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L’educazione
Traduzione di Silvia Rota Sperti
Titolo dell’opera originale
EDUCATED
© 2018 Second Sally, Ltd.
Traduzione dall’inglese di
SILVIA ROTA SPERTI
Sono in piedi sulla carrozza rossa del treno che è abbandonata accanto
alla stalla. Si alza il vento. I capelli mi frustano la faccia e sento un brivido
freddo nel colletto aperto della camicia. I venti sono forti da queste parti,
sembrano il respiro stesso della montagna. Più in basso la valle è tranquilla,
impassibile. Ma la nostra fattoria danza: le pesanti conifere ondeggiano
piano, mentre l’artemisia e i cardi selvatici tremolano e s’inchinano a ogni
raffica o vuoto d’aria. Dietro di me si alza una piccola collina che va a
cucirsi alle pendici della montagna. Se guardo in alto posso vedere la
sagoma scura della Principessa indiana.
La collina è un manto di grano selvatico. Se le conifere e l’artemisia sono
solisti, il campo di grano è un corpo di ballo: ciascun gambo segue gli altri
in slanci improvvisi, come un milione di ballerine che si piegano una dopo
l’altra quando le forti raffiche investono le loro teste dorate. La forma di
questo solco dura solo un istante, e allora si ha l’impressione di poter
vedere il vento.
Girandomi verso casa nostra, sulla collina, vedo dei movimenti diversi,
alte ombre che lottano contro le correnti. I miei fratelli sono svegli e stanno
testando le condizioni del tempo. M’immagino mia madre ai fornelli, alle
prese coi suoi pancake di crusca. Mio padre sarà curvo vicino alla porta sul
retro ad allacciarsi gli scarponi dalla punta d’acciaio e a infilare le mani
callose dentro i guanti da saldatore. Sulla statale di sotto, l’autobus della
scuola corre senza fermarsi.
Ho solo sette anni ma so che è questo, più di ogni altra cosa, a rendere
diversa la mia famiglia: noi non andiamo a scuola.
Il papà ha paura che lo Stato ci costringerà ad andarci, ma è impossibile
perché lo Stato non sa di noi. Dei sette figli dei miei genitori, quattro non
hanno un certificato di nascita. Non abbiamo libretti sanitari perché siamo
nati in casa e non abbiamo mai visto un dottore o un’infermiera.1 Non
abbiamo pagelle scolastiche perché non abbiamo mai messo piede in una
scuola. Quando avrò nove anni riceverò una dichiarazione tardiva di
nascita, ma per il momento, per lo Stato dell’Idaho e il governo federale, io
non esisto.
Anche se, ovviamente, esistevo. Ero cresciuta preparandomi ai Giorni
dell’Abominio, quando il sole si sarebbe oscurato e la luna avrebbe
grondato un liquido simil-sangue. Passavo le estati a inscatolare pesche e
gli inverni a fare la rotazione delle provviste. Quando il Regno dell’Uomo
sarebbe finito, la mia famiglia avrebbe continuato indisturbata.
Ero stata istruita ai ritmi della montagna, ritmi per cui il cambiamento
non era mai definitivo ma solo ciclico. Lo stesso sole sorgeva ogni mattina,
illuminava la valle e poi scendeva dietro il picco. Le nevi che cadevano
d’inverno si scioglievano sempre in primavera. Le nostre vite erano un
ciclo, come il ciclo del giorno e il ciclo delle stagioni: cicli di continuo
cambiamento che, una volta completi, indicavano che non era cambiato un
bel niente. Credevo che la mia famiglia facesse parte di questo schema
immortale, che fossimo eterni, in un certo senso. Ma l’eternità apparteneva
solo alla montagna.
Mio padre ci raccontava spesso una storia a proposito del picco. Era una
cima vecchia e maestosa, simile a una cattedrale. La catena aveva altre cime
più alte e imponenti, ma Buck Peak era la più bella. La sua base si
allungava per circa un chilometro e mezzo e la sua sagoma scura si alzava
da terra in una guglia perfetta. Da lontano si poteva vedere una figura di
donna impressa sul versante: le gambe erano due grossi burroni, i capelli
una spruzzata di pini che si aprivano a ventaglio sopra la cresta
settentrionale. Aveva un’aria imponente e slanciava una gamba in avanti
con un movimento deciso che faceva pensare più a una falcata che a un
passo.
Mio padre la chiamava la Principessa indiana. Compariva ogni anno
all’inizio del disgelo, rivolta a sud, per guardare i bufali che facevano
ritorno nella valle. Il papà diceva che gli indiani nomadi leggevano nel suo
arrivo un segno della primavera, il segnale che la neve in montagna aveva
cominciato a sciogliersi, l’inverno era finito ed era ora di tornare a casa.
Tutte le storie di mio padre parlavano della nostra montagna, della nostra
valle, del nostro piccolo angolo smozzicato di Idaho. Non mi disse mai cosa
fare se un giorno avessi lasciato la montagna, se avessi attraversato oceani e
continenti e mi fossi trovata in una terra straniera, dove non potevo più
cercare la Principessa all’orizzonte. Non mi disse mai come avrei fatto a
capire quand’era ora di tornare a casa.
1
Tranne mia sorella Audrey, che da piccola si era rotta entrambe le braccia e una gamba, e allora
era stata portata a mettere il gesso.
Prima parte
1.
Scegli il bene
“Hai della calendula?” disse la levatrice. “Mi serve anche della lobelia e
dell’amamelide.”
Era seduta al bancone della cucina e guardava la mamma rovistare nei
nostri armadietti di betulla. In mezzo a loro, sul bancone, c’era una bilancia
elettrica e ogni tanto la mamma l’usava per pesare le foglie secche. Era
primavera. L’aria del mattino era fredda nonostante il sole splendente.
“La settimana scorsa ho fatto della calendula nuova,” disse la mamma.
“Tara, corri a prenderla.”
Recuperai la tintura, che fu infilata dentro un sacchetto della spesa
insieme alle erbe secche. “Serve altro?” La mamma rise. Una risata acuta,
nervosa. La levatrice la intimidiva, e quando mia madre s’intimidiva
diventava come senza peso e sfrecciava da tutte le parti ogni volta che
l’altra faceva uno dei suoi gesti lenti e sicuri.
La levatrice guardò la sua lista. “A posto così.”
Era una donna bassa e grassottella di quasi cinquant’anni, con undici figli
e un porro color ruggine sul mento. Aveva i capelli più lunghi che avessi
mai visto, una cascata color topo di campagna che le arrivava fino alle
ginocchia quando si scioglieva la crocchia tesa sopra la testa. I suoi
lineamenti erano marcati, la voce rauca e autorevole. Non aveva nessuna
licenza, nessun attestato. Era una levatrice solo perché lo diceva lei, e tanto
bastava.
La mamma sarebbe diventata la sua aiutante. Ricordo che le guardai quel
primo giorno, confrontandole. La mamma, con la sua pelle color petalo di
rosa e i capelli ondulati che le ricadevano morbidamente sulle spalle. Le sue
palpebre luccicavano. Si truccava ogni mattina e se non faceva in tempo
passava tutto il giorno a scusarsi, come se non truccandosi facesse un torto
agli altri.
La levatrice sembrava non pensare al proprio aspetto da una decina
d’anni, e coi suoi modi ti faceva pure sentire un’idiota per averlo notato.
Se ne andò con un cenno, le braccia piene delle erbe della mamma.
La volta dopo venne insieme a sua figlia Maria, che le rimase appresso
imitando i suoi movimenti, con un neonato stretto al suo corpicino di nove
anni. La guardai speranzosa. Non avevo conosciuto molte altre bambine
come me, che non andavano a scuola. Mi avvicinai timidamente, cercando
di attirare la sua attenzione, ma era tutta concentrata ad ascoltare sua madre,
che stava spiegando come bisognasse somministrare il viburno e la cardiaca
per alleviare le contrazioni post-parto. Maria faceva dei piccoli cenni di
assenso con la testa. Non staccava un momento gli occhi dal volto di sua
madre.
Mi trascinai per il corridoio verso camera mia, da sola, ma quando mi
voltai a chiudere la porta la trovai là, col neonato ancora sul fianco. Era
grosso e paffuto, e Maria doveva piegare il busto di lato per fare da
contrappeso.
“Ci vai?” disse.
Non capii la domanda.
“Io vado sempre,” continuò. “Hai mai visto nascere un bambino?”
“No.”
“Io sì, un sacco di volte. Lo sai cosa vuol dire quando un bambino è
podalico?”
“No.” Lo dissi in tono di scusa.
La prima volta che la mamma partecipò a un parto stette via due giorni.
Rientrò come un soffio di vento dalla porta sul retro, così pallida da
sembrare traslucida, e andò lentamente verso il divano, dove si fermò,
tremante. “È stato orribile,” sussurrò. “Anche Judy ha detto che si è
spaventata.” Chiuse gli occhi. “Non sembrava spaventata.”
Riposò per diversi minuti finché riprese un po’ di colore, poi raccontò
cos’era successo. Il travaglio era stato lungo, estenuante, e quando alla fine
il bambino era uscito la madre si era lacerata tutta. C’era sangue ovunque.
L’emorragia non si fermava. Era stato allora che la mamma si era accorta
che il bambino aveva il cordone ombelicale attorcigliato attorno al collo.
Era paonazzo, così immobile che sembrava morto. Mentre raccontava
questi dettagli la mamma impallidì in volto, finché si tirò su a sedere,
bianca come un uovo, le braccia strette al corpo.
Audrey le preparò una camomilla e la mettemmo a letto. Quando il papà
tornò a casa, quella sera, la mamma gli raccontò la stessa storia. “Non posso
farlo,” disse. “Judy sì, ma io no.” Lui le mise un braccio sulle spalle. “È il
volere del Signore,” disse. “E a volte il Signore chiede delle cose difficili.”
La mamma non voleva fare la levatrice. Era stata un’idea del papà, una
delle sue strategie per l’autosufficienza. Per lui non c’era niente di peggio
che dipendere dallo Stato. Diceva che un giorno saremmo stati
completamente autonomi. Non appena avesse trovato i soldi, aveva
intenzione di costruire un condotto per portare giù l’acqua dalla montagna,
poi avrebbe installato dei pannelli solari in tutta la fattoria. In questo modo
avremmo avuto acqua ed elettricità per la Fine dei Giorni, quando tutti gli
altri avrebbero bevuto dalle pozzanghere e sarebbero stati al buio. La
mamma era un’erborista e si sarebbe occupata della nostra salute, e se
imparava a fare la levatrice avrebbe fatto nascere i nipotini quando sarebbe
arrivato il momento.
La levatrice venne a trovare la mamma alcuni giorni dopo il primo parto.
Portò anche Maria, che mi seguì di nuovo nella mia stanza. “Purtroppo a tua
mamma ne è capitato uno difficile la prima volta,” disse sorridendo. “Il
prossimo sarà più facile.”
Alcune settimane dopo ci fu modo di verificarlo. Era mezzanotte. Dato
che non avevamo il telefono, la levatrice chiamò la nonna sotto la collina,
che salì da noi, stanca e irritata, e ringhiò che per la mamma era ora di
andare a “giocare al dottore”. Si fermò solo pochi minuti ma svegliò l’intera
casa. “Non capisco perché voialtri non potete andare all’ospedale come
tutti,” gridò, e uscì sbattendosi la porta alle spalle.
La mamma prese la sua borsa da notte, la cassetta per gli attrezzi che
aveva riempito di boccette scure di tintura, e uscì lentamente di casa. Ero
agitata e dormii male, ma quando la vidi tornare la mattina dopo, coi capelli
arruffati e delle borse scure sotto gli occhi, aveva un gran sorriso sulle
labbra. “Era una bambina,” disse. Poi andò a letto e dormì tutto il giorno.
Passarono dei mesi in questo modo. La mamma usciva a qualsiasi ora del
giorno e della notte e tornava a casa tremante e contenta in cuor suo che
fosse finita. Quando cominciarono a cadere le foglie aveva partecipato a
una decina di parti. Alla fine dell’inverno il numero era salito a diverse
decine. In primavera disse a mio padre che era abbastanza, che sapeva far
nascere un bambino se necessario, se arrivava la Fine del Mondo. Ora
poteva smettere.
Il papà si rabbuiò a quelle parole. Le ricordò che era il volere di Dio e che
sarebbe stata una benedizione per la nostra famiglia. “Devi fare la
levatrice,” disse. “Devi far nascere i bambini da sola.”
La mamma scrollò la testa. “Non posso,” disse. “E poi chi vuoi che mi
chiami se possono chiamare Judy?”
Aveva sfidato Dio, attirando il malocchio. Poco tempo dopo, Maria mi
disse che suo padre aveva trovato un nuovo lavoro nel Wyoming. “La
mamma dice che tua madre dovrebbe prendere il suo posto,” spiegò. Nella
mia mente si formò un’immagine entusiasmante. Sarei diventata come
Maria, la figlia della levatrice, esperta e sicura di sé. Ma quando mi voltai a
guardare mia madre, in piedi accanto a me, quell’immagine evaporò.
Fare la levatrice non era illegale nello Stato dell’Idaho, ma non era ancora
un mestiere riconosciuto ufficialmente. Se qualcosa andava storto, una
levatrice rischiava di essere accusata di esercitare la professione medica
senza permesso. Se qualcosa andava molto storto, rischiava di essere
perseguita penalmente per omicidio preterintenzionale e di farsi pure un
periodo in carcere. Dato che poche donne erano disposte a correre questo
rischio, non c’erano molte levatrici in giro. Il giorno che Judy partì per il
Wyoming, la mamma diventò l’unica levatrice nel raggio di centocinquanta
chilometri.
A casa nostra cominciarono ad arrivare donne col pancione che
supplicavano la mamma di aiutarle a partorire. Lei rispondeva
accigliandosi. Una di queste donne si sedette sul bordo del nostro divano
giallo sbiadito e, con gli occhi bassi, spiegò che suo marito era disoccupato
e non avevano i soldi per l’ospedale. La mamma rimase seduta in silenzio
con lo sguardo fisso, le labbra strette e un’espressione momentaneamente
severa sul volto. Poi l’espressione svanì e, con la sua voce sommessa,
rispose: “Non sono una levatrice, solo un’aiutante”.
La donna tornò più volte, sedendosi sempre sul bordo del divano e
descrivendo le nascite senza complicazioni degli altri suoi figli. Spesso,
quando il papà vedeva l’automobile della donna dalla discarica, entrava in
casa silenziosamente dalla porta sul retro con la scusa di prendere l’acqua.
Poi si fermava in cucina e beveva dei sorsi lenti e silenziosi, tendendo
l’orecchio verso il salotto. Ogni volta che la donna se ne andava, il papà
quasi non stava più nella pelle dall’eccitazione, tanto che alla fine, cedendo
alla disperazione della donna, all’entusiasmo del papà o a entrambe le cose,
la mamma si arrese.
Il parto andò bene. Poi la donna aveva un’amica che era pure lei incinta, e
la mamma fece nascere anche quel bambino. Poi quella donna aveva
un’amica... La mamma prese un’aiutante. In men che non si dica stava
facendo nascere così tanti bambini che io e Audrey passavamo le giornate
in giro in macchina per la valle insieme a lei a guardarla eseguire esami
prenatali e prescrivere erbe. Diventò per noi un’insegnante come,
occupandosi raramente della nostra istruzione domestica, non lo era mai
stata. Ci spiegava ogni rimedio e ogni cura palliativa. Se una donna aveva la
pressione alta bisognava darle il biancospino per stabilizzare il collagene e
dilatare i vasi sanguigni coronarici. Se un’altra aveva le contrazioni precoci
serviva un bagno allo zenzero per aumentare l’apporto di ossigeno all’utero.
Fare la levatrice cambiò mia madre. Era una donna adulta e con sette
figli, ma questa era la prima volta nella sua vita che, senza se e senza ma,
aveva il comando delle cose. Certi giorni, dopo un parto, notavo qualcosa
dell’autorevolezza di Judy nel modo deciso in cui girava la testa o nella
fierezza con cui inarcava un sopracciglio. Smise di truccarsi, poi smise di
scusarsi per non essersi truccata.
La mamma chiedeva circa cinquecento dollari per un parto, e anche
questo contribuì a cambiarla. All’improvviso aveva dei soldi. Secondo il
papà le donne non dovevano lavorare, ma credo che gli andasse bene che la
mamma venisse pagata come levatrice perché era un modo per danneggiare
lo Stato. E poi avevamo bisogno di soldi. Il papà lavorava come nessun
altro, ma raccattare rottami e costruire stalle e fienili non era molto
redditizio ed era un bene che la mamma potesse fare la spesa con le buste di
banconote di piccolo taglio che teneva nella borsetta. Certe volte, se
avevamo passato tutto il giorno a correre da una parte all’altra della valle
per consegnare erbe e fare esami prenatali, la mamma usava quei soldi per
portare me e Audrey fuori a cena. La nonna in città mi aveva regalato un
diario rosa con un orsacchiotto color caramello sulla copertina, su cui
descrissi la prima volta che la mamma ci portò al ristorante. Scrissi che era
un posto “davvero elegante, coi menu e tutto quanto”. A quanto pare la mia
cena era costata 3,30 dollari.
La mamma usava i soldi anche per migliorarsi nella professione. Si
comprò una bombola d’ossigeno da usare nel caso di complicanze
respiratorie e frequentò un corso di sutura per mettere i punti alle donne che
si laceravano. Judy aveva sempre mandato le donne all’ospedale per i punti,
ma la mamma era decisa a imparare. Autosufficienza, mi sembrava di
vederle scritto in fronte.
Col resto dei soldi la mamma fece installare una linea telefonica.2
Un giorno arrivò un furgone bianco e una manciata di uomini con delle
tute scure cominciarono a salire sui pali del telefono vicino alla statale. Il
papà si precipitò in casa dalla porta sul retro e chiese cosa diavolo stava
succedendo. “Pensavo volessi un telefono,” disse la mamma con
un’espressione talmente sorpresa da essere irreprensibile. Poi continuò,
parlando velocemente. “Dicevi che poteva essere un guaio se a una donna
venivano le doglie e la nonna non era in casa a prendere la telefonata. Così
ho pensato: ha ragione, ci serve un telefono! Che sciocca! Ho capito male?”
Il papà rimase a bocca aperta per diversi secondi. Certo che a una
levatrice serve un telefono, disse. Poi tornò in discarica e non toccò più
l’argomento. Da quel che ricordavo non avevamo mai avuto un telefono,
ma il giorno dopo eccolo là, adagiato sulla sua base verde chiaro, luccicante
e fuori luogo accanto ai barattoli torbidi di cimicifuga e scutellaria.
Luke aveva quindici anni quando chiese alla mamma un certificato di
nascita. Voleva iscriversi alla scuola guida perché Tony, il nostro fratello più
grande, stava guadagnando bene come auotrasportatore di ghiaia, e poteva
farlo perché aveva la patente. Shawn e Tyler, i fratelli che venivano dopo
Tony, avevano dei certificati di nascita. Solo i quattro più piccoli – Luke,
Audrey, Richard e io – non li avevano.
La mamma cominciò a sbrigare le pratiche. Non so se prima ne parlò col
papà. Se lo fece, non so cosa lo convinse a cambiare idea e perché
all’improvviso la sua politica decennale di non registrarsi allo Stato finì
senza tante storie, ma credo che c’entrasse il telefono. Forse mio padre
aveva finalmente accettato che, se voleva davvero dare battaglia allo Stato,
doveva correre certi rischi. Il lavoro della mamma come levatrice avrebbe
minato il Sistema Medico, ma per fare la levatrice le serviva un telefono.
Forse lo stesso ragionamento fu esteso anche a Luke: Luke avrebbe avuto
bisogno di un reddito per mantenere una famiglia, per comprare provviste e
prepararsi alla Fine dei Giorni, quindi gli serviva un certificato di nascita.
L’altra possibilità era che la mamma non avesse chiesto nulla al papà. Forse
decise per conto suo e lui l’accettò. Forse anche il papà – da uomo
carismatico e burrascoso che era – fu momentaneamente travolto dalla forza
di lei.
Una volta che la mamma cominciò le pratiche per Luke, decise che tanto
valeva richiedere dei certificati di nascita anche per noi. Fu più difficile di
quel che pensava. Mise sottosopra la casa per cercare dei documenti che
dimostrassero che eravamo figli suoi. Non trovò nulla. Nel mio caso,
nessuno sapeva quand’ero nata di preciso. La mamma ricordava una data, il
papà un’altra e la nonna sotto la collina, che andò in città e firmò una
dichiarazione giurata in cui diceva che ero sua nipote, ne ricordava una
terza.
La mamma chiamò la sede centrale della chiesa a Salt Lake City. Un
impiegato trovò un certificato del mio primo battesimo, alla nascita, e un
altro del rito battesimale che, come tutti i bambini mormoni, avevo ricevuto
a otto anni. La mamma chiese delle copie, che arrivarono per posta alcuni
giorni dopo. “Santo cielo!” disse quando aprì la busta. Sui due documenti
c’erano date di nascita diverse, e nessuna era uguale a quella che la nonna
aveva scritto sulla dichiarazione giurata.
Quella settimana la mamma passò delle ore al telefono. Con la cornetta
incastrata sulla spalla e il cavo che si snodava per la cucina, preparava da
mangiare, puliva e filtrava tinture di idraste e cardo mariano, ripetendo le
stesse frasi in continuazione.
“Lo so che avrei dovuto registrarla alla nascita, ma non l’ho fatto.
Quindi?”
Delle voci mormoravano all’altro capo del telefono.
“Gliel’ho già detto – come l’ho detto al suo sottoposto e al sottoposto del
suo sottoposto, e a cinquanta altre persone questa settimana: non ha un
libretto sanitario né documenti scolastici. Non ce li ha! Non li ho persi. Non
posso chiedere delle copie. Non esistono!”
“Il suo giorno di nascita? Diciamo il ventisette.”
“No, non ne sono sicura.”
“No, non ho documenti.”
“Sì, resto in linea.”
Le voci le chiedevano sempre di restare in linea quando ammetteva di
non sapere quand’ero nata, poi le passavano i loro superiori, come se non
conoscere la mia data di nascita delegittimasse il concetto stesso della mia
identità. Non puoi essere una persona se non hai un giorno di nascita,
sembravano dire quelle voci. Non capivo perché. Fino a quando la mamma
non aveva deciso di chiedere il certificato, non sapere quando compivo gli
anni non era mai stato un problema. Sapevo di essere nata verso la fine di
settembre e ogni anno sceglievo un giorno per il mio compleanno, facendo
in modo che non cadesse di domenica perché non è divertente festeggiare in
chiesa. Certe volte speravo che la mamma mi desse il telefono per potermi
spiegare. “Ho anch’io un giorno di nascita, come voi,” volevo dire a quelle
voci. “Solo che cambia. Non vi piacerebbe poter cambiare la data del vostro
compleanno?”
Alla fine la mamma convinse la nonna sotto la collina a firmare una
nuova dichiarazione in cui diceva che ero nata il 27, anche se la nonna era
ancora convinta che fosse il 29, e lo Stato dell’Idaho rilasciò una
dichiarazione tardiva di nascita. Ricordo il giorno che arrivò per posta. Mi
sembrò strano, quasi un esproprio ricevere quella prima prova legale della
mia esistenza: non avevo mai pensato che ci fosse bisogno di una prova del
genere
Comunque ottenni il mio certificato di nascita molto prima di Luke.
Quando la mamma aveva detto alle voci al telefono che credeva fossi nata
verso l’ultima settimana di settembre, quelle erano rimaste zitte. Ma quando
disse loro che non ricordava bene se Luke era nato a maggio o a giugno, si
scatenò un vespaio.
Quell’autunno, quando avevo nove anni, partecipai a un parto insieme
alla mamma. Erano mesi che glielo chiedevo, ricordandole che alla mia età
Maria aveva già visto decine di parti. “Non sono una balia,” disse. “Non ho
motivo di portarti con me. E poi non ti piacerebbe.”
Alla fine la chiamò una donna che aveva molti bambini piccoli. Fu deciso
che mi sarei occupata di loro durante il parto.
La telefonata arrivò nel cuore della notte. Lo squillo meccanico risuonò
per il corridoio. Trattenni il fiato, sperando che non avessero sbagliato
numero. Un momento dopo la mamma era accanto al mio letto. “È ora,”
disse, e corremmo insieme alla macchina.
Per una quindicina di chilometri ripeté insieme a me cosa dovevo dire se
andava storto qualcosa e arrivavano i Federali. Non dovevo dire per nessun
motivo che mia madre era una levatrice. Se chiedevano cosa ci facevamo là,
non dovevo rispondere nulla. La mamma la chiamava “l’arte del chiudere il
becco”. “Di’ solo che stavi dormendo e che non hai visto niente e non sai
niente e non ti ricordi perché siamo qui,” disse. “Non dargli altri motivi per
tirarmi il collo, oltre a quelli che hanno già.”
La mamma si azzittì. La osservai guidare. Il suo volto era illuminato dalle
luci del cruscotto e sembrava di un bianco spettrale nel buio pesto delle
strade di campagna. Aveva la paura scolpita in viso, la fronte corrugata, le
labbra strette. Quando eravamo noi due sole, era di nuovo la mamma di
sempre, fragile e ansiosa.
Sentii dei leggeri sussurri e mi accorsi che venivano da lei. Si stava
facendo delle domande sottovoce. E se andava storto qualcosa? Se c’erano
precedenti medici che non le avevano detto, delle complicazioni? O se
capitava un normale imprevisto, una crisi, e andava nel panico, si bloccava,
non riusciva a fermare l’emorragia in tempo? Nel giro di pochi minuti
saremmo arrivate, e allora avrebbe avuto due vite tra le sue piccole mani
tremanti. Prima di allora non mi ero mai resa conto del rischio che correva.
“Le persone muoiono negli ospedali,” sussurrò, spettrale, le dita strette al
volante. “A volte Dio se le prende a casa, e non c’è niente da fare. Ma se
succede a una levatrice...” Si voltò verso di me. “Basta un solo errore e
dovrai venirmi a trovare in prigione.”
Quando arrivammo, la mamma si trasformò. Diede subito una serie di
istruzioni al padre, alla madre e a me. Non riuscivo a toglierle gli occhi di
dosso e quasi mi dimenticai di fare come diceva. Mi rendo conto adesso che
quella notte vedevo per la prima volta la sua forza interiore.
Continuò a dare ordini e noi li eseguimmo senza fiatare. Il bambino
nacque senza complicazioni. Fu epico e romantico assistere così da vicino a
quel passaggio del ciclo della vita, ma la mamma aveva ragione: non mi
piacque. Fu lungo ed estenuante, tutto puzzava di sudore inguinale.
Non le chiesi di accompagnarla al parto successivo. La mamma tornò a
casa pallida e scossa. Raccontò l’accaduto a me e mia sorella con voce
tremante. La frequenza cardiaca del nascituro era scesa drasticamente,
riducendosi a poco più che un fremito. Aveva chiamato un’ambulanza, poi
aveva deciso che non potevano aspettare e aveva caricato la madre in
macchina. Aveva guidato così veloce che era arrivata all’ospedale con una
volante della polizia alle calcagna. Al pronto soccorso aveva cercato di dare
ai medici le informazioni necessarie senza sembrare troppo esperta, perché
non pensassero che fosse una levatrice senza qualifiche.
Fu fatto un cesareo d’emergenza. La madre e il bambino rimasero in
ospedale diversi giorni e, quando furono dimessi, la mamma smise di
tremare. Non solo, sembrava euforica e cominciò a raccontare la storia in
maniera diversa, entusiasmandosi quando veniva fermata dal poliziotto,
sorpreso di trovare una donna sofferente e chiaramente in preda alle doglie
sul sedile di dietro. “Allora ho recitato la parte della donna svampita,” disse
a me e Audrey, la voce sempre più alta e appassionata. “Agli uomini piace
pensare che stanno salvando una povera scema che si è cacciata nei guai.
Ho dovuto solo farmi da parte e lasciare a lui il ruolo dell’eroe!”
Il momento più rischioso per la mamma era arrivato alcuni minuti dopo,
in ospedale, dopo che la donna era stata portata via in barella. Un dottore
l’aveva fermata e le aveva chiesto perché, tanto per cominciare, si trovasse
là al momento del parto. Sorrise al ricordo. “Gli ho fatto la domanda più
scema che mi è venuta in mente.” Fece una vocina acuta e civettuola che
non le apparteneva. “Oh! Era la testa del bambino, quella? I bambini non
nascono dai piedi?” Il dottore si era convinto che non poteva essere una
levatrice.
Nel Wyoming non c’erano erboriste brave come la mamma e, pochi mesi
dopo l’episodio dell’ospedale, Judy tornò a Buck Peak a rifornirsi. Le due
donne chiacchierarono in cucina, Judy appollaiata su uno sgabello, la
mamma appoggiata al bancone, la testa pigramente sorretta da una mano.
Portai la lista delle erbe nel ripostiglio. Maria, con in braccio un altro
neonato, mi seguì. Mentre prendevo foglie essiccate e liquidi torbidi dalle
mensole, mi vantai delle imprese della mamma, concludendo con lo
scambio di battute in ospedale. Maria, dal canto suo, aveva da raccontarmi
certe storie su come avevano evitato i Federali, ma la interruppi non appena
cominciò a parlare.
“Judy è una brava levatrice,” dissi gonfiando il petto. “Ma quando ci sono
di mezzo dottori e poliziotti, nessuno sa fare la scema come mia mamma.”
2
Se tutti i miei famigliari si ricordano che per molti anni i miei genitori non ebbero il telefono, ci
sono opinioni contrastanti su quali fossero questi anni. Ho chiesto ai miei fratelli, zie, zii e cugini, ma
non sono riuscita a stabilire una cronologia esatta, quindi mi sono basata sui miei ricordi.
3.
Scarpe bianco crema
Mia madre, Faye, era figlia di un postino. Era cresciuta in città, in una
casa gialla con una staccionata bianca bordata di iris viola. Sua madre era
una sarta, la migliore della valle secondo alcuni, tanto che da giovane Faye
indossava vestiti bellissimi e dal taglio perfetto, dalle giacche di velluto ai
pantaloni sintetici, dai completi pantalone di lana agli abitini di gabardine.
Andava a messa e partecipava alle attività della scuola e della comunità. La
sua vita aveva un’aria di rigore, normalità e grande rispettabilità.
Quell’aria di rispettabilità era coltivata con cura da sua madre. Mia nonna
LaRue era diventata maggiorenne negli anni cinquanta, nel decennio di
fervore idealistico dopo la Seconda guerra mondiale. Il padre di LaRue era
un alcolizzato in un’epoca in cui il linguaggio della dipendenza non era
ancora stato inventato, quando gli alcolizzati non si chiamavano alcolizzati
ma ubriaconi. La nonna veniva dalla famiglia “sbagliata”, ma faceva parte
di una devota comunità di mormoni che, come molte comunità, riversava
sui figli le colpe dei genitori. Era considerata inadatta al matrimonio dagli
uomini rispettabili della città. Quando conobbe e sposò mio nonno – un
giovanotto d’indole buona appena tornato dalla Marina – si dedicò con tutta
se stessa alla creazione della famiglia perfetta, quantomeno in apparenza.
Questo secondo lei avrebbe protetto le sue figlie dal disprezzo sociale che
l’aveva tanto ferita.
Un risultato di tutto questo fu la staccionata bianca e l’armadio pieno di
vestiti fatti a mano. Un altro fu che la sua figlia maggiore sposò un
giovanotto austero dai capelli corvini piuttosto anticonformista.
In altre parole, mia madre reagì testardamente alla rispettabilità che le era
stata imposta. La nonna voleva dare a sua figlia il dono che lei non aveva
mai avuto, il dono di venire da una buona famiglia. Ma Faye non lo voleva.
Mia madre non era una rivoluzionaria sociale – anche all’apice della sua
ribellione mantenne la sua fede mormona, con la sua dedizione al
matrimonio e alla maternità –, ma i sovvertimenti sociali degli anni settanta
sembrarono avere almeno un effetto su di lei: non ne voleva sapere di
staccionate bianche e abiti di gabardine.
Mia madre mi raccontava un sacco di aneddoti sulla sua infanzia, di come
la nonna si preoccupasse da morire della posizione sociale della sua figlia
maggiore, del taglio del suo vestito di piqué o della tonalità blu dei suoi
pantaloni di velluto. Queste storie finivano quasi sempre con mio padre che
si precipitava dentro e andava a scambiare il velluto con dei blue jeans. C’è
un episodio che mi è rimasto impresso in modo particolare. Ho sette o otto
anni e sono in camera mia che mi preparo per andare a messa. Mi sono
passata un panno umido sulla faccia, sulle mani e sui piedi, frizionando solo
le parti di pelle che saranno visibili. La mamma mi guarda infilare la testa
dentro un vestito di cotone che ho scelto perché ha maniche lunghe, per non
dovermi lavare le braccia, e gli occhi le brillano di risentimento.
“Se fossi figlia di tua nonna,” dice, “ci saremmo alzate alle prime luci
dell’alba per lisciarti i capelli. Poi avremmo passato il resto della mattina a
tormentarci su quali scarpe stanno meglio, quelle bianche o quelle bianco
crema.”
La mamma fa un sorriso più simile a una smorfia. Vorrebbe ridere ma il
ricordo è amaro. “Una volta scelte quelle color crema saremmo comunque
in ritardo, perché all’ultimo momento la nonna cadrebbe nel panico e
andrebbe a casa di sua cugina Donna per farsi prestare le sue scarpe color
crema, quelle con il tacco più basso.”
La mamma guarda fuori dalla finestra. Si è chiusa in se stessa.
“Bianche o bianco crema?” dico. “Non è lo stesso colore?” Avevo un solo
paio di scarpe per la messa ed erano nere, o almeno erano state nere quando
appartenevano a mia sorella.
Dopo che mi sono infilata il vestito vado davanti allo specchio e mi
sfrego via lo sporco lungo la scollatura, pensando a quant’è fortunata la
mamma a essere fuggita da un mondo in cui c’era una differenza sostanziale
tra il bianco e il bianco crema, e in cui simili questioni potevano rovinare
una bella mattina. Una mattina che poteva essere passata a saccheggiare la
discarica di papà insieme alla capra di Luke.
Mio padre Gene era uno di quei giovanotti che in qualche modo riescono
a sembrare sia seri che smaliziati. Non passava inosservato: capelli d’ebano,
volto severo e angoloso, naso simile a una freccia tra due occhi fieri e
infossati. Le sue labbra erano spesso chiuse in un sorriso scherzoso, come
se potesse ridere di ogni cosa al mondo.
Anche se sono cresciuta sulla stessa montagna dov’era cresciuto mio
padre, dando la sbobba ai maiali nella stessa mangiatoia di ferro, so
pochissimo della sua giovinezza. Non ne parlava mai, così posso solo
rifarmi a quello che mi ha accennato mia madre, secondo cui da giovane il
nonno sotto la collina era stato un uomo violento e irascibile. Il fatto che la
mamma usasse le parole “era stato” mi è sempre sembrato buffo. Lo
sapevamo tutti che era meglio non contraddire il nonno. Si arrabbiava
facilmente, era un dato di fatto, e chiunque nella valle poteva confermarlo.
Era logorato dal tempo, dentro e fuori, inquieto e burrascoso come i cavalli
che lasciava correre liberi sulla montagna.
La madre del papà lavorava per il Farm Bureau in città. Da adulto il papà
si sarebbe opposto duramente alle donne che lavorano, prendendo posizioni
estreme perfino per la nostra comunità mormona rurale. “La donna è fatta
per stare a casa,” diceva ogni volta che vedeva una donna sposata che
lavorava in città. Ora che sono più grande, mi chiedo a volte se tanta foga
non avesse a che fare più con sua madre che con la religione. Forse il papà
avrebbe solo voluto che lei fosse rimasta a casa, che non l’avesse lasciato
per tutte quelle ore in balìa del caratteraccio del nonno.
L’infanzia del papà fu assorbita completamente dal lavoro alla fattoria.
Non credo che abbia mai pensato di andare al college. Eppure, da come ne
parla la mamma, all’epoca il papà era un vulcano di energia, buonumore ed
eleganza. Guidava un maggiolino Volkswagen celeste, indossava vestiti
bizzarri e colorati e sfoggiava dei grossi baffi alla moda.
Si conobbero in città. Faye lavorava come cameriera alla sala da bowling
quando, un venerdì sera, Gene entrò insieme a un gruppetto di amici. Non
l’aveva mai visto in giro e capì subito che non era della città, doveva venire
dalle montagne attorno alla valle. La vita di campagna aveva reso Gene
diverso dagli altri ragazzi: era serio per la sua età, più robusto e di mentalità
aperta.
C’è un senso di indipendenza che accompagna la vita in montagna, una
sensazione di intimità e isolamento, quasi di dominio. In quei vasti spazi
puoi navigare da solo per ore, galleggiando su pini, cespugli e rocce. È una
quiete che è frutto dell’immensità, che ti calma in virtù della sua stessa
vastità e rende irrilevanti le questioni umane. Gene si era formato in questa
ipnosi alpina, in questo tacere di ogni dramma umano.
Nella valle, Faye cercava di non sentire i continui pettegolezzi della
piccola città che s’insinuavano dentro le finestre e strisciavano sotto le
porte. La mamma si descriveva spesso come una persona compiacente: non
poteva fare a meno di chiedersi come gli altri volevano che fosse e di
calarsi compulsivamente e malvolentieri in quella parte. Nella sua
rispettabile casa in centro, così tanto addossata ad altre quattro da poter
sbirciare dentro le finestre e lasciar sfuggire un commento, Faye si sentiva
in trappola.
Mi sono immaginata spesso il momento in cui Gene portò Faye sulla
cima di Buck Peak e lei, per la prima volta, si sentì libera dal vedere i volti
o sentire le voci della città di sotto. Erano lontani. Piccoli al cospetto della
montagna, zittiti dal vento.
Si fidanzarono poco dopo.
La mamma raccontava spesso un aneddoto del periodo prima delle nozze.
Essendo molto vicina a suo fratello Lynn, un giorno decise di fargli
conoscere l’uomo che sperava sarebbe diventato suo marito. Era estate,
all’imbrunire, e i cugini del papà si stavano azzuffando per gioco come
facevano spesso dopo il raccolto. Lynn arrivò e, vedendo una stanza piena
di bulli dalle gambe arcuate che si gridavano addosso menando i pugni per
aria, pensò di trovarsi davanti una rissa in stile John Wayne. Voleva
chiamare la polizia.
“Gli ho detto di ascoltare,” diceva la mamma con le lacrime agli occhi a
forza di ridere. Raccontava questa storia sempre allo stesso modo ed era un
tale classico che, se si discostava per qualche motivo dal solito copione, ci
pensavamo noi a correggerla. “Gli ho detto di prestare attenzione alle parole
che stavano gridando. Sembravano arrabbiati come bisce, ma in realtà
stavano chiacchierando tranquillamente. Bisognava ascoltare cosa
dicevano, non come lo dicevano. Gli ho detto che era solo il modo di
parlare dei Westover!”
Di solito entro la fine della storia eravamo stesi sul pavimento. Ridevamo
così tanto che ci facevano male le costole a forza di immaginare nostro zio,
così compìto e serioso, che incontrava la combriccola scalmanata del papà.
Lynn trovò la scena così sgradevole che non tornò mai più, e in tutta la mia
vita non l’ho visto una sola volta in montagna. Ben gli stava, pensavamo.
Era quel che si meritava per essersi impicciato, per aver cercato di riportare
la mamma a quel mondo fatto di abiti di gabardine e scarpe bianco crema.
Sapevamo che lo scioglimento della famiglia della mamma significava la
nascita della nostra. Le due famiglie non potevano coesistere. Solo una
poteva averla.
Anche se la mamma non ci ha mai detto che la sua famiglia era contraria
al fidanzamento, noi l’avevamo capito. C’erano tracce che il tempo non
aveva cancellato. Mio padre non metteva piede quasi mai nella casa del
nonno in città, e quando lo faceva era imbronciato e fissava la porta. Da
bambina vedevo pochissimo le zie, gli zii o i cugini da parte di mamma. Li
andavamo a trovare raramente – non sapevo nemmeno dove abitasse la
maggior parte di loro – e ancora più raramente loro venivano in montagna.
L’unica eccezione era zia Angie, la sorella minore della mamma, che viveva
in città e continuava a frequentarla.
Quello che so del fidanzamento mi è arrivato in maniera frammentaria,
più che altro dai racconti di mia madre. So che aveva l’anello al dito prima
che il papà partisse in missione – com’era richiesto a tutti i fedeli mormoni
di sesso maschile – e passasse due anni in Florida a fare proseliti. Lynn
approfittò dell’assenza per presentare a sua sorella ogni uomo maritabile
che riuscì a trovare su questo versante delle Montagne Rocciose, ma
nessuno riuscì a farle dimenticare il fiero ragazzo di campagna che regnava
sulla sua montagna.
Gene tornò dalla Florida e lui e la mamma si sposarono.
LaRue cucì il vestito nuziale.
Ho visto una sola fotografia del loro matrimonio. I miei genitori sono in
posa davanti a una tenda semitrasparente color bianco avorio. La mamma
indossa un vestito tradizionale di seta con perline e pizzo veneziano, con
una scollatura che le arriva sopra le clavicole. Ha la testa coperta da un velo
ricamato. Mio padre ha un abito bianco crema dal bavero largo e nero. Sono
entrambi ubriachi di felicità. La mamma sorride beatamente; il papà ha un
sorriso così largo che gli spunta fuori dagli angoli dei baffi.
Faccio fatica a credere che il giovane spensierato in quella fotografia sia
mio padre. Se penso a lui vedo un uomo stanco di mezza età, spaventato e
ansioso, che accumula cibo e munizioni.
Non so quando l’uomo nella fotografia sia diventato l’uomo che conosco
come mio padre. Forse non c’è stato un momento preciso. Il papà si era
sposato a ventun anni e aveva avuto il suo primo figlio, mio fratello Tony, a
ventidue. A ventiquattro anni aveva chiesto alla mamma se potevano
chiamare un’erborista per far nascere mio fratello Shawn. Lei aveva
accettato. Era un primo indizio o solo un tipico comportamento da Gene,
eccentrico e anticonformista, per scandalizzare quei simpaticoni dei suoi
parenti acquisiti? In fondo, venti mesi dopo, Tyler era nato in ospedale.
Quando il papà aveva ventisette anni era arrivato Luke, con un parto in casa
e l’aiuto di una levatrice. Il papà decise di non chiedere il certificato di
nascita, una decisione che ripeté anche con Audrey, Richard e me. Alcuni
anni dopo, quando aveva più o meno trent’anni, rititò i miei fratelli da
scuola. Non me lo ricordo perché non ero ancora nata, ma mi chiedo se sia
stato questo un momento decisivo. Nei quattro anni seguenti il papà fece
staccare il telefono e decise di non rinnovare la patente. Smise di registrare
e assicurare l’auto di famiglia. Poi cominciò ad accumulare scorte di cibo.
Quest’ultima parte mi suona più famigliare, ma non è questo il padre che
ricordano i miei fratelli più grandi. Il papà aveva da poco compiuto
quarant’anni quando i Federali misero sotto assedio gli Weaver, un evento
che confermò le sue peggiori paure. Dopo questo episodio scese sul piede di
guerra, anche se la guerra era tutta nella sua testa. Forse è per questo che
quando Tony guarda quella foto di matrimonio vede suo padre, mentre io
vedo un estraneo.
Quattordici anni dopo l’episodio degli Weaver sarei stata seduta in
un’aula universitaria a sentir parlare un professore di psicologia di una cosa
chiamata disturbo bipolare. Fino ad allora non sapevo nemmeno cosa
fossero le malattie mentali. Certo, sapevo che le persone potevano
impazzire e fare cose come mettersi dei gatti morti in testa o innamorarsi di
un tulipano. Ma non avevo mai pensato che una persona potesse essere
efficiente, lucida, convincente, e nello stesso tempo avere qualcosa che non
va.
Il professore snocciolava fatti con voce monotona e prosaica: la malattia
compare in media attorno ai venticinque anni; prima di quell’età possono
non esserci sintomi.
La cosa ironica era che se il papà era bipolare – o aveva uno dei molti
disturbi che potevano spiegare il suo comportamento –, la stessa paranoia,
che era un sintomo della malattia, avrebbe impedito che venisse
diagnosticata e curata. Non l’avrebbe mai saputo nessuno.
La nonna in città è morta tre anni fa, a ottantasei anni.
Non la conoscevo bene.
In tutti quegli anni che ero transitata per la sua cucina non mi raccontò
mai com’era stato vedere sua figlia chiudersi in se stessa, circondata da
fantasmi e paranoie.
Se penso a lei rivedo una sola immagine, come se la mia memoria fosse
un proiettore per diapositive col carrello inceppato. È seduta su una panca
imbottita. Ha un cespuglio di riccioli compatti in testa e le labbra chiuse in
un sorriso educato, che sembra incollato alla faccia. I suoi occhi sono
cortesi ma assenti, come se stesse osservando una scena recitata.
Quel sorriso non mi dà pace. Era sempre là, come se fosse l’unica cosa
eterna al mondo. Impenetrabile, distante. Indifferente. Adesso che sono più
grande e mi sono presa la briga di conoscerla, più che altro attraverso le mie
zie e i miei zii, so che mia nonna non era nessuna di queste cose.
Sono andata al funerale. La bara era aperta e mi sono ritrovata a studiarle
il volto. Quelli delle pompe funebri non le avevano sistemato le labbra nel
modo giusto. Le avevano tolto quel sorriso gentile che aveva indossato
come una maschera di ferro. Era la prima volta che la vedevo senza quel
sorriso ed è stato allora che ho capito: la nonna era l’unica persona che
forse poteva comprendere cosa mi stava succedendo. La paranoia e il
fondamentalismo mi stavano rovinando la vita, mi allontanavano dalle
persone che amavo, lasciando al loro posto solo lauree e attestati, e un’aria
di rispettabilità. Quello che stava succedendo adesso era già successo. Era
la seconda separazione di madre e figlia. Era un nastro che girava in loop.
4.
Donne apache
Nessuno vide l’auto uscire di strada. Mio fratello Tyler, che aveva
diciassette anni, si addormentò al volante. Erano le sei di mattina e aveva
guidato in silenzio per gran parte della notte, portando la nostra station
wagon attraverso l’Arizona, il Nevada e lo Utah. Eravamo all’altezza di
Cornish, un piccolo centro rurale una trentina di chilometri a sud di Buck
Peak, quando la station wagon si spostò piano verso l’altra corsia e finì
fuori strada. La macchina superò un fossato, urtò due robusti pali della luce
in cedro e si fermò solo quando andò a sbattere contro un trattore interfilare.
Il viaggio era stato un’idea della mamma.
Alcuni mesi prima, quando le foglie secche avevano cominciato a cadere,
indicando la fine dell’estate, il papà sembrava euforico. A colazione batteva
col piede il ritmo di certe canzonette e durante la cena indicava spesso la
montagna mentre spiegava, con gli occhi che brillavano, dove avrebbe
messo i condotti per portare l’acqua alla casa. Ci promise che quando si
sarebbe messo a nevicare avrebbe fatto la più grossa palla di neve di tutto
l’Idaho. Sarebbe salito fino alla base della montagna, avrebbe preso una
piccola palla di neve, poi l’avrebbe fatta rotolare giù dal pendio,
guardandola triplicarsi di dimensioni ogni volta che correva giù da una
collinetta o lungo una gola. Arrivata a casa nostra, sull’ultima collina prima
della valle, sarebbe stata grossa quanto la stalla del nonno e la gente lungo
la statale si sarebbe fermata a guardare in alto a bocca aperta. Ci serviva
solo la neve giusta. Fiocchi grossi, collosi. Dopo ogni nevicata gli
portavamo delle manciate di neve e lo guardavamo passarsela tra le dita.
Questa neve era troppo farinosa. Quella troppo umida. Dopo Natale, diceva.
Solo allora sarebbe arrivata la vera neve.
Ma dopo Natale il papà sembrò afflosciarsi, crollare su se stesso. Smise di
parlare della palla di neve, poi smise del tutto di parlare. Un’ombra
cominciò a velargli gli occhi fino a oscurarli. Camminava con le braccia
abbandonate lungo i fianchi e le spalle cadenti, come se qualcosa si fosse
impadronito di lui e lo stesse trascinando a terra.
A gennaio il papà non riusciva più ad alzarsi dal letto. Se ne stava
sdraiato supino a fissare l’intonaco del soffitto coi suoi motivi complessi di
rilievi e venature. Non batteva ciglio quando ogni sera gli portavo il piatto
con la cena. Credo che non si accorgesse nemmeno della mia presenza.
Fu allora che la mamma annunciò che saremmo andati in Arizona. Disse
che il papà era come un girasole, che sarebbe morto nella neve. Entro
febbraio bisognava portarlo via e trapiantarlo al sole. Così ci stringemmo
nella station wagon e viaggiammo per dodici ore, attraversando canyon
serpeggianti e correndo per superstrade buie, finché raggiungemmo la casa
mobile nell’arido deserto dell’Arizona dove i miei nonni erano andati a
svernare.
Arrivammo alcune ore dopo il tramonto. Il papà si trascinò fino alla
veranda della nonna, dove rimase sdraiato per il resto del giorno con un
cuscino lavorato ai ferri sotto la testa e una mano callosa sulla pancia. Restò
in quella posizione per due giorni, con gli occhi aperti, muto e immobile
come un cespuglio nell’arsura secca e senza vento.
Il terzo giorno sembrò tornare in sé e accorgersi di quel che aveva
attorno. Durante i pasti ascoltava le nostre chiacchiere anziché fissare
imbambolato la moquette. Quella sera, dopo cena, la nonna ascoltò i
messaggi sulla segreteria del telefono, perlopiù di vicini di casa e amici che
volevano salutarla. Poi dalla cornetta uscì una voce femminile che le
ricordava un appuntamento dal dottore per il giorno dopo. Quel messaggio
ebbe un effetto drammatico sul papà.
All’inizio le fece delle domande: che appuntamento era, con chi, perché
voleva andare da un dottore quando la mamma poteva darle delle tinture?
Il papà aveva sempre creduto fermamente nelle erbe della mamma, ma
quella sera era diverso, come se qualcosa dentro di lui stesse cambiando,
come se si stesse affermando una nuova fede. L’erboristica, disse, era una
dottrina spirituale che separava il frumento dalle erbacce, i fedeli dagli
infedeli. Poi usò una parola che non avevo mai sentito prima: Illuminati.
Sembrava esotica, potente, qualunque cosa significasse. Disse che senza
rendersene conto, la nonna era un’agente degli Illuminati.
Dio non poteva ammettere l’infedeltà, disse il papà. Per questo i peccatori
peggiori erano quelli che non sapevano decidersi, che usavano sia le erbe
sia la medicina, che venivano dalla mamma il mercoledì e andavano dal
loro dottore il venerdì – o, in altre parole, “un giorno pregano all’altare di
Dio e il giorno dopo offrono un sacrificio a Satana”. Queste persone erano
come gli antichi israeliti perché avevano ricevuto una vera religione ma
adoravano i falsi idoli.
“Dottori e pastiglie,” continuò il papà quasi urlando. “Son questi gli dèi a
cui si prostituiscono.”
La mamma fissava il suo piatto. Alla parola “prostituirsi” si alzò, lanciò
un’occhiataccia al papà e se ne andò in camera sua sbattendo la porta. Non
sempre la mamma la pensava come lui. Quando il papà non c’era, l’avevo
sentita dire certe cose che lui – o almeno questa sua nuova incarnazione –
avrebbe chiamato blasfeme, cose come “Le erbe sono un supplemento. Per i
problemi seri dovrebbe andare da un medico”.
Il papà non fece caso alla sedia vuota della mamma. “Quei dottori non
vogliono curarti,” disse alla nonna. “Vogliono ucciderti.”
Quando penso a quella serata rivedo la scena chiaramente. Sono seduta a
tavola. Il papà sta parlando, la sua voce è insistente. La nonna mi è seduta
davanti e mastica e rimastica asparagi con la bocca storta, come farebbe una
capra. Sorseggia la sua acqua ghiacciata e sembra non sentire una parola di
quello che dice il papà. Lancia solo delle occhiate infastidite all’orologio,
che l’informa che è ancora troppo presto per andare a letto. “Sei complice
dei piani di Satana, e lo sai,” le dice il papà.
Questa scena si ripeté ogni giorno, anche più volte al giorno, per il resto
della nostra permanenza. Seguiva sempre lo stesso copione. Il papà, tutto
accalorato, parlava per un’ora o più ripetendo le stesse frasi in
continuazione, mosso da un fuoco interiore che continuava ad ardere anche
dopo che noi, a forza di ascoltarlo, piombavano in una muta apatia.
La nonna aveva un modo memorabile di ridere alla fine di questi sermoni.
Era una specie di sospiro, una lunga emissione di fiato che finiva con un
roteare d’occhi in una pigra imitazione di esasperazione, come se volesse
alzare le braccia al cielo ma fosse troppo stanca per portare a termine il
gesto. Poi sorrideva, non per confortare qualcun altro, ma per se stessa. Era
un sorriso divertito e sconcertato, un sorriso che sembrava dire La vita è
proprio buffa, ve lo dico io.
Era un pomeriggio torrido, così caldo che non potevi camminare a piedi
nudi sull’asfalto, quando la nonna portò me e Richard a fare un giro in
macchina nel deserto, dopo averci messo per la prima volta nella nostra vita
le cinture di sicurezza. Guidò fin dove la strada cominciava a scendere, poi
continuammo mentre l’asfalto si trasformava in polvere sotto gli pneumatici
e proseguimmo comunque, con la nonna che ora saliva a zig zag sempre più
in alto tra le colline sbiancate, fermandosi solo quando lo sterrato lasciava il
posto a un sentiero per escursionisti. Allora continuammo a piedi. La nonna
si stancò dopo pochi minuti, così si sedette su un pietrone rosso e indicò una
formazione di arenaria in lontananza, con delle guglie semi-sgretolate
dall’aria antichissima. Ci disse di andare fin là e di cercare delle pepite di
roccia nera.
“Si chiamano ‘lacrime degli apache’,” disse. Infilò una mano in tasca ed
estrasse una piccola pietra nera, sporca e frastagliata, coperta di venature
grigie e bianche come vetro crepato. “Ecco come diventano dopo che le
lustri un po’.” Dall’altra tasca estrasse una seconda pietra color nero
inchiostro e così liscia da sembrare molle.
Richard le riconobbe come ossidiana. “Sono rocce vulcaniche,” disse con
la sua migliore voce enciclopedica. “Mentre queste no.” Scalciò una pietra
sbiadita e fece un cenno verso la formazione rocciosa. “Queste sono
sedimenti.” Richard aveva un talento per le scienze. Di solito ignoravo i
suoi sermoni ma quel giorno ne fui affascinata, così come lo ero per quel
terreno strano e riarso. Camminammo attorno alla formazione per un’ora,
tornando dalla nonna col davanti delle magliette gonfio di pietre. La nonna
era contenta; poteva venderle. Le mise nel bagagliaio e mentre tornavamo a
casa ci raccontò la leggenda delle lacrime degli apache.
A quanto pare cent’anni prima una tribù apache aveva combattuto contro
la cavalleria statunitense proprio su quelle rocce sbiadite. La tribù era
numericamente inferiore. La battaglia era già persa, la guerra finita. Non
restava altro da fare che aspettare di morire. Poco dopo l’inizio della
battaglia, i guerrieri si ritrovarono in trappola su uno strapiombo. Non
volendo subire una sconfitta umiliante, ammazzati a uno a uno mentre
cercavano di aprirsi un varco tra i soldati, montarono sui loro cavalli e si
lanciarono giù dal precipizio. Quando le donne apache trovarono i loro
corpi sfracellati sulle rocce di sotto, piansero lacrime grosse e disperate che
si trasformarono in pietra non appena toccarono terra.
La nonna non ci disse mai cosa successe alle donne. Gli apache erano in
guerra ma, non avendo più guerrieri, forse il finale era troppo triste da
raccontare. Veniva in mente la parola “macello”, perché è questo che
succede in battaglia quando una delle due parti non può difendersi. Era una
parola che usavamo alla fattoria. Macellavamo i polli, non li uccidevamo.
Probabilmente l’esito del gesto coraggioso dei guerrieri era stato un
macello. Erano morti da eroi e le loro mogli da schiave.
Mentre tornavamo alla casa mobile e il sole calava, spandendo i suoi
ultimi raggi sulla superstrada, pensai alle donne apache. Come l’altare di
arenaria su cui erano morte, la loro vita era stata forgiata anni e anni prima
– prima che i cavalli si lanciassero al galoppo, inarcando i corpi fulvi per
quell’ultimo impatto. Il modo in cui sarebbero vissute e sarebbero morte era
stato deciso molto tempo prima del balzo dei guerrieri. Era stato deciso dai
guerrieri, dalle donne stesse. Le scelte, innumerevoli come granelli di
sabbia, si erano stratificate e compattate, unendosi in sedimento, poi in
roccia, fino a incastonarsi nella pietra.
Era la prima volta che mi allontanavo dalla montagna e mi mancava la
vista della Principessa scolpita fra i pini del massiccio. Mi ritrovai a
guardare il cielo vuoto dell’Arizona, sperando di veder spuntare la sua
sagoma scura dalla terra a rivendicare la sua metà di cielo. Ma niente. Più
che la sua vista mi mancavano le sue carezze – il vento che soffiava per
canyon e burroni e che mi arruffava i capelli ogni mattina. In Arizona non
c’era vento. C’era solo un’ora torrida dopo l’altra.
Passavo le giornate a vagare da una parte all’altra della casa mobile, poi
uscivo sul patio sul retro, andavo sull’amaca, poi sulla veranda anteriore,
dove scavalcavo la sagoma semi-cosciente del papà e tornavo dentro. Fu un
gran sollievo quando, il sesto giorno, il quad del nonno si ruppe e Tyler e
Luke lo smontarono per cercare di capire qual era il problema. Mi sedetti a
guardarli su un grosso bidone di plastica blu, chiedendomi quando saremmo
tornati a casa. Quando il papà avrebbe smesso di parlare degli Illuminati.
Quando la mamma avebbe smesso di uscire da una stanza ogni volta che
entrava il papà.
Quella sera, dopo cena, il papà disse che era il momento di tornare a casa.
“Prendete le vostre cose,” disse. “Partiamo tra mezz’ora.” Cominciava a far
buio e la nonna disse che era assurdo mettersi in viaggio a quell’ora. La
mamma propose di aspettare fino al mattino. Era un viaggio di dodici ore.
Ma il papà voleva tornare per lavorare in discarica coi ragazzi la mattina
dopo. “Non posso perdere altri giorni di lavoro,” disse.
Gli occhi della mamma si rabbuiarono, ma non disse nulla.
Mi svegliai quando la macchina urtò il primo palo della luce. Stavo
dormendo sul pavimento sotto i piedi di mia sorella, con una coperta sopra
la testa. Cercai di tirarmi su ma la macchina sbatteva, balzava – sembrava
che stesse andando a pezzi – e Audrey mi cadde addosso. Non riuscivo a
vedere cosa stava succedendo ma potevo sentirlo. Ci fu un altro botto, una
sbandata, mia madre che gridava “Tyler!” dal sedile davanti, e un ultimo
scossone violento prima che tutto si fermasse e scendesse il silenzio.
Passarono diversi secondi durante i quali non successe nulla.
Poi sentii la voce di Audrey. Ci stava chiamando per nome a uno a uno.
Alla fine disse: “Ci siamo tutti tranne Tara!”.
Cercai di gridare ma avevo la faccia incastrata sotto il sedile, la guancia
premuta contro il pavimento. Mi dimenai sotto il peso di Audrey mentre
gridava il mio nome. Alla fine inarcai la schiena e la spinsi via, poi tirai
fuori la testa dalla coperta e dissi: “Ci sono”.
Mi guardai attorno. Tyler aveva ruotato il busto e stava praticamente
salendo sul sedile posteriore. Guardava con gli occhi fuori dalle orbite ogni
ferita, ogni livido, ogni paio di occhi sbarrati. Vedevo il suo volto ma non
sembrava lui. Dalla bocca gli usciva del sangue, che scendeva lungo la
camicia. Chiusi gli occhi e cercai di non pensare ai suoi denti storti e
insanguinati. Quando li riaprii, fu per controllare gli altri. Richard si teneva
la testa tra le mani, tappandosi le orecchie come per non sentire un rumore.
Il naso di Audrey era curvato in maniera strana e perdeva fiotti di sangue,
che le colavano lungo il braccio. Luke stava tremando ma non vedevo
tracce di sangue. Io avevo un taglio sull’avambraccio nel punto in cui mi
era rimasto impigliato nella struttura del sedile.
“State tutti bene?” Era la voce di mio padre. Ci fu un mormorio generale.
“Ci sono dei cavi elettrici sulla macchina,” disse. “Non scendete finché
non avranno tolto la corrente.” La sua portiera si aprì e per un momento
pensai che si fosse fulminato, ma poi vidi che si era buttato fuori in modo
da non toccare la macchina e il terreno allo stesso tempo. Ricordo che
sbirciai fuori dal finestrino rotto e lo vidi fare il giro della macchina, con la
visiera del suo berretto rosso girata all’insù, verso l’alto. Aveva un’aria
stranamente giovanile.
Girò attorno alla macchina e poi si fermò, accovacciandosi all’altezza del
posto del passeggero. “Stai bene?” disse. Poi lo ripeté. La terza volta gli
tremava la voce.
Mi piegai verso il sedile per vedere a chi stava parlando e solo allora mi
resi conto della gravità dell’incidente. La metà anteriore della macchina era
tutta accartocciata, il motore inarcato e piegato su se stesso come una falda
nella roccia solida.
Il primo sole del mattino si specchiava sul parabrezza. Vidi i motivi
incrociati di crepe e fessure. Non erano una novità. In discarica avevo visto
centinaia di finestrini rotti, ognuno diverso, col suo particolare velo di
ragnatela che si irraggiava dal punto dell’impatto come una cronaca dello
scontro. Le crepe sul nostro parabrezza avevano la loro storia da raccontare.
L’epicentro era un piccolo foro da cui le spaccature si diramavano in
maniera concentrica. Il foro era proprio di fronte al sedile del passeggero.
“Stai bene?” disse il papà con voce implorante. “Tesoro, mi senti?”
Sul sedile del passeggero c’era la mamma. Il suo corpo era riverso
dall’altra parte del finestrino. Non potevo vederla in faccia, ma c’era
qualcosa di terrificante nel modo in cui era accasciata sul sedile.
“Mi senti?” disse il papà. Lo ripeté diverse volte. Alla fine, con un
movimento appena percettibile, vidi la punta della coda di cavallo della
mamma andare su e giù. Stava annuendo.
Il papà si alzò, guardò i cavi elettrici, guardò per terra, guardò la mamma.
Sembrava smarrito. “Dici che... devo chiamare un’ambulanza?”
Credo di aver sentito queste parole. E se il papà le disse, come
evidentemente fece, la mamma evidentemente sussurrò una risposta. O
forse non era in grado di sussurrare nulla, non so. Mi sono sempre
immaginata che abbia chiesto di essere portata a casa.
In seguito mi dissero che il proprietario del trattore contro cui ci eravamo
schiantati era corso fuori casa. Quest’uomo, un contadino, aveva chiamato
la polizia. Sapevamo che c’erano guai in vista perché l’auto non era
assicurata e nessuno di noi aveva allacciato le cinture di sicurezza. Ci
vollero una ventina di minuti perché, dopo che il contadino ebbe avvertito
la centrale elettrica dello Utah, fosse tolta la corrente ai cavi. Allora il papà
tirò fuori la mamma dalla station wagon e la vidi in faccia – gli occhi
nascosti sotto due cerchi scuri e grossi come prugne, e il gonfiore che le
deformava i lineamenti delicati, allungandone alcuni e comprimendone
altri.
Non so come arrivammo a casa né quando, ma ricordo che la montagna
splendeva nella luce arancione del mattino. Una volta dentro vidi Tyler
sputare fiotti di sangue cremisi dentro il lavandino del bagno. Aveva battuto
gli incisivi contro il volante e gli si erano stortati verso il palato.
La mamma fu fatta sdraiare sul divano. Mormorò che la luce le dava
fastidio. Tirammo le tende. Voleva andare in taverna, dove non c’erano
finestre, così il papà la portò di sotto e non la vidi per diverse ore, fino a
sera, quando scesi con una debole torcia a portarle la cena. Era
irriconoscibile. Aveva gli occhi talmente violacei che sembravano neri, e
così gonfi che non capivo se erano aperti o chiusi. Mi chiamò Audrey anche
dopo che l’ebbi corretta due volte. “Grazie, Audrey, ma voglio solo buio e
silenzio. Buio. Silenzio. Grazie, Audrey. Vieni ancora a vedere come sto tra
un pochino.”
La mamma non uscì dalla taverna per una settimana. Ogni giorno il
gonfiore peggiorava e i lividi si facevano sempre più scuri. Ogni sera
pensavo che la sua faccia non potesse essere più pesta o deforme di così, ma
ogni mattina era ancora più livida e gonfia. Dopo una settimana, al
tramonto, spegnemmo le luci e la mamma venne di sopra. Sembrava che le
avessero legato due oggetti sulla fronte, grossi come mele e neri come
olive.
Non si parlò più di portarla in ospedale. Il momento di prendere quella
decisione era passato e tornare indietro avrebbe significato tornare a tutta la
violenza e alla paura dell’incidente. Il papà disse che tanto i dottori non
potevano fare nulla per lei. Era nelle mani di Dio.
Nei mesi seguenti la mamma mi chiamò con molti nomi diversi. Quando
mi chiamava Audrey non mi preoccupavo, ma era inquietante se durante
una conversazione mi chiamava Luke o Tony, e alla fine tutti in famiglia,
compresa lei stessa, prendemmo atto che dopo l’incidente non era più
quella di prima. Noi bambini la chiamavamo Occhi da panda. Pensavamo
fosse un bel soprannome. Quei cerchi neri erano là da settimane e ormai ci
avevamo fatto l’abitudine, tanto da scherzarci sopra. Non avevamo idea che
fosse un termine medico. Ecchimosi palpebrale, detta anche Occhi da
panda. Un segno di gravi lesioni cerebrali.
Tyler era roso dai sensi di colpa. Si sentiva responsabile dell’incidente e
continuò a sentirsi responsabile di ogni decisione successiva, di ogni
ripercussione, di ogni riverbero che si fece sentire nel corso degli anni.
Tornava sempre a quel momento e a tutte le sue conseguenze, come se il
tempo stesso fosse cominciato nell’istante in cui la nostra station wagon era
uscita di strada e non ci fosse mai stato nessun passato, nessun contesto,
nessuna azione di alcun tipo finché lui, all’età di diciassette anni, aveva
dato inizio a ogni cosa addormentandosi al volante. Ancora oggi, se la
mamma si dimentica qualche particolare, anche di poco conto, gli occhi di
Tyler riprendono quell’espressione – la stessa che aveva avuto subito dopo
lo scontro, quando si era guardato attorno perdendo sangue dalla bocca e
osservando quello che per lui era opera sua e soltanto sua.
Quanto a me, non ho mai dato la colpa a nessuno per l’incidente,
tantomeno a Tyler. Era successo e basta. Dieci anni dopo avrei visto le cose
in maniera diversa, in parte anche per la netta virata con cui entrai nell’età
adulta. Da allora l’incidente mi avrebbe sempre fatto pensare alle donne
apache e a tutte le decisioni che vanno a costituire una vita – alle scelte,
personali e collettive, che si combinano dando luogo a ogni singolo evento.
Granelli di sabbia incalcolabili che si compattano in sedimento e poi in
roccia.
5.
Fango onesto
Era un’estate senza pioggia. Il sole splendeva nel cielo ogni pomeriggio,
bruciando la montagna col suo calore arido e secco, tanto che ogni mattina,
quando attraversavo il campo per andare alla stalla, sentivo gli steli di
frumento selvatico crepitare e spezzarsi sotto i piedi.
Trascorsi una mattina ambrata a preparare il Rimedio d’emergenza per la
mamma. Prendevo quindici gocce della formula base – che era conservata
nell’armadio da cucito della mamma perché non venisse usata né
contaminata – e ci aggiungevo una boccetta di acqua distillata. Poi formavo
un cerchio con l’indice e il pollice e ci facevo passare attraverso la boccetta.
La mamma diceva che la forza del rimedio omeopatico dipendeva da quante
volte la boccetta mi passava tra le dita, quante volte assorbiva la mia
energia. Di solito mi fermavo a cinquanta.
Il papà e Luke erano alla discarica sopra il pascolo superiore, a circa
quattrocento metri da casa. Stavano preparando le auto per lo
sfasciacarrozze, che il papà aveva prenotato per qualche giorno dopo. Luke
aveva diciassette anni. Aveva un corpo snello e muscoloso e, quand’era
all’aperto, sorrideva sempre. Luke e il papà stavano svuotando i serbatoi di
benzina. Lo sfasciacarrozze non accettava auto coi serbatoi attaccati perché
c’era il rischio che esplodessero, così bisognava svuotarli a uno a uno e
tirarli via. Era un lavoro lento, forare il serbatoio con martello e picchetto e
poi aspettare che la benzina gocciolasse fuori per poter staccare il pezzo in
sicurezza con una fiamma ossidrica. Il papà aveva escogitato un sistema più
rapido: un enorme spuntone di ferro robusto alto due metri e mezzo.
Sollevava l’auto con la ruspa e Luke lo guidava finché il serbatoio si
trovava esattamente sopra lo spuntone. Poi il papà abbassava la forca. Se
andava tutto bene l’auto si impalava sullo spuntone e la benzina usciva a
fiotti dal serbatoio, grondando lungo lo spuntone e dentro il contenitore dal
fondo piatto che il papà aveva saldato alla base per raccoglierla.
Entro mezzogiorno avevano svuotato tra le trenta e le quaranta auto. Luke
aveva raccolto la benzina in secchi da venti litri e cominciò a portarli verso
il furgone del papà. A un certo punto inciampò, inzuppandosi i jeans di
benzina. Il sole estivo asciugò il tessuto nel giro di pochi minuti. Finì di
portare i secchi, poi andò a casa a pranzare.
Ricordo quel pranzo con una chiarezza inquietante. Ricordo l’odore
vischioso dello sformato di manzo e patate e il tintinnio dei cubetti di
ghiaccio dentro i bicchieri alti e appannati dal calore estivo. Ricordo la
mamma che diceva che toccava a me lavare i piatti perché dopo pranzo
doveva andare nello Utah a dare una mano a un’altra levatrice per una
gravidanza difficile. Disse che forse non sarebbe riuscita a tornare per cena,
ma che c’erano degli hamburger nel freezer.
Ricordo che risi per un’ora intera. Il papà era sdraiato sul pavimento della
cucina a fare battute su un’ordinanza approvata di recente nel nostro piccolo
paese rurale. Un cane randagio aveva morso un bambino ed erano tutti sul
piede di guerra. Il sindaco aveva deciso di limitare a due il numero di cani
per ciascuna famiglia, anche se il cane in questione in realtà non
apparteneva proprio a nessuno.
“Questi socialisti sono dei geni,” diceva il papà. “Annegherebbero solo a
guardare la pioggia se non gli costruissi un tetto sopra la testa.” Ridevo così
tanto che mi faceva male la pancia.
Luke si era dimenticato completamente della benzina quando lui e il papà
tornarono sulla montagna e prepararono la fiamma ossidrica. Ma quando si
appoggiò l’aggeggio sul fianco e sfregò la pietra focaia, la scintilla fece
divampare le fiamme che gli avvolsero la gamba.
La parte che ci saremmo ricordati, raccontandola così tante volte da farne
una leggenda di famiglia, era che Luke non riuscì a togliersi i jeans
inzuppati di benzina. Quella mattina, come tutte le mattine, si era legato i
pantaloni con un pezzo di spago per il fieno, che è liscio e scivoloso e
dev’essere fissato con un nodo da cavallerizzo. Né l’aiutarono i grossi
scarponi dalla punta d’acciaio che aveva ai piedi e che erano così malconci
che da settimane se li scocciava col nastro isolante ogni mattina, tagliandolo
via ogni sera col suo coltellino. Luke avrebbe potuto tagliare lo spago e
spaccare gli scarponi nel giro di pochi secondi, ma si fece prendere dal
panico e corse via come un caprone marchiato, spargendo fuoco tra la salvia
e l’erba di grano, secchi e riarsi dall’estate torrida.
Avevo impilato i piatti sporchi e stavo riempiendo il lavello della cucina
quando lo sentii – un grido acuto e strozzato, che cominciava in una tonalità
e finiva in un’altra. Era umano, questo era certo. Non avevo mai sentito un
animale gridare così, con tali oscillazioni di altezza e tonalità.
Corsi fuori e vidi Luke che zoppicava sull’erba. Chiamò la mamma
gridando, poi si accasciò a terra. Fu allora che vidi che gli mancava la parte
sinistra dei jeans, come se si fosse sciolta. In certi punti la sua gamba era
livida, rossa e insanguinata; in altri era bianca e smorta. Dei sottili cordoni
di pelle gli avvolgevano delicatamente la coscia e il polpaccio, come cera
che colasse da una candela da due soldi.
Rovesciò gli occhi all’indietro.
Tornai in casa di corsa. Avevo impacchettato le boccette nuove di
Rimedio d’emergenza, ma la formula base era ancora sul bancone. La presi
e corsi fuori, poi ne versai metà tra le labbra convulse di Luke. Non
successe nulla. I suoi occhi erano bianchi come marmo.
Comparve un’iride marrone, poi l’altra. Luke cominciò a mormorare
qualcosa, poi a gridare. “Brucia! Brucia!” ruggì. Un brivido gli attraversò il
corpo e gli fece battere i denti. Stava tremando.
Avevo solo dieci anni e in quel momento mi sentii molto piccola. Luke
era il mio fratello maggiore: credevo che sapesse cosa fare. Lo presi per le
spalle e lo scossi con forza. “Devo raffreddarti o scaldarti?” gridai. Rispose
con un rantolo.
Il problema era l’ustione, riflettei. Dovevo occuparmi prima di quella.
Presi un pacchetto di ghiaccio dal congelatore a pozzetto che c’era sulla
veranda, ma quando glielo misi sulla gamba gridò – un grido da schiena
inarcata e occhi fuori dalle orbite, che mi fece esplodere il sangue nel
cervello. Dovevo trovare un altro modo per raffreddare la gamba. Pensai di
svuotare il congelatore e di metterci dentro mio fratello, ma il congelatore
funzionava solo col coperchio abbassato e così sarebbe soffocato.
Perlustrai mentalmente la casa. Avevamo un grosso bidone della
spazzatura simile a una balenottera azzurra. C’erano spiaccicati dentro dei
pezzetti di cibo marcio e puzzava così tanto che lo tenevamo chiuso in un
armadio. Corsi in casa e lo vuotai sul linoleum della cucina, notando il topo
morto che Richard aveva buttato il giorno prima, poi portai fuori il bidone e
lo spruzzai con la canna dell’acqua. Sapevo che dovevo lavarlo meglio,
magari col sapone per i piatti, ma guardando Luke, il modo in cui si
contorceva sull’erba, sentivo di non avere tempo. Gettai l’ultimo fiotto di
liquido sporco, raddrizzai il bidone e lo riempii d’acqua.
Luke stava arrancando verso di me per metterci dentro la gamba quando
sentii l’eco della voce di mia madre. Stava dicendo a qualcuno che il vero
problema delle ustioni non sono i tessuti danneggiati, ma le infezioni.
“Luke!” gridai. “No! Non mettere dentro la gamba!”
Mi ignorò e continuò a strisciare verso il bidone. Aveva uno sguardo
freddo e deciso, come se non contasse nient’altro a parte il fuoco che gli
bruciava la gamba e gli saliva al cervello. Mi mossi velocemente. Spinsi il
bidone e un’ondata d’acqua volò sull’erba. Luke mandò una specie di
gorgoglìo come se stesse soffocando.
Tornai di corsa in cucina e trovai i sacchetti per il bidone, poi ne tenni
aperto uno e dissi a Luke di infilarci dentro la gamba. Non si mosse, ma mi
lasciò alzare il sacchetto sulla carne scorticata. Raddrizzai il bidone e ci
cacciai dentro la canna dell’acqua. Mentre si riempiva, aiutai Luke a
reggersi su una gamba sola e a infilare dentro quella bruciata, ora avvolta
nella plastica nera. Faceva un caldo soffocante. L’acqua nel bidone si
sarebbe scaldata in fretta. Buttai dentro il pacchetto di ghiaccio.
Non ci volle molto – venti minuti, forse mezz’ora – perché Luke tornasse
in sé, si calmasse e riuscisse a reggersi in piedi. Poi Richard salì dalla
taverna. Il bidone era al centro esatto del prato, a tre metri buoni
dall’ombra, e il sole del pomeriggio picchiava. Essendo pieno d’acqua era
troppo pesante per poterlo spostare, e Luke non ne voleva sapere di tirar
fuori la gamba, nemmeno per un istante. Presi un sombrero di paglia che ci
aveva dato la nonna in Arizona. Luke stava ancora battendo i denti. Gli
portai anche una coperta di lana. Rimase in piedi così, con un sombrero in
testa, una coperta di lana sulle spalle e la gamba infilata dentro un bidone
della spazzatura. Sembrava una via di mezzo tra un senzatetto e un turista.
Il sole scaldò l’acqua. Luke cominciò a muoversi per il fastidio. Tornai al
congelatore ma non c’era più ghiaccio, solo una dozzina di sacchetti di
verdure congelate, così buttai dentro quelle. Il risultato fu una zuppa torbida
in cui galleggiavano pezzetti di piselli e carote.
Dopo un po’, non saprei dire quanto, il papà tornò a casa. Aveva
un’espressione desolata e sconfitta sul volto. Luke si era calmato e stava
riposando, per quel che poteva riposare stando in piedi. Il papà fece ruotare
il bidone verso l’ombra perché, nonostante il cappello, Luke si era scottato
le mani e le braccia al sole. Disse che la cosa migliore da fare era lasciare la
gamba dov’era finché non tornava la mamma.
La macchina della mamma comparve sulla statale verso le sei. Le andai
incontro a metà strada lungo la collina e le raccontai l’accaduto. Si precipitò
da Luke e disse che doveva vedere la gamba, così lui la tirò fuori,
gocciolante e col sacchetto di plastica appiccicato alla piaga. Per non
lacerare i tessuti fragili, la mamma tagliò il sacchetto lentamente e con cura,
fino a scoprire la gamba. C’era pochissimo sangue e ancor meno vesciche,
perché entrambe le cose richiedono pelle e Luke non ne aveva molta. Il
volto della mamma si fece di un giallo grigiastro, ma rimase calma. Chiuse
gli occhi e incrociò le dita, poi chiese ad alta voce se la ferita era infetta.
Clic clic clic.
“Stavolta ti è andata bene, Tara,” disse. “Ma cosa ti è venuto in mente
d’infilarlo in un bidone della spazzatura?”
Il papà portò dentro Luke e la mamma andò a prendere il suo bisturi. Ci
misero quasi tutta la sera a tagliar via la carne morta. Luke cercò di non
gridare, ma quando sollevavano e allungavano dei tratti di pelle per vedere
dove finiva la carne morta e cominciava quella viva, mandava dei forti
sbuffi e gli uscivano le lacrime.
La mamma gli spalmò sulla gamba una pomata di sua invenzione a base
di verbasco e consolida maggiore. Sapeva curare le ustioni, erano una sua
specialità, ma capivo che era preoccupata. Disse che non ne aveva mai vista
una brutta come quella di Luke.
Non sapeva cosa sarebbe successo.
Io e la mamma passammo quella prima notte al capezzale di Luke.
Delirava per la febbre e il dolore, e quasi non chiuse occhio. Gli
applicammo del ghiaccio sulla faccia e sul petto contro la febbre, mentre
per il dolore gli demmo lobelia, verbena blu e scutellaria. Era un’altra delle
ricette della mamma. L’avevo presa anch’io quand’ero caduta dal bidone
dei rottami, per alleviare il dolore pulsante alla gamba mentre aspettavo che
si rimarginasse la ferita. Ma non potevo dire che avesse funzionato.
Sapevo che le medicine dell’ospedale erano un abominio per Dio, ma se
quella notte avessi avuto della morfina l’avrei data a Luke. Quasi non
riusciva a respirare dal male. Era a letto appoggiato ai cuscini e, mentre il
sudore dalla fronte gli gocciolava sul petto, tratteneva il fiato fino a
diventare rosso, poi violaceo, come se privare il suo cervello di ossigeno
fosse l’unico modo per sopravvivere fino al minuto successivo. Quando il
dolore ai polmoni superava quello per l’ustione, rilasciava l’aria con un
forte rantolo, un grido di sollievo per i polmoni e di agonia per la gamba.
La seconda notte mi occupai da sola di Luke per lasciar riposare la
mamma. Rimasi vigile, svegliandomi al minimo movimento o principio di
affanno per andare a prendere ghiaccio e tinture prima che Luke diventasse
cosciente e ripartisse il dolore. La terza notte se ne prese cura la mamma e
rimasi sulla soglia ad ascoltare i suoi rantoli e a guardare la mamma
vegliare su di lui col volto incavato e gli occhi gonfi di stanchezza e
apprensione.
Quando dormivo, sognavo. Sognavo il fuoco che non avevo visto.
Sognavo di essere distesa su quel letto al posto di mio fratello, il corpo
debolmente avvolto dalle bende, mummificato. La mamma era
inginocchiata sul pavimento accanto a me, mi stringeva la mano incerottata
come stringeva quella di Luke, mi picchiettava la fronte e pregava.
Luke non andò in chiesa quella domenica, né la domenica dopo, né quella
dopo ancora. Il papà ci disse di dire che era malato. Disse che sarebbe stato
un guaio se lo Stato veniva a sapere della gamba di Luke, che i Federali
avrebbero portato via noi bambini. Che avrebbero messo Luke in un
ospedale, dove la gamba gli avrebbe fatto infezione e sarebbe morto.
Circa tre settimane dopo l’incidente, la mamma annunciò che la pelle
attorno ai margini dell’ustione aveva cominciato a ricrescere e che era
ottimista anche per le parti messe peggio. Luke adesso riusciva a stare
seduto e una settimana dopo, quando arrivò la prima ondata di freddo, era in
grado di reggersi in piedi con le stampelle per un minuto o due. Dopo poco
cominciò a spostarsi pesantemente per casa, magro come un fagiolino, e a
ingurgitare secchiate di cibo per riprendere il peso che aveva perso. Lo
spago per il fieno era ormai diventato una leggenda di famiglia.
“Un uomo deve avere una cintura come si deve,” disse il papà a colazione
il giorno che Luke si fu rimesso abbastanza da poter tornare in discarica.
Gli porse una cinghia di cuoio con una fibbia d’acciaio.
“Luke no,” disse Richard. “Lui preferisce lo spago, sai quanto va di
moda.”
Luke sorrise. “La bellezza è tutto,” disse.
Per diciotto anni non avrei più ripensato a quel giorno, non mi sarei fatta
domande. Le poche volte che la mia mente tornava a quel torrido
pomeriggio, la prima cosa che ricordavo era la cintura. Luke, pensavo.
Cagnaccio che non sei altro. Usi ancora lo spago sui pantaloni?
Adesso, a ventinove anni, mi siedo a scrivere e cerco di ricostruire
l’accaduto dagli echi e le grida di un ricordo lontano. Scrivo tutto, fino in
fondo. Quando arrivo alla fine mi fermo. C’è un’incongruenza, un fantasma
in questa storia.
Leggo. Rileggo. Eccolo qua.
Chi ha spento il fuoco?
Una voce rimasta a lungo silente risponde: il papà.
Ma Luke era solo quando l’avevo trovato. Se il papà fosse stato in
montagna insieme a lui l’avrebbe portato a casa, gli avrebbe curato
l’ustione. Il papà era a lavorare altrove, per questo Luke si era trascinato giù
dalla montagna da solo. Per questo la sua gamba era stata curata da una
bambina di dieci anni. Per questo era finita dentro un bidone della
spazzatura.
Decido di chiedere a Richard. È più grande di me e ha una memoria
migliore. E poi, da quel che ho saputo, Luke non ha più un telefono.
Chiamo. La prima cosa che Richard ricorda è lo spago che, fedele alla sua
natura, chiama “utensile per il fieno”. Poi ricorda la benzina rovesciata. Gli
chiedo come aveva fatto Luke a spegnere il fuoco e a scendere dalla
montagna, dato che era sotto shock quando l’avevo trovato. C’era il papà
con lui, risponde Richard senza mezzi termini.
Okay.
Allora perché il papà non era in casa?
Perché Luke era scappato tra le sterpaglie appiccando il fuoco alla
montagna, dice Richard. Ti ricordi com’era quell’estate. Secca, torrida. Non
puoi appiccare fuochi nei boschi quand’è tutto secco. Così il papà aveva
messo Luke sul furgone e gli aveva detto di andare a casa dalla mamma.
Solo che la mamma non c’era.
Okay.
Ci penso per alcuni giorni, poi mi siedo di nuovo a scrivere. All’inizio il
papà è a casa – il papà con le sue battute divertenti sui socialisti e i cani e il
tetto che impedisce ai liberali di annegare. Poi lui e Luke tornano in
montagna, la mamma se ne va in macchina e io apro il rubinetto per
riempire il lavello della cucina. Ancora. Per quella che sembra la terza
volta.
In montagna succede qualcosa. Posso solo immaginarmelo ma lo vedo
chiaramente, più chiaramente che se fosse un ricordo. Le auto sono
ammassate e in attesa, i serbatoi bucati e svuotati. Il papà indica una pila di
auto e dice: “Luke, stacca quei serbatoi, okay?”. E Luke risponde: “Certo,
papà”. Si appoggia la fiamma ossidrica sul fianco e sfrega la pietra focaia.
Le fiamme divampano dal nulla e lo avvolgono. Luke grida, armeggia con
lo spago, grida di nuovo e scappa via tra le sterpaglie.
Il papà lo rincorre, gli ordina di fermarsi. È forse la prima volta in tutta la
sua vita che Luke non gli obbedisce. Luke è veloce ma il papà è astuto.
Prende una scorciatoia attraverso una piramide di auto e abbranca Luke,
buttandolo a terra.
Non riesco a vedere cosa succede dopo, perché nessuno mi ha mai
raccontato come il papà ha spento il fuoco sulla gamba di Luke. Poi affiora
un ricordo: il papà, quella sera in cucina, che sussulta mentre la mamma gli
spalma un mucchio di pomata sulle mani rosse e piene di vesciche. Allora
capisco.
Luke non va più a fuoco.
Cerco d’immaginarmi il momento della decisione. Il papà guarda le
sterpaglie che bruciano in fretta e avidamente nel calore tremolante. Guarda
suo figlio. Pensa che se riuscirà a soffocare le fiamme finché sono ancora
all’inizio potrà fermare l’incendio e magari salvare la casa.
Luke sembra lucido. Il suo cervello non ha elaborato quello che è
successo; il dolore non è ancora cominciato. Il Signore provvederà, deve
pensare il papà. Dio l’ha lasciato cosciente.
M’immagino il papà che prega ad alta voce, gli occhi alzati al cielo,
mentre porta suo figlio al furgone e lo sistema al posto di guida. Inserisce la
prima, il furgone comincia a muoversi. Ora ha preso velocità, Luke stringe
il volante. Il papà salta giù dal furgone in corsa, cade a terra e rotola, poi
torna di corsa verso l’incendio, che si è propagato, si è fatto più alto. Il
Signore provvederà, ripete, poi si toglie la camicia e comincia a respingere
le fiamme.3
3
Da quando ho scritto questa storia, ho parlato con Luke dell’incidente. La sua versione dei fatti è
diversa sia dalla mia che da quella di Richard. Da quel che ricorda, il papà lo portò a casa, gli diede
un rimedio omeopatico contro lo shock e lo mise dentro una vasca d’acqua fredda, poi tornò a
domare l’incendio. Questo cozza contro i miei ricordi e contro quelli di Richard. Certo, può darsi che
ci ricordiamo male. Può darsi che io abbia trovato Luke dentro una vasca da bagno, da solo, invece
che sull’erba. Quello su cui sono tutti d’accordo, stranamente, è che Luke finì in qualche modo sul
prato davanti con la gamba dentro un bidone dell’immondizia.
8.
Piccole prostitute
Volevo chiudere con la discarica e c’era un solo modo per farlo, lo stesso
che aveva usato Audrey: trovare un lavoro e non essere in casa quando il
papà radunava la sua squadra di lavoranti. Il fatto è che avevo undici anni.
Pedalai per un chilometro e mezzo fino al centro polveroso del nostro
paesino. Non c’era granché, solo una chiesa, un ufficio postale e una
stazione di rifornimento chiamata Papa Jay’s. Entrai nell’ufficio postale.
Dietro lo sportello c’era una signora anziana. Sapevo che si chiamava
Myrna Moyle perché lei e suo marito Jay (Papa Jay) erano i proprietari
della stazione di rifornimento. Secondo il papà erano stati loro a spingere
per l’ordinanza comunale che limitava il possesso di cani a due per
famiglia. Avevano proposto anche altre ordinanze e adesso ogni domenica il
papà tornava a casa dalla messa imprecando contro Myrna e Jay Moyle, che
venivano da Monterey, Seattle o chissà dove e pensavano di poter imporre il
socialismo della West Coast alla brava gente dell’Idaho.
Chiesi a Myrna se potevo attaccare un annuncio al tabellone. Mi chiese di
che si trattava. Dissi che cercavo lavoro come babysitter.
“Che orari puoi fare?” disse.
“Sempre, a qualsiasi ora.”
“Intendi dopo la scuola?”
“Intendo sempre.”
Myrna mi guardò e piegò la testa. “A mia figlia Mary serve qualcuno che
le tenga il piccolo. Glielo chiederò.”
Mary insegnava infermieristica alla scuola, che per il papà era il massimo
del lavaggio del cervello per una persona: essere al servizio sia del Sistema
Medico sia dello Stato. Pensai che forse non mi avrebbe lasciato lavorare
per lei; invece, dopo poco mi ritrovai a occuparmi della bimba di Mary ogni
lunedì, mercoledì e venerdì mattina. Poi Mary aveva un’amica, Eve, a cui
serviva una babysitter per i suoi tre figli di martedì e giovedì.
A circa un chilometro e mezzo da casa nostra c’era un tizio di nome
Randy che vendeva anacardi, mandorle e noci di macadamia. Un
pomeriggio passò all’ufficio postale e, chiacchierando con Myrna, le disse
che era stanco di riempire scatole da solo e che avrebbe voluto impiegare
qualche ragazzino, se non fossero stati tutti presi dal calcio e dagli amici.
“Ne conosco una in paese che non lo è,” disse Myrna. “E credo che lo
farebbe molto volentieri.” Indicò il mio annuncio e di lì a poco mi ritrovai a
fare la babysitter dal lunedì al venerdì dalle otto a mezzogiorno, per poi
andare da Randy a impacchettare anacardi fino all’ora di cena. Non
prendevo molto ma, non essendo mai stata pagata, mi sembrava tanto.
La gente in chiesa diceva che Mary suonava benissimo il pianoforte.
Usavano la parola “professionale”. Non sapevo cosa significasse, finché
una domenica sentii Mary suonare un assolo durante la messa. Rimasi a
bocca aperta. Avevo sentito suonare il piano un miliardo di volte come
accompagnamento agli inni, ma la musica di Mary non c’entrava niente con
quell’amorfo pestare di tasti. Era liquida, era aria. Era roccia un istante e
vento quello dopo.
Il giorno successivo, quando Mary tornò da scuola, le chiesi se al posto
dei soldi poteva pagarmi in lezioni. Ci sedemmo sulla panca davanti al
pianoforte e mi fece vedere alcuni esercizi per le dita. Poi mi chiese
cos’altro studiavo oltre al piano. Il papà mi aveva detto come rispondere
quando la gente mi faceva quella domanda. “Faccio scuola ogni giorno,”
dissi.
“Stai con gli altri bambini?” mi chiese. “Hai degli amici?”
“Certo,” dissi. Mary tornò alla lezione. Quando finimmo e fui pronta ad
andarmene, disse: “Mia sorella Caroline insegna danza ogni mercoledì sul
retro del Papa Jay’s. Ci sono un sacco di bambine della tua età. Potresti
andare anche tu”.
Quel mercoledì uscii presto dalla casa di Randy e pedalai fino alla
stazione di rifornimento. Indossavo dei jeans, una larga maglietta grigia e
un paio di scarponi dalla punta d’acciaio. Le altre bambine avevano dei
body neri, delle gonne velate e luccicanti, calzamaglie bianche e minuscole
ballerine color toffee. Caroline era più giovane di Mary. Era truccata in
maniera impeccabile e tra i riccioli castani le scintillavano due cerchi d’oro.
Ci fece mettere in fila, poi ci mostrò una piccola sequenza di passi. Da
uno stereo nell’angolo uscivano le note di una canzone. Non l’avevo mai
sentita, ma le altre bambine la conoscevano. Guardai il nostro riflesso allo
specchio: dodici bambine slanciate e splendenti come macchie piroettanti di
nero, bianco e rosa. Poi guardai me, grossa e grigia.
Alla fine della lezione Caroline mi disse di comprare un body e delle
ballerine.
“Non posso,” dissi.
“Oh.” Sembrava a disagio. “Magari una delle bambine può prestartene
uno.”
Non aveva capito. Pensava che non avessi i soldi. “Non è sobrio,” dissi.
Lei aprì la bocca, sorpresa. Queste Moyle della California, pensai.
“Be’, non puoi danzare con gli scarponi,” disse. “Parlerò con tua madre.”
Alcuni giorni dopo, la mamma guidò per sessantacinque chilometri e mi
portò a un negozietto dove c’erano scaffali pieni di scarpe esotiche e strani
vestiti sintetici. Non ce n’era uno sobrio. La mamma andò dritta al bancone
e disse alla commessa che avevamo bisogno di un body nero, una
calzamaglia bianca e delle scarpette da danza.
“Tienili in camera tua,” mi disse quando uscimmo dal negozio. Non
dovette aggiungere altro. Avevo già capito che non dovevo far vedere il
body al papà.
Quel mercoledì m’infilai il body e la calzamaglia, con sopra la mia
maglietta grigia. Anche se la maglietta mi arrivava quasi alle ginocchia, mi
vergognavo di avere le gambe così scoperte. Il papà diceva che una donna
perbene non si scopriva mai sopra la caviglia.
Le altre bambine non mi parlavano quasi mai, ma mi piaceva un sacco
stare con loro. Adoravo la sensazione di conformità. Imparare a danzare era
come imparare a far parte di qualcosa. Potevo memorizzare i movimenti e
in questo modo entrare nei loro pensieri, fare un balzo quando lo facevano
loro, alzare le braccia a tempo con loro. Certe volte, quando guardavo lo
specchio e vedevo il groviglio delle nostre figure roteanti, non riuscivo a
distinguermi subito in mezzo al gruppo. Non importava se indossavo una
maglietta grigia ed ero un’oca in mezzo ai cigni. Ci muovevamo insieme
come un unico stormo.
Quando cominciammo a fare le prove per la recita di Natale, Caroline
telefonò alla mamma per parlare del costume. “Fin dove arriverà la gonna?”
chiese la mamma. “E velata? No, non si può fare.” Sentii Caroline dire
qualcosa su quello che avrebbero voluto indossare le altre bambine. “Tara
non può mettersi quelle cose,” disse la mamma. “Se le altre bambine si
vestiranno così, lei starà a casa.”
Il mercoledì dopo la telefonata di Caroline arrivai al Papa Jay’s alcuni
minuti in anticipo. Era appena finita la lezione per le più piccole e la sala
era piena di bambine di sei anni che saltellavano intorno alle loro madri con
indosso cappellini di velluto rosso e gonne con lustrini scintillanti di un
intenso rosso scarlatto. Le guardai ancheggiare e balzare per i corridoi, le
gambette coperte solo dalle calzamaglie velate. Sembravano delle piccole
puttane.
Arrivarono le altre bambine del mio corso. Quando videro i costumi
corsero dentro a vedere cos’aveva preparato Caroline per loro. Caroline era
in piedi accanto a uno scatolone pieno di grosse felpe grigie. Cominciò a
distribuirle. “Ecco i vostri costumi!” disse. Le bambine alzarono le felpe,
incredule. Si aspettavano chiffon e nastrini, non Fruit of the Loom. Caroline
aveva cercato di abbellire le felpe cucendoci sopra dei grossi Babbo Natale
bordati di paillettes, con il risultato opposto.
Io e la mamma non avevamo detto al papà della recita. Non gli chiesi di
venire. C’era un istinto all’opera dentro di me, una specie di
consapevolezza. Il giorno della recita, la mamma disse al papà che quella
sera avevo una “cosa”. Lui, sorprendentemente, le fece un sacco di
domande e dopo alcuni minuti la mamma ammise che si trattava di un
saggio di danza. Il papà fece una smorfia quando seppe che prendevo
lezioni da Caroline Moyle. Pensai che si sarebbe messo a parlare di nuovo
del socialismo in California, ma non lo fece. Invece prese il cappotto e
andammo tutti e tre alla macchina.
La recita era in chiesa. C’erano tutti, con macchine fotografiche luccicanti
e grosse videocamere. Mi cambiai nella stessa stanza dove facevo
catechismo. Le altre bambine chiacchieravano allegramente. M’infilai la
felpa, cercando di allungare il tessuto ancora di qualche centimetro. Lo
stavo ancora tirando verso il basso quando ci mettemmo in fila sul palco.
Partì la musica da uno stereo appoggiato sul pianoforte e cominciammo a
danzare, battendo i piedi in sequenza. Poi dovevamo fare un balzo, alzare le
braccia e ruotare su noi stesse. I miei piedi rimasero piantati per terra.
Invece di slanciare le braccia sopra la testa, le alzai solo fino alle spalle.
Quando le altre bambine si accovacciarono per colpire il palco con le mani,
mi piegai. Al momento di fare la ruota barcollai, impedendo alla gravità di
fare quel che doveva fare, ovvero alzarmi la felpa ancora di più sulle
gambe.
La musica finì. Le bambine mi guardarono malissimo mentre
scendevamo dal palco – avevo rovinato lo spettacolo –, ma non ci feci caso.
Esisteva una sola persona per me in quel momento, ed era mio padre.
Cercai tra il pubblico e lo trovai senza difficioltà. Era in piedi in fondo alla
chiesa. Le luci del palco gli si riflettevano sugli occhiali squadrati. Aveva
un’espressione fredda e impassibile, sotto la quale potevo vedere la sua
rabbia.
Anche se casa nostra distava solo un chilometro e mezzo, il viaggio di
ritorno mi sembrò infinito. Ero seduta sul sedile posteriore e ascoltavo mio
padre gridare. Come aveva potuto la mamma lasciarmi peccare così? Era
per questo che non gli aveva detto della recita? La mamma ascoltò per un
po’ mordicchiandosi il labbro, poi alzò le mani e disse che non aveva idea
che il costume sarebbe stato così sconcio. “Quella Caroline Moyle mi
sentirà!” disse.
Mi piegai in avanti per vederla in faccia, sperando che si voltasse, che
afferrasse la domanda che le stavo facendo mentalmente, perché non capivo
proprio. Sapevo che non era arrabbiata con Caroline, perché aveva visto le
felpe giorni prima. L’aveva perfino chiamata per ringraziarla di aver scelto
un costume che potevo mettere anch’io. La mamma girò la testa verso il
finestrino.
Guardai i capelli grigi sulla nuca del papà. Era seduto in silenzio ad
ascoltare la mamma, che continuava a insultare Caroline e a dire
quant’erano scandalosi e osceni i suoi costumi. Il papà annuì mentre
salivamo sobbalzando per il vialetto ghiacciato, e sembrò farsi più calmo a
ogni parola che lei diceva.
Il resto della serata fu occupato dalla predica del papà. Disse che il corso
di danza di Caroline era un trucco di Satana, come la scuola pubblica,
perché si spacciava per una cosa mentre in realtà era un’altra. Diceva di
insegnare danza, invece insegnava l’indecenza e la promiscuità. Satana era
astuto, disse. Chiamandola “danza” aveva convinto dei mormoni perbene ad
accettare che le loro figlie saltellassero qua e là come puttane nella casa di
Dio. Era questo a oltraggiarlo più di ogni altra cosa: che un’esibizione così
oscena fosse avvenuta in chiesa.
Dopo che si fu sfogato e fu andato a letto, m’infilai sotto le coperte e
fissai il buio. Qualcuno bussò alla porta. Era la mamma. “Dovevo
immaginarlo,” disse. “Dovevo capire che razza di corso era.”
Credo che la mamma si sia sentita in colpa dopo la recita, perché nelle
settimane seguenti cercò qualcos’altro da farmi fare, qualcosa che andava
bene anche al papà. Aveva notato che passavo un sacco di tempo chiusa in
camera ad ascoltare il Coro del Tabernacolo Mormone col vecchio stereo di
Tyler, così cercò un insegnante di canto. Ci mise alcune settimane a
trovarlo, e altre settimane ancora a convincere l’insegnante, una donna, a
darmi lezioni. Erano molto più care del corso di danza, ma la mamma usava
i soldi che guadagnava vendendo oli.
L’insegnante era alta e magra, con delle unghie lunghe che ticchettavano
mentre si spostavano rapidamente sui tasti del piano. Mi raddrizzava la
postura tirandomi i capelli sul collo fino a farmi rincagnare il mento, poi mi
faceva sdraiare sul pavimento e mi camminava sulla pancia per rinforzare il
diaframma. Era ossessionata dall’equilibrio e spesso mi schiaffeggiava le
ginocchia per ricordarmi di piantare bene i piedi per terra e occupare lo
spazio di cui avevo bisogno.
Dopo alcune lezioni annunciò che ero pronta a cantare in chiesa. Aveva
già organizzato tutto. Quella domenica avrei cantato un inno davanti
all’assemblea dei fedeli.
I giorni passarono veloci, come succede quando aspetti qualcosa con
terrore. Domenica mattina salii sul pulpito e guardai le facce della gente di
sotto. C’erano Myrna e Papa Jay, e dietro di loro Mary e Caroline.
Sembravano dispiaciuti per me, come se sapessero che avrei fatto una
figuraccia.
La mamma suonò l’introduzione. La musica si fermò. Toccava a me.
Avrei potuto pensare alla mia insegnante e alle sue tecniche – piedi ben
piantati, schiena dritta, bocca aperta. Invece pensai a Tyler, a quando stavo
sdraiata sulla moquette accanto alla sua scrivania a fissare i suoi calzini di
lana mentre il Coro del Tabernacolo Mormone cantava e gorgheggiava. Mi
aveva riempito la testa delle loro voci, che per me erano la cosa più bella al
mondo dopo Buck Peak.
Le dita della mamma indugiavano sui tasti. La pausa si era fatta
imbarazzante; la gente, a disagio, si spostava sulle panche. Pensai alle voci,
alle loro strane contraddizioni – al modo in cui facevano fluttuare il suono
nell’aria, quel suono delicato come un vento caldo ma così intenso da
toccarti l’anima. Cercai quelli voci, le cercai dentro di me – e le trovai.
Nulla mi era mai venuto più naturale: era come se pensassi la musica, e
pensandola le facessi prendere vita. Ma la realtà non si era mai piegata ai
miei pensieri prima di allora.
La canzone finì e tornai alla nostra panca. Fu recitata una preghiera per
concludere la messa, poi la folla mi fu addosso. Donne in vestiti a fiori
sorridevano e mi stringevano la mano, uomini in antiquati completi neri mi
davano delle pacche sulle spalle. La direttrice del coro m’invitò a far parte
del coro, Fratello Davis mi chiese di cantare per il Rotary Club e il vescovo
– l’equivalente mormone di un prete –, disse che gli sarebbe piaciuto che
cantassi la mia canzone a un funerale. Dissi di sì a tutti.
Il papà non smetteva di sorridere. Non c’era praticamente nessuno in
chiesa a cui non avesse dato dell’infedele – perché era andato da un dottore
o aveva mandato i figli alla scuola pubblica –, ma quel giorno sembrò
dimenticarsi del socialismo californiano e degli Illuminati. Mi rimase
accanto, con una mano sulla mia spalla, a ricevere garbatamente
complimenti. “È una benedizione,” ripeteva. “Una grande benedizione.”
Papa Jay attraversò la cappella e si fermò davanti alla nostra panca. Disse
che cantavo come un angelo di Dio. Il papà lo guardò un momento, poi
cominciarono a brillargli gli occhi e gli strinse la mano come se fossero
vecchi amici.
Non avevo mai visto questo lato di mio padre, ma da allora l’avrei visto
spesso – ogni volta che cantavo. Anche se aveva faticato tutto il giorno in
discarica, non era mai troppo stanco per prendere la macchina e venirmi a
sentire. Anche se odiava i socialisti come Papa Jay, quell’odio non era mai
così forte da impedirgli, se queste persone decantavano la mia voce, di
mettere da parte la sua grande lotta contro gli Illuminati e dire: “Già, Dio ci
ha dato una benedizione, una grande benedizione”. Era come se, quando
cantavo, il papà si dimenticasse per un po’ che il mondo era un luogo
minaccioso, che poteva corrompermi, e che dovevo restare a casa al sicuro.
Voleva che tutti sentissero la mia voce.
Al teatro in città stavano allestendo un musical, Annie, e la mia
insegnante disse che se il regista mi sentiva cantare, mi avrebbe dato la
parte principale. La mamma mi avvertì di non montarmi la testa. Disse che
non potevamo permetterci di fare venti chilometri quattro sere alla
settimana per andare alle prove e che in ogni caso il papà non mi avrebbe
mai permesso di passare del tempo da sola in città in compagnia di chissà
chi.
Provai lo stesso le canzoni perché mi piacevano. Una sera ero in camera
mia a cantare The sun’ll come out tomorrow, quando il papà entrò verso
l’ora di cena. Masticò il suo polpettone in silenzio e ascoltò.
“Troverò i soldi,” disse alla mamma quando andarono a letto quella sera.
“Portala a quel provino.”
9.
Integro tra i suoi contemporanei
L’estate che cantai come voce solista per Annie era il 1999. Mio padre era
in pieno stato d’allerta. Era da quando avevo cinque anni e gli Weaver erano
sotto assedio che non si sentiva così sicuro che i Giorni dell’Abominio
fossero alle porte.
Il papà lo chiamava Y2K. Il primo gennaio, diceva, i computer di tutto il
mondo sarebbero andati in tilt. Non ci sarebbe più stata corrente elettrica né
telefoni. Tutto sarebbe sprofondato nel caos e questo avrebbe inaugurato il
Secondo Avvento di Cristo.
“Come fai a sapere la data?” gli chiesi.
Il papà disse che lo Stato aveva programmato i computer su un calendario
a sei cifre, in cui l’anno aveva solo due cifre. “Quando il novantanove
diventerà zero-zero,” disse, “i computer non capiranno più che anno è. Si
bloccheranno.”
“Non possono correggerli?”
“No, non si può,” disse il papà. “L’uomo ha fatto affidamento sulle sue
forze, ma le sue forze sono deboli.”
In chiesa il papà mise tutti in guardia contro l’Y2K. Consigliò a Papa Jay
di procurarsi dei lucchetti robusti per la sua stazione di rifornimento e
magari qualche arma da difesa. “Il tuo emporio sarà il primo a essere
saccheggiato in tempi di carestia,” lo avvertì. Disse a Fratello Mumford che
ogni uomo perbene doveva avere una scorta almeno decennale di cibo,
benzina, armi e oro. Fratello Mumford si limitò a lanciare un fischio. “Non
siamo mica tutti virtuosi come te, Gene,” disse. “Alcuni di noi sono dei
peccatori!” Non lo ascoltò nessuno. La gente continuò come se niente fosse
sotto il sole estivo.
Nel frattempo la mia famiglia bolliva e sbucciava pesche, denocciolava
albicocche e riduceva mele in composta. Tutto era cotto a pressione,
sigillato, etichettato e immagazzinato in un deposito sotterraneo che il papà
aveva scavato nel campo. L’ingresso era nascosto da una collinetta; il papà
diceva che non dovevo mai farne parola con nessuno.
Un pomeriggio il papà salì sulla scavatrice e fece una grossa buca accanto
alla vecchia stalla. Poi, usando la ruspa, ci mise dentro un serbatoio da
quasi quattromila litri e lo ricoprì di terra con una pala, piantando
accuratamente ortiche e grespini nel terreno appena rivoltato perché
crescessero e nascondessero il serbatoio. Mentre spalava fischiettava I Feel
Pretty di West Side Story. Aveva il cappello girato all’indietro sulla testa e
un sorriso radioso sul volto. “Saremo gli unici ad avere benzina quando
arriverà la Fine,” disse. “Andremo in macchina mentre tutti gli altri se la
daranno a gambe. Passeremo anche dallo Utah a prendere Tyler.”
Quasi tutte le sere avevo le prove al Worm Creek Opera House, un teatro
fatiscente vicino all’unico semaforo che c’era in città. Sembrava di stare in
un altro mondo. Nessuno parlava dell’Y2K.
I rapporti interpersonali al Worm Creek erano completamente diversi da
quelli a cui mi aveva abituato la mia famiglia. Ovviamente avevo passato
del tempo con altre persone all’infuori dei miei famigliari, ma erano come
noi: donne che avevano chiamato la mamma per far nascere i loro bambini,
o che venivano per le sue erbe perché non credevano nel Sistema Medico.
Avevo una sola amica, di nome Jessica. Alcuni anni prima il papà aveva
convinto i suoi genitori, Rob e Diane, che le scuole pubbliche erano solo dei
programmi di propaganda statale, e da allora l’avevano tenuta a casa. Prima
che i suoi genitori la ritirassero dalla scuola, Jessica era una di loro e non
avevo mai provato a parlare con lei. Ma poi diventò una di noi. I bambini
normali smisero di considerarla, e non le rimasi che io.
Non avevo mai imparato a parlare con quelli che non erano come noi –
gente che andava a scuola e che si faceva curare dai dottori. Che non si
preparava ogni giorno alla Fine del Mondo. Il Worm Creek era pieno di
persone così, le cui parole sembravano strappate da un’altra realtà. Ecco
come mi sentii la prima volta che il regista mi parlò: come se stesse
parlando da un’altra dimensione. Disse solo: “Va’ a chiamare FDR”. Non mi
mossi.
Ci provò di nuovo. “Il presidente Roosevelt. FDR.”
“È una specie di JCB?” dissi. “Le serve un muletto?”
Scoppiarono tutti a ridere.
Anche se avevo memorizzato tutte le mie battute, alle prove me ne stavo
seduta per conto mio, fingendo di studiare quello che c’era scritto sul mio
quadernone nero. Quando arrivava il mio turno di salire sul palco, recitavo
le battute a voce alta e senza esitazioni. La cosa mi dava una certa
sicurezza. Io non avevo niente da dire, ma Annie sì.
La settimana prima della serata di apertura, la mamma mi tinse i capelli
color rosso ciliegia. Il regista disse che erano perfetti e che ora dovevo solo
procurarmi i costumi prima delle prove generali di sabato.
In taverna trovai un enorme maglione lavorato a maglia, macchiato e
pieno di buchi, e un brutto vestito blu, che la mamma candeggiò facendolo
diventare marrone sbiadito. Era l’abbigliamento perfetto per un’orfanella ed
ero contenta di aver trovato i costumi così facilmente, finché mi ricordai
che nel secondo atto Annie indossava dei vestiti splendidi che le aveva
comprato Daddy Warbucks. Non avevo niente del genere.
Lo dissi alla mamma, che si adombrò. Guidammo per quasi centosessanta
chilometri tra andata e ritorno, cercando in ogni negozio di seconda mano
che trovammo lungo la strada, ma inutilmente. Mentre eravamo sedute nel
parcheggio dell’ultimo negozio, la mamma strinse le labbra e disse: “C’è un
altro posto dove possiamo provare”.
Andammo a casa di zia Angie e parcheggiammo davanti alla staccionata
bianca che condivideva con la nonna. La mamma bussò alla porta, poi
indietreggiò e si lisciò i capelli. Angie sembrava sorpresa di vederci – la
mamma non andava a trovare spesso sua sorella –, ma sorrise
affettuosamente e ci invitò a entrare. Il suo soggiorno, pieno di seta e
merletti, mi ricordava le lobby degli alberghi di lusso che si vedevano nei
film. Io e la mamma ci sedemmo su un divano pieghettato color rosa pallido
mentre la mamma spiegava il motivo della nostra visita. Angie disse che
sua figlia aveva dei vestiti che potevano fare al caso nostro.
La mamma aspettò sul divano rosa mentre Angie mi portava di sopra in
camera di sua figlia e mi mostrava una bracciata di vestiti, ognuno così
raffinato, con motivi di pizzo così elaborati e fiocchi così delicati che sulle
prime ebbi paura di toccarli. Angie mi aiutò a provarli, annodando le fasce
attorno alla vita, allacciando i bottoni e gonfiando i fiocchi. “Dovresti
prendere questo,” disse poi, passandomi un vestito blu scuro con delle
cordicelle bianche intrecciate sul corpetto. “Li ha cuciti la nonna, questi
dettagli.” Presi il vestito, insieme a un altro di velluto rosso col colletto di
pizzo bianco, e io e la mamma tornammo a casa.
Lo spettacolo andò in scena una settimana dopo. Il papà era in prima fila.
A fine spettacolo andò dritto in biglietteria e comprò dei biglietti anche per
la sera dopo. Quella domenica, in chiesa, non parlò d’altro. Non di dottori,
non di Illuminati, non dell’Y2K. Solo dello spettacolo in città in cui la sua
figlia minore cantava nella parte della protagonista.
Il papà non mi impedì di fare un provino per lo spettacolo successivo, né
per quello dopo, anche se era preoccupato che passassi così tanto tempo
lontano da casa. “Chissà che baldorie fanno in quel teatro,” disse. “Sarà un
covo di adulteri e fornicatori.”
Quando il regista dello spettacolo successivo divorziò, il papà vide
confermati i suoi sospetti. Disse che non mi aveva tenuto lontana dalla
scuola pubblica per tutti quegli anni perché mi facessi corrompere su un
palcoscenico. Poi mi accompagnò alle prove. Quasi ogni sera diceva che
avrebbe messo fine a quella cosa, che una sera si sarebbe presentato al
Worm Creek e mi avrebbe riportato a casa. Ma ogni volta che c’era la prima
di uno spettacolo lo vedevo seduto in prima fila.
Certe volte faceva la parte dell’agente o del manager, correggendomi la
tecnica o suggerendomi canzoni per il mio repertorio, dandomi perfino dei
consigli di salute. Quell’inverno presi una sfilza di mal di gola che
m’impedirono di cantare, e una sera il papà mi chiamò da lui e mi aprì la
bocca per guardarmi le tonsille.
“Okay, sono gonfie,” disse. “Grosse come albicocche.” Visto che la
mamma non riusciva a ridurre il gonfiore con l’echinacea e la calendula, il
papà propose il suo rimedio. “La gente non lo sa, ma il sole è la medicina
più potente che abbiamo. È per questo che la gente non prende il mal di
gola d’estate.” Annuì come per approvare il suo ragionamento, poi disse:
“Se avessi delle tonsille come le tue mi metterei fuori al sole ogni mattina e
lascerei penetrare i raggi per una mezz’ora. Si restringeranno in un
momento”. Lo chiamava “trattamento”.
Lo feci per un mese.
Era scomodo stare con la bocca aperta e la testa rovesciata all’indietro per
far entrare il sole. Non resistevo mai mezz’ora. Dopo dieci minuti mi faceva
male la mandibola e mi sembrava di congelare a forza di stare là in piedi
ferma nell’inverno dell’Idaho. Continuavo ad ammalarmi alla gola e ogni
volta che il papà mi sentiva un po’ rauca diceva: “Be’, che ti credi? Non ti
ho visto fare il trattamento tutta la settimana!”.
Fu al Worm Creek Opera House che lo vidi per la prima volta: un
ragazzino che non conoscevo, che rideva insieme a un gruppo di amici della
scuola pubblica. Aveva delle grosse scarpe bianche, pantaloncini kaki e un
grande sorriso sul volto. Non recitava con noi, ma non c’era molto da fare
in città e quella settimana lo vidi venire più volte a trovare i suoi amici. Poi
una sera, mentre vagavo da sola nell’oscurità dietro le quinte, girai l’angolo
e lo trovai seduto sulla cassa di legno dove avevo l’abitudine di sedermi
anch’io. La cassa era appartata: per questo mi piaceva.
Si spostò sulla destra per farmi spazio. Mi sedetti lentamente,
nervosamente, come se la cassa fosse fatta di aghi.
“Io sono Charles,” disse. Aspettava che gli dicessi il mio nome, ma non lo
feci. “Ti ho vista nell’ultimo spettacolo,” disse un momento dopo. “Volevo
dirti una cosa.” Mi tenni forte, non so bene perché, poi disse: “Volevo dirti
che non ho mai sentito nessuno cantare così bene”.
Un pomeriggio, dopo aver finito di impacchettare noci di macadamia,
tornai a casa e trovai il papà e Richard alle prese con una grossa scatola di
metallo che avevano messo sul tavolo della cucina. Mentre io e la mamma
cucinavamo il polpettone, montarono il contenuto. Ci misero più di un’ora e
una volta finito indietreggiarono, rivelando quello che sembrava un enorme
telescopio verde militare, il lungo cilindro sorretto da un tozzo treppiede.
Richard era così eccitato che saltellava da un piede all’altro, declamandone
le doti. “Ha un raggio di oltre un chilometro e mezzo! Può abbattere un
elicottero!”
Il papà rimase in piedi in silenzio. Gli brillavano gli occhi.
“Cos’è?”
“È un fucile calibro cinquanta,” disse. “Vuoi provarlo?”
Guardai nel mirino, cercando il versante della montagna e fissando i
lontani gambi di frumento attraverso il reticolo di puntamento.
Lasciammo perdere il polpettone e corremmo fuori. Il sole era già
tramontato e l’orizzonte era buio. Guardai il papà abbassarsi sul terreno
ghiacciato, accostare l’occhio al mirino e, dopo quella che sembrò un’ora,
premere il grilletto. L’esplosione fu fragorosa. Mi ero tappata le orecchie
coi palmi delle mani, ma dopo il boato iniziale li tolsi e ascoltai lo sparo
riecheggiare per i burroni. Il papà sparò di nuovo, più volte, tanto che
quando rientrammo in casa mi ronzavano le orecchie. Riuscii a malapena a
sentire la risposta quando gli chiesi a cosa serviva il fucile.
“Per difesa,” disse.
La sera dopo avevo le prove al Worm Creek. Ero appollaiata sulla mia
cassa ad ascoltare il monologo in atto sul palco, quando arrivò Charles e mi
si sedette accanto.
“Non vai a scuola,” disse.
Non era una domanda.
“Dovresti venire al coro. Ti piacerebbe il coro.”
“Può darsi,” dissi, e lui sorrise. Alcuni dei suoi amici vennero a chiamarlo
dietro le quinte. Charles si alzò e mi salutò, poi lo guardai andare con loro e
scherzare in maniera disinvolta, e m’immaginai una realtà parallela in cui
ero una di loro. M’immaginai Charles che mi invitava a casa sua a giocare o
a guardare un film, e la cosa mi riempì di gioia. Ma quando m’immaginai
Charles che veniva a Buck Peak provai qualcos’altro, qualcosa di simile al
panico. E se trovava il deposito sotterraneo? Se scopriva il serbatoio di
benzina? Allora, finalmente, capii a cosa serviva il fucile. Quel grosso
cilindro, col suo raggio speciale che poteva arrivare dalla montagna fino
alla valle, era un perimetro difensivo per la casa, per le nostre provviste,
perché il papà diceva che saremmo andati in macchina mentre tutti gli altri
se la davano a gambe. Avremmo anche avuto da mangiare mentre tutti gli
altri facevano la fame e saccheggiavano in giro. M’immaginai di nuovo
Charles che saliva per la collina verso casa nostra. Ma nella mia fantasia ero
sulla cresta e lo guardavo avvicinarsi attraverso il mirino.
Il Natale fu modesto, quell’anno. Non eravamo poveri – l’attività della
mamma andava bene e il papà continuava a lavorare coi rottami –, ma
avevamo speso tutto in provviste.
Prima di Natale continuammo con i preparativi come se ogni gesto, ogni
piccola aggiunta alle nostre scorte fosse fondamentale per la sopravvivenza.
Dopo Natale, aspettammo. “Al momento del bisogno,” disse il papà, “non
ci sarà più tempo per prepararsi.”
I giorni passarono lentamente, poi arrivò il 31 dicembre. A colazione il
papà era calmo, ma sotto la sua tranquillità avvertivo una certa agitazione e
qualcosa di simile all’impazienza. Aveva aspettato così tanti anni
sotterrando fucili, accumulando cibo e mettendo in guardia gli altri. Tutti in
chiesa avevano letto le profezie; sapevano che sarebbero arrivati i Giorni
dell’Abominio. Eppure prendevano in giro il papà, ridevano di lui. Quella
sera avrebbero capito che aveva ragione.
Dopo cena il papà studiò Isaia per alcune ore. Verso le dieci chiuse la
Bibbia e accese la tv. Il televisore era nuovo. Il marito di zia Angie lavorava
per una compagnia televisiva satellitare e aveva proposto al papà un
abbonamento in offerta. Eravamo rimasti increduli quando il papà aveva
accettato, ma ripensandoci era tipico di mio padre passare nell’arco di un
giorno da niente tv o radio a trasmissioni via cavo in piena regola. A volte
mi chiedevo se il papà ci avesse concesso un televisore proprio quell’anno
solo perché sapeva che tutto sarebbe scomparso il 1° gennaio. Forse lo fece
per darci un piccolo assaggio del mondo prima che venisse spazzato via.
Il suo programma preferito era The Honeymooners e quella sera c’era uno
speciale che trasmetteva episodi non-stop. Guardammo, aspettando la Fine.
Controllai l’orologio più volte tra le dieci e le undici, e più volte ancora da
lì a mezzanotte. Anche il papà, che raramente si agitava per qualcosa,
guardò spesso l’orologio.
11:59
Trattenni il fiato. Ancora un minuto, pensai, e finirà tutto.
Poi arrivò mezzanotte. La tv mandava ancora il suo brusio e le sue luci
danzavano sulla moquette. Forse il nostro orologio era avanti. Andai in
cucina e aprii il rubinetto. L’acqua c’era. Il papà rimase immobile, gli occhi
fissi sullo schermo. Tornai sul divano.
12:05
Quando sarebbe saltata la corrente? C’era una scorta da qualche parte che
la faceva funzionare ancora qualche minuto?
Gli spettri in bianco e nero di Ralph e Alice Kramden discutevano per un
polpettone.
12:10
Aspettavo che lo schermo sfarfallasse e si spegnesse. Stavo cercando di
assimilare ogni cosa, quell’ultimo, lussuoso momento – l’intensa luce
gialla, l’aria calda che usciva dalla stufa. Provavo un senso di nostalgia per
la vita che avevo avuto finora e che avrei perso da un momento all’altro,
quando il mondo si sarebbe rovesciato e avrebbe cominciato a distruggersi.
Più restavo seduta immobile, respirando profondamente per assaporare
l’ultimo aroma di quel mondo perduto, più ero infastidita dalla sua
permanenza. La nostalgia si trasformò in stanchezza.
A un certo punto, dopo l’1:30, me ne andai a letto. Mentre mi allontanavo
lanciai un’occhiata al papà, al suo volto immobile nel buio, con la luce della
tv riflessa sugli occhiali squadrati. Sembrava in posa, per niente agitato o a
disagio, come se fosse la cosa più normale del mondo stare sveglio da solo
fin quasi alle due di notte a guardare Ralph e Alice Kramden che si
preparavano per una cena di Natale.
Sembrava fosse diventato più piccolo rispetto a quella mattina. La
delusione sul suo volto era così infantile che per un momento mi chiesi
come poteva Dio negargli una cosa del genere. Lui, un servitore fedele, che
soffriva volontariamente proprio come Noè aveva sofferto per costruire
l’arca.
Ma Dio gli negava il diluvio.
10.
Scudo di piume
Dopo quella volta parlai poco con Shannon e Mary e anche loro mi
rivolgevano la parola raramente, se non per ricordarmi di sbrigare la mia
parte di lavori domestici, che non facevo mai. Per me l’appartamento
andava bene così. Che importava se c’erano delle pesche mezze marce in
frigo o dei piatti sporchi nel lavandino? Qual era il problema se sentivi
puzza quando entravi? Per come la vedevo io, se il tanfo era sopportabile la
casa era pulita. Applicavo quella filosofia anche alla mia persona. Usavo il
sapone solo quando mi facevo la doccia, di solito una o due volte alla
settimana, e certe volte neanche in quei casi. Quando uscivo dal bagno, di
mattina, passavo accanto al lavandino dove Shannon e Mary si lavavano
sempre – sempre – le mani. Le vedevo storcere il naso e pensavo alla nonna
in città. Che frivole, mi dicevo. Mica mi piscio sulle mani.
L’atmosfera nell’appartamento era tesa. Shannon mi guardava come se
fossi un cane rabbioso e io non facevo nulla per rassicurarla.
Il mio conto in banca calava a vista d’occhio. All’inizio temevo di non
superare gli esami ma a distanza di un mese, dopo aver pagato le rette,
l’affitto, i libri e il cibo, cominciai a pensare che anche se li superavo non
avrei continuato a studiare per un ovvio motivo: non potevo permettermelo.
Cercai in rete i requisiti per una borsa di studio. Per un rimborso totale delle
tasse universitarie bisognava avere una media altissima.
Anche se era passato solo un mese, sapevo che una borsa di studio era
fuori discussione. Storia americana stava diventando più facile, ma solo nel
senso che non sbagliavo più i test completamente. In musica andavo bene,
ma facevo fatica in inglese. L’insegnante diceva che ero portata per la
scrittura ma avevo una lingua un po’ troppo formale e artefatta. Non le dissi
che avevo imparato a leggere e a scrivere solo con la Bibbia, il Libro di
Mormon e i discorsi di Joseph Smith e Brigham Young.
Il vero problema, però, era civiltà occidentale. Le lezioni mi sembravano
incomprensibili, probabilmente perché per quasi tutto gennaio pensai che
l’Europa fosse uno stato e non un continente, quindi quello che diceva il
professore non aveva molto senso per me. E dopo l’incidente
dell’Olocausto non avevo certo intenzione di chiedere spiegazioni.
Eppure era il mio corso preferito, per via di Vanessa. Ci sedevamo sempre
vicine. Mi piaceva perché sembrava una mormona del mio stesso tipo:
indossava vestiti larghi con il collo alto, e mi aveva detto che non beveva
mai Coca-Cola né faceva i compiti di domenica. Era l’unica persona che
avevo conosciuto all’università che non sembrava un’infedele.
A febbraio il professore annunciò che anziché un esame unico a metà
semestre avremmo fatto degli esami mensili, il primo dei quali la settimana
seguente. Non sapevo come prepararmi. Non avevamo un vero e proprio
libro di testo, solo il libro illustrato con i dipinti e alcuni cd di musica
classica. Ascoltai la musica mentre sfogliavo i dipinti. Cercai in qualche
modo di memorizzare chi aveva dipinto o composto cosa, ma non come si
scrivevano quei nomi. L’unico esame che avevo fatto era quello di
ammissione e, poiché era a scelta multipla, davo per scontato che anche gli
altri sarebbero stati così.
La mattina della prova il professore ci disse di tirare fuori i quaderni
d’esame. Non ebbi nemmeno il tempo di chiedermi cosa fosse un quaderno
d’esame che tutti ne avevano tirato fuori uno dallo zaino. Fu un movimento
fluido, sincronizzato, come se si fossero esercitati. Sembravo l’unica
ballerina sul palco a non aver fatto le prove. Chiesi a Vanessa se ne aveva
uno in più, e me lo diede. Aprii il quaderno aspettandomi un esame a scelta
multipla, ma le pagine erano bianche.
Furono chiusi gli scuri. Il proiettore si accese, mostrando un dipinto.
Avevamo sessanta secondi per scrivere il titolo dell’opera e il nome
completo dell’artista. La mia mente produceva solo un ronzio sordo.
Continuò così per diverse domande: rimasi seduta immobile come una
statua, senza dare nessuna risposta.
Sullo schermo comparve un Caravaggio, Giuditta e Oloferne. Fissai
l’immagine, in cui una ragazzina avvicinava con calma una spada verso di
sé mentre passava la lama attraverso il collo di un uomo come un filo
attraverso il formaggio. Avevo decapitato dei polli insieme al papà, tenendo
ferme le zampe crostose mentre lui alzava la mannaia e l’abbassava con un
forte zac!, poi stringendo la presa con tutta me stessa mentre il pollo si
contorceva agonizzante, spargendo piume dappertutto e macchiandomi i
jeans di sangue. Pensando ai polli, mi chiesi quanto fosse plausibile la scena
del Caravaggio: nessuno poteva avere quell’espressione sul volto, quell’aria
tranquilla e disinteressata mentre mozzava una testa.
Sapevo che il dipinto era del Caravaggio ma ricordavo solo il cognome e
in ogni caso non sapevo come si scriveva. Ero sicura che il titolo era
Giuditta e qualcosa, ma non mi sarebbe venuto in mente Oloferne
nemmeno se il collo passato a fil di lama fosse stato il mio.
Mancavano trenta secondi. Forse potevo racimolare qualche punto se
scrivevo qualcosa, qualsiasi cosa, così scandii il nome foneticamente:
“Carevajio”. Non sembrava giusto. Mi sembrava di ricordare che c’era una
lettera doppia, così cancellai quel nome e scrissi “Carrevagio”. Sbagliato
anche questo. Feci altri tentativi, ciascuno peggiore dei precedenti. Venti
secondi.
Accanto a me, Vanessa continuava a scrivere. Ovvio. Il suo posto era qui.
La sua calligrafia era chiara e riuscii a leggere sul suo foglio: Michelangelo
Merisi da Caravaggio. E accanto, in uno stampatello altrettanto ordinato:
Giuditta e Oloferne. Dieci secondi. Copiai le parole tralasciando il nome
completo del Caravaggio perché, in un discutibile slancio di onestà, decisi
che quello significava barare. Il proiettore passò alla diapositiva seguente.
Sbirciai il foglio di Vanessa altre volte durante l’esame, ma non servì.
Non potevo copiare i suoi elaborati e mi mancavano le conoscenze fattuali e
stilistiche per comporne di miei. Senza capacità o conoscenze, immagino di
aver scribacchiato tutto quello che mi veniva in mente. Non ricordo se ci fu
chiesto di dare un giudizio su Giuditta e Oloferne, ma in quel caso avrei
espresso senz’altro quel che pensavo, ovvero che la calma sul volto della
ragazza non corrispondeva alla mia esperienza con i polli. Messa con le
parole giuste poteva essere una risposta fantastica, qualcosa sulla serenità
della donna come potente contrappunto al generale realismo della scena.
Ma dubito che il professore abbia apprezzato la mia osservazione: “Quando
tagli la testa a un pollo, è meglio se non sorridi perché potrebbero finirti
sangue e piume in bocca”.
L’esame finì. Furono aperti gli scuri. Uscii dall’aula e restai in piedi nel
freddo invernale a fissare le cime delle Wasatch Mountains. Volevo restare.
Le montagne erano ancora poco famigliari e minacciose, ma io volevo
restare.
Aspettai i risultati per una settimana, durante la quale sognai due volte
Shawn. Lo trovavo morto sull’asfalto, lo giravo e vedevo il suo volto tinto
di sangue cremisi. Sospesa tra la paura del passato e la paura del futuro,
scrissi il sogno sul mio diario. Poi senza motivo, come se il collegamento
tra le due cose fosse ovvio, scrissi: Non so perché non mi abbiano fatto
studiare da bambina.
Ci comunicarono i risultati alcuni giorni dopo. Non avevo passato
l’esame.
Un inverno, quand’ero molto piccola, Luke trovò un grosso gufo cornuto
nei campi, privo di sensi e semicongelato. Era color fuliggine e ai miei
occhi di bambina sembrava grande quanto me. Luke lo portò in casa, dove
guardammo incantati il soffice piumaggio e gli artigli feroci. Ricordo che
gli accarezzai le piume rigate, così lisce da sembrare liquide, mentre mio
padre alzava il suo corpo flaccido. Sapevo che, se fosse stato cosciente, non
mi sarei mai potuta avvicinare così. Toccarlo significava violare le leggi
della natura.
Le piume erano inzuppate di sangue. Una spina gli aveva trafitto un’ala.
“Non sono un veterinario,” disse la mamma. “Io curo le persone.” Ma tolse
la spina e pulì la ferita. Il papà disse che l’ala ci avrebbe messo delle
settimane a guarire e che il gufo si sarebbe svegliato molto prima.
Trovandosi in trappola, circondato da predatori, sarebbe morto a furia di
sbattere da tutte le parti nel tentativo di scappare. Era un animale salvatico,
disse, e in natura una ferita del genere era fatale.
Sdraiammo il gufo sul linoleum vicino alla porta di dietro e, quando si
svegliò, dicemmo alla mamma di non entrare in cucina. La mamma disse
che mai e poi mai avrebbe consegnato la sua cucina a un gufo, quindi entrò
a grandi passi e cominciò a preparare la colazione facendo baccano con le
pentole. Il gufo si dimenava penosamente, artigliando la porta e sbattendo la
testa in preda al panico. Piangemmo, e la mamma cedette. Due ore dopo il
papà aveva sbarrato metà cucina con delle assi di compensato. Il gufo
rimase là in convalescenza per diverse settimane. Catturavamo dei topi per
nutrirlo, ma non sempre li mangiava e poi non potevamo portare via le
carcasse. L’odore di carogna era forte e nauseante, un pugno nello stomaco.
Il gufo si fece irrequieto. Quando cominciò a rifiutare il cibo, aprimmo la
porta di dietro e lo lasciammo andare. Non era guarito del tutto, ma il papà
disse che aveva più probabilità di sopravvivere in montagna che da noi.
Quella non era casa sua. Non lo sarebbe mai stata.
Volevo dire a qualcuno che non avevo passato l’esame, ma qualcosa
m’impediva di chiamare Tyler. Forse era vergogna. O forse era il fatto che
Tyler stava per diventare papà. Aveva conosciuto sua moglie Stefanie alla
Purdue e si erano sposati poco dopo. Lei non sapeva nulla della nostra
famiglia. Avevo la sensazione che Tyler preferisse quella nuova vita –
quella nuova famiglia – alla vecchia.
Telefonai a casa. Rispose il papà. La mamma era andata a far nascere un
bambino, come faceva sempre più spesso ora che non soffriva più di
emicrania.
“Quando torna la mamma?” dissi.
“Non lo so,” rispose il papà. “Tanto vale che lo chiedi al Signore: è Lui
che decide.” Ridacchiò, poi mi chiese: “Come va a scuola?”.
Io e il papà non ci eravamo più parlati dopo la sfuriata per il
videoregistratore. Capivo che stava cercando di venirmi incontro, ma non
sarei mai riuscita ad ammettere che non stavo passando gli esami. Volevo
far finta che andasse tutto bene. È facilissima, pensai di dire.
“Non molto bene,” risposi invece. “Non pensavo fosse così difficile.”
Ci fu un momento di silenzio e m’immaginai il volto severo del papà che
s’induriva. Mi aspettavo un colpo basso, invece sentii una voce sommessa
che diceva: “Andrà meglio, tesoro”.
“No,” dissi. “Non c’è nessuna borsa di studio. Non passerò nemmeno il
semestre.” Mi tremava la voce.
“Pazienza per le borse di studio,” disse. “Forse posso darti una mano io.
Troveremo un modo. Ma su col morale, okay?”
“Okay.”
“Torna pure a casa se hai bisogno.”
Riagganciai. Avevo sentito bene? Sapevo che non sarebbe durata, che la
volta dopo sarebbe stato tutto diverso. La tenerezza di quel momento
sarebbe stata solo un ricordo e l’eterno conflitto tra di noi sarebbe riemerso.
Ma quella sera voleva aiutarmi. E non era poco.
A marzo ci fu un altro esame di civiltà occidentale. Questa volta preparai
delle schede didattiche. Passai ore a memorizzare nomi strani, molti dei
quali francesi (la Francia, avevo scoperto, faceva parte dell’Europa).
Jacques-Louis David e François Boucher: non sapevo come si
pronunciavano ma se non altro sapevo scriverli.
Gli appunti che avevo preso a lezione erano incomprensibili, così chiesi a
Vanessa se potevo usare i suoi. Mi guardò dubbiosa e per un momento
pensai che mi avesse sorpreso a copiare durante l’esame. Disse che non mi
avrebbe dato i suoi appunti ma che potevamo studiare insieme, così dopo la
lezione andai nella sua stanza. Ci sedemmo per terra con le gambe
incrociate e i quaderni aperti davanti.
Cercai di leggere i miei appunti ma le frasi erano incomplete,
indecifrabili. “Lascia stare gli appunti,” disse Vanessa. “È più importante il
manuale.”
“Che manuale?”
“Il manuale,” disse Vanessa. Rise come se stessi scherzando. Mi
innervosii perché non era così.
“Io non ho nessun manuale,” risposi.
“Ma certo!” Alzò il grosso libro illustrato che avevo usato per
memorizzare titoli e artisti.
“Ah, quello. Sì, l’ho guardato.”
“L’hai guardato? Non l’hai letto?”
La fissai. Non capivo. Era un corso di musica e arte. Ci avevano dato dei
cd di musica da ascoltare e un libro con delle foto di quadri da guardare.
Non avevo pensato di leggere quel libro più di quanto avessi pensato di
leggere i cd.
“Credevo che dovessimo solo guardare le figure.” Quella frase sembrò
stupida quando la dissi a voce alta.
“Perciò quando il programma diceva di studiare da pagina cinquanta a
pagina ottantacinque, non hai pensato che dovevi leggerle?”
“Ho guardato le figure,” ripetei. Sembrò anche peggio la seconda volta.
Vanessa cominciò a sfogliare il libro, che all’improvviso aveva tutta l’aria
di essere un manuale.
“Allora è questo il tuo problema,” disse. “Devi leggere il manuale.” Lo
disse in tono sarcastico, come se quell’errore madornale, dopo tutto il resto
– dopo la battuta sull’Olocausto e il test che avevo copiato – fosse troppo e
non ne volesse più sapere di me. Disse che me ne dovevo andare; doveva
studiare per un altro corso. Presi il mio quaderno e uscii.
“Leggi il manuale” si dimostrò un ottimo consiglio. All’esame dopo presi
una B e verso la fine del semestre stavo collezionando una A dopo l’altra.
Era un miracolo, non sapevo in quale altro modo spiegarmelo. Studiavo
fino alle due o alle tre di notte ogni giorno, pensando che fosse il prezzo da
pagare per guadagnarmi l’appoggio di Dio. Andavo bene in storia, meglio
in inglese e benissimo in teoria musicale. Una borsa di studio completa era
improbabile, ma forse potevo vincerne una che copriva metà delle tasse.
All’ultima lezione di civiltà occidentale il professore annunciò che il
primo esame era stato un tale disastro che aveva deciso di annullarlo. E puf!
Il mio voto negativo era scomparso. Avevo voglia di tirare pugni nell’aria,
di battere un cinque con Vanessa. Poi mi ricordai che non si sedeva più
vicino a me.
19.
In principio
Alla fine del semestre tornai a Buck Peak. Nel giro di qualche settimana
la Brigham avrebbe comunicato i risultati, e allora avrei saputo se potevo
tornare in autunno.
Continuavo a scrivere sui miei diari che non sarei tornata in discarica.
Avevo bisogno di soldi – il papà avrebbe detto che ero più al verde di un
bosco a primavera –, così cercai di tornare da Stokes. Mi presentai un
pomeriggio all’ora di punta, quando sapevo che sarebbero stati a corto di
personale, e infatti quando entrai trovai il direttore che imbustava la spesa ai
clienti. Gli chiesi se voleva lasciar fare a me e mi guardò per ben tre
secondi, poi si sfilò il grembiule dalla testa e me lo porse. La vicedirettrice
mi fece l’occhiolino: era stata lei a consigliarmi di venire a quell’ora. C’era
qualcosa in Stokes – nelle sue corsie dritte e pulite e nel personale gentile –
che mi dava un senso di calma e felicità. È una cosa strana da dire di un
supermercato, ma mi sentivo a casa.
Il papà mi stava aspettando quando entrai dalla porta sul retro. Vide il
grembiule e disse: “Quest’estate lavori per me”.
“Lavoro da Stokes,” risposi.
“Ti credi troppo in gamba per i rifiuti?” Aveva alzato la voce. “Questa è
la tua famiglia. Il tuo posto è qui.”
Aveva il volto tirato, gli occhi iniettati di sangue. Usciva da un inverno
terribile. In autunno aveva investito un sacco di soldi in attrezzature nuove
– una scavatrice, una piattaforma aerea e un carrello saldatore. Adesso era
primavera e non gli restava più nulla. Luke aveva accidentalmente dato
fuoco al carrello, riducendolo in cenere; la piattaforma era caduta da un
rimorchio perché qualcuno – non chiesi mai chi – non l’aveva fissata bene;
e la scavatrice era finita nel mucchio di rottami quando Shawn, dopo averla
caricata su un gigantesco rimorchio, aveva preso una curva troppo
velocemente, facendo ribaltare sia il camion che il rimorchio. Con una
fortuna del diavolo, Shawn era riuscito a strisciare fuori da quel disastro,
anche se aveva battuto la testa e non ricordava cosa era accaduto nei giorni
prima dell’incidente. Camion, rimorchio e scavatrice erano andati distrutti.
Il papà aveva la determinazione scolpita sul volto. Era nella sua voce,
nella sua asprezza. Doveva tirarsi fuori da quel punto morto. Si era convinto
che se facevo parte della sua squadra ci sarebbero stati meno incidenti,
meno contrattempi. “Sei più lenta della pece che scorre in salita,” mi aveva
detto un sacco di volte. “Ma almeno non sfasci nulla.”
Non potevo accettare, sarebbe stato come fare un passo indietro. Ero
tornata a casa, nella mia vecchia stanza, alla mia vecchia vita. Se
ricominciavo a lavorare per il papà, a svegliarmi ogni mattina, infilarmi gli
scarponi dalla punta d’acciaio e trascinarmi in discarica, sarebbe stato come
se gli ultimi quattro mesi non fossero mai esistiti, come se non me ne fossi
mai andata.
Mi chiusi in camera mia. La mamma venne a bussare un momento dopo.
Entrò senza fare rumore e si sedette così delicatamente che quasi non sentii
il suo peso sul letto. Credevo che avrebbe detto la stessa cosa dell’ultima
volta, quando le avevo ricordato che avevo solo diciassette anni e lei mi
aveva detto che potevo restare.
“Hai l’opportunità di aiutare tuo padre,” disse. “Ha bisogno di te. Non lo
ammetterà mai, ma è così. Sta a te decidere.” Rimase zitta un momento, poi
aggiunse: “Ma se non lo aiuterai, non potrai stare qui. Dovrai vivere da
qualche altra parte”.
La mattina dopo, alle quattro, andai da Stokes e feci un turno di dieci ore.
Era di primo pomeriggio e pioveva a dirotto quando tornai a casa e trovai i
miei vestiti sul prato davanti. Li portai in casa. La mamma stava
mescolando oli in cucina e non disse nulla quando le passai accanto con le
mie maglie e i jeans gocciolanti.
Mi sedetti sul letto mentre l’acqua impregnava la moquette. Avevo
portato un telefono con me. Lo fissai, non sapendo bene che fare. Non
avevo nessuno da chiamare. Non avevo nessun posto dove andare e nessuno
da chiamare.
Feci il numero di Tyler nell’Indiana. “Non voglio lavorare in discarica,”
dissi quando rispose. La mia voce era rauca.
“Cos’è successo?” Sembrava preoccupato; pensava ci fosse stato un altro
incidente. “Stanno tutti bene?”
“Sì,” dissi. “Ma il papà dice che se voglio stare qui devo lavorare in
discarica, e non posso più farlo.” Avevo un tono acuto, innaturale. Mi
tremava la voce.
“Cosa vuoi che faccia?” disse Tyler.
Se ci ripenso adesso capisco che diceva sul serio, che mi stava chiedendo
come poteva aiutarmi, ma lì per lì le mie orecchie, solitarie e diffidenti,
sentirono qualcos’altro: Cosa ti aspetti che faccia? Cominciai a tremare. Mi
girava la testa. Tyler era stata la mia àncora di salvezza. Per anni l’avevo
visto come un’ultima spiaggia, come una leva d’emergenza che potevo
tirare se mi trovavo con le spalle al muro. Ma ora che l’avevo tirata capivo
che era inutile. In fondo non serviva a niente.
“Cos’è successo?” chiese di nuovo.
“Niente. Va tutto bene.”
Riagganciai e chiamai Stokes. Rispose la vicedirettrice. “Basta lavoro per
oggi?” disse allegramente. Le dissi che mi licenziavo, che mi dispiaceva,
poi misi giù il telefono. Aprii l’armadio e li trovai là, dove li avevo lasciati
quattro mesi prima: i miei scarponi da rottamatrice. Me li infilai. Era come
se non me li fossi mai tolti.
Il papà stava alzando un mucchio di lamiere col muletto. Bisognava
mettere dei ceppi di legno sul rimorchio per permettergli di vuotare il
carico. Come mi vide, abbassò le lamiere per farmi salire, e lo accompagnai
a portare il carico verso il rimorchio.
I miei ricordi dell’università sbiadirono in fretta. Il grattare delle matite
sulla carta, il clac del proiettore che scattava alla diapositiva successiva, il
trillo della campanella che indicava la fine della lezione – tutto fu soffocato
dal fracasso del ferro e dal ruggire dei motori diesel. Dopo un mese in
discarica la Brigham sembrava un sogno, un’illusione. Adesso ero sveglia.
Le mie giornate ripresero la stessa routine di un tempo: dopo colazione
smistavo i rottami o staccavo il rame dai termosifoni. Se i ragazzi erano in
cantiere, a volte andavo a guidare la ruspa, il muletto o la gru. A pranzo
aiutavo la mamma a cucinare e a lavare i piatti, poi tornavo alla discarica o
al muletto.
L’unica cosa che era cambiata era Shawn. Non era come me lo ricordavo.
Non diceva mai una parola offensiva, sembrava in pace con se stesso. Stava
studiando per prendere l’attestato di diploma equivalente e una sera, mentre
tornavamo in macchina da un lavoro, mi disse che avrebbe provato un
semestre a un college locale. Voleva studiare legge.
Quell’estate davano uno spettacolo al Worm Creek Opera House e io e
Shawn comprammo dei biglietti. Vidi che c’era anche Charles, seduto
alcune file più avanti. Durante un intervallo, mentre Shawn era andato a
chiacchierare con una ragazza, mi si avvicinò. Per la prima volta riuscii a
non fare scena muta. Pensai a Shannon e a come parlava con la gente in
chiesa, allegra e amichevole, al modo in cui rideva e sorrideva. Fai come
Shannon, pensai. E per cinque minuti lo feci.
Charles mi guardava in modo strano, come avevo visto gli uomini
guardare Shannon. Mi chiese se sabato volevo vedere un film insieme a lui.
Il film che proponeva era volgare, pacchiano, non avrei mai voluto vederlo,
ma in quel momento ero Shannon e così dissi che mi sarebbe piaciuto
moltissimo.
Sabato sera cercai di fare come Shannon. Il film era terribile, peggio di
quel che pensavo, il tipo di film che solo un infedele avrebbe guardato. Ma
facevo fatica a vedere Charles come un infedele. Charles era solo Charles.
Pensai di dirgli che era un film immorale, che non doveva guardare certe
cose, ma – sempre per fare come Shannon – non dissi nulla e sorrisi quando
mi chiese se mi andava un gelato.
Shawn era l’unico ancora sveglio quando tornai a casa. Entrai col sorriso
sulle labbra. Shawn mi prese un po’ in giro dicendo che avevo un fidanzato,
e lo disse scherzosamente, per farmi ridere. Disse che Charles aveva buon
gusto, che ero la persona più perbene che conosceva, poi andò a letto.
Una volta in camera mi guardai a lungo allo specchio. La prima cosa che
notai furono i miei jeans da uomo, così diversi dai jeans che indossavano le
altre ragazze. La seconda fu che la mia camicia era troppo larga e mi faceva
sembrare più robusta di quant’ero in realtà.
Charles chiamò alcuni giorni dopo. Ero in camera mia dopo una giornata
passata a costruire un tetto. Puzzavo di acquaragia ed ero ricoperta di
polvere color cenere, ma lui non poteva saperlo. Parlammo per due ore.
Chiamò la sera dopo, e quella dopo ancora. Mi propose di andare a
mangiare un hamburger venerdì.
Giovedì, dopo aver finito di lavorare in discarica, guidai per
sessantacinque chilometri fino al Walmart più vicino e mi comprai un paio
di jeans da donna e due camicie azzurre. Quando me li provai e vidi come il
mio corpo si stringeva e si curvava, quasi non mi riconobbi. Me li tolsi
subito, trovandoli in qualche modo indecenti. Non lo erano, almeno non
tecnicamente, ma il fatto che volessi mettere in mostra il mio corpo era
indecente a prescindere dai vestiti.
Il pomeriggio dopo, finito il lavoro, corsi a casa. Mi feci una doccia per
togliere ogni traccia di sporco, sdraiai i vestiti nuovi sul letto e li guardai.
Diversi minuti dopo, li indossai e rimasi di nuovo a bocca aperta. Non c’era
tempo per cambiarsi, così m’infilai un giubbino anche se faceva caldo e a
un certo punto, anche se non so dire quando o perché, decisi che in fondo
non mi serviva il giubbino. Per il resto della serata non dovetti ricordarmi di
fare come Shannon. Parlai e risi con naturalezza.
Quella settimana io e Charles ci vedemmo tutte le sere. Andammo in
parchi pubblici e gelaterie, fast food e stazioni di rifornimento. Lo portai da
Stokes perché era un posto che adoravo e perché la vicedirettrice mi dava
sempre i bomboloni invenduti dal reparto panetteria. Parlammo di musica –
di gruppi che non avevo mai sentito e del suo sogno di diventare musicista e
girare il mondo. Non parlammo mai di noi, se eravamo amici o
qualcos’altro. Avrei voluto che tirasse fuori l’argomento, ma non lo fece.
Avrei voluto che me lo facesse capire in qualche modo – prendendomi
delicatamente la mano o mettendomi un braccio sulle spalle –, ma non fece
nemmeno quello.
Venerdì restammo in giro fino a tardi e al mio ritorno la casa era buia. Il
computer della mamma era acceso e lo screensaver spargeva una luce verde
per la sala. Mi sedetti e controllai meccanicamente il sito internet della
Brigham. Erano usciti i risultati. Avevo passato gli esami. Non solo: avevo
preso il massimo dei voti in ogni materia tranne civiltà occidentale. Avevo
diritto a una borsa di studio per metà delle tasse. Potevo tornare.
Io e Charles passammo il pomeriggio seguente al parco a dondolarci
pigramente sulle altalene fatte con gli pneumatici. Gli dissi della borsa di
studio. Avrei voluto vantarmi, ma per qualche motivo vennero a galla le mie
paure. Dissi che non dovevo nemmeno essere al college, che prima avrei
dovuto finire le superiori. O quantomeno cominciarle.
Charles rimase seduto in silenzio e non disse nulla per diverso tempo. Poi
disse: “Sei arrabbiata perché i tuoi genitori non ti hanno mandato a
scuola?”.
“È stato un vantaggio!” dissi quasi gridando. Fu una risposta istintiva. Fu
come sentire una frase di una canzone orecchiabile: non potei fare a meno
di recitare la frase successiva. Charles mi guardò scetticamente, come per
chiedermi cosa c’entrava con quello che avevo detto un momento prima.
“Be’, io sono arrabbiato,” disse. “Anche se tu non lo sei.”
Rimasi zitta. Non avevo mai sentito nessuno criticare mio padre a parte
Shawn e non sapevo come rispondere. Volevo dire a Charles degli
Illuminati, ma quelle parole appartenevano a mio padre e anche solo a
pensarci sembravano goffe, innaturali. Mi vergognai di non saperle
padroneggiare. Ero convinta – e una parte di me lo sarebbe sempre stata –
che le parole di mio padre dovessero essere le mie.
Ogni sera, per un mese, quando tornavo dalla discarica passavo un’ora a
togliermi lo sporco da sotto le unghie e dalle orecchie. Mi spazzolavo i
grovigli di capelli e mi truccavo goffamente. Mi spalmavo manciate di
crema sui polpastrelli per ammorbidire i calli, pensando che forse quella
sera Charles mi avrebbe toccato le mani.
Quando finalmente lo fece, era sera presto ed eravamo nella sua jeep.
Stavamo andando a casa sua a guardare un film. Avevamo quasi affiancato
il Fivemile Creek, quando allungò una mano sul cambio e l’appoggiò sulla
mia. La sua mano era calda e avrei voluto toccarla, invece sobbalzai come
se mi fossi scottata. Fu una reazione involontaria e sperai subito che la
riappoggiasse. Ma successe di nuovo quando ci riprovò. Il mio corpo scattò,
ubbidendo a un istinto strano e potente.
Quest’istinto mi attraversò sotto forma di una parola, di un testo
sfacciato, forte, assertivo. Non era una parola nuova. Mi accompagnava da
un po’, silenziosa, immobile, come addormentata in un angolo remoto della
mia memoria. Toccandomi, Charles l’aveva risvegliata e ora pulsava di vita.
Infilai le mani sotto le ginocchia e mi appoggiai al finestrino. Non potevo
lasciarlo avvicinare – non quella sera, né nessun’altra sera per mesi – senza
che quella parola, la mia parola, riaffiorasse dai ricordi. Puttana.
Arrivammo a casa sua. Charles accese la tv e ci mettemmo sul divano. Mi
piegai leggermente di lato. Le luci si abbassarono, partirono i titoli di testa.
Charles si spostò verso di me, lentamente all’inizio, poi con più sicurezza,
fino a sfiorarmi con una gamba. Nella mia mente partii a razzo, corsi mille
chilometri in un battito di ciglia. Nella realtà sussultai e basta. Anche
Charles sussultò: l’avevo spaventato. Mi riposizionai, spostando il corpo sul
bracciolo del divano, chiudendomi a riccio e allontanandomi da lui. Tenni
quella posa innaturale per una ventina di secondi, finché Charles capì, sentì
le parole che non riuscivo a dire e si sedette sul pavimento.
20.
Racconti dei padri
Il papà mi pagò il giorno prima di tornare alla Brigham. Non poté darmi
quello che aveva promesso, ma i soldi sarebbero bastati a coprire la mia
metà delle tasse universitarie. Trascorsi il mio ultimo giorno nell’Idaho
insieme a Charles. Era domenica, ma non andai in chiesa. Avevo mal
d’orecchi da due giorni e durante la notte il dolore era aumentato
diventando una fitta costante e pungente. Avevo la febbre. Non ci vedevo
bene e i miei occhi erano sensibili alla luce. Fu allora che mi chiamò
Charles. Avevo voglia di andare da lui? Dissi che non riuscivo a guidare.
Mi venne a prendere un quarto d’ora dopo.
Mi coprii le orecchie con le mani e sprofondai sul sedile, poi mi tolsi il
giubbino e me lo misi sulla testa per schermare la luce. Charles mi chiese
che medicine avevo preso.
“Lobelia,” dissi. “E scutellaria.”
“Non credo che funzionino.”
“Invece sì. Ci mettono qualche giorno.”
Inarcò le sopracciglia ma non disse nulla.
La casa di Charles era ordinata e spaziosa, con grandi finestre luminose e
pavimenti scintillanti. Mi ricordava la casa della nonna in città. Mi sedetti
su uno sgabello e premetti la fronte sul bancone freddo. Sentii il cigolio di
un armadietto che si apriva e il pop di un coperchio di plastica. Quando
aprii gli occhi, davanti a me c’erano due pastiglie rosse.
“Questo è quello che prendono tutti quando hanno male da qualche
parte,” disse Charles.
“Noi no.”
“Noi chi?” disse Charles. “Parti domani. Non sei più una di loro.”
Chiusi gli occhi, sperando che la smettesse.
“Cosa credi che ti succeda se prendi le pastiglie?” disse.
Non risposi. Non sapevo cosa sarebbe successo. La mamma diceva
sempre che i medicinali erano un tipo particolare di veleno che ti restava nel
corpo e ti faceva marcire lentamente dall’interno per il resto dei tuoi giorni.
Diceva che se prendevo una medicina adesso, anche a distanza di dieci anni
i miei figli avrebbero avuto delle deformazioni.
“Tutti prendono le medicine per il dolore,” disse Charles. “È normale.”
Credo che feci una smorfia alla parola “normale”, perché si azzittì.
Riempì un bicchiere d’acqua e me lo mise davanti, poi spinse delicatamente
le pastiglie verso di me finché mi toccarono il braccio. Ne alzai una. Non
avevo mai visto una pastiglia da vicino. Era più piccola di quel che
pensavo.
La buttai giù. Prima una e poi l’altra.
Da quel che ricordavo, ogni volta che avevo male da qualche parte, per un
taglio piuttosto che per un mal di denti, la mamma preparava una tintura di
lobelia e scutellaria. Non aveva mai fatto passare il dolore, nemmeno un
po’. Per questo motivo avevo imparato a rispettare il dolore, al punto da
considerarlo necessario e intoccabile.
Venti minuti dopo aver buttato giù le pastiglie rosse, il mal d’orecchi era
sparito. Non capivo come fosse possibile. Passai il pomeriggio a dondolare
la testa da una parte all’altra nel tentativo di richiamare il dolore. Pensavo
che forse, se gridavo abbastanza forte o mi muovevo abbastanza veloce, il
mal d’orecchi sarebbe tornato e avrei capito che in fondo la medicina era
stata una truffa.
Charles mi guardava in silenzio ma dovette trovare assurdo il mio
comportamento, specialmente quando cominciai a tirarmi l’orecchio, che
mi doleva ancora debolmente, per testare i limiti di quella stregoneria.
La mamma doveva accompagnarmi alla Brigham la mattina dopo, ma
durante la notte la chiamarono per un parto. C’era una macchina nel vialetto
– una Kia Sephia che il papà aveva comprato da Tony alcune settimane
prima. Le chiavi erano nel cruscotto. Ci caricai sopra le mie cose e partii
per lo Utah, calcolando che la macchina avrebbe a malapena ripagato i soldi
che mi doveva il papà. Credo che lo capì anche lui perché non tirò mai fuori
l’argomento.
Mi trasferii in un appartamento a circa ottocento metri dall’università.
Avevo delle nuove coinquiline. Robin era alta e atletica, e la prima volta
che la vidi indossava un paio di pantaloncini da corsa decisamente troppo
corti, ma non la guardai a bocca aperta. Jenni stava bevendo una Diet Coke
quando la conobbi. Non fissai nemmeno lei, perché avevo visto spesso
Charles bere quelle bibite.
Robin era la più grande e per qualche motivo era protettiva nei miei
confronti. Sembrava capire che se facevo dei passi falsi era per ignoranza e
non perché lo volessi, e mi correggeva garbatamente ma con fermezza. Mi
disse apertamente cosa dovevo fare o non fare per andare d’accordo con le
altre ragazze dell’appartamento. Niente cibo andato a male negli armadietti
o piatti sporchi nel lavandino.
Mi spiegò queste cose durante una riunione di casa. Quando finì, un’altra
coinquilina, Megan, si schiarì la gola.
“Vorrei ricordare a tutte di lavarsi le mani dopo aver usato il bagno,”
disse. “E non solo con l’acqua, ma col sapone.”
Robin alzò gli occhi al cielo. “Sono sicura che qui tutte si lavano le
mani.”
Quella sera, quando uscii dal bagno, mi fermai al lavandino e mi lavai le
mani. Col sapone.
Le lezioni cominciavano il giorno dopo. Charles aveva compilato il mio
piano di studi. Mi aveva iscritto a due corsi di musica e uno di religione, nei
quali secondo lui non avrei avuto problemi. Poi mi aveva iscritto a due corsi
più impegnativi – algebra, che mi terrorizzava, e biologia, che non mi
terrorizzava ma solo perché non sapevo cos’era.
Algebra rischiò di mandare a monte la mia borsa di studio. Il professore
mormorava in maniera impercettibile durante le lezioni, andando su e giù
davanti alla lavagna. Non ero l’unica a sentirsi smarrita, ma lo ero più degli
altri. Charles provò ad aiutarmi, ma stava cominciando il suo ultimo anno
alle superiori e aveva il suo bel daffare in classe. In ottobre ci fu l’esame di
metà semestre e non lo passai.
Smisi di dormire. Restavo sveglia fino a tardi a torcermi i capelli e a
scervellarmi sul libro di testo, poi andavo a letto e rimuginavo sui miei
appunti. Mi vennero delle ulcere allo stomaco. Una volta Jenni mi trovò
raggomitolata sul prato di qualcuno, a metà strada tra il campus e il nostro
appartamento. Avevo lo stomaco in fiamme e tremavo dal dolore, ma non le
permisi di portarmi in ospedale. Rimase seduta mezz’ora insieme a me, poi
mi accompagnò pian piano a casa.
I dolori allo stomaco peggiorarono, facendosi brucianti di notte e
impedendomi di dormire. Mi servivano i soldi per l’affitto, così trovai
lavoro come custode del dipartimento di ingegneria. Il mio turno
cominciava ogni mattina alle quattro. Tra le ulcere e il lavoro come custode,
praticamente non chiudevo occhio. Jenni e Robin continuavano a ripetermi
che dovevo andare da un dottore, ma non lo feci. Dissi che sarei tornata a
casa per il giorno del Ringraziamento e che mi avrebbe curato mia madre.
Si scambiarono delle occhiate nervose ma rimasero zitte.
Secondo Charles avevo un comportamento autodistruttivo, una difficoltà
quasi patologica a chiedere aiuto. Stavamo parlando al telefono e me lo
disse con una voce così bassa che sembrava un sussurro.
Gli dissi che era matto.
“Allora vai a parlare col tuo docente di algebra,” disse. “Stai andando
male. Chiedi aiuto.”
Non mi era mai venuto in mente di parlare con un docente, non sapevo
che potessimo farlo, così decisi di provare, anche solo per dimostrare a
Charles che ne ero capace.
Bussai alla porta del suo ufficio poco prima del giorno del
Ringraziamento. Sembrava più basso in quell’ufficio rispetto a quand’era
nell’aula magna, e più luminoso: la luce sulla scrivania gli si rifletteva sulla
testa e sugli occhiali. Stava sfogliando certe carte e non alzò lo sguardo
quando mi sedetti. “Se non passo questo corso,” dissi, “perderò la borsa di
studio.” Non spiegai che senza borsa di studio non avrei potuto tornare.
“Mi dispiace,” rispose, quasi senza guardarmi. “Ma questa è una scuola
difficile. Forse è meglio se torni quando sarai più grande. O se ti
trasferisci.”
Non capivo cosa intendesse con “trasferirsi”, così non dissi nulla. Feci
per andarmene e per qualche motivo questo lo addolcì. “A dire la verità,”
disse, “un sacco di studenti stanno andando male.” Si appoggiò allo
schienale della sedia. “Senti qua: l’esame finale verterà sull’intero corso.
Annuncerò in classe che chi prenderà il punteggio massimo a quest’esame –
non un novantotto, ma un cento – avrà una A, indipendentemente da com’è
andato l’esame di metà semestre. Può andare?”
Dissi di sì. Era un azzardo, ma ero la regina degli azzardi. Chiamai
Charles. Gli dissi che tornavo nell’Idaho per il giorno del Ringraziamento e
che mi serviva un insegnante di algebra. Disse che sarebbe venuto a
prendermi a Buck Peak.
22.
Sussurri e grida
Avevo mille dollari sul conto corrente. Era già strano pensarci,
figuriamoci dirlo. Mille dollari. Extra. Che non mi servivano
nell’immediato. Ci misi delle settimane ad accettarlo ma, quando lo feci,
cominciai a toccare con mano il più grande vantaggio dei soldi: la capacità
di non dover pensare ai soldi.
All’improvviso riuscivo a vedere i miei professori; era come se prima
della borsa di studio li avessi guardati attraverso delle lenti sfocate. I libri di
testo cominciarono a farsi comprensibili e mi ritrovai a studiare anche più
del dovuto.
Fu allora che sentii parlare per la prima volta di disturbo bipolare. Ero a
una lezione di Psicologia 101 quando il professore lesse i sintomi a voce
alta dallo schermo sulla parete: depressione, mania, paranoia, euforia,
illusioni di grandezza e di persecuzione. Ascoltai con un interesse disperato.
È mio padre, scrissi sui miei appunti. Sta parlando del papà.
Alcuni minuti prima della campanella, uno studente chiese che ruolo
potevano aver avuto le malattie mentali nei movimenti separatisti. “Penso a
scontri famosi come quello di Waco in Texas, o di Ruby Ridge nell’Idaho,”
disse.
L’Idaho non è famoso per molte cose, quindi pensai che dovevo aver
sentito parlare di questo “Ruby Ridge”. Lo studente aveva detto che era
stato uno scontro. Cercai di ricordare se avevo già sentito quelle parole.
Non mi erano del tutto nuove. Poi nella mia mente comparvero delle
immagini deboli e distorte, come se la trasmissione fosse stata interrotta
all’origine. Chiusi gli occhi e la scena si fece nitida. Ero in casa nostra,
accovacciata dietro gli armadietti di betulla. La mamma era inginocchiata
accanto a me, il respiro lento e stanco. Si leccò le labbra e disse che aveva
sete, poi prima che potessi fermarla si alzò in piedi e allungò una mano
verso il rubinetto. Sentii il fragore degli spari e la mia voce che gridava. Ci
fu un tonfo quando qualcosa di pesante cadde sul pavimento. Le scostai il
braccio e presi il bambino.
Suonò la campanella. L’auditorium si svuotò. Andai al laboratorio di
informatica. Esitai un momento davanti alla tastiera, sapendo che forse mi
sarei pentita di quelle informazioni, poi digitai “Ruby Ridge”. Secondo
Wikipedia, Ruby Ridge era stato il luogo di un assedio mortale tra Randy
Weaver e alcune agenzie federali, tra cui la U.S. Marshals Service e l’FBI.
Il nome di Randy Weaver mi era famigliare e, proprio mentre lo leggevo,
lo sentii uscire dalle labbra di mio padre. Poi la vicenda, che aveva popolato
la mia immaginazione per tredici anni, cominciò a riproiettarsi nella mia
mente: un bambino ammazzato, poi suo padre, poi sua madre. Lo Stato
aveva ucciso tutta la famiglia, genitori e bambini, per insabbiare quello che
aveva fatto.
Saltai i retroscena e lessi della prima sparatoria. Gli agenti federali
avevano circondato la casetta di Weaver. Era solo una missione di
sorveglianza e gli Weaver non si accorsero degli agenti finché un cane non
si mise ad abbaiare. Pensando che il cane avesse fiutato un animale
selvatico, il figlio quattordicenne di Randy, Sammy, corse nel bosco. Gli
agenti spararono al cane e Sammy, che aveva con sé un fucile, aprì il fuoco.
Il conflitto che seguì fece due morti: un agente federale e Sammy, che stava
risalendo di corsa la collina verso la casa quando fu colpito alla schiena.
Continuai a leggere. Il giorno dopo spararono a Randy Weaver, anche a
lui alle spalle, mentre cercava di andare a vedere il corpo di suo figlio. Il
cadavere era nella baracca e Randy stava alzando il chiavistello alla porta
quando un cecchino mirò alla sua colonna vertebrale e sbagliò il colpo. Sua
moglie Vicki venne verso la porta per aiutare il marito e il cecchino fece
fuoco di nuovo. Il proiettile la colpì alla testa, uccidendola sul colpo mentre
stringeva al petto la loro bimba di dieci mesi. La famiglia si barricò in casa
per nove giorni con il cadavere della madre, finché le trattative misero fine
all’assedio e Randy Weaver fu arrestato.
Lessi quest’ultima frase più volte prima di capire. Randy Weaver era
vivo? Il papà lo sapeva?
Continuai a leggere. La nazione intera era indignata. Su tutti i giornali
principali erano comparsi articoli che denunciavano lo Stato e il suo brutale
disprezzo per la vita umana. Il dipartimento di giustizia aveva aperto
un’inchiesta e il senato aveva tenuto delle udienze. Entrambi avevano
chiesto delle riforme alle regole d’ingaggio, in particolare per quanto
riguardava l’uso della forza letale.
Gli Weaver avevano fatto causa per omicidio colposo e chiesto un
risarcimento da 200 milioni di dollari, ma risolsero la faccenda in forma
privata quando lo Stato offrì alle tre figlie di Vicky un milione di dollari a
testa. Randy Weaver ricevette 100 000 dollari e tutte le accuse, tranne un
paio relative alle comparizioni in tribunale, furono ritirate. Randy Weaver
era stato intervistato dai principali organi d’informazione e aveva perfino
scritto un libro a quattro mani insieme a sua figlia. Al momento si
guadagnava da vivere andando a parlare a certi comizi sulle armi.
Se era un tentativo di insabbiamento faceva acqua da tutte le parti. C’era
stata una copertura mediatica, inchieste ufficiali, monitoraggio. Non era
questa la misura di una democrazia?
C’era una cosa che ancora non capivo: perché i Federali avevano deciso
di circondare la casetta di Randy Weaver? Perché avevano preso di mira
proprio lui? Il papà aveva detto che poteva capitare anche a noi. Continuava
a ripetere che un giorno lo Stato avrebbe dato la caccia a quelli che si
opponevano al lavaggio del cervello, che non mandavano i loro bambini a
scuola. Per tredici anni avevo pensato che era per questo che lo Stato se
l’era presa con Randy: per costringere i suoi figli ad andare a scuola.
Tornai in cima alla pagina e rilessi tutto daccapo, questa volta senza
saltare i retroscena. Secondo tutte le fonti, tra cui lo stesso Randy Weaver, i
problemi erano cominciati quando Randy aveva venduto due fucili a canne
mozze a un agente segreto conosciuto a un raduno dell’Aryan Nations.
Lessi questa frase più di una volta, in realtà molte volte. Poi capii: al cuore
della vicenda c’era il suprematismo bianco, non l’istruzione dei bambini. A
quanto pare lo Stato non aveva mai avuto l’abitudine di ammazzare la gente
perché non mandava i figli alla scuola pubblica. Mi sembrava una cosa così
ovvia, adesso, che non capivo come avessi potuto pensare altrimenti.
Per un doloroso momento pensai che il papà ci avesse mentito. Poi rividi
la paura sul suo volto, il pesante rantolo del suo respiro, e capii che credeva
davvero che fossimo in pericolo. Cercai una spiegazione e mi vennero in
mente delle parole strane, parole che avevo imparato solo pochi minuti
prima: paranoia, mania, illusioni di grandezza e di persecuzione. E
finalmente la vicenda cominciò ad avere un senso – quella sullo schermo, e
quella che mi ero portata dentro per tutta l’infanzia. Il papà doveva aver
letto di Ruby Ridge o visto qualcosa al telegiornale e in qualche modo
questa cosa, filtrata dal suo cervello delirante, aveva smesso di essere una
storia su qualcun altro ed era diventata una storia su di lui. Se lo Stato ce
l’aveva con Randy Weaver, di sicuro doveva avercela anche con Gene
Westover, da anni in prima linea nella guerra contro gli Illuminati. Non
accontentandosi più di leggere degli eroismi altrui, mio padre si era forgiato
un elmetto ed era montato in groppa a un ronzino.
Il disturbo bipolare diventò la mia ossessione. Lo scelsi come argomento
per la ricerca che eravamo tenuti a scrivere per il corso di psicologia, poi
usai quella ricerca come scusa per andare a parlare con ogni neuroscienziato
e specialista cognitivo che c’era all’università. Descrissi i sintomi del papà,
attribuendoli non a mio padre ma a un ipotetico zio. Alcuni dei sintomi
corrispondevano in pieno, altri no. I professori mi dissero che ogni caso è
diverso.
“Da come lo descrivi sembrerebbe piuttosto schizofrenia,” disse uno.
“Tuo zio si è mai fatto curare?”
“No,” risposi. “È convinto che i dottori siano parte di un complotto dello
Stato.”
“Questo complica le cose.”
Con tutta la delicatezza di un bulldozer, scrissi degli effetti che i genitori
bipolari hanno sui loro figli. Fui accusatoria, brutale. Scrissi che i figli dei
genitori bipolari sono esposti a un duplice fattore di rischio: primo perché
sono geneticamente predisposti ai disturbi dell’umore, e secondo per
l’ambiente famigliare stressante e negativo dato da genitori con simili
disordini.
In classe ero venuta a conoscenza dei neurotrasmettitori e dell’effetto che
questi avevano sulla chimica del cervello; sapevo quindi che la malattia non
era una scelta. Questa consapevolezza avrebbe potuto farmi vedere mio
padre con occhi più comprensivi, ma non fu così. Provavo solo rabbia.
Eravamo stati noi a pagare per questo, pensavo. La mamma. Luke. Shawn.
Eravamo stati feriti, sfregiati e contusi, le nostre gambe avevano preso
fuoco e le nostre teste erano state aperte. Avevamo vissuto in stato di
allerta, in una specie di terrore costante, col cervello inondato di cortisolo
perché sapevamo che quelle cose potevano succedere da un momento
all’altro. Perché il papà metteva sempre la fede davanti alla sicurezza.
Perché si credeva nel giusto e continuava a crederlo – dopo il primo
incidente con la macchina, dopo il secondo, dopo il bidone, il fuoco, il
bancale. E a pagare eravamo sempre noi.
Tornai a Buck Peak il fine settimana dopo aver consegnato la mia ricerca.
Ero a casa da meno di mezz’ora quando io e il papà cominciammo a
litigare. Disse che ero in debito con lui per la macchina. In realtà lo accennò
solamente, ma diedi fuori di matto, ebbi una crisi isterica. Era la prima volta
in vita mia che urlavo contro mio padre – non per la macchina, ma per gli
Weaver. Ero talmente piena di rabbia che le parole non mi uscirono di bocca
come parole, ma come singhiozzi strozzati, farfuglianti. Perché fai così?
Perché ci hai terrorizzati così? Perché ti sei battuto tanto contro dei mostri
inventati, ma non fai niente per i mostri che ci sono in casa tua?
Il papà mi guardò esterrefatto. Aveva la bocca aperta e le mani
abbandonate lungo i fianchi, che si contraevano di tanto in tanto come se
volesse alzarle, fare qualcosa. Non lo vedevo così smarrito da quando si era
accovacciato accanto alla carcassa della nostra station wagon a guardare il
volto gonfio e dilatato della mamma, senza poterla toccare perché i cavi
elettrici stavano mandando una scossa letale attraverso il metallo.
Scappai via, non so se per la vergogna o per la rabbia. Guidai senza mai
fermarmi fino alla Brigham. Mio padre chiamò alcune ore dopo. Non
risposi. Gridargli contro non era servito. Forse era meglio ignorarlo.
Quando il semestre finì, rimasi nello Utah. Era la prima volta che non
tornavo a Buck Peak per l’estate. Questo allontanamento non fu nulla di
ufficiale: semplicemente, non avevo voglia di vedere mio padre né di
sentire la sua voce.
Decisi di provare ad avere una vita normale. Per diciannove anni avevo
vissuto come voleva mio padre. Ora avrei provato qualcos’altro.
Mi trasferii in un nuovo appartamento dall’altra parte della città, dove
non mi conosceva nessuno. Volevo un nuovo inizio. La prima settimana, in
chiesa, il mio nuovo vescovo mi salutò con una cordiale stretta di mano, poi
passò a un altro nuovo arrivato. Il suo disinteresse mi rincuorò. Se riuscivo
a fingermi normale per un po’ di tempo, forse sarebbe stato come esserlo
davvero.
Fu in chiesa che conobbi Nick. Nick aveva degli occhiali quadrati e i
capelli scuri ingellati con cura in tanti spuntoni. Il papà avrebbe riso di un
uomo che si metteva il gel sui capelli e forse è per questo che a me piaceva
tantissimo. Mi piaceva anche che non conoscesse la differenza tra un
alternatore e un albero motore. Ma Nick era un esperto di libri, di
videogiochi e di marche di abbigliamento. E di parole. Aveva un
vocabolario incredibile.
Io e Nick facemmo coppia fin dall’inizio. Mi prese la mano la seconda
volta che ci vedemmo. Quando la sua pelle toccò la mia, mi preparai a
soffocare quel bisogno primario di allontanarlo, ma non arrivò. Fu strano ed
eccitante, e non volevo assolutamente che finisse. Avrei voluto essere
ancora nella mia vecchia parrocchia per correre dal vescovo e dirgli che ero
guarita.
Sopravvalutai i miei progressi. Ero talmente concentrata su quello che
andava bene che persi di vista quello che non andava. Io e Nick eravamo
insieme da alcuni mesi, e avevo passato diverse sere insieme alla sua
famiglia, quando finalmente dissi qualcosa della mia. Lo feci senza pensare,
accennando distrattamente a uno degli oli della mamma quando Nick si
lamentò per un dolore alla spalla. Era incuriosito – aspettava da tempo che
gli parlassi dei miei genitori –, ma mi odiai per lo scivolone e feci in modo
che non si ripetesse.
Verso la fine di maggio cominciai a sentirmi poco bene. Per una settimana
feci fatica a trascinarmi al lavoro, uno studio legale dove stavo facendo
tirocinio. Dormivo dalla sera presto alla mattina tardi e passavo il resto del
giorno a sbadigliare. Cominciò a farmi male la gola e mi andò giù la voce,
irruvidendosi in un gracchiare profondo, come se le mie corde vocali
fossero diventate di carta vetrata.
All’inizio Nick era divertito che non volessi andare dal dottore, ma col
peggiorare della malattia il suo divertimento si traformò in preoccupazione,
poi in perplessità. Minimizzai. “Non è così grave,” dissi. “Ci andrei se lo
fosse.”
Passò un’altra settimana. Lasciai il lavoro e cominciai a dormire tutto il
giorno e tutta la notte. Una mattina Nick arrivò senza preavviso.
“Andiamo dal dottore,” disse.
Feci per ribattere, ma poi vidi la sua faccia. Era come se volesse
chiedermi qualcosa ma sapesse che non aveva senso chiedermelo. La linea
tesa della bocca, gli occhi stretti. Ecco com’è la sfiducia, pensai.
Dovendo scegliere se andare da un malefico dottore socialista o
ammettere al mio fidanzato che credevo che i dottori fossero dei socialisti
malefici, scelsi il dottore.
“Ci andrò oggi,” dissi. “Promesso. Ma preferirei andarci da sola.”
“D’accordo,” disse lui.
Se ne andò, ma ora avevo un altro problema. Non sapevo come andare da
un dottore. Chiamai una compagna di corso e le chiesi di accompagnarmi in
macchina. Mi venne a prendere un’ora dopo e la guardai perplessa
oltrepassare l’ospedale a pochi isolati dal mio appartamento. Mi portò a una
palazzina a nord del campus che chiamò “clinica”. Cercai di fingermi
disinvolta, di comportarmi come se l’avessi già fatto, ma quando
attraversammo il parcheggio ebbi come la sensazione che la mamma mi
stesse guardando.
Non sapevo cosa dire alla receptionist. L’amica attribuì il mio silenzio al
mal di gola e spiegò quali sintomi avevo. Ci dissero di aspettare. Alla fine
un’infermiera mi portò in una stanzetta bianca dove mi pesò, mi provò la
pressione e mi fece un tampone alla lingua. Disse che di solito i mal di gola
così acuti erano causati dai batteri dello streptococco o dal virus della
mononucleosi. L’avrebbero scoperto nel giro di pochi giorni.
Quando furono pronti i risultati andai alla clinica da sola. Mi accolse un
dottore stempiato di mezza età. “Congratulazioni,” disse. “Sei positiva sia
allo streptococco che alla mononucleosi. Sei l’unica persona che ho visto
prendere entrambi.”
“Entrambi?” mormorai. “Com’è possibile?”
“Sei molto, molto sfortunata,” disse. “Posso darti della penicillina per lo
streptococco, ma non posso fare molto per la mononucleosi. Dovrai
aspettare che passi. Comunque, una volta che avremo eliminato lo
streptococco dovresti sentirti meglio.”
Il dottore chiese a un’infermiera di portare della penicillina. “Dobbiamo
cominciare subito con gli antibiotici,” disse. Tenni le pastiglie sul palmo
della mano e mi venne in mente il pomeriggio in cui Charles mi aveva dato
l’ibuprofene. Pensai alla mamma e a tutte le volte che mi aveva detto che
gli antibiotici avvelenano il corpo, che provocano infertilità e
malformazioni congenite. Che lo spirito del Signore non può dimorare in un
recipiente impuro e che nessun recipiente è puro quando abbandona Dio per
affidarsi agli uomini. O forse quest’ultima parte l’aveva detta il papà.
Buttai giù le pastiglie. Non so se lo feci per disperazione, perché stavo
malissimo, o se più banalmente lo feci per curiosità. Ero là nel cuore del
Sistema Medico e volevo vedere finalmente di cos’avevo sempre avuto
paura. Mi sarebbero sanguinati gli occhi? Mi sarebbe caduta la lingua?
Sarebbe successo senz’altro qualcosa di terribile. Dovevo sapere cosa.
Tornai al mio appartamento e chiamai la mamma. Pensai che confessare
avrebbe alleggerito il senso di colpa. Le dissi che ero andata da un dottore e
che avevo sia lo streptococco che la mononucleosi. “Sto prendendo la
penicillina,” dissi. “Volevo solo che lo sapessi.”
Lei cominciò a parlare velocemente, ma ero così stanca che non capii
molto. Quando sembrò calmarsi, dissi “ti voglio bene” e riagganciai.
Due giorni dopo arrivò un pacchetto espresso dall’Idaho. Dentro c’erano
sei boccette di tintura, due fiale di olio essenziale e un sacchetto di argilla
bianca. Riconobbi le preparazioni: gli oli e le tinture servivano a rafforzare
fegato e reni, e l’argilla era per un pediluvio depurativo. C’era un biglietto
della mamma: Queste erbe ti espelleranno gli antibiotici dall’organismo. Ti
prego, usale finché ti ostinerai a prendere le medicine. Ti voglio bene.
Mi appoggiai al cuscino e mi addormentai quasi subito, ma prima di farlo
scoppiai a ridere forte. Non mi aveva mandato dei rimedi contro lo
streptococco o la mononucleosi. Solo contro la penicillina.
La mattina dopo fui svegliata dal trillo del telefono. Era Audrey.
“C’è stato un incidente,” disse.
Le sue parole mi trasportarono in un altro momento, all’ultima volta che
avevo risposto al telefono e avevo sentito quelle parole al posto di un
saluto. Pensai a quel giorno e a cos’aveva detto subito dopo la mamma.
Sperai che Audrey stesse leggendo un copione diverso.
“È il papà,” disse. “Se fai in fretta, se parti subito, potrai dirgli addio.”
25.
L’opera dello zolfo
C’è una storia che mi raccontavano da bambina. L’ho sentita così tante
volte e fin da quand’ero così piccola, che non ricordo chi me l’abbia
raccontata per la prima volta. La storia parlava del nonno sotto la collina e
di come si era fatto la cicatrice sopra la tempia destra.
Quando il nonno era giovane aveva passato un’estate calda sulla
montagna, in sella alla cavalla bianca che usava al maneggio. Era un
esemplare alto e ammansito dall’età. A sentire la mamma, quella cavalla era
salda come una roccia e il nonno non stava mai molto attento quando la
cavalcava. A volte lasciava andare le redini nodose, magari per togliersi una
lappola dallo stivale o alzarsi il cappello rosso e asciugarsi la faccia con la
manica della camicia. La cavalla restava immobile. Ma pur essendo così
tranquilla, era terrorizzata dai serpenti.
“Deve aver visto qualcosa strisciare tra l’erba,” diceva la mamma quando
raccontava la storia, “perché ha scaraventato a terra il nonno.” Dietro di lui
c’era un vecchio frangizolle. Il nonno ci cadde addosso e un disco gli si
conficcò nella fronte.
Cosa fu esattamente a fracassare il cranio del nonno cambiava ogni volta
che sentivo la storia. A volte era un frangizolle, ma altre volte era una
roccia. Credo che nessuno lo sapesse per certo. Non c’erano testimoni. Il
colpo fece perdere i sensi al nonno, che non ricorda molto a parte che la
nonna lo trovò sulla veranda, insanguinato dalla testa agli stivali.
Nessuno sa come abbia fatto ad arrivare a casa.
Dal pascolo più alto alla casa c’è una distanza di circa un chilometro e
mezzo – un terreno roccioso con pendii ripidi e inclementi che il nonno non
poteva aver affrontato in quelle condizioni. Eppure c’era riuscito. La nonna
sentì raspare debolmente alla porta e quando l’aprì si trovò davanti il nonno,
accasciato a terra, con il cervello che gli gocciolava fuori dalla testa. Lo
portò di corsa in città, dove gli misero una placca di metallo.
Dopo che il nonno fu tornato a casa e si fu un po’ ripreso, la nonna andò a
cercare la cavalla bianca. Vagò per tutta la montagna ma alla fine la trovò
legata alla staccionata dietro al recinto, fissata con un nodo complesso che
non sapeva fare nessuno a parte suo padre Lott.
Certe volte, quand’ero a casa della nonna a mangiare i cornflake con il
latte proibito, chiedevo al nonno di raccontarmi come aveva fatto a
scendere dalla montagna. Diceva sempre che non lo sapeva. Poi faceva un
respiro profondo – lungo e lento, come per prepararsi a uno stato d’animo
più che a una storia – e raccontava tutto dall’inizio alla fine. Il nonno era un
uomo riservato, quasi taciturno. Potevi passare un intero pomeriggio a
ripulire i campi con lui e non sentire mai più di dieci parole di seguito. Solo
dei “Già”, “Quello no”, “Credo di sì”.
Ma se gli chiedevi come aveva fatto a scendere dalla montagna quel
giorno parlava per dieci minuti, anche se ricordava solo di essere rimasto
disteso sul campo, senza riuscire ad aprire gli occhi, col sole che gli seccava
il sangue sulla faccia.
“Ma ti dirò una cosa,” diceva poi, togliendosi il cappello e passandosi le
dita sulla cicatrice che aveva sul cranio. “Sentivo delle cose mentre ero
sdraiato sull’erba. Delle voci che parlavano. E ne ho riconosciuta una,
perché era di nonno Lott. Stava dicendo a qualcuno che il figlio di Albert
era nei guai. Era la voce di Lott, lo so per certo, come so che mi trovo qui in
questo momento.” Gli luccicavano un po’ gli occhi, poi continuava: “Il fatto
è che Lott era morto da quasi dieci anni”.
Questa parte della storia ci lasciava ammutoliti. Sia la mamma che la
nonna amavano raccontarla, ma io preferivo la mamma. Abbassava la voce
nei momenti giusti. Sono stati gli angeli, diceva, e una piccola lacrima le
scendeva a lato del sorriso. Li ha mandati tuo bisnonno Lott per portare il
nonno giù dalla montagna.
La cicatrice era molto brutta, un cratere di due centimetri sulla fronte.
Ogni tanto da piccola, quando la guardavo, m’immaginavo un dottore alto
col camice bianco che picchiava un martello su una lastra di metallo. Nella
mia fantasia, il dottore usava le stesse lastre di lamiera che usava il papà per
fare il tetto ai fienili.
Ma questo succedeva solo ogni tanto. Di solito vedevo qualcos’altro. Una
prova che i miei antenati si aggiravano per il picco, vigili e pazienti, con
degli angeli al loro servizio.
Non so perché il papà fosse in montagna da solo, quel giorno.
Aspettava lo sfasciacarrozze. Credo che volesse staccare un ultimo
serbatoio, ma non so cosa lo spinse ad accendere la fiamma ossidrica senza
prima aver tolto la benzina. Non so a che punto fosse, quante placche di
ferro avesse tagliato, quando una scintilla della fiamma ossidrica raggiunse
il serbatoio. Ma so che il papà era in piedi accanto alla macchina, il corpo
appoggiato al telaio, quando il serbatoio esplose.
Indossava una camicia a maniche lunghe, guanti di pelle e schermo da
saldatore. I più colpiti furono il volto e le dita. Il calore dell’esplosione fece
sciogliere lo schermo come se fosse un cucchiaio di plastica. La parte
inferiore del volto si squagliò: il fuoco consumò la plastica, poi la pelle, poi
i muscoli. Lo stesso avvenne con le dita – i guanti di pelle non poterono
nulla contro l’inferno che li avvolse e li attraversò. Poi le lingue di fuoco gli
lambirono le spalle e il petto. Quando strisciò via dal rottame in fiamme,
immagino che il papà sembrasse più un cadavere che un essere vivente.
Ancora non capisco come abbia potuto muoversi, né tantomeno
trascinarsi per quattrocento metri verso il fossato. Se c’è mai stato un uomo
bisognoso di angeli, quello fu mio padre. Ma ce la fece, inspiegabilmente, e
come suo padre anni prima si accasciò fuori dalla porta di sua moglie senza
riuscire a bussare.
Quel giorno mia cugina Kylie era venuta ad aiutare la mamma a
imbottigliare oli essenziali. C’erano anche delle altre donne, occupate a
pesare foglie secche o a filtrare tinture. Kylie sentì un colpetto sulla porta
sul retro, come se qualcuno stesse bussando piano con un gomito. L’aprì,
ma non ricorda cosa vide dall’altra parte. “L’ho rimosso,” mi avrebbe detto
in seguito. “Non riesco a ricordare cos’ho visto. Ricordo solo cosa ho
pensato, cioè Non ha la pelle.”
Portarono mio padre sul divano. Gli versarono il Rimedio d’emergenza –
il medicinale omeopatico contro gli shock – dentro la cavità senza labbra
che prima era la bocca. Gli diedero lobelia e scutellaria per il dolore, la
stessa mistura che la mamma aveva dato a Luke anni prima. Il papà tossì al
contatto con le medicine. Non riusciva a deglutire. Aveva respirato
quell’esplosione di fuoco e le sue interiora erano carbonizzate.
La mamma cercò di portarlo all’ospedale, ma tra i respiri rauchi lui
mormorò che preferiva morire piuttosto che andare da un dottore. La
mamma fu costretta ad arrendersi.
Gli tolsero delicatamente la pelle morta e gli spalmarono dell’unguento –
lo stesso che la mamma aveva usato per la gamba di Luke anni prima –
dalla vita alla punta dei capelli, poi lo fasciarono con delle bende. La
mamma gli diede dei cubetti di ghiaccio da succhiare, sperando di idratarlo,
ma l’interno della bocca e della gola erano talmente ustionati che non
assorbivano liquidi e, senza labbra né muscoli, il papà non riusciva a tenere
il ghiaccio in bocca. Gli scivolava in gola e lo soffocava.
Quella prima notte rischiarono di perderlo diverse volte. Il respiro
rallentava, poi si fermava e allora mia madre – e la schiera provvidenziale
di donne che lavoravano per lei – si affrettavano ad allineare chakra e
premere punti di pressione, qualsiasi cosa potesse convincere i suoi fragili
polmoni a riprendere a sferragliare.
Fu quella mattina che Audrey mi chiamò.6 Disse che il cuore del papà si
era fermato due volte durante la notte. Probabilmente sarebbe morto per
quello, per il cuore, se i polmoni non cedevano prima. In ogni caso, Audrey
era sicura che se ne sarebbe andato entro mezzogiorno.
Chiamai Nick. Gli dissi che dovevo andare qualche giorno nell’Idaho per
un problema famigliare, nulla di grave. Capì che gli stavo nascondendo
qualcosa – sentii la sofferenza nella sua voce –, ma smisi di pensarci nel
momento stesso in cui riagganciai.
Rimasi un momento in piedi con le chiavi in una mano e l’altra sulla
maniglia. Lo streptococco. E se lo passavo al papà? Prendevo la penicillina
da quasi tre giorni. Il dottore aveva detto che dopo ventiquattr’ore non sarei
più stata contagiosa, ma era un dottore e non mi fidavo di lui.
Aspettai un giorno. Presi più volte la dose prescritta di penicillina, poi
chiamai la mamma e le chiesi cosa dovevo fare.
“Dovresti tornare a casa,” disse, e le si spezzò la voce. “Non credo che lo
streptococco possa fare più nulla domani.”
Non ricordo il paesaggio durante il viaggio in macchina. I miei occhi
notarono a malapena il mosaico di campi di granoturco e di patate, o le
colline scure coperte di pini. Ma vedevo mio padre, l’aspetto che aveva
l’ultima volta, la sua espressione stravolta. Ripensai alla mia voce acuta e
rabbiosa mentre gli urlava contro.
Come Kylie, non ricordo cosa vidi quando arrivai e guardai mio padre. So
che quando la mamma aveva tolto la garza, quella mattina, le orecchie
erano talmente ustionate e la pelle così collosa che si erano fuse col tessuto
viscoso sottostante. Quando entrai dalla porta sul retro la prima cosa che
vidi fu la mamma con un coltello da burro in mano che cercava di separare
le orecchie di mio padre dal cranio. La rivedo ancora mentre stringeva il
coltello, gli occhi fissi, concentrati. Ma al posto di mio padre c’è un buco
nella memoria.
In sala c’era un odore forte di carne bruciata e di consolida maggiore,
verbasco e piantaggine. Guardai la mamma e Audrey cambiare le ultime
bende. Cominciarono con le mani. Le dita erano viscide, rivestite di una
melma bianchiccia che poteva essere pelle sciolta oppure pus. Le braccia
non erano ustionate, nemmeno le spalle o la schiena, ma una spessa striscia
di garza gli correva sulla pancia e sul petto. Quando la tolsero, fui contenta
di vedere delle grosse chiazze di pelle viva e arrossata. C’erano alcuni
crateri nei punti dove probabilmente si erano concentrate le fiamme.
Mandavano un odore acre, come di carne marcia, ed erano pieni di una
sostanza bianca.
Ma fu la sua faccia a tormentarmi nel sonno quella notte. La fronte e il
naso c’erano ancora. La pelle attorno agli occhi e di parte delle guance era
rosa e sana. Ma sotto il naso, niente era dove doveva essere. Rossa,
maciullata, cadente, quella faccia sembrava una maschera teatrale di
plastica che fosse stata tenuta troppo vicino a una candela.
Il papà non ingeriva nulla da quasi tre giorni. Niente cibo, niente acqua.
La mamma chiamò un ospedale dello Utah e li supplicò di darle una flebo.
“Devo reidratarlo,” disse. “Morirà se non gli do dell’acqua.”
Il dottore disse che avrebbe mandato subito un elicottero, ma la mamma
disse di no. “Allora non la posso aiutare,” rispose il dottore. “Lo ucciderà, e
io non voglio responsabilità.”
La mamma era fuori di sé. In un ultimo tentativo disperato fece un
clistere al papà, spingendogli dentro il tubo il più possibile e cercando di
pompargli nel retto abbastanza liquido da tenerlo in vita. Non sapeva se
avrebbe funzionato, né se c’era un organo in quella parte del corpo in grado
di assorbire l’acqua, ma era l’unico orifizio che non si era bruciato.
Quella notte dormii sul pavimento della sala per essere là nel caso in cui
l’avessimo perso. Mi svegliai più volte per i rantoli, i movimenti
improvvisi, i mormorii; era successo di nuovo, aveva smesso di respirare.
Un’ora prima dell’alba, il respiro si fermò ancora ed ero sicura che fosse
finita: era morto e non si sarebbe più ripreso. Misi la mano su un angolo di
fasciatura mentre Audrey e la mamma si precipitavano attorno a me,
recitando preghiere e dandogli dei colpetti. Non c’era pace in quella stanza,
o forse semplicemente non c’era pace dentro di me. Erano anni che io e mio
padre vivevamo un conflitto, un continuo scontro di volontà. Credevo di
averlo accettato, di aver accettato il nostro rapporto per quel che era. Ma in
quel momento mi resi conto di quanto contassi su una fine delle ostilità, su
un futuro in cui saremmo stati un padre e una figlia in pace.
Gli guardai il petto, pregai che respirasse, ma non lo fece. Ormai era
passato troppo tempo. Ero sul punto di allontanarmi per permettere a mia
madre e a mia sorella di dirgli addio, quando tossì – una tosse secca e
graffiante simile a carta crespa che si accartocciava. Poi, come Lazzaro
risuscitato, il suo petto cominciò ad alzarsi e abbassarsi.
Dissi alla mamma che me ne andavo. Le dissi che forse il papà ce
l’avrebbe fatta. E in quel caso, non potevamo rischiare che l’uccidesse lo
streptococco.
L’attività della mamma come erborista si arrestò. Le donne che
lavoravano per lei smisero di fare tinture e imbottigliare oli e cominciarono
a preparare litri e litri di unguento – una nuova ricetta a base di consolida
maggiore, lobelia e piantaggine che la mamma aveva ideato appositamente
per mio padre. La mamma gli spalmava l’unguento sulla parte superiore del
corpo due volte al giorno. Non ricordo quali altri trattamenti usarono né
conosco abbastanza il lavoro energetico per spiegare cosa fecero. So solo
che nelle prime due settimane finirono quasi sessantacinque litri di
unguento e che la mamma ordinava quintali di garza.
Tyler arrivò in aereo dalla Purdue. Prese il posto della mamma,
occupandosi di cambiare le fasciature sulle dita del papà ogni mattina e di
grattare via gli strati di pelle e muscolo che si erano necrotizzati durante la
notte. Non faceva male. I nervi erano morti. “Ho tolto così tanti strati,” mi
disse, “che ero sicuro che una mattina avrei toccato l’osso.”
Le dita del papà si piegarono, inarcandosi all’indietro in maniera
innaturale all’altezza delle giunture. Questo perché i tendini avevano
cominciato a raggrinzirsi e a contrarsi. Tyler cercò di chiudergli le dita e di
allungare i tendini per impedire che la malformazione diventasse
permanente, ma il papà non riusciva a sopportare il dolore.
Tornai a Buck Peak quando fui certa di aver debellato del tutto lo
streptococco. Mi sedetti sul letto del papà a dargli dell’acqua con un
contagocce medico e a somministrargli verdure frullate come se fosse un
bebé. Non parlava quasi mai. Il dolore gli impediva di concentrarsi; riusciva
a malapena a cominciare una frase che la sua mente si perdeva. La mamma
si offrì di comprargli dei farmaci, gli analgesici più potenti che poteva
procurarsi, ma lui rifiutò. Era il dolore del Signore, disse, e doveva
sopportarlo fino in fondo.
Mentre ero via, avevo perlustrato ogni videoteca nel raggio di
centosessanta chilometri, finché avevo trovato un cofanetto con la serie
completa degli Honeymooners. Lo mostrai al papà. Lui batté le palpebre per
farmi capire che aveva visto. Gli chiesi se voleva guardare un episodio.
Batté di nuovo le palpebre. Infilai la prima cassetta nel videoregistratore e
mi sedetti accanto a lui, studiandogli il volto deforme e ascoltando il suo
uggiolare sommesso mentre sullo schermo Alice Kramden la faceva
continuamente in barba al marito.
6
È possibile che qui la mia ricostruzione sia imprecisa di un giorno o due. Secondo alcuni
testimoni, pur essendo terribilmente ustionato, mio padre non corse veri pericoli fino al terzo giorno,
quando cominciarono a formarsi le croste, che resero difficile la respirazione. La disidratazione
peggiorò le cose. Secondo questa versione, fu allora che si temette per la sua vita e che mia sorella mi
chiamò, ma io fraintesi pensando che l’esplosione fosse avvenuta il giorno prima.
26.
Aspettando che si muovano le acque
Il papà non lasciò il letto per due mesi, tranne quando uno dei miei fratelli
lo sollevava di peso. Pisciava dentro una bottiglia e continuava con i
clisteri. Anche quando fu chiaro che sarebbe sopravvissuto, non sapevamo
che genere di vita avrebbe avuto. Non potevamo fare altro che aspettare e
dopo un po’ ci sembrò che tutto quello che facevamo fosse solo una specie
di attesa – attesa di dargli da mangiare, di cambiargli le fasciature. Di
vedere se sarebbe tornato quello di prima.
Era difficile immaginare un uomo come il papà – così orgoglioso, forte,
fisico – menomato a vita. Mi chiesi come avrebbe fatto se la mamma avesse
sempre dovuto tagliargli il cibo nel piatto e come poteva avere una vita
felice se non era in grado di prendere in mano un martello. Erano cambiate
così tante cose.
Ma oltre alla tristezza, provavo anche un senso di speranza. Il papà era
sempre stato un uomo duro, uno che sapeva la verità su tutto e non voleva
sentire ragione dagli altri. Eravamo sempre noi ad ascoltare lui, mai il
contrario: se non era lui a parlare, pretendeva silenzio.
L’incidente lo trasformò da oratore a osservatore. Faceva fatica a parlare
per via del dolore costante, ma anche perché aveva la gola ustionata. Così
guardava e ascoltava. Rimase là sdraiato ora dopo ora, giorno dopo giorno,
con gli occhi vigili e la bocca chiusa.
Nel giro di poche settimane mio padre – che tempo prima non avrebbe
saputo azzeccare la mia età entro un margine di cinque anni – sapeva dei
miei corsi, del mio fidanzato, del mio lavoro estivo. Non gli avevo detto
nulla, ma mi aveva sentito chiacchierare con Audrey mentre cambiavamo le
bende.
“Vorrei sapere di più su quei corsi,” gracchiò una mattina sul finire
dell’estate. “Sembrano molto interessanti.”
Fu come un nuovo inizio.
Il papà era ancora costretto a letto quando Shawn ed Emily annunciarono
il loro fidanzamento. Era l’ora di cena e la famiglia era riunita attorno al
tavolo della cucina, quando Shawn disse che forse, alla fine, avrebbe
sposato Emily. Ci fu un momento di silenzio mentre le forchette sfregavano
contro i piatti. La mamma chiese se diceva sul serio. Lui disse che no,
probabilmente avrebbe trovato di meglio prima di dover fare quel passo.
Emily gli era seduta accanto con un sorriso sbieco sul volto.
Quella notte non chiusi occhio. Continuavo a controllare il chiavistello
sulla mia porta. Il presente sembrava indifeso rispetto al passato, come se
potesse esserne sopraffatto, come se in un batter d’occhio potessi avere di
nuovo quindici anni.
La mattina dopo Shawn disse che lui ed Emily sarebbero andati a fare una
cavalcata di più di venti chilometri fino al lago Bloomington. Li sorpresi
entrambi dicendo che sarei andata con loro. Avevo l’ansia al pensiero di
passare tutte quelle ore nella natura insieme a Shawn, ma la soffocai. C’era
una cosa che dovevo fare.
Cinquanta chilometri sembrano centocinquanta quando sei a cavallo,
soprattutto se il tuo corpo è più abituato a stare su una sedia che su una
sella. Quando arrivammo al lago, Shawn ed Emily scesero agilmente dai
loro cavalli e cominciarono ad accamparsi. Io non potei far altro che slegare
la sella di Apollo e sedermi su un albero caduto. Guardai Emily montare la
tenda dove avrebbe dormito insieme a me. Emily era alta e incredibilmente
magra, con capelli lunghi e lisci così biondi che sembravano argentati.
Facemmo un falò e cantammo alcune canzoni da campeggio. Giocammo
a carte. Poi ci ritirammo nelle nostre tende. Rimasi sdraiata al buio accanto
a Emily ad ascoltare i grilli. Stavo cercando un modo per cominciare il
discorso – per dirle che non doveva sposare mio fratello – quando parlò.
“Vorrei parlarti di Shawn,” disse. “So che ha dei problemi.”
“Già,” dissi io.
“È un uomo spirituale,” continuò. “Dio gli ha dato una vocazione
speciale. Per aiutare la gente. Mi ha raccontato come ha aiutato Sadie. E
come ha aiutato te.”
“Non mi ha aiutato.” Avrei voluto dire di più, spiegarle quello che mi
aveva detto il vescovo. Ma non erano parole mie. Io non avevo parole.
Avevo fatto cinquanta chilometri per parlare e adesso ero muta.
“Il diavolo lo tenta più degli altri,” disse Emily. “A causa delle sue doti
naturali, perché è una minaccia per Satana. È per questo che ha dei
problemi. Per la sua virtù.”
Si tirò su a sedere. Vedevo il profilo della sua lunga coda di cavallo nel
buio. “Mi ha detto che mi farà soffrire,” disse. “So che è colpa di Satana.
Ma certe volte ho paura di lui, ho paura di quello che farà.”
Le dissi che non avrebbe dovuto sposare qualcuno che le faceva paura,
che nessuno doveva farlo, ma le parole mi morirono sulle labbra. Ci
credevo ma non le capivo abbastanza per renderle vive.
Fissai l’oscurità cercandole il volto, tentando di capire che potere aveva
mio fratello su di lei. Sapevo che aveva avuto lo stesso potere su di me. In
parte ce l’aveva ancora. Non ero né succube né libera.
“È un uomo spirituale,” ripeté. Poi s’infilò nel suo sacco a pelo e capii
che la nostra conversazione era finita.
Tornai alla Brigham alcuni giorni prima del semestre autunnale. Andai
dritta all’appartamento di Nick. Non ci eravamo quasi più parlati. Ogni
volta che telefonava, sembrava che ci fosse sempre bisogno di me per
cambiare una fasciatura o preparare l’unguento. Nick sapeva che mio padre
si era ustionato, ma non sapeva quanto. Gli avevo nascosto più cose di
quante gliene avessi dette. Non gli avevo mai parlato dell’esplosione, né
che quando “andavo a trovare” mio padre non era in un ospedale ma nel
salotto di casa nostra. Non gli avevo detto del cuore che si era fermato. Non
gli avevo descritto le mani contorte, né i clisteri, né gli strati di tessuto
liquefatto che gli avevamo grattato via dal corpo.
Bussai e Nick venne ad aprire la porta. Sembrava sorpreso di vedermi.
“Come sta tuo padre?” mi chiese quando mi fui seduta sul divano insieme a
lui.
Ripensandoci, questo fu probabilmente il momento più importante della
nostra amicizia, il momento in cui avrei potuto fare una cosa, la cosa
migliore, e invece feci qualcos’altro. Era la prima volta che vedevo Nick
dopo l’esplosione. Avrei potuto raccontargli tutto: che la mia famiglia non
credeva nella medicina moderna, che stavamo curando l’ustione a casa con
unguenti e omeopatia, che era stato terribile, più che terribile. Che mi sarei
ricordata l’odore di carne bruciata fino alla fine dei miei giorni. Avrei
potuto dirgli tutto questo, liberarmi di un peso, lasciare che la nostra
relazione portasse quel peso e diventasse più forte. Invece mi tenni tutto
dentro e la mia amicizia con Nick, già anemica, malnutrita e trascurata,
cominciò a morire.
Credevo che sarei riuscita a riparare il danno – che adesso che ero tornata,
questa sarebbe stata la mia vita, e non importava se Nick non sapeva nulla
di Buck Peak. Ma il picco si rifiutava di lasciarmi. Mi rimase attaccato.
Spesso i crateri neri sul petto di mio padre si materializzavano sulle lavagne
e vedevo la cavità incurvata della sua bocca sulle pagine dei libri di testo. In
un certo senso quel mondo ricordato era più vivido del mondo reale in cui
vivevo, e oscillavo tra i due. Nick mi prendeva la mano e per un momento
ero con lui, sentivo la sorpresa della sua pelle sulla mia. Ma quando
guardavo le nostre dita intrecciate qualcosa cambiava e la mano non era più
quella di Nick. Era insanguinata e con gli artigli. Non era più una mano.
Quando dormivo mi abbandonavo totalmente al picco. Sognavo Luke, i
suoi occhi rovesciati all’indietro. Sognavo il papà, il lento sferragliare nei
suoi polmoni. Sognavo Shawn, il momento in cui mi aveva spezzato il
polso nel parcheggio. Sognavo me stessa, che gli zoppicavo accanto e
scoppiavo in quella risata stridula e orribile. Ma nei miei sogni avevo i
capelli lunghi e argentati.
Il matrimonio fu a settembre.
Arrivai in chiesa carica di energia nervosa, come se fossi in missione da
un futuro disastroso e le mie azioni avessero ancora un peso e i miei
pensieri delle conseguenze. Non sapevo cos’ero stata mandata a fare, così
mi torsi le mani e mi mordicchiai le guance in attesa del momento cruciale.
Cinque minuti prima della cerimonia, vomitai nel bagno delle donne.
Quando Emily disse “Lo voglio”, le forze mi abbandonarono. Diventai di
nuovo uno spirito e tornai fluttuando verso la Brigham. Fissai le Montagne
Rocciose dalla finestra della camera e mi sembrarono inverosimili. Come
dei dipinti.
Una settimana dopo il matrimonio ruppi con Nick – in malo modo, anche
se mi vergogno a dirlo. Non gli parlai mai della mia vita precedente, non gli
accennai mai al mondo che aveva invaso e distrutto quello che
condividevamo insieme. Avrei potuto spiegare. Avrei potuto dire: “Quel
posto ha una certa influenza su di me, forse non me ne libererò mai”.
Questo avrebbe centrato il punto. Invece sprofondavo nel tempo. Era troppo
tardi per confidarsi con Nick, per portarlo con me, ovunque stessi andando.
Così gli dissi addio.
27.
Se fossi una donna
Ero venuta alla Brigham per studiare musica, pensando che un giorno
avrei potuto dirigere il coro di una chiesa. Ma quel semestre, nell’autunno
del mio terzo anno, non mi iscrissi a nessun corso di musica. Non saprei
dire perché abbandonai teoria musicale avanzata a favore di geografia e
politica comparata, o perché rinunciai a solfeggio per seguire storia degli
ebrei. Ma quando avevo visto quei corsi sulla lista e letto ad alta voce i loro
nomi avevo percepito qualcosa di immenso, e volevo conoscere
quell’immensità.
Per quattro mesi frequentai delle lezioni di geografia, storia e politica.
Scoprii chi era Margaret Thatcher e cos’erano il Trentottesimo parallelo e la
Rivoluzione culturale. Studiai la politica parlamentare e i sistemi elettorali
di tutto il mondo. Venni a conoscenza della diaspora ebraica e della strana
storia dei Protocolli dei Savi di Sion. Verso la fine del semestre il mondo
sembrava vasto ed era difficile immaginare di tornare alla montagna, a una
cucina, o perfino a un pianoforte nella stanza accanto alla cucina.
Questo mi provocò una specie di crisi. Il mio amore per la musica e il mio
desiderio di studiarla erano compatibili con la mia idea di cos’è una donna.
Il mio amore per la storia, la politica e gli affari internazionali no. Eppure
erano queste le materie che mi chiamavano.
Alcuni giorni prima degli esami finali rimasi seduta un’ora in un’aula
vuota insieme al mio amico Josh. Stava controllando la sua domanda di
ammissione alla facoltà di Legge mentre io sceglievo quali corsi seguire nel
semestre successivo.
“Se tu fossi una donna,” gli chiesi, “studieresti Legge lo stesso?”
Josh non alzò lo sguardo. “Se fossi una donna,” disse, “non vorrei
studiare Legge.”
“Ma non parli d’altro da quando ti conosco. Studiare Legge è il tuo
sogno, no?”
“Sì,” ammise. “Ma non lo sarebbe se fossi una donna. Le donne sono
diverse. Non hanno questa ambizione. La loro ambizione sono i figli.” Mi
sorrise come se sapessi di cosa stava parlando. E lo sapevo. Sorrisi, e per
alcuni secondi fummo d’accordo.
Poi: “Ma se fossi una donna e per qualche motivo ti sentissi come ti senti
adesso?”.
Gli occhi di Josh fissarono un momento la parete. Ci stava pensando. Poi
disse: “Penserei che ho qualcosa che non va”.
Era dall’inizio del semestre, da quando avevo frequentato la mia prima
lezione di affari internazionali, che mi chiedevo se avevo qualcosa che non
andava. Non capivo come potessi essere una donna ma essere attratta da
cose che non erano da donna.
Sapevo che qualcuno doveva avere la risposta, così decisi di chiedere a
uno dei miei docenti. Scelsi quello del corso di storia ebraica perché era un
tipo tranquillo e pacato. Il professor Kerry era basso, con gli occhi scuri e
un’espressione seria. Si presentava a lezione con una pesante giacca di lana
anche quando faceva caldo. Bussai piano alla porta del suo ufficio,
sperando quasi che non rispondesse, e un momento dopo mi trovai seduta in
silenzio davanti a lui. Non sapevo cosa chiedere di preciso e lui non insisté.
Invece mi fece delle domande generiche – sui miei voti, sui corsi che stavo
seguendo. Mi chiese perché avevo scelto storia ebraica e senza pensarci
risposi che avevo scoperto cos’era l’Olocausto solo pochi semestri prima e
volevo sapere il resto della storia.
“Quando hai scoperto cos’è l’Olocausto?” disse.
“Alla Brigham.”
“Non te l’hanno insegnato a scuola?”
“Credo di sì,” dissi. “Ma io non c’ero.”
“E dov’eri?”
Spiegai meglio che potei che i miei genitori non credevano nella scuola
pubblica, che ci avevano tenuti a casa. Quand’ebbi finito, lui intrecciò le
dita come se stesse riflettendo su un problema difficile. “Dovresti metterti
alla prova. Vedere che succede.”
“Mettermi alla prova in che senso?”
Si piegò in avanti di scatto, come se avesse appena avuto un’idea. “Hai
mai sentito parlare di Cambridge?” Non l’avevo mai sentito. “È
un’università in Inghilterra,” disse. “Una delle migliori al mondo. Ci
organizzo un programma di studio all’estero. È molto competitivo ed
estremamente impegnativo. Può darsi che non ti prendano, ma in caso
contrario potrebbe darti un’idea delle tue capacità.”
Tornai al mio appartamento non sapendo bene cosa pensare di quel
colloquio. Cercavo un sostegno morale, qualcuno che conciliasse la mia
vocazione di moglie e madre con la mia vocazione a fare altro. Ma al
professore non interessava. Era come se mi avesse detto: “Prima capisci
cosa sai fare, poi decidi chi sei”.
Feci domanda per il programma.
Emily era incinta. La gravidanza non stava andando bene. Entro la fine
del terzo mese aveva quasi avuto un aborto spontaneo e adesso che era circa
alla ventesima settimana le erano venute le contrazioni. La mamma, che le
faceva da levatrice, le aveva dato l’erba di San Giovanni e altri rimedi. Le
contrazioni diminuirono ma non smisero del tutto.
Quando arrivai a Buck Peak per Natale, mi aspettavo di trovare Emily a
riposo a letto. Non fu così. La trovai in piedi al bancone della cucina che
filtrava erbe insieme a una manciata di altre donne. Parlava poco e
sorrideva anche meno, non faceva altro che spostarsi qua e là per la casa
con tinozze di viburno e cardiaca. Era talmente silenziosa da sembrare
invisibile e dopo poco minuti mi dimenticai della sua presenza.
Erano passati sei mesi dall’esplosione e, anche se il papà era di nuovo in
piedi, era chiaro che non sarebbe più tornato quello di prima. Non riusciva
quasi ad attraversare una stanza senza restare senza fiato da tanto erano
danneggiati i suoi polmoni. La pelle sulla parte inferiore del volto era
ricresciuta ma era fragile e cerea, come se qualcuno l’avesse sfregata con
della carta vetrata fino a renderla trasparente. Le orecchie erano piene di
cicatrici. Le labbra sottili e la bocca cadente gli davano un’aria smunta e
invecchiata. Ma era la mano destra la più impressionante: le dita erano
bloccate ciascuna in una posa diversa, alcune arricciate, altre curve, ritorte
in una grinfia nodosa. Poteva reggere un cucchiaio se l’incuneava tra
l’indice, piegato verso l’alto, e l’anulare, curvato in basso, ma faceva fatica
a mangiare. Eppure mi chiesi se un trapianto di pelle avrebbe avuto lo
stesso risultato dell’unguento di consolida e lobelia della mamma. Era un
miracolo, a detta di tutti, così fu quello il nome che diedero alla ricetta.
Dopo l’ustione del papà, diventò l’Unguento Miracoloso.
La mia prima sera al picco, a cena, il papà parlò dell’esplosione come di
un atto di misericordia del Signore. “È stata una benedizione,” disse. “Un
miracolo. Dio mi ha risparmiato la vita e mi ha affidato una splendida
missione. Per attestare la Sua potenza. E mostrare alla gente che c’è
un’alternativa al Sistema Medico.”
Lo guardai cercare d’incastrarsi senza successo il coltello tra le dita per
tagliare l’arrosto. “Non sono mai stato davvero in pericolo,” disse. “E ve lo
dimostrerò. Non appena riuscirò ad attraversare il cortile senza rischiare di
svenire, prenderò una fiamma ossidrica e staccherò un altro serbatoio.”
La mattina dopo, quando andai a fare colazione, trovai un gruppetto di
donne riunite attorno a mio padre. Silenziose e con gli occhi luccicanti, lo
stavano ascoltando parlare delle visitazioni divine ricevute mentr’era in
bilico tra la vita e la morte. Era stato assistito dagli angeli, diceva, come i
profeti del passato. C’era qualcosa nel modo in cui quelle donne lo
guardavano. Qualcosa di simile all’adorazione.
Le osservai per tutta la mattina e mi resi conto del cambiamento
provocato dal miracolo di mio padre. Prima le donne che lavoravano per la
mamma le si erano sempre rivolte in modo informale, facendole delle
domande pratiche attinenti al lavoro. Adesso il loro tono era sommesso e
pieno di ammirazione. A volte si litigavano ferocemente la considerazione
di mia madre o di mio padre. Il cambiamento in sostanza poteva essere
riassunto così: se prima erano delle dipendenti, adesso erano delle seguaci.
La storia dell’ustione del papà era diventata una specie di mito: veniva
raccontata in continuazione, ai nuovi arrivati come ai vecchi. Non passava
pomeriggio senza che in casa non si sentisse una qualche narrazione del
miracolo, e a volte queste narrazioni erano tutt’altro che accurate. Un
giorno sentii la mamma dire a una stanza piena di volti devoti che il papà
aveva riportato ustioni di terzo grado sul sessantacinque percento della
parte alta del corpo. Non era vero. Da quel che ricordavo, il grosso del
danno era superficiale: le braccia, la schiena e le spalle erano quasi rimaste
illese. Solo la parte inferiore del volto e le mani avevano ustioni di terzo
grado. Ma non dissi nulla.
Per la prima volta sembrava che i miei genitori la pensassero allo stesso
modo. La mamma non stemperava più le dichiarazioni del papà dopo che
lui lasciava la stanza, né dava sommessamente una sua opinione. Era stata
trasformata dal miracolo – trasformata in lui. Ricordavo quand’era una
giovane levatrice, così cauta, così umile quando si trattava delle vite di cui
era responsabile. Ora quell’umiltà sembrava scomparsa. Il Signore stesso
guidava le sue mani e se capitava una disgrazia era solo il volere di Dio.
Alcune settimane dopo Natale, l’università di Cambridge scrisse al
professor Kerry dicendo che avevano rifiutato la mia domanda. “C’è
moltissima competizione,” mi spiegò quando andai nel suo ufficio.
Lo ringraziai e feci per andarmene.
“Un momento,” disse. “Cambridge mi ha raccomandato di scrivere se
pensavo ci fossero delle grandi ingiustizie.”
Non capii, così ripeté. “Potevo aiutare uno studente solo,” disse. “Ti
hanno offerto un posto, se vuoi.”
Mi sembrava impossibile che mi avessero preso. Poi mi resi conto che mi
serviva un passaporto e che senza un vero certificato di nascita era difficile
che me lo dessero. Cambridge non era un posto per una come me. Era come
se l’universo lo sapesse e stesse cercando d’impedire quella blasfemia.
Feci richiesta di persona. L’impiegata allo sportello rise di gusto quando
vide la mia dichiarazione tardiva di nascita. “Nove anni!” disse. “Nove anni
non significa tardiva. Ha altre documentazioni?”
“Sì,” dissi. “Ma con date di nascita diverse. E su una c’è un nome
diverso.”
Stava ancora sorridendo. “Data diversa e nome diverso? No, non può
andare. Non potrà mai avere un passaporto.”
Tornai dall’impiegata molte altre volte, insistendo, finché alla fine fu
trovata una soluzione. Zia Debbie andò in tribunale e firmò una deposizione
giurata in cui garantiva che ero quella che dicevo di essere. Mi diedero un
passaporto.
A febbraio Emily partorì. Il bambino pesava poco più di mezzo chilo.
Quando Emily aveva cominciato ad avere le contrazioni, a Natale, la
mamma aveva detto che la gravidanza sarebbe avvenuta secondo il volere
di Dio. Il Suo volere, a quanto pare, fu che Emily partorisse in casa dopo
una gestazione di ventisei settimane.
Quella sera ci fu una bufera di neve, una di quelle poderose tormente di
montagna che rendono deserte le strade e chiudono le città. Emily era nelle
fasi avanzate del travaglio quando la mamma si rese conto che bisognava
portarla in ospedale. Il bambino, che chiamarono Peter, comparve alcuni
minuti dopo, scivolando fuori da Emily con tanta facilità che la mamma
disse di averlo “preso” più che averlo fatto nascere. Era immobile e color
cenere. Shawn pensò che fosse morto. Poi la mamma sentì un debole battito
cardiaco – in realtà vide il suo cuore pulsare attraverso il sottile velo di
pelle. Mio padre corse al furgone e cominciò a raschiare via la neve e il
ghiaccio. Shawn prese in braccio Emily e la sistemò sul sedile di dietro, poi
la mamma le mise il neonato sul petto e lo coprì, creando un’incubatrice di
fortuna. Marsupioterapia, l’avrebbe chiamata in seguito.
Mio padre partì. La tempesta infuriava. Nell’Idaho lo chiamiamo
whiteout: quando il vento sferza la neve così violentemente da imbiancare
la strada, coprendola come un velo, e non si vedono più né l’asfalto, né i
campi né i fiumi; non si vede niente a parte nuvole di bianco. In qualche
modo, sbandando tra la neve, arrivarono in città, ma l’ospedale era piccolo
e non era attrezzato per occuparsi di un così fragile sussulto di vita. I dottori
dissero che dovevano portarlo al McKay-Dee, in Oregon, il prima possibile,
non c’era tempo da perdere. Non potevano usare l’elicottero per via della
tormenta, così lo mandarono in ambulanza. In realtà mandarono due
ambulanze, nel caso in cui la prima restasse bloccata dalla tempesta.
Sarebbero passati molti mesi e innumerevoli operazioni chirurgiche al
cuore e ai polmoni prima che Shawn ed Emily portassero a casa il piccolo
fuscello di carne che mi presentarono come mio nipote. Anche se ormai era
fuori pericolo, i dottori dissero che i polmoni potevano non svilupparsi mai
del tutto. Rischiava di restare sempre cagionevole.
Il papà disse che Dio aveva orchestrato il parto così come aveva fatto con
l’esplosione. La mamma gli fece eco, aggiungendo che Dio le aveva posato
un velo sugli occhi perché non fermasse le contrazioni. “Peter doveva
venire al mondo così,” disse. “È un dono di Dio, e Dio dispensa i Suoi doni
come Gli pare e piace.”
28.
Pigmalione
La prima volta che vidi il King’s College, a Cambridge, non pensai che
era un sogno, ma solo perché la mia immaginazione non aveva mai prodotto
nulla di così grandioso. Il mio sguardo si posò su una torre dell’orologio
con intagli in pietra. Mi portarono alla torre, poi l’attraversammo ed
entrammo nel college. C’era un lago d’erba tagliata alla perfezione e,
dall’altra parte, un edificio color avorio di cui riconobbi vagamente lo stile
greco-romano. Ma era la cappella gotica, una montagna di pietra lunga
novanta metri e alta trenta, la vera protagonista.
Mi accompagnarono oltre la cappella e in un altro cortile, poi su per una
scala a chiocciola. Fu aperta una porta e mi fu detto che quella era la mia
stanza. Poi mi lasciarono sola perché potessi ambientarmi. Il signore gentile
che me lo disse non si rese conto di quanto fosse impossibile.
La colazione la mattina seguente fu servita in una grande sala. Era come
mangiare in una chiesa, il soffitto era cavernoso, e mi sentivo
continuamente osservata, come se tutti sapessero che ero nel posto
sbagliato. Avevo scelto un lungo tavolo pieno di altri studenti provenienti
dalla Brigham. Le ragazze parlavano dei vestiti che avevano portato.
Marianne era andata a fare shopping quando aveva saputo che era stata
ammessa al programma. “In Europa servono dei capi diversi,” disse.
Heather era d’accordo. Sua nonna le aveva pagato il biglietto aereo, così
lei aveva potuto rinnovare il suo guardaroba. “La gente qui si veste in
maniera più raffinata,” disse. “Non vanno bene i jeans.”
Pensai di correre in camera a togliermi la mia felpa e le scarpe di tela, ma
non avevo nient’altro da mettermi. Non avevo vestiti come quelli di
Marianne ed Heather – quei cardigan dai colori vivaci, accentuati da sciarpe
delicate. Non mi ero comprata nulla di nuovo per Cambridge perché avevo
dovuto chiedere un prestito studentesco anche solo per pagare le rette. E
poi, anche se avessi avuto i vestiti di Marianne e di Heather, non avrei
saputo portarli.
Arrivò il professor Kerry, che annunciò che eravamo invitati a fare un
tour della cappella. Potevamo anche salire sul tetto. Ci fu un parapiglia
generale mentre riportavamo i vassoi e seguivamo il professore fuori dalla
sala. Rimasi in fondo al gruppo mentre attraversavamo il cortile.
Non appena misi piede nella cappella rimasi senza fiato. La sala – se uno
spazio del genere si poteva definire sala – era immensa, come se potesse
contenere l’intero oceano. Superammo una porticina di legno e salimmo per
una stretta scala a chiocciola con dei gradini di pietra che sembravano
infiniti. Alla fine la scala sbucava sul tetto, che era molto inclinato, una V
capovolta e circondata da parapetti di pietra. Forti raffiche di vento
spingevano le nuvole attraverso il cielo. C’era una vista spettacolare e la
città sembrava miniaturizzata, completamente rimpicciolita dalla cappella.
Senza pensarci, mi arrampicai su uno spiovente del tetto e m’incamminai
lungo la linea di colmo, lasciandomi investire dal vento mentre guardavo in
lontananza la distesa di strade tortuose e cortili di pietra.
“Non hai paura di cadere,” disse una voce. Mi voltai. Era il professor
Kerry. Mi aveva seguito, ma sembrava che facesse fatica a reggersi in piedi,
come se dovesse cadere a ogni raffica di vento.
“Possiamo tornare giù,” dissi. Scesi sul ballatoio vicino al contrafforte. Il
professor Kerry mi seguì di nuovo, avanzando in modo strano. Anziché
camminare dritto girò il corpo e si mosse di lato, come un granchio. Il vento
non calava. Vedendolo così instabile gli offrii un braccio per l’ultimo tratto,
e lui lo prese.
“La mia era solo un’osservazione,” disse quando fummo scesi. “Te ne stai
là in piedi, dritta, con le mani in tasca.” Fece un cenno verso gli altri
studenti. “Mentre loro, vedi come stanno curvi? Come si aggrappano alla
parete?”
Aveva ragione. Alcuni si avventuravano sulla linea di colmo ma lo
facevano cautamente, muovendosi impacciati di lato come aveva fatto il
professor Kerry, piegandosi e oscillando al vento. Gli altri si tenevano stretti
al parapetto di pietra, con le ginocchia piegate e le schiene curve come se
non sapessero se camminare o strisciare.
Alzai una mano e mi aggrappai al muro.
“Non c’è bisogno che lo fai,” disse lui. “Non era una critica.”
Esitò, come indeciso se dire altro. “C’è stato un cambiamento,” disse.
“Gli altri studenti erano tranquilli prima di salire quassù. Adesso sono
inquieti, nervosi. Per te invece sembra il contrario. È la prima volta che ti
vedo veramente a tuo agio. È il modo in cui ti muovi, come se fossi su
questo tetto da tutta la vita.”
Soffiò una raffica di vento e il professor Kerry vacillò, aggrappandosi al
muro. Salii sulla linea di colmo perché potesse stringersi al contrafforte. Mi
fissò in attesa di una spiegazione.
“Ho costruito dei tetti ai fienili,” dissi alla fine.
“Quindi le tue gambe sono più forti? Per questo riesci a stare in piedi con
questo vento?”
Dovetti pensarci prima di rispondere. “Riesco a stare in piedi perché non
mi sforzo di farlo,” dissi. “Il vento è solo vento. Se puoi resistere a queste
raffiche sulla terraferma, puoi farlo anche quando sei in alto. Non c’è
nessuna differenza. È tutto nella tua testa.”
Mi guardò, perplesso. Non aveva capito.
“Sto in piedi e basta,” continuai. “Voi cercate di bilanciarvi, di abbassare
il corpo perché vi spaventa l’altezza. Ma acquattarsi e camminare di lato
non è naturale. Vi rendete vulnerabili. Se riusciste a controllare il panico, il
vento non vi farebbe niente.”
“Come non fa niente a te,” disse.
Avrei voluto una mente da studiosa, ma sembrava che il professor Kerry
vedesse in me la mente di una costruttrice di tetti. Gli altri studenti erano
fatti per stare in biblioteca; io ero fatta per stare dentro una gru.
La prima settimana passò in un turbine di lezioni. La seconda settimana a
ogni studente fu assegnato un supervisore con il compito di guidarlo nelle
ricerche. Scoprii che il mio supervisore era l’illustre professor Jonathan
Steinberg, un ex docente di un college di Cambridge che era molto
apprezzato per i suoi studi sull’Olocausto.
Il mio primo incontro col professor Steinberg avvenne alcuni giorni dopo.
Aspettai in portineria finché vidi arrivare un tizio magro che, tirando fuori
un mazzo di chiavi pesanti, aprì una porta di legno incassata nella pietra. Lo
seguii su per una scala a chiocciola e dentro la torre dell’orologio, dove
c’era una stanza ben illuminata e dall’arredamento essenziale: due sedie e
un tavolo di legno.
Sentii il sangue pulsarmi nelle orecchie mentre mi sedevo. Il professor
Steinberg aveva più di settant’anni ma non sembrava anziano. Era agile e i
suoi occhi si muovevano con curiosità per la stanza. Parlava in modo
scorrevole e misurato.
“Sono il professor Steinberg,” disse. “Cosa vorresti studiare?”
Mormorai qualcosa sulla storiografia. Avevo deciso di non studiare la
storia, ma gli storici. Credo che il mio interesse venisse dal senso di
smarrimento che provavo da quand’ero venuta a sapere dell’Olocausto e del
movimento per i diritti civili – da quando avevo capito che quello che una
persona sa del passato è e sarà sempre limitato da quel che gli dicono gli
altri. Sapevo cosa voleva dire correggere una convinzione sbagliata –
sbagliata a tal punto che rovesciarla voleva dire rovesciare il mondo.
Adesso avevo bisogno di capire come i grandi custodi della storia fossero
venuti a patti con la loro stessa ignoranza e parzialità. Pensavo che se fossi
riuscita ad accettare che quello che avevano scritto non era assoluto ma il
risultato di un processo parziale di scambi verbali e revisioni, forse avrei
accettato anche il fatto che la storia conosciuta dalla maggior parte della
gente non era la storia che mi avevano insegnato. Il papà poteva sbagliarsi,
dei grandi storici come Carlyle, Macaulay e Trevelyan potevano sbagliarsi,
ma dalle ceneri della loro disputa potevo costruire un mondo in cui vivere.
Forse il terreno sotto i miei piedi non era solido, ma speravo di poterlo
calpestare.
Non credo che riuscii a comunicare qualcosa di tutto questo. Quando
smisi di parlare, il professor Steinberg mi guardò e poi disse: “Dimmi dei
tuoi studi. Che scuole hai frequentato?”.
L’aria fu immediatamente risucchiata dalla stanza.
“Sono cresciuta nell’Idaho,” dissi.
“E sei andata a scuola là?”
Se ci penso adesso, credo che qualcuno avesse parlato di me a Steinberg,
forse il professor Kerry. O forse intuiva che stavo evitando la sua domanda
e questo lo incuriosiva. Qualunque fosse il motivo, non fu soddisfatto
finché non ammisi che non ero mai andata a scuola.
“Meraviglioso,” disse sorridendo. “È come se fossi entrato nel
Pigmalione di Shaw.”
Per due mesi ebbi incontri settimanali col professor Steinberg. Non mi
assegnava mai nulla da studiare. Studiavamo solo quello che chiedevo io,
che fosse un libro o una pagina.
Nessuno dei miei docenti della Brigham aveva mai analizzato così a
fondo quello che scrivevo come il professor Steinberg. Non tralasciava
nessuna virgola, nessuna frase, nessun aggettivo o avverbio. Non faceva
nessuna distinzione tra grammatica e contenuto, tra forma e sostanza. Una
frase scritta male era un’idea pensata male, e in quest’ottica la logica
grammaticale richiedeva altrettante correzioni. “Dimmi,” diceva, “perché
hai messo questa virgola qua? Che collegamento vorresti stabilire tra queste
due frasi?” Quando davo la mia spiegazione, lui a volte diceva “Bene”, e
altre volte mi correggeva con lunghe delucidazioni sulla sintassi.
Dopo essermi incontrata con Steinberg per un mese, scrissi una tesina in
cui confrontavo Edmund Burke e Publius, lo pseudonimo sotto il quale
James Madison, Alexander Hamilton e John Jay avevano scritto Il
Federalista. Quasi non dormii per due settimane: ogni volta che avevo gli
occhi aperti, o studiavo o pensavo a quei testi.
Avevo imparato da mio padre che i libri andavano adorati oppure banditi.
I libri che erano di Dio – quelli scritti dai profeti mormoni o dai Padri
Fondatori – non dovevano essere tanto studiati quanto venerati, come
qualcosa di perfetto in sé. Mi era stato insegnato a prendere le parole di
uomini come Madison come uno stampo in cui dovevo versare la mia
mente, come gesso, perché fosse rimodellata secondo i contorni del loro
esempio impeccabile. Leggevo per imparare cosa pensare, non per imparare
a pensare con la mia testa. I libri che non erano di Dio andavano banditi.
Erano pericolosi, possedevano un’astuzia potente e irresistibile.
Per scrivere la mia tesina dovevo leggere i libri in maniera diversa, senza
abbandonarmi né alla paura né all’adorazione. Dato che Burke aveva difeso
la monarchia britannica, il papà avrebbe detto che era un portavoce della
tirannia. Non avrebbe voluto quel libro in casa. Provavo un certo brivido,
ora, nel confrontarmi con quelle parole. Provavo un brivido simile nel
leggere Madison, Hamilton e Jay, soprattutto quando rifiutavo le loro
conclusioni a favore di quelle di Burke, o quando mi sembrava che le loro
idee non fossero poi molto diverse nella sostanza, ma solo nella forma.
C’erano dei presupposti meravigliosi insiti in questo metodo di studio: che i
libri non erano dei trucchi, e che io non ero una stupida.
Finii la tesina e la mandai al professