappresentazioni di cose attualmente presenti sia, e ancor più, di riprodurle anche in loro assenza.
Essa include dunque sensibilità, memoria, capacità di comporre e scomporre immagini.
Le rappresentazioni immaginative sono prodotte secondo leggi naturali e dunque hanno un
aspetto di positività. Tuttavia, le rappresentazioni immaginative costituiscono per lo più affezioni
del nostro corpo, che ne registrano la passività rispetto alle cause esterne. Così, gli affetti che si
esprimono mediante immaginazione sono passioni; e queste ultime tengono l’uomo schiavo del
loro potere.
La conoscenza di primo genere, a sua volta, è articolata in due tipi. Anzitutto, è conoscenza di
primo genere quella dell’uomo che forma «nozioni universali» – cioè trae conclusioni generali –
a partire da una «esperienza vaga» = idee delle affezioni del nostro corpo.
Si tratta di quelle idee che sono il corrispettivo mentale delle modificazioni subite dal nostro corpo
in seguito all’incontro fortuito con le cose esterne (percezioni di suoni, odori, colori, ecc.).
Questa forma di conoscenza è generata dall’esperienza sensibile ed è del tutto estranea all’ordine
dell’intelletto.
Le idee che essa produce sono prive di ordine e «mutile», in quanto non rispecchiano la totalità
dei rapporti in cui ogni cosa è inserita, ordinati secondo una rigida legge di determinazione causale.
Inoltre, esse sono confuse, in quanto sovrappongono alla cosa rappresentata le modificazioni del
nostro corpo e variano dunque inevitabilmente da soggetto a soggetto. Il possesso di idee
inadeguate è intrinseco alla finitezza della mente umana. Nel suo svolgersi nel tempo, infatti, essa
si riempie di percezioni di cui ignora le cause, e che inducono necessariamente all’errore. Chi si
affida alle percezioni sensibili è dunque inevitabilmente immerso nella conoscenza inadeguata, e
quindi nell’errore. Al contrario di Descartes, Spinoza pensa infatti che ogni percezione implichi
necessariamente un giudizio e che, se la percezione è inadeguata, il giudizio che la concerne è
sempre errato, né la mente può astenersi dal credere il falso. Le ragioni per cui le percezioni di
origine sensibile sono sempre errate sono diverse. In primo luogo, esse mancano della conoscenza
delle loro cause. In secondo luogo, dipendono dalla natura del soggetto e deformano l’oggetto
percepito secondo le caratteristiche del corpo percipiente. Inoltre, dal momento che la mente è
idea del corpo, essa registra nella forma incerta di associazione di idee e di memoria tutti i
collegamenti tra le tracce cerebrali che l’esperienza produce, sulla base delle modificazioni che il
corpo subisce nell’incontro con gli altri corpi. Infine, per la stessa ragione, essa ha solo idee delle
modificazioni del corpo, ma non conosce se stessa e il corpo indipendentemente da queste
modificazioni. Per questo motivo le idee delle affezioni del nostro corpo in cui consiste
l’immaginazione, pur generate secondo precise leggi di natura, non possono costituire la base di
una conoscenza scientifica.

La seconda variante della conoscenza di primo genere è invece quella che forma le proprie
idee delle cose accettando senza verifiche le conoscenze altrui, recepite attraverso segni quali,
ad esempio, le parole.

Per Spinoza l’immaginazione è il genere di conoscenza più basso, fonte di idee «mutile e confuse», cioè di
quelle idee inadeguate che pongono l’uomo in una condizione di passività rispetto alle cause esterne e in
uno stato di schiavitù rispetto alle passioni. Tuttavia, occorre ricordare come per Spinoza l’immaginazione
non sia esclusivamente fonte di errore, bensì costituisca una manifestazione fisiologica e necessaria della
mente umana, in quanto legata al corpo di cui è idea.


IMMAGINAZIONE FONTE DEL PREGIUDIZIO + MANIFESTAZIONE NECESSARIA DELLA MENTE
La rivalutazione della corporeità che caratterizza la filosofia spinoziana rispetto alle teorie tradizionali si
riverbera quindi anche sulla sua teoria dell’immaginazione, conferendole caratteri peculiari. Come la
mente è l’idea del corpo, così le immagini con le quali le cose esterne ci si presentano – cioè le idee proprie
dell’immaginazione – sono le idee delle modificazioni che avvengono nel nostro corpo sotto l’impulso
delle cause esterne. Si tratta di idee che si danno nella nostra mente in maniera necessaria, in virtù del
parallelismo psicofisico. Dal momento che le modificazioni corporee permangono anche una volta venute
meno le cause che le hanno provocate, nella mente permangono anche le idee di esse; motivo per cui
nella mente ci possono essere anche le idee di cose assenti. L’immaginazione, infatti, non è altro che la
rappresentazione meccanica e necessaria – cioè regolata da leggi – delle cose esterne come presenti, che
può avere luogo anche quando esse sono assenti o non esistenti.
IMMAGINAZIONE E COSE ESTERNE

Immaginazione: Ha come oggetto COSE PRESENTI + COSE LONTANE o INESISTENTI
In Etica 2 Spinoza sottolinea come l’immaginazione sia un’espressione fisiologica della mente, ineliminabile
e necessaria quanto le affezioni del corpo. E la raffigurazione di cose vicine o lontane come presenti – in cui
consiste appunto l’immaginazione – non costituisce in sé un vizio della natura umana, ma al contrario una
virtù e una forza, a patto che l’evocazione non si sovrapponga tanto alla mente da far sì che si creda
effettivamente presente ciò che invece è assente. Quando oggetto dell’immaginazione sono individui
presenti, essa non ci fa conoscere, è vero, l’essenza delle cose esterne: infatti l’immaginazione ci offre le
idee delle affezioni del nostro corpo, facendoci conoscere così unicamente l’impatto che la cosa esterna ha
su di noi. Ma informandoci sugli effetti che le cose esterne hanno sul nostro corpo, l’immaginazione ci offre
risorse preziose per discernere ciò che è utile o dannoso alla conservazione del nostro essere, in cui
consiste il bene.

MEMORIA
Quando oggetto dell’immaginazione sono oggetti lontani nel tempo o nello spazio o addirittura inesistenti,
l’evocazione di ciò che è assente è l’elemento senza il quale non sarebbero possibili la comunicazione e le
relazioni tra gli uomini, né ogni tipo di collegamento tra fatti psichici.
OGGETTO: COSE PRESENTI= effetti delle cose su di sé scambiati dalla mente che immagina per la reale
essenza delle cose (DIMENSIONE DELL’ERRORE).


IMMAGINAZIONE passioni-profezia-religione come superstizione
I pregiudizi prodotti dall’immaginazione: In questi pregiudizi si esprimono non solo passioni individuali, ma
anche collettive. I principali pregiudizi riguardano naturalmente Dio, il mondo e l’uomo.

PREGIUDIZI SU DIO: - Dio ha creato tutte le cose dal nulla mediante intelletto e libera volontà;
- Dio possiede una libertà indifferente di creare il mondo, non crearlo o crearlo
diverso;
- Dio può sospendere le leggi che egli stesso ha assegnato alla natura, ossia può
compiere miracoli;
- Dio può comunicarsi agli uomini medianti segni o parole.

La scienza intuitiva come culmine della conoscenza e della virtù


Il nesso vita intellettuale/vita etica vale anche per gli stadi superiori della conoscenza. Il processo di
emancipazione dalle passioni, infatti, può compiersi solo attraverso l’acquisizione di quella «conoscenza
adeguata» delle cose che, preclusa all’immaginazione/opinione, e prerogativa della ragione e della
scienza intuitiva.


2. CONOSCENZA DI SECONDO GENERE ragione come conoscenza discorsiva delle leggi
naturali Alla ragione compete per Spinoza una conoscenza di carattere universale. È vero che
anche l’immaginazione può produrre idee universali, ma in questo caso esse sono il risultato
dell’assommarsi confuso di percezioni singolari. Le idee prodotte dall’immaginazione appaiono a
Spinoza assimilabili agli universali della Scolastica, sia quando pretendono di individuare le
essenze universali delle cose, come “uomo” o “animale”, sia quando pretendono di individuare i
generi sommi, come l’ente, l’uno, il vero. E non solo queste idee sono confuse, ma variano anche
da individuo a individuo, a seconda delle caratteristiche che più hanno colpito le menti nella loro
esperienza sensibile. Mentre gli universali della ragione sono idee concepite nello stesso modo da
tutte le menti. La potenza della ragione si fonda proprio sulla capacità naturale dell’uomo di
conoscere ciò che è comune e permanente nella molteplice variabilità dell’esperienza. Attraverso
la ragione, la mente umana è quindi in grado di raggiungere una conoscenza universale in forza
delle proprietà che sono comuni al proprio corpo e ai corpi esterni. Queste sono in primo luogo le
proprietà fisiche comuni ai corpi, e identiche sia nel corpo percepito che nel corpo percipiente. La
ragione, infatti, forma leggi universalmente valide partendo non dalle idee delle affezioni corporee,
bensì dalle «nozioni comuni», cioè dalle idee delle componenti geometrico-matematiche comuni
al nostro corpo e al corpo che ci impressiona.
In tutti i corpi finiti è presente la struttura dell’estensione e della relazione moto/quiete. Tale struttura
resta sempre la stessa, pur nella varietà infinita dei corpi e delle loro affezioni. La ragione permette
dunque la conoscenza di ciò che è comune in tutti i corpi. Una nozione comune è, ad esempio,
l’affermazione che tutti i corpi o si muovono, o stanno fermi. E dato che ciò che è comune
è sempre identico sia nel tutto che nella parte, non può mai essere conosciuto parzialmente, ma solo in
modo completo e adeguato. A differenza delle idee delle affezioni del nostro corpo, le idee di ciò che è
comune a tutti i corpi sono per Spinoza sempre «adeguate», cioè riflettono la struttura delle cose,
identica per tutti gli uomini. Le proprietà comuni non sono conosciute per astrazione dalla molteplicità
dei dati percepiti: al contrario, ogni percezione contiene le informazioni relative a queste proprietà, e la
mente è in grado di riconoscerle purché vi presti attenzione. Proprio in quanto sono idee adeguate, le
«nozioni comuni» ci permettono di raggiungere leggi universalmente valide in ogni scienza. La ragione,
infatti, non solo è conoscenza adeguata di quanto
è comune a tutti i corpi ma, simultaneamente, anche capacità di dedurre da queste altre
conoscenze anch’esse adeguate.

COMPITO DELLA RAGIONE= Costruzione dell’albero delle scienze + costruzione della società umana

La vera virtù non è altro che vivere sotto la guida della sola ragione: Per Spinoza, quanto più si amplieranno
l’esercizio e la potenza della ragione, che produce conoscenze identiche e condivisibili in tutti gli uomini,
tanto più si estenderanno la sicurezza e la pace.

La ragione come accesso alla conoscenza di Dio: La conoscenza di secondo genere non è in grado di per
sé di cogliere l’essenza delle singole cose, ma produce nella mente una forte pulsione a conoscere con il
terzo genere, con la conoscenza immediata.


1. IMMAGINAZIONE GRADO DI CERTEZZA= soggettiva

OGGETTO= affezioni del corpo

RISULTATO= conoscenza inadeguata e parziale


2. RAGIONE GRADO DI CERTEZZA= oggettiva e universalmente valida

OGGETTO= nozioni comuni

RISULTATO= conoscenza adeguata delle leggi universali


3. SCIENZA INTUITIVA GRADO DI CERTEZZA= oggettiva e universalmente valida

OGGETTO= Dio e tutte le cose in quanto derivano da lui

RISULTATO= conoscenza adeguata di Dio e cose singole


3. CONOSCENZA DI TERZO GENERE sapere intuitivo come conoscenza adeguata di Dio
La terza e più alta forma di conoscenza (= «sapere intuitivo», nella pagina dell’Etica) si svolge in direzione
inversa rispetto alla conoscenza razionale. Per scienza intuitiva Spinoza intende infatti quel sapere che,
invece di procedere alla formulazione di leggi universali, muove immediatamente dalla conoscenza più
universale possibile – l’idea dell’essenza di Dio – per dedurre, a partire da essa, l’essenza delle cose singole
nel nesso che le lega ai loro attributi.

