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Hill Joe - 2017 - Un tempo strano Hill

Joe
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Il libro

C
e la farà un ragazzino della Silicon Valley a sfuggire
alla follia di un criminale che, munito di una misteriosa
Polaroid, scatto dopo scatto, cancella ogni ricordo delle sue
vittime? Cosa si nasconde dietro la natura psicotica della guardia di
sicurezza che ha appena sventato un attentato in Florida diventando
un eroe nazionale? Come farà l’uomo col paracadute a liberarsi dalle
morbide grinfie di una nuvola che sembra controllata da un’oscura
forza sadica e paranormale? Riuscirà, infine, la piccola comunità di
Boulder, in Colorado, a trovare riparo dall’apocalittica pioggia di
taglienti cristalli che all’improvviso comincia a minacciarne la
sopravvivenza?
In un mondo contemporaneo in cui la realtà, tra attentati, guerre e
crisi climatiche, fa quasi più paura dei nostri stessi incubi, Joe Hill,
uno dei più apprezzati autori horror americani della sua generazione,
intreccia quattro storie che mettono in scena le nostre fragilità, le
nostre inquietudini e la nostra follia. Storie che, con la loro cronaca
avvincente dell’eterna lotta tra il Bene e il Male, esplorano il lato
oscuro della quotidianità e il terrore che cova sotto l’apparente
tranquillità delle nostre vite.
Con un crescendo di atmosfere surreali, incubi stranianti e paure
nascoste, Un tempo strano ha scalato le classifiche americane,
diventando un bestseller del New York Times: il miglior libro per chi
non ha paura della paura.
L’autore

JOE HILL è uno dei più importanti scrittori americani horror della sua
generazione; «uno degli autori di spicco nella letteratura fantastica
del Ventunesimo secolo», come lo ha definito il Washington Post.
Con i suoi libri, più volte bestseller del New York Times, ha ricevuto
numerosi riconoscimenti internazionali, come il Bram Stoker Award
e il British Fantasy Award. Ricordiamo, tra gli altri: NOS4A2,
diventato una serie TV; A tutto gas (che contiene il racconto Nell’erba
alta, da cui è stato tratto un film); Locke & Key, il fumetto da cui
Netflix ha adattato l’omonima serie tv.
www.joehillfiction.com
Twitter: @joe_hill
Joe Hill

UN TEMPO STRANO
Traduzione di Carlo Andrea Cappi
Per Mr Blue Sky: Aidan Sawyer King.
Ti voglio bene, ragazzo.
ISTANTANEA
1

DAL fondo del vialetto, Shelly Beukes fissava il nostro ranch di


arenaria rosa come se lo vedesse per la prima volta. Aveva addosso
un trench che sarebbe stato più adatto a Humphrey Bogart e portava
con sé una borsa di tela con una stampa di ananas e fiori tropicali.
Avreste detto che stesse andando a fare la spesa, se solo ci fosse stato
un supermercato vicino a casa. Tardai qualche secondo a mettere a
fuoco che cosa ci fosse di strano in lei: si era scordata le scarpe e
aveva i piedi sporchi, quasi neri di sudiciume.
Ero in garage e mi stavo dando alla scienza. Era così che diceva
mio padre quando decidevo di smontare un aspirapolvere o un
telecomando perfettamente funzionanti. Combinavo più danni che
altro, anche se una volta ero riuscito a collegare un joystick a una
radio, così potevo saltare da una stazione all’altra premendo il
pulsante di fuoco: un trucchetto stupido, tutto sommato, che però
aveva fatto buona impressione sui giudici al concorso di scienze di
terza media tanto è vero che mi ero guadagnato un nastro azzurro
per la creatività.
La mattina in cui Shelly apparve in fondo al vialetto stavo
lavorando alla mia sparacoriandoli. Aveva l’aspetto di un’arma a
raggi da fantascienza pulp, con una larga bocca di ottone
ammaccato, e il calcio e il grilletto di una Luger (in effetti, l’avevo
realizzata saldando la campana di una tromba a una pistola
giocattolo). Premendo il grilletto suonava un clacson, si accendevano
lucine e si sparavano fuori coriandoli e stelle filanti. Mi ero messo in
testa che, se mi fosse venuta bene, papà e io l’avremmo potuta
proporre a una fabbrica di giocattoli, magari brevettarla e farla
vendere per corrispondenza. Come la maggior parte degli ingegneri
in erba, avevo affinato il mio talento con giochetti infantili. In fondo,
tutte le menti di Google hanno fantasticato almeno una volta di
progettare un paio di occhiali a raggi X per sbirciare attraverso le
gonne delle ragazze.
Stavo puntando la canna della sparacoriandoli verso la strada
quando notai Shelly proprio sulla linea di tiro. Misi giù il mio
ridicolo archibugio e la osservai in controluce.
Io vedevo lei, lei non vedeva me.
Da dove si trovava, il garage risultava buio e impenetrabile come
la galleria di una miniera.
Stavo per chiamarla quando notai i piedi scalzi, e la voce mi si
fermò in gola. Rimasi zitto a guardarla per un po’. Shelly muoveva le
labbra, parlando da sola.
La vidi occhieggiare nella direzione da cui era venuta, come se
temesse che qualcuno la stesse pedinando. Ma non c’era nessuno
intorno, solo l’aria umida sotto il cielo coperto. Ricordo che tutti i
vicini avevano messo fuori i rifiuti, ma il camion della spazzatura era
in ritardo e la strada puzzava.
Intuii quasi subito che era importante non far nulla che potesse
allarmarla. Non c’era nessuna ragione evidente, ma le nostre idee
migliori nascono a livello inconscio e non hanno niente a che vedere
con la razionalità. La parte istintiva del cervello ricava una gran mole
di informazioni da minimi dettagli di cui nemmeno ci rendiamo
conto.
Perciò, quando percorsi il vialetto in pendenza, infilai i pollici
nelle tasche e non la guardai in faccia. Tenevo gli occhi rivolti
all’orizzonte, come se seguissi il volo di un aereo in lontananza. Mi
avvicinai a lei come si fa con un cane randagio zoppicante, che
potrebbe leccarti la mano con affettuosa speranza, ma anche saltarti
addosso digrignando i denti. Non le rivolsi la parola finché non fui a
un passo da lei.
«Salve, signora Beukes», la salutai, fingendo di vederla solo in
quel momento. «Tutto bene?»
Lei si voltò verso di me. Il viso tondo assunse all’istante
un’espressione piacevolmente benevola. «Be’, sono un po’
sottosopra! Sono venuta sin qui, ma non so perché! Non è il giorno
delle pulizie!»
Questa non me l’aspettavo.
Molto tempo prima, ogni martedì e venerdì per un totale di
quattro ore alla settimana, Shelly era venuta da noi a mettere in
ordine la casa, passare l’aspirapolvere e lavare i pavimenti. Aveva già
una certa età, ma era veloce e vigorosa quanto un olimpionico di
curling. Il venerdì poi ci lasciava un vassoio di biscotti morbidi ai
datteri avvolto nella pellicola trasparente. Accidenti, quanto mi
piacevano. Non si trova più niente di simile in giro, neanche una
crème brûlée del Four Seasons è così buona con il tè.
Ma in quell’agosto del 1988, quando mi mancavano appena un
paio di settimane per andare al liceo, era passata metà della mia vita
da quando Shelly aveva smesso di fare regolarmente le pulizie a casa
nostra. Dopo il suo triplo by-pass di sei anni prima, il medico le
aveva consigliato di prendersi un po’ di riposo e lei l’aveva fatto.
Allora ero troppo piccolo per rifletterci, ma forse mi sarei potuto
chiedere perché venisse a lavorare da noi. Non è che le mancassero i
soldi.
«Signora Beukes? Papà le ha chiesto di venire a dare una mano a
Marie?»
Marie era la ragazza che aveva preso il suo posto: poco più che
ventenne, robusta e non troppo sveglia, rideva forte e aveva un
fondoschiena a forma di cuore che mi ispirava fantasie per le
cerimonie manuali notturne. Non immaginavo però perché mio
padre pensasse che Marie avesse bisogno di aiuto. A quanto ne
sapevo, non aspettavamo ospiti. Non ero nemmeno sicuro che ne
avessimo mai avuti.
Il sorriso della donna vacillò per un attimo. Controllò di nuovo la
strada dietro di sé. Quando tornò a guardarmi, il buonumore era
quasi svanito dal suo volto. Aveva gli occhi spaventati.
«Non lo so, figliolo… dimmelo tu! Dovevo pulire la vasca da
bagno? Non ho fatto in tempo la scorsa settimana ed è proprio
sporca.»
Tastò la borsa, borbottando tra sé. Quando alzò lo sguardo, serrò
le labbra in un’espressione frustrata. «Porca vacca, sono uscita senza
p
prendere quel cazzo di pulitore.»
Trasalii. Non mi sarei potuto stupire di più se avesse spalancato il
trench mostrando di essere tutta nuda. Shelly Beukes non era certo
l’immagine della vecchia signora d’altri tempi – me la ricordavo
quando puliva casa con indosso una T-shirt di John Belushi – ma
non l’avevo mai sentita dire «cazzo». Persino «porca vacca» era più
volgare delle sue espressioni consuete.
Lei non fece caso alla mia sorpresa e riprese a parlare. «Di’ a tuo
padre che alla vasca ci penso domani. Mi bastano dieci minuti per
lucidarla come se nessuno ci avesse mai ficcato il culo dentro.»
La borsa di tela era mezzo aperta e ne intravidi il contenuto: un
nanetto da giardino sporco di terra, qualche lattina vuota, una scarpa
da ginnastica vecchia e malconcia.
«Sarà meglio che torni a casa», concluse lei di punto in bianco, in
tono meccanico. «L’Afrikaner si chiederà dove sono finita.»
Si riferiva a suo marito Lawrence, immigrato da Città del Capo
prima che io nascessi. A settant’anni, Larry Beukes era uno degli
uomini più robusti che conoscessi, un ex sollevatore di pesi con
braccia scolpite e turgide vene sul collo. Essere un omone era stato la
sua fortuna professionale: aveva fatto i soldi aprendo una catena di
palestre alla fine degli anni Settanta, proprio quando i muscoli oliati
di Arnold Schwarzenegger sconvolgevano l’immaginario collettivo.
Una volta erano persino apparsi entrambi sullo stesso calendario:
Larry nel mese di febbraio, che fletteva i muscoli sulla neve con
indosso soltanto un reggipalle nero; Arnie in giugno, su una
spiaggia, con una ragazza in bikini appollaiata su ciascuna delle
enormi lucide braccia.
Shelly si diede un’ultima occhiata alle spalle, poi strascicò i piedi
in una direzione che l’avrebbe portata ancora più lontano da casa
sua. Si scordò di me appena si voltò. Me ne accorsi da come la faccia
le diventò inespressiva, mentre riprendeva a muovere le labbra
ponendosi domande silenziose.
«Shelly! Ehi, volevo chiedere al signor Beukes se… riguardo…»
Cercai di inventarmi qualcosa di cui avrei potuto discutere con
Larry. «Se per caso gli serve qualcuno che gli falci il prato! Ha un
sacco di cose più importanti da fare, no? Le spiace se vengo a casa
p p p g
con lei?» Allungai la mano verso il suo gomito e l’agganciai prima
che si allontanasse troppo.
Lei sussultò nel vedermi, come se l’avessi assalita a tradimento,
poi mi rivolse un sorriso di sfida. «È tanto che glielo dico di prendere
qualcuno per tagliare il… il…»
Gli occhi le si appannarono. Non ricordava più che cosa si
dovesse tagliare. Alla fine scosse il capo e proseguì: «… il coso. Torna
a casa con me. E… lo sai?» Mi diede una lieve pacca sul dorso della
mano. «Credo di avere qualcuno di quei biscotti che ti piacciono
tanto!»
Batté le palpebre e per un istante fui certo che sapesse chi ero e,
soprattutto, sapesse chi era lei. Era tornata lucida. Poi ripiombò nella
confusione, glielo lessi in faccia. Sembrava una lampada quando un
variatore la riduce al minimo dell’intensità.
Così l’accompagnai a casa.
Mi spiaceva per i suoi piedi scalzi sull’asfalto bollente. C’era afa e
le zanzare erano in caccia. Dopo un po’ notai che aveva il viso
arrossato e un velo di sudore sui baffetti da vecchia signora. Pensai
che si dovesse togliere il trench, ma devo ammettere che ormai
temevo che sotto fosse davvero nuda. Disorientata com’era, non si
poteva escludere. Cercai di ignorare il mio imbarazzo e le chiesi se
potessi portarle il soprabito. Lei scosse rapida la testa. «Non voglio
che mi riconoscano.»
Era una risposta così assurda che per un attimo dimenticai la
situazione e reagii come se Shelly fosse ancora se stessa, una donna
di buon senso che andava matta per i telequiz e puliva il forno con
brutale determinazione.
«Chi?» domandai.
Lei si protesse verso di me e rispose quasi sibilando: «L’Uomo
Polaroid. Quello stronzo in decappottabile che scatta foto quando
non c’è l’Afrikaner. Non so quanto mi abbia portato via con quella
sua macchina fotografica, ma non voglio che si prenda altro.»
Mi afferrò il polso. Era ancora una donna corpulenta, ma la mano
era ossuta come quella di una strega delle favole. «Non lasciare che
ti faccia una foto. Non lasciare che cominci a portar via le cose.»
«Ci starò attento. Ma davvero, signora Beukes, starà cuocendo con
indosso quel soprabito. Glielo porto io e staremo attenti se si vede
quel tipo. Può sempre rimetterselo, se lo vediamo comparire.»
Shelly alzò la testa e mi scrutò, come se studiasse le scritte in
piccolo in calce a un contratto poco affidabile. Infine tirò su con il
naso, si sfilò il voluminoso trench e me lo porse. Sotto non era nuda,
ma indossava un paio di pantaloncini neri da ginnastica e una
maglietta a rovescio e al contrario, con il disegno all’interno e
l’etichetta che le pendeva sotto il mento. Le gambe nodose erano di
un biancore inquietante. Mi misi sul braccio il soprabito sudaticcio e
spiegazzato, la presi per mano e riprendemmo il cammino.
Le strade di Golden Orchards, la nostra piccola zona residenziale
a nord di Cupertino, erano un labirinto di curve senza neanche una
linea retta. Le case a prima vista erano un’accozzaglia di stili: qui una
spagnolesca intonacata di bianco, là una coloniale in mattoni. Ma
dopo un po’, bussando alle porte, si scopriva che erano tutte più o
meno identiche, nella pianta, nel numero dei bagni, nelle finestre,
solo «travestite» in modo diverso.
Quella dei Beukes era in stile finto vittoriano, con un tocco da casa
al mare: conchiglie incastonate nel cemento del vialetto e una stella
marina sbiadita sopra la porta. Le palestre di Larry si chiamavano
forse Neptune Fitness o Atlantic Athletics? O era un’allusione ai
macchinari Nautilus usati per il bodybuilding? Non me lo ricordo
più. Rammento molti dettagli di quel giorno, il quindici agosto del
1988, ma non quello.
Accompagnai Shelly alla porta, bussai e suonai il campanello.
Avrei potuto lasciare che entrasse da sola, dopotutto era casa sua, ma
non mi sembrava opportuno, in quella situazione. Sentivo di dover
informare Larry Beukes che sua moglie vagava in stato confusionale,
e speravo di trovare un modo non troppo imbarazzante per farglielo
capire.
Non che lei desse a vedere di avere riconosciuto la propria
abitazione. Se ne restava placida ai piedi della scala, guardandosi
intorno in paziente attesa. Fino a poco prima sembrava cosciente e
persino un po’ minacciosa, ora aveva l’aria di una nonna annoiata
che andava a porta a porta tenendo compagnia a un nipotino boy-
scout che cercava di vendere abbonamenti a riviste.
Nelle aiuole i fiori bianchi erano chini sotto il peso dei calabroni.
Per la prima volta ebbi la sensazione che Larry Beukes avesse sul
serio bisogno di qualcuno che gli tagliasse l’erba. Il giardino,
maculato di denti di leone, era trasandato e pieno di erbacce. La casa
stessa aveva bisogno di una bella imbiancata per coprire le chiazze
di muffa sotto la grondaia. Era parecchio che non passavo di lì e
chissà da quanto non ci prestavo attenzione, limitandomi a
un’occhiata superficiale.
Eppure Larry si era sempre dedicato alla casa con la diligenza e
l’energia di un feldmaresciallo prussiano. Due volte alla settimana, in
canottiera, spingeva a testa alta un tosaerba a batteria sfoggiando i
possenti deltoidi abbronzati e la fossetta sul mento (assumeva una
posa teatrale qualsiasi cosa facesse). Gli altri giardini erano
verdeggianti e ben tenuti, il suo era curato meticolosamente.
Va detto che in quel momento avevo solo tredici anni e oggi mi
rendo conto di una cosa che allora mi sfuggiva: Lawrence Beukes
stava perdendo colpi. La sua capacità di mantenere le apparenze nel
quartiere veniva sopraffatta una po’ alla volta dallo sforzo di badare
a una donna non più autosufficiente. Suppongo che fossero solo il
suo innato ottimismo e una forma di condizionamento – il suo senso
della forma fisica, se volete – a permettergli di tirare avanti,
illudendosi di poter tenere ogni cosa sotto controllo.
Cominciavo a pensare che avrei dovuto riaccompagnare Shelly ad
aspettare il marito a casa mia, quando la vecchia coupé bordeaux dei
Beukes imboccò il vialetto. Larry guidava come un fuorilegge
inseguito da Starsky e Hutch. Salì con una ruota sul bordo del
marciapiede, frenò, scese dall’auto madido di sudore e per poco non
inciampò e cadde davanti a noi.
«Santo cielo, eccoti qui! Ti ho cercata fino a casa del diavolo. Mi
hai quasi fatto venire un colpo!»
Il suo accento straniero faceva pensare subito ad apartheid,
torture e dittatori su troni dorati in palazzi di marmo, con
salamandre che scorrazzavano sulle pareti. Il che era ingiusto verso
Larry. Era con il ferro che aveva fatto i soldi, non con diamanti
y
insanguinati. D’accordo, aveva i suoi difetti: aveva votato per
Reagan, era convinto che Carl Weathers fosse un maestro della
recitazione e si emozionava quando ascoltava gli Abba. Ma
compensava tutto ciò con l’adorazione che dimostrava per la moglie.
«Cos’hai combinato?» continuò. «Vado dal vicino, il signor
Bannerman, a chiedere se ha un po’ di detersivo, torno e sei sparita!»
La prese per un braccio, quasi volesse darle una scrollata, invece
l’abbracciò. Mi guardò da sopra la spalla della moglie con gli occhi
lucidi.
«Tutto okay, signor Beukes», gli dissi. «Sta bene. Era solo un po’…
persa.»
«Non mi ero persa», ribatté lei, rivolgendogli il sorrisetto di chi la
sa lunga. «Mi nascondevo dall’Uomo Polaroid.»
Larry scosse il capo. «Sssh. Silenzio, donna. Non startene sotto il
sole e… Oh, Signore, i tuoi piedi. Te li dovresti togliere prima di
entrare in casa. Sporcherai tutto il pavimento.»
Poteva sembrare brutale, persino crudele, ma Larry aveva gli
occhi umidi e parlava in un tono burbero e al tempo stesso dolente e
affettuoso, come se si rivolgesse a un adorato vecchio gatto che
tornava a casa senza un orecchio dopo una zuffa.
Accompagnò Shelly su per i gradini, oltre la porta. Stavo per
andarmene, credendo che si fossero già scordati di me, quando lui si
voltò e mi toccò il naso con un dito tremante.
«Ho una cosa per te», disse. «Non volartene via, Michael
Figlione.»
E chiuse con forza la porta.
2

DA un certo punto di vista, la sua scelta di parole era bizzarra. Non


c’era proprio pericolo che me ne volassi via. Non vi ho ancora
parlato del problema più grosso, cioè che a tredici anni, ovunque
andassi, il problema più grosso ero io.
Ero grasso. Non robusto. Non grosso. Di sicuro non
semplicemente paffuto. Quando entravo in cucina, vibravano i
bicchieri nella credenza. In mezzo ai miei compagni di terza media
sembravo un bisonte tra i cani della prateria.
In questi tempi di social network e lotta al bullismo, se chiami
qualcuno «panzone» rischi di essere a tua volta coperto di insulti con
l’accusa di body shaming. Ma nel 1988 la parola «twitter» voleva solo
dire «cinguettare» e si usava per uccellini e vecchie pettegole. Ero un
ragazzo grasso e solo: all’epoca una cosa implicava l’altra. Se dovevo
accompagnare a casa una vecchia signora, non rischiavo di sottrarre
tempo ai miei amici. Non ne avevo. Nessuno della mia età,
comunque. Ogni tanto mio padre mi portava alla baia per la
riunione mensile di un club chiamato SF-GRUE (Gruppo Robotica
Utenti Entusiasti di San Francisco), ma quasi tutti i partecipanti
erano molto più grandi di me. Più grandi e già stereotipi. Ve li potete
immaginare: aspetto malaticcio, occhiali con lenti spesse, patta
sbottonata. Quando mi incontravo con loro, non imparavo solo
nozioni sulle schede elettroniche, ero convinto di vedere il mio stesso
futuro: discussioni deprimenti su Star Trek e un futuro da celibe.
Com’è ovvio, non giocava a mio favore che di cognome facessi
Figlione, che già alle elementari era diventato Coglione e poi Culone,
soprannomi che mi sarebbero rimasti appiccicati fin oltre i vent’anni
come una gomma da masticare sotto la scarpa. Persino il mio idolo, il
professor Kent, l’insegnante di scienze di quinta, una volta mi aveva
chiamato per sbaglio Culone, scatenando le risate generali. Se non
altro aveva avuto la decenza di arrossire, mostrarsi a disagio e
chiedere scusa.
Mi sarebbe potuta andare molto peggio. Ero pulito, ordinato e,
non avendo mai studiato il francese, riuscivo a schivare il ruolo
d’onore, cioè la lista di secchioni e cocchi degli insegnanti con la
puzza sotto il naso, che le prese per il culo se le andavano a cercare.
In fondo, non avevo mai subito che qualche modesta umiliazione.
Quando mi sbeffeggiavano sorridevo indulgente, come se a
prendermi in giro fosse un caro amico. Shelly Beukes non riusciva a
ricordare che cosa fosse successo il giorno prima. Io facevo di tutto
per dimenticarlo.
La porta si spalancò di nuovo e riapparve Larry. Lo vidi passarsi
una manona callosa sulla guancia bagnata. Mi sentii in imbarazzo e
mi girai verso la strada. Non ero abituato a veder piangere gli adulti.
Mio padre non era una persona particolarmente emotiva e dubito
che anche mia madre avesse la lacrima facile, anche se non potevo
dirlo con certezza: la vedevo in tutto due o tre mesi all’anno. Larry
Beukes veniva dall’Africa, mentre mia madre ci era andata per uno
studio antropologico e, in un certo senso, non ne era mai tornata.
Anche quando era a casa, una parte di lei restava irraggiungibile a
migliaia di chilometri di distanza. Il fatto non mi turbava più di
tanto. A quell’età la rabbia richiede la vicinanza, è questo che fa la
differenza.
«Ho girato dappertutto per cercarla, quella povera sciocca
disgraziata. Questa è la terza volta. Pensavo che oggi… sarebbe finita
sotto una macchina! Quella povera… grazie per avermela riportata.
Dio ti benedica, Michael Figlione. Dio ti benedica.» Rivoltò una tasca
e caddero soldi dappertutto: banconote accartocciate e spiccioli
argentati, sul vialetto e sull’erba. Mi resi conto, un po’ allarmato, che
voleva darmi una mancia.
«Oh, santo cielo, signor Beukes. Va bene così. Non c’è bisogno. Mi
fa piacere essere d’aiuto. Non voglio… Mi sentirei stupido a
prendere…»
Larry socchiuse un occhio e mi guardò con l’altro. «Questa non è
una ricompensa. È un anticipo.» Si chinò a raccogliere un biglietto da
dieci dollari e me lo porse. «Forza. Prendilo.»
Non lo feci e lui me lo infilò nel taschino della camicia hawaiana.
«Michael, se devo andare da qualche parte… posso chiamarti per
tenerla d’occhio? Sono a casa tutto il giorno e non faccio altro che
badare a lei, ma ogni tanto devo andare a fare la spesa o correre in
una palestra a spegnere un incendio. Ce n’è sempre uno. Tutti quelli
che lavorano per me hanno i muscoli per sollevare duecento chili,
ma non sanno contare fino a undici. Non hanno abbastanza dita.» Mi
batté la mano sul taschino e prese il soprabito della moglie. Ce
l’avevo ancora sul braccio, come il tovagliolo di un cameriere,
dimenticato.
«Allora? Siamo d’accordo?»
«Certo, signor Beukes. Lei mi faceva da baby-sitter. Posso anch’io
fare… fare…»
«Da baby-sitter a lei. È entrata nella sua seconda infanzia, che Dio
l’aiuti. E aiuti anche me. Le serve qualcuno che faccia in modo che
non se ne vada in giro. A cercare lui.»
«L’Uomo Polaroid.»
«Te ne ha parlato?»
Annuii.
Larry scosse la testa e si passò una mano tra i radi capelli
impomatati. «Ho paura che un giorno veda passare qualcuno, decida
che è lui e lo infilzi con un coltello da cucina. Oddio, che cosa farò
allora?»
Non era una cosa intelligente da dire al ragazzo che stava
cercando di assumere perché gli sorvegliasse la moglie con la
demenza senile. Non potevo non considerare l’eventualità che Shelly
decidesse che fossi io l’Uomo Polaroid e che infilzasse me con un
coltello da cucina. Ma Larry era distratto, irrequieto e parlava a
vanvera. Non importava. Non avevo paura della signora Beukes.
Sentivo che poteva dimenticare chi fossimo entrambi, ma la sua
natura non sarebbe mai cambiata: affettuosa, laboriosa e incapace di
fare del male.
Larry incrociò il mio sguardo con i suoi occhi tristi e arrossati.
«Michael, un giorno sarai un uomo ricco. Farai un sacco di soldi,
inventerai il futuro. Faresti una cosa per me? Per il tuo vecchio amico
Larry Beukes, che ha passato gli ultimi anni nella disperazione,
preoccupato per sua moglie con il cervello in pappa? La donna che
lo ha reso più felice di quanto meritasse?»
Piangeva di nuovo. Avrei voluto nascondermi. Invece feci cenno
di sì. «Certo, signor Beukes. Certo.»
«Inventa un modo per non invecchiare. È lo scherzo peggiore che
ti possa capitare. Invecchiare è molto peggio che smettere di essere
giovani.»
3

CAMMINAVO senza una meta. Mi accorgevo a stento di muovermi,


tantomeno di dove andassi. Morivo di caldo, ero confuso e avevo
dieci dollari appallottolati nel taschino della camicia, soldi che non
volevo. Le mie scarpe mi portarono al posto più vicino in cui
disfarmene.
C’era una grande stazione di servizio sull’altro lato della strada, di
fronte all’ingresso di Golden Orchards: una decina di pompe di
benzina e un negozietto deliziosamente refrigerato, dove si potevano
comprare snack, patatine e anche riviste porno, se eri maggiorenne.
Quell’estate mi ero inventato una granita personale: un bicchiere da
litro di ghiaccio annaffiato di Coca-Cola alla vaniglia, con uno
spruzzo di una cosa chiamata Arctic Blu, che aveva il colore del
liquido per i tergicristalli e un sapore tra la ciliegia e l’anguria. Allora
ne andavo matto, ma se me lo trovassi davanti oggi dubito che
l’assaggerei. Credo che per il mio palato di quarantenne saprebbe di
tristezza adolescenziale.
Avevo in mente la Granita Speciale Arctic Blu-Coca-Cola, ma non
lo realizzai finché non vidi la rossa insegna girevole del benzinaio in
cima al palo alto dodici metri. Il parcheggio era stato da poco
ripavimentato con catrame fresco e, al calore che si levava dallo
strato denso e nero, l’intera stazione di servizio tremolava come il
miraggio di un’oasi agli occhi di un uomo che sta morendo di sete.
Non feci caso alla Cadillac bianca alla pompa 10, né all’uomo che vi
stava accanto, finché non mi rivolse la parola.
«Ehi!»
Non reagii, sognavo a occhi aperti intontito dal sole.
Allora lui assunse un tono meno cordiale. «Ehi, Pillsbury.»
Stavolta lo sentii. Il mio radar era pronto a segnalare qualsiasi
minaccia di bullismo e aveva fatto bip non appena avevo percepito la
voce beffarda che mi apostrofava come il pupazzo della pubblicità
delle merendine.
Non che uno come lui potesse permettersi di sfottere la gente: era
ben vestito, ma il suo abbigliamento sembrava fuori luogo. L’avrei
visto meglio all’ingresso di un night-club di San Francisco che a una
pompa di benzina fuori città. Indossava una camicia nera di seta a
maniche corte con rossi bottoni lucidi, pantaloni neri con la piega
perfetta e calzava un paio di stivali da cowboy dello stesso colore,
con bande bianche e rosse. Ma soprattutto era un uomo dalla
bruttezza esasperante, con il mento che spariva nel collo lunghissimo
e le guance corrose da vecchie cicatrici di acne. Gli avambracci
abbronzati erano coperti da tatuaggi neri, scritte in corsivo che gli
serpeggiavano fino ai polsi. Sfoggiava un cravattino di cuoio, molto
di moda negli anni Ottanta, fissato con un fermaglio di plexiglas in
cui spiccava uno scorpione giallastro.
«Sì, signore?» feci io.
«Stai entrando? A prendere uno snack o roba del genere?» Infilò
l’erogatore della pompa nel serbatoio del suo macchinone.
«Sì, signore», risposi, pensando: Ficcatelo in culo lo snack,
stronzo.
L’uomo prese dal taschino della camicia un rotolo di banconote
sporche e ingiallite, e ne sfilò una da venti dollari. «Senti, dagli
questi e digli di aprire la pompa 10, e… Ehi, latticino, sto parlando
con te!»
Mi ero distratto un momento, fissando l’oggetto appoggiato sul
bagagliaio della Caddy: una macchina fotografica Polaroid Instant.
Saprete com’è fatta una Polaroid, anche se siete troppo giovani per
averla usata o vista usare. La Instant originale era così riconoscibile e
rappresentava un tale passo avanti nella tecnologia da essere
diventata un’icona. Appartiene agli anni Ottanta tanto quanto Pac-
Man o Reagan.
Oggi tutti hanno in tasca un cellulare con fotocamera. L’idea di
scattare un’immagine e poterla vedere subito non ha più lo stesso
effetto spettacolare di allora. Ma nell’estate del 1988 la Polaroid era
p
uno dei pochissimi apparecchi che ti permettevano di fare una foto e
svilupparla più o meno all’istante. Dalla macchinetta usciva uno
spesso quadrato di carta bianco con un rettangolo di pellicola grigia
al centro. In un paio di minuti, o anche meno se agitavi il quadrato
all’aria per attivare l’agente chimico che sviluppava la foto, ecco che
dal nulla scaturiva l’immagine. Era il massimo della tecnologia, a
quei tempi.
Appena vidi la macchina fotografica capii che era lui l’Uomo
Polaroid da cui si nascondeva la signora Beukes, il tipo viscido sulla
Cadillac coupé bianca con la capote e i sedili rossi. Il codice colore di
un figlio di puttana.
Mi rendevo conto che le convinzioni di Shelly su quell’individuo
non avevano fondamento e che il suo cervello era un motore
ingolfato che non funzionava più. Eppure mi era rimasta impressa
una sua frase: «Non lasciare che ti faccia una foto». Bastava tirare le
somme per capire che l’Uomo Polaroid non era una fantasia senile,
esisteva davvero. E mi faceva venire la pelle d’oca.
«Uh… dica, signore. L’ascolto.»
«Tieni. Prendi i soldi e digli di aprire la pompa: la mia Caddy ha
sete. E se c’è il resto, tienitelo. Compraci un libro di diete.»
Non arrossii nemmeno. Era una cattiveria gratuita, ma ero troppo
distratto per farci caso.
A guardare meglio, quella non era una Polaroid. Non proprio.
Conoscevo bene la Instant, una volta ne avevo smontata una, e
notavo le sottili differenze. Per cominciare, quella lì era nera con la
parte anteriore rossa, in tinta con la macchina e i vestiti. Ma c’era
qualcosa di diverso. Era più… liscia. Stava appoggiata sul
bagagliaio, a portata di mano di Mister Viscido, e di traverso, per cui
non riuscivo a vedere la marca. Una Konica, forse? La Polaroid aveva
un cassettino che si apriva sul davanti, in cui si infilava la pellicola
istantanea, mentre questa sembrava un blocco unico e non riuscivo a
capire come si caricasse.
L’uomo si accorse che occhieggiavo la macchina fotografica e fece
un gesto curioso: ci mise sopra una mano protettiva, come una
vecchietta che stringe a sé la borsa quando passa davanti a un
gruppo di giovinastri. Allungò l’altra mano con il biglietto da venti
sporco.
Passai dalla parte del paraurti posteriore e presi i soldi, poi
abbassai lo sguardo sulle scritte avviluppate sul suo avambraccio.
Non riconoscevo l’alfabeto, ma somigliava all’ebraico.
«Bel tatuaggio», commentai. «Che lingua è?»
«Fenicio.»
«Che cosa c’è scritto?»
«‘Non rompermi il cazzo’. Più o meno.»
Mi misi la banconota nel taschino e indietreggiai. Avevo troppa
paura per voltargli le spalle. Non guardavo dove mettevo i piedi,
così finii contro il paraurti e rischiai di cadere. Mi appoggiai al
bagagliaio e fu allora che scorsi gli album.
Ce n’erano una decina, ammonticchiati sul sedile posteriore. Uno
era aperto, con le Polaroid infilate nei fogli di plastica, quattro per
pagina. Non erano niente di speciale: l’immagine sovraesposta di un
anziano che soffiava sulle candeline di una torta di compleanno; un
cane da pastore dal pelo zuppo di pioggia che fissava l’obiettivo,
triste e affamato; un giovanotto muscoloso con una ridicola
canottiera arancione, seduto sul cofano di una Pontiac che sembrava
uscita da Supercar.
Quest’ultima immagine attirò la mia attenzione. Avevo la vaga
sensazione di conoscere il tizio. Mi chiesi se l’avessi visto in TV.
Poteva essere un wrestler che aveva combattuto qualche round con
Hulk Hogan.
«Ha un sacco di foto», dissi.
«È il mio lavoro. Faccio lo scout.»
«Lo scout?»
«Per il cinema. Vedo un posto interessante, lo fotografo. Vedo una
faccia interessante, la fotografo.» Sollevò un angolo della bocca,
mostrando un dente storto. «Che c’è? Vuoi fare cinema, ragazzo?
Vuoi che ti faccia una foto? Non si sa mai. Magari ti prendono per un
casting. E dall’oggi al domani… Hollywood, baby!»
Non mi piaceva come armeggiava con la macchina fotografica,
quasi morisse dalla voglia di scattare.
Anche in tempi teoricamente più innocenti come gli anni Ottanta,
non mi andava di posare per uno che sembrava comprarsi i vestiti
alla Boutique del Pedofilo. E poi c’era quella frase di Shelly: «Non
lasciare che ti faccia una foto». Quel monito era un ragno velenoso
con le zampe pelose che mi passeggiava sulla spina dorsale.
«Non credo proprio», ribattei. «Non ci starei tutto
nell’inquadratura.» Mi indicai la pancia che tirava la camicia.
Per un attimo gli occhi sembrarono schizzargli via dalla faccia
butterata, poi scoppiò in una risata equina e catarrosa, tra l’ilare e
l’incredulo, e mi puntò contro l’indice a pistola. «Mi sei simpatico,
ragazzo. Non perderti prima di arrivare alla cassa.»
Mi allontanai sulle gambe malferme. Ero un ragazzino razionale,
leggevo Isaac Asimov, adoravo Carl Sagan e sentivo una certa
affinità spirituale con Matlock, l’avvocato della serie TV con Andy
Griffith. Sapevo che le idee di Shelly sull’Uomo Polaroid, anche se
tra me lo chiamavo già «il Fenicio», erano le fantasie distorte di una
mente malata. Non avrei dovuto dar peso alla sua raccomandazione.
Invece sì, da qualche minuto a quella parte la sua frase aveva
assunto il tono di una profezia, come se mi fosse toccato il posto 13
sul volo 1313 di venerdì 13 (e non importa se il 13 è strafigo: non solo
è un numero primo e di Fibonacci, ma è pure «omirp», cioè resta un
numero primo anche se si invertono le cifre facendolo diventare 31).
Entrai nel minimarket, tirai fuori la banconota dal taschino e la
misi sul bancone.
«Dal gentile signore con la Caddy alla pompa 10», dissi alla
signora Matsuzaka, in piedi dietro la cassa con suo figlio Yoshi.
Nessuno lo chiamava Yoshi, a parte lei. Per tutti gli altri era Mat,
con una t sola. Aveva il cranio rasato, lunghe braccia nervose e
un’aria da surfer triste. Aveva cinque anni più di me e alla fine
dell’estate sarebbe andato a studiare a Berkeley. Un giorno avrebbe
fatto fallire i genitori inventando una macchina che non andava a
benzina.
«Ehi, Culo», mi salutò con un cenno della testa che migliorò il mio
umore. Sì, okay, mi chiamava Culo, ma non c’era niente di personale:
per la maggior parte dei ragazzi era così che mi chiamavo. Oggi vi
sembrerà di un’omofobia brutale, e lo era! Ma nel 1988, l’epoca
p
dell’AIDS e di Eddie Murphy, dare a qualcuno del culo o del
finocchio era considerato molto spiritoso. Per quei tempi, Mat era un
modello di sensibilità. Leggeva tutti i numeri di Popular Mechanics
dalla prima all’ultima pagina e ogni tanto, quando entravo al
minimarket, mi passava un arretrato, perché aveva trovato qualcosa
che poteva piacermi, un prototipo di jet pack o un sottomarino
monoposto. Non voglio darne una cattiva impressione. Non
eravamo amici: lui aveva diciassette anni ed era un figo, io ne avevo
tredici ed ero disperatamente sfigato. C’erano tante probabilità che
noi due facessimo amicizia quante che io uscissi con Tawny Kitaen.
Ma credo che provasse una certa affettuosa pietà nei miei confronti e
sentisse di doversi preoccupare per me, forse perché avevamo
entrambi un cuore tecnologico. In quel periodo ero grato per
qualsiasi gentilezza da parte di altri ragazzi.
Mi preparai un bicchierone della mia Granita Speciale Arctic Blu-
Coca-Cola. Ne avevo più bisogno che mai. Il mio stomaco
gorgogliava inquieto e volevo qualcosa di frizzante per sistemarlo.
Ci avevo appena aggiunto l’ultimo spruzzo di neon azzurro
quando il Fenicio diede uno spintone potente alla porta con
l’avambraccio. La lasciò aperta e questo gli impedì di vedermi al
distributore delle bibite mentre si guardava intorno. Non si fermò e
andò dritto dalla signora Matsuzaka.
«Che cazzo ci vuole per fare un pieno di benzina in questo posto?
Perché ha chiuso la pompa?»
La signora Matsuzaka era alta un metro e cinquanta, e di
corporatura delicata. Le riusciva benissimo l’espressione perplessa
tipica degli immigrati di prima generazione che capiscono la lingua
ma a volte preferiscono fingere il contrario. Si strinse nelle spalle e
lasciò che fosse il figlio a parlare al posto suo.
«Amico, paghi dieci dollari e hai dieci di dollari di benzina»,
rispose Mat seduto sullo sgabello dietro la cassa, sotto lo scaffale
delle sigarette.
«Ma siete capaci di contare in inglese?» domandò il Fenicio. «Ho
mandato dentro il ragazzo con un fottuto biglietto da venti.»
Mi sentii gelare il sangue, neanche avessi trangugiato la granita
speciale in una botta sola. Mi tastai il taschino con un brivido di
p
terrore e capii: ci avevo infilato le dita, avevo preso i soldi e li avevo
gettati sul bancone senza guardarli. Solo che erano i dieci dollari di
Larry Beukes, non i venti che il Fenicio mi aveva dato nel
parcheggio.
L’unica cosa che mi venne in mente fu umiliarmi subito e più che
potevo. Corsi al bancone urtando con un fianco l’espositore delle
patatine e facendo cadere dappertutto i pacchetti, e pescai i venti
dollari dal taschino.
«Oddio oddio, mi spiace, oddio. Ho fatto casino. Mi spiace, mi
spiace tanto. Ho messo giù i soldi senza guardare e devo aver preso i
miei dieci invece dei suoi venti. Giuro, giuro che non…»
«Ti ho detto che potevi tenere il resto per comprarti le pillole
dimagranti, non che potevi incularmi dieci dollari.»
Alzò una mano come se mi volesse afferrare per i capelli.
Nell’altra stringeva la macchina fotografica. Per quanto fossi
spaventato, mi parve strano che non l’avesse lasciata in macchina.
«No, davvero, giuro su Dio…» Balbettavo, con gli occhi che
bruciavano pericolosamente, minacciando lacrime. Nella fretta avevo
appoggiato la granita sul bordo del bancone e, appena la lasciai
andare, la brutta situazione divenne molto, molto peggiore. Il mio
bicchierone vacillò, cadde sul pavimento ed esplose in un geyser di
ghiaccio azzurrino. Le schegge rilucenti inondarono fino al cavallo i
pantaloni perfettamente stirati del Fenicio e schizzarono goccioline
color zaffiro sulla macchina fotografica.
«Ma cazzo!» gridò lui, balzando all’indietro sulla punta degli
stivali da cowboy. «Sei ritardato, brutto stronzone?»
«Ehi», strillò la mamma di Mat, puntando un dito verso il Fenicio.
«Ehi, ehi, ehi, niente rissa in negozio. Chiamo polizia!»
L’uomo abbassò gli occhi sui vestiti macchiati poi li rialzò torvo
su di me, appoggiò la non-Polaroid sul bancone e fece un passo
avanti. Non so cos’avesse in mente, ma era fuori di sé. Mise il piede
sinistro sulla pozza di granita che si stava allargando sul pavimento
e scivolò. Gli stivali erano belli alti, camminarci doveva essere
scomodo come su un tacco quindici. Per poco non finì con le
ginocchia a terra.
«Pulisco tutto!» gridai. «Oddio, mi spiace tanto. Pulisco tutto e,
oddio, mi creda, non ho mai cercato di imbrogliare nessuno. Sono
proprio sincero. Se faccio una scoreggia lo ammetto sempre, anche
sullo scuolabus, giuro su Dio, giuro…»
«Sì, amico, calmati», intervenne Mat, alzandosi dallo sgabello. Era
alto e solido; con gli occhi scuri e il cranio rasato non aveva bisogno
di dire niente di minaccioso, lo era già di suo. «Non te la prendere.
Culo è a posto. Garantisco che non cercava di fregarti.»
«Non ti mettere in mezzo», gli disse il Fenicio. «Scegli bene da che
parte stare. Il ragazzino mi fotte dieci dollari, poi mi getta addosso il
suo drink e a momenti sbatto il culo in questa pozza di merda…»
«Non mettere gli stivali se non ci sai camminare, amico», replicò
Mat, senza neanche guardarlo. «Potresti farti male, un giorno o
l’altro.»
Mi passò un rotolo di carta da cucina oltre il bancone e mi fece
l’occhiolino, così fulmineo che lo vidi appena. Ero quasi commosso,
tanto era il sollievo di averlo dalla mia.
Strappai una manciata di fogli e mi inginocchiai nella pozza per
pulire i pantaloni del Fenicio. Vi capirò se pensate che fossi pronto a
fargli un pompino per farmi perdonare.
«Oh, santo cielo, sono sempre stato imbranato. Non sono neanche
capace di andare sui pattini a rotelle…»
Lui balzò indietro, rischiando di nuovo di cadere, poi mi strappò
di mano la carta infradiciata. «Ehi! Ehi! Giù le mani. Da come ti metti
in ginocchio sembra che tu abbia troppa pratica. Via le mani dal mio
uccello, grazie. Faccio io.»
Mi guardò come se fossi diventato uno da tenere alla larga, poi si
asciugò i pantaloni e la camicia, imprecando sottovoce tra sé.
Stavo ancora in mezzo alla pozza con in mano il rotolo. Presi la
macchina fotografica per pulirla. Ero così nervoso e disperato che mi
muovevo a scatti. Quando sollevai la Polaroid, premetti senza
volerlo il pulsante rosso. L’obiettivo era puntato sulla faccia di Mat.
L’apparecchio sparò un lampo bianco, seguito da un acuto ronzio
meccanico.
Più che uscire, la foto fu sparata fuori dalla macchina, dall’altra
parte del bancone. Mat scattò all’indietro e batté le palpebre, forse
p p p
abbagliato dal flash.
Ero rimasto un po’ abbagliato anch’io. Vedevo strane lucciole
color rame che mi si arrampicavano davanti agli occhi. Scossi il capo,
fissando stupidamente l’apparecchio nella mia mano destra. La
marca era Solarid, una ditta che non avevo mai sentito e per quanto
ne so non è mai esistita da nessuna parte del mondo.
«Mettila giù», ordinò il Fenicio, cambiando tono di voce.
Pensavo che facesse paura quando si era messo a urlare, ma
adesso era diverso e molto peggio. Veniva in mente il tamburo che
gira in un revolver e lo scatto del cane tirato indietro.
«Cercavo solo di…» cominciai, con la bocca impastata.
«Stai cercando di farti del male. E ci stai riuscendo.»
Tese una mano e io ci misi la Solarid. Sono sicuro che se l’avessi
fatta cadere, se mi fosse scivolata dalle mani sudate e tremanti, mi
avrebbe ucciso su due piedi, mi avrebbe messo le mani al collo e
avrebbe stretto. Ne ero convinto allora e lo sono anche adesso. Mi
aveva piantato addosso i suoi occhi grigi con una furia gelida e
aspra. Il volto butterato era inespressivo come una maschera di
gomma.
Invece mi strappò via la macchina fotografica e il momento passò.
Si voltò verso il giovanotto e la donna dietro il bancone. «La foto.
Datemi la foto», disse.
Mat sembrava ancora abbagliato dal flash. Mi guardò, poi guardò
la madre. Sembrava aver perso del tutto il filo della conversazione.
Il Fenicio lo ignorò e si concentrò sulla signora Matsuzaka.
Allungò la mano. «La foto è mia e la voglio. La mia macchina, la mia
pellicola, la mia foto.»
Lei ispezionò il pavimento intorno a sé, poi alzò gli occhi e si
strinse di nuovo nelle spalle.
«È uscita ed è caduta dalla sua parte del banco», insistette il
Fenicio, scandendo le parole ad alta voce come si fa quando ci si
arrabbia con uno straniero, pensando che alzare il volume aiuti la
traduzione. «L’abbiamo visto tutti. La cerchi. Si guardi intorno.»
Mat si sfregò gli occhi, lasciò cadere le mani e sbadigliò. «Che
c’è?»
Sembrava che fosse appena sgusciato fuori dal letto e si fosse
trovato nel bel mezzo di una discussione.
La madre gli disse qualcosa in giapponese, rapida e seccata. Lui la
fissò annebbiato, poi sollevò il mento e si rivolse al Fenicio. «Che
problema c’è, amico?»
«La foto. La foto che ti ha scattato il grassone. La voglio.»
«Perché? Se la trovo, vuoi che ci faccia l’autografo?»
Il Fenicio, stanco di parlare, si diresse verso lo sportello che
portava dietro il bancone. La madre di Mat, che aveva ripreso a
ispezionare il pavimento con aria desolata, alzò la testa e bloccò il
battente con una mano prima che lui potesse passare. Il suo tono si
fece di severa disapprovazione.
«No! Cliente sta da altra parte! No, no!»
«Voglio quella cazzo di foto!» ribadì il Fenicio.
«Ehi, amico!» Mat doveva essersi ormai scosso dal suo torpore. Si
mise tra i due e d’un tratto parve molto grosso. «L’hai sentita. Stai
indietro. Politica aziendale: qui dietro viene solo chi ci lavora. Non
sei d’accordo? Scrivi una lettera all’azienda, non vedono l’ora di
avere tue notizie.»
«Ci diamo una mossa? Ho un bambino in macchina», sbuffò la
donna alle mie spalle, che reggeva un mucchio di lattine di cibo per
gatti.
Be’, pensavate che per tutto questo tempo ci fossimo solo noi
quattro al minimarket? Mentre rovesciavo la mia bibita addosso al
Fenicio e lui imprecava, protestava e minacciava, era entrata gente a
prendere bibite, patatine e panini. Alle mie spalle si era formata una
coda che ormai arrivava in fondo al negozio.
Mat si mise alla cassa. «Il prossimo.»
La mamma con le lattine scavalcò cauta la luccicante pozza blu-
fantascienza e lui cominciò a fare il conto.
Il Fenicio assisteva alla scena sbigottito. Il brusco congedo di Mat
era un oltraggio pari ai miei ghiaccioli azzurri sui suoi calzoni.
«Sapete una cosa? Vaffanculo. Il negozio, il grassone e anche tu,
muso giallo. Ho abbastanza benzina per andarmene da questo posto
di merda. Non voglio sprecare un penny più del necessario in un
cesso del genere.»
g
«In tutto fa uno e ottantanove», disse Mat alla signora con il cibo
per gatti. «Nessun supplemento per lo spettacolo pomeridiano.»
Il Fenicio andò alla porta ma si fermò, mezzo dentro e mezzo
fuori, per lanciarmi un’occhiataccia. «Di te non mi dimentico,
ragazzo. Guarda bene la strada prima di attraversare. Capito?»
Ero troppo strozzato dalla paura per emettere anche solo un
gemito di risposta. Lui sbatté la porta e un attimo dopo la Caddy
partì a razzo, imboccando la strada principale con stridore di
pneumatici.
Usai il resto del rotolo per asciugare il pavimento. Era un sollievo
potermi mettere in ginocchio, a testa china, e piangere senza farmi
vedere. Avevo tredici anni, accidenti. I clienti mi giravano intorno per
pagare, attenti a fingere di non sentirmi frignare.
Quando il pavimento fu appiccicoso ma asciutto, raccolsi la massa
di carta bagnata. La signora Matsuzaka, in piedi accanto al figlio,
guardava nel vuoto con la bocca piegata in una smorfia. Poi tornò in
sé e si avvicinò con il bidone a rotelle dei rifiuti, che teneva dietro il
bancone. Fu allora che scoprii dov’era finita l’istantanea: era caduta a
faccia in giù sul pavimento, scomparendo sotto il bidone.
La notò anche lei e la raccolse, mentre io buttavo via la carta
inzuppata. Osservò la foto con aria stupefatta, mi guardò e me la
porse.
Avrebbe dovuto essere un primo piano di Mat, l’obiettivo era
puntato sulla sua faccia. Invece nella foto c’ero io.
Ma non ero io nel momento in cui la macchina aveva scattato,
bensì qualche settimana prima: stavo seduto su una sedia di plastica
vicino al distributore di bibite, a leggere Popular Mechanics con un
bicchierone pieno in mano. Nella Polaroid (o era una Solarid?)
indossavo una maglietta bianca di Huey Lewis e un paio di bermuda
di jeans, mentre ora avevo dei pantaloncini cachi e una camicia
hawaiana con i taschini. Inoltre il fotografo doveva trovarsi dietro il
bancone.
Non ci capivo niente. Guardavo incredulo l’immagine, cercando
di capire da dove venisse. Non poteva essere la foto che avevo
scattato per sbaglio, ma non poteva nemmeno essere un’istantanea
di settimane prima. Non ricordavo che Mat o sua madre mi avessero
p
fatto una foto mentre leggevo quella rivista. Né immaginavo perché
avrebbero dovuto, e in più non avevo mai visto né l’uno né l’altra
con una Polaroid in mano.
Deglutii e chiesi: «Posso averla?»
La signora Matsuzaka diede un’ultima occhiata alla foto, poi
strinse le labbra e l’appoggiò sul bancone, facendola scivolare verso
di me. Quando ritrasse la mano si strofinò le dita, come se le fosse
rimasto qualcosa di fastidioso sulla pelle.
Guardai la foto ancora per un momento, con una stretta allo
stomaco, un’angoscia che non era dovuta solo alla rabbia e alle
minacce del Fenicio. Misi l’istantanea nel taschino e mi allungai
verso la cassa. Con un brivido appoggiai il biglietto da venti dollari
sul bancone.
Sono i suoi soldi. Che cosa farà quando si renderà conto che non glieli ho
restituiti? Sarà meglio che controlli bene la strada prima di attraversare.
Farai bene a guardare a destra e a sinistra, Culo.
Vedete? Persino io mi insultavo da solo.
«Mi spiace per il casino», mi scusai. «Questi sono per la granita da
litro.»
«Non importa, amico. Non ti faccio pagare perché hai rovesciato
un po’ di acqua zuccherata.» Mat spinse i soldi verso di me.
«Okay. Be’, sono in debito con te perché non hai lasciato che mi
prendesse a calci. Mi hai salvato la vita, Mat. Davvero.»
«Certo, certo», fece lui.
Aveva gli occhi socchiusi e mi rivolgeva un sorriso incerto, come
se non sapesse bene di che cosa stessi parlando. Mi scrutò ancora per
qualche secondo, poi scosse la testa. «Ehi, posso chiederti una cosa?»
«Certo, Mat.»
«Parli come se ci conoscessimo. Ci siamo già visti?»
4

