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ALESSANDRO ALEOTTI

INTRODUZIONE
Il passaggio da Milano a Milania si gi compiuto. Si tratta del frutto del passaggio storico dalla modernit al suo stadio successivo, sia esso post-moderno, di modernit riflessiva (come lo definisce Ulrich Beck), di modernit liquida (come lo definisce Zygmunt Bauman) o in qualunque altro modo lo vogliamo chiamare. Ci che certo che quella fase della storia che ha avuto in Hegel il suo ispiratore filosofico, in Adam Smith e Karl Marx i suoi padri sociologici, nelle rivoluzioni francese e russa i suoi inneschi politici e nella rivoluzione industriale quelli economici - e che tutta insieme chiamiamo modernit - finita. Che cosa rimane sotto le sue macerie? Rimane lindividuo nel campo aperto della globalizzazione e la tecnica come unica medicina. Ma ogni fase della storia definisce anche listituzione che ne diviene egemone. E cos come lantichit ha dato vita allImpero, il medioevo al Borgo e la modernit allo Stato, anche la fase postmoderna ha definito la sua istituzione egemone in quella citt ectoplasmatica che qui, contestualizzandola al nostro territorio, chiamiamo Milania. Non si tratta (e lo vedremo) della evoluzione geografica della vecchia citt territoriale, bens di una mutazione che, attraverso la sostituzione della centralit, dal territorio alle reti che lo attraversano, trasforma il concetto di comunit in un agglomerato relazionale che scaturisce dai rapporti connettivi pi che da quelli di vicinanza fisica.

DA MILANO A MILANIA
INDICE
INTRODUZIONE OLTRE MILANIA CAPITOLO 1 - CERA UNA VOLTA MILANO CAPITOLO 2 - E ORA CE MILANIA CAPITOLO 3 - E DELLITALIA COSA RESTA? CAPITOLO 4 - I SOGGETTI CHE FANNO MILANIA I DIALOGHI DI MILANIA Emanuele Severino Giulio Giorello Piero Bassetti Salvatore Veca Giulio Sapelli pag. 1 pag. 8 pag. 9 pag. 24 pag. 37 pag. 47

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un fatto che la consapevolezza di questa mutazione sia ancora patrimonio di pochi. Il nostro territorio, pur in prima fila nel processo di transizione verso la post modernit, esprime rari punti di coagulo di questa consapevolezza. Nel panorama milanese sembrano essere solo alcune istituzioni funzionali a rendersi conto di questi mutamenti. In prima fila ci sono le Fondazioni (vere e proprie istituzioni della post modernit) e tra queste dobbligo segnalare Globus et Locus, una Fondazione di matrice bancaria, universitaria e camerale che, sui temi del glocalismo, esprime certamente una delle posizioni oggi pi avanzate. Lesistenza di questo grande vuoto percettivo fa s che il presente testo, pur non avocando a s nullaltro che una pretesa analiticointerpretativa, possa essere inteso come un urlo. Non un urlo di arroganza o presunzione, ma un urlo di disperata ragionevolezza per aiutare la vecchia Milano a rendersi conto del fatto che si gi mutata nella dimensione nuova di Milania. Lurlo, quindi, come metafora per uninvocazione alla classe dirigente affinch riparta da unanalisi seria dei mutamenti strutturali che il global ha innestato sul local, al fine di coglierne le potenzialit e di non restare paralizzata negli esorcismi della paura e della demagogia. , infatti, il disorientamento che genera la crisi. E la crisi da disorientamento si avvita in un inestricabile circolo vizioso fatto di paure innestate nella mente dei cittadini e di stampelle offerte ai mondi claudicanti che chiudono gli occhi di fronte al futuro. Una situazione che spinge ad abbracciare strategie illusorie: dal tentativo di sconfiggere linsicurezza generata dal cambiamento attraverso

laumento delle politiche repressive e di controllo, alla vana richiesta, da parte dei soggetti scossi dalla globalizzazione, di ripristinare antiche bardature protettive. Uscire da questa paralizzante condizione, necessario per far s che la leadership della citt si arrivi ad identificare con quelle sfide di sviluppo e di futuro che possono far vivere Milano felicemente allaltezza del proprio tempo. Perci, occorre partire da una revisione delle categorie attraverso cui siamo stati abituati a pensare il nostro territorio. Conoscere le mutazioni avvenute in questo passaggio da Milano a Milania, la condizione necessaria per poter continuare a coniugare lalto con il basso, i ceti sociali differenti, le diverse generazioni. Insomma, per poter continuare a fare progetto sul piano politico, sociale e culturale. Resta comunque vera la dinamica strutturale che vede nelle eccellenze i motori dello sviluppo, ma le eccellenze che servono sono quelle orientate al futuro, non quelle prese dallalbum dei ricordi o dai rotocalchi del cortocircuito politico-mediatico. Conoscere e capire Milania serve quindi ad identificare le nuove funzioni di eccellenza, le realt emergenti e soprattutto i developer, cio quegli imprenditori dello sviluppo che si incaricheranno di dare corpo alle strategie di rafforzamento del nostro territorio. Per assolvere a questo compito, serve un urlo che svegli tutti, non solo gli abitanti del ristretto circolo allinterno dei bastioni, ma anche quei soggetti dispersi e tra loro poco interconnessi che fanno i numeri dello sviluppo della citt: dalla galassia segmentata dei city users al popolo delle partite iva, dallondata immigratoria in possesso di

volont ed iniziativa allesercito intellettuale che gravita intorno al sapere applicato e creativo. il movimento congiunto e declinato verso il futuro di tutti questi soggetti che generer le risorse necessarie alla tranquillit dei nostri anziani e alla civilt del nostro vivere. Diventa fondamentale convincerci che le domande a cui Milano deve trovare risposta sono quelle per la costruzione del futuro, non quelle della paura del futuro. Ci che oggi ci appare critico, pu trasformarsi in opportunit di cambiamento se saremo in grado di leggere la mutazione della citt e soprattutto di interconnettere le reti che producono sviluppo. In ogni processo di cambiamento, solo quando la direzione diviene chiara, che i traguardi appaiono raggiungibili. Non si tratta di diffondere uno sterile ottimismo della volont, ma di riconoscere quegli elementi che, nel loro connettersi e contaminarsi, producono quelle energie che possono portare ad un progetto di futuro migliore per tutti. Per farlo, in questo libro, non possiamo che partire dal raccontare il passaggio che, in questi ultimi quindici anni, sta generando la mutazione di Milano in Milania, per poi addentrarci nellanalisi delle sue categorie interpretative (che coinvolgono non poco anche le strategie di ci che resta dello stato-nazione) e dei soggetti sociali che la compongono. Questa mutazione, tuttavia, lascia inalterate (pur ponendole sotto una luce diversa) le patologie del nostro territorio. Molti problemi, a cominciare dalla paralisi della mobilit, restano comunque da risolvere. Tuttavia, anche la soluzione dei problemi strutturali pu assumere una prospettiva di fiducia, se

saremo in grado di mettere in campo una adeguata lettura della contemporaneit. Se nei vari capitoli di questo testo si avr, perci, modo di approfondire gli obiettivi, le tematiche ed i problemi di questa mutazione, in questa sede introduttiva appare utile compiere una premessa metodologica. Poich, come abbiamo detto in apertura, consideriamo effettivamente compiuto (almeno sul piano concettuale) il processo di superamento della modernit, la posizione intellettuale che oggi ci pare pi densa di senso per coloro che cercano le nuove chiavi interpretative della contemporaneit, quella che postula la ricerca dellandare oltre. Infatti, esaurita la spinta propulsiva fornita dall ortodossia del moderno, solo assumendo una posizione paradossale (etimologicamente: oltre la regola), che possiamo pensare di non restare preda dellinerzia conservatrice e di non subire la fascinazione delleterodossia, cio di un sistema altro (sia esso economico, politico, culturale, religioso, sociale) che non ci appartiene e verso il quale non possiamo che risultare perdenti. , quindi, solo da una posizione paradossale che noi possiamo trovare le categorie concettuali necessarie a superare unortodossia oggi in disfacimento, senza tuttavia dover abbracciare uneterodossia che non ci appartiene. Il problema tutto qui. Certo, il paradosso ci espone allinquietudine: da una parte ci sentiamo obbligati a ricercare il nuovo e dallaltra siamo tentati di ritrarci da esso per paura della sua non adattabilit alle categorie del presente. Da questo doppio legame possiamo uscire solo trovando una ispirazione sul piano filosofico ed esistenziale.

La ricerca di un pensiero filosofico in grado di reggere la sfida che ci pone la contemporaneit impresa ostica. La post modernit pone al centro della scena il tema dellindividualizzazione, cio dellesaltazione (ricercata o subita) della condizione individuale. Mentre la modernit si fondava su unideologia collettiva e su una prassi incardinata sui corpi intermedi della societ, oggi, nella fase post moderna, rimane essenzialmente lindividuo nel mare aperto della globalizzazione. Un pensiero filosofico che possa riempire di senso questa realt va forse ricercato in ci che, in altre fasi storiche, appariva pensiero non compiuto. Una risposta di questo tipo ci pu venire da quel pensiero sotterraneo a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo che, legandosi indissolubilmente allindividuo, non trovava alcuna risposta possibile nella storia dominata dalla modernit delle ideologie collettive (dal socialismo al liberalismo, per citare solo quelle in grado di sopravvivere maggiormente). Occorre quindi scavare allinterno di quel pensiero finora bollato dal marchio della sterilit o, peggio, del nichilismo. Il riferimento corre verso quei pensatori (alcuni dei quali citati nella pagina introduttiva, non a caso denominata oltre Milania) che legavano la loro filosofia ad una concreta e reale prospettiva individualizzata: dall oltreuomo di Nietzsche all unico di Stirner, dall io e la mia circostanza di Ortega Y Gasset all anarca di Junger, dal singolo di Kierkegaard all uomo in rivolta di Camus, dai concetti di evoluzione creatrice di Bergson alla filosofia antropologizzata di Feuerbach, per arrivare, infine, alle esperienze concrete delle avanguardie intellettuali del primo novecento

incarnate da uomini autosufficienti come Karl Kraus o da uomini iperconnessi come Filippo Tommaso Marinetti ed i suoi futuristi. Tutti questi nomi, che ad un ceto intellettuale mediamente incolto richiamano subito il riflesso condizionato della scomunica ideologica spesso decretata in passato, rappresentano un buon punto di partenza per la costruzione di una teoretica dellindividuo che possa fornire senso alla vita nella citt ectoplasmatica della post modernit. Ragionare su questo pensiero e collegarlo alle pi avanzate interpretazioni sociologiche della globalit contemporanea (in primo luogo Beck, Bauman e Sassen), un metodo che pu aiutarci a capire la radice (e non solo il frutto) delle questioni analizzate. Per questo, tra laltro, abbiamo raccolto, in appendice al testo, cinque conversazioni con altrettanti intellettuali (Severino, Giorello, Bassetti, Veca e Sapelli) che, scandagliando concetti a profondit pi ampia della mia trattazione, ci aiutano ad inquadrare la genesi storica e concettuale di gran parte di ci che leggerete nei capitoli di questo libro. Infine, sapendo di non far torto ad alcuno, vorrei qui soprattutto ringraziare uno di questi intellettuali, Piero Bassetti, senza la cui continua ed aperta disponibilit, molto di quanto qui scritto non sarebbe mai stato nemmeno pensato.

OLTRE MILANIA
- Sisifo insegna la felicit superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile n futile. Anche la lotta verso la cima della montagna basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice. (Albert Camus da: Il mito di Sisifo) - La vera filosofia consiste nel fare non gi dei libri, ma degli uomini. (Ludwig Feuerbach da: Principi della filosofia dellavvenire) - La parola scritta dovrebbe essere il farsi corpo di un pensiero secondo la necessit naturale e non linvolucro di unopinione secondo lopportunit sociale. (Karl Kraus da: Detti e contraddetti) - In tempi di sconfitte e di malattie, il veleno diventa medicina (Ernst Junger da: Il cuore avventuroso) - Chi vuol essere un creatore nel bene e nel male, costui deve essere prima un distruttore e spezzare valori. (Friedrich Nietzsche da: Cos parl Zarathustra) - Luomo non appare nella solitudine, sebbene la sua verit ultima sia la solitudine. Luomo appare nei rapporti sociali come lAltro. (Jos Ortega Y Gasset da: Luomo e la gente) - La gente arriva poi da s a capire che il modo migliore di curarsi del proprio bene quello di collegarsi ad altri per questo scopo, sacrificando una parte della propria libert, ma non al bene di tutti, bens al suo proprio. (Max Stirner da: Lunico e la sua propriet)

CAPITOLO 1
CERA UNA VOLTA MILANO Milano la nostra citt. Questa affermazione incontrovertibile. Essa esprime unappartenenza, unidentit, un legame. Tuttavia, anche evidente che quella Milano disegnata nella nostra memoria e nei luoghi della tradizione, non esiste pi. Dentro questa contraddizione c lo spazio vuoto che alimenta la crisi di rappresentazione della citt. Levoluzione dei dinamismi del nostro territorio non si riesce pi a riconoscere negli angusti spazi dellidea tradizionale di Milano e, contemporaneamente, nessuna idea ancora nata per dare una compiuta forma sociale, politica e istituzionale a questa nuova realt. Il primo passo verso una ricomposizione di questa contraddizione rappresentato dal compiere il primo degli atti creativi: dare il nome alle cose. Milania , quindi, il neologismo che vuole esprimere il concetto della mutazione di Milano. Ma accantoniamo per un attimo questo passaggio e torniamo a concentrarci sulla dinamica storica che ha portato alla scomparsa di Milano. Lorizzonte significativo di questa scomparsa lultimo quindicennio. Dal 1989, data della rottura del sistema geopolitico internazionale fondato sullequilibrio bipolare, cominciato a soffiare nel mondo un vento crescente, chiamato globalizzazione, che ha messo tutto in movimento. Non si trattato solo del fenomeno economico dellaumento della competitivit internazionale determinato dalla adozione pressocch universale di politiche

liberoscambiste. Si compiuta anche una rivoluzione geografica che ha ridefinito i territori, mettendo in discussione lappartenenza univoca ai concetti e ai confini dello stato-nazione. I confini hanno perso la loro fisicit ed, infatti, spesso scompaiono come nel caso delle aree politicamente omogenee, in Europa come altrove. La geografia non parte quindi pi da un territorio con confini prestabiliti, ma diviene una geometria variabile in funzione delle diverse reti presenti sul territorio. Queste reti hanno, infatti, lunghezze diverse ed per questo che il concetto di confine passa da una dimensione fissa ad una variabile. Questa mobilit dei confini emerge anche dallanalisi dei conflitti bellici. Non un caso che le tematiche etno-religiose (non racchiudibili allinterno di confini statuali) abbiano occupato, in quasi tutti i conflitti bellici, il posto una volta riservato al controllo del territorio allinterno degli stati-nazione. Al centro di tutti questi processi di cambiamento si situa la citt e precisamente quella citt ectoplasmatica definita global city (e Milania una di queste). Le global city, innescando profondi processi di trasformazione morfologica, assumono il ruolo di veri epicentri della globalizzazione, divenendo cos i punti focali (o i nodi) della rete globale. Ma torniamo alla storia. Il vento della globalizzazione, a Milano, ha prodotto ben presto un traumatico cambiamento: Tangentopoli. Cos come nel Palio di Siena il cavallo scosso (cio con il fantino disarcionato) corre pi veloce ma difficilmente vince il Palio, anche Milano, dopo la decapitazione della sua classe dirigente politica, ha continuato a correre veloce, ma

questa corsa cieca ha portato la citt in un tunnel di crisi identitaria da cui non ancora riuscita ad uscire. Che Tangentopoli sia un portato della globalizzazione un dato fin troppo evidente: in epoca globale, quando tutto spinge verso processi di individualizzazione e cosmopolitizzazione (per usare due categorie di Ulrich Beck), il sistema non poteva sostenere un quadro di legami collusivi finalizzati ad un progetto chiuso allinterno di un modello nazionale di societ dei corpi intermedi (i partiti, le imprese nazionali, i sindacati). Tangentopoli stata, quindi, lesito di una insostenibilit, pi culturale che finanziaria, del modello tradizionale. Le mazzette centrano fino ad un certo punto. A dimostrazione di questo, basti pensare che ci che definitivamente scomparso dopo Tangentopoli, non stato un sistema di corruzione, ma un sistema di integrazione fondato sul principale dei corpi intermedi, cio il partito politico strutturato sul modello istituzionale (linee gerarchiche su base territoriale e linee orizzontali di competenze tematiche). Tangentopoli non poteva che scoppiare a Milano. Era naturale che le prime vittime si mietessero nellavamposto italiano dei comportamenti e dei simboli globali (dalla Bocconi alla Scala). Insomma, ci che a molti sembrata una rivoluzione giudiziaria, in realt stata la prima conseguenza del vento globale e la classe dirigente politica la prima debole capanna ad essere spazzata via. Ma proprio la repentina ed inaspettata scomparsa di quella classe dirigente politica, cos apparentemente onnipresente ed al contempo fragilissima, ha determinato un disorientamento che ha portato ad

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una totale perdita di visione nei processi di cambiamento. Possiamo dire che la caduta del sistema centrato sui partiti ha prodotto uno spiazzamento che ha generato conseguenze pi durature rispetto a quelle determinate dal vuoto politico. I vuoti, come si sa, in politica si riempiono, invece, uscire dal disorientamento operazione lenta e faticosa. E interessante ripercorrere la cronologia dei fenomeni politici che hanno riempito il vuoto istituzionale nella realt milanese. Una realt, come si detto, certamente orientata verso una dimensione post-partitica, ma ancora priva di quei sensori che avrebbero potuto (e dovuto) orientare in maniera razionale i collegamenti politico-mediatico-elettorali tra lofferta (le strategie, i poteri, la classe dirigente) e la domanda (i bisogni complessivamente intesi, sia quelli reali che quelli percepiti). In questa mancanza di sensori ritroviamo un tradimento dei chierici, tutto meneghino, che stato finora troppo poco analizzato. Vediamone qualche esempio. La mancanza di una presa di responsabilit da parte della grande stampa milanese stata clamorosa. I principali quotidiani si sono compattamente indirizzati ad un racconto della citt, direzionato esclusivamente dalla notiziabilit, che ha dato avvio ad una deriva epifenomenica del giornalismo italiano che ancora oggi ci sovrasta con limmenso peso della propria superficialit. Anche i giornali e le tv locali, naturalmente pi vicini al territorio ed ai problemi spiccioli della gente, invece di cogliere loccasione per ritagliarsi spazi di protagonismo progettuale, si sono ridotti ad essere un semplice megafono (molto amplificato e per nulla ragionato) di ci che il

circuito demagogico metteva in bocca ai lettori e ai telespettatori, a cominciare dallidentificazione del capro espiatorio. Una identificazione che partita dai corrotti e corruttori, per poi spostarsi verso gli immigrati, i comunisti, leuro, per arrivare, infine, come nella pi classica delle nemesi, al pi straordinario degli affabulatori: Silvio Berlusconi. Restando al panorama della stampa milanese, emblematico il caso di Milano Metropoli, un piccolo quotidiano di opinione (poi divenuto settimanale) che, nato con lobiettivo dichiarato di costruire una rete di riflessione multidisciplinare intorno ai processi di modernizzazione della citt, transitato nel dibattito cittadino, dal 1997 al 2001, senza incontrare (salvo che in nicchie ristrette) alcun successo di diffusione o di rilevanza politica. Un dato chiude con eloquente simbolicit il ruolo della stampa nella crisi post tangentopoli: bisogna attendere lottobre del 2000, perch il Corriere della Sera dedichi una esplicita attenzione editoriale alla citt con la creazione di un secondo dorso del giornale. Anche sul fronte del dibattito culturale extramediatico, il quadro resta sconfortante. I circoli culturali che avevano animato vigorosamente il dibattito della citt negli anni settanta e ottanta, proseguono il loro lento e inesorabile processo di declino, mentre, paradossalmente, quegli spazi vivaci di militanza critica verso il sistema dei partiti, come il circolo Societ Civile fondato da Nando Dalla Chiesa, nel dopo Tangentopoli, invece di esaltarsi in una funzione propositiva, cominciano a spegnersi. Per quanto riguarda i canali della cultura istituzionale presidiati dalle universit, Milano conosce una continua crescita della sua dimensione universitaria

