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Joe
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Il libro
C
e la farà un ragazzino della Silicon Valley a sfuggire
alla follia di un criminale che, munito di una misteriosa
Polaroid, scatto dopo scatto, cancella ogni ricordo delle sue
vittime? Cosa si nasconde dietro la natura psicotica della guardia di
sicurezza che ha appena sventato un attentato in Florida diventando
un eroe nazionale? Come farà l’uomo col paracadute a liberarsi dalle
morbide grinfie di una nuvola che sembra controllata da un’oscura
forza sadica e paranormale? Riuscirà, infine, la piccola comunità di
Boulder, in Colorado, a trovare riparo dall’apocalittica pioggia di
taglienti cristalli che all’improvviso comincia a minacciarne la
sopravvivenza?
In un mondo contemporaneo in cui la realtà, tra attentati, guerre e
crisi climatiche, fa quasi più paura dei nostri stessi incubi, Joe Hill,
uno dei più apprezzati autori horror americani della sua generazione,
intreccia quattro storie che mettono in scena le nostre fragilità, le
nostre inquietudini e la nostra follia. Storie che, con la loro cronaca
avvincente dell’eterna lotta tra il Bene e il Male, esplorano il lato
oscuro della quotidianità e il terrore che cova sotto l’apparente
tranquillità delle nostre vite.
Con un crescendo di atmosfere surreali, incubi stranianti e paure
nascoste, Un tempo strano ha scalato le classifiche americane,
diventando un bestseller del New York Times: il miglior libro per chi
non ha paura della paura.
L’autore
JOE HILL è uno dei più importanti scrittori americani horror della sua
generazione; «uno degli autori di spicco nella letteratura fantastica
del Ventunesimo secolo», come lo ha definito il Washington Post.
Con i suoi libri, più volte bestseller del New York Times, ha ricevuto
numerosi riconoscimenti internazionali, come il Bram Stoker Award
e il British Fantasy Award. Ricordiamo, tra gli altri: NOS4A2,
diventato una serie TV; A tutto gas (che contiene il racconto Nell’erba
alta, da cui è stato tratto un film); Locke & Key, il fumetto da cui
Netflix ha adattato l’omonima serie tv.
www.joehillfiction.com
Twitter: @joe_hill
Joe Hill
UN TEMPO STRANO
Traduzione di Carlo Andrea Cappi
Per Mr Blue Sky: Aidan Sawyer King.
Ti voglio bene, ragazzo.
ISTANTANEA
1
USCII con i nervi a fior di pelle e un ronzio nella testa. Ormai avevo
la ragionevole certezza che Mat non avesse la minima idea di chi
fossi e non si ricordasse di avermi mai visto, malgrado passassi al
minimarket tutti i giorni e fosse un anno che leggevo i suoi arretrati
di Popular Mechanics. Semplicemente non mi riconosceva più, e il
pensiero mi faceva accapponare la pelle.
Mi dissi che ero io che non capivo, che era assurdo, che non aveva
senso, ma questa non era tutta la verità. Seppure a livello appena
cosciente, avevo già un sospetto sull’improvvisa amnesia di Mat, lo
percepivo come un topo nel muro. Senti gli artigli che grattano
furtivi, il corpo che striscia sull’intercapedine e anche se non lo vedi
sai che c’è. Tuttavia la mia idea era così terribile, degna di un film
dell’orrore, e così impossibile che non riuscivo a prenderla in
considerazione. Non ancora.
Rientrai a casa in uno stato di panico sottile ma persistente. Mi ci
volevano dieci minuti per andare dalla stazione di servizio a casa
mia a Plum Street. Lungo il percorso morii varie volte.
Sentivo gli pneumatici del Fenicio che stridevano sull’asfalto e mi
voltavo appena in tempo per vedere la griglia cromata della Cadillac
mezzo secondo prima che mi investisse. Poi lui inchiodava dietro di
me e mi inseguiva nei boschi con una chiave inglese e mi massacrava
di botte tra i cespugli. Mi saltava addosso mentre cercavo di
attraversare il cortile dei Thatcher e mi annegava nella loro piscina
gonfiabile: l’ultima cosa che vedevo era un pupazzo senza testa che
giaceva sul fondo. Il Fenicio mi passava accanto a bassa velocità con
una pistola nella mano sinistra fuori dal finestrino, e mi piantava un
proiettile nel collo e uno in una guancia. Mi tagliava la testa con un
machete arrugginito. WHACK. Mi passava vicino sibilando: Ehi,
ragazzo, come va?, e io morivo, stroncato da infarto, il mio debole
cuore sepolto dal grasso smetteva di battere all’età di tredici anni,
così giovane e pieno di promesse.