USCII con i nervi a fior di pelle e un ronzio nella testa. Ormai avevo
la ragionevole certezza che Mat non avesse la minima idea di chi
fossi e non si ricordasse di avermi mai visto, malgrado passassi al
minimarket tutti i giorni e fosse un anno che leggevo i suoi arretrati
di Popular Mechanics. Semplicemente non mi riconosceva più, e il
pensiero mi faceva accapponare la pelle.
Mi dissi che ero io che non capivo, che era assurdo, che non aveva
senso, ma questa non era tutta la verità. Seppure a livello appena
cosciente, avevo già un sospetto sull’improvvisa amnesia di Mat, lo
percepivo come un topo nel muro. Senti gli artigli che grattano
furtivi, il corpo che striscia sull’intercapedine e anche se non lo vedi
sai che c’è. Tuttavia la mia idea era così terribile, degna di un film
dell’orrore, e così impossibile che non riuscivo a prenderla in
considerazione. Non ancora.
Rientrai a casa in uno stato di panico sottile ma persistente. Mi ci
volevano dieci minuti per andare dalla stazione di servizio a casa
mia a Plum Street. Lungo il percorso morii varie volte.
Sentivo gli pneumatici del Fenicio che stridevano sull’asfalto e mi
voltavo appena in tempo per vedere la griglia cromata della Cadillac
mezzo secondo prima che mi investisse. Poi lui inchiodava dietro di
me e mi inseguiva nei boschi con una chiave inglese e mi massacrava
di botte tra i cespugli. Mi saltava addosso mentre cercavo di
attraversare il cortile dei Thatcher e mi annegava nella loro piscina
gonfiabile: l’ultima cosa che vedevo era un pupazzo senza testa che
giaceva sul fondo. Il Fenicio mi passava accanto a bassa velocità con
una pistola nella mano sinistra fuori dal finestrino, e mi piantava un
proiettile nel collo e uno in una guancia. Mi tagliava la testa con un
machete arrugginito. WHACK. Mi passava vicino sibilando: Ehi,
ragazzo, come va?, e io morivo, stroncato da infarto, il mio debole
cuore sepolto dal grasso smetteva di battere all’età di tredici anni,
così giovane e pieno di promesse.
Avevo l’istantanea nel taschino, la sentivo scottare come un
quadrato di materiale radioattivo potenzialmente cancerogeno. Non
mi sarei sentito così a disagio nemmeno se fosse stata roba
pedopornografica. Il suo solo possesso mi sembrava criminale. Una
prova… anche se non avrei saputo dire di quale delitto.
Tagliai per il prato ed entrai in casa. Un rumore meccanico mi
guidò fino in cucina: mio padre stava montando una specie di panna
arancione, qualcosa cuoceva nel forno e nell’aria aleggiava un
profumo caldo di intingolo, che però faceva pensare ai bocconcini
per cani.
«Odore di cibo. Che cosa c’è in forno?»
«Battaglia di Stalingrado», rispose lui.
«E la panna arancione cos’è?»
«Guarnizione per il Brivido a Panama.»
Aprii il frigo in cerca di una bibita e trovai il Brivido a Panama:
un’enorme scultura gelatinosa nella cui massa vibrante erano
sospese delle ciliegie. Mio padre sapeva preparare solo poche cose: il
budino, il pasticcio di carne e il pollo condito con le zuppe in scatola.
Il suo vero talento in cucina stava nel battezzare i piatti. Una sera
c’era Battaglia di Stalingrado, un’altra Non aprite quella porta, un
ammasso di fagioli bianchi in salsa rosso sangue, a pranzo Sigaro di
Fidel, ovvero un’omelette marrone farcita con straccetti di maiale e
pezzi di ananas, e a colazione Pizza del Fattore, cioè una frittata con
formaggio e avanzi tritati. Papà non era grasso come me, ma grazie
alla nostra dieta non si poteva nemmeno definire magro. Se ci
incrociavamo in corridoio, dovevamo metterci tutt’e due di traverso.
Versai la bibita in un bicchiere e la feci fuori in quattro sorsate.
Non mi bastava. Ne aprii un’altra lattina.
«È quasi pronto», annunciò mio padre.
Emisi un «mmm» rassegnato. La Battaglia di Stalingrado era un
purè di patate con manzo tritato e una salsa di carne e funghi.
Mangiarlo era paragonabile a ingerire una secchiata di cemento
g p g g
liquido. Ero cotto, dopo essere andato e tornato dalla stazione di
servizio, e l’odore di cibo per cani della cena mi faceva star male.
«Non sei entusiasta?» chiese lui.
«Non vedo l’ora.»
«Mi spiace, non è la torta di mele della mamma. Ma devo dirti
che, se lei fosse qui, non credo che la farebbe.»
«Ti sembro uno che ha bisogno di torte?»
Lui mi guardò con la coda dell’occhio. «Hai l’aria di uno che ha
bisogno di una dose di antiacido.»
«Mi siedo di là a prendere fresco. Non avevo così caldo da
quando combattevo i Cong fuori da Khe Sanh.»
«Non ne parliamo. Se comincio a pensare ai ragazzi che abbiamo
perso laggiù, mi metto a piangere sulla panna montata.»
Mi misi a fischiettare «Goodnight Saigon». Papà e io andavamo
spesso a ruota libera con le nostre storie su quando eravamo in
guerra con il Vietnam del Nord, portavamo armi ai Contras e ci
salvavamo a stento dall’elicottero abbattuto nella missione per
salvare gli ostaggi in Iran. In realtà nessuno di noi due aveva mai
lasciato la California, tranne una volta per un viaggio alle Hawaii,
quando eravamo ancora una famiglia normale. Era mia madre
l’unica a vivere avventure in luoghi lontani.
Tecnicamente i miei genitori erano ancora sposati, ma la mamma
abitava presso le tribù della costa sud-occidentale africana e tornava
a casa solo un mese ogni tanto. Quando c’era, mi metteva a disagio.
Non avevamo conversazioni vere e proprie: parlare con lei era come
sostenere un esame orale su argomenti che andavano dal
femminismo al socialismo alla percezione della mia identità sessuale.
A volte mi faceva sedere con lei sul divano per leggermi un articolo
sul National Geographic a proposito di mutilazione dei genitali, poi
dichiarava che la pratica femminile di depilarsi le ascelle era un
retaggio del controllo patriarcale, quindi mi guardava con una certa
fascinazione ostile, come se si aspettasse che disapprovassi i riccioli
grigiastri che le spuntavano da sotto le braccia. Una volta avevo
chiesto a mio padre come mai non vivessero insieme, e lui aveva
risposto: «Perché lei è una persona brillante».
E credo che lo fosse davvero. Ho letto i suoi libri: non si possono
definire letture strabilianti, ma ammiro il modo in cui espone una
serie di piccole osservazioni e poi all’improvviso te le apre davanti
come un ventaglio, traendone una conclusione illuminante. Era tutta
presa dalla sua curiosità, ne era ipnotizzata. Dubito che le restasse
spazio in testa per occuparsi del marito e del figlio.
Mi stiracchiai sul divano, sotto la finestra, nella semioscurità del
salotto. Passai il pollice sul bordo della foto nel taschino per almeno
mezzo minuto prima di accorgermi di che cosa stessi facendo. Una
parte di me non voleva rivederla mai più, il che era un sentimento
curioso. In fondo era solo una mia foto mentre ero seduto a leggere
una rivista vicino al distributore delle bibite. Non c’era nulla di
strano, se non sapevi che era stata scattata quel giorno, eppure
mostrava una scena che risaliva a giorni prima, per non dire
settimane.
Una parte di me non la voleva guardare… e una parte di me non
poté farne a meno.
La tirai fuori dalla tasca e la rigirai tra le dita per esaminarla alla
bizzarra luce di quel pomeriggio temporalesco. Se i fantasmi hanno
un colore, dev’essere quello di un temporale di agosto che sta per
scoppiare. Il cielo era dello stesso grigio sporco di una Polaroid in
fase di sviluppo.
Nella foto ero chino su quella copia spiegazzata di Popular
Mechanics, grasso e sgraziato. La luce al neon mi dava la tinta
azzurrognola di uno zombie in un film horror.
«Non lasciare che ti faccia una foto.» Così mi aveva detto Shelly
Beukes.
«Non lasciare che cominci a portarti via le cose.»
Ma lui non aveva fatto la foto a me. Nella foto c’ero io, ma
l’obiettivo non era su di me e non era stato lui a scattare. In effetti, lui
non aveva fatto proprio niente. Ero stato io, con la Solarid puntata su
Mat.
Lasciai cadere a terra la foto con un senso di repulsione, come se
avessi avuto tra le dita una larva che si contorceva, e rimasi disteso
per un po’ nell’ombra, al fresco, cercando di non pensare. Tutto
quello che avevo in testa era marcio e irreale. Avete mai provato a
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non pensare? Non è diverso dal cercare di non respirare: non si
riesce a farlo per molto.
La maturità non arriva tutta in una volta. Non è un confine tra
due Paesi per cui, una volta varcata una frontiera invisibile, vi
trovate nel territorio dell’età adulta e parlate la lingua straniera dei
grandi. È più come una trasmissione radio da un’area lontana verso
cui stai guidando: a tratti la distingui appena tra le scariche di
elettricità statica, poi improvvisamente la ricezione diventa forte e
chiara. Ecco: in quel momento stavo cercando di ascoltare Radio
Adulti, perfettamente immobile nella speranza di intercettare notizie
utili e istruzioni da seguire in caso di emergenza.
In quella quiete forzata fissai per caso lo sguardo su una serie di
album di foto di famiglia, che mio padre aveva messo sullo scaffale
in alto della libreria. Gli piaceva tenere in ordine le cose: sul lavoro
indossava una cintura per gli attrezzi, con le pinze nella tasca
apposita e lo spelafili nella sua asola.
Scelsi un album a caso, mi lasciai ricadere sul divano e cominciai a
sfogliarlo. Le foto più vecchie erano rettangoli lucidi in bianco e
nero. Si vedevano i miei genitori insieme, nei giorni precedenti il
matrimonio, entrambi troppo maturi e ordinari per essere classificati
hippy. Non sono nemmeno sicuro di poterli descrivere come una
bella coppia. L’unica concessione di mio padre a quel periodo erano
basette folte e occhiali da sole con le lenti colorate. Mia madre, la
grande antropologa africana, indossava sempre pantaloncini militari
a vita alta e grossi scarponi da montagna, anche alle riunioni di
famiglia, e sorrideva come se le costasse fatica. Non c’era una foto in
cui si abbracciassero, si baciassero o anche solo si guardassero.
Perlomeno ce n’erano alcune in cui, a turno, tenevano in braccio
me. Ecco mia madre seduta sul pavimento, che faceva penzolare un
enorme mazzo di chiavi di gomma sopra un bambino paffuto disteso
sulla schiena, che cercava di afferrarle con le dita grassocce. Ecco mio
padre immerso fino alla cintola in una piscina fuori terra, che
reggeva tra le braccia un neonato nudo. Ero già una palla di lardo.
La mia compagnia più frequente, però, non era mio padre o mia
madre, bensì… Shelly Beukes. Fu una specie di choc, sul serio.
Quando lei era andata in pensione, sei anni prima, non avevo
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provato niente di particolare. Sarei stato altrettanto indifferente se
mio padre mi avesse detto che cambiavamo un tavolino del salotto.
All’epoca lui non mi aveva parlato dell’operazione a cuore aperto,
aveva detto solo che era un po’ anziana e che gli anziani hanno
bisogno di più riposo. E poi abitava in zona, potevo andarla a
trovare quando volevo.
L’avevo fatto? Oh, ero passato da lei in qualche rara occasione, a
prendere il tè con i biscotti ai datteri; ci sedevamo a guardare La
signora in giallo e Shelly mi chiedeva come andava. Certo, ero gentile
e mangiavo in fretta i biscotti, così me ne potevo andare prima.
Quando sei un bambino, passare un pomeriggio con una vecchia
signora a guardare la TV in un salotto soffocante è come vincere un
biglietto per Guantánamo Bay. L’affetto non c’entrava nulla.
Qualunque debito avessi nei suoi confronti, o qualsiasi cosa potessi
significare per lei, non mi era mai passato per la testa.
Ma eccola lì, foto dopo foto.
Stringevamo le sbarre di una cella della prigione di Alcatraz,
fingendoci terrorizzati.
Le stavo a cavalcioni sulle spalle per cogliere una pesca da un
albero e con la mano libera le spingevo il cappello di paglia sulla
faccia.
Soffiavo sulle candeline mentre lei mi stava dietro con le mani
alzate, pronta ad applaudire. E sì… tutte le foto erano scattate con
una Polaroid. Certo che ne avevamo una, ce l’avevano tutti allora.
Come tutti avevano un videoregistratore, un forno a microonde e il
walkman.
La donna nelle fotografie era anziana, ma aveva occhi brillanti,
quasi da ragazzina, e un sorrisetto malizioso. In una foto aveva
capelli dello stesso rosso della pubblicità di una birra, in un’altra di
un comico color carota, con lo smalto delle unghie in tinta. Mi
abbracciava sempre, mi arruffava i capelli, mi teneva sulle ginocchia
mentre mangiavo i biscotti ai datteri: un bambinetto grasso con un
pigiamino di Spider-Man e il mento sbrodolato di succo di
pompelmo.
A due terzi dell’album mi imbattei nella foto di un barbecue in
cortile che avevo ormai dimenticato. Stavolta Shelly aveva i capelli
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color Arctic Blu. Con lei c’era Larry l’afrikaner, in pantaloni attillati
color sabbia e camicia con le maniche arrotolate, per esibire gli
avambracci da Braccio di Ferro. Mi tenevano entrambi per mano: in
mezzo a loro ero una macchia indistinta nel crepuscolo. Shelly era
immortalata nell’atto di gridare qualcosa. Tutt’intorno c’erano adulti
che ci guardavano con l’aria divertita e un bicchiere di vino in mano.
L’idea che quei giorni le fossero stati portati via mi sembrava una
vigliaccata. Aveva il gusto di un sorso di latte andato a male. Era
indecente.
Non c’era giustificazione per la sua perdita di ricordi e raziocinio,
nessuna difesa che l’universo potesse offrirle dalla corruzione della
sua mente. Mi aveva voluto bene, anche se ero troppo stupido per
comprenderlo e apprezzarlo. Chiunque avesse visto quelle foto
avrebbe capito che mi era affezionata, che in qualche modo la
divertivo, malgrado le mie guanciotte, lo sguardo vacuo e la
tendenza a sporcare le mie terribili magliette ogni volta che
mangiavo qualcosa. Nonostante ricevessi come dovute le sue
attenzioni e il suo affetto. E adesso si stava dissolvendo tutto: le feste
di compleanno, i barbecue, le pesche mature. Un po’ alla volta Shelly
veniva cancellata da un cancro che non aggrediva il fisico ma la vita
interiore, la sua scorta privata di felicità. Mi veniva voglia di lanciare
l’album contro il muro. Mi veniva voglia di piangere.
Invece mi asciugai gli occhi e voltai pagina, con un «oh» di
sorpresa.
Quando avevo sbirciato nell’auto del Fenicio, avevo notato la
fotografia di un bodybuilder, un giovanotto abbronzatissimo con
una canottiera arancione, appollaiato sul cofano di una Pontiac.
L’avevo riconosciuto, anche se non ricordavo chi fosse né dove
l’avessi visto. E rieccolo qui, proprio nel mio album fotografico.
Teneva due sedie sollevate sopra la testa, una gamba in ciascuna
mano. Su una stavo io, in preda a un gioioso terrore: ero in costume
da bagno, con gocce d’acqua che brillavano sulle mie tette da
bambino grasso. Sull’altra c’era Shelly Beukes, aggrappata al sedile
con entrambe le mani, la testa rovesciata all’indietro in una risata.
Nella foto l’uomo non portava la canottiera, ma un’uniforme da
marinaio. Aveva un sorriso feroce sotto i baffi alla Tom Selleck. E,
guarda un po’, c’era anche la Pontiac; se ne scorgeva il retro sul
vialetto dietro l’angolo della casa di Shelly.
«Chi diavolo sei?» mormorai.
Avevo parlato da solo, non mi aspettavo una risposta, ma mio
padre chiese: «Chi?»
Stava sulla porta della cucina, con un guanto da forno su una
mano. Non sapevo da quanto fosse lì a guardarmi.
«Il tipo muscoloso.» Indicai la foto, che da quella distanza lui non
poteva vedere.
Papà si avvicinò e allungò il collo. «Oh. Quel coglione. Il figlio di
Shelly. Sinbad? Achilles? Un nome del genere. Era il giorno prima
che partisse per il Mar Rosso. Avevano organizzato un barbecue di
addio. Shelly aveva fatto una torta a forma di corazzata e quasi
altrettanto grande. Abbiamo portato a casa gli avanzi: ci siamo
mangiati corazzata a colazione per una settimana.
Me la ricordavo, la torta: una portaerei, non una corazzata, con la
glassa bianca e azzurra a fare da onde. Rammentavo anche
vagamente che la signora Beukes mi aveva raccontato che era una
festa di laurea… per me! Avevo appena finito la terza elementare!
Tipico di Shelly raccontare a un bambino solitario che la festa era
tutta per lui, anche se non c’entrava nulla.
«Non mi sembra così male», obiettai. Mi dava fastidio che mio
padre lo chiamasse coglione. Mi sembrava una critica indiretta alla
stessa Shelly, e non ero dell’umore adatto.
«Oh, tu andavi matto per lui! Era proprio il figlio di Larry.
Partecipava ai concorsi di bodybuilding, gli piaceva far vedere che
cosa sapeva fare con i muscoli, tipo sollevare una macchina con
l’uccello o roba del genere. Tu credevi che fosse l’Incredibile Hulk.
Me la ricordo quell’acrobazia: vi ha sollevato tutt’e due e andava in
giro tenendovi in equilibrio sulle sedie. Avevo paura che Shelly
volasse giù e battesse la testa: avrei dovuto cercare una nuova baby-
sitter. O che facesse cadere te, così mi sarei dovuto trovare un altro
figlio con cui mangiare il mio Brivido a Panama. Forza, la cena è
pronta! Diamoci dentro.»
Ci sedemmo a tavola, con la Battaglia di Stalingrado nei piatti.
Non avevo fame e mi sorpresi quando mi accorsi che stavo
p q
ripulendo anche quanto restava dell’intingolo. Giravo un pezzo di
pane nel piatto spandendo il sugo e pensando a tutti quegli album
sul sedile posteriore dell’auto del Fenicio. E alla foto nel mio
taschino, in cui si vedeva qualcosa di impossibile. Mi si stava
sviluppando in testa un’idea che, come una foto Polaroid, diventava
sempre più nitida.
In tono falsamente calmo dissi: «Oggi ho visto la signora Beukes».
«Ah, sì?» Mio padre mi guardò pensoso. Poi, in tono altrettanto
falso, domandò: «Come sta?»
«Si era persa. L’ho riaccompagnata a casa.»
«Hai fatto bene. Proprio quello che mi aspetto da te.»
Gli raccontai che l’avevo trovata per strada, che lei pensava di
dover venire a lavorare, che non aveva pronunciato il mio nome
perché non lo sapeva più. Gli dissi di Larry Beukes che era arrivato
in macchina in preda al panico, temendo che fosse finita in mezzo al
traffico o che si fosse persa per sempre.
«Mi ha dato dei soldi perché l’ho riportata a casa. Io non volevo
accettarli, ma lui ha insistito.»
Non pensavo che a mio padre la cosa andasse a genio, e una parte
di me si aspettava, forse addirittura sperava, che mi rimproverasse.
Invece lui andò a prendere il Brivido a Panama e senza voltarsi
replicò: «Bene».
«Bene?»
Mise sul tavolo il budino, che tremolava sotto dieci centimetri di
panna colorata, e cominciò a riempire le scodelle. «Certo. Pagarti,
per uno come Larry Beukes, è un modo per sentire di aver ripreso il
controllo della situazione. Non è un uomo cui è sfuggita la moglie
con la demenza senile perché lui è troppo vecchio per badarle da
solo. È un uomo che sa pagare chi gli risolve un problema.»
«Mi ha chiesto se posso dargli una mano ogni tanto. Andare da
loro quando lui deve uscire per fare la spesa e roba del genere.»
Papà si bloccò con una cucchiaiata di Brivido a Panama davanti
alla bocca. «Mi fa piacere. Tu sei bravo ad aiutare. So che volevi bene
a quella vecchia signora.»
Strano, eh? Mio padre sapeva che avevo voluto bene a Shelly
Beukes, quando nemmeno io ne ero al corrente fino a pochi minuti
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prima.
«È successo altro, oggi?»
Il mio pollice andò al taschino e sfiorò il bordo della Polaroid (o
dovrei dire Solarid?) Era da quando ero tornato a casa che
continuavo a toccarla, nervoso. Non potevo farci niente. Pensai di
accennare al Fenicio e alla scenata al minimarket, ma non sapevo
come parlarne senza fare la figura del fifone.
E poi c’era quell’idea che si faceva strada ai confini della mia
mente e che cercavo a tutti i costi di ignorare. Volevo tenerla alla
larga ma, se mi fossi messo a parlare del Fenicio, non ci sarei
riuscito. Perciò non aprii bocca sull’incontro alla stazione di servizio.
«Ho quasi completato la sparacoriandoli», annunciai invece.
«Fantastico. Sarà facile festeggiare, quando avrai finito. Dovrai
solo premere il grilletto.» Si alzò per portare i piatti nel lavello.
«Mike?»
«Sì?»
«Non abbatterti troppo se Shelly non ti riconosce o dice cose senza
senso.»
«No.»
«È come… una casa dopo che uno ha traslocato. La casa c’è
ancora, ma quello che c’era dentro no. I mobili sono stati portati via, i
tappeti sono stati arrotolati. I traslocatori hanno imballato tutte le
parti di Shelly Beukes e le hanno trasferite. Di lei non è rimasta che
la casa vuota.» Gettò nella pattumiera le rovine di Stalingrado.
«Quella e le vecchie fotografie.»
5