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(raddoppia la Statale, nasce luniversit del San Raffaele e si ampliano gli spazi di tutti gli altri atenei). Tuttavia, a causa delle logiche autoreferenziali perseguite dalle nostre universit, Milano continua a vivere il suo grande mondo universitario come una sorta di corpo separato dalla citt. Solo la Bocconi si distingue in questo periodo, ma nellesclusivo ruolo di fornitrice di classe dirigente tecnocratica, al servizio bipartisan dei vari soggetti politici che occupano i vuoti lasciati dai partiti tradizionali. Ma, tra i tanti inabissamenti di soggetti culturali e sociali, quello pi clamoroso riguarda gli urbanisti. La cultura urbanistica milanese stata, almeno dal decennio 60 a quello 80, la prima fonte di riflessione sulle strategie della citt. Seppur spesso gravato da un eccesso di riflessione strategica che rallentava il concreto realizzarsi delle trasformazioni sul territorio, il pensiero urbanistico milanese indubbiamente stato un asse portante della citt. Non solo lautorevolezza intellettuale, ma anche linserimento negli snodi decisionali delle macchine amministrative, aveva creato, per un gruppo di urbanisti, una sorta di mandarinato a cavallo tra politica, amministrazione e universit. Questa autorevole casta determinava sia il livello strategico che quello operativo dell urbanistica contrattata milanese. Se sgomberiamo il campo dal giudizio superficiale, dobbiamo ammetere che questo sistema portava con s una razionalit forte. Certo, la performance del sistema dipendeva dalla qualit del contratto urbanistico e spesso gli egoismi privi di strategia, sia nel pubblico che nel privato, riuscivano a prendere il sopravvento. Ma, in ogni caso, alcune scelte strutturali sono state

impresse sul territorio, a partire dallintuizione del Passante che, connettendo le linee trasportistiche metropolitane della Milano storica con il sistema ferroviario dellarea vasta lombarda, articolava le traiettorie del policentrismo che avrebbe dato vita alla Milano nodo della rete globale (per dirla con Piero Bassetti) o alla citt infinita (per dirla con Aldo Bonomi) o a Milania (per dirla con le tesi di questo libro). Nel dopo Tangentopoli, per, gli urbanisti sono scomparsi. Confinati nelle loro universit, hanno perso ogni rilevanza politica e sociale. Ormai abbandonata una cultura ampia del progetto, il pensiero urbanistico milanese degli anni 90 si accomodato su una semplice dimensione estetica dellopera (alla Bicocca, nei PRU, nei vari restyling delle piazze milanesi, etc), divenendo quasi sempre la foglia di fico di operazioni urbanistiche estranee ad una visione ampia e condivisa del territorio. Detto del tradimento dei chierici, interessante anche capire la reazione del sistema dei partiti allo scoppio di Tangentopoli. Dopo un primo momento di sottovalutazione del fenomeno, in cui i guai giudiziari venivano strumentalmente considerati dai dirigenti politici come unoccasione per effettuare regolamenti di conti allinterno dei propri partiti, ben presto arrivata la consapevolezza che il fenomeno investiva strutturalmente lintero sistema vigente. E qui, invece di interrogarsi sulle vie di uscita riformiste, lintero sistema dei partiti milanesi si trascinato in uno sterile e impotente tentativo di difesa a Roma. In questo riflesso condizionato il sistema ha mostrato la propria incapacit di leggere, in Tangentopoli, uno degli epifenomeni della fine dello stato-nazione e cos ne stato travolto.

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Ad ulteriore conferma di questo errore interpretativo, basta constatare come il proscenio milanese non sia stato occupato da quella sinistra che una lettura banale e tutta interna alle dinamiche dello stato-nazione, indicava come principale artefice di Tangentopoli. Se, infatti, Tangentopoli fosse stata il semplice effetto di meccanismi interni al paese, non vi sarebbe alcuna spiegazione plausibile alla vittoria dei leghisti nel 93 e, soprattutto, alla lunga crisi della sinistra, oggettivamente identificata nella determinata e popolare azione dei magistrati. Interessanti sono anche le motivazioni che spiegano il successo della Lega, primo soggetto ad occupare il vuoto politico determinato da Tangentopoli. Queste motivazioni vanno ricercate nella semantica leghista. Paradossalmente (almeno a giudicare dallevoluzione successiva del movimento di Bossi), infatti, limmaginario leghista appariva il pi in sintonia con i venti di globalizzazione che stavano soffiando sulla citt. La fuga da Roma, la Padania come mito valoriale, lindividualismo fiero e libertario del rifiuto del canone Rai, la fiducia verso i determinismi storici preconizzati da Gianfranco Miglio, il tutto unito ad una furbesca iniezione anche di antidoti a quelle stesse tesi (il borgo, la xenofobia, etc), hanno determinato una percezione popolare che risultata pi in sintonia con il nuovo vento globale e, paradossalmente, anche pi protettiva rispetto a quelle stesse sfide che il nuovo evocava. Ma la fortuna della Lega rimasta tutta in questa vaga identificazione semantica con il futuro. Per il resto, infatti, lassenza di classe dirigente, di progettualit e di consenso attivo al di fuori della stretta

militanza, ha reso il periodo leghista un lungo intervallo di preparazione verso un progetto successivo (e a questo punto non casuale) di citt. Questo progetto arrivato con lera Albertini. E, come sempre accade quando ad un piano inclinato non si frappone alcun ostacolo, il progetto realizzato nel periodo albertiniano entrato strutturalmente nelle dinamiche della citt. Pur non avendo voluto codificare alcuna visione complessiva di citt, luomo che con intelligenza luciferina si autodefinito amministratore di condominio, ha avviato una prassi che potremmo definire di modernizzazione senza responsabilit. Vi stata unapplicazione fredda e distaccata di ineludibili principi globali (flessibilit, privatizzazioni, infrastrutturazioni) che, tuttavia, proprio a causa della mancanza di una visione complessiva (e quindi di un rapporto reale con la comunit complessivamente intesa), ha generato un oggettivo impoverimento della citt e, soprattutto, la lacerazione di quelle corde sociali (dallassociazionismo alla fiducia nelle istituzioni) che la tenevano insieme. Il mancato investimento su una coesione sociale che potesse dare luogo a significativi passi avanti condivisi, ha di fatto reso le due amministrazioni albertiniane una sorta di luogo neutro, adatto ad accogliere operazioni di modernizzazione eterodiretta (dalla valorizzazione della Bicocca al cablaggio in fibra ottica) e sostanzialmente indifferente allo spessore ed alla qualit dei rapporti che nel tempo si erano venuti a determinare fra i milanesi ed i soggetti istituzionali della citt. In questo senso, si pensi alla erosione del rapporto tra i citadini e i

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Vigili Urbani. Aver trasformato il ghisa, da soggetto reale della citt a puro braccio meccanico (coadiuvato da ausiliari e telecamere) di una politica sul traffico solo centrata sulla multa, oltre a non aver apportato benefici alla gestione della mobilit, ha definitivamente spezzato lo storico rapporto fiduciario che i milanesi mantenevano con la vigilanza urbana. Insomma, ad una occupazione casuale del potere da parte della Lega, ha fatto seguito un progetto di modernizzazione senza responsabilit, iconizzato nella figura fredda del sindaco Albertini. Un progetto che, pur operando numerose modificazioni strutturali nella vita della citt, si dimostrato complessivamente incapace di identificarsi con passione nelle trasformazioni operate, soprattutto sul piano immobiliare. Cos accaduto che questi tentativi di modernizzazione siano divenuti impossibili da giudicare, proprio a causa della mancanza di un soggetto che ne assumesse pienamente la responsabilit. E senza un giudizio possibile, ogni opera diviene solo il frutto maledetto di un potere anonimo e, come tale, viene destinata ad un angolo dimenticato dellimmaginario collettivo. Proprio questo, infatti, stato il destino di tante grandi e piccole operazioni di trasformazione della citt: dagli interventi alla Bicocca alla sistemazione di piazza Cadorna, dalla Fabbrica del Vapore all Alba di luce davanti alla stazione Centrale, dalle numerosissime sistemazioni stradali alla ristrutturazione di un velodromo senza ciclismo come il Vigorelli. Detto questo, sbaglierebbe chi ritenesse che il semplice cambiamento dell anima politica della citt possa essere in grado di produrre

significative inversioni di tendenza. Innanzitutto perch, in questo quindicennio, le forze politiche di opposizione non sembrano aver particolarmente metabolizzato, nelle loro strategie, quelle mutazioni strutturali che hanno investito il nostro territorio. Infatti, la prassi albertiniana di modernizzazione senza responsabilit, ha potuto realizzarsi indisturbata proprio perch lopposizione politica si essenzialmente concentrata sulla difesa dello schema preesistente. Chi si opponeva ad Albertini, invece di proporre un disegno pi avanzato e condiviso della nuova Milano, ha continuato a rimpiangere la prassi e gli assetti di una Milano ormai scomparsa. Ma, occorre dire che, con la fine dell era albertiniana, probabilmente finisce anche la sua opposizione. E allora il paragone politico pi calzante per la sinistra milanese sembra divenire quello con lInghilterra degli anni 80, dove la Thatcher ha s realizzato quel dirty job che il vecchio Labour non avrebbe mai potuto realizzare, ma, al contempo, ha posto le condizioni per un nuovo Labour che fosse in grado di dare ordine e forma alla distruzione creatrice del thatcherismo. La sfida della sinistra milanese quindi analoga alla sfida blairiana, ma occorre anche prendere consapevolezza che, per essere allaltezza di questa sfida, non bastano le sigle unitarie o la parola magica del riformismo. La posta in gioco , infatti, molto pi alta. Come emerge da una ricerca recentemente presentata agli Stati Generali delleconomia organizzati dalla Camera di Commercio, Milano oggi una delle prime dieci Alphacity nel mondo, cio quelle citt globali che si confrontano in una graduatoria determinata

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da 5 parametri del sapere applicato: centri direzionali, studi legali, attivit di consulenza, servizi pubblicitari, media. In questa Top ten , a Milano fanno compagnia New York, Londra, Parigi, Hong Kong, Tokio, Singapore, Francoforte, Los Angeles, Chicago. Questo primato del nostro territorio ci fornisce tutti gli elementi per capire lattuale vocazione della citt e ci conferma come, da noi e nel resto del mondo, la funzione strategica della citt stia diventando prevalente rispetto a quella dello stato-nazione. In questo passaggio storico si manifesta anche un aumento di libert decisionale da parte dei governanti locali che, inevitabilmente, costruisce un protagonismo che mette in crisi il ruolo di intermediazione svolto dallo Stato (in questo modo si spiegano le ripetute fibrillazioni politiche tra il Presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni e il Presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi). Questo nuovo scenario determina un condizionamento fortissimo sulle politiche della citt. Diventa lampante il velleitarismo dei tentativi di costruire le strategie di sviluppo in una chiave esclusivamente locale. Il futuro del nostro territorio deve, necessariamente, fare i conti con una scala globale che ci richiede di coltivare incessantemente la frontiera dellinnovazione e di possedere un elevato grado di flessibilit e plasticit nei meccanismi di decisione istituzionale. Tutto ci, per, non comporta lo sradicamento dal locale, poich esso rappresenta sia le radici che danno linfa alle strategie globali, sia il luogo concreto dove si svolgono le vite di coloro che sono impegnati in tutti i processi di modernizzazione. Occuparsi anche del locale, dando cos vita al

glocalismo, non significa procedere ad un compromesso con gli schemi della tradizione. Occuparsi del locale in chiave globale, significa attivare coraggiose e aperte politiche di innalzamento della qualit della vita che contemplino le trasformazioni della nostra identit. Infatti, qualora le politiche locali continuino ad ancorarsi esclusivamente alle identit del passato (pensiamo, ad esempio, alle tante invocazioni del tipo:prima i milanesi, poi gli immigrati), esse non potranno altro che restare destinate alinefficacia. Nonostante la tranquillizzante sicurezza identitaria determinata dalle politiche locali tradizionali, la realt ci dice che i soggetti che fruiscono delle politiche locali costituiscono un aggregato sociale profondamente diverso da quello postulato dallidentit tradizionale. La Milano tradizionale, cio quella del ventesimo secolo, una storia ormai definitivamente conclusa. Non c pi nulla della Milano novecentesca: non le sue industrie, non i suoi soggetti sociali predominanti (i padroni e gli operai), non le cinghie di trasmissione che la tenevano insieme (i partiti e i sindacati), non le sue elites tradizionali di comando (anche se queste, talvolta, permangono visibili nellultimo ancoraggio del potere tradizionale, cio il circuito della rappresentazione politico-mediatica). Ma, soprattutto, gli strumenti della Milano novecentesca sono ormai totalmente inutilizzabili: le fabbriche non servono pi (e infatti divengono aree dismesse da riqualificare), le infrastrutture sono divenute o insufficienti (per tutto ci che riguarda la mobilit) o inutili (per tutto ci che riguarda lidea di stanzialit connessa ad uno schema centro-periferie), il consenso non nasce pi dallattivit dei

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corpi intermedi, ma si forma sulle reti dei circuiti telematici e televisivi. Questa fuoriuscita dal modello industriale novecentesco, proprio perch si compiuta senza rotture traumatiche, ha assunto un carattere silenzioso che lha resa poco comprensibile a quei soggetti pi sordi allinnovazione sociale. Tuttavia, che la transizione verso il post-industriale si sia completata un fatto assodato, cos come evidente che la stabilizzazione di questo quadro ha fatto definitivamente saltare le vecchie appartenenze identitarie e le conseguenti decisioni rispetto a chi si trova dentro e chi fuori dalle posizioni determinanti gli assetti economici, politici e sociali. Oggi, il soggetto sociale che ha sostituito le dinamiche della societ industriale e che si candida ad essere soggetto egemone della citt, sia nella sua dimensione decisionale che operativa, quello tipico della societ post-fordista del sapere: un aggregato sociale di capitale intellettuale, articolato in una molteplicit di settori e fortemente motivato allinnovazione e al sapere applicativo. Un blocco sociale che si orienta prevalentemente verso le attitudini ad interconnettersi con il mondo, ma che resta ancora molto atomizzato e soprattutto privo di una forte identit collettiva da legare al territorio in cui vive. Questo aggregato sociale ha nella conoscenza la sua migliore arma competitiva: la sua vera e propria materia prima. Essendo generatore di processi software (a differenza della funzione hardware svolta dalle vecchie figure sociali fordiste), questo nuovo soggetto sociale trasforma la tradizionale identit milanese di locomotiva del paese, in una nuova identit milaniese di porta daccesso sul mondo, rendendo cos la citt un nodo di una rete

globale di funzioni. Ovviamente, la dimensione di questo nodo va ben oltre i tradizionali confini municipali. La citt un arcipelago produttivo, densamente popolato e urbanizzato, di cui la Milano storica il cuore (non a caso posto dalla fisiologia non al centro del corpo). Questo arcipelago si estende seguendo una geometria variabile che dipende dai settori e dalle funzioni in cui ci troviamo. Di questa nuova realt di Milano (che noi chiamiamo Milania), la gran parte dei milanesi non ha, per, ancora preso piena consapevolezza.

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CAPITOLO 2
E ORA C MILANIA Milania il nome che abbiamo dato alla cosa in cui si trasformata la vecchia Milano. La primogenitura di questo nome appartiene alla fantasia di un developer milanese: Roberto Losito. Nel nome di Milania, insieme a Bassetti, Losito, Bitjoka ed altri, abbiamo dato vita ad un giornale on-line (www.milania.it) e ad una costituenda Fondazione che si sta occupando di promuovere progettualit avanzate in tema di housing per limmigrazione, nonch di sviluppare passi avanti concettuali e di ricerca sui temi della post Milano. Ma questo solo ci che un gruppo di persone stanno realizzando nel nome di Milania. Qui, invece, di questo neologismo post milanese caratterizzato da quel suffisso (ia) che appartiene allimmaginario di realt forti ma non codificate istituzionalmente (dalla Framania dellasse franco-tedesco alla Padania effettivo motore di sviluppo del paese), ci interessano i contenuti. Di Milano, Milania certamente il futuro. Ma non solo. Milania anche una mutazione strutturale della realt milanese storicamente determinata. Un concetto mutuato dalla chimica ci aiuta a capire questo passaggio: il procedimento della sublimazione, cio la trasformazione di una sostanza solida in un vapore, affinch si possa condensare nuovamente allo stato solido in forme e luoghi diversi. Milania, quindi, pur contenendo in s gli elementi della vecchia

Milano, si configura come una realt ontologicamente diversa, poich essa non risponde pi al contesto dello stato-nazione, ma a quello della globalizzazione. La pi elementare delle descrizioni parte dal capire in che rapporto si pone Milania rispetto a Milano, in ordine al pi evidente dei temi: quello dimensionale e cio dei confini. Milania non una Milano pi grande, ma una Milano il cui perimetro varia a seconda degli ambiti di riferimento. , infatti, proprio la fragilit (e quindi linutilit) della definizione tradizionale di confine, una delle pi strutturali modificazioni determinate dal vento della globalizzazione. La discontinuit geografica una volta assicurata dai confini, oggi perde di ogni valore dal momento che la velocit degli scambi, smaterializzatisi sulle reti telematiche, fa s che ogni luogo si trovi sostanzialmente alla stessa distanza rispetto a tutti gli altri. Questo significa che, a Milania, i confini sono ogni volta ridefiniti dal nostro operare. Essi perdono la loro oggettivit istituzionale, per assumere una soggettivit definita dalla funzione su cui ci stiamo attivando. Facciamo un esempio: per gesti quotidiani personali come il far la spesa, Milania si estende alla fascia di comuni dove sono collocati i grandi ipermercati (Rozzano, Carugate, etc.), mentre per gesti quotidiani professionali, Milania assume confini mobili i cui perimetri vengono definiti dalla tipologia e dallampiezza delle relazioni poste in essere dal nostro sistema professionale di riferimento. Sul piano dimensionale Milania , quindi, una mutazione di Milano che passa da una dimensione fissa ad una variabile.

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A questo punto sorge spontanea una domanda: se Milania non pu pi essere definita da una sola carta topografica, significa che essa non si determina pi a partire dal territorio? Cos , infatti. Milania si definisce a partire dalle sue comunit di pratica funzionali (i settori economici, le professioni, le reti relazionali omogenee e tutte le altre dimensioni del nostro vivere che ci forniscono unidentit funzionale) e non da un territorio che, per quanto ampiamente definito, non le potr mai esaustivamente contenere. Le comunit di pratica sono gli ambiti dove si realizzano concretamente i processi di cambiamento, grazie ad una reticolare accumulazione di sapere e fare, cio di saper fare. Le comunit di pratica, pur essendo spesso lontane e disinteressate rispetto ai luoghi istituzionali che definiscono le forme della prassi normativa, sono i principali soggetti che producono cambiamento reale. Le comunit di pratica, infatti, sono in grado di modificare la struttura dei problemi attraverso connessioni aterritoriali che rendono i processi di cambiamento da loro innestati, estremamente pi decisivi rispetto a quelli prodotti da qualunque potere locale istituzionalizzato. Milania quindi una rete di comunit di pratica funzionali, il cui incrocio si trova su un territorio comune (cio un nodo) che, pi o meno, coincide con i confini storici di Milano. allora di tutta evidenza che, per sviluppare questa realt, non si pu pi continuare a pensare in termini territoriali e piramidali. La realt di una rete di funzioni deve trovare adeguati strumenti istituzionali di governance, ma soprattutto una chiave di lettura consapevole di questa mutazione da parte della classe dirigente e dei circuiti

politici, finanziari e mediatici. Peraltro, il fatto che ci si trovi di fronte ad una mutazione e non ad una semplice evoluzione di Milano, determina il seguente paradosso dellimmobilit: poich il naturale aggiustamento degli strumenti (istituzionali, politici, mediatici, etc.) appare inadeguato rispetto ad una realt che si totalmente trasformata in seguito allavvento della nuova cosmologia globale fondata sulla rivoluzione della mobilit, allora ogni riforma appare insufficiente e cos non si cambia nulla. Da questo circolo vizioso, che manifesta tutta la sua evidenza quando constatiamo che esiste ancora, con una posizione preminente nel governo del territorio, un soggetto anacronistico (sul piano dimensionale e istituzionale) come lattuale Comune di Milano, occorre uscire. Sul piano concettuale, la riflessione pi avanzata ci dice che partire da una riforma degli assetti istituzionali indice di un approccio vecchio. Peraltro, anche vero che concentrarsi sulle dinamiche territoriali significa correre il rischio di porre in secondo piano la priorit del processo di funzionalizzazione istituzionale, cio di un governo per temi invece che per territori. Detto questo, tuttavia, resta comunque importante (almeno in una visione riformista) non offrire alibi a quel paradosso dellimmobilit sopra descritto. Per questo occorrerebbe, subito e con forza, dare vita ad un nuovo soggetto di governo dellarea metropolitana: una Citt Metropolitana che governi le funzioni principali e faciliti anche quel necessario processo di decentramento dellattivit pi legata alla manutenzione del territorio e ai servizi alle persone. Tuttavia, occorre essere ben consapevoli che questo passo avanti istituzionale non

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sufficiente per governare Milania. Se la Citt Metropolitana verr quindi costituita nella consapevolezza della sua non risolutivit, allora essa potr essere realmente utile, altrimenti si tratter solo di una certificazione dellarretratezza del nostro pensiero istituzionale. Comunque sia, occorre che leventuale Citt Metropolitana non divenga un superComune denso di competenze ed attribuzioni. Questo innesterebbe un conflitto istituzionale permanente e, soprattutto, farebbe pagare al cittadino il costo di un ulteriore ed inutile appesantimento burocratico. Occorre invece pensare ad una istituzione autorevole, con poche competenze dirette (mobilit, infrastrutture, ambiente), ma con un grande peso politico (certificato anche dallelezione diretta) e quindi una grande capacit di moral suasion. Londra funziona (e bene) in questa maniera. Lidea che solo il rafforzamento dei poteri possa produrre meccanismi decisionali efficaci , infatti, terribilmente datata. Abbiamo ancora sotto gli occhi come lottenimento, da parte di Albertini, di pieni poteri sul traffico, sullambiente, etc, abbia partorito lo stesso topolino di quando questi pieni poteri non cerano. E perch con la Citt Metropolitana dovrebbe essere diverso? Prima di affidare agli amministratori pubblici quegli ulteriori poteri di government che deriverebbero loro da una Citt Metropolitana che produce piani ed emette vincoli, pare pi opportuno sperimentare una maggior dose di governance, cio di accordi funzionali su base volontaria e territorialmente variabile. Insomma, occorre essere consapevoli che illusorio pensare che la Citt Metropolitana porti ad un miglioramento amministrativo per il semplice fatto di esistere. Anche

la risoluzione dei famosi problemi di area vasta, dalla mobilit allambiente, non dipende certo dal fatto che oggi la competenza territoriale non univoca. Infatti, se questo dovesse essere lunico parametro di riferimento, allora possiamo accantonare per sempre lidea di risolvere questi problemi, poich essi non verranno mai totalmente racchiusi da alcuna Citt Metropolitana, qualunque sia il suo perimetro territoriale. Dallanalisi di un tema concreto come quello riassunto dal dibattito sulla Citt Metropolitana, emerge con evidenza che le soluzioni non passano dal miracolismo istituzionale, ma dalla presa di consapevolezza che la perdita di valore dei confini, la dimensione reticolare e lidentit per funzioni, sono gli elementi che costituiscono quella Milania a cui vanno adeguati gli strumenti di governo. , come abbiamo gi detto, proprio da questo mancato adeguamento che nasce la contraddizione tra una Milano in crisi ed, invece, moltitudini di milaniesi che corrono con successo sulle reti di modernizzazione. Dunque, capire che cosa Milania significa sapersi porre nella direzione utile per accompagnare e fornire identit ai percorsi di coloro che, nelle diverse comunit di pratica funzionali, costruiscono quel successo che tutti riconoscono al nostro territorio. Se, tuttavia, appare evidente come a Milania gli strumenti di governo debbano accompagnare e non dirigere lo sviluppo del territorio, occorre forse approfondire, nel passaggio da Milano a Milania, il cambiamento di quellelemento identitario che nella vecchia Milano discendeva essenzialmente dalle istituzioni e dalla politica.

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A Milania - di questo siamo certi - nessuno trova prioritariamente la sua identit nel posto in cui nato o risiede. Lidentit territoriale certamente subordinata a quella funzionale, sia di tipo professionale (sono un ingegnere) che vocazionale (sono un milanista). La fornitura identitaria offerta dalle istituzioni e dalla politica ormai una merce sempre pi difficile da vendere. In essa si identificano prioritariamente solo gli addetti ai lavori, cio la comunit di pratica del ceto politico ed i suoi derivati di tipo militante. Tuttavia, se i soggetti che compongono il sistema della democrazia istituzionale restano cos deboli nella fornitura identitaria di base, corriamo il rischio, allorquando si presenti una crisi che ci obblighi a scegliere unidentit non riconducibile solo ad una dimensione funzionale, di diventare tutti quanti preda di metafisiche identit premoderne, siano esse teocratiche o etnocratiche. Occorre quindi aiutare la politica istituzionale a ricostruire un senso identitario alla comunit di destini che ci definisce in un territorio, senza per ricadere in strade vecchie che hanno gi totalmente esaurito il proprio percorso. Questa la sfida del glocal: saper innestare la nuova cosmologia della mobilit che sulle reti annulla lo spazio e il tempo, in un territorio definito che ci accomuna sul piano esistenziale. Trovare i nuovi simboli di questa identit il compito pi importante riservato oggi a quella comunit di pratica che tradizionalmente chiamiamo politica. Per fare questo occorre lavorare congiuntamente in due direzioni. La prima volta ad inserire nel circuito simbolico della visibilit e del ruolo politico coloro che incarnano le nuove categorie del

glocalismo e producono lo sviluppo delle reti che attraversano la citt. Concretamente, si tratta di costruire attenzione e meccanismi cooptativi verso chi incarna quelle soggettivit che rappresentano il nuovo blocco sociale della modernizzazione. Occorre, quindi, costruire visibilit e ruolo politico per i nuovi soggetti: da quei developer che si pongono in unottica di business non solo speculativa a quegli intellettuali eclettici in grado di incarnare la fusione dei circuiti del sapere con quelli del potere, dalle leadership etniche pi evolute ed autorevoli ai campioni imprenditoriali ed intellettuali di quella generazione internet che ha la logica reticolare nel proprio DNA. La seconda direzione su cui lavorare, oltre alla necessaria opera di cooptazione delle nuove identit sociali, quella che prescrive di iniettare, allinterno del tradizionale circuito della rappresentanza politica e del consumo mediatico, dosi consistenti di alfabetizzazione riferita alle nuove categorie del glocal. Il fatto che nei luoghi tradizionali del circuito politico-mediatico, dai dibattiti nelle assemblee istituzionali ai talk show sulle emittenti televisive locali, siano totalmente assenti i concetti (ed addirittura la terminologia) del glocalismo, pone un serio problema di agenda politica. Finch, infatti, non si manifester la capacit di tradurre il glocal nel corrente linguaggio politico-mediatico, lagenda delle priorit programmatiche continuer nella sua deriva di progressivo allontanamento dalle dinamiche evolutive e di sviluppo del territorio. Qui la soluzione non pu passare per il confino dei dotti convegni sul glocalismo o per la colonna degli editoriali sul dorso milanese del

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Corriere affidata ai docenti della Bocconi. Occorre capacit di tradurre (e forse anche di sloganizzare) i nuovi concetti del glocalismo, affinch essi possano divenire egemoni sul circuito formativo dellopinione di massa. Utilizzare un comune terreno concettuale per avvicinare profili identitari nuovi al tradizionale circuito del potere costituito, significa costruire riformisticamente il futuro del nostro territorio. Non percorrere queste strade porta invece ad alimentare un potenziale conflitto che, seppur oggi apparentemente sedato dal reciproco disinteresse (io non vado a votare e io ti cancello dalla mia agenda politica), prima o poi determiner un massimalismo sociale incapace di costruire anche un solo piccolo passo avanti condiviso. Insomma, le nuove categorie del glocalismo oggi rappresentano chiavi risolutive che diventano evidenti sui problemi, ma che si cerca di nascondere al dibattito comune, poich esse ci impongono di fare i conti con noi stessi, con le nostre abitudini e con le nostre rendite di posizione. Pensare che vi si possa prescindere, eventualmente identificando unistituzione o un soggetto a cui delegare queste tematiche, una pia illusione. La rivoluzione glocalista coinvolge tutti. Sostenere questa sfida una scelta che ci riguarda, contemporaneamente, sia come singoli individui che come membri di una comunit. Non esistono, infatti, soluzioni locali a problemi globali. Il ritorno al passato non pi possibile, cos come impraticabile si dimostra anche la ricetta tecno-utopica del piano razionale gestito verticisticamente. Per governare e progettare il futuro del territorio, non possiamo far altro che partire dal punto a cui

ci hanno condotto le irreversibili trasformazioni portate dalla globalizzazione. Questo tagliarsi i ponti dietro le spalle unoperazione difficile, ma contemporaneamente necessaria e, forse, anche portatrice di una sorta di tranquillit esistenziale. Infatti, quando diverr evidente che Milania una realt ormai irreversibile, allora potr compiutamente affermarsi quella solidariet derivante dal rendersi conto di possedere un destino comune sullo stesso territorio. A quel punto, potranno pi facilmente stemperarsi i conflitti che derivano da motivazioni di provenienza, come quello con gli immigrati. In pi, una volta eliminate le tentazioni di tornare al passato, ormai definitivamente scomparso, o di adottare un modello altro, incompatibile con le trasformazioni in atto, la comunit complessivamente intesa potr dedicare quelle energie finora utilizzate nel conflitto etno-ideologico, ad una positiva e condivisa azione di costruzione di progressivi stati di avanzamento. Riassumendo i concetti milaniesi fin qui esposti, possiamo innanzitutto dire che Milania c e che una post Milano che ritrova i suoi confini non sul territorio, ma sulla geografia mobile delle reti e definisce la sua identit non utilizzando lesclusiva logica della memoria, bens percorrendo le strade della contaminazione che il nuovo opera sulla tradizione. Il ritardo di consapevolezza su questa nuova realt oggi molto forte. Accettare la fine della storia tradizionale di Milano che culmina in quella modernit solida fatta di pianificazione razionale dellordine standardizzato, un compito molto ostico per classi dirigenti che su quel modello hanno

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conformato il proprio agire professionale, sociale ed anche psicologico. Questa soggettiva difficolt spiega il ritardo dellaffermarsi di una percezione collettiva del profilo esistenziale di chi vive dentro Milania. Un profilo caratterizzato dalla dimensione individualizzata e da un sistema di pluriappartenenze identitarie. Pur essendo sotto gli occhi di tutti, questa realt non riesce a penetrare nelle chiavi di lettura della classe dirigente, almeno di quella che occupa il circuito politico-istituzionale-mediatico. Lunica lettura che si immagina di poter avanzare su questo fenomeno di individualizzazione pluridentitaria quella esorcistica, fondata cio su una dietrologica attribuzione di potere ad oscuri grandi fratelli che muoverebbero i nostri inconsapevoli destini individuali. Purtroppo, anche le menti pi libere faticano ad accettare il fatto che lo spirito dei tempi sia passato dallamore per la stanziale solidit, a quello, pi fuggevole, per la mobilit e la velocit. Piaccia o no, ma la condizione in cui vive oggi Milania una sorta di dongiovannismo sociale in cui la felicit non pi nelloggetto (il luogo), ma nella conquista (la mobilit). Questa nostra societ mobile quella in cui la storia ci ha obbligato a vivere. Forse noi non lavremmo scelta, ma lei ha scelto noi. Tuttavia, questa una condanna solo per chi rifiuta di avere a che fare con il cambiamento. A Milania, viceversa, il cambiamento, essendo lunico dato costante, fenomeno costitutivo delle dinamiche sociali ed interpersonali. Paradossalmente, per, quella discrasia tra le dinamiche mobili di Milania e quelle stanziali di Milano, che qui abbiamo evidenziato come la principale criticit nel passaggio da Milano a Milania, non

soggettivamente vissuta come elemento problematico, n dai milaniesi pi avanzati sul fronte della trasformazione, n dai milanesi pi rinchiusi negli atavici perimetri della tradizione. Questa tranquillit deriva da una sorta di sensazione di autonomia che, per, non legittima assolutamente lattuale stato delle cose ed, anzi, fornisce ancor pi senso alle motivazioni di chi vuole colmare questo divario. Se vogliamo immaginare una proposta di futuro, bisogna allora partire da questo punto ed aver bevuto fino in fondo il liquido acido della trasformazione sociale avvenuta. Ogni proposta di futuro una progettualit e, come tale, deve possedere un senso. Nel nostro caso, il senso non pu essere demandato ad un metafisico omaggio alla tradizione, ma deve incarnarsi in una progettualit che riesca a cancellare dalle nostre menti la tonalit inquieta della paura. Questa progettualit deve riuscire a creare le condizioni per la trasformazione del singolo cittadino che vive queste mutazioni, da spettatore ad attore della propria condizione esistenziale. Facilitare questo passaggio il compito di coloro che intendono proporsi come classe dirigente. Con il termine classe dirigente non intendiamo la semplice occupazione dei ruoli istituzionali e di potere, ma la capacit di fare la storia capendo il mutamento quando questo ancora allo stato nascente. Solo cos possiamo evitarci un futuro di progressiva periferizzazione. Insomma, a partire dal circuito politico-mediatico, occorre che il vero motore della citt cominci a trasmettere energia alle ruote. Per farlo bisogna innestare una marcia, cio compiere una scelta che ci

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possa far uscire da quella paradossale situazione di mobilit immobile che lascia la citt, complessivamente intesa, priva di una direzione percepita e, soprattutto, condivisa.

CAPITOLO 3
E DELLITALIA COSA RESTA? Lanalisi di questo libro si concentra sulle mutazioni che hanno dato vita al passaggio da Milano a Milania. Tuttavia, bene precisare che questa analisi non deve venir considerata come una dimensione locale da inserire nel quadro della stato nazionale. La tesi di questo libro risiede proprio nel voler evidenziare la relazione antagonista che si manifesta tra il frutto istituzionale della modernit (lo statonazione) e quello della post modernit (quella citt ectoplasmatica che noi qui chiamiamo Milania). La domanda quindi diviene: se la post modernit produce Milania, dellItalia cosa resta? Il dato pi evidente della nostra contemporaneit lo schiacciamento dello stato-nazione che viene operato dalleffetto congiunto della globalizzazione che ha rotto i confini tradizionali della nazione e della biodiversit di matrice immigratoria che ha dissolto la gran parte del riflesso identitario di tipo biologicopatriottico. Queste dinamiche, indebolendo lo stato-nazione, hanno creato le condizioni per laffermarsi di politiche tese a sottrarre ruolo e potere allo Stato tradizionalmente inteso, dalle privatizzazioni alle devoluzioni sussidiarie. Naturalmente, questo fenomeno mantiene i tempi realizzativi e percettivi dei processi storici. Tuttavia le contraddizioni emergono, ma soprattutto accade che la nostra quotidianit si riempia di assenze del concetto di Stato: dalla

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guerra combattuta ad un terrorismo aterritoriale e quindi astatale, ad un crescente astensionismo vissuto come senso di estraneit rispetto alla delega di potere alle istituzioni statali. Lo Stato rimane ormai essenzialmente come simbolo che, infatti, prende corpo pi in occasione degli eventi sportivi che nella fattualit dei drammi reali. cinico affermarlo, ma il dramma sentimentale di tipo patriottico, mosso pi dalleliminazione della Nazionale dai mondiali di calcio che dalla strage di Carabinieri a Nassirya. Uno dei fenomeni che tentano di contrastare, soprattutto a livello percettivo, questa dinamica di progressiva dissoluzione dello Stato, l attivismo visibile dei Governi. La perdita di potere reale dello Stato, infatti, spinge sempre pi i Governi nazionali ad impegnarsi su politiche che, proprio attraverso la dimensione della visibilit, possano determinare una momentanea percezione collettiva in controtendenza rispetto al fenomeno della dissoluzione statuale. Si tratta, tuttavia, di unarma a doppio taglio, come esemplarmente dimostra il caso italiano. I recenti risultati elettorali, molto negativi per i partiti di governo, dimostrano che la messa in campo di forti politiche dellannuncio, crea rapidamente dei pesanti boomerang di consenso. L attivismo visibile dei Governi, nonostante la sua evidente non risolutivit, sembra per essere diventato uno dei caratteri strutturali della politica nazionale nel passaggio tra la modernit ed il suo stadio successivo. Pur cogliendo fino in fondo le opportunit fornite da un sistema sempre pi plasmato dai massmedia, questo attivismo governativo si riduce ad uno spasmodico quanto ininfluente impossessamento verbale dei desideri dei

cittadini. Il tutto viene finalizzato ad un gioco propagandistico di echi reciproci che, come nel pi classico dei segreti di Pulcinella, tutti sanno che non porter ad alcuna reale modificazione del vivere collettivo. Le scelte di fondo, dal governo delleconomia alla collocazione geopolitica del paese, sono da tutti considerate obbligate. Questo fatto ineludibile, tuttavia, invece di spingere verso la ricerca di spazi reali di autonomia per la politica, produce quel sopra descritto attivismo visibile dei Governi che si dimostra funzionale solo a strategie di brevissimo periodo. Questo il punto centrale. Di fronte a scelte globali cui non possiamo certo sottrarci, le classi di governo di molti paesi (ed il caso italiano forse il pi paradigmatico) sembrano posizionarsi solo in chiave propagandistica (servitore fedele o utopista ribelle), trascurando cos quelle politiche glocal che potrebbero assicurare al nostro territorio una chance originale di successo nella competizione post nazionale. I Governi si dimenticano, insomma, dellunica cosa su cui potrebbero autonomamente decidere: la connessione tra il globale e noi. Ma se si perdono di vista anche i pochi spazi rimasti a disposizione, il dissolvimento statuale conoscer unaccelerazione che andr a tutto vantaggio di soggetti e poteri che ci sono estranei. Non si tratta di resistere, ma di capire le sfide. Oggi viviamo una dinamica esplosiva della mobilit. Il nostro sentimento di appartenenza ad un territorio nazionale gi molto diverso rispetto a trentanni fa. In futuro, la nostra dinamica transnazionale continuer a crescere sia attraverso gli spostamenti fisici che, soprattutto, attraverso quelli connettivi che si sviluppano

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sulle reti telematiche. Si illudono coloro che pensano che queste dinamiche non modificheranno radicalmente le forme e i contenuti delle istituzioni e delle soggettivit politiche. Anche il nostro essere italiani unidentit in via di superamento. Con la fine di quellidea di stato-nazione, nata a Westfalia, che presupponeva di nascere e morire allinterno dei confini di uno stato, anche lidentit italiana non pu pi essere determinata esclusivamente dai confini della Nazione. Le odierne dinamiche post nazionali, infatti, in gran parte prescindono dal concetto di territorio e si articolano in maniera transnazionale a partire dai nodi delle citt (Milania, ma anche altri), mutando le identit collettive. Questa realt in divenire, pone oggettivamente in una condizione anacronistica lidea di unItalia e di un italianit tutta chiusa nello stivale. Sorgono spontanee alcune domande. Perch questo tipo di riflessioni non sono minimamente presenti allinterno del dibattito sul futuro del paese? Perch londa politico-mediatica spinge la riflessione sullItalia verso temi e dinamiche che si posizionano in maniera totalmente sconnessa rispetto alle grandi trasformazioni che stiamo vivendo? La risposta risiede in un cocktail di inconsapevolezza, inerzia e difensivismo della classe dirigente, soprattutto di quella che sovraintende il circuito politico-mediatico. Vi , infatti, chi non si rende conto di queste trasformazioni. Linconsapevolezza nasce prevalentemente da quella tendenza deprofessionalizzante che spinge sempre verso la ricerca di domande spendibili sui canali del consenso immediato o della notiziabilit e mai verso unanalisi

interpretativa delle trasformazioni in atto. Poi vi chi, pur in parte consapevole dellevoluzione degli scenari, tuttavia prosegue in una consolidata prassi inerziale. Questa fetta di classe dirigente (generalmente di lungo corso) investe sul cinico calcolo che privilegia lorizzonte temporale personale rispetto a quello dei fenomeni storici. Un calcolo che, tuttavia, qualche volta si rivela errato, come hanno dimostrato le vicende della classe dirigente della cosiddetta Prima Repubblica. Infine, c chi ritiene che la migliore strategia di fronte alla dissoluzione del concetto di stato-nazione, sia quella di rinchiudersi nella difesa dellesistente. Si tratta di coloro che, ponendo una forte dose di contenuto valoriale nelle proprie analisi, evocano in termini minacciosi il meticciato, il relativismo e tutto ci che pu costituire unalternativa identitaria al vecchio assioma cuius regio, eius religio. La dimostrazione pi evidente di questo deficit di risposta nella classe dirigente, la troviamo nella trattazione del principale tema che ci riguarda come paese: lEuropa e la sua moneta. Il fatto che questi due argomenti vengano fatti rispettivamente passare per una sovrastruttura burocratica e una malefica valuta mangiarisparmi, rivela, oltre ad una preoccupante superficialit del circuito politicomediatico, anche quanto sia fuori strada la riflessione sulle strategie post nazionali che potremmo intraprendere per connetterci ai fenomeni globali. Attaccare lEuropa , infatti, un pretesto ignobile che attribuisce la responsabilit della febbre al termometro che la evidenzia. In realt, la famosa burocrazia europea (che solo gli ingenui possono pensare dedita per diletto a misurare le zucchine),

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la dimostrazione pi chiara della costituency neocontrattuale dellUnione Europea. sulla capacit di competere sui tanto odiati tavoli burocratici che si gioca il vantaggio o lo svantaggio di essere in Europa. Ed sulle competenze richieste a quei tavoli che i paesi pi avveduti preparano le classi dirigenti e conformano le strategie nazionali. In fondo, proprio questo pragmatismo neocontrattuale a dare allEuropa una dignit e unidentit pi avanzata rispetto allidea europea di derivazione medievale. Anche il mancato inserimento in Costituzione dello storicamente esatto riferimento alle radici cristiane, deriva proprio dalla volont di rendere lEuropa un accordo per lo sviluppo e non una fortezza post nazionale. Ma, finch noi continueremo a pensare che la burocrazia europea sia formata da algidi Fantozzi che misurano le zucchine, saremo destinati a restare tra i competitori ogni volta sconfitti sui tavoli che contano. Ad onor del vero, poi, occorre ricordare che noi, a quei tavoli, siamo stati ammessi per grazia ricevuta e, quindi, pensare che lEuro, cio il principale dei frutti europei, sia un frutto avvelenato, indice di amnesia o, peggio ancora, di un analfabetismo che, in un paese civile, dovrebbe restare confinato nei bar o dai barbieri. Se avessimo rifiutato lEuro (posto che non potevamo aspettarci concambi differenti da quelli stabiliti dai mercati finanziari), oggi probabilmente non avremmo pi la nostra sovranit politica. Saremmo come quegli stati africani in cui il governo formale solo un elemento strumentale alle strategie decise, per quei territori, nelle sedi americane o asiatiche delle multinazionali. Se non avessimo rafforzato la nostra sovranit

politica attraverso la messa in comune di sovranit monetaria, oggi saremmo uno staterello delle banane che, per non pagare mai il fio delle proprie colpe politiche, economiche e strategiche, continua a vendere al migliore offerente tutto quello che possiede, in cambio di protezioni geopolitiche e bonifici off shore. Il pericolo, eventualmente, quello opposto: dallEuropa delleuro rischiamo di essere cacciati! Tutto quanto detto, per, non significa negare legittimit ad una riflessione critica su Europa ed Euro. Tuttavia, occorre farlo partendo dal presupposto che, dallingresso in Europa, questo Stato italiano ha indubbiamente tratto un grande beneficio. Ma lEuropa non pu essere, proprio per la sua caratteristica neocontrattuale, una scelta subita passivamente. Perdersi in un campionario di critiche ingenue o di opzioni impraticabili, significa solo depotenziare quella funzione di rete protettiva che lEuropa pu svolgere nei nostri confronti e, contemporaneamente, perdere loccasione per attivare un percorso post nazionale che sia in grado di porsi in un rapporto dialettico di originalit rispetto alla classica strategia europeista. A questo proposito, vogliamo qui introdurre e approfondire un concetto originale (la cui elaborazione in gran parte riconducibile al pensiero di Piero Bassetti), al fine di individuare un possibile percorso post nazionale che non sia in contraddizione con le mutazioni introdotte dalla globalizzazione. Il concetto post nazionale a cui ci riferiamo quello identitario dell italicit, in contrapposizione con la classica identit nazionale affidata all italianit. Naturalmente, non si tratta di una invenzione

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lessicale. Cos come Milania risulta essere lesito di una revisione delle categorie classiche della citt, litalicit il frutto di una concezione diversa e pi ampia dellappartenenza nazionale. Oggi, infatti, i modelli glocalisti che derivano dalla fusione di globalizzazione e localizzazione, modificano strutturalmente il rapporto di appartenenza dei cittadini al proprio paese. Alla tradizionale appartenenza di un cittadino al paese definito dai confini del proprio stato-nazione, si viene ad aggiungere una identit legata alla civilt di appartenenza. In questo senso, appartengono alla civilt italica sia gli italiani allestero (e il loro discendenti), sia gli immigrati in Italia (ancorch stranieri di passaporto). Questa realt, che sostituisce la competizione tra gli Stati nazionali con quella tra civilization, rende lItalia, grazie alla diaspora immigratoria della prima met del secolo scorso, una delle realt potenzialmente pi interessanti sullo scenario competitivo globale. Il numero di italici nel mondo , infatti, tre volte superiore a quello degli italiani che risiedono in Italia. Litalicit, tuttavia, come tutti i concetti allo stato nascente, non ancora n consapevolmente percepita, n tradotta nellimmaginario collettivo. Per banalizzare la comprensione del concetto, potremmo dire che italico sta a italiano come telefonico sta a telefono. Si tratta cio di un ampliamento dellidentit nazionale che aggiunge allappartenenza formale (risiedere in Italia con passaporto italiano), anche quella valoriale (il sistema culturale) e quella degli interessi (il sistema economico). Volendo proporre un esempio storicamente determinato (seppur derivante da dinamiche molto differenti),

possiamo pensare ad Israele e lebraismo. Senza una forte civilization ebraica, costituita da un insieme di motivazioni culturali, economiche e religiose, il cammino storico di Israele sarebbe stato certamente molto diverso. Anzi, potremmo dire con una certa sicurezza che, senza la civilization ebraica, un territorio nel nome di Israele non sarebbe mai nato. Israele quindi lesempio che rende evidente come la forza di un sistema sovranazionale di valori e di interessi, possa divenire lelemento principale della strategia post nazionale di uno Stato. Il sistema di valori e di interessi italico qualcosa che tocca direttamente, oltre agli italiani dItalia, anche lidentit degli immigrati nel nostro paese e quella degli emigrati dal nostro paese. Tutto ci, inserendosi nella crisi degli stati-nazione, fornisce alla nostra civilt italica una forza competitiva potenziale di straordinaria rilevanza. Tuttavia, non dobbiamo considerare litalicit come un passaporto nuovo che sostituisce quello vecchio. Lidentit italica una realt che convive con un sistema di pluriappartenenze, dove lidentit non fornita da qualcuno attraverso la concessione del passaporto, ma assunta direttamente dallindividuo, assecondando le proprie appartenenze esistenziali (dove vivo, da dove vengo, che lavoro faccio, cosa mi appassiona, etc). Possiamo quindi affermare che, finita la dialettica politica tra stati nazionali, il futuro ci riserver grandi aggregazioni per affinit di civilizzazione. Presumibilmente, nei prossimi decenni verranno mantenute ben poche delle dinamiche tradizionali che definivano i popoli in base ai confini degli stati-nazione. Si affermeranno, invece,

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nuovi popoli sovranazionali come gli anglosassoni, gli ispanici e gli italici. Aggregandosi e cominciando ad affrontare insieme i problemi e le opportunit comuni, i duecento milioni di italici sparsi in tutto il mondo, potranno formare una comunit sovranazionale in grado di assumere un peso rilevante nello scenario globale. In conclusione, litalicit un concetto certamente nuovo che richiede approfondimenti e tempi di metabolizzazione. Peraltro, lordine degli stati-nazione nato a Westfalia cinque secoli fa, una realt il cui superamento inesorabile. Pur trattandosi di un processo graduale, tuttavia innegabile che la nuova cosmologia introdotta dalla globalizzazione, abbia gi fatto saltare una serie di compromessi organizzativi sui quali noi ci eravamo assestati. Anche se le articolazioni della post nazione non sono ancora definite, tuttavia, capire gi ora che le nostre armi competitive sono riposte nella civilization italica e non solo nella penisola italica, significa avviarsi a costruire una strategia evolutiva certamente pi affidabile rispetto a quella imperniata sul semplice e nudo stivale. La sfida, per ciascuno di noi, di capire che se certamente vero che le nuove idee cambiano il mondo, tuttavia anche vero che quando cambiano le idee il mondo non ancora cambiato. Bisogna quindi avere, come classe dirigente, la capacit di capire le nuove idee ed il coraggio di inserirle nelle dialettiche di cambiamento. Pensare al futuro dellItalia, potrebbe quindi voler dire capire litalicit ed avere il coraggio di fare di essa una strategia politica condivisa.

CAPITOLO 4
I SOGGETTI CHE FANNO MILANIA Chi sono gli abitanti di Milania? Fra quelli che si occupano di analizzare questi temi, sembra rivestire maggiore interesse la dimensione quantitativa della risposta, nellillusione di poter certificare quanto cresciuta Milano. Ma questa illusione destinata a rimanere tale. Milano, se non per modeste annessioni territoriali, non ha nella sua natura la megalopoli. Lidentit della citt destinata a restare ancorata al suo perimetro storico. Milano, infatti, coltiva in s quelle attitudini relazionali e di scambio che la rendono, non un agglomerato fisico, ma un vero nodo di reti funzionali, professionali e settoriali. Assumendo questo concetto di citt, il numero di abitanti destinato ad essere una quantit variabile a seconda delle reti che osserviamo. Detto questo, per, occorre anche precisare che alla domanda iniziale vi unaltra risposta possibile e, forse, pi interessante. Si tratta di una risposta di tipo qualitativo che indaghi le caratteristiche attitudinali di chi vive a Milania. , infatti, innegabile che lintreccio tra la vocazione della citt e le aspettative esistenziali dei cittadini, sia molto forte. proprio questa vocazione, il primo e pi potente attrattore di energie e condizionatore delle aspirazioni individuali presenti sul territorio. Ma, questa vocazione non pu essere semplicemente oggetto di una trattazione letteraria, riferita ad

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un pi o meno percepito splendore. Lanalisi va condotta sul piano storico e socio-economico, oltre che su quello culturale. Se in passato potevamo, con una certa sicurezza, definire Milano una citt a vocazione industriale e commerciale, oggi non possiamo pi identificare Milania con una vocazione semplicemente desunta dai settori delleconomia. La sterilit dellestenuante dibattito sulla vocazione identitaria della citt, deriva proprio dal non voler riconoscere che a Milano avvenuta una mutazione ontologica della citt. Oggi Milania una citt globale e non pu pensare di trarre la sua vocazione identitaria da una logica settoriale o distrettuale. La mutazione post milanese trova un comune denominatore nella logica del sapere. Non un caso, infatti, che i settori di punta sul territorio discendano dalla cultura della creativit applicata, cio del sapere innovativo. La riflessione sulla vocazione identitaria (che propedeutica alla decisione sulle strategie da adottare) pu quindi assestarsi sulla definizione di Milano come citt dei saperi. Da questo discende, naturalmente, una strategia fondata sulla valorizzazione dei produttori di sapere. Per questo occorre fornire una soggettivit protagonista a quel tessuto, oggi sconnesso, rappresentato sia dallingente comunit accademica che dalle molteplici declinazioni del sapere, da quelle produttive e dello scambio a quelle puramente rappresentative e della gratuit. Oggi, i soggetti che fanno Milania, si condensano in un aggregato antropologico declinato sulle pi svariate combinazioni del sapere. La lettura della citt attraverso le sue classi si esaurita, non solo come elemento ideologico, ma

anche come puro dato di segmentazione sociologica. Insieme alla classe, scomparsa anche la logica relazionale di tipo gerarchico, a favore di meccanismi di connessione reticolarizzati e fondati sullautosufficenza cognitiva. Questo non significa il realizzarsi di una ingenua visione liberatoria del lavoro e dei rapporti economico-sociali. Le differenze, infatti, permangono ed, anzi, si ampliano. Tuttavia un fatto che, volendo usare una metafora, a Milania non ci siano pi colletti bianchi che impartiscono ordini a colletti blu, bens coesistano colletti di diverso colore e valore, ognuno dei quali si trova di fronte al proprio problema da risolvere. Insomma, il soggetto egemone a Milania un aggregato antropologico che possiede la propria dimensione caratterizzante nel saper fare individualizzato. Questo non significa che Milania non contenga anche molteplici soggetti sociali di pura fruizione e consumo. Lessere terminale finanziario del paese ed il possedere una rilevante porzione di societ anziana, sono certamente due elementi che determinano ampie fasce sociali di pura fruizione della citt. Ma, proprio perch la divisione classica non pi quella fordista tra produttori e consumatori, anche le fasce che, per motivi economici o generazionali, sono pi dedite alla fruizione della citt, esercitano questa loro funzione attraverso uno spiccatissimo senso della conoscenza. Questo spinge verso un sistema sempre pi concorrenziale che si sviluppa con il contributo attivo dei soggetti prevalentemente orientati al consumo. Anche i fenomeni che, nella Milano tradizionale, apparivano pi estranei allordinata cultura del mercato (come, ad esempio, lestemporaneo shopping milionario in

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via Montenapoleone), oggi si inquadrano in funzioni globali di consumo di eccellenza che rientrano pienamente nella cultura di mercato della post Milano. Di fronte a questo scenario, risulta evidente che tutto ci che pu facilitare linnovazione, diviene un elemento costitutivo delle strategie di Milania. Anche le politiche pubbliche (il tanto citato marketing territoriale) possono essere coaudiuvanti a questo processo che, bene ricordarlo, esiste a prescindere dallatteggiamento delle istituzioni. Su questo fronte, lazione dei decisori pubblici milanesi spesso si mossa, ancorch in nome dellinnovazione, con finalit e risultati molto distanti dai reali processi innovativi. Gli esempi sono numerosi, anche se difficile articolare una graduatoria. Parlando di innovazione, infatti, non dobbiamo avere in mente solo la dimensione tecnologica. Le politiche di innovazione si possono declinare ovunque e, in ogni caso, esse rappresentano la rottura di un immobilismo dei poteri tradizionali, in favore di una nuova metodologia pi in sintonia con la contemporaneit e pi vantaggiosa per tutti. Il fatto che Milano tenga un tappo sullinnovazione reale nelle sue politiche pubbliche, oggi un problema relativo. Il ruolo delle istituzioni come innesco dellinnovazione , oggi, molto pi modesto rispetto alla societ fordista fondata sullinnovazione fisica. Oggi ci che conta il propagarsi virale dei nuovi processi informativi, pi che la realizzazione fisica dellinnovazione. Con ci, tuttavia, per quanto oggi la politica conti meno nel definire le dinamiche innovative, non possiamo negare che ad essa sia naturalmente demandata quella sintesi tra le

diverse funzioni che, laddove non si verifichi, ci condanna allo squilibrio della separatezza. Approfondiremo in seguito il ruolo che possono svolgere, a Milania, le classi dirigenti che presidiano gli snodi politico-istituzionali. Qui ci basta segnalare che il principale elemento che testimonia della mancanza di capacit innovativa, risiede nel non capire la trasformazione della citt. Finch la politica istituzionale non capir che Milano non si definisce pi a partire dal suo confine municipale e che i suoi dinamismi necessitano di una politica in grado di agevolare non solo lo sviluppo delle singole reti, ma anche linterconnessione di queste, le politiche pubbliche saranno condannate a restare sempre al grado zero sul piano dellinnovazione reale. Il recente cablaggio della citt un esempio lampante di questo ritardo. Tutti ricordano come a Milano, sullonda del successo finanziario della net economy, si sia venuta a formare una forte pressione verso linfrastrutturazione tecnologica della citt. Tuttavia, invece di porsi il problema di infrastrutturare le reti che fanno lo sviluppo, ci si accontentati di ridurre il tutto ad una meccanizzazione del territorio comunale, per di pi usando una modalit identica a quella utilizzata cinquantanni fa dalle principali citt del mondo per cablarsi: riempiendo di buchi lasfalto cittadino. Il risultato che Milano divenuta una delle citt pi cablate allinterno dei suoi ristretti confini amministrativi, ma poco o nulla corre su queste autostrade informatiche, poich non vi merce informativa che si fermi a Quarto Oggiaro. Questo anacronismo poteva venire evitato alla citt da una classe dirigente in grado di capire la dimensione prioritaria di un cablaggio aterritoriale (poich

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aterritoriale divenuta Milano). Si sarebbe allora cominciato a ragionare sulle frontiere evolutive dellinnovazione connettiva wireless (cio senza fili) e si sarebbe scoperto che la banda larga sarebbe presto potuta arrivare, con le connessioni senza fili, su territori ampi e non vincolati dal limite del confine municipale. Il cablaggio sarebbe arrivato qualche mese pi tardi, ma avrebbe avuto costi e tempi realizzativi estremamente pi vantaggiosi. Soprattutto, questo cablaggio sarebbe divenuto subito utile per interconnettere quelle funzioni dello sviluppo che non possono certo essere racchiuse allinterno dei confini municipali. Da questo esempio emerge con evidenza il fatto che se la politica rimane ancorata a schemi non pi realmente rappresentativi, la conseguenza diviene una sua perdita di ruolo sempre maggiore ed una spinta sempre pi forte verso una crescita asimmetrica. Abbiamo fin qui delineato come il soggetto egemone nei processi di Milania sia un aggregato antropologico-sociale fortemente orientato al sapere innovativo. Ora ci pare opportuno approfondire due tipologie emblematiche di questo aggregato: il developer come idealtipo del portatore di interessi di sviluppo e l'immigrato come fattore competitivo delle dinamiche economico-sociali sul territorio. La scelta di analizzare queste due figure nasce dal loro rappresentare due delle nuove soggettivit della globalizzazione. Si tratta, infatti, di soggetti nella cui identit la dimensione della mobilit fa premio su tutte le altre. Il developer limprenditore che si muove sulle frontiere dello sviluppo, senza un radicamento in interessi costituiti. La sua logica,

quindi, non alimentata dalla necessit esclusiva di valorizzare i propri assets di capitale fisso, ma si rivolge allidentificazione di quei percorsi imprenditoriali pi in sintonia con i determinismi economico-sociali del territorio. Spesso, quindi, il developer un organizzatore dello sviluppo, pi che un produttore di beni o un detentore di capitale fisso. Analizzare il ruolo del developer, significa introdurre il tema del rapporto tra politica e interessi. Un rapporto che mantiene in piedi un impianto retorico dal sapore scandaloso, pur essendo lunico evidente motore dellazione di cambiamento. Proviamo ad entrare senza retorica, ma con seriet e disincanto, in questa contraddizione. Se abbandoniamo la visione manichea per cui gli interessi rappresentano il male (legoismo, il profitto, il particolare, etc) e la politica il bene (la collettivit, linteresse di tutti, etc), ci accorgiamo come sia gli interessi che la politica siano elementi che contengono un forte elemento di pressione. Pensare, come vorrebbe una visione moralista, di neutralizzare questa pressione, rivelatore di una mentalit avversa alle dinamiche reali dello sviluppo. Lazione complessiva che la classe dirigente pu indirizzare verso il rapporto tra politica e interessi deve, invece, porsi lobiettivo di fornire, alla sopra citata pressione, una direzione in sintonia con le aspettative della societ in cui viviamo. Analizziamo lesempio pi evidente delle trasformazioni operate dal rapporto tra politica e interessi: il territorio. Quando la pressione degli interessi e quella della politica, si affermano in una logica egemonica ed autoreferenziale, i risultati sono pessimi. Nel primo

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caso, quando a prevalere la pressione del ceto politico, si producono le tristemente celebri cattedrali nel deserto, cio quelle enormi opere pubbliche (fatte per congiunturali motivi elettoralistici o per ideologismo militante) che non servono n agli interessi del mercato, n a quelli del territorio, restando cos solo grandi monumenti allinutilit. Quando, invece, la pressione determinata dagli interessi a divenire egemone sulle scelte nel territorio, nascono i mostri urbanistici, cio quelle realizzazioni fatte s per soddisfare una domanda presente, ma totalmente indifferenti alle compatibilit ambientali, estetiche e spesso anche funzionali. In questo campionario rientrano gli orrendi quartieri periferici costruiti sullonda delle varie emergenze, nonch quelle opere pubblicoprivate mancanti sia di logiche funzionali che territoriali (a Milano ne un esempio il teatro Arcimboldi) e cos via per un elenco che potrebbe non finire mai. Certo, queste realizzazioni che abbiamo definito mostri urbanistici, assumono nel tempo un senso derivante dallinserimento stabile nel contesto territoriale, mentre le cattedrali nel deserto restano tali finch qualcuno non le demolisce. In ogni caso, per, si tratta di esempi la cui razionalit realizzativa molto bassa. Appare allora evidente che il rapporto tra interessi e politica vada ristabilito in maniera chiara e trasparente. Ma qui occorre un passo avanti concettuale: finora lunica logica che ha sovrainteso il rapporto tra politica e interessi stata quella del contratto fondato su una contropartita che la politica chiedeva agli interessi. Una contropartita che, a seconda della qualit del ceto politico, poteva

andare dal finanziare la pubblica utilit, al finanziare il partito, fino al finanziare il conto in banca del singolo uomo politico. Questa logica contrattuale talvolta ha funzionato, ma pi spesso si dimostrata troppo arrendevole e concentrata esclusivamente sulle contropartite prive di valore pubblico. Occorre, quindi, trovare una relazione, tra politica e interessi, diversa dal contratto. Restando allesempio del territorio (ma potremmo declinare questo concetto anche su altri ambiti), uscire dalla logica contrattuale significa inserire, nel rapporto progettuale, non solo i rappresentanti degli interessi che si attivano direttamente per la trasformazione del territorio, ma anche tutti gli aventi causa che sono portatori di interessi potenziali. Questo significa che, in pratica, non si pu tener conto solo degli interessi della rendita fondiaria o della costruzione immobiliare, ma si deve considerare anche linteresse dei residenti, degli utilizzatori, delle funzioni del presente e del futuro ed, infine, di tutti coloro che difendono il patrimonio storico, culturale, ambientale e cos via. Solo se il territorio nel suo complesso viene chiamato in causa propositivamente, allora si pu pensare di arrivare a definire quellindicazione degli ambiti di sviluppo su cui si devono inserire gli interessi pi direttamente operativi. Questi ultimi si incarnano in developer (cio in imprenditori dello sviluppo) che possono (anzi devono) essere aiutati nelle loro realizzazioni e nei loro processi di crescita. Tuttavia, sarebbe una ingenua illusione pensare che questi ambiti di sviluppo del territorio possano venir definiti da una dialettica democratica tra tutti gli aventi causa. La via politicista non porta da nessuna parte, se non ad una estenuante

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perdita di tempo. Sono i developer a doversi inculturare, attraverso un impegno diretto nella costruzione di quella piattaforma dialogante che, come sopra detto, da sola non pu funzionare. Infatti, se il developer capisce il territorio (qui diremmo: capisce Milania) nelle vocazioni derivanti dalla storia e nelle connessioni proiettate verso il futuro, allora potr attivarsi un circolo virtuoso di coincidenza tra gli interessi del developer ed i valori dello sviluppo. Finch, invece, il portatore di interessi diretti sul territorio continuer a percorrere la via breve della decisione affidata alla firma dellAssessore, nessun circuito di sviluppo economico e civile potr mettersi in moto. Insomma, se il territorio nel suo complesso viene chiamato in causa propositivamente dagli interessi di trasformazione di un developer, allora si potr realizzare una sintesi efficace tra politica ed interessi. Se, invece, gli interessi non si incarnano nella figura del developer, allora diviene egemone una visione corta che produce le posizioni della rendita o della speculazione. Posizioni che si pongono a valle della politica, non gi per rispetto, bens per raccogliere i benefici che derivano da una facile azione di strumentalizzazione, compiuta con armi corruttive che vanno dalla classica mazzetta allinserimento in quel circuito della visibilit tanto amato dai politici. Di fronte a queste dinamiche, la politica oscilla tra la tentazione del facile accomodamento e quella della vecchia visione del primato della politica. Una visione che, essendo di esclusiva natura ideologica, possiede una razionalit e una spinta realizzativa molto inferiore rispetto a quella garantita dagli interessi. In questo

modo il territorio resta soggetto passivo delle sue trasformazioni, salvo poi risvegliarsi nella forma di un comitatismo vociante che sordo a qualunque ipotesi di cambiamento e, nella quasi totalit dei casi, provvisto solo di un disfattista potere di veto. In definitiva, quindi, possiamo affermare che, se evidente che gli interessi rappresentino oggi gli unici e incontrastati motori dello sviluppo, la inculturazione dei developer (cio dei portatori di interessi economici diretti) diviene il principale asset qualitativo di una strategia di sviluppo del territorio. Laltro idealtipo su cui, pensando a Milania, vale la pena compiere una riflessione, limmigrato. Anche questa, infatti, una figura che ha come dimensione egemone il principale portato della globalizzazione: la mobilit. Non si tratta della semplice provenienza da altri paesi, ma di unattitudine mentale alla mobilit fisica, lavorativa e degli interessi. Ogni immigrato, soprattutto di prima generazione, , sostanzialmente, un essere nomade che concepisce la stanzialit come un lusso da riuscire eventualmente a costruire per le future generazioni. Chi scrive ha lavorato molto sul tema dellimmigrazione, adoperando sia le mani che il cervello. Su questo tema, a Milano, una prima analisi ci dice che difficilmente queste due dimensioni procedono insieme. Infatti, chi si occupa operativamente di immigrazione (pensiamo al volontariato), tende ad avallare una visione social-emergenziale che, oltre a riguardare una parte molto ridotta del corpo immigrato, deriva dal desiderio caritatevole di omologare quanto prima gli immigrati alle nostre condizioni economiche, sociali e perch no di frustrazione urbana. Si tratta

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di una visione che, se pu essere giustificata da un sentimento di bont danimo, tuttavia destinata a produrre uno sconfortante panorama dellimmigrazione. Il caritatevolismo (che cosa ben diversa da un neutrale sentimento di tolleranza) costruisce umilianti prese di contatto che spingono limmigrato a percepirsi in una chiave di autocommiserazione. Questo crea, nella sua psicologia, una sorta di salvacondotto morale che, rafforzando la convinzione ideologica che la societ ospitante possegga un vizio dorigine, rischia di portarlo a comportamenti fraudolenti ed antagonisti. Paradossalmente, la politica caritatevolista sullimmigrazione, rischia proprio di fare il gioco di quelle visioni allarmiste e demagogiche che agitano lo spettro della invasione delle masse immigrate. Poi c chi, invece, a Milano, si occupa di immigrazione in termini di ricerca (osservatori pubblici, istituti per la multiculturalit e cos via) e dovrebbe quindi riportare il fenomeno alle sue reali dimensioni e chiavi interpretative. Bisogna dire che la produzione teorico-interpretativa realizzata da questi soggetti, se sar certamente servita a conquistare pi di una cattedra universitaria, tuttavia ha lasciato ben pochi elementi utili ad inquadrare il fenomeno nella sua complessit. Presentata cos limmigrazione, con chi se ne occupa impegnato a percorrere una strada infernale lastricata di buone intenzioni e chi la studia che inforca occhiali molto deformanti, potrebbe effettivamente spaventare qualcuno. Invece questo fenomeno, nonostante la forte crescita quantitativa sul nostro territorio (nellultimo decennio gli immigrati a Milano sono passati dai 60.000 del 1995 ai 180.000 di

oggi), non ha procurato alcun reale problema di tipo sociale. Limmigrazione stata certamente pi un tema propagandistico che un problema reale. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che si sia potuto serenamente assistere, oltre al varo di leggi inapplicabili, anche alla strumentalizzazione politico-mediatica declinata sugli opposti estremismi dellallarmismo e del caritatevolismo, senza che ci venisse a determinare una reazione forte, sul piano sociale e della legalit, da parte del corpo immigrato complessivamente inteso. La ragione di questa tranquillit risiede nella natura esclusivamente economica della nostra immigrazione. Questo fatto la rende facilmente metabolizzabile da qualunque struttura sociale, a differenza, ad esempio, dellimmigrazione costituita da rifugiati politici o da profughi di guerra. Insomma, quello che accaduto nel nostro paese (con buona pace degli operatori e dei ricercatori) che una forza lavoro immigrata, competitiva sulle dimensioni del prezzo e della flessibilit, si affacciata sul mercato ed ha trovato autonomamente i propri punti di equilibrio e di coesistenza. Questa immigrazione non aveva nulla a che vedere con le propagandate visioni allarmiste o caritatevoliste ed proprio per questo motivo che la strumentalizzazione politicomediatica potuta andare avanti senza quelle dure reazioni che, in altri campi, avrebbe certamente prodotto. La verit che la politica non ha gestito limmigrazione, ma si limitata ad evocarla attraverso peana caritatevolisti o allarmisti, con la complicit di un sociologismo sprovvisto di reali chiavi interpretative. Lunica politica sullimmigrazione nel nostro paese lha fatta il mercato, in

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termini di produzione di ricchezza, rimesse di denaro allestero e soluzioni sostanzialiste ai due principali problemi degli immigrati: i documenti e la casa. Le soluzioni prodotte dal mercato di solito funzionano, ma lasciano sempre dietro di s qualche problema irrisolto. Sul permesso di soggiorno, ad esempio, lidiozia di leggi che prevedono per colui che intende venire in Italia il prerequisito della casa e del lavoro (elemento la cui assurdit avrebbe dovuto far venire al legislatore pi di qualche dubbio), stata disinnescata da una serie di risposte creative e molto italiane: innanzitutto le sanatorie, ma anche gli ingressi clandestini con il rientro regolare dopo aver trovato casa e lavoro ed, infine, un bel traffico di permessi falsi e relative corruzioni. Sul problema abitativo, invece, oltre al mercato nessun altro ha dato risposte. Trattandosi di un mercato a offerta speculativa e a domanda economicamente diversificata, non tutte le soluzioni trovate si accordano con i nostri standard abitativi ed, infatti, per molti immigrati la soluzione abitativa ancora oggi si situa in un percorso al ribasso che va dal posto letto alla fabbrica dismessa. Il quadro complessivo fin qui descritto , per, in forte fase evolutiva. Essendo limmigrazione entrata senza particolari problemi nel nostro vissuto, cominciano a perdere progressivamente peso le strumentalizzazioni del circuito politico-mediatico. I cittadini avvertono ormai con chiarezza la virtualit dei temi agitati dal residuo dibattito politico-mediatico. Forse potremmo essere contenti. In fondo, il non governo del fenomeno non ha prodotto contraccolpi sociali, limmigrazione entrata senza traumi nel nostro vissuto e la

dimensione principale del circuito politico-mediatico, ha gi trovato, nellidentit religiosa musulmana, il nuovo fenomeno sconosciuto da strumentalizzare. Un cinismo orientato alla semplice gestione del presente si dichiarerebbe soddisfatto. Ma, per Milania limmigrazione un tema rilevante, poich essa rappresenta una delle pi potenti spinte allo sviluppo del territorio. Frutto della mobilit globale, limmigrazione sul nostro territorio contiene in s una forza potenziale ancora largamente inespressa. Questa forza pu essere liberata da un progetto di societ offerto agli immigrati attraverso una reale piattaforma dialogante ( solo dalle vere conversazione che scaturisce qualcosa). necessario costruire limmaginario di un futuro in cui ci sia posto per tutti e dove lincrocio delle diversit produca una lega sociale pi forte rispetto a quella presente negli scenari in cui la multietnia casualit o, peggio, separazione. Ma occorre sapere che una societ integrata e coesa, cio pi forte, non pu nascere come conseguenza di un casuale incrocio biologico e sociale, privo di direzione e denso solo di conflittualit. Ecco quindi che, se vogliamo costruire un futuro in cui limmigrazione sia una delle leve dello sviluppo, occorre affrontare due grandi temi: la valorizzazione della societ immigrata ed il ruolo delle seconde generazioni. Per ci che riguarda la valorizzazione, questa una delle poche strategie rimaste al paese per cercare di invertire lattuale ciclo di stagnazione. Considerando limmigrazione come pura manodopera di riserva, noi infatti impediamo alla nostra economia di trovare, nel segmento immigrato, un elemento che generi una spinta propulsiva

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autonoma. E questo doppiamente sbagliato, perch ogni immigrato cova in s un progetto autonomo in grado potenzialmente di accelerare la sua prospettiva esistenziale (il boom di partite iva etniche ne una conferma). Non tenerne conto significa distruggere risorse . Perci, una strategia volta a far emergere le punte pi avanzate dellimmigrazione, non solo mette in moto dinamiche di integrazione e sviluppo, ma rappresenta anche un potente investimento per lintero sistema paese. Il tema della seconda generazione molto pi delicato e porta con s una problematica rischiosa. Mentre gli immigrati di prima generazione, infatti, hanno messo in conto le durezze e le difficolt che si possono trovare, giungendo da un paese lontano, per realizzare la propria aspirazione esistenziale, i loro figli non sono preparati a sostenere questo sforzo. Se nella famiglia immigrata il messaggio trasmesso dai genitori ai figli rimane volto a rafforzare la percezione di inospitalit sociale del nostro territorio, allora la conseguenza sar che le seconde generazioni immigrate, allorquando si presenteranno per loro le prime difficolt (nello studio, nella vita relazionale, nel lavoro), saranno fortemente esposte ad un rischio di devianza che, a quel punto, sar legittimato sia dal messaggio culturale ricevuto dalla famiglia, sia dal sentimento di estraneit che viene vissuto nei riguardi della societ ospitante. per questo che, per affrontare sia il tema della valorizzazione che quello della seconda generazione, occorre allestire una piattaforma dialogante verso limmigrazione che sia in grado di

pacificare la relazione tra immigrati e territorio. Questo dialogo , naturalmente, finalizzato ad una strategia integrazionista. Integrazione una parola che deve, il pi possibile, venir depurata dalla soggettivit dei nostri giudizi di valore. Altrimenti, potranno prendere corpo solo le opzioni alternative dellassimilazionismo o del multiculturalismo. Entrambe queste strade rappresentano levoluzione di quellerrore gi compiuto dalla strumentalizzazione allarmistico-caritatevolista. Ma, se per la sopracitata strumentalizzazione politico-mediatica, le cause potevano essere ricercate nel tentativo di trovare issues politiche forti (ma non reattive) da giocare sul mercato italiano, ben diversa la causa dellerrore di chi tenta di perseguire le necessarie strategie di integrazione attraverso lassimilazionismo o il multiculturalismo. Qui il motivo dellerrore essenzialmente uno: la nostra pretesa di utilizzare le categorie domestiche della sociologia, invece delle categorie universali dellantropologia. Attualmente la distinzione tra assimilazionismo e multiculturalismo deriva da due giudizi valoriali autocentrati: gli assimilazionisti sostengono la necessit di difendere la cultura della nostra societ, mentre i multiculturalisti ritengono che la nostra societ debba lasciare agli immigrati le loro culture di provenienza. Entrambi questi approcci, per, si chiudono allinterno delle nostre categorie sociologiche. Questo non produce, nel corpo immigrato, n una adesione al nostro sistema di valori, come vorrebbero gli assimilazionisti, n un riconoscimento del nostro rispetto verso le loro culture di appartenenza, come immaginano i multiculturalisti. La

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verit che il modello sociologico, centrato sulla nostra societ, non serve ad interpretare il comportamento degli immigrati. Finch non si capir questo, continueremo a mantenerci su piani non comunicanti e lerrore rimarr la regola. Quindi, se vogliamo capire limmigrazione e renderla funzionale ai nostri obiettivi, dobbiamo abbandonare le categorie sociologiche, in favore delle categorie dellantropologia. Per capirci: occorre accettare il fatto che gli immigrati, proveniendo da paesi con contesti radicalmente diversi dai nostri, sono esseri umani totalmente estranei ai nostri atteggiamenti. La nostra sensibilit culturale ci rende difficile laccettazione di questa differenza. per questo che noi cerchiamo di considerare questa diversit come semplice sottosviluppo. Invece, almeno nella mente degli immigrati di prima generazione, la diversit rimane diversit e lunico sottosviluppo che essi sono disposti a riconoscere, quello economico dei paesi di provenienza che, infatti, determina la loro venuta in Italia. Ma evidente che non ha alcun senso considerare il sottosviluppo economico dei paesi dorigine come identit dellimmigrato. Limmigrazione, analizzando i dati relativi al nostro paese, un fenomeno in grado di produrre una tale ricchezza da rendere lItalia il secondo paese in Europa per rimesse degli immigrati. Il fatto che gli immigrati ci possano apparire poveri, non deriva da una loro arretratezza nelle gerarchie economicosociali, ma da una diversit di status, di consumi ed, in fondo, di comportamenti e motivazioni esistenziali. Solo se, nella nostra analisi del fenomeno, siamo in grado di astrarci dai giudizi di valore (e dai relativi pregiudizi), allora cominciamo a perdere di senso sia le

strategie di assimilazione forzata, sia quelle multiculturaliste orientate alla salvaguardia non richiesta delle culture di origine. La questione si sposta, quindi, sul dove ricercare e come definire una strategia coerente con un modello fondato su categorie antropologiche. Prioritariamente, occorre partire dalla consapevolezza che, a monte di ogni antropologia dellimmigrazione, c un sentimento di comunit di destini che porta limmigrato, in via del tutto naturale, a ricercare la propria prospettiva esistenziale allinterno del proprio ambito comunitario di immigrazione. Pensare di poter attrarre il singolo immigrato al nostro sistema di valori, bypassando il legame della comunit di destini, molto difficile. Soprattutto se non si gli Stati Uniti dAmerica, ma un paese come lItalia che non ha fatto nulla (documenti, voto, casa, integrazione istituzionale) per diventare la nuova casa dellimmigrato. Un paese che, attraverso il sostanziale obbligo alla clandestinit determinato da una legislazione del tutto inapplicabile, ha costruito quella mostruosit che definisce illegali per natura (cio senza aver commesso alcun reato) quasi tutti coloro che mettono per la prima volta piede in Italia. Se, infatti, dal totale degli immigrati oggi regolari, scorporiamo coloro che si sono regolarizzati attraverso le sanatorie e coloro che hanno ottenuto la chiamata dopo un soggiorno italiano in clandestinit (oltre a tutti i parenti che si sono ricongiunti agli immigrati regolarizzati come appena descritto), ci accorgiamo che di immigrati arrivati in Italia secondo lo spirito primario delle varie leggi sullimmigrazione, ne rimangono ben

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pochi! Il passaggio dalla clandestinit , statistiche alla mano, la prassi dominante il fenomeno dellimmigrazione. Tornando allobiettivo dellintegrazione, esso non pu essere raggiunto attraverso un inserimento individualizzato dellimmigrato allinterno del nostro sistema sociale, come vorrebbero gli assimilazionisti. Questo meccanismo non funzioner mai in Italia ed infatti, laddove viene sperimentato, costruisce, negli immigrati, dinamiche identitarie dissociate. N, tantomeno, lassimilazionismo pu funzionare attraverso una strategia fondata su presunti corpi intermedi dellimmigrazione. Non un caso, infatti, che quei rappresentanti dellimmigrazione (che spesso si sono autonominati rappresentanti di associazioni etniche), che si trovano sovente allinterno dei circuiti istituzionali italiani (sindacati, ONG, partiti, etc), non riscontrino alcuna credibilit nelle proprie comunit di origine. Peraltro, nemmeno la via multiculturale allintegrazione pu funzionare. Essa si fonda su un rispetto culturale che, oltre a non interessare particolarmente gli immigrati (che provengono tutti da paesi molto arretrati sul piano democratico), viene letto essenzialmente come debolezza della societ ospitante. Questo determina negli immigrati un consenso solo apparente a questo tipo di politiche. Consenso che, infatti, resiste fin quando funzionale allutilizzo di percorsi, individuali e collettivi, facilitanti o di minor resistenza. Poi, quando finisce il vantaggio, il consenso si rompe. Ci che invece funziona, sul piano delle strategie antropologiche, il principio emulativo. Perci importante che dalle comunit di immigrazione emergano quelle storie di successo, sul piano

economico e culturale, che sono in grado di far breccia nellimmaginario dellimmigrazione. La nascita di etnocampioni in possesso di un reale protagonismo sociale, pu condurre alla creazione di quellimmaginario comune (qui servirebbe la fiction, non sulle foibe) che, attraverso la letteratura di coloro che ce lhanno fatta, pu avvicinare la societ immigrata a quella ospitante. Questi etnocampioni diverrebbero i perni in grado di muovere lintera filiera immigrata, grazie a quella spinta emulativa che, da Prometeo in poi, rappresenta una delle pi potenti molle che spingono luomo a modificarsi. Facilitare la nascita di questi campioni etnici, senza volerli omologare ai nostri schemi, significa investire su un futuro dove sar pi facile sciogliere la societ immigrata nella societ di tutti. Per, dobbiamo possedere quel pizzico di relativismo che ci consenta di non voler mettere il naso nelle dinamiche che danno vita alle leadership etniche. Queste dinamiche, infatti, sono molto diverse dalle nostre e potrebbero non piacerci. Esse, infatti, sono generalmente antidemocratiche, spesso tribali e sempre caratterizzate da molte durezze. Per, creano il sale di quella spinta emulativa che produce dinamismo nellimmigrazione e pacificazione nel passaggio generazionale verso la societ ospitante. Ed, in definitiva, solo questo che interessa nella societ di Milania. Prima di concludere questo ultimo capitolo, dedicato a tratteggiare alcuni dei soggetti che fanno Milania, non possiamo non approfondire lipotesi che dentro i meccanismi di sviluppo possa rientrare anche la comunit politico-istituzionale. Oggi, questa

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comunit in un angolo. Persa la presa forte sulla societ, la politica ha irrigidito le proprie leve di potere su una antistorica visione gerarchica top-down che produce paralisi di sistema (si pensi ai fallaci tentativi di governare fatti territorialmente complessi come traffico e smog). Anche sul piano identitario, la politica sembra essersi avviata in un vicolo cieco. Invece di tentare di recuperare legittimazione attraverso unanalisi che la porti a rappresentare il mutamento sociale, essa si imbottisce di viagra televisivo e si tuffa in una autoreferenziale zuffa, utilizzando le vecchie identit come offesa (comunisti!, fascisti!, democristiani!). Questa deriva della politica inevitabile? La risposta dipende dalla capacit della politica di capire che essa diventa forte solo se riesce a tornare ad interpretare la mutazione sociale. Forte era la DC nellItalia parrocchiale e borghese degli anni 50 e 60. Forte il PCI nelItalia industrialista e pansindacale degli anni 70. Forte il PSI nellItalia emergente degli anni 80. Poi pi nulla. Non c soggettivit di modernizzazione nei girotondi moralisti, cos come non ve ne in quelli della xenofobia etnoreligiosa o nelle rappresentazioni mediatiche di un ceto che sa identificarsi solo in logiche mutuate dalla pubblicit. Per non parlare poi, naturalmente, dei vecchi mondi in estinzione della borghesia dei salotti, delle rendite corporative, del residuo assistenzialismo pubblico e privato. Insomma, oggi nessun soggetto sociale rappresentato dai partiti incarna le mutazioni avvenute. E finch sar cos, la politica perder sempre pi potere. Nella contemporaneit post moderna di una realt come Milania, infatti, la politica prodotta dalla societ o non . E il blocco sociale che la produce,

diviene egemone nel definire la direzione dello sviluppo di un territorio e di una comunit. La politica tradizionale, ordinata da destra e sinistra e organizzata in sigle, questo sembra non capirlo. Se lo capisse comincerebbe innanzitutto a domandarsi cosa significhino destra e sinistra. A chiedersi se, a parte il riferimento storico, esiste un orientamento culturale per queste due categorie. A chiedersi come mai, nonostante la chiara identit di destra e sinistra appartenga a poco pi del 20% del voto espresso (AN, Rifondazione e altri minuscoli partiti), tutto lo schieramento politico si sente obbligato a schierarsi sul territorio definito da questo binomio. Si potrebbe andare avanti a lungo con domande di questo tipo. Ma le domande fondamentali sono altre. Dov la destra e la sinistra nella paralisi della mobilit? E nella questione Scala? E nelle tematiche del governo metropolitano? Insomma, ora che si capisca che una ferrea divisione destra contro sinistra risulta funzionale solo alla spettacolarizzazione della politica compiuta nei talk show televisivi. La progressiva trasformazione di ogni cosa, anche delle questioni pi complesse, in quella dialettica polarizzata e identitaria che una volta era propria solo della passione calcistica, rappresenta una deriva che render sempre pi difficile governare il processo di cambiamento in cui inserita la societ in cui viviamo. La conseguenza di questo stato di cose, dalla perdita di interesse per linterpretazione sociale allinutile bipolarismo con lelmetto, stata la comparsa di un astensionismo strutturale. Vale qui la pena compiere un approfondimento. Nato a met degli anni ottanta in chiave protestataria, il non voto (cio il non esercitare un diritto che,

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in Italia, sempre stato considerato un dovere) si progressivamente trasformato in una dimensione fisiologica di estraneit a quella politica definita dai partiti e dalle istituzioni elettive. Oggi, infatti, un italiano su tre vive stabilmente fuori dal mercato della politica intermediato dai partiti istituzionalizzati e si mostra insensibile ad ogni strategia volta a farlo rientrare allinterno di questo recinto. Ogni seria analisi sulla trasformazione della politica in Italia, dovrebbe quindi partire dallastensionismo. Invece, si tende a dare per scontata questa lenta e continua erosione del mercato politicopartitico e ci si concentra esclusivamente sulle strategie praticabili sui canali aperti del rapporto partiti-elettori. da questa rinuncia ad occuparsi dellintero corpo elettorale che nascono le strategie volte alla personalizzazione delle leadership, al controllo del cortocircuito politico-mediatico e alla gestione programmatica affidata ai sondaggi dopinione. Tutte strategie che, anzich ridurre, approfondiscono il solco del progressivo distacco tra il sistema dei partiti istituzionalizzati ed il corpo sociale astensionista. Cos, si viene a formare una stabile fascia sociale di mai votanti che d ormai per scontato il fatto che la politica definita dai partiti e dai meccanismi elettorali, non si inserisca pi nella vita concreta delle persone e soprattutto non venga pi percepita come una soggettivit in grado di fornire risposte affidabili e risolutive. Ma attenzione, non il contar meno dei partiti istituzionalizzati la causa dellastensionismo. Gli italiani auspicavano da tempo un, pi o meno forzoso, passo indietro. Tuttavia, nel momento in cui il profilo e gli impegni manifestati dallofferta politica dei partiti rimangono

immutati, il cittadino si sente autorizzato ad aspettarsi quei risultati che la politica, pur non essendo pi in grado di garantire, continua a promettere. questa dinamica palesemente contradditoria (peraltro accentuata dalla scorciatoia berlusconiana di togliere anche il vecchio diaframma linguistico del politichese), a determinare lastensione strutturale. Un fenomeno che si rafforza ulteriormente quando constatiamo come i partiti non riportino minimamente, nelle categorie proposte ai cittadini, la trasformazione della vita civile in senso individualizzato e globalizzato. Lofferta politica dei partiti , infatti, compattamente rimasta ancorata alla proposta di categorie collettive: da un generico riferimento ad un bene comune di cui, con la caduta ideocratica e teocratica, si smarrita totalmente la direzione, ad un dialogo con la societ centrato esclusivamente sui corpi intermedi (associazioni, sindacati e, sul piano esistenziale, la famiglia). Non vi la bench minima presa datto, nel sistema partitico-istituzionale, del fatto che lattuale momento storico vede i cittadini, pi o meno volontariamente, immersi in una condizione esistenziale individualizzata nei diritti, nei doveri e nelle opportunit. Come si gi detto, non si tratta di una ideologia dellindividualismo, cio di un processo voluto e ricercato dai cittadini, ma di una condizione reale individualizzata che prevalentemente viene subita e genera un disorientamento a cui nessun soggetto politico prova a fornire risposta. Su questo fenomeno, poi, agisce con forza la globalizzazione che, rompendo le classiche aggregazioni di tipo territoriale, rafforza ulteriormente il processo di individualizzazione con la formazione di identit

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funzionali che svuotano di senso quelle di tipo territoriale. Quindi, finch lofferta politica continuer a proporre categorie valoriali di tipo collettivo senza dialogare realmente con lindividuo ed a persistere sulla conservazione di identit solo territoriali, il fenomeno strutturale dellastensionismo continuer a progredire, determinando una sempre pi forte percezione di inutilit della politica globalmente intesa. Come si pu affrontare questa tendenza? Posto che inimmaginabile che la politica recuperi il potere percorrendo a ritroso le strade che, in questi ultimi quindici anni, lhanno portata a perderlo o a delegarlo, lunica strada percorribile ricercare un ruolo attraverso la capacit di incarnare maggiormente lo spirito dei tempi. Quindi, a Milania, la politica ed i suoi luoghi istituzionali possono riacquistare ruolo solo se smettono di chiedersi cosa Milano (i suoi confini, le dinamiche dei suoi poteri tradizionali, i suoi elettori ed i suoi eletti) e cominciano a capire meglio chi fa Milania, cio le sue reti di successo, le sue comunit di pratica e le sue nuove soggettivit protagoniste. Se la politica riesce a fare rete con queste realt, allora, oltre ad accompagnare il successo della citt, pu seriamente pensare di trovare linee di soluzione condivise sui problemi contingenti e strutturali. Ma, finora, nessun partito strutturato ritiene che la politica debba prodursi naturalmente (e vorrei dire anche: caoticamente) attraverso il vicendevole contaminarsi dei soggetti che compongono le reti della modernizzazione sociale. A Milania, invece, la comunit politicoistituzionale, se vuole giocare un ruolo, deve fare proprio questo.

E se, invece, dai bacini tradizionali della politica (quei corpi intermedi rappresentati da partiti, sindacati e associazioni), continuer a non uscire alcuna presa di consapevolezza di queste mutazioni, allora il destino della politica, almeno a Milania, sar affidato allazione di uomini che decideranno non di entrare in politica, ma di fare politica dalle posizioni dei loro singoli ruoli. Questa azione, se sapr incarnarsi in issues concrete (dalla paralisi della mobilit alla trasformazione del welfare), potr portare ad identificare nuove e pi adeguate forme politiche. In definitiva, quindi, possiamo affermare che la capacit di preservare ruolo alla politica, uneventualit che dipende solo dalla sua classe dirigente. Lunica certezza che Milano ormai dietro le nostre spalle e che Milania c.

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EMANUELE SEVERINO
Emanuele Severino, 75 anni, uno dei massimi filosofi viventi. Lo abbiamo incontrato perch riteniamo che alcune delle sue categorie concettuali siano fondamentali anche per capire il rapporto che intercorre tra Citt, Tecnica e Valori. Insomma, la sua Tchne serve anche per arrivare a Milania. Alessandro Aleotti: Professore, lei sostenitore di una teoria forte, cio quella che vede nella Tecnica la rappresentazione di un nuovo Dio. Cio, una realt sovraordinata rispetto ai sistemi economici, sociali e politici storicamente determinati. Facciamo innanzitutto un po di chiarezza terminologica rispetto a una parola che nelluso corrente si presta a molteplici significati. Che cosa intende lei per Tecnica? Emanuele Severino: Innanzitutto, quando parlo di civilt della Tecnica parlo di una tendenza, non di una realt gi storicamente affermata, poich oggi vi sono ancora molte forze che a questo predominio della Tecnica si oppongono. Quali sono i motori portanti di questa tendenza? Penso innanzitutto allapparato telematico e informatico. Il grande sistema delle reti, la principale delle quali quella rappresentata dai mass media. Un sistema che rappresenta con evidenza lidea di una Tecnica che mira a valori inclusivi, come appunto la circolazione delle informazioni e della conoscenza, ponendosi lobiettivo di eliminare la scarsit. In questo la societ della Tecnica antagonista

I DIALOGHI DI MILANIA

Emanuele Severino Giulio Giorello Piero Bassetti Salvatore Veca Giulio Sapelli

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rispetto al sistema capitalistico che fonda la propria ragion dessere proprio sulla scarsit dei beni. Occorre tuttavia capire che la civilt della Tecnica un sistema costruito da tanti sottosistemi, come ad esempio il capitalismo e il cristianesimo, che da sistemi finalistici in cui la Tecnica era uno strumento, sono destinati a divenire sistemi strumentali alla Tecnica. Ma dovendo definire una punta avanzata della societ della Tecnica, lei quale esempio storicamente definito descriverebbe? Probabilmente lesempio pi eclatante della societ della Tecnica si avuto nel periodo che va dalla guerra fredda alla caduta del muro di Berlino, dove due blocchi politico-economici competevano per una potenza alla quale erano disposti a sacrificare molto del loro apparato ideologico. In questo modo la potenza, realizzata attraverso la Tecnica, ha fatto s che la Tecnica da strumento diventasse scopo. E i protagonisti di questa societ della Tecnica sono gli scienziati e i tecnologi? Non solo. Certamente il tecnologo, cos come gli individui in generale, sono elementi della societ della Tecnica, la cui direzione tuttavia determinata dalla cultura e dai valori dominanti. E quali sono i valori dominanti nella societ della Tecnica? La societ della Tecnica non conosce il concetto del limite e quindi i suoi valori sono orientati a unidea di crescita di potenza indefinita. O meglio, i limiti sono storicamente definiti, ma vengono costantemente superati. Non esiste unidea di limite assoluto nella societ della Tecnica. Porre limite alla conoscenza , per la civilt della Tecnica, una contraddizione in termini. Insomma, possiamo

dire che la civilt della Tecnica ha come valore ultimo una tendenza egemonica rappresentata dal concetto di volont di potenza. Tutti i sistemi hanno un sistema di valori siffatto, cio orientato ad una progressiva egemonia. Quello che noi consideriamo il valore interno ai diversi sistemi, cio quello scritto nei libri sacri delle religioni o nei testi teorici delle grandi ideologie, altro non che lo strumento per raggiungere una posizione di dominio. Lei ha detto che la Tecnica destinata a diventare scopo. In che modo? Se un sistema, pensiamo ad esempio al cristianesimo, tiene fermi i suoi valori finalistici, risulter ben presto sconfitto rispetto ad un sistema pi disponibile a farsi strumento della Tecnica. La Tecnica oggi infatti ci che determina legemonia di un sistema sullaltro. Per questo essa da strumento originario destinato a diventare scopo. Su quali basi filosofiche poggia questa sua teoria dellavvento di una civilt della Tecnica? Ormai evidente a tutta la comunit di pensiero che gli ultimi due secoli hanno segnato la definitiva scomparsa dellordinato impianto teorico universale che traeva la propria forza dal mito e dalla religione. La morte di Dio e della Verit diventato un fatto ormai assodato dalla comunit filosofica. La voce della filosofia degli ultimi due secoli il pensiero che accompagna questa scomparsa, riuscendo anche in taluni casi penso a Leopardi e a Nietzsche a non limitarsi al lutto, ma a scavare nel sottosuolo del pensiero per ritrovare la verit. Guardandosi intorno, infatti, non pare di scorgere pensieri e teorie in grado di dare una risposta alla morte di Dio. E vero. C chi si

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dispera della morte di Dio perch esso rappresentava il primo alleato nella costruzione di un sistema, in qualche modo la prima vera Tecnica. E poi e penso soprattutto al pensiero anglosassone c chi cerca di minimizzare questa morte, elencando i vantaggi che luomo pu ottenere. Pochi si interrogano sul dopo. Perch? Perch nel dopo tutti vedono solo il nulla. Apparirebbe allora utile cercare di costruire, intorno alla civilt della Tecnica, valori che, seppur nella provvisoriet, diano un senso allesistenza delluomo. Se non altro per uscire dallangoscia determinata dalla morte di Dio. Forse vero che la sopravvivenza delluomo contemporaneo determinata dalla forza delle sue illusioni. Ma non dobbiamo nasconderci per che lillusione destinata a farsi bucare dalla forza sotterranea rappresentata da ci che essenzialmente siamo. Al fondo c sempre la questione del rapporto delluomo con il nulla. Esatto. E dobbiamo sforzarci di capire cosa questa fede che domina sia la tradizione delloccidente che il suo presente e la sua progressiva entrata nella civilt della Tecnica. Il semplice progetto di dare risposta ai bisogni immediati delluomo, altro non che una droga. Nel guardare negli occhi questo abisso che c nel rapporto tra lessere e il nulla non corriamo il rischio di una disperazione collettiva? E un rischio che, almeno individualmente, possiamo correre. Infatti, anche la pi grande delle illusioni, che quella rappresentata dalla

cieca speranza che Prometeo fornisce ai mortali facendo in loro scomparire lidea della morte, non so se potrebbe rappresentare un sistema convincente e duraturo. Peraltro, come si pu far sparire lidea della morte (cio del nulla), senza far sparire anche lidea delle cose (cio della vita)? Non crede che una fede illusoria sia pi accettabile e produttrice di senso rispetto allangoscia esistenziale di aprire gli occhi di fronte al nulla? Certamente. Per la soluzione dellillusione lunica praticabile solo se si crede che luomo sia destinato al nulla. Altrimenti meglio disincantarlo, a costo di provocargli un passaggio immediato nella disperazione. Ma se la fede delloccidente, sia metafisica che storica, rappresenta unillusione, a che serve il disincanto? Se (e dico se solo per un atto di cortesia determinato dal non poter qui compiutamente dimostrare il perch dovrei dire: poich) non vi alcunch che sia preda del nulla, la verit che tutto eterno, non nel senso delleternit della Tradizione, ma nel senso che queste nostre parole e questo nostro stato spazio-temporale sono eterni. Se (anzi poich) cos , allora pi importante che dilaghi la consapevolezza della nostra eternit o che dilaghi lillusione? Solo se si d per scontato che noi andiamo nel nulla, allora dobbiamo applaudire la cieca speranza e lincessante operare degli uomini pratici che ci allontanano dal dolore. Ma poich tutto eterno, la cosa pi importante per chiunque, anche per la donna che lava i pavimenti, acquistare consapevolezza della propria eternit.