Avevo l’istantanea nel taschino, la sentivo scottare come un
quadrato di materiale radioattivo potenzialmente cancerogeno. Non
mi sarei sentito così a disagio nemmeno se fosse stata roba
pedopornografica. Il suo solo possesso mi sembrava criminale. Una
prova… anche se non avrei saputo dire di quale delitto.
Tagliai per il prato ed entrai in casa. Un rumore meccanico mi
guidò fino in cucina: mio padre stava montando una specie di panna
arancione, qualcosa cuoceva nel forno e nell’aria aleggiava un
profumo caldo di intingolo, che però faceva pensare ai bocconcini
per cani.
«Odore di cibo. Che cosa c’è in forno?»
«Battaglia di Stalingrado», rispose lui.
«E la panna arancione cos’è?»
«Guarnizione per il Brivido a Panama.»
Aprii il frigo in cerca di una bibita e trovai il Brivido a Panama:
un’enorme scultura gelatinosa nella cui massa vibrante erano
sospese delle ciliegie. Mio padre sapeva preparare solo poche cose: il
budino, il pasticcio di carne e il pollo condito con le zuppe in scatola.
Il suo vero talento in cucina stava nel battezzare i piatti. Una sera
c’era Battaglia di Stalingrado, un’altra Non aprite quella porta, un
ammasso di fagioli bianchi in salsa rosso sangue, a pranzo Sigaro di
Fidel, ovvero un’omelette marrone farcita con straccetti di maiale e
pezzi di ananas, e a colazione Pizza del Fattore, cioè una frittata con
formaggio e avanzi tritati. Papà non era grasso come me, ma grazie
alla nostra dieta non si poteva nemmeno definire magro. Se ci
incrociavamo in corridoio, dovevamo metterci tutt’e due di traverso.
Versai la bibita in un bicchiere e la feci fuori in quattro sorsate.
Non mi bastava. Ne aprii un’altra lattina.
«È quasi pronto», annunciò mio padre.
Emisi un «mmm» rassegnato. La Battaglia di Stalingrado era un
purè di patate con manzo tritato e una salsa di carne e funghi.
Mangiarlo era paragonabile a ingerire una secchiata di cemento
g p g g
liquido. Ero cotto, dopo essere andato e tornato dalla stazione di
servizio, e l’odore di cibo per cani della cena mi faceva star male.
«Non sei entusiasta?» chiese lui.
«Non vedo l’ora.»
«Mi spiace, non è la torta di mele della mamma. Ma devo dirti
che, se lei fosse qui, non credo che la farebbe.»
«Ti sembro uno che ha bisogno di torte?»
Lui mi guardò con la coda dell’occhio. «Hai l’aria di uno che ha
bisogno di una dose di antiacido.»
«Mi siedo di là a prendere fresco. Non avevo così caldo da
quando combattevo i Cong fuori da Khe Sanh.»
«Non ne parliamo. Se comincio a pensare ai ragazzi che abbiamo
perso laggiù, mi metto a piangere sulla panna montata.»
Mi misi a fischiettare «Goodnight Saigon». Papà e io andavamo
spesso a ruota libera con le nostre storie su quando eravamo in
guerra con il Vietnam del Nord, portavamo armi ai Contras e ci
salvavamo a stento dall’elicottero abbattuto nella missione per
salvare gli ostaggi in Iran. In realtà nessuno di noi due aveva mai
lasciato la California, tranne una volta per un viaggio alle Hawaii,
quando eravamo ancora una famiglia normale. Era mia madre
l’unica a vivere avventure in luoghi lontani.
Tecnicamente i miei genitori erano ancora sposati, ma la mamma
abitava presso le tribù della costa sud-occidentale africana e tornava
a casa solo un mese ogni tanto. Quando c’era, mi metteva a disagio.
Non avevamo conversazioni vere e proprie: parlare con lei era come
sostenere un esame orale su argomenti che andavano dal
femminismo al socialismo alla percezione della mia identità sessuale.
A volte mi faceva sedere con lei sul divano per leggermi un articolo
sul National Geographic a proposito di mutilazione dei genitali, poi
dichiarava che la pratica femminile di depilarsi le ascelle era un
retaggio del controllo patriarcale, quindi mi guardava con una certa
fascinazione ostile, come se si aspettasse che disapprovassi i riccioli
grigiastri che le spuntavano da sotto le braccia. Una volta avevo
chiesto a mio padre come mai non vivessero insieme, e lui aveva
risposto: «Perché lei è una persona brillante».
E credo che lo fosse davvero. Ho letto i suoi libri: non si possono
definire letture strabilianti, ma ammiro il modo in cui espone una
serie di piccole osservazioni e poi all’improvviso te le apre davanti
come un ventaglio, traendone una conclusione illuminante. Era tutta
presa dalla sua curiosità, ne era ipnotizzata. Dubito che le restasse
spazio in testa per occuparsi del marito e del figlio.
Mi stiracchiai sul divano, sotto la finestra, nella semioscurità del
salotto. Passai il pollice sul bordo della foto nel taschino per almeno
mezzo minuto prima di accorgermi di che cosa stessi facendo. Una
parte di me non voleva rivederla mai più, il che era un sentimento
curioso. In fondo era solo una mia foto mentre ero seduto a leggere
una rivista vicino al distributore delle bibite. Non c’era nulla di
strano, se non sapevi che era stata scattata quel giorno, eppure
mostrava una scena che risaliva a giorni prima, per non dire
settimane.
Una parte di me non la voleva guardare… e una parte di me non
poté farne a meno.
La tirai fuori dalla tasca e la rigirai tra le dita per esaminarla alla
bizzarra luce di quel pomeriggio temporalesco. Se i fantasmi hanno
un colore, dev’essere quello di un temporale di agosto che sta per
scoppiare. Il cielo era dello stesso grigio sporco di una Polaroid in
fase di sviluppo.
Nella foto ero chino su quella copia spiegazzata di Popular
Mechanics, grasso e sgraziato. La luce al neon mi dava la tinta
azzurrognola di uno zombie in un film horror.
«Non lasciare che ti faccia una foto.» Così mi aveva detto Shelly
Beukes.
«Non lasciare che cominci a portarti via le cose.»
Ma lui non aveva fatto la foto a me. Nella foto c’ero io, ma
l’obiettivo non era su di me e non era stato lui a scattare. In effetti, lui
non aveva fatto proprio niente. Ero stato io, con la Solarid puntata su
Mat.
Lasciai cadere a terra la foto con un senso di repulsione, come se
avessi avuto tra le dita una larva che si contorceva, e rimasi disteso
per un po’ nell’ombra, al fresco, cercando di non pensare. Tutto
quello che avevo in testa era marcio e irreale. Avete mai provato a
q p
non pensare? Non è diverso dal cercare di non respirare: non si
riesce a farlo per molto.
La maturità non arriva tutta in una volta. Non è un confine tra
due Paesi per cui, una volta varcata una frontiera invisibile, vi
trovate nel territorio dell’età adulta e parlate la lingua straniera dei
grandi. È più come una trasmissione radio da un’area lontana verso
cui stai guidando: a tratti la distingui appena tra le scariche di
elettricità statica, poi improvvisamente la ricezione diventa forte e
chiara. Ecco: in quel momento stavo cercando di ascoltare Radio
Adulti, perfettamente immobile nella speranza di intercettare notizie
utili e istruzioni da seguire in caso di emergenza.
In quella quiete forzata fissai per caso lo sguardo su una serie di
album di foto di famiglia, che mio padre aveva messo sullo scaffale
in alto della libreria. Gli piaceva tenere in ordine le cose: sul lavoro
indossava una cintura per gli attrezzi, con le pinze nella tasca
apposita e lo spelafili nella sua asola.
Scelsi un album a caso, mi lasciai ricadere sul divano e cominciai a
sfogliarlo. Le foto più vecchie erano rettangoli lucidi in bianco e
nero. Si vedevano i miei genitori insieme, nei giorni precedenti il
matrimonio, entrambi troppo maturi e ordinari per essere classificati
hippy. Non sono nemmeno sicuro di poterli descrivere come una
bella coppia. L’unica concessione di mio padre a quel periodo erano
basette folte e occhiali da sole con le lenti colorate. Mia madre, la
grande antropologa africana, indossava sempre pantaloncini militari
a vita alta e grossi scarponi da montagna, anche alle riunioni di
famiglia, e sorrideva come se le costasse fatica. Non c’era una foto in
cui si abbracciassero, si baciassero o anche solo si guardassero.
Perlomeno ce n’erano alcune in cui, a turno, tenevano in braccio
me. Ecco mia madre seduta sul pavimento, che faceva penzolare un
enorme mazzo di chiavi di gomma sopra un bambino paffuto disteso
sulla schiena, che cercava di afferrarle con le dita grassocce. Ecco mio
padre immerso fino alla cintola in una piscina fuori terra, che
reggeva tra le braccia un neonato nudo. Ero già una palla di lardo.
La mia compagnia più frequente, però, non era mio padre o mia
madre, bensì… Shelly Beukes. Fu una specie di choc, sul serio.
Quando lei era andata in pensione, sei anni prima, non avevo
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provato niente di particolare. Sarei stato altrettanto indifferente se
mio padre mi avesse detto che cambiavamo un tavolino del salotto.
All’epoca lui non mi aveva parlato dell’operazione a cuore aperto,
aveva detto solo che era un po’ anziana e che gli anziani hanno
bisogno di più riposo. E poi abitava in zona, potevo andarla a
trovare quando volevo.
L’avevo fatto? Oh, ero passato da lei in qualche rara occasione, a
prendere il tè con i biscotti ai datteri; ci sedevamo a guardare La
signora in giallo e Shelly mi chiedeva come andava. Certo, ero gentile
e mangiavo in fretta i biscotti, così me ne potevo andare prima.
Quando sei un bambino, passare un pomeriggio con una vecchia
signora a guardare la TV in un salotto soffocante è come vincere un
biglietto per Guantánamo Bay. L’affetto non c’entrava nulla.
Qualunque debito avessi nei suoi confronti, o qualsiasi cosa potessi
significare per lei, non mi era mai passato per la testa.
Ma eccola lì, foto dopo foto.
Stringevamo le sbarre di una cella della prigione di Alcatraz,
fingendoci terrorizzati.
Le stavo a cavalcioni sulle spalle per cogliere una pesca da un
albero e con la mano libera le spingevo il cappello di paglia sulla
faccia.
Soffiavo sulle candeline mentre lei mi stava dietro con le mani
alzate, pronta ad applaudire. E sì… tutte le foto erano scattate con
una Polaroid. Certo che ne avevamo una, ce l’avevano tutti allora.
Come tutti avevano un videoregistratore, un forno a microonde e il
walkman.
La donna nelle fotografie era anziana, ma aveva occhi brillanti,
quasi da ragazzina, e un sorrisetto malizioso. In una foto aveva
capelli dello stesso rosso della pubblicità di una birra, in un’altra di
un comico color carota, con lo smalto delle unghie in tinta. Mi
abbracciava sempre, mi arruffava i capelli, mi teneva sulle ginocchia
mentre mangiavo i biscotti ai datteri: un bambinetto grasso con un
pigiamino di Spider-Man e il mento sbrodolato di succo di
pompelmo.
A due terzi dell’album mi imbattei nella foto di un barbecue in
cortile che avevo ormai dimenticato. Stavolta Shelly aveva i capelli
y p
color Arctic Blu. Con lei c’era Larry l’afrikaner, in pantaloni attillati
color sabbia e camicia con le maniche arrotolate, per esibire gli
avambracci da Braccio di Ferro. Mi tenevano entrambi per mano: in
mezzo a loro ero una macchia indistinta nel crepuscolo. Shelly era
immortalata nell’atto di gridare qualcosa. Tutt’intorno c’erano adulti
che ci guardavano con l’aria divertita e un bicchiere di vino in mano.
L’idea che quei giorni le fossero stati portati via mi sembrava una
vigliaccata. Aveva il gusto di un sorso di latte andato a male. Era
indecente.
Non c’era giustificazione per la sua perdita di ricordi e raziocinio,
nessuna difesa che l’universo potesse offrirle dalla corruzione della
sua mente. Mi aveva voluto bene, anche se ero troppo stupido per
comprenderlo e apprezzarlo. Chiunque avesse visto quelle foto
avrebbe capito che mi era affezionata, che in qualche modo la
divertivo, malgrado le mie guanciotte, lo sguardo vacuo e la
tendenza a sporcare le mie terribili magliette ogni volta che
mangiavo qualcosa. Nonostante ricevessi come dovute le sue
attenzioni e il suo affetto. E adesso si stava dissolvendo tutto: le feste
di compleanno, i barbecue, le pesche mature. Un po’ alla volta Shelly
veniva cancellata da un cancro che non aggrediva il fisico ma la vita
interiore, la sua scorta privata di felicità. Mi veniva voglia di lanciare
l’album contro il muro. Mi veniva voglia di piangere.
Invece mi asciugai gli occhi e voltai pagina, con un «oh» di
sorpresa.
Quando avevo sbirciato nell’auto del Fenicio, avevo notato la
fotografia di un bodybuilder, un giovanotto abbronzatissimo con
una canottiera arancione, appollaiato sul cofano di una Pontiac.
L’avevo riconosciuto, anche se non ricordavo chi fosse né dove
l’avessi visto. E rieccolo qui, proprio nel mio album fotografico.
Teneva due sedie sollevate sopra la testa, una gamba in ciascuna
mano. Su una stavo io, in preda a un gioioso terrore: ero in costume
da bagno, con gocce d’acqua che brillavano sulle mie tette da
bambino grasso. Sull’altra c’era Shelly Beukes, aggrappata al sedile
con entrambe le mani, la testa rovesciata all’indietro in una risata.
Nella foto l’uomo non portava la canottiera, ma un’uniforme da
marinaio. Aveva un sorriso feroce sotto i baffi alla Tom Selleck. E,
guarda un po’, c’era anche la Pontiac; se ne scorgeva il retro sul
vialetto dietro l’angolo della casa di Shelly.
«Chi diavolo sei?» mormorai.
Avevo parlato da solo, non mi aspettavo una risposta, ma mio
padre chiese: «Chi?»
Stava sulla porta della cucina, con un guanto da forno su una
mano. Non sapevo da quanto fosse lì a guardarmi.
«Il tipo muscoloso.» Indicai la foto, che da quella distanza lui non
poteva vedere.
Papà si avvicinò e allungò il collo. «Oh. Quel coglione. Il figlio di
Shelly. Sinbad? Achilles? Un nome del genere. Era il giorno prima
che partisse per il Mar Rosso. Avevano organizzato un barbecue di
addio. Shelly aveva fatto una torta a forma di corazzata e quasi
altrettanto grande. Abbiamo portato a casa gli avanzi: ci siamo
mangiati corazzata a colazione per una settimana.
Me la ricordavo, la torta: una portaerei, non una corazzata, con la
glassa bianca e azzurra a fare da onde. Rammentavo anche
vagamente che la signora Beukes mi aveva raccontato che era una
festa di laurea… per me! Avevo appena finito la terza elementare!
Tipico di Shelly raccontare a un bambino solitario che la festa era
tutta per lui, anche se non c’entrava nulla.
«Non mi sembra così male», obiettai. Mi dava fastidio che mio
padre lo chiamasse coglione. Mi sembrava una critica indiretta alla
stessa Shelly, e non ero dell’umore adatto.
«Oh, tu andavi matto per lui! Era proprio il figlio di Larry.
Partecipava ai concorsi di bodybuilding, gli piaceva far vedere che
cosa sapeva fare con i muscoli, tipo sollevare una macchina con
l’uccello o roba del genere. Tu credevi che fosse l’Incredibile Hulk.
Me la ricordo quell’acrobazia: vi ha sollevato tutt’e due e andava in
giro tenendovi in equilibrio sulle sedie. Avevo paura che Shelly
volasse giù e battesse la testa: avrei dovuto cercare una nuova baby-
sitter. O che facesse cadere te, così mi sarei dovuto trovare un altro
figlio con cui mangiare il mio Brivido a Panama. Forza, la cena è
pronta! Diamoci dentro.»
Ci sedemmo a tavola, con la Battaglia di Stalingrado nei piatti.
Non avevo fame e mi sorpresi quando mi accorsi che stavo
p q
ripulendo anche quanto restava dell’intingolo. Giravo un pezzo di
pane nel piatto spandendo il sugo e pensando a tutti quegli album
sul sedile posteriore dell’auto del Fenicio. E alla foto nel mio
taschino, in cui si vedeva qualcosa di impossibile. Mi si stava
sviluppando in testa un’idea che, come una foto Polaroid, diventava
sempre più nitida.
In tono falsamente calmo dissi: «Oggi ho visto la signora Beukes».
«Ah, sì?» Mio padre mi guardò pensoso. Poi, in tono altrettanto
falso, domandò: «Come sta?»