«SEI a posto, qui?» chiese mio padre dalla porta. Aveva un piede sul
primo gradino e uno sullo zerbino verde pisello. Dietro di lui, i
lampi attraversavano silenziosi le nubi basse e ribollenti.
«È un bel po’ che non ho più bisogno che Shelly Beukes mi
rimbocchi le coperte.»
«Eh, sì. Non so se sia giusto, ma così vanno le cose, no?»
Era una frase insolita per lui. Non ammetteva mai che la nostra
non fosse proprio una vita ideale. Fui sul punto di rispondergli, ma
non mi venne niente da dire.
Papà si voltò verso il crepuscolo nuvoloso e turbolento. «Detesto
lavorare di notte. Quando torna Al, mi faccio rimettere di giorno.»
Era tutta l’estate che faceva i turni di notte. La compagnia elettrica
era a corto di personale. Il suo migliore amico, Al Murdoch, era sotto
terapia per un linfoma; un altro tecnico di linea, John Hawthorne,
era stato arrestato di recente per avere aggredito l’ex moglie; Piper
Wilson era andata in maternità e all’improvviso mio padre si era
ritrovato a essere il più esperto e lavorava sessanta ore alla
settimana, la maggior parte delle quali dopo che io ero andato a
letto.
All’inizio non era male. Mi piaceva stare alzato quando avrei
dovuto dormire, guardando soft-porno su Cinemax, che a quell’ora
trasmetteva i film vietati. Ma a metà luglio mi ero già stufato di stare
solo di notte. La mia immaginazione era molto vivida e a fine mese
avevo commesso l’errore di leggere Zodiac. Da quel momento la casa
vuota aveva cominciato a mettermi una paura mortale. Me ne stavo
sveglio nel letto alle due del mattino, con la salivazione azzerata, ad
ascoltare il silenzio trattenendo il respiro. Mi aspettavo di sentire il
buon vecchio Zodiac che forzava una finestra con un piede di porco.
Poi avrebbe usato uno dei nostri coltelli da cucina per incidere
simboli astrologici sul mio pancione, ma prima di ammazzarmi, in
modo da sentirmi urlare.
Non ne avevo mai parlato con mio padre, perché l’unica cosa
peggiore degli attacchi di panico notturni era il timore che assumesse
una baby-sitter. Tutto quello che il Killer dello Zodiaco avrebbe
potuto farmi era torturarmi e uccidermi. Ma se mio padre avesse
chiamato una ragazza della zona perché mi mettesse a letto alle nove
e mezzo per poi passare il resto della nottata a parlare al telefono con
le amiche, allora sì che avrei voluto essere morto. L’affronto avrebbe
schiacciato il mio fragile ego di tredicenne.
Ma quella sera, dopo il mio scontro con il Fenicio, avevo più
paura che mai a restare da solo. Senza contare le nubi e l’elettricità
nell’aria, che percepivo nella sottile peluria sulle braccia. Era dal
pomeriggio che tuonava e da un momento all’altro il temporale si
sarebbe scatenato in tutta la sua furia.
«Pensi di lavorare ancora un po’ alla sparacoriandoli?» mi chiese
mio padre.
«Probabile. Era…»
Quello che seguì non fu un tuono drammatico da film dell’orrore,
quanto piuttosto il lancio di un missile spaccamondo da
fantascienza, una singola apocalittica cannonata. Un fragore così
forte da risucchiarmi il fiato.
Mio padre avrebbe passato la serata proteso verso quel cielo, in
cima a una gru di ferro, a riparare linee elettriche. Al solo pensarci
mi si aggrovigliavano le viscere dalla preoccupazione. Ma lui si
mostrava solo seccato e un po’ stanco, come se i tuoni non lo
infastidissero più di un paio di ragazzini che si azzuffavano sul
sedile posteriore della macchina. Si portò una mano all’orecchio, per
farmi capire che non mi aveva sentito.
«Era già quasi finita oggi pomeriggio, quando è comparsa Shelly.
Se la completo, domani te la faccio vedere.»
«Molto bene. Devi sbrigarti a fare il tuo primo milione di dollari,
così posso andare in pensione e dedicarmi alla mia vera passione:
creazioni originali con il budino.» Si avviò verso il furgone, poi si
voltò accigliato. «Voglio che mi chiami, se…»
Ci fu un’altra cannonata. Mio padre continuò a parlare, ma non
sentii una parola. Tipico di lui: aveva un raro talento per annullare i
dettagli di sfondo che non lo riguardavano. Potevano esserci le
cheerleader dei Dallas Cowboys che agitavano i pon-pon tutte nude,
ma se papà fosse stato in cima alla sua gru ad aggiustare un
trasformatore dubito che le avrebbe degnate di uno sguardo.
Feci cenno di sì, come se avessi capito che cos’aveva detto.
Supponevo mi avesse fatto la sua raccomandazione standard:
chiamare l’ufficio e farlo contattare via radio, se avessi avuto bisogno
di qualcosa. Mi salutò con la mano e si allontanò. Una luce azzurra
balenò alta tra le nubi, il flash della macchina fotografica più grande
del mondo.
Rabbrividii.
Non lasciare che ti faccia una foto.
Socchiusi la porta d’ingresso.
I fari del furgone si accesero nello stesso momento in cui si
spegneva il pomeriggio. Erano solo le sei e un quarto di un giorno di
metà agosto e il sole non sarebbe tramontato prima di altre tre ore,
ma era già calato un buio opprimente.
Il veicolo fece marcia indietro.
Io chiusi la porta.
6

NON so per quanto tempo rimasi nell’ingresso ad ascoltare le


pulsazioni nelle orecchie, trattenuto dalla calma carica di tensione
del pomeriggio. A un certo punto mi accorsi di avere la mano sul
cuore, come uno che sta per giurare fedeltà.
No, non sul cuore. Sulla Polaroid.
Ebbi un impulso potente di liberarmene, di gettarla via.
Tenermela nel taschino mi procurava una sensazione di angoscia.
Angoscia e pericolo, quasi fosse una fiala di sangue infetto.
Andai in cucina e aprii l’armadietto sotto il lavello, con
l’intenzione di ficcarla nella pattumiera, ma quando la tirai fuori
dalla tasca rimasi a guardarla. A guardare il ragazzotto grasso e
rosso in volto con la maglietta di Huey Lewis, intento a leggere
Popular Mechanics.
«Ci siamo già visti?» mi aveva chiesto Mat, con un sorriso di
scuse.
Un lampo balenò all’esterno. Feci un balzo indietro e lasciai
cadere l’istantanea. Quando alzai gli occhi, per un attimo fui certo di
avere visto lui, il Fenicio, dall’altro lato della finestra della cucina, e
non lasciare che ti faccia una foto, oddio, non lasciare…
Ma non era il Fenicio con la sua Solarid. Il flash era stato solo
l’ennesimo fulmine azzurrino, e la faccia che avevo visto era la mia,
un tenue riflesso sospeso sul vetro.
Quando esplose il tuono successivo ero in garage. Allineai con
cura l’istantanea al bordo del mio tavolo da lavoro, accesi la
lampada e regolai il braccio pieghevole per inquadrare la foto in un
cerchio di luce bianca. La fissai al piano con una puntina da disegno.
Mi sentii meglio. La foto era nella mia sala operatoria, adesso,
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“GEORGE HAD THE SAVAGE BY THE THROAT”
“Mr. Washington, we must kill him as we would a rattlesnake.”
“No,” replied George, “I will not have him killed.”[B]
The Indian, standing perfectly erect and apparently unconcerned,
understood well enough that the question of his life or death was
under discussion, but with a more than Roman fortitude he awaited
his fate, glancing indifferently meanwhile at the glittering edge of the
hatchet still held over him.
George took the hatchet from Lance’s hand, and said to the Indian,
in English:
“Though you have tried to kill me, I will spare your life. But I will not
trust you behind me. Walk ten paces in front of us in the direction of
the Alleghany River.”
The Indian turned, and, after getting his bearings, started off in a
manner which showed he understood what was required of him.
The Indians have keen ears, so that George and Lance dared not
speak in his hearing, but by exchanging signs they conveyed to each
other that there were enemies on their path, of whom this fellow was
only one.
Steadily the three tramped for hours, Lance carrying the Indian’s
gun. When darkness came on they stopped and made the Indian
make the fire, which he did, scowling, as being squaw’s work. They
then divided with him their scanty ration of dried venison, and
George, taking charge of the guns, Lance slept two hours. He was
then wakened by George, who lay down by the fire and slept two
hours, when he too was wakened. George then said to the Indian,
who had remained sleepless and upright all the time:
“We have determined to let you go, as we have not food enough for
three men. Go back to your tribe, and tell them that we spared your
life; but before you go pile wood on the fire, for we may have to
remain here, on account of the rise in the river, for several days.”
This was a ruse, but the Indian fell at once into the trap. After
replenishing the fire he started off in a northwesterly direction. As
soon as George and Lance were sure that he was out of sight they
made off in the opposite direction, and after some hours of trudging
through snow and ice they found themselves on the bank of the river.
They had hoped to find it frozen over, but, instead, there was only a
fringe of ice-cakes along the shores and swirling about in the main
channel.
Lance looked at George in some discouragement, but George only
said, cheerfully:
“It is lucky you have the hatchet, Lance. We must make a raft.”
The short winter day was nearly done before a rude raft was made,
and on it the two embarked. The piercing wind dashed their frail
contrivance about, and it was buffeted by the floating ice. The
Indian’s gun was lost, but their powder, in an oilskin knapsack, which
George carried on his back, escaped wetting, although he himself,
as well as Lance, was drenched to the skin. They could not make the
opposite shore, but were forced to land on an island, where they
spent the night. The hardships told on the older man, and George
saw, by the despairing look in Lance’s eyes, that he could do no
more that day. Wood, however, was plentiful, and a great fire was
made.
“Cheer up, Lance!” cried George, when the fire began to blaze;
“there is still some dried venison left. You shall sleep to-night, and in
the morning the river will be frozen over, and one more day’s march
will bring us to civilization.”
Lance was deeply mortified at his temporary collapse, but there was
no denying it. George had no sleep that night, except about two
hours after midnight, when Lance roused of himself. By daylight they
were astir, and crossed the river on the ice. Five days afterwards, at
a fork in the road twenty miles from Greenway Court, the two parted
—Lance to return to Greenway Court, and George to press on to
Williamsburg. By that time they had secured horses.
“Good-bye, my friend,” said George. “Tell my lord that nothing but the
urgency of the case prevented me from giving myself the happiness
of seeing him, and that no day has passed since he sent you with
me that I have not thanked him in my heart for your company.”
A subtile quiver came upon Lance’s rugged face.
“Mr. Washington,” he said, “I thank you humbly for what you have
said; but mark my words, sir, the time will come, if it is not already
here, that my lord will be thankful for every hour that you have spent
with him, and proud for every step of advancement he has helped
you to.”
“I hope so, my friend,” cried George, gayly, and turning to go.
Lance watched the tall, lithe young figure in hunting-clothes, worn
and torn, riding jauntily off, until George was out of sight. Then he
himself struck out for Greenway Court. Four days afterwards a
tattered figure rode up to Mount Vernon. The negroes laughed and
cried and yah-yahed at seeing “Marse George” in such a plight.
Spending only one night there, in order to get some clothes and
necessaries, he left at daybreak for Williamsburg, where he arrived
and reported to the governor exactly eleven weeks from the day he
started on this terrible journey.
CHAPTER XIX
The news brought by George confirmed all the fears of the war
which was presently to begin and to last for seven years. The
governor immediately called together his council, laid before them
Major Washington’s report, and for once acted with promptitude. It
was determined to raise a force of several hundred men, to take
possession of the disputed territory, and, without a single opposing
voice, the command was offered to Major Washington, with the
additional rank of lieutenant-colonel.
George said little, but his gratification was deeper than he could
express. He wrote to his mother at once, and also to Betty, and Betty
answered: “Our mother is very resigned, for she knows, dear
George, that when one has a son or a brother who is a great military
genius, and who everybody knows must one day be a great man,
one must give him up to his country.” At which George laughed very
much, for he did not think himself either a genius or a great man.
After receiving the governor’s instructions, and paying a flying visit to
Ferry Farm, George went to Mount Vernon, as all the preparations
for the campaign were to be made at Alexandria, which was the
rendezvous.
His days were now spent in the most arduous labor. He knew what
was before him, and he was full of care. He was very anxious to
enlist men from the mountain districts, as being better able to
withstand the hardships of a mountain campaign. He wrote to Lord
Fairfax, who was lieutenant of the county of Frederick, and a
recruiting station was opened at Greenway Court. At last, in April, he
was ready to march on his first campaign. His force consisted of
about four hundred Virginia troops, with nine swivels mounted on
carriages. He expected to be joined by other troops from Maryland
and Pennsylvania, but he was doomed to be cruelly disappointed.
The morning of the 15th of April, 1754, was bright and warm, and at
eight o’clock the soldiers marched out, to the music of the fife and
drum, from the town of Alexandria, with Colonel Washington at their
head.
They were a fine-looking body of men, but, as always, Colonel
Washington was the finest figure present. He rode a superb chestnut
horse, handsomely caparisoned. In his splendid new uniform his
elegant figure showed to the greatest advantage. All the windows of
the streets through which they marched were filled with spectators.
At one Colonel Washington removed his chapeau, and bowed as if
to royalty, for from it his mother and Betty were watching him. His
mother raised her hands in blessing, while Betty held out her arms
as if to clasp him. And when he had passed the two fond creatures
fell into each other’s arms, and cried together very heartily.
Captain Vanbraam commanded the first company. In one of the
baggage-wagons sat a familiar figure. It was Billy—not left behind
this time, but taken as George’s body-servant.
On the 20th Will’s Creek was reached. A small party of men under
Captain Trench had been sent forward by the governor to the Ohio
River, with orders to build a fort at what is now Pittsburg, and there
await Colonel Washington. But while the Virginia troops were
marching through the forest, before sighting the creek, an officer on
a horse was seen approaching. He rode up to George, and, saluting,
said:
“I am Ensign Ward, sir, of Captain Trench’s company.”
“From the fort at the meeting of the Alleghany and Monongahela?”
asked George.
“Ah, sir,” cried the young officer, with tears in his eyes, “the fort is no
longer ours. A French force, consisting of nearly a thousand men,
appeared while we were at work on it, and opened fire on us. We
were but forty-one, and we were forced to hoist the white flag without
firing a shot.”
This was, indeed, dreadful news. It showed that the French were
fully alive to the situation, if not beforehand with the English. Even a
small detachment of the French force could cut off and destroy this
little band of four companies. George’s mind was hard at work while
young Ward gave the details of the surrender. His only comment
was:
“We must push on to a point I have marked on the Monongahela,
and there build the fort instead of at the junction of the rivers.”
After passing Will’s Creek they were in the heart of the wilderness.
The transportation of the guns, ammunition, and baggage was so
difficult, owing to the wildness of the country, that they were fourteen
days in making fourteen miles. But the men, animated by their
commander, toiled uncomplainingly at work most distasteful to
soldiers—cutting down trees, making bridges, and dragging the guns
over rocks when wheels could not turn. Even Billy worked for the first
time in his life. One night, after three weeks of this labor, an Indian
stalked up to the camp and demanded to see the commander.
George happened to be passing on his nightly round of inspection,
and in a moment recognized his old friend Tanacharison. “Welcome!”
cried the chief in the Indian tongue, and calling George by his Indian
name of “Young White Warrior.”
“Welcome to you,” answered George, more than pleased to see his
ally.
“This is no time for much talk,” said the Indian. “Fifty French soldiers
with Captain Jumonville are concealed in a glen six miles away. They
are spies for the main body—for the French have three men to your
one—and if they find you here you will be cut to pieces. But if you
can catch the French spies, the main body will not know where you
are; and,” he added, with a crafty smile, “if they should meet
Tanacharison, he will send them a hundred miles in the wrong
direction.”
George saw in a moment the excellence of the old chief’s advice.
Tanacharison knew the road, which was comparatively easy, and
offered to guide them, and to assist with several of his braves. It was
then nine o’clock, and rain had begun falling in torrents. George
retired to his rude shelter of boughs, called together his officers, and
announced his intention of attacking this party of fifty Frenchmen. He
made a list of forty picked men, and at midnight he caused them to
be wakened quietly, and set off without arousing the whole camp.
The wind roared and the rain changed to hail, but still the Virginians,
with Washington at their head, kept on through the woods.
Sometimes they sank up to their knees in quagmires—again they cut
their feet against sharp stones; but they never halted. At daybreak
they entered the glen in two files, the Indians on one side, the
Virginians on the other, George leading. It was a wild place,
surrounded by rocks, with only one narrow cleft for entrance. Just as
the last man had entered the alarm was given, and firing began from
both parties at the same time. The French resisted bravely, headed
by Captain Jumonville, who was the first man to fall; but a quarter of
an hour’s sharp fighting decided the skirmish, and the French called
for quarter. This was George’s baptism of fire, and it was the
beginning of war between France and England, which was to last,
with but a few years’ intermission, for more than fifty years.
The prisoners were at once taken back to the American camp, and
then sent, under guard, back to Virginia. This little success raised the
spirits of the troops very much, but George, with a prophetic eye,
knew that, as soon as the story of Jumonville’s defeat and death
reached the French, a formidable force would be sent out against
him. He had brave and active spies, who penetrated almost as far as
Fort Duquesne, as the French had named Trench’s fort, but none of
them equalled old Tanacharison. One night, the last of June, he and
three other scouts brought the news that the French were advancing,
nine hundred strong, and were near at hand. A council of war was
called, and it was determined to retreat to Great Meadows, where a
better stand could be made, and where it was thought provisions and
reinforcements would meet them. Accordingly, at daybreak, a start
was made. The horses had become so weak from insufficient food
that they could no longer drag the light swivels, and the men were
forced to haul them. George himself set the example of the officers
walking, and, dismounting, loaded his horse with public stores, while
he engaged the men, for liberal pay, to carry his own small baggage.
It very much disgusted Billy to be thrown out of his comfortable seat
in the baggage-wagon, but he was forced to leg it like his betters.
Two days’ slow and painful marching brought them to Great
Meadows, but, to their intense disappointment, not a man was found,
nor provisions of any sort. The men were disheartened but
unmurmuring.
George immediately set them to work felling trees and making such
breastworks of earth and rocks as they could manage with their few
tools.
“I shall call this place Fort Necessity,” he said to his officers; “for it is
necessity, not choice, that made me retreat here.”
Every hour in the day and night he expected to be attacked, but no
attack would have caught him unprepared to resist as best he could
with his feeble force. His ceaseless vigilance surprised even those
who knew how tireless he was.
At last, on the morning of the 3d of July, just as George had finished
making the round of the sentries, he heard, across the camp, a shot,
followed by the sudden shriek of a wounded man. The French
skirmishers were on the ground, and one of them, being seen
stealing along in the underbrush, had been challenged by the sentry,
and had fired in reply and winged his man. The alarm was given, and
by nine o’clock it was known that a French force of nine hundred
men, with artillery, was approaching rapidly. By eleven o’clock the
gleam of their muskets could be seen through the trees as they
advanced to the attack. Meanwhile not a moment since the first
alarm had been lost in the American camp. George seemed to be
everywhere at once, animating his men, and seeing that every
possible preparation was made. He had posted his little force in the
best possible manner, and had instructed his officers to fight where
they were, and not to be drawn from their position into the woods,
where the French could slaughter them at will.
The French began their fire at six hundred yards, but the Americans
did not return a shot until the enemy was within range, when George,
himself sighting a swivel, sent a shot screeching into the midst of
them. He fully expected an assault, but the French were wary, and,
knowing their superiority in force, as well as the longer range of their
artillery, withdrew farther into the woods, and began to play their
guns on the Americans, who could not fire an effective shot. The
French sharp-shooters, too, posting themselves behind trees, picked
off the Americans, and especially aimed at the horses, which they
destroyed one by one. All during the hot July day this continued. The
Americans showed an admirable spirit, and this young commander,
with the fortitude of a veteran, encouraged them to resist, but he was
too good a soldier not to see that there could be but one issue to it.
At every volley from the French some of the Americans dropped, and
this going on, hour after hour, under a burning sun, by weary, half-
starved men, would have tried the courage of the best soldiers in the
world. But the men and their young commander were animated by
the same spirit—they must stubbornly defend every inch of ground
and die in the last ditch.
Captain Vanbraam, who was second in command, was a man of
much coolness, and knew the smell of burning powder well. During
the day, standing near him, he said quietly to George:
“I see, Colonel Washington, that you practice the tactics of all great
soldiers: if you cannot win, you will at least make the enemy pay
dearly for his victory.” George turned a pale but determined face
upon him.
“I must never let the Frenchman think that Americans are easily
beaten. They outnumber us three to one, but we must fight for honor
when we can no longer fight for victory. Nor can I acknowledge
myself beaten before the Frenchman thinks so, and he must sound
the parley first. The braver our defence the better will be the terms
offered us.”
Captain Vanbraam gazed with admiration at the commanding officer
of twenty-three—so cool, so determined in the face of certain
disaster. George in all his life had never seen so many dead and
wounded as on that July day, but he bore the sight unflinchingly.
About sunset on this terrible day a furious thunder-storm arose.
Within ten minutes the sky, that had gleamed all day like a dome of
heated brass, grew black. The clouds rushed from all points of the
compass, and formed a dense black pall overhead. It seemed to
touch the very tops of the tall pines, that rocked and swayed
fearfully, as a wind, fierce and sudden, swept through them. A crash
of thunder, like two worlds coming together, followed a flash of
lightning which rent the heavens. As tree after tree was struck in the
forest and came down the sharp crash was heard. Then the heavens
were opened and floods descended. At the beginning of the tempest
George had promptly ordered the men to withdraw, with the
wounded, inside the rude fort. He worked alongside with the private
soldiers in trying to make the wounded men more comfortable, and
lifted many of them with his own arms into the best protected spots.
It was impossible to secure them from the rain, however, or to keep
the powder dry, and George saw, with an anguish that nearly broke
his heart, that he had fired his last shot.
For two hours the storm raged, and then died away as suddenly as it
rose. A pallid moon came out in the heavens, and a solemn and
awful silence succeeded the uproar of tempest and battle. About
nine o’clock, by the dim light of a few lanterns, the Americans saw a
party approaching bearing a white flag, and with a drummer beating
the parley. George, who was the first to see them, turned to Captain
Vanbraam.
“You will meet them, captain, but by no means allow them to enter
the fort so they can see our desperate situation.”
Captain Vanbraam, accompanied by two other officers, met the
Frenchmen outside the breastworks, where they received a letter
from the French commander to Colonel Washington. George read it
by the light of a pine torch which Captain Vanbraam held for him. It
ran:
“Sir,—Desirous to avoid the useless effusion of blood,
and to save the lives of gallant enemies like yourself and
the men under your command, I propose a parley to
arrange the terms of surrender of your forces to me as the
representative of his most Christian majesty. Captain Du
Val, the bearer of this, is empowered to make terms with
you or your representative, according to conditions which I
have given him in writing, of which the first is that your
command be permitted to march out with all the honors of
war, drums beating and colors flying. I have the honor to
be, sir, with the highest respect,
“Your obedient, humble servant,
“Duchaine.”
As George finished reading this letter for one moment his calmness
deserted him, and with a groan he covered his face with his hands.
But it was only for a moment; the next he had recovered a manly
composure. With a drum-head for a table, and a log of wood for a
seat, he called his officers about him, and quietly discussed the
proposed terms, Captain Vanbraam translating to those who did not
understand French. The conditions were highly honorable. The
Frenchman knew what he was about, and the stubborn resistance of
the Americans had earned them, not only the respect, but the
substantial consideration of the French. They were to be paroled on
delivering up their prisoners, and were to retain their side-arms and
baggage.
The men knew what was going on, as orders had been given to
cease firing, and having built camp-fires, sat about them, gloomy and
despondent. But no word of murmuring escaped them. When at last,
in about an hour, the preliminaries were arranged, signed, and sent
to the French commander, George assembled round him the
remnant of men left.
“WITH DRUMS BEATING AND COLORS FLYING”
“My men,” he said, in a choked voice, “to-morrow morning at nine
o’clock we shall march out of Fort Necessity beaten but not
disgraced. Every man here has done his whole duty, but we were
outnumbered three to one; and our fight this day has been for our
honor, not for victory, because victory was impossible. We are
accorded all the honors of war, which shows that we are fighting men
as honorable as ourselves. I thank you every one, officers and
soldiers, for the manly defence you have made. This is our first fight,
but it is not our last, and the time will come, I hope, when we can
wipe out this day’s record by a victory gained not by superior force
but by superior gallantry.”
A cheer broke from the men who had listened to him. They were
soldiers, and they knew that they had been well commanded, and
that the unequal battle had been very nobly fought, and George
Washington was one of the few men in the world’s history who could
always command in defeat the confidence that other men can only
secure in success.
Next morning—by a strange coincidence the Fourth of July, then an
unmarked day in the calendar—at nine o’clock the Americans
marched out of camp. The French were drawn up in parallel lines in
front of the intrenchment. Knowing that the American officers would
be afoot, the French officers sent their horses to the rear. As the
Americans marched out, with George Washington at their head, the
French commander, Duchaine, turned to his officers and said,
smiling:
“Look at that beautiful boy-commander! Are not such provincials
worth conquering?”
The Americans halted, and George advanced to thank the French
commander for the extreme courtesy shown the Americans, for it
was the policy of the French to conciliate the Americans, and to
profess to think them driven into the war by England.
Before George could speak the Frenchman, saluting, said:
“Colonel Washington, I had heard that you were young, but not until
this moment did I fully realize it. All day yesterday I thought I was
fighting a man as old in war as I am, and I have been a soldier for
more than thirty years.”
George could only say a few words in reply, but to the core of his
heart he felt the cordial respect given him by his enemies.
But his thoughts were bitter on that homeward march. He had been
sent out to do great things, and he came back a defeated man. By
the watch-fires at night he prepared his account to be submitted to
Governor Dinwiddie, and it was the most painful work of his life. After
two weeks’ travel, the latter part of it in advance of his command, he
reached Williamsburg. The House of Burgesses was in session, and
this gave him a painful kind of satisfaction. He would know at once
what was thought of his conduct.
On the day of his arrival he presented himself before Governor
Dinwiddie, who received him kindly.
“We know, Colonel Washington,” he said, “that you surrendered
three hundred men to nine hundred. But we also know that you gave
them a tussle for it. Remain here until I have communicated with the
House of Burgesses, when you will, no doubt, be sent for.”
George remained in his rooms at the Raleigh Tavern, seeing no one.
He knew the governor perfectly well—a man of good heart but weak
head—and he set more value on the verdict of his own countrymen,
assembled as burgesses, than on the governor’s approval. He did
not have to wait long. The House of Burgesses received his report,
read it, and expressed a high sense of Colonel Washington’s
courage and ability, although, in spite of both, he had been
unfortunate, and declared a continuation of their confidence in him.
Not so Governor Dinwiddie. His heart was right, but whenever he
thought for himself he always thought wrong. The fact that he had to
report to the home government the failure of this inadequate
expedition set him to contriving, as all weak men will, some one or
some circumstance on which to shift the responsibility. It occurred to
him at once: the Virginia troops were only provincial troops—Colonel
Washington was a provincial officer. What was needed, this wise
governor concluded, was regular troops and regular officers. This he
urged strongly in his report to the home government, and next day
he sent for George.
“Colonel Washington,” he said, suddenly, “I believe nothing can be
accomplished without the aid of regular troops from England, and I
have asked for at least two regiments for the next campaign.
Meanwhile I have determined to raise ten companies to assist the
regular force which is promised us in the spring, for it is now too late
in the season for military operations. I offer you the command of one
of those companies. Your former officers will be similarly provided
for; but I will state frankly that when the campaign opens the officers
of the same rank in his majesty’s regular troops will outrank those in
the provincial army.”
George listened to this remarkable speech with the red slowly
mounting into his face. His temper, brought under control only by the
most determined will, showed in his eyes, which literally blazed with
anger.
“Sir,” he said, after a moment, “as I understand, you offer me a
captain’s commission in exchange for that which I now bear of
lieutenant-colonel, and I am to be made the equal of men whom I
have commanded, and all of us are to be outranked by the regular
force.”
The governor shifted uneasily in his chair, and finally began a long
rigmarole which he meant for an explanation. George heard him
through in an unbroken silence, which very much disconcerted the
governor. Then he rose and said, with a low bow:
“Sir, I decline to accept the commission you offer me, and I think you
must suppose me as empty as the commission itself in proposing it. I
shall also have the honor of surrendering to your excellency the
commission of lieutenant-colonel, which you gave me; and I bid you,
sir, good-morning”—and he was gone.
The governor looked about him, dazed at finding himself so suddenly
alone.
“What a young fire-eater!” he soliloquized. “But it is the way with
these republicans. They fancy themselves quite as good as anybody
the king can send over here, and the spirit shown by this young
game-cock is just what I might have expected of him.”
The governor tried to dismiss the subject from his mind, but he could
not, and he soon found out that “the young game-cock’s” spurs were
fully grown.
CHAPTER XX
George returned to Alexandria, where his regiment awaited him. He
was mad with rage and chagrin. He could have taken censure with
humility, feeling sure that whatever mistakes he had made were
those of inexperience, not a want of zeal or courage. But to be
quietly supplanted, to be asked—after all the hardships and dangers
he had passed through, and the exoneration from blame by his
countrymen—to take a humiliating place, was more than he felt he
ought to bear.
When he reached Alexandria he informed his officers of the
resignation of his commission, which would be accepted in a few
days; and their reply was an address, which did what all his cares
and griefs and hardships had never done—it brought him to tears. A
part of the letter ran thus:
“Sir,—We, your most obedient and affectionate officers,
beg leave to express our great concern at the
disagreeable news we have received of your
determination to resign the command of that corps in
which we have, under you, long served. The happiness
we have enjoyed and the honor we have acquired,
together with the mutual regard that has always subsisted
between you and your officers, have implanted so sensible
an affection in the minds of us all that we cannot be silent
on this critical occasion.
“Your steady adherence to impartial justice, your quick
discernment and invariable regard to merit, first
heightened our natural emulation to excel. Judge, then,
how sensibly we must be affected with the loss of such an
excellent commander, such a sincere friend, such an
affable companion. How great the loss of such a man! It
gives us additional sorrow, when we reflect, to find our
unhappy country will receive a loss no less irreparable
than our own. Where will it find a man so experienced in
military affairs—one so renowned for patriotism, conduct,
and courage? Who has so great a knowledge of the
enemy we have to deal with? Who so well acquainted with
their situation and strength? Who so much respected by
the soldiery? Who, in short, so well able to support the
military character of Virginia? We presume to entreat you
to lead us on to assist in the glorious work of extirpating
our enemies. In you we place the most implicit confidence.
Your presence only will cause a steady firmness and vigor
to actuate in every breast, despising the greatest dangers,
and thinking light of toils and hardships, while led on by
the man we know and love.”[C]
Deep, indeed, was the conviction which made George resist this
letter; but his reply was characteristic: “I made not this decision
lightly, and all I ask is that I may be enabled to go with you in an
honorable capacity; but to be degraded and superseded, this I
cannot bear.”
The governor was very soon made aware that the soldiers bitterly
resented his treatment of their young commander, but he had gone
too far to retreat. George, as soon as his resignation was accepted,
retired to Mount Vernon; and about the time he left his regiment at
Alexandria two frigates sailed up the Potomac with General
Braddock and landed two thousand regular troops for the spring
campaign against the French and Indians.
George spent the autumn and winter at Mount Vernon, where, until
then, he had spent but one night in fifteen months. After getting his
affairs there in some sort of order he visited his sister at Belvoir, and
his mother and Betty at Ferry Farm. All of them noticed a change in
him. He had grown more grave, and there was a singular gentleness
in his manner. His quick temper seemed to have been utterly
subdued. Betty alone spoke to him of the change she saw.
“I think, dear Betty,” he answered, gently, “that no one can go
through a campaign such as I have seen without being changed and
softened by it. And then I foresee a terrible war with France and
discord with the mother-country. We are upon the threshold of great
events, depend upon it, of which no man can see the outcome.”
The winter was passed in hard work at Mount Vernon. Only by
ceaseless labor could George control his restlessness. The military
fever was kindled in his veins, and, do what he could, there was no
subduing it, although he controlled it. Torn between the desire to
serve his country as a military man and the sense of a personal and
undeserved affront, he scarcely knew what to do. One day, in the
fever of his impatience, he would determine to go to Alexandria and
enlist as a private in his old corps. Then reason and reflection, which
were never long absent from him, would return, and he would realize
that his presence under such circumstances would seriously impair
the discipline of the corps. And after receiving the officers’ letter, and
hearing what was said and done among them, he was forced to
recognize, in spite of his native modesty, that his old troops would
not tolerate that he should be in any position which they conceived
inadequate to his deserts. Captain Vanbraam told him much of this
one night when he rode from Alexandria to spend the night with
George.
“General Braddock is a great, bluff, brave, foolish, hard-drinking,
hard-riding Irishman. He does not understand the temper of our
soldiers, and has not the remotest conception of Indian fighting,
which our enemies have been clever enough to adopt. I foresee
nothing but disaster if he carries out the campaign on his present
lines. There is but one good sign. He has heard of you, Colonel
Washington, and seems to have been impressed by the devotion of
your men to you. Last night he said to me, ‘Can you not contrive to
get this young colonel over to see me? I observe one strange thing
in these provincial troops: they have exactly the same confidence in
Colonel Washington now as before his disastrous campaign, and as
a soldier I know there must be some great qualities in a commander
when even defeat cannot undo him with his men, for your private
soldier is commonly a good military critic; so now, my little Dutch
captain,’ bringing his great fist down on my back like the hammer on
the anvil, ‘do you bring him to see me. If he will take a place in my
military family, by gad it is his.’ And, my young colonel,” added
Vanbraam in his quiet way, “I am not so sure it is not your duty to go,
for I have a suspicion that this great swashbuckler will bring our
troops to such a pass in this campaign that only you can manage
them. So return with me to-morrow.”
“Let me sleep on it,” answered George, with a faint smile.
Next evening, as the general sat in his quarters at the Alexandria
Tavern, surrounded by his officers, most of them drinking and
swaggering, the general most of all, a knock came at the door, and
when it was opened Captain Vanbraam’s short figure appeared, and
with him George Washington, the finest and most military figure that
General Braddock ever remembered to have seen. Something he
had once heard of the great Condé came to General Braddock’s dull
brain when he saw this superb young soldier: “This man was born a
captain.”
When George was introduced he was received with every evidence
of respect. The general, who was a good soldier after a bad pattern,
said to him at once:
“Mr. Washington, I have much desired to see you, and will you oblige
me by giving me, later on, a full account of your last campaign?” The
other officers took the hint, and, in a little while, George and the
general were alone. They remained alone until two o’clock in the
morning, and when George came out of the room he had entered as
a private citizen he was first aide-de-camp on General Braddock’s
staff.
As he walked back to Captain Vanbraam’s quarters in the dead of
night, under a wintry sky, he was almost overwhelmed with
conflicting feelings. He was full of joy that he could make the
campaign in an honorable position; but General Braddock’s utter
inability to comprehend what was necessary in such fighting filled
him with dread for the brave men who were to be risked in such a
venture.
Captain Vanbraam was up waiting for him. In a few words George
told what had passed.

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