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Come pu venire alla luce questa consapevolezza di una eternit esistenziale? Qui siamo entrati in una zona alta del pensiero e mi permetta allora di esprimermi solo per frammenti. Dire che tutto eterno significa anche dire che la coscienza che tutto eterno ci costituisce. Siamo noi. Forse crediamo di non saperlo, ma lo sappiamo. Altrimenti lumanit si sarebbe suicidata sin dallinizio dei tempi. E io credo che questa domanda di consapevolezza diverr progressivamente pi presente, quanto pi la societ della Tecnica si avviciner al suo stato paradisiaco in cui la scarsit e i vincoli progressivamente scompariranno dalla quotidianit delluomo. Allora, forse, riconosceremo pi facilmente la nostra eternit come verit autentica. Possiamo tradurre questa riflessione in una indicazione utile per coloro che, nella societ contemporanea, organizzano leconomia, la politica, la cultura? Forse s. Possiamo dir loro che assurdo contrastare la tendenza che muove il nostro tempo verso la societ della Tecnica. E chiaro che chi governa fallisce tanto pi quanto pi si sottrae alla tendenza fondamentale del nostro tempo che quella che porta verso la civilt della Tecnica. Ci sono due processi paralleli da seguire. Da un lato lorganizzatore iperpratico deve dire s fino in fondo allavvento dellorganizzazione tecnologica dellesistenza. Dallaltro, gi in atto il processo dellaffiorare di quella verit rappresentata dalla nostra eternit che presente anche nel pi pratico degli uomini. Questa ricerca di verit del singolo pu essere facilitata dal pensiero filosofico, oppure deve essere una scoperta autonoma?

Parlare della verit forse un ostacolo alla sua percezione, anche se il destino rimane assolutamente indecifrabile.

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GIULIO GIORELLO
Giulio Giorello, filosofo della scienza, uno dei principali artefici del dibattito filosofico scientifico della citt. In questo incontro combina le categorie del sapere e della libert per un modello del vivere civico Alessandro Aleotti: La tecnologia circonda il nostro vivere quotidiano e la ricerca scientifica promette molto al nostro futuro. Qual , di fronte a questa realt, il comportamento pi razionale da tenere? Giulio Giorello: Innanzitutto dobbiamo stare lontani dalle visioni estreme della deificazione e della demonizzazione. Bisogna capire che la scienza non solo capacit di comprendere e prevedere, ma anche capacit di intervenire. Se perdiamo di vista la dimensione pratica non si capisce pi nemmeno cosa la scienza. Io la penso come Giordano Bruno che nel suo elogio della mano dice che senza la mano non ci sarebbe nemmeno la speculazione filosofica pi pura e disinteressata. Proprio questa dimensione fattuale sgombera il campo dalle posizioni pi scientiste e ci obbliga a ragionare su un modello scientifico e tecnologico sostenibile Si, ma prima vorrei sfatare quellidea, che definirei superstiziosa, che ritiene la tecnica onnipotente.

Certo, tuttavia se prendiamo ad esempio il caso della medicina o della biologia, lidea di un progresso illimitato sembra possibile. E se da una parte questo rappresenta una grande suggestione, dallaltra rischia di costruire modelli sanitari economicamente non sostenibili o socialmente molto iniqui. Questo un problema vero. Lidea di una medicina che progressivamente vince lo scontro con il tempo allungando la nostra vita media, pone infatti domande importanti in ordine a costi economici, profilo demografico della societ ed altre questioni di fondo. Personalmente non ho risposte da dare, ma inviterei ad avere il coraggio di sapere. Occorre rendersi conto che alcune ricerche di punta in campo sanitario hanno un enorme significato conoscitivo. Pensate a cosa ha voluto dire per lumanit la consapevolezza che dal cancro si pu anche guarire. Peraltro, la sfida continua, basti pensare allinsorgere di malattie nuove e prima sconosciute com accaduto per AIDS e Ebola. Il progresso si avvicina solo asintotticamente alla soluzione e quindi credo che la ricerca debba essere promossa avant tout. La penso ancora con le parole di Giordano Bruno che diceva che senza la ricerca saremmo morti in vita. Ma come possibile pensare che il sapere puro vada avanti illimitatamente, mentre lapplicazione debba rispondere a criteri di responsabilit o di sostenibilit economica? Intanto sbagliato pensare che il sapere puro venga sempre prima dellapplicazione. Molto spesso non succede cos, come ben sanno i fisici e gli ingegneri. E poi credo che il non agire quando si ha il

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potere di agire rappresenti una fuga colpevole dalla responsabilit. Lidea di limitare, o anche semplicemente di orientare dallesterno la direzione della ricerca, una forma di tirannide. Peraltro, citando Popper, non c modo di prevedere dove andr la ricerca scientifica. Quindi ogni tentativo di orientarla dallesterno sciocco o tirannico e comunque destinato alla sconfitta. Credo che anche per la ricerca valga il modello darwiniano in cui gli scopi non rispondono ad un disegno demiurgico. Quindi inutile che la religione, la politica e leconomia vogliano definire gli scopi e i progetti della ricerca. Ma se cos evidente linutilit di porre limiti dallesterno, perch questa richiesta cos fortemente radicata nella nostra societ? Farei un paragone tra la ricerca e la libert. In entrambi i casi molti dei veti di natura religiosa o laica sono un sintomo profondo della paura della libert. Peraltro difficile essere sempre allaltezza della sfida libertaria e cos si contrabbanda per communitas la paura della libert. Lidea comunitarista, oggi tanto in voga, un espediente meschino che manderei volentieri allinferno! O meglio, le comunit si devono scegliere e cambiare senza particolari problemi. Pensate che Stendhal si sentiva appartenere cos poco alla comunit parigina, da definirsi milanese. Insomma, il vincolo comunitario non ha niente a che fare con la comunit scientifica

Esatto. Engels diceva che gli scienziati sono uomini bassi e pieni di passioni terrene e talvolta meschine, che tuttavia riescono a costruire una fondamentale impresa liberante come quella scientifica. Pur depurata dellipocrisia comunitarista, tuttavia la comunit , ad esempio nellanalisi sulla citt, una realt con un valore aggiunto maggiore rispetto alla semplice sommatoria degli individui. In che modo il modello di una citt, e ovviamente parliamo di Milania, pu rappresentare le categorie filosofiche che tu hai fin qui descritto e sostenuto? La citt la sua storia, linsieme di tracce umane che lentamente si sono accavallate. In questo senso la citt di pi degli individui che ci vivono, perch altri ne vivranno. Una concezione filosofica e individualista molto attenta sia alle generazioni passate che sono come dei capitali che ereditiamo, sia a quelle future che sono i nostri figli. Una citt questo legame lo estrinseca nella continuit attraverso generazioni, pur essendo la citt un flusso in continuo mutamento. La consapevolezza di essere dentro a questo flusso pi che sufficiente a dare la forza di essere un cittadino e di sentirsi solidale con gli altri. Lo dico con le parole del poema babilonese conosciuto come la saga di Gilgamesh se io aiuto te e tu aiuti me, chi ci potr mai sconfiggere?. Naturalmente occorre eliminare quello stupido equivoco, tipico di una certa nostra cultura, che associa lindividualismo e lutilitarismo allegoismo. Basterebbe rileggere due grandi utilitaristi italiani come Beccaria e Cattaneo per capire che cos non .

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Bella questa proposta identitaria per la citt! Qualcuno per la potrebbe leggere in chiave etnocentrica. Tuttaltro. Io penso a una citt che cambia continuamente ed in cui persistono stabilmente alcune forme. Esattamente come accade per il nostro corpo. Questo per richiede innanzitutto la memoria. Una memoria da esercitare per il passato, ma anche per il futuro perch queste identit sono mobili ed ogni giorno sono uguali e diverse tra loro. La nostra identit, in ultima analisi, risiede in un gruppo di persone che vivono insieme ed hanno interessi ed affetti comuni. Fuori da questo lidentit diventa tirannia. Concludiamo questo nostro incontro che si mosso tra lidea del sapere e quella della citt, con un concretissimo salto in avanti: come possibile rendere pi produttiva quella vocazione al sapere puro ed applicato che gi oggi presente a Milano? Il legame tra cultura e citt un legame antichissimo. Sulle mura che cingevano le prime citt-stato della Mesopotamia venivano incise le loro leggi, i racconti delle loro avventure e la matematica. Esiste quindi da sempre un legame fortissimo tra la tecnica della citt e la cultura della citt. Dovremmo recuperare questo spirito attraverso una maggiore integrazione culturale della citt, partendo proprio dalle universit e dalle altre sue istituzioni scientifiche. E a che punto questa integrazione? Molto basso direi. Pensate che pi facile oggi per uno studente della Statale sostenere un esame a Barcellona che al Politecnico! C un soggetto principalmente deputato a questo compito di fare rete o si deve immaginare un processo diffuso?

Credo che tutti i cittadini debbano sentire questa responsabilit. Occorre riscoprire lorgoglio di essere cittadino. Chi non lo sente meglio che torni in campagna compiendo il percorso inverso rispetto a quello del Medioevo, quando si pensava che laria di citt rende liberi. Solo se ogni cittadino possiede una volont di cambiamento combinata con la capacit di gestire la tecnica, allora la citt si trasforma, a prescindere da chi la governa.

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PIERO BASSETTI
Piero Bassetti, primo presidente della Regione Lombardia e per 15 anni alla guida del sistema camerale, una delle nostre principali fonti di ispirazione teorica e analitica. Qui facciamo con lui il punto sulle nuove categorie milaniesi della citt. Alessandro Aleotti: Questa conversazione vuole dimostrare che il concetto di citt di fronte ad un cambiamento epocale. Piero Bassetti: Noi abbiamo conosciuto la citt come luogo dellorganizzazione della polis. Un fenomeno quindi legato alla stanzialit e al controllo del territorio. Tutti noi siamo finora stati abituati a considerare la citt come un luogo fisico da cercare sulla carta geografica. E cosa successo che ha cambiato questo quadro? Una rivoluzione cosmologica che ha portato ad un annullamento del tempo e dello spazio determinato dalle nuove tecnologie della mobilit. Forse non ce ne rendiamo conto, ma stiamo vivendo unepoca di trasformazione pari a quella che ha visto il passaggio dal nomadismo allagricoltura. Una rivoluzione molto pi importante dellinvenzione della scrittura. Facciamo allora un po di storia di questa tecnica della mobilit. Premesso che la mobilit sempre esistita, noi qui parliamo della tecnica della comunicazione relazionale. Tecnica che inizialmente si costituita su un luogo fisico, lAgor, volto a determinare le

relazioni. Quindi questa tecnica evoluta verso distanze percorribili dalluomo con il supporto del cavallo. Poi arrivata la mobilit del segno che, con poste efficienti e infrastrutture viarie , ha fatto s che Roma potesse trascendere il concetto di citt spaziale, per entrare in quello di statualit. Questa tecnica resistita fino allattuale cosmologia caratterizzata dallazzeramento dello spazio-tempo generato dai media virtuali, prima telefonici poi televisivi e telematici. Quindi, in questa nuova cosmologia le relazioni tra le persone non si organizzano pi intorno alla stanzialit di un luogo fisico? Esatto. Le relazioni sono oggi determinate dalla partecipazione a quelle funzioni che si concretizzano nella mobilit. E chiaro che in questo quadro, la vecchia idea della citt che ospita semplicemente i terminali delle funzioni sul suo territorio, deve essere sostituita con lidea di citt che raccorda le funzioni tra di loro costruendo le reti ed inventando le modalit di partecipazione al controllo di questo insieme di funzioni. Esempi di queste transizioni avvenute? Los Angeles e New York. La prima cresciuta orizzontalmente grazie alla tecnica dellautomobile. La seconda cresciuta verticalmente grazie alla tecnica del telefono. Oggi stiamo entrando nellera della citt telematica? Proprio cos. Oggi dobbiamo riflettere sulla citt del web. E questa si realizzer compiutamente, proprio partendo da quelle citt che sono pi in difficolt con le tecnologie precedenti, essenzialmente di natura meccanica.

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A giudicare dalla paralisi della mobilit, Milano ha quindi molte possibilit Certo pi di Londra e Parigi che, essendo meglio organizzate, tendono ad un conservatorismo strutturale di una situazione considerata soddisfacente. Andiamo verso lidea di una citt senza territorio? S. In questo senso Singapore e Hong Kong rappresentano i paradigmi di riferimento. E Milano deve cavalcare questa nuova tchne nellorganizzare il rapporto tra le funzioni e il territorio. Oggi la dotazione di infrastrutture tecnologiche - penso al cablaggio risponde ancora a logiche territoriali che non permettono il dispiegarsi dei nessi funzionali. Milano stata finora in grado di connettere funzioni con il territorio usando le reti naturali, come nel caso del quadrilatero della moda, e quelle fisiche, come nel caso della Fiera, ma non ancora stata in grado di connettere le reti telematiche alle funzioni di sviluppo. Questo non sembra dipendere per da un ritardo sulle infrastrutture tecnologiche. Milano una delle citt pi cablate nel mondo. Oggi a Milano palese la discrasia fra il quantum di innovazione tecnologica immessa e la capacit di guidare laggiornamento del suo modo di essere community. Devo dire che questo progetto Milania, cui anche io partecipo con interesse, pone correttamente la questione dellaggiornamento della citt, proprio perch comincia con il mettere in discussione il nome della citt. Dare nome alle cose linizio dellidentit e significa non riconoscersi pi in quella

vecchia. Il nome di una citt il modo di fare intendere il luogo. Definirsi con un nome aperto come Milania, non presente come punto sulla carta geografica, il segno di una diversa concezione del luogo. Lincertezza della collocazione spaziale di Milania vuole produrre una diaspora dellidentit che rappresenti la definizione pi avanzata di ci che ieri era Milano. Ma alla naturale richiesta di luogo come possiamo rispondere? Una rete non un luogo. Ma possibile invece essere un luogo costituito da reti, cio un nodo. Essere un nodo della rete globale la sfida che ci imposta dalla nuova tecnica della mobilit. Poich questa nuova cosmologia ha cambiato il linguaggio relazionale, sostituendo la mobilit alla stanzialit e le reti alla prossimit, viene messa in discussione lontologia dellessere citt. Noi siamo sfidati a reinventare il funzionamento e il senso stesso della citt. Se la citt caratterizzata dallevoluzione di questa tecnologia comunicativa, qual levoluzione del funzionamento della comunit? Il trasferimento di primato. Mentre prima il modo di organizzare le reti di relazione dipendeva dal modo in cui si organizzava il territorio, oggi siamo sfidati ad organizzare il territorio in base a come abbiamo organizzato le funzioni. Qui sta il tema della ridefinizione di Milano. Si rovesciata la centralit: dal territorio alla funzione. Milano, senza rendersene conto, gi cos da un decennio. Fiera, cablaggio, passante, policentrismo urbano, sono tutti elementi realizzati che indicano che questa rivoluzione gi avvenuta.

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Ma quale spazio rimane alla politica come espressione della volont collettiva, di fronte al determinismo delle scelte generate dalle funzioni di interessi? Non dobbiamo pensare che questi cambiamenti non siano politica. Semplicemente si muovono i luoghi della politica. In un mondo in cui le logiche cambiano, anche i luoghi si spostano. quindi patetica lillusione di mantenere i luoghi del passato. Milano, non potendo essere capitale politica, si era inventata il titolo di capitale morale da cui scaturivano le scelte delleconomia. Questo ha retto fino a quando ci si resi conto che leconomia si slegata dal rapporto con il territorio con la delocalizzazione e le nuove tecnologie, e quindi non poteva pi racchiudere le sue decisioni in un luogo definito come Milano. A questo, Milano ha reagito con alcuni colpi di genio rappresentati dal tentativo di essere il polo di alcune funzioni come la moda e la lirica, ma deve trovare ancora una strategia generale. Non voglio per eludere la domanda sullo spazio della politica e dico che fare politica oggi significa riuscire a trovare i linguaggi di una soggettivit civile in grado di condizionare i determinismi che la attraversano. Questa oggi la politica.

SALVATORE VECA
Preside della facolt di Scienze Politiche allUniversit di Pavia, Salvatore Veca uno dei pi autorevoli filosofi della politica del nostro paese. La nostra sintonia sulle analisi e sulle categorie di riferimento, fa s che Veca, nel nostro dialogo, usi il termine Milania con assoluta libert. Alessandro Aleotti: la globalizzazione ha avuto un impatto molto forte sulla vita della citt. Non sempre agevole inserire i fenomeni globali nella dimensione locale. Qual la tua riflessione in proposito? Salvatore Veca: dal punto di vista analitico direi innanzitutto che la globalizzazione un processo che investe la realt in maniera diversificata. Molto forte la penetrazione della globalizzazione nellambito finanziario, comunicativo e tecnologico, mentre meno forte lo , ad esempio, nel lavoro. Quindi se la globalizzazione pi cose, anche i suoi effetti saranno pi di uno. Questo importante capirlo nel momento in cui si definiscono le politiche di tipo glocalistico, altrimenti rischiamo atteggiamenti fondamentalisti, sia pro che contro, che producono effetti perversi. Quali sono questi effetti perversi? Bisogna pensare che la globalizzazione, come tutti i processi che alterano il quadro che ci familiare, porta a condurre quelle frazioni

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di popolazioni che si percepiscono come vulnerabili, ad assicurarsi contro il rischio. E da qui nascono le risposte identitarie, tribali e padaniste Esatto, ma importante capire che queste risposte non sono irrazionali. Non sono quattro matti che si inventano la Padania. Si tratta di un aggregato sociale, il cui orizzonte di vita essenzialmente stanziale, che percepisce la globalizzazione come una minaccia. Viceversa ci sono segmenti di popolazione, di caratteristiche opposte, che vivono la globalizzazione come unenorme opportunit. Esatto. Questo ci conferma che ci troviamo di fronte a segmenti di popolazioni differenti che contemporaneamente insistono su quellintorno fisico e simbolico che chiamiamo Milania. Ma questa segmentazione rappresenta una fase di passaggio verso una progressiva omogeneizzazione, oppure lantagonismo di alcuni segmenti sociali nei confronti della globalizzazione un dato strutturale? Nulla sta mai fermo. Tuttavia lanalisi ad oggi ci dice che abbiamo a che fare con diverse trib. Per capire se verr meno la distanza tra questi pezzi di popolazione, occorrer vedere quali politiche di apprendimento verranno messe in campo. La politica avr un ruolo cos determinante? Precisiamo. La politica oggi non definisce certo i valori della societ, tuttavia pu generare le condizioni perch insorgano processi progressivi che potremmo intitolare: Imparare a convivere con la globalizzazione e non esserne cos infelici. Oggi il quadro ci dice

che abbiamo: da una parte chi vive male la globalizzazione perch ad essa imputa la cancellazione di forme di vita tradizionale e dallaltra parte troviamo invece un entusiasmo e una mobilitazione valoriale nei confronti degli ambiti di possibilit che la globalizzazione tende a dilatare. Quindi, da un lato la voglia di chiudersi e dallaltro quella di aprirsi. Che effetti produce il quadro fin qui descritto? Innanzitutto la trasformazione della citt, dove per citt intendo Milania non Milano. La base di partenza luscita dal modello di citt industriale. Una realt che aveva modellato gli usi della citt, i suoi tempi, la sua forma e soprattutto il rapporto tra ci che era dentro e ci che era fuori dalla citt. Non dico nulla di nuovo, ma questo il punto di partenza fondamentale della nostra analisi. Gli assetti glocali di Milania nascono dalla trasformazione di questa struttura. Questo sul piano strutturale, ma che conseguenze abbiamo sulla dimensione individuale? Certamente il fatto che le persone si percepiscono come pi sole. Queste trasformazioni, infatti, prima di tutto recidono i vecchi legami e quindi portano ad una condizione di solitudine non voluta. E qui rinasce la prima esigenza sociale delle persone che quella di cercar compagnia. E chi sono i soggetti che offrono compagnia a questi nuovi animali sociali? A Milano (e non a Milania) questa compagnia veniva costruita da chi offriva loro unidentit collettiva sul piano religioso, politico e degli

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interessi. Quindi, la Chiesa, il Partito, il Sindacato, lAssociazione di interessi. Non un caso che nella trasformazione da Milano a Milania, siano proprio questi soggetti ad entrare pi in crisi. E a Milania, invece, questa domanda di compagnia da chi viene soddisfatta? Da chi in grado di offrire rete, ma soprattutto da quegli effetti della globalizzazione che distribuiscono compagnia. Pensiamo al grande commuting relazionale determinato dallesplosione degli spostamenti sia fisici che virtuali, oppure al ruolo di socialit svolto, intorno al gesto simbolico del comprare oggetti di riconoscimento, dai grandi ipermercati. Torniamo alla risposta offerta dalle reti Innanzitutto occorre dire che lofferta di rete aiuta le persone a definire il proprio capitale sociale che non necessariamente di tipo economico. proprio questa definizione consapevole delle proprie risorse che, essendo un elemento che permette di essere riconosciuti da altri, determina una prima risposta efficace a quel bisogno di compagnia determinato dalla rottura delle vecchie filiere identitarie. In che cosa differiscono le nuove reti dellassociarsi da quelle tradizionali? Il nostro sistema associazionistico tradizionale si sempre denominato politicamente, mentre il nuovo sistema dellassociarsi prescinde dalla logica e dalla denominazione politica.

In che relazione sta questa domanda di compagnia con la domanda di senso o, usando un termine pi laico, di identit? Si tratta di due aspetti distinti, ma tra loro dipendenti. In uno spazio sociale, innanzitutto si ha unassegnazione di identit e solo dopo che questa definizione identitaria divenuta stabile, allora si pu avere una definizione degli interessi di una persona. Non un caso infatti che dopo il 1989 (che utilizziamo come spartiacque tra il sistema tradizionale e quello globalizzato) i conflitti prevalenti non siano pi redistributivi (che presuppongono una definizione stabilizzata delle identit), bens etnico-religiosi, cio identitari. Perch saltano le identit? Lidentit presuppone criteri di stabilit nei riconoscimenti e quindi nella possibilit di dare i nomi alle cose. il primo potere che Dio diede ad Abramo, quello di nominare le cose e quindi di definire le gerarchie. Esatto. Le identit sono quindi i nomi sociali che noi abbiamo per non perderci nel tempo. Ma quando questi quadri identitari non corrispondono pi alla realt, allora i conflitti si spostano dagli interessi alle identit. Infatti, io posso capire il mio interesse solo se ho ben chiaro chi sono. Entrando in crisi lidentit, entra in crisi anche lapparato ideologico che definiva i singoli comportamenti degli individui, sia per rafforzarne la coesione che per sottrarre al singolo il giudizio in virt del principio identitario per cui qualunque cosa tattica rispetto alla strategia generale.

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Possiamo pensare che la scomparsa delle identit tradizionali possa lasciare il posto ad un quadro articolato su un sistema di pluriappartenenze identitarie? La pluriappartenenza esiste da sempre ed essa non ci genera conflitti, se non quando arriva unonda di cambiamento che ci impone di scegliere la gerarchia delle nostre appartenenze. Quando, ad esempio, dobbiamo scegliere una soluzione che pu essere diversa a secondo della nostra appartenenza religiosa, politica, sociale, etc, allora occorre gerarchizzare le nostre appartenenze per trovare una soddisfazione identitaria. Guardando le cose in questo modo viene fuori che andare agli ipermercati o chattare in rete sono modi in cui lindividuo cerca di condividere con altri la propria domanda di identit. Ma dove e chi ordina la scala di valore identitaria di questi processi? Trentanni fa avrei potuto rispondere: la politica. Essa infatti portava a sintesi per mediazione e compromesso o per riaggregazione degli interessi. Tutti riconoscevano che la politica aveva il compito di disegnare i quadri su cui la societ si sarebbe dovuta muovere. Oggi, invece, il sistema delle priorit qualcosa che ha a che vedere con i processi di insorgenza dove prevale la rete rispetto alla piramide. Che ruolo pu ancora avere la politica? La politica oggi non cambia pi la societ, ma viene in seconda battuta. Conseguentemente non deve darsi pi lobiettivo di

produrre il bene, ma semmai deve cercare di ridurre il male, inteso come disagio di vario genere. Quanto conta, in questo ritardo della politica, il persistere di una divisione storicamente superata come quella destra-sinistra? Certamente il passato, prima o poi, passer. Il problema che lindistinguibilit programmatica puntella le categorie identitarie della divisione che sono, ancora oggi, incardinate sul riferimento alle culture di derivazione marxista e nazionalista. Tuttavia, se il sistema politico vuole restare in sintonia con il cambiamento sociale, dovr velocizzare la scomparsa di questo passato, altrimenti giunger a suicidarsi per autoreferenzialit. Anche lEuropa un vincolo che aiuta questo cambiamento. Certamente s. Peraltro il sintomo pi evidente di questa necessit di aggiornamento il fatto che la capacit di distinzione della politica sia oggi molto pi affidata alla litigiosit rispetto che alle cose effettivamente fatte. Tuttavia, i modi di governare hanno ancora un ruolo. Per, innanzitutto occorre aggiornare i mezzi per governare. Se, ad esempio, dopo venticinque anni di assoluta evidenza si fosse fatto qualcosa per superare quellassurdo anacronismo rappresentato dallangusta definizione amministrativa del Comune di Milano, qualche passo in avanti verso Milania la politica avrebbe potuto realizzarlo. E effettivamente un paradosso che questioni ormai assodate da decenni continuino ad essere un elemento ancora da fare ma torniamo a temi pi interessanti. Se chiaro quale fosse il

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cemento collettivo della Milano industriale, cerchiamo allora di descrivere quale sar quello della post-Milano, cio di Milania. Governando Milano come Milano e non come Milania, non si risponde alla frammentazione sociale, si incentiva lapatia e lo scetticismo e si mantengono le persone distanti dal loro livello di governo locale. Viceversa, ad esempio a Londra, pur essendo lunica competenza del Sindaco quello del trasporto metropolitano, Ken il rosso (Ken Livingstone il sindaco di Londra ndr) fornisce ai londinesi una forte carica identitaria. Non mi pare che questo si possa dire per Milano, dove peraltro il Sindaco ha molte pi competenze amministrative. Perch questo? Non certo perch Londra sia meno globalizzata! Il problema che se non si in grado di dare un contesto adeguato al cambiamento, sia da un punto di vista culturale che istituzionale, allora la conseguenza sar una fuga dalla modernit che rischia di desertificare la citt. Spiegati meglio. semplice. Chi si percepisce svantaggiato dalla globalizzazione tende a rifiutare lappartenenza alla nuova citt. Ma anche chi ne avvantaggiato, se non ha con la citt una comunit di destino, tende a rifiutare la nuova citt. Una volta, infatti, la comunit avvantaggiata della Milano industrialista, pensiamo alla borghesia produttiva, aveva a cuore il funzionamento della citt anche nei suoi aspetti minuti, poich ne condivideva i destini perch aveva la fabbrica nella cintura periferica e i figli che andavano a scuola in centro. Oggi non pi cos.

A quale logica deve rispondere quindi un ridisegno dei livelli di governance del territorio? Occorre distribuire le funzioni in modo tale che, allinterno della grande area metropolitana, possano venir soddisfatti alcuni bisogni, il primo dei quali quello della mobilit declinata in tutti i suoi aspetti. Naturalmente occorre un punto attrattore di questo disegno che, seppur in una chiave non gerarchizzata, dovrebbe essere rappresentato dallAutorit Metropolitana. Il compito di questa Autorit deve essere essenzialmente quello di far divenire convergenti quelle aspettative che oggi sono frammentate e divergenti. Verso cosa queste aspettative dovranno convergere? Non certo sui fini ultimi o gli scopi esistenziali. Lasciamo ad ognuno il proprio Dio ed i propri miti. Dobbiamo viceversa far convergere le aspettative su quellintorno civile entro cui ognuno pu svolgere al meglio il proprio compito esistenziale. Questo per il piano istituzionale, mentre invece sul piano culturale quali strategie possono portare a questa convergenza di aspettative? Occorre che il sistema del sapere, in primo luogo quello universitario, sia in grado di assumere una visione da soggetto protagonista. Ma questo ruolo luniversit deve saperselo prendere con orgoglio, non solo lamentandosi perch nessuno glielo vuole dare. Oggi la verit che il sistema dei saperi ha assunto quella centralit che apparteneva alla fabbrica, quindi non vedo perch le universit non debbano essere protagoniste allo stesso modo in cui lo

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erano le fabbriche. Cos come i protagonisti di Milano erano collegati alla fabbrica, i protagonisti di Milania dovranno essere collegati alluniversit. La comunit delle fabbriche, per, maneggiava quattrini, mentre quella delle universit maneggia solo idee. S, ma queste idee hanno oggi talmente tante ricadute economiche che non possono assolutamente venire trascurate. Il produttore di idee e conoscenza, nella societ post-industriale, uno degli elementi del capitale. Se sparissero i centri di ricerca, dopo poco morirebbe la nostra economia.

GIULIO SAPELLI
Giulio Sapelli uno dei pi autorevoli storici delleconomia del nostro paese. Vivendo ed insegnando a Milano ( professore ordinario alla Statale), manifesta chiavi di lettura appassionate ed originali sulle dinamiche della citt. Alessandro Aleotti: cosa vede locchio lungo dello storico nella realt milanese di oggi? Giulio Sapelli: credo si possa affermare che, negli ultimi due secoli, Milano non ha significativamente mutato la sua posizione nel quadro nazionale ed internazionale. Direi che ai progressi economici hanno fatto da contrappeso gli arretramenti sul piano culturale. Questo fenomeno appare evidente e continuo nel passaggio dalla Milano spagnola a quella asburgica e poi a quella dello Stato italiano. Questa asincronia tra economia e cultura sembra essere una caratteristica della nostra classe dirigente milanese. Purtroppo s. Milano soffre di un dualismo, quasi freudiano, che le impedisce di coniugare economia e cultura. Questa anomalia milanese uno dei grandi freni della citt. Le classi dirigenti milanesi, al di fuori dellindustria, hanno al massimo saputo produrre un sovversivismo, interessante sul piano sociologico, ma poco coerente con il ruolo della citt. Oggi la citt come presidia la sua dimensione culturale?

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Male. Milano, sul piano culturale, non ha alcun centro di reale avanguardia. Anche la Scala, in realt, un fenomeno che esiste solo nellimmaginario artistico delle classi medie incolte del mondo. Nel landscape artistico e culturale la Scala una produttrice di soap opera. Possiamo ancora oggi, per leggere Milano, usare una chiave di lettura della classe dirigente fondata sulla borghesia? Mah, il ruolo storico della borghesia milanese stato sicuramente sopravvalutato. In realt, la citt ha storicamente avuto il patriziato allorigine dei suoi cambiamenti e i ceti della rendita improduttiva alla base del suo potere reale. Oggi, per, la lettura di classe non pi utilizzabile e va sostituita con le dinamiche dei quasi gruppi: n classi, n ceti. Di cosa si tratta? Bisogna pensare a realt molto fluide, come le comunit professionali o quelle virtuali. Uno dei migliori esempi la comunit milanese che ruota intorno allInformation Technology, realt di cui Milano uno dei punti nodali. Tuttavia, ci che colpisce di questo fenomeno lestrema alveolarit di queste comunit. Anche laddove esse sono rilevanti, come nellITC, non riescono a costruire rete con il resto della citt. Questo non vale solo per le comunit privatistiche, ma anche per quelle di servizio. Se pensiamo che i milanesi non hanno ancora nemmeno scoperto di avere il Passante ferroviario, ci possiamo rendere conto di come questa citt viva totalmente per compartimenti stagni. Perch succede questo?

Innanzitutto perch la cultura della rete si scontra frontalmente con quellatomismo individualistico che oggi la caratteristica pi evidente della citt. Poi anche perch il principale aggregato sociale della citt, cio la sua classe media impiegatizia, un soggetto melmoso, sonnolento e burocratico. Insomma, il tanto blandito ceto medio un elemento di rallentamento della citt. Il ceto medio milanese esprime prevalentemente il capitale improduttivo e la rendita: impiego pubblico, banche, immobili. Tra laltro non possiede una consapevolezza identitaria e anche quando ce lha pensiamo alle partite iva ne ha una visione molto mistificata. Si tratta di una sorta di folla solitaria senza particolari prospettive. Peraltro, occorre dire che la citt produce anche contrappesi rispetto al ceto medio appena descritto. Penso al volontariato e ai fenomeni aggregativi tra imprese che nascono su una matrice non economica, come la Compagnia delle Opere. Per esiste anche un altro ceto medio che non possiamo definire tout court improduttivo. Penso alla grande quantit di giovani quadri dirigenziali dellimpresa privata. Che opinione hai di questi soggetti? Non positiva. Penso che occorra favorire un processo di deistituzionalizzazione di questo ceto. Si tratta di persone che si percepiscono come scolarizzate e adatte allimpresa per il solo fatto di aver frequentato la Bocconi. Perch ce lhai con la Bocconi?

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Perch produce mostri. Pensiamo ai figli degli imprenditori: non lavorano pi in fabbrica, non conoscono i fenomeni produttivi dimpresa, ma pensano di continuare lindustria laureandosi in marketing alla Bocconi. Non c bisogno di questo tipo di laureati. Occorre far riprendere ai giovani il contatto con la pratica e soprattutto eliminare la stratificazione di status che si viene a creare con un certo tipo di formazione. Naturalmente, quando parlo della Bocconi non intendo riferirmi al caso specifico, ma ad una tendenza in atto nellintero sistema formativo per limpresa. Insomma, la fornitura di una classe dirigente di massa un ossimoro? Pensare di formare classe dirigente attraverso listituzionalizzazione fornita da poteri separati come le universit, stato un grave errore. Anche perch non si risolto, a monte, il problema di chi forma il formatore. Per esprimere con una battuta ci che io penso e riprendendo lesempio della Bocconi, direi che finch il Rettore della Bocconi non sar un filosofo come Emanuele Severino, non possiamo pensare di produrre classe dirigente semplicemente attraverso la laurea. Torniamo alla citt e alle sue reti. Come mai la politica milanese non riesce a fare sintesi ed interconnettere questa ricchezza di comunit professionali che Milano possiede? La politica essenzialmente il frutto della societ. Milano non ha una disprezzabile societ politica, intendendo con questo termine non tanto ci che sta nei partiti, ma soprattutto la realt dei movimenti, delle associazioni, dello sport, delle comunit di fede.

E come mai questa politica allargata non produce grandi risultati? Perch la verit che in Italia non abbiamo mai avuto, salvo in una maniera tuttaltro che apprezzabile con i comunisti e i fascisti, partiti che istituzionalizzavano la politica. I nostri partiti sono stati grandi integratori di massa solo attraverso i meccanismi del clientelismo. Quindi, se consideriamo lessenza costituzionale della politica nella sua capacit di autonomizzarsi dagli interessi particolari, noi dobbiamo purtroppo constatare come questa realt non si sia mai realizzata nel nostro paese e quindi nemmeno a Milano. Quindi non c alcuna speranza di buon governo? Certamente non attraverso i partiti. Credo che lunica strada sia quella delle autonomie funzionali, cio strutture sottratte al suffragio universale che, insieme a delle magistrature indipendenti come le Authorities, possano guidare i diversi ambiti del viver civile. E come funzionano le autonomie funzionali? Innanzitutto devono potersi fondare su meccanismi di unanimit e non reintrodurre al loro interno il germe partitico delle maggioranze. Per, gli esempi che conosciamo, come le Camere di commercio e, soprattutto, le Universit, sono ben lontani dallincarnare questo modello. Se possiamo concordare sul fatto che un governo per funzioni produca risultati migliori rispetto a quello per istituzioni territoriali elettive, rimane tuttavia aperto linterrogativo su chi svolge lattivit di raccordo orizzontale tra le funzioni.

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Questo un compito che non pu essere sottratto alla politica. Tuttavia, il problema che, soprattutto oggi, la societ politica vive in una logica autoreferenziale e si costruisce solo in relazione allaltro seguendo lo schema amico-nemico. Purtroppo, molto difficile costruire una cultura della partecipazione in grado di darsi identit che non derivino dal conflitto con altri soggetti politici. Tuttavia, se non si riesce a costruire una comunit politica che non nasca autoreferenzialmente per contrasto partitico, ma che invece si formi per entrare in relazione con le funzioni della societ civile, allora ogni ipotesi di buon governo rimane unillusione. Quali ostacoli si pongono al nascere di questa diversa forma della politica? Innanzitutto il peso delle conoscenze professionali che non appartengono alla classe politica. Poi, bisogna dire che lo schema istituzionale uninominale e maggioritario fondato sullantagonismo, non aiuta di certo. Questo sistema disincentiva alla partecipazione della societ civile alla vita politica ed incentiva una formazione oligarchica, peraltro nemmeno basata sul merito. Ritorniamo alla citt. Come si pu facilitare un assestamento delle identit che tenga conto delle nuove categorie del glocalismo? Occorre creare una metafisica delle comunit di pratica. Bisogna smettere di identificare Milano con il Duomo e la madunina. Pensare ad identit meticciate e diffuse necessario, ma non semplice. La gente resiste ad una losangelizzazione fondata sulla scomparsa del centro e del territorio. Questa idea, seppur adatta alla post modernit,

difficilmente pu divenire patrimonio delle grandi masse. Il trauma della perdita identitaria troppo forte. Basta vedere, ad esempio, il comportamento degli immigrati che ricostruiscono, nella citt post moderna, i riti premoderni e i costumi ancestrali dei loro territori di origine. Non bisogna dimenticare che luomo, anche nella societ globale, rimane sempre lo stesso. E qual , allora, lidentit che risulter prevalente? Per i nuovi entranti sul nostro territorio il paese di origine, mentre per noi certamente la famiglia. Quindi non stiamo entrando in unera in cui lindividualismo, oltre ad essere la prassi della societ, pu diventarne lidentit. Assolutamente no. Oggi stiamo assistendo alla realizzazione concreta del grande pensiero teorico della societ industriale: la necessit del sacro, la perdita identitaria e la ricerca della tradizione. La post modernit una realt molto difficile da sostenere per un aggregato di massa. Tu conosci la nostra definizione di Milania. Come pensi debba articolarsi una strategia per Milania che non sia semplicemente una prosecuzione della Milano tradizionalmente intesa? Credo occorra fare due cose. Innanzitutto favorire la nascita di nuove avanguardie. Qui la politica qualcosa pu fare. Non so se direttamente o attraverso la fornitura di spazi e di tolleranze culturali. Quello che certo che occorre diventare un polo attrattivo per la giovent di avanguardia di tutto il mondo. Abbiamo bisogno di questo, anche se ci pu significare pi caos e pi disordine. A

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Milano oggi la cultura cos vecchia da puzzare di morto. La seconda cosa che ci serve una riforma istituzionale del governo della citt che passi per la creazione di Authorities indipendenti e per il passaggio di poteri alle istituzioni funzionali. La politica deve semplicemente creare luoghi istituzionali dove le diverse funzioni siano costrette ad incontrarsi e a produrre sintesi. Tra il modello istituzionale di Parigi fondato su un allargamento del territorio, e quello di Londra basato su un annullamento del territorio in favore di micromunicipalit e di un ruolo della politica solo di raccordo delle funzioni, quale ti pare pi adatto per Milano? Certamente quello londinese. Noi non abbiamo pi bisogno di queste idee colbertiane e stataliste. Non un caso che, in Francia, un libro su due sia dedicato alla crisi della statualit francese. Rispetto a queste necessit di cambiamento, la classe dirigente milanese di oggi ti pare in grado di esercitare un ruolo attivo, oppure siamo destinati a produrre cambiamento solo in maniera diffusa e dal basso? Oggi il potere allo stato gassoso. La classe dirigente milanese molecolare: ci sono anche discrete individualit, ma nessuna capacit di fare squadra. E cos le dinamiche di potere della citt rimangono in mano alla rendita improduttiva.

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