“suprema pulsione della mente e la sua suprema virtù”

Da questo terzo genere di conoscenza nasce il supremo acquietamento possibile della mente. Spinoza
sostiene che la scienza intuitiva ha carattere immediato, e ne fornisce un unico (e discusso) esempio: la
conoscenza che la mente ha di se stessa. La possibilità per la mente di conoscere con questo terzo genere
è data dal suo rapporto con l’eternità, ossia dalla presenza, in essa, dell’idea eterna dell’essenza del corpo.
Dio è causa non soltanto dell’esistenza ma anche dell’essenza di questo e di quel corpo umano; perciò tale
essenza deve essere concepita necessariamente mediante la stessa essenza di Dio, e questo con una certa
eterna necessità; tale concetto deve dunque necessariamente darsi in Dio. Un procedimento simile è per
Spinoza possibile, dato che secondo i presupposti della sua ontologia tutte le cose particolari sono in Dio –
che è causa della loro essenza ed esistenza – e «sono concepite per mezzo di Dio», cioè possono essere
conosciute adeguatamente solo attraverso la sostanza infinita, che ne è la causa prima.

→ →
Conoscenza di primo genere ERRORE In quanto conoscenza frammentaria e inadeguata, il primo genere
di conoscenza considera le cose come contingenti.

Conoscenza di secondo e terzo genere Ragione e scienza intuitiva, in quanto conoscenza adeguata e vera,
considerano le cose come necessarie, cogliendo i rapporti e la struttura in cui esse sono inserite.

Esempio del più alto livello di conoscenza intellettuale intuitiva/perfezione umana: CRISTO = Spinoza
svincola la figura di Cristo da ogni concetto di inveramento della manifestazione definitiva di Dio. Per
Spinoza la ragione e la stessa Scrittura, correttamente interpretata, escludono che Dio possa assumere
natura umana o qualsiasi altra natura determinata. L’idea di incarnazione è piuttosto il prodotto della
speculazione e dell’interpretazione arbitraria delle Chiese. Così come è esposta nel linguaggio delle
Chiese, l’Incarnazione esprime l’assurdo logico-concettuale di un Dio che si fa carne − equivalente, sul
piano della geometria, a un cerchio che si sia fatto quadrato. Tuttavia, a differenza di Giordano Bruno,
Spinoza espunge Cristo dalla dimensione del divino, ma non dall’intero orizzonte della sua filosofia.

Nel carteggio con Oldenburg Spinoza ci dice che:

• Cristo è stato solo uomo;

• non ha operato alcuna salvezza mediante il suo sacrificio, ma solo con l’insegnamento e l’esempio;

• la sua resurrezione va intesa in senso metaforico, spirituale e non fisico. Cristo ha ricevuto in
dono da Dio l’eternità per il suo singolare esempio di santità e di sapienza in vita e in morte.
Questa ragione si estende anche ai suoi discepoli, che Cristo stesso resuscita dai morti (sempre in
senso figurato), in quanto essi ne seguono l’esempio.
Cristo è, per Spinoza, la massima espressione della sapienza. La sapienza eterna di Dio − intesa come
consapevolezza etica, come capacità di distinguere il bene dal male − è possesso naturale di tutti gli uomini,
ma si manifesta in modo particolare nell’uomo-Cristo. Cristo ha recepito giustamente e adeguatamente
più di chiunque altro il vero messaggio etico della religione. E lo ha compreso attraverso una conoscenza
intuitiva del Dio/Natura:

«Di Cristo […] si deve pensare che colse le cose veramente e in modo adeguato; giacché non fu un profeta,
ma la bocca di Dio. Dio infatti rivelò alcune cose al genere umano attraverso la mente di Cristo […].
Sarebbe però alieno dalla ragione stabilire che Dio abbia adattato le sue rivelazioni alle opinioni di Cristo,
come prima, per comunicare le cose rivelate ai profeti, le aveva adattate alle opinioni sugli angeli, sulla
voce creata e sulle visioni». TTP, cap. 4, [10]

Ciò che distingue Cristo e il suo atto profetico è l’immediatezza della sua comprensione della parola di Dio.
Cristo non entra in contatto con Dio per il tramite delle facoltà sensoriali o dell’immaginazione; non lo vede
faccia a faccia (o di spalle), come si legge nel testo biblico, ma «da mente a mente». Egli percepisce la
parola di Dio immediatamente, grazie a una comprensione intuitiva del messaggio divino. E a differenza di
Mosè, Cristo non ha impartito insegnamenti rivolti a una comunità politico-sociale specifica, perché il suo
ruolo non è stato quello di conservare un singolo Stato e promulgare delle leggi, ma piuttosto quello di
ribadire, anche in virtù di una straordinaria tensione morale e pedagogica, la Legge di Dio. Cristo ha
confermato ed essenzializzato l’insegnamento morale già proprio del Vecchio Testamento, che impone in
primo luogo e soprattutto di perseguire carità, giustizia, amore verso il prossimo.

Cristo è stato capace di elevarsi al di sopra della massa degli uomini prigionieri dell’ignoranza e delle
passioni, fino a incarnare il modello più alto di sapienza umana, vale a dire la conoscenza naturale di Dio.
Una conoscenza che si fonda sul lume naturale dell’intelletto che è comune a tutti gli uomini, ma che si può
ben dire “divina” in quanto coglie i decreti immutabili di Dio, di cui le leggi sono manifestazioni. Cristo è il
maestro di un messaggio morale che ha una portata universale perché tratto dalle leggi di natura che
regolano il vivere degli uomini.
Come Spinoza scrive a Ostens nel 1671:

«Per quanto concerne i Turchi e le altre nazioni, se adorano Dio con il culto della giustizia e della carità
verso il prossimo, essi possiedono, a mio giudizio, lo spirito di Cristo e saranno salvi, qualsiasi cosa credano
[…] su Maometto e gli oracoli».

Cristo per Spinoza è uno dei pochi uomini ad aver raggiunto il grado più alto della conoscenza, e il suo
merito non è stato quello di salvare gli uomini con il suo sacrificio, ma di essere diventato, grazie al suo
insegnamento e alla sua testimonianza, un punto di riferimento sicuro per la salvezza di tutti. Nel profilo
della morale cristiana Spinoza individua una profonda sintonia con le sue stesse posizioni: nel richiamo alla
giustizia come fondamento della società; nell’esortazione a rispondere all’odio con l’amore («Abbiamo
posto tra i precetti di vita [e di ragione] che l’odio deve essere vinto con l’amore, ossia con la generosità, e
non deve essere ricambiato con l’odio reciproco» – Etica 5, Prop. 10, Scolio); nella celebrazione degli
uomini portatori di pace.

Il valore etico-politico del messaggio di Cristo

In Spinoza la figura di Cristo sembra offrire il modello per ripensare anche il rapporto fra teologia e politica.
Infatti, il Cristo “bocca di Dio” parla alla realtà politica umana, fornendo, con la sua predicazione di una
legge dell’amore, gli strumenti morali che possono essere utilizzati per la definizione delle istituzioni e delle
leggi degli Stati. In questo contesto, una repubblica perfettamente organizzata si stabilisce soltanto laddove
i suoi cittadini si ispirino a princìpi di giustizia e carità, ovvero a quei pochi precetti della “religione
universale” validi per tutti e costitutivi di un dispositivo teologico-politico che assicuri uguaglianza, pace e
benessere. La religione universale che emerge da un’analisi razionale della Bibbia e che si fonda sui pochi
e semplicissimi principi dell’amore per Dio e per il prossimo non si presenta quale fondamento
superstizioso, coercitivo e piramidale del potere, ma come appoggio aperto, plurale e tollerante della
Repubblica popolare, la migliore forma di governo, a giudizio di Spinoza.

«Lo scopo della repubblica non consiste nel trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o in
automi, ma invece nel far sì che le loro menti e i loro corpi adempiano in sicurezza alle loro funzioni, e
che essi stessi facciano uso della libera ragione, senza rivaleggiare nell’odio, nell’ira e nell’inganno, e
senza fronteggiarsi con animo iniquo. Scopo della repubblica è dunque, in realtà, la libertà».


DIO CAUSA SUI – POTENZA INFINITA
Di ciascuna cosa si deve assegnare la causa o ragione tanto del perché esiste quanto del perché non esiste.

«1. Per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica esistenza, ossia ciò la cui natura non può
essere concepita se non esistente». («De Deo» dell’Etica)

Con questa definizione Spinoza pone l’infinito positivo, ossia la condizione sotto la quale l’esistenza si dà come
necessaria. Non soltanto come tale da non avere una causa esterna; ma come tale da avere in sé la potenza di
esistere e mantenersi nell’esistenza. Non solo l’infinito non ha una causa esterna che spieghi la sua esistenza,
ma è necessario assumere che abbia in sé la ragione positiva della sua esistenza necessaria.

«3. Per sostanza intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé, ossia ciò il cui concetto non esige
il concetto di un’altra cosa, a partire dal quale debba essere formato». («De Deo» dell’Etica)

In questo caso Spinoza si rifà a una definizione di origine aristotelica, che oppone la sostanza alle sue
modificazioni, che sono in altro, ossia nella sostanza, e sono intese attraverso altro, ossia attraverso la
sostanza stessa. A questa tradizione aveva attinto anche Descartes.

La SOSTANZA:
autonomia ontologica e conoscitiva

La definizione spinoziana della sostanza è divisa in due parti ed è costruita su una radicalizzazione della
concezione aristotelica della sostanza, in base alla quale «sostanza è ciò che è in sé e che dunque si
concepisce per sé». Nella prima parte Spinoza afferma che essa è «ciò che è in sé», intendendo dire che la
sostanza è ciò che ha in se stessa, e non in altro, la causa della propria esistenza. Spinoza assume quindi
nel loro rigore le conseguenze della definizione di sostanza: una sostanza, se è tale, non può essere
causata da altro. Una sostanza creata sarebbe una contraddizione in termini.

Nella seconda parte, egli si riferisce invece alla conoscibilità della sostanza, affermando che essa è ciò che
«è concepito per sé». Questa formulazione si comprende anche tenendo conto che per Spinoza la
conoscenza vera è conoscenza genetica, cioè conoscenza della causa di una determinata cosa. Ora, la
sostanza è «ciò che è concepito per sé», proprio in quanto – essendo causa di se stessa – la sua conoscenza
non presuppone il concetto o la conoscenza di nient’altro. A partire da queste premesse, Spinoza deduce le
proprietà generali della sostanza. Le principali sono riconducibili, in ultima analisi, alla concezione di
quest’ultima come causa sui. Secondo la definizione spinoziana, una cosa che è causa sui è ciò la cui
essenza implica necessariamente l’esistenza, ossia ciò che non può non esistere. Ma abbiamo già visto che
la sostanza è per definizione ciò che è causa di sé in senso ontologico; identificandola con la causa sui
affermiamo dunque che esiste anche in modo necessario. Tutto questo equivale a dire che essa è increata
ed eterna. Necessaria e sufficiente autoposizione di se stessa, ragione sufficiente di sé. Inoltre, per Spinoza
la sostanza – in quanto causa di sé – esiste necessariamente come infinita: ciò che è causa di sé è, infatti,
infinito, non essendo determinato e limitato da nient’altro nel darsi l’esistenza. Per Spinoza la sostanza è
quindi definita nei termini di indipendenza ontologica (essa esiste per sé) e di autosufficienza
epistemologica (essa si conosce per sé).

DIO CAUSA IMMANENTE

Etica 1, Prop. 18: «Dio è causa immanente, non certo transitiva, di tutte le cose».
Dimostrazione:
Tutto ciò che è, è in Dio e deve essere concepito per mezzo di Dio; perciò Dio è causa delle cose che sono
in lui. […] Inoltre, fuori di Dio non si può dare alcuna sostanza, cioè una cosa che fuori di Dio esista in sé.

Causa IMMANENTE = i suoi effetti permangono nella causa stessa.


Causa TRANSITIVA = i suoi effetti vanno a costituire una sostanza diversa dalla causa.

Il valore della coppia immanenza/trascendenza in definitiva, secondo Totaro, è troppo riduttivo, e non può
rispondere alla molteplicità dei sensi e dei significati che ricopre il concetto di Dio. In ambito metafisico il
quadro è complicato dal fatto che Spinoza non parla mai di immanenza se non in modo aggettivale, e cioè
come ‘causa immanente’. Rispetto alla metafisica cartesiana Spinoza nega la trascendenza della sostanza
divina rispetto alla pluralità delle sostanze pensanti e alla sostanza estesa, ridefinendo queste come
attributi dell’unica sostanza, di cui i corpi e le menti singolari non sono che modificazioni: ciò lo conduce da
una parte a pensare la stessa mente umana nella dimensione della necessità, e dall’altra a pensare
l’estensione come infinita e indivisibile, cioè a elevare l’estensione ai caratteri della divinità.

«4. Per attributo intendo ciò che l’intelletto percepisce di una sostanza come costituente la sua essenza»
(«De Deo» dell’Etica)

L’attributo è ciò che costituisce ed esprime l’essenza stessa della sostanza, ciò per cui quella sostanza è
sostanza. Gli attributi sono dunque qualità essenziali della sostanza, le ineriscono in maniera necessaria e
sono in essa da sempre. Tra gli attributi e la sostanza esiste un legame così stretto che possiamo separarli
solo attraverso la ragione. Occorre dunque determinare i loro rapporti reciproci e distinguere le
caratteristiche dell’una e degli altri. Quella che compete alla sostanza è un’infinità assoluta, che
comprende al suo interno attributi parimenti infiniti. Dall’affermazione dell’infinità assoluta della sostanza
discende quella della sua unicità, che costituisce il tratto peculiare dell’ontologia spinoziana. Spinoza
esclude che in natura possano esistere due sostanze del medesimo attributo, ossia che abbiano in comune
la medesima qualità essenziale. Dal momento che l’attributo è un tratto distintivo della sostanza, due
sostanze costituite dal medesimo attributo non si distinguerebbero in nulla, e dunque di fatto sarebbero
una sola e identica sostanza. Si potrebbero allora concepire due sostanze costituite da attributi diversi. Ma
anche questo è impossibile, una volta posto – come fa Spinoza – che la sostanza non può esistere che come
infinita, cioè come dotata di attributi infiniti.

Essendo infinita in senso assoluto, infatti, la sostanza comprende nella sua essenza tutti i possibili aspetti
del reale, sia quelli che noi conosciamo, perché ne partecipiamo, sia altri che non siamo in grado di
concepire. Di qui la conclusione che esiste una sola sostanza infinita.
E poiché tutti sono d’accordo nell’identificare Dio con ciò che è assolutamente infinito, questa sostanza è
Dio. Per Spinoza la caratteristica fondamentale di Dio è l’infinità.

«Dio, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna
e infinita, esiste necessariamente».

Tali perfezioni – infinite, perché quanto più un essere ha di essenza, tanti più attributi gli devono inerire –
devono dunque appartenere a Dio come attributi propri. Attributi che esprimono ciascuno una perfezione
infinita e che non esistono in sé e per sé, bensì soltanto nella sostanza alla quale ineriscono. L’attributo è
dunque, come da definizione, ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua
essenza. Ma la sostanza infinita non può essere considerata come una sorta di somma di attributi. Anche
quando gli attributi sono più di uno, anche quando sono infiniti, essi costituiscono l’essenza della sostanza
ed essa non è intelligibile, né ha una natura al di là di essi. Anche i singoli attributi sono infiniti, ma in
maniera diversa rispetto alla sostanza. La sostanza è, simultaneamente, tutta ciascun attributo infinito nel
suo genere; ed esprime simultaneamente la perfezione di tutti i suoi attributi. L’infinità che compete a
ciascun attributo è, invece, un’infinità relativa, che si riferisce a una espressione di perfezione infinita,
limitata a un solo genere. Ad esempio, l’attributo del pensiero è infinito solo in quanto esprime tutta la
realtà e perfezione di un aspetto dell’essenza della sostanza, cioè il pensiero, ma la sua infinitezza non
riguarda in nessun modo altri aspetti della medesima essenza, come per esempio l’estensione.

L’intelletto umano può percepire solo due degli attributi infiniti della sostanza: PENSIERO ed ESTENSIONE.

Il pensiero è l’attributo divino che comprende tutti i singoli pensieri e le idee (modi della sostanza divina).
L’estensione è l’attributo divino che comprende tutti i singoli corpi estesi (modi della sostanza divina).

Pensiero ed estensione non sono più, come in Descartes, sostanze «seconde e create». Per Spinoza non ha
senso parlare di “sostanze create”, dal momento che la sostanza è per definizione ciò che è causa sui. Di
conseguenza, egli concepisce pensiero ed estensione non come due diverse sostanze, ma esclusivamente
come due degli attributi infiniti che costituiscono l’essenza della sostanza unica. Emerge così in modo
chiaro una delle innovazioni più radicali che il monismo spinoziano implica nel modo di concepire la
divinità. Includere l’estensione tra gli attributi della sostanza significa, infatti, concepire Dio anche come
materia, dato che, a partire da Descartes, l’estensione è l’attributo essenziale della materia. Ciò
rappresenta una rottura aperta e consapevole con la concezione di Dio come puro spirito, condivisa da
una secolare tradizione religiosa e filosofica che arriva fino a Descartes. Spinoza prende espressamente
posizione contro coloro che «negano che Dio sia corporeo», adducendo anzitutto l’idea che l’infinità della
sostanza non può esaurirsi in una sola forma dell’essere: per questo Dio, oltre che pensiero, deve essere
anche estensione.

Coloro che «cercano di dimostrare che la sostanza corporea è indegna della natura divina, e non può
appartenerle» si sono basati sull’assunto che la materia sia divisibile, e in quanto tale finita e passiva,
dunque incompatibile con la perfezione divina. Per Spinoza la divisibilità e la passività riguardano invece
la materia solo in quanto essa si particolarizza in modi finiti. Come parte dell’essenza di Dio, al contrario,
l’estensione non è divisibile. Nel sistema spinoziano affermare che al di fuori di Dio non può esserci
alcun’altra sostanza, equivale ad affermare che al di fuori di Dio non può esserci nulla, dal momento che,
oltre alla sostanza, per Spinoza esistono solo i modi (che però non sono altro che le molteplici forme,
infinite e finite, in cui la sostanza stessa si esprime, attraverso la particolarizzazione dei suoi attributi).

«La potenza di Dio è la sua stessa essenza»

Se Dio è l’esistenza necessaria e la causa di sé, la sua natura più profonda è quella di essere una
potenza assoluta, una potenza allo stato puro, senza alcuna determinazione. Una potenza in sé stessa
neutra e indifferenziata, che si esprime simultaneamente attraverso tutti gli attributi.

Etica 1, Prop. 29: «In natura non si dà nulla di contingente, ma tutto è determinato dalla necessità
della natura divina a esistere e a operare in un certo modo»

Natura naturante: dobbiamo intendere ciò che è in sé ed è concepito per sé, ossia gli attributi della
sostanza, che esprimono essenza eterna e infinita, cioè Dio come causa libera.
Natura naturata: intendo tutto ciò che segue dalla necessità della natura di Dio o di ciascuno dei suoi
attributi, cioè tutti i modi degli attributi di Dio, in quanto sono considerati come cose che sono in Dio e che
non possono essere né essere concepite senza Dio.

Quindi, assumendo una tradizionale distinzione scolastica, Spinoza afferma che il Dio-sostanza può essere
detto “natura” in due sensi:

• in quanto lo si intenda come causa universale, ossia come sostanza espressa da attributi infiniti
(«natura naturante»);

• in quanto sia espresso dalla totalità dei suoi modi («natura naturata»).

NUOVO MODELLO DI UOMO: Finito e infinito sono indissolubilmente legati nell'essenza umana, come in
quella di ogni altro modo: il primo ne esprime infatti il limite intrinseco; il secondo la presenza, pur
particolarizzata e determinata, della potenza della sostanza. Ogni modo è così una forza determinata che
tende alla conservazione di sé, in un mondo di forze tutte puntualmente tese alla propria conservazione
attraverso la tensione espressa dal conatus.
Dio non crea il mondo per l'uomo né l'uomo perché renda gloria a Dio: come sappiamo, Spinoza più volte
ricorda questa tesi tradizionale e ironizza su di essa. Pensare una cosa del genere significa rovesciare
interamente l'ordine delle cose, subordinare la causa all'effetto e, soprattutto, significa immaginare un Dio
imperfetto. Ossia immaginare l'essere supremamente perfetto come determinato ad agire o per
realizzare un bene − quindi in vista del bene, subordinando la causa prima a qualcosa di esterno; oppure
subordinandola o considerandola carente di qualcosa, cioè della devozione che dovrebbe ricevere da
parte dell'uomo.

In questo modo la filosofia di Spinoza si manifesta come una filosofia antiumanistica, se per Umanesimo si
intende quella posizione di pensiero che considera, appunto, l'uomo come fine della creazione, centro
dell'universo, anello di congiunzione fra materiale e spirituale, e che giudica l'uomo come una sorta di
eccezione alle leggi della natura. L'uomo, come tutte le altre cose, obbedisce invece alle leggi della natura e
deriva necessariamente da Dio per le stesse leggi e con la medesima necessità con cui derivano da Dio

tutte le cose. Spinoza chiama “modo” tutto quello che segue necessariamente dalla natura di Dio e
che non si identifica con la sua natura, ossia con i suoi attributi eterni ed infiniti. Dal momento che la
causa immanente produce per necessità della propria natura i propri effetti, questi devono essere
considerati come implicati da sempre e per sempre nella natura divina. Esiste necessariamente la sostanza
con tutti i suoi attributi; e altrettanto necessariamente esistono gli effetti della sostanza implicati in essa.

Il mondo in Dio

Se indichiamo il complesso, la totalità degli effetti che derivano dalla causalità della sostanza con il termine
“mondo”, constatiamo che tale mondo non ha alcuna possibilità di esistere separato da Dio, fuori di Dio. Se
Dio è esistenza assoluta e necessaria, ogni atto di tale esistenza non può esplicarsi che in essa stessa, perché al
di fuori di essa non c’è altra esistenza possibile. Ovunque si estenda la potenza di Dio, lì c’è Dio e ogni
“ovunque” non può darsi che in Dio. Fuori di Dio c’è solo l’inesistenza. Fra Dio e mondo, fra causa ed effetto
non c’è, e non può esserci, alcuna frattura. Il mondo non è una sostanza, ma un modo di Dio: non è, e non può
essere, in sé, ma soltanto in Dio. Il mondo non è più – come nella tradizione occidentale – una sostanza
separata dalla sua causa, costituita a sua volta da un insieme di sostanze finite.

Il mondo, in quanto tale, è l’insieme delle modalità di esistenza della sostanza; o, per altro verso, è la sostanza
stessa considerata dal punto di vista degli effetti necessari che da essa derivano. «Natura naturante» e «natura
naturata» non sono cose diverse, ma la medesima realtà considerata da prospettive
diverse. Viene qui corrosa alla radice l’idea tradizionale della natura, intesa come sostanza distinta da
quella divina, eppure in grado di esprimere la divinità così come un effetto indica la sua causa.

Il mare e la differenza «modale»

Con le parole di Filippo Mignini: «Un esempio in qualche modo “spinoziano” per comprendere la natura del
Dio di Spinoza e il suo rapporto con la totalità delle sue manifestazioni, è quello del mare, cioè del rapporto
che c'è nel mare tra la totalità del mare e le onde del mare. Considerando il mare come un intero, noi
vediamo delle onde, ma tra ciascuna onda e l'intero del mare non possiamo stabilire alcuna differenza di
natura o di realtà, nel senso che l'acqua dell'onda è la stessa acqua del mare. Ma che cos’è una singola
onda rispetto alla totalità del mare e a ogni altra singola onda?»

Un’onda è una modificazione, ossia un particolare modo di essere dell’intero mare. Non esiste differenza
di sostanza tra l’acqua dell’intero oceano e l’acqua di ciascuna piccola o grande onda. Tuttavia, nessuno
afferma che ogni singola onda sia l’oceano nella sua totalità, o che ogni onda sia identica all’altra. Questa
differenza che, se non concerne la realtà, la sostanza, è pur sempre una “vera” differenza è quella che
Spinoza chiama «differenza modale». Le onde del mare, dunque, non sono altro che modalità della realtà
identica in tutto. «Rimanendo nell’esempio, e considerando Dio come quella forza o energia che è capace
di porre se stessa e che pone necessariamente se stessa in una infinità di manifestazioni, se nella natura del
mare è implicato che abbia delle onde, è per la stessa natura del mare che ci sono le onde. Allo stesso
modo, se nella natura di Dio è implicato che ci siano delle modalità o delle manifestazioni di tale natura,
tali modalità o manifestazioni sono prodotte dalla stessa necessità con cui Dio pone se stesso».

BRUNO VS SPINOZA

LEGAME FRA VERITA’ E VICESSITUDINE RAPPORTO DELL’INTELLETTO CON LA VERITA AUTOEVIDENTE

RITORNO ALL’ANTIQUA VERA FILOSOFIA RICERCA CONOSCENZA VERA E ADEGUATA

PROSPETTIVA DEL FILOSOFO PROSPETTIVA DELLA MOLTITUDINE, DEL VOLGO

SOLITUDINE DEL FILOSOFO-MERCURIO DIMENSIONE COLLETTIVA DELLA FELICITA

Spinoza: contro il pregiudizio finalistico


In una parola, tutte quelle forme di culto verso un Dio provvidente che Spinoza qualifica come
superstizione, riservando il titolo di religione solo al rapporto che il sapiente intrattiene con la sostanza
infinita. Spinoza presenta quindi le diverse forme di culto come strumenti privilegiati del pregiudizio
finalistico, in quanto esse sono capaci di trasformarlo in superstizione. Il finalismo è la conseguenza della
convinzione errata, propria dell’uomo, di essere libero nelle sue scelte. La convinzione di essere liberi è
opera dell’immaginazione, che opera sempre con idee incomplete, stringendo insieme conoscenza e
ignoranza. In questo caso, alla consapevolezza di desiderare alcune cose si unisce l’ignoranza delle cause di
questi desideri, per cui gli uomini tendono a pensare che i propri desideri siano senza causa, un libero
frutto del volere, e le azioni siano guidate solo dal fine cui tendono.

Gli uomini nascono ignari delle cause delle cose; inoltre, tutti sono consapevoli di possedere appetiti e
volizioni volti alla ricerca del proprio utile.
→ Gli uomini ritengono di essere liberi rispetto alle proprie volizioni e appetiti.

Gli uomini agiscono sempre in vista di un fine (l’utile che appetiscono): quindi per loro l’unica causa
“interessante” è la causa finale.

Questo modello è poi proiettato sulla natura, che l’uomo immagina mossa all’azione, al pari di lui, in vista di
qualcosa. E poiché in natura ci sono molte cose utili all’uomo, ci si convince che la natura è stata creata da un
ente superiore dotato, come l’uomo, di libero volere, e che ha disposto tutto a favore dell’uomo stesso. Da qui
la convinzione che vi siano dèi simili all’uomo i quali, come l’uomo, fanno tutto in vista di un fine.

CONOSCENZE ERRONEE MA TRA LORO COERENTI Sistema Teologico Giudaico-Cristiano
L’antropomorfismo annulla la perfezione di Dio. Mentre «le leggi della sua natura sono state così ampie
da bastare a produrre tutto ciò che può essere concepito da un intelletto infinito». Secondo Spinoza,
l’impostazione finalistica non riesce a risolvere un problema che essa stessa ha di fatto creato. Per Spinoza
il classico problema teologico della presenza del male nel mondo è un problema insolubile all’interno di
una prospettiva finalistica, tanto che i finalisti – partiti dalla convinzione di conoscere i fini propri di Dio
nella creazione – sono poi costretti ad appellarsi proprio all’ignoranza dei voleri e dei fini di Dio da parte
dell’uomo.

Trattato Teologico-Politico
Spinoza si pone nella prospettiva di un confronto sistematico tra ragione e immaginazione ne costituisce il
nucleo fondamentale. Fondamentale è la divisione tra i 3 generi di conoscenza: la prima è dell'errore ed è
legata all'immaginazione. Ci dà una conoscenza parziale e inadeguata. Solo la ragione che sarà poi scienza
intuitiva ci dà una conoscenza adeguata di Dio. Il grado più basso dell’immaginazione è da ricondurre al
tema delle passioni. L'immaginazione su Dio può produrre solo dei pregiudizi: quello della libera creazione,
dell'interdizione alle leggi della natura (miracoli) e della comunicazione verbale ad esempio. Andando ad
attaccare questi dogmi Spinoza va a minare le basi delle Scritture. Dio è altro rispetto alle parole dei profeti.
Spinoza si scaglia particolarmente contro il pregiudizio finalistico. Esso è legato alla natura umana, alla
nostra condizione di ignoranza irriducibile mischiata al desiderio. Questa prospettiva che ha come base la
necessità di conoscenza (Nietzsche) viene poi riversata sulla natura. Questi pregiudizi possono dunque
essere razionalmente spiegati e confutati, ma è proprio quando quelli si uniscono in un insieme che forma
un sistema teologico che nella sua coerenza interna e difficile da corrodere. Nel TTP l'immagine di Dio
viene ricondotta all’interpretazione storica del suo senso. Questo testo è presentato a Oldenburg come un
trattato di esegesi biblica in cui appunto si tenta di sradicare quei pregiudizi. Oldenburg lo ammonisce di
non mettersi contro i teologi, poiché potrebbe essere pericoloso. Spinoza sapeva bene che, a errore,
sarebbe stato accusato di ateismo.
La situazione politica olandese era complessa. Il conflitto tra monarchici e repubblicani e quello tra
ortodossi calvinisti e cristiani liberali rendeva tale la situazione. Ian De Witt, capo del partito repubblicano,
si opponeva agli Orange che detenevano il potere militare. De Witt aveva un rapporto importante con
Spinoza, per questo il TTP può essere letto come un manifesto in sostegno alla causa repubblicana. Un
elogio della libertà nella città di Amsterdam ci mostra come ciò sia possibile solo all’interno di uno stato
repubblicano. Le crisi di carattere religioso vengono ricondotte unicamente alla “libido dominandi”. Spinoza
però appunto difende quello che rappresenta un equilibrio instabile: lo schieramento repubblicano era
sostenuto solo dalla borghesia liberale e dalle minoranze cristiane liberali. Gli stessi ceti popolari,
dominati e passivi alla superstizione, appoggiavano invece la monarchia. Nel 1672 la Francia invade però
l'Olanda e ciò porterà alle dimissioni e alla morte per mano del popolo di De Witt. È dunque la fine
dell’esperienza repubblicana.
Il TTP verrà bollato dalla Chiesa come “libro forgiato all'inferno”. Il nesso tra l'Etica e il TTP si gioca proprio
nell'analisi delle passioni e del problema della libertà individuale in rapporto a quella civile-politica. La
superstizione è generata dalla dicotomia paura-speranza che se sfruttata bene è capace di togliere la
libertà all'uomo. L'immaginazione però, pur causando pregiudizi, è anche una struttura necessaria della
mente, che bisogna imparare a gestire. Superstizione e libido dominandi sono dunque i principali nemici
della libertà.

Prefazione
La superstizione è un'arma molto potente per reggere la moltitudine. Tutti siamo soggetti a speranza e
timore, dunque tutti siamo potenzialmente vulnerabili agli attacchi della superstizione. Per Spinoza quello
che va dalla speranza alla paura è un cammino circolare, l'uomo in questa prefazione è rappresentato come
oscillante tra queste 2 passioni: è l'insicurezza la tonalità ontologica dell'uomo. Speranza e timore vengono
ricondotte entrambe al dubbio su ciò che accadrà in futuro. Spinoza usa per l'analisi una prospettiva
storico-genetica (quasi genealogica potremmo dire). È sulla base del dubbio che nasce la superstizione che
porterà poi a snaturare l'immagine della realtà lasciandola in preda della loro “mirabolante follia”. È
proprio la monarchia però a supportare questa visione per ingannare i sudditi e tenerli fedeli al potere
sovrano. È punendo le parole che la monarchia tiene in vita questa prospettiva, una Repubblica al contrario
si impegnerebbe a punire le azioni per lasciare libere le parole.
Per molti credenti la ragione naturale è il frutto del peccato laddove la credulità, che è un artificio umano, è
elevata a fede e creduta divina. Gli uomini possiedono l'immaginazione, è naturale, non possono essere
condannati per questo. Anche se “ontologicamente” tutti avrebbero la possibilità di giungere alla ragione,
ma è vero anche che dobbiamo assumere che la moltitudine non lo farà.

Profezia
Spinoza decide di approcciarsi all'interpretazione della Scrittura in primis analizzando il significato della
profezia: il lume soprannaturale contrapposto a quello naturale. Tratterà dunque della profezia e dei
profeti. “La profezia è la conoscenza certa di una cosa rivelata agli uomini da Dio”, questa è
l'interpretazione tradizionale ma è riportata da Spinoza che intende per rivelazione la possibilità
dell'uomo di costruire un discorso che si rivolga verso la conoscenza di Dio. Spinoza infatti, come afferma
Strauss, reinterpreta il linguaggio teologico sia per proteggersi dagli attacchi che per avvicinare i cristiani
moderati. Si tratta dunque di una forma di dissimulazione.
Lui infatti per profezia intende una conoscenza naturale ottenuta attraverso il giudizio della ragione. Solo il
volgo può intendere la profezia in senso superstizioso come il messaggio veicolato da un linguaggio
soprannaturale. Perché sia così la conoscenza dei profeti avrebbe dovuto essere altra rispetto a quella degli
altri normali uomini. La conoscenza naturale dunque è già divina ed è l'oggetto di studio non dei teologi
ma dei filosofi. Il corretto esercizio della ragione è la causa prima della rivelazione divina, noi possiamo
conoscerla chiaramente grazie alla natura della mente. Grazie a questa arriviamo sia la filosofia sia all'etica.
La profezia intesa tradizionalmente è un tipo di conoscenza immaginativa e inadeguata. Ma la Bibbia
testimonia che esiste un tipo di rivelazione da cui passare, è una sorta di passaggio obbligato. Cristo infatti
non è un normale profeta, lui è stato in rapporto “mente a mente” con Dio, ma tutti gli altri profeti no. Il
suo insegnamento, al contrario di quello degli altri, è universale, non destinato né a una sola nazione né a
un solo periodo storico. Ricordiamo che per Spinoza la Bibbia è un racconto storico ma non contiene la
verità assoluta che basta a se stessa. Le leggi dogmatiche non perfezionano il nostro intelletto che solo può
tenerci al sicuro dall'incostanza dell’essere preda delle passioni. I profeti tradizionali sono uomini di
immaginazione. L'immaginazione è la facoltà di produrre immagini dalla sensibilità. A questa visione
aristotelica si affianca l'accezione platonica dell'immaginazione come tramite tra mondo sensibile e mondo
delle idee. I profeti per Spinoza assumono poi il ruolo di legislatori in quanto interpreti del volere di Dio.
Potenzialmente il misticismo dei profeti può entrare in armonia con lo studio filosofico. Avicenna
presenterà il profeta come prodotto eccezionale dell'umanità. Secondo Mosè Maimonide il profeta viene
illuminato sia nell’immaginazione che nell'intelletto. Per Spinoza invece alla fine risultano entrambi
inadeguati al raggiungimento della conoscenza. Il punto da sottolineare è che Spinoza, per quanto riguardo
all'analisi dei profeti, pesca, anche in chiave polemica, dalla tradizione: sia quella araba che quella ebraica.
La messa a fuoco sta proprio nel rapporto tra intelletto e immaginazione.

I profeti
Secondo Maimonide i profeti sono personaggi dotati di Sapienza e senso etico straordinari. Questi
sarebbero dunque dei riferimenti utili a guidare e consigliare il corpo sociale. Per Spinoza invece i profeti
sono uomini essenzialmente immaginativi. Questo sta a significare che l'intelletto viene messo da parte
dalla conoscenza profetica. Intelletto e immaginazione non sono sovrapponibili per Spinoza e non può
darsi dunque una prospettiva sintetica tra questi due poli. La sua presa di posizione contro i profeti è
dunque precisa. Parabole, simboli e allegorie non sono in grado di parlare di cose spirituali, sono troppo
oscure e improprie riguardo all'oggetto della rivelazione. La profezia è un fenomeno intermittente, una
conoscenza incostante che varia a seconda delle opinioni dei profeti. Il carattere del profeta (triste,
gioioso ecc.) va a influenzare la profezia. Lo stesso stile influenza la percezione (che non possiamo quindi
definire conoscenza) della rivelazione. I profeti infatti non appartengono nemmeno ad uno stesso
orizzonte culturale, le rivelazioni mostreranno dunque un Dio che, per come viene raccontato, è filtrato e
dunque di volta in volta differente. La certezza di rivelazione si basava su 3 punti:
a) la vividezza dell'immaginazione;
b) la necessità di un segno che viene richiesto a Dio dal profeta come testimonianza;
c) moralità, giustizia e bontà del profeta.

La necessità di un segno come certificazione non è importante nell'orizzonte di una conoscenza naturale.
Quest'ultima infatti, al contrario della profezia, è autoevidente, non necessita di segni che testimoniano la
veridicità. Per il possesso della verità è solo la verità stessa ad essere necessaria, non c'è bisogno di un segno
ulteriore. La necessità di un segno ci dimostra invece l'inadeguatezza della conoscenza profetica. Come
esempio di verità autoevidente viene portata la matematica la quale viene presentata anche come spendibile
in campo morale. Sostenere che la Scrittura presenti tutta la verità possibile non porta ad altro che a pericolose
forzature. E in questo si avvia a presentare un'interpretazione del famoso passo “geocentrista” di Giobbe. Egli
ha solo creduto che il sole girasse intorno alla terra, la Scrittura in questo caso va presa letteralmente. Giobbe
era un semplice soldato vissuto millenni prima, non poteva conoscere la verità riguardo all'eliocentrismo. I
profeti erano pur sempre quindi uomini del loro tempo, che possedevano una conoscenza limitata, avevano
delle opinioni e dei pregiudizi su Dio da cui non potevano prescindere. I profeti non sono stati filosofi,
tantomeno di un'unica verità, dato che molte loro opinioni erano in netto contrasto tra loro. La conoscenza
profetica non è né universale, né tanto meno oggettiva.

Mosè
Mosè stesso ha restituito la natura di Dio come lui la credeva. Dio viene da lui colto come concretezza, la
discesa sul Monte Sinai. Per Spinoza non si può parlare nemmeno di popolo eletto. Mosè avuto solo e
unicamente il ruolo di legislatore, ha imposto dalle leggi privando della libertà il suo popolo e gettandolo
nella servitù attraverso la minaccia della pena divina. La figura di Mosè viene dunque storicizzata. La
religione viene dunque vista sotto la prospettiva dell'obbedienza, c'è una morale del precetto. La moralità
dovrebbe invece passare attraverso la saggezza, il corretto uso dell'intelletto, una strada che è accessibile
solo ad una piccola parte degli uomini. Ma è segno di insipienza negare l'utilità della religione nei confronti
di coloro i quali non siano dotati della forza della ragione. Quei racconti sono per loro frutto di grande
conforto. Tutti infatti possono obbedire ma solo pochi purtroppo possono diventare virtuosi attraverso il
libero uso della ragione. I profeti erano dunque uomini moralmente buoni accettati però solo per la loro
autorità. D'altronde tutti gli uomini sono per natura immaginativi. La necessità di Mosè era quella di
trasformare il popolo ebraico in uno stato e per far questo ha agito com’era normale per i tempi. Sulla
base di questo però Spinoza ritiene necessario filtrare quelle leggi depurandole dalle loro caratteristiche
contingenti.

Legge divina
La legge divina naturale è universale e dedotta dalla comune natura umana, non necessita quindi della fede
per essere rispettata, è filtrata dagli elementi storico-contingenti e non prevede premi o bene se non nella
effettiva modalità di operare nella vita. Una moralità imposta dai dogmi è vincolata dalla cieca fede, se
scompare questa ne viene meno anche la connessa virtù. A questo è fortemente collegata anche
l'umanizzazione della divinità. Spinoza va ad elencare i dogmi fondamentali e immancabili di tutte le
religioni. Ma l'importante, sia attraverso un approccio filosofico che religioso, è sempre arrivare ai
medesimi e comuni precetti morali. Che ci sia necessità o libero arbitrio importa poco a Spinoza purché
non le si utilizzi come pretesto per venir meno a quegli stessi precetti. L'obbedienza porterà alla Pietas e
non alla Veritas ma se i precetti morali sono validi non c'è problema, i dogmi devono essere pii, non
necessariamente veri. Tra la fede e la filosofia non c'è dunque affinità avendo la prima per fine la Pietas e la
seconda la Veritas. Ognuno può pensare quello che crede purché non metta in pericolo la coesione sociale.
L'orizzonte della fede non viene eliminato ma reso fluido. Amare il prossimo e rispettare ciò che è suo
proprio diventano i 2 precetti principali ed è l'unico punto in cui filosofia e religione potrebbero (e
dovrebbero) convergere.

Legge umana
Dopo aver lavorato sui capitoli IV e XIV continueremo a parlare del tema dell’ente supremo. La via
dell’obbedienza non può essere dunque eliminata ed è necessaria, ciò non toglie l'instabilità e l'inadeguatezza
di questo tipo di sapere. Le caratterizzazioni delle specifiche fedi non sono per nulla incisive per Spinoza. La
Scrittura dunque si gioca principalmente intorno al messaggio di amore verso il prossimo. La Bibbia deve
preoccuparsi solo dunque di promuovere giustizia e carità fra gli uomini. Per il resto teologia e filosofia devono
stare completamente separate, nessuna è ancella dell’altra. È inutile forzare le caratteristiche peculiari della
scrittura profetica sulla riflessione filosofica. Spinoza dunque nega che la salvezza sia legata alla fede in una
confessione particolare e tanto meno all’appartenenza a un determinato popolo. Tutte le nazioni infatti ebbero
i propri profeti. L'Antico Testamento è infatti semplicemente la storia (politica) di un popolo che aveva quindi al
centro le profezie legate al popolo stesso. Gli ebrei non sono stati scelti da Dio, Mosè non fu altro che un
legislatore e per questo la sua figura non è al centro di nessuna rivelazione divina. Le leggi di Mosè sono
particolari e legate alla storia del popolo ebraico. Dio è stato ugualmente vicino a tutti i popoli. Al contrario sarà
Giobbe l'esempio di “fedele” staccato dalla particolarità del suo popolo è veramente vicino all’universalità. La
vicenda degli ebrei rimane però solo civile e politica ed è questo che registrano le Scritture. Il Pentateuco non dà
dottrine morali ma comandi adattabili e funzionali solo alla formazione civile della nazione ebraica. Gli ebrei
avevano bisogno di quelle leggi per uscire dallo stato di natura, e a questo consolidamento sono funzionali
anche le cerimonie. Infatti gli uomini hanno bisogno di queste leggi per tenere a bada l'elemento umano delle
passioni nonostante sia difficile che un uomo accetti di buon grado la privazione della libertà. Dunque la scelta
cadrà o sulla democrazia ossia una forma di governo in cui i capi siano tranquillamente riconosciuti come
superiori. Il popolo ebraico ha intrapreso questa seconda strada: Mosè con la virtù promulgò le leggi
e mantenne il comando convincendoli della sacralità di sé stesso e delle sue parole. Dunque trasformò
la paura in devozione e convinse il suo popolo ad accettare dogmaticamente quella che era la sua legge,
non quella di Dio. Chi segue le buone leggi, come dice Paolo, qualunque sia il motivo che lo muove, è già
comunque salvato.

Miracoli
Nel capitolo VI parlerà poi dei miracoli. Secondo Israel (commentatore di Spinoza) questo capitolo fu il
più scandaloso di tutto il pensiero spinoziano. Questa ipotesi sui miracoli fu definita “maledetta e
abominevole”. Spinoza sostiene di aver posto in totale equivalenza la fede nei miracoli e l'ignoranza. La
fede nei miracoli si fonda su un'idea sbagliata della natura della potenza di Dio, questo perché Natura e
potenza divina sono percepiti dal volgo come distinti e in contrasto. Dio non si differenzia in realtà dalla
natura, le leggi del corso della natura non sono inferiori al divino.
a) La natura segue il suo corso necessario;
b) il miracolo non ha valore conoscitivo;
c) la provvidenza di Dio rispetta l'ordine della natura;
d) molti passi biblici possono essere interpretati per avvalorare la tesi della necessità del corso
naturale.
Laddove accada qualcosa di apparentemente straordinario (in realtà semplicemente insolito) ciò, è a causa della
nostra incapacità di spiegare, attribuiamo il fenomeno alla diretta azione di Dio. La potenza di Dio non
è la potenza di un sovrano ma è la stessa potenza della natura, tant'è che Dio non si occupa solo
dell’uomo. L'essenza di Dio è infatti potenza allo stato puro tuttavia non va pensata come arbitraria o
libera e contingente. Dio agisce con la stessa necessità con cui comprende se stesso. Dio infatti non ha
bisogno di intervenire per mettere a posto qualcosa che non funziona. I teologi però marciano sulla
portata sorprendente che hanno gli apparenti miracoli. Tutto e invece è connesso alla costante e
necessaria causalità divina. Dio è la natura naturante di quella natura naturata che è l'universo. Dio è sia la
causa che la totalità finale. Inventando i miracoli ci si pone in una prospettiva che innalza la potenza e il
favore della propria divinità di riferimento.
La potenza di Dio è dunque la potenza della natura che non necessita di nessun aggiustamento e non
ammette eccezioni, semmai siamo noi a non comprenderla. La Scrittura non è un testo di filosofia naturale
ma è solo in funzione dell'obbedienza, dovrà quindi parlare in modo di spingere alla devozione. La
Scrittura ammanta la storia trattata di una serie di immagini poetiche per muovere le passioni degli
uomini. Se in essa è contenuto qualcosa di irrimediabilmente contro-natura va dunque considerata
apocrifa. Spinoza quando interpreta la Scrittura dichiara di prenderla dalla prospettiva della “sola
scriptura”. La Bibbia è un campo di battaglia non univoco per diverse interpretazioni.

Interpretazione della scrittura


Spinoza promuove un’ermeneutica biblica circolare che quindi non ha bisogno di elementi estranei da
essere aggiunti. Le Scritture parlano unicamente di ciò di cui parlano e non di altro. Il problema sta nel
pretendere che le interpretazioni arbitrarie siano percepite come parola di Dio in modo da elaborare un
pensiero unico. Sulle interpretazioni si costruiscono prestigio e potere. Se il volgo aderisse alla vera
dottrina biblica sicuramente il suo comportamento sarebbe diverso, conforme al messaggio che realmente
la Scrittura vuole promuovere. Gli uomini si sforzano di spiegare la Bibbia attraverso deliri e misteriose
assurdità per non accettare questo difficile messaggio. Spinoza afferma che il metodo corretto per scovare
questo messaggio sia quello di approcciarsi, come si fa con la natura, in una prospettiva storica e
scientifica. Bisognerebbe capire prima di tutto chi è l'autore di questo testo, quando ha vissuto e cosa
voleva dirci. “Sola scriptura” per Spinoza vuol dire cercare elementi di legittimazione interni e intrinsechi,
non quindi affidarsi ad autorità estrinseche. Se questa ricerca non dovesse andare a buon fine si dovrà
semplicemente prendere le Scritture come un testo al pari degli altri. Prima di tutto bisogna comprendere
la lingua, l'ebraico per approcciarsi secondo un metodo linguistico-filologico. Si rende poi necessaria una
sinossi degli enunciati principali, ad esempio uno schema con tutte le definizioni di Dio per confrontarle.
Questi enunciati vanno poi contestualizzati con la storicità di quel passo. L'importante è usare sempre nella
valutazione il filtro della ragione senza fare violenza né alla Scrittura né alla nostra idea di Dio alla quale ci
ha condotto la ragione. Le vicende di composizione, di riscrittura, di trasmissione, di inclusione nel canone
sono fondamentali se si vuole intraprendere un'interpretazione riguardo al testo. La Bibbia si presenta così
come un testo come un altro e in questo modo potremo distinguere le dottrine eterne da quelle che
invece sono particolari e contingenti. La Scrittura viene quindi analizzata secondo il medesimo metro
d'indagine utilizzato per la natura. Così come nella natura, dobbiamo ricercare nelle Scritture ciò che c'è di
universalissimo, di non-contingente e di condiviso tra i profeti. Qualora i profeti si mostrino in disaccordo
su qualcosa vuol dire che ciò non è oggetto del principale messaggio biblico e va messo al vaglio del lume
della ragione.

LEO STRAUSS

LA CRITICA DELLA RELIGIONE IN SPINOZA

Per Strauss l’esegesi spinoziana della Bibbia è un fatto di storia della scienza: prendere le Scritture come
un documento letterario tra gli altri rende necessario operare su di esso un’analisi scientifica.

La tradizione della critica della religione.

La critica della religione è prima di tutto scientifica, nonostante le accuse contro di essa siano più morali che
concernenti prettamente all’erroneità delle dottrine: infatti la scienza positiva non dovrebbe avere tra i suoi
compiti quell’indagine metafisica che fa da sfondo ai problemi della religione. I primi critici della religione
oppongono alla schiavitù del credo la felicità derivata dalla liberazione che concede la scienza: conoscere la
verità vuol dire raggiungere la libertà.
Secondo Strauss questa critica ha dunque fondamento in una motivazione, e dimostra questo considerando
la filosofia di Epicuro. Per lui condizione principale del raggiungimento dell’eudaimonia è l’eliminazione del
timore di Dio e della morte. La scienza serve solo ha dimostrare l’infondatezza di questo timore: se non ci
fossero questi dubbi non avremmo bisogno di alcuna fisica, questa è l’opinione di Epicuro. Compito della
scienza è dunque quello di fornire criteri univoci e definitivi (necessità e regolarità) per la spiegazione delle
questioni che riguardano i principi. Ma il timore degli dei ci minaccia sempre come pericolo incombente e si
tratta dunque di eliminare questo turbamento interiore: la lotta alla religione è prima di tutto all’interno
dell’uomo. L’analisi epicurea della religione va distinta dalla motivazione che riguarda appunto
l’eliminazione di questo turbamento. La fisica ci insegna che “nulla nasce dal nulla”, dunque non ci sono
divinità creatrici e reggitrici (Epicuro credeva comunque all’esistenza di divinità a noi indifferenti). La
credenza negli dei, per Epicuro, viene prima del timore per loro.
Al contrario Democrito ritiene che sia il timore in certi fenomeni a causare la credenza negli dei. Epicuro
credeva in divinità disinteressate alle sorti degli uomini, alle quali si doveva al massimo venerazione, mai
timore, il quale deriva da una falsa credenza. Ma un problema fondamentale sta anche nel combattere la
paura derivata da pericoli reali. Il timore per le divinità si appaga dell’allontanamento dell’intelletto dalla
conoscenza delle cause reali (ne è un esempio il sogno): la scienza riconduce l’intelletto a questa
conoscenza.
Se Epicuro aveva usato la teoria scientifica come mezzo e non come fine, nell’età delle religioni rivelate
questo approccio si rivela insufficiente: i rappresentanti della teoria pure si scontrano direttamente con la
religione. Per Averroè la religione non esiste infatti per natura (come in Epicuro) ma solo come istituzione.
Le profezie, tipiche delle religioni rivelate, mettono in connessione l’immaginazione del profeta con quella
della moltitudine: in questo i principi trovano una potente arma di dominio («Tre impostori», Mosè, Gesù
e Maometto). Bruno respinge completamente la validità delle profezie e Machiavelli ne esalta solo l’utilità
politica: la lotta contro il turbamento interiore diventa una lotta contro il dominio dei potenti.
Sta di fatto che la critica epicurea è impotente contro il Dio cristiano: questo non è il dio dei fenomeni
naturali del pantheon antico. La lotta per la pace dell’anima diventa una lotta per la pace civile. Strauss è
favorevole a questo tipo di lotta purché non impugni un pregiudizio negativo contro la religione.

Uriel da Costa.

Era di famiglia marrana e la sua critica si rivolge sia al cristianesimo che all’ebraismo e i punti di scontro
fondamentali riguardano la dottrina dell’immortalità dell’anima e la tradizione ebraica.
Inizialmente si era convinto del fatto che le dottrine dell’Antico Testamento si potessero conciliare più
facilmente col giudizio della ragione. La ragione diventa dunque criterio di verità nel senso che la verità
non può essere contraria a ciò che è ragionevole, altro criterio sarebbe quello del consenso che
avvantaggerebbe Mosè a svantaggio di Gesù. Solo un consenso universale può infatti ottenere la regola
comune, ma da Costa non arriva subito a questa considerazione radicale.
La rivelazione originaria e pura è quella corretta, si dovrà dunque approcciare il testo biblico per purificare
la dottrina dai travisamenti dell’uomo: la dottrina dell’anima, ad esempio, è falsa perché contraddice la
legge originaria. Sarebbe più corretto affermare che la dottrina dell’immortalità dell’anima è falsa perché
irragionevole e, poiché è irragionevole, contraddice la legge mosaica. Questa posizione da Cosa la eredita
da Michele Serveto, tuttavia quest’ultimo sosterrà poi che l’immortalità è stata raggiunta con la venuta di
Cristo.
Ma quale motivazione muove da Costa? Egli è terrorizzato dalla dannazione eterna, inizialmente cerca
dunque di attenersi ai precetti cristiani ma, ritenendo questa via impraticabile, mette in discussione questo
dogma. Negando questo dogma si libera di un peso. Il punto critico dunque non è, né per da Costa né per
Epicuro, la religione in quanto tale ma la falsa credenza in una religione che spaventa. Si andrà dunque alla
ricerca di una verità consolatoria in questo senso. Se Epicuro non era interessato al carattere illusorio della
religione per da Costa risulta invece un punto fondamentale. La dottrina dell’immortalità dell’anima ci
distoglie dai beni presenti, attuali e reali: ci fa preferire una futura pace illusoria alla pace reale, civile ed
esterna. L’accento si sposta dal singolo alla società: la lotta non è contro dogmi ma contro nemici reali. In
seguito a queste riflessioni verrà rifiutata anche la legge mosaica in quanto contraria a quell’amore reale,
naturale che lega tutti gli uomini. Ciò, per Strauss, non toglie che la critica di da Costa parta dall’angoscia
per un male eterno.

Isaac La Peyrère.
La sua fama va ricondotta principalmente alla formulazione della teoria preadamitica. Questa rappresenta
il primo tentativo un’indagine etnologica sulle origini dell’umanità. Sono stati certi passi della Bibbia,
interpretati letteralmente, che hanno portato La Peyrère a questa conclusione, tuttavia fu il primo a
prendere apertamente le distanze dall’autorità biblica. Il suo sistema va interpretato in relazione alla
dottrina del socinianesimo.
I sociniani contestano la legge mosaica per la sua crudeltà e per l’assenza di riferimenti alla teoria
dell’immortalità. Per loro l’opera di Dio agisce già in noi senza bisogno di una legge violenta (come quella
veterotestamentaria) che ci costringa, questo li conduce all’accettazione della morale cristiana. In questo
modo si apre la via ad una critica storico-filologica dell’antico testamento. Peccato e redenzione non
hanno quindi mutato la condizione naturale dell’uomo, per l’immortalità c’è necessità di una seconda
creazione che è quella operata dal Cristo con la sua resurrezione. Quella del peccato originale è dunque
una teoria inconsistente.
La speranza dell’immortalità anima anche la riflessione di La Peyrère. La religione non è un fenomeno
naturale tant’è che vi sono popolazioni che ne sono completamente prive. L’etnologia e la geografia
giocano dunque un ruolo fondamentale nella critica alla religione. La Peyrère si distingue da Socini per il
fatto che il primo ritiene lo sforzo dell’uomo insufficiente alla salvezza, ciò non toglie l’originaria perfezione
dell’uomo in quanto essere dotato di intelletto. Si avverte dunque nel teologo francese l’influsso della
nuova scienza della natura che va a conciliarsi con la teoria della salvezza. Tale riunione può avvenire solo
se la componente naturale e quella mistica vengono chiaramente distinte: i mali reali non possono infatti
verificarsi che per cause reali. In quest’ottica La Peyrère reinterpreta i miracoli dandogli semplicemente un
senso più particolare e limitato, ma probabilmente si tratta solo di una dissimulazione per nascondere il suo
totale rifiuto del miracolo.
Tutta la riflessione di La Peyrère si riduce alla teoria preadamitica che però difende da una parte
impugnando le Scritture, dall’altra negandone l’autorità. Solo la legge adamitica (proibizione del frutto) era
universale, quella mosaica era indirizzata ai soli ebrei, essa infatti non è che una particolare espressione tra
tante del diritto naturale. Per poter distinguere gli argomenti a difesa della sua teoria e quelli che da essa si
discostano La Peyrère introduce la distinzione tra i passi biblici:
• Necessari alla salvezza poiché chiari;
• Non necessari alla salvezza poiché oscuri.
L’oscurità di certi passi è indubitabile, ma anche quella provocata da alterazioni storiche va ricondotta in un
disegno di Dio, il quale desiderò che venissero tramandati chiaramente solo gli insegnamenti necessari alla
salvezza, contenuti perlopiù nel Nuovo Testamento. In questo ha un ruolo fondamentale di interpretazione
la nostra ragione. Nella condizione preadamitica la morte non aveva significato spirituale, solo dopo
Adamo diventa qualcosa di malvagio, fino alla venuta di Cristo. Prima di Adamo non c’era il peccato contro
Dio. In tutto questo Strauss considera che questo tentativo di conciliare le due sfere celi la volontà di
accomodare semplicemente le sue teorie naturalistiche al dogma cristiano: La Peyrère era infatti tutto
meno che un martire, rinnegò facilmente la sua teoria preadamitica.
Per quanto riguarda l’elezione degli ebrei essa viene interpretata come un’ambasceria donata da Dio al
mondo: la sua finalità universale è il cristianesimo. Ciò non toglie che lo stesso cristianesimo vada
“semplificato” e ripulito da quell’eccesso di gravosi e irragionevoli dogmi. Alla redenzione si attribuirà
un concreto significato civile.

Thomas Hobbes.

Per ora abbiamo analizzato la critica della religione distinguendola in tre momenti:
1. L’originario interesse epicureo per la pace dell’anima che lascia spazio all’interesse per la pace
civile;
2. Critica al carattere illusorio della religione;
3. Critica all’idea dell’originaria perfezione dell’uomo in contrasto a una visione progressiva
della storia dell’umanità.
Hobbes incarna lo spirito della critica positivista alla religione. Per lui tra scienza e religione c’è una
contrapposizione verticale: si tratta di due piani completamente distinti, proprio per questo la scienza
risponde a promesse che la religione non può mantenere. Il male più grande è la morte violenta e il bene
più desiderato è l’illimitato potere sugli altri. Hobbes distingue dunque due scienze atte alla critica della
religione: fisica e antropologia; il fondamento della critica sarà in quest’ultima. Bisogna ricercare l’ordine
dei fini dell’uomo: la felicità dell’uomo sta nel procedere senza ostacoli verso una potenza sempre
maggiore. La scienza stessa, così come la religione, viene messa dunque in funzione della potenza. La
differenza sta nel fatto che la scienza si serve di un procedimento metodico, la religione ricerca
completamente priva di un metodo: qua si giova la contrapposizione principale, il contenuto delle
dottrine/teorie è secondario. La critica stessa non è l’obiettivo primario della scienza ma una conseguenza.
Laddove manca la scienza (il metodo) si insinua la religione che mina alla felicità dell’uomo.
La vita è desiderio di se stessa in quanto bene primario ma esiste solo il sommo male ovvero la morte
violenta. La vita si regola nel tentativo di evitare questa eventualità. La radice di questo male sta nel
desiderio di dominio sulla vita altrui: la base del diritto, e quindi dello Stato, sta nella paura verso questo
desiderio di dominio dei nostri simili. Se lo scopo della fisica è l’accrescimento del dominio, quello
dell’antropologia è il raggiungimento della pace, è dunque più urgente. Solo l’antropologia può costruire
quell’argine alla gloriatio da cui discende il fervore religioso. Se quella tipica del paganesimo era una
religione civile votata alla pace sociale, così non è più per le religioni rivelate, esse contraddicono la politica,
e in questo diventano nocive. La religione deve sempre essere sottoposta alla politica, ma ciò è reso difficile
dalla vanità dei profeti estranei all’umiltà della ragione.
Risalendo la catena delle cause è ovvio dover porre una causa incausata, che sarebbe Dio, ma ciò non
toglie che una rappresentazione dell’idea di Dio sia impossibile. Dall’ignoranza delle cause deriva anche la
fede nei miracoli: l’unica differenza tra religione e superstizione è che la prima è socialmente condivisa, la
seconda è privata. Hobbes riconosce comunque la legittimità di porre una forza esterna all’uomo che sia ad
esso superiore, per questo potremmo inquadrarlo come agnostico. Se Spinoza ammette la necessità della
religione come strumento politico, non è così per Hobbes che preferisce ancorare tutta la legittimità dello
Stato alla naturale ragione umana.
Hobbes crede inoltre che, se ci si attenesse rigorosamente alle Scritture, qualsiasi conflitto verrebbe
evitato. Ma l’autorità della Scrittura non risiede tanto nel testo quanto nel potere di chi la impone come
verità, per il resto non si interessa particolarmente dell’esegesi biblica.

LA CRITICA DELLA RELIGIONE IN SPINOZA.

Il rigido determinismo meccanicistico della fisica non viene di certo incontro al bisogno umano di conforto.
Per Strauss la retorica del panteismo ha sempre tentato di celare questo problema in questo presenta
Spinoza distinguendo la sua critica in due avversari:
• Gli “scettici” che sottomettono la ragione alla Scrittura (come la tradizione ebraica);
• I “dogmatici” che pretendono di rendere la Scrittura ancella della ragione (come Maimonide).
La teoria del peccato originale è parte integrante della posizione scettica, bisogna però sottolineare come la
critica sia rivolta in particolare all’ortodossia cristiana.
La critica dell’ortodossia.

Gli ortodossi rientrano dunque tra gli scettici. In una lettera a Oldenburg Spinoza chiarisce quali sono le
motivazioni del suo trattato:
1. I pregiudizi dei teologi;
2. Accuse infondate di ateismo dal volgo;
3. La libertà di filosofare.
Il secondo punto costrinse spesso Spinoza ad attenuare le sue posizioni. Per aprire alla libertà del
filosofare sarà necessario conquistarsi questa libertà con un atto pre-filosofico.
Per stabilire che qualcosa sia bene o male è necessario che ci sia una norma per valutare: nel pensiero di
Dio non c’è una tale norma, poiché vede le cose come sono in se stesse, nella Scrittura i comandi divini
sono tali solo per adattarsi alle scarse capacità riflessive del volgo. In queste affermazioni di Spinoza
Blyenberg vede delle verità, ma allo stesso tempo non può accettarle in quanto si scontrano con la parola di
Dio. Partendo da diversi principi vediamo già come il discorso di Spinoza perda legittimità: per questo
bisogna pre-filosoficamente mettere in discussione la rivelazione stessa.
Spinoza accetterà provvisoriamente l’autorità della Scrittura e procederà ad analizzarla attenendosi al suo
significato letterale, ogni interpretazione umana viene bollata come falsificante. Per Strauss la critica
spinoziana si muove su due linee paradossali: da una parte si richiama al significato originale del testo
contro i suoi interpreti moderni, dall’altro critica i pregiudizi degli stessi antichi autori delle Scritture
originali. Nel primo caso il mezzo utilizzato sarà il testo, nel secondo caso la ragione.
Prima di tutto bisogna individuare una coerenza nel teso. Le contraddizioni del testo non possono essere
né ignorate né falsificate attraverso un’interpretazione. La Bibbia laddove si contraddica non può essere
vera ma lo sarà unicamente laddove parli univocamente. L’unico comando univoco è quello che promuove
l’amore per il prossimo attraverso opere di giustizia e carità, è questo il fine delle Scritture: la pietà.
Filosofia e teologia risultano avere scopi totalmente diversi. I due testamenti differiscono invece solo nei
mezzi per giungere a un medesimo obiettivo. Questa prospettiva, secondo Strauss, richiama la necessità del
consenso universale tra gli uomini guidati dalla ragione, ma il problema sta nel contenuto soprarazionale di
certe dottrine. Ciononostante, abbiamo capito ciò che cerca Spinoza nella Scrittura: la morale razionale. La
legge dei profeti coincide con quella razionale nelle sue parti fondamentali.
La parte dell’insegnamento morale, comune a tutti, è quella che viene prima della distinzione tra dottrine
filosofiche, oggetto di studio dei sapienti, e parti per la comprensione per la moltitudine. Questa
distinzione (filosofico-volgare) consta delle due alternative utili a motivare l’insegnamento principale, e
sono entrambe legittime: si può obbedire sia per fede che per comprensione razionale.
Spinoza ribadisce questi presupposti attraverso una critica a Paolo: ci sono parti in cui la Bibbia non ha
alcuna autorità e non parla per Dio, d’altra parte è vero che Spinoza si richiama a luoghi biblici (a Salomone
ad esempio) per sostenere sue tesi sulla natura. Se la Scrittura non ha autorità è più coerente non tenerla
in considerazione, ma Spinoza preferisce interpretare quei luoghi dubbi come non teoricamente vincolanti.
Senza questa interpretazione, che Strauss definisce “distorta”, sarebbero inconsistenti certe sue teorie,
pertanto opera falsificazioni tali e quali a quelle di certi interpreti biblici.
La critica si gioca quindi nel rapporto tra un terreno pre-filosofico e uno propriamente filosofico. Strauss
interpreta la prospettiva di Spinoza come una sottomissione razionale alla Scrittura, la quale risulterebbe
ovviamente paradossale poiché una ragione che si sottomette a qualcosa di esterno diventa irrazionale.
Spinoza non può basare la sua critica su argomenti razionali poiché, come già detto, la verità biblica è
soprarazionale, solo un credente può afferrarla. Il segno e il miracolo non necessitano preventivamente
della fede, come vorrebbe Spinoza, ma la fondano, infatti molti increduli per mezzo di essi sono portati a
credere: tra fedeli e increduli c’è dunque un terreno comune, quello dell’esperienza. La religione rivelata
è, in questo senso, positiva.
Per confutare i miracoli Spinoza contrappone la teoria dell’ordine immutabile della natura: da una parte la
religione, dall’altra la scienza. Spinoza si dimostra poco abile a dare una visione univoca del miracolo
come viene inteso dalla Scrittura tant’è che alcuni passi li interpreta in maniera distorta, altri palesemente
inattaccabili li bolla come fasulli e aggiunti in un secondo momento. Egli respinge a piacimento le parti che
non gli tornano utili.
Il terreno comune tra Spinoza e l’ortodossia risulta dunque quello della ragione. La convinzione che esista
una rivelazione che supera la ragione è per Spinoza un pregiudizio pre-razionale, pregiudizio che va
estirpato. Ma Strauss sostiene che anche l’impostazione spinoziana non sia priva di pregiudizi: ad
esempio sostenere che non esistano i miracoli rappresenta un pregiudizio sulla natura di Dio che, nella
sua onnipotenza, dovrebbe avere la possibilità di compierli. Spinoza è anche ambiguo sul ruolo del
miracolo poiché da una parte sostiene che si possa conoscere Dio per via razionale non superstiziosa,
d’altra parte ammette che la maggior parte della moltitudine si appoggia sui miracoli per credere in Dio.
Certi miracoli sono indubitabilmente in conflitto con la verità scientifica: non rappresentano semplici
“problemi” solvibili dal progresso della scienza, in questi casi Spinoza rimane disarmato ed è costretto a
sospendere il giudizio. L’unica argomentazione in favore di Spinoza rimane il fatto che ad oggi non si
vedano più miracoli, secondo i credenti per ovvie ragioni teologiche, secondo lui perché la scienza non
ci lascia più ingannare.
Risulta ora difficile stabilire se quegli antichi autori rappresentassero la purezza originaria del Verbo o la
rozzezza ignorante dei rispettivi popoli. Per Strauss Spinoza non riesce a dimostrare l’impossibilità dei
miracoli, tuttalpiù dimostra che una ragione che non crede non può conoscerli né comprenderli. In fin
dei conti il movimento argomentativo di Spinoza mostra una ragione positiva che gira su se stessa.
L’unico modo per avanzare è quindi quello di scovare la Scrittura laddove si avventuri nel campo delle
scienze positive, come ad esempio nel miracolo di Giosuè.
Per Spinoza dunque nella Scrittura sono contenute sia dottrine che pregiudizi. Ma spesso e volentieri i
profeti si contraddicono l’un l’altro, ancor di più le diverse religioni rivelate: davanti alla ragione si staglia
una moltitudine enorme di sistemi teologici tra i quali ciascuno rivendica una legittimità superiore. Tale
contrasto è lo stesso che nella filosofia: migliaia di sistemi che si contraddicono a vicenda. Dunque,
l’obiezione dell’«anarchia dei sistemi» non potrà essere mossa dalla filosofia ma al massimo dalla
scienza positiva.
Spinoza svolge quindi una critica ai modi in cui il testo ci è pervenuto: nega, ad esempio, l’attribuzione
mosaica del Pentateuco, in tal modo fa crollare tutta la legittimità di questi libri. Un’arma fondamentale
tra le mani di Spinoza risulta essere in particolare quella dello scherno e della derisione: paragonare i passi
biblici alle fantasticherie della letteratura è forse il modo migliore per delegittimarla.
Spinoza non può costruire una critica filosofica, deve optare per una scientifica basata sulla letteralità della
Scrittura, ma se gli interlocutori respingono questa letteralità il suo edificio crolla: non si può penetrare
razionalmente la fede, si può al massimo aspettare che la fede esca fuori dal suo campo; la critica positiva è
possibile solo se difensiva. Davanti alla fede Spinoza si rivela più cieco di un credente.

La critica a Maimonide.

Secondo la distinzione stabilita da Strauss Maimonide si inserirebbe nella critica ai dogmatici. Considerato che
il compito di Spinoza è quello di una radicale separazione tra la ragione filosofica e la pedanteria
teologica, il campo di confronto con Maimonide non può che essere quello della ragione. Si possono
conciliare ragione e rivelazione? Maimonide sostiene che la ragione da sola non basti, alla salvezza è
necessaria anche la rivelazione. Condizione della beatitudo è il rispetto della legge razionale. Se da una
parte difende il diritto della ragione, dall’altra richiama l’attenzione sui suoi limiti. Maimonide sostiene che
tutti i passi della Bibbia che contraddicono la ragione vadano interpretati allegoricamente, in questo si
scaglia contro la filosofia ortodossa araba, il kalām. Questo sostiene l’atomismo e l’esistenza del vuoto, ma
allo stesso tempo sostiene la possibilità della creazione dal nulla. Maimonide si richiama invece all’ordine
percepibile della scienza aristotelica. Spinoza per la sua critica si richiamerà invece ad Averroè.
Spinoza sostiene l’eternità del mondo, negando di conseguenza i miracoli: per lui in Dio non si dà
differenza tra possibilità e realtà. Maimonide deduce dall’unità di Dio l’assenza di attributi, e ciò è
chiaramente in contrasto col sistema spinoziano. Maimonide contrasta inoltre con l’idea spinoziana della
volontà necessitata: la volontà di Dio è per lui spontanea. L’identità tra intelletto e volontà, che entrambi
propugnano, è quindi radicalmente diversa: per Spinoza ad esempio questa identità rende inammissibile la
possibilità che Dio abbia bisogno di una legge per imporre la sua potenza; Maimonide invece distingue la
onniscienza divina dall’attualità reale, dunque c’è bisogno di una legge perché le azioni degli uomini
possano essere considerati peccati. Maimonide di fatto sostiene la insondabile libertà di Dio su un piano
radicalmente diverso da quello in cui si muove Spinoza, per questo dalla sua prospettiva la rivelazione pare
necessaria.
Maimonide parte dal presupposto della divinità della Scrittura, che ci rivela verità irraggiungibili al solo
intelletto umano. Spinoza al contrario è fiducioso nelle capacità dell’intelletto, dunque la rivelazione
assume un ruolo superfluo: per la filosofia la rivelazione non è niente di più che un fatto tra gli altri. Se per
Spinoza il lume naturale è una via, non solo legittima, ma addirittura migliore per condurre una retta vita;
per Maimonide appare invece insufficiente. L’alternativa tra Maimonide e Spinoza si gioca tra l’insufficienza
e la sufficienza dell’intelletto umano, da essa deriva l’autorità della Scrittura.
Per Strauss quello di Maimonide è un ragionamento scientifico che ammette i limiti della ragione. Anche
alla luce degli scarsi progressi scientifici che vi erano nel XII sec. Potremmo dire con Maimonide che i
contenuti delle Scritture hanno validità obbligatoria finché non ne si dimostra il contrario. Maimonide si fa
guidare dall’ebraismo, ma questo per Spinoza costituisce un pregiudizio: se la fede non può sconfiggere
l’incredulità, è vero anche il contrario. Spinoza può quindi avanzare la critica solo se attaccato nel campo
della scienza.
Un altro terreno di diverbio è quello che riguarda la legge divina: Spinoza sostiene che essa riguardi
l’individuo, non la vita associata, pertanto quella mosaica non è legge divina, tuttavia sorprende la critica
spinoziana alla funzione sociale della legge mosaica. Maimonide tende invece a ricondurre tutte le sfere
della vita alla legge divina, perciò la politica non può risultare estranea ad essa. Strauss taccia inoltre di
incoerenza gli elogi che Spinoza tesse alle abilità di Mosè come legislatore. Se la legge divina è unica, ma i
messi per arrivare ad essa sono molteplici non si può escludere del tutto che quella mosaica sia, almeno in
parte, legge divina, al contrario di quanto sostiene Spinoza. Come può fare il volgo ignorante a giungere
alla legge divina se non passando inizialmente per la legge umana? I sapienti dovrebbero fare da tramite
ma Spinoza non ammette univocamente la loro funzione sociale, al contrario di Maimonide. Per
quest’ultimo è infatti auspicabile e possibile la riunione dei diversi agenti in un’unica verità: ciò sarebbe
possibile però solo a patto del riconoscimento della rivelazione di un Dio legislatore. Tutto ciò appare per
Strauss inattaccabile. Spinoza fa leva invece sulla letteralità della Bibbia e la sua indagine non ha un vero
obiettivo se non la demolizione di tutti i pregiudizi e le interpretazioni che su di essa si costruiscono.
Maimonide interpreta alla luce di Aristotele, cosciente del fatto che non si darà mai una vera
interpretazione della Bibbia finché non si darà una scienza perfetta.
La critica di Spinoza si rivolge su 4 fronti fondamentali:
1. Scientifico;
2. Esegetico letterale;
3. Storico
4. Filosofico.
L’unico che rimane in piedi è l’ultimo e riguarda la critica metafisica. Spinoza sostiene l’infinita potenza
della natura e l’inutilità della rivelazione, ma quest’ultima si colloca ad un livello di riflessione diverso. Se
la natura è ciò che abbiamo di più vicino, Dio è al contrario ciò che c’è di più lontano, l’assente: “quando
non si riesce a capire bisogna obbedire”. In questo senso potremmo dire che ciò che Spinoza chiama
«libertà» non è altro che un «tradimento»: è ovvio che scientificamente, partendo dall’ordine naturale,
non vi siano prove dell’esistenza di Dio, posso conoscerlo solo attraverso me stesso.
La critica spinoziana parte da un dubbio universale di stampo cartesiano: egli si fida soltanto della
conoscenza razionale e di quella intuitiva. L’immaginazione è invece completamente disconosciuta della
validità conoscitiva, anzi la sua presenza è alternativa all’intelletto. Da ciò deriva che la conoscenza
profetica non abbia validità.
Secondo Strauss il rapporto tra la filosofia e i miracoli cambia da Maimonide a Spinoza a causa della scienza
aristotelica. Per Maimonide i miracoli erano già in qualche modo inscritti nella necessità di salvare i figli di
Israele da reali difficoltà, dettata dall’amore di Dio per l’uomo. Al contrario la necessità di conoscere
teoricamente Dio per poterlo amare si connette ad una svalutazione dei miracoli e alla decentralizzazione
dell’uomo da scopo della natura. La critica scientifica di Spinoza non può dimostrare l’inconsistenza della
creazione dunque non può confutare i miracoli, anzi tutte i suoi risultati sono vincolati al riconoscimento
della legittimità della scienza.

La critica a Calvino.

Per Calvino Dio è il creatore e la sua conoscenza è infusa nel cuore dell’uomo: non basta infatti il semplice
lume naturale, la parola di Dio è essenziale all’uomo. La conoscenza che intende Calvino non è però
“speculativa” né teorica ma è semplice consapevolezza del fatto di dovergli servitù e obbedienza. La
scienza priva di pregiudizi è pregna di presunzione e di spirito di disobbedienza. Essa ci porta a credere che
l’uomo basti a se stesso e non abbia bisogno dello Spirito Santo. La prospettiva di Spinoza è ovviamente
opposta e, secondo Strauss, non c’è neanche uno spiraglio di tolleranza tra le due posizioni. Calvino ad
esempio accetta il miracolo come uno dei modi in cui può agire la provvidenza, inoltre l’accettazione del
miracolo stesso si fonda sulla fede dunque, per Strauss, la critica spinoziana non lo tocca minimamente. Per
Calvino l’azione di Dio si coglie più facilmente nell’incostanza del creato che nella costanza, tant’è che, al
contrario di Spinoza, crede che la religione sia fondamentalmente imperniata sul ruolo dell’uomo.
Dalla prospettiva di Calvino esprimere valutazioni razionali su Dio, come fa Spinoza, è già andargli contro:
Dio è un enigma insolubile per l’uomo. Alla soddisfazione razionale dell’autocontemplazione spinoziana
Calvino contrappone l’umiltà. Se per Spinoza sull’uomo non grava nessun peccato mortale, Calvino vede
corrotta la natura dell’umanità. Per Strauss Spinoza ha una simpatia importante per la teoria della
predestinazione, il che porterebbe alla conclusione che sia Dio stesso l’autore del peccato, ma Spinoza
evita il problema destituendo completamente la portata positiva del peccato, ma la Scrittura non offre
nessun varco a questa interpretazione.
Spinoza tenta di spiegare il fenomeno religioso riconducendolo ad una situazione in cui il conato
all’autoconservazione, causa delle passioni, si smarrisce tra i beni unicamente materiali e cerca la sua
conservazione nell’immutabile. La critica alla religione rivelata dipende dalla possibilità del sistema, che
dev’essere chiuso e definitivo: Spinoza è convinto di poter spiegare il sentimento religioso a partire dalle
passioni generate dalla superstizione ma, per Strauss, Spinoza si rivela molto meno abile a comprendere
la Scrittura di quanto pensa. Spinoza vede solo l’alternativa tra autodeterminazione e timore della
punizione (Hermann Cohen). Spinoza confonde l’«essere vicino a Dio» con l’«essere uno con Dio»
(principio di identità in Schelling) e in questo modo non riesce a comprendere che amore e timore di Dio
non sono contrapposti ma complementari («l’anima di ogni odio è amore»).
Ogni tipo di ateismo muove sempre dalla indesiderabilità dell’esistenza di un Dio. La concezione spinoziana
postula la necessaria conoscibilità di certe verità su cui fondare il suo sistema in funzione della beatitudo,
ma la necessità inesorabile, davanti a cui perfino Epicuro rifugge, viene accolta da Spinoza: la religione
sarebbe incapacità di amare il destino. Abbaio visto che la critica alla religione possibile solo come
sistematica, ma Spinoza si avvale maggiormente di quella positiva, ai miracoli ad esempio, ma egli non
capisce che la descrizione scientifica di un evento particolare non scalfisce minimamente la sua portata
miracolosa: è la differenza che intercorre tra descrivere e spiegare.

L’analisi della religione rivelata.

Il pregiudizio principale della religione rivelata riguarda il condurre tutto a determinati fini: tutte le cose
diventano dei mezzi e ciò fa cadere l’uomo in una prospettiva meramente passionale. L’autoconservazione
è il motore sia della religione che della conoscenza: la prima ci permette di riporre il nostro amore in un
essere a noi esterno e non deperibile, amare questo essere rende in qualche modo noi stessi eterni. Ma
anche la teoria svolge un ruolo simile, ma non è purtroppo raggiungibile dalla moltitudine: l’uomo forte e
libero intraprende la via razione, lo schiavo delle passioni non può che rifugiarsi nella superstizione. La
predizione dei profeti non è altro che una forma di desiderio: descrivere le cose come vorremmo che
fossero: «la fede inizia laddove finisce il progetto». Il non-consueto mette in allarme, tale paura si
trasforma in timore di Dio porta gli uomini a rifiutare la razionalità: crede agli altri più che a se stesso. In
ciò non appare chiaro se questi altri siano consapevoli dell’inganno o anch’essi vittime, sta di fatto che il
dominio che perpetrano è comunque preferibile alla totale anarchia.

Lo Stato e la funzione sociale della religione.

Per Spinoza il legame tra sfera individuale e sociale è dato dall’alleanza tra l’autorità spirituale e quella
politica. La concezione spinoziana di Stato è fondata sulla dottrina del diritto naturale. Le passioni umane
esistono necessariamente, dunque non vanno biasimate ma comprese, con un atteggiamento realista
Spinoza sostiene che l’uomo non costituisca un microcosmo diverso da quello della natura. A questo
consegue una durissima condanna da parte di Spinoza agli «ideologi» e agli «idealisti» della politica:
l’opposizione all’utopia è speculare a quella alla religione.
L’interlocutore positivo fondamentale e Machiavelli, di cui enfatizza maggiormente il tono, specialmente
nelle polemiche contro la Chiesa. L’unico modo per governare è riuscire a indirizzare la follia degli uomini:
in tutto questo il sistema politico spinoziano non può che soffrire di una spaccatura profondissima tra
saggi e moltitudine. Il modo che ha d’intendere lo stato è puramente teorico, così la dimensione della vita
quotidiana appare inevitabilmente tagliata fuori. Spinoza riconduce il diritto naturale dell’uomo all’eterna
potenza di Dio di conseguenza ciò costituirebbe uno sgravamento dalla responsabilità delle azioni
commesse a causa delle passioni. Infatti quella delle passioni, insieme a quella della ragione, è una strada
per l’autoconservazione, questo non vuol dire che la guerra e la violenza siano giustificate. Per Strauss la
fallacia sta nel fatto che il diritto naturale di Spinoza giustifica in egual modo ragione e passioni. La società
politica spinoziana è fortemente dualistica: da una parte i saggi razionali, dall’altra la moltitudine
passionale. Spinoza nega anche il fatto che i patti siano totalmente vincolanti, questo quadro presenta,
secondo Strauss, problemi insormontabili alla fondazione di uno Stato: se il timore della miseria basterà a
creare lo Stato non sarà sufficiente a creare l’attitudine allo Stato; tant’è che se il diritto deriva dalla
potenza sarà la moltitudine ad imporre le sue passioni. Uno Stato del genere si potrà costruire solo sulla
base dell’inganno del sovrano, come in una teocrazia, che sarà inevitabilmente violenta.
Ma gli uomini non possono sopportare a lungo una tale schiavitù, tutti gli esseri hanno diritto a esistere pari
alla loro potenza, il che non vuol dire che Spinoza sostenga il «diritto del più forte», ma crea comunque
disparità. La forza come la intende Spinoza non guarda tanto al singolo ma al quantum prevalente di
potenza, che può riguardare anche un insieme di individui. Appropriandosi di una rilevanza cosmica la
teoria di Spinoza perderebbe qualsiasi contatto con l’umano: l’uomo non è che una particella della natura.
La ragione è dunque solo quella della società, dello Stato, è si trova non negli individui ma nell’azione del
governo volte a soddisfare le passioni limitandole allo stesso tempo. Queste problematiche vanno
ricondotte alla preliminare separazione tra volgo e saggi, infatti perché uno Stato sia razionalmente fondato
ci sarebbe bisogno che la moltitudine, dotata della potenza, si desti alla ragione e si sollevi contro il tiranno.
Ma questo risvolto democratico non è più naturalmente giustificato di quello teocratico, bisogna capire il
punto in cui la moltitudine passa da essere schiava delle passioni a essere popolo in cerca di libertà. A
educare in questo senso il popolo, se non può essere la ragione, sarà la religione (distinta dalla
superstizione della plebe). Solo questa può fare una breccia positiva nella vita passionale dei più, portandoli
all’obbedienza e alla pietà. Come sia possibile tutto ciò senza rivelazione rimane un mistero, d’altronde che
differenza intercorre tra superstizione e religione? La religione non è forse una superstizione dai più
condivisa? Tra le varie religioni ci sarà comunque discordia. È sulle opere che ci si deve incontrare, sacro è
ciò che muove alla pietà, solo questo può essere un criterio accettabile. La religione risulta quindi essere via
di mezzo tra ragione e superstizione, ma infine il pregiudizio sulla vita passionale della moltitudine appare
inconciliabile con la critica alla religione che favorisce il dialogo razionale interno all’animo umano.

Concezione, esegesi e critica biblica.

Il pregiudizio scientifico di Spinoza gli impedisce di leggere la Scrittura con un occhio scevro dall’idea della
sua inferiorità. I due piani non si incontrano e l’atteggiamento di Spinoza è sempre sprezzante e
noncurante. La distinzione che fa tra religione e superstizione si perde davanti all’imponenza della ragione
orientata al raggiungimento della libertà. La legge mosaica era destinata a un’epoca di minorità dell’uomo,
la cerimonialità fu funzionale all’ammaestramento. L’unico nocciolo a rimanere invariato nella Scrittura è la
morale razionale. Per Strauss l’esegesi biblica si fonda, e non è preliminare, sulla critica alla religione. Tutto
verrà condotto dal lume naturale e si configurerà come un percorso tra le opinioni degli autori umani della
Scrittura come “libro umano”, tale esegesi non è altro che il risultato di una critica positiva.

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