«Si era persa. L’ho riaccompagnata a casa.»
«Hai fatto bene. Proprio quello che mi aspetto da te.»
Gli raccontai che l’avevo trovata per strada, che lei pensava di
dover venire a lavorare, che non aveva pronunciato il mio nome
perché non lo sapeva più. Gli dissi di Larry Beukes che era arrivato
in macchina in preda al panico, temendo che fosse finita in mezzo al
traffico o che si fosse persa per sempre.
«Mi ha dato dei soldi perché l’ho riportata a casa. Io non volevo
accettarli, ma lui ha insistito.»
Non pensavo che a mio padre la cosa andasse a genio, e una parte
di me si aspettava, forse addirittura sperava, che mi rimproverasse.
Invece lui andò a prendere il Brivido a Panama e senza voltarsi
replicò: «Bene».
«Bene?»
Mise sul tavolo il budino, che tremolava sotto dieci centimetri di
panna colorata, e cominciò a riempire le scodelle. «Certo. Pagarti,
per uno come Larry Beukes, è un modo per sentire di aver ripreso il
controllo della situazione. Non è un uomo cui è sfuggita la moglie
con la demenza senile perché lui è troppo vecchio per badarle da
solo. È un uomo che sa pagare chi gli risolve un problema.»
«Mi ha chiesto se posso dargli una mano ogni tanto. Andare da
loro quando lui deve uscire per fare la spesa e roba del genere.»
Papà si bloccò con una cucchiaiata di Brivido a Panama davanti
alla bocca. «Mi fa piacere. Tu sei bravo ad aiutare. So che volevi bene
a quella vecchia signora.»
Strano, eh? Mio padre sapeva che avevo voluto bene a Shelly
Beukes, quando nemmeno io ne ero al corrente fino a pochi minuti
q p
prima.
«È successo altro, oggi?»
Il mio pollice andò al taschino e sfiorò il bordo della Polaroid (o
dovrei dire Solarid?) Era da quando ero tornato a casa che
continuavo a toccarla, nervoso. Non potevo farci niente. Pensai di
accennare al Fenicio e alla scenata al minimarket, ma non sapevo
come parlarne senza fare la figura del fifone.
E poi c’era quell’idea che si faceva strada ai confini della mia
mente e che cercavo a tutti i costi di ignorare. Volevo tenerla alla
larga ma, se mi fossi messo a parlare del Fenicio, non ci sarei
riuscito. Perciò non aprii bocca sull’incontro alla stazione di servizio.
«Ho quasi completato la sparacoriandoli», annunciai invece.
«Fantastico. Sarà facile festeggiare, quando avrai finito. Dovrai
solo premere il grilletto.» Si alzò per portare i piatti nel lavello.
«Mike?»
«Sì?»
«Non abbatterti troppo se Shelly non ti riconosce o dice cose senza
senso.»
«No.»
«È come… una casa dopo che uno ha traslocato. La casa c’è
ancora, ma quello che c’era dentro no. I mobili sono stati portati via, i
tappeti sono stati arrotolati. I traslocatori hanno imballato tutte le
parti di Shelly Beukes e le hanno trasferite. Di lei non è rimasta che
la casa vuota.» Gettò nella pattumiera le rovine di Stalingrado.
«Quella e le vecchie fotografie.»
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«SEI a posto, qui?» chiese mio padre dalla porta. Aveva un piede sul
primo gradino e uno sullo zerbino verde pisello. Dietro di lui, i
lampi attraversavano silenziosi le nubi basse e ribollenti.
«È un bel po’ che non ho più bisogno che Shelly Beukes mi
rimbocchi le coperte.»
«Eh, sì. Non so se sia giusto, ma così vanno le cose, no?»
Era una frase insolita per lui. Non ammetteva mai che la nostra
non fosse proprio una vita ideale. Fui sul punto di rispondergli, ma
non mi venne niente da dire.
Papà si voltò verso il crepuscolo nuvoloso e turbolento. «Detesto
lavorare di notte. Quando torna Al, mi faccio rimettere di giorno.»
Era tutta l’estate che faceva i turni di notte. La compagnia elettrica
era a corto di personale. Il suo migliore amico, Al Murdoch, era sotto
terapia per un linfoma; un altro tecnico di linea, John Hawthorne,
era stato arrestato di recente per avere aggredito l’ex moglie; Piper
Wilson era andata in maternità e all’improvviso mio padre si era
ritrovato a essere il più esperto e lavorava sessanta ore alla
settimana, la maggior parte delle quali dopo che io ero andato a
letto.
All’inizio non era male. Mi piaceva stare alzato quando avrei
dovuto dormire, guardando soft-porno su Cinemax, che a quell’ora
trasmetteva i film vietati. Ma a metà luglio mi ero già stufato di stare
solo di notte. La mia immaginazione era molto vivida e a fine mese
avevo commesso l’errore di leggere Zodiac. Da quel momento la casa
vuota aveva cominciato a mettermi una paura mortale. Me ne stavo
sveglio nel letto alle due del mattino, con la salivazione azzerata, ad
ascoltare il silenzio trattenendo il respiro. Mi aspettavo di sentire il
buon vecchio Zodiac che forzava una finestra con un piede di porco.
Poi avrebbe usato uno dei nostri coltelli da cucina per incidere
simboli astrologici sul mio pancione, ma prima di ammazzarmi, in
modo da sentirmi urlare.
Non ne avevo mai parlato con mio padre, perché l’unica cosa
peggiore degli attacchi di panico notturni era il timore che assumesse
una baby-sitter. Tutto quello che il Killer dello Zodiaco avrebbe
potuto farmi era torturarmi e uccidermi. Ma se mio padre avesse
chiamato una ragazza della zona perché mi mettesse a letto alle nove
e mezzo per poi passare il resto della nottata a parlare al telefono con
le amiche, allora sì che avrei voluto essere morto. L’affronto avrebbe
schiacciato il mio fragile ego di tredicenne.
Ma quella sera, dopo il mio scontro con il Fenicio, avevo più
paura che mai a restare da solo. Senza contare le nubi e l’elettricità
nell’aria, che percepivo nella sottile peluria sulle braccia. Era dal
pomeriggio che tuonava e da un momento all’altro il temporale si
sarebbe scatenato in tutta la sua furia.
«Pensi di lavorare ancora un po’ alla sparacoriandoli?» mi chiese
mio padre.
«Probabile. Era…»
Quello che seguì non fu un tuono drammatico da film dell’orrore,
quanto piuttosto il lancio di un missile spaccamondo da
fantascienza, una singola apocalittica cannonata. Un fragore così
forte da risucchiarmi il fiato.
Mio padre avrebbe passato la serata proteso verso quel cielo, in
cima a una gru di ferro, a riparare linee elettriche. Al solo pensarci
mi si aggrovigliavano le viscere dalla preoccupazione. Ma lui si
mostrava solo seccato e un po’ stanco, come se i tuoni non lo
infastidissero più di un paio di ragazzini che si azzuffavano sul
sedile posteriore della macchina. Si portò una mano all’orecchio, per
farmi capire che non mi aveva sentito.
«Era già quasi finita oggi pomeriggio, quando è comparsa Shelly.
Se la completo, domani te la faccio vedere.»
«Molto bene. Devi sbrigarti a fare il tuo primo milione di dollari,
così posso andare in pensione e dedicarmi alla mia vera passione:
creazioni originali con il budino.» Si avviò verso il furgone, poi si
voltò accigliato. «Voglio che mi chiami, se…»
Ci fu un’altra cannonata. Mio padre continuò a parlare, ma non
sentii una parola. Tipico di lui: aveva un raro talento per annullare i
dettagli di sfondo che non lo riguardavano. Potevano esserci le
cheerleader dei Dallas Cowboys che agitavano i pon-pon tutte nude,
ma se papà fosse stato in cima alla sua gru ad aggiustare un
trasformatore dubito che le avrebbe degnate di uno sguardo.
Feci cenno di sì, come se avessi capito che cos’aveva detto.
Supponevo mi avesse fatto la sua raccomandazione standard:
chiamare l’ufficio e farlo contattare via radio, se avessi avuto bisogno
di qualcosa. Mi salutò con la mano e si allontanò. Una luce azzurra
balenò alta tra le nubi, il flash della macchina fotografica più grande
del mondo.
Rabbrividii.
Non lasciare che ti faccia una foto.
Socchiusi la porta d’ingresso.
I fari del furgone si accesero nello stesso momento in cui si
spegneva il pomeriggio. Erano solo le sei e un quarto di un giorno di
metà agosto e il sole non sarebbe tramontato prima di altre tre ore,
ma era già calato un buio opprimente.
Il veicolo fece marcia indietro.
Io chiusi la porta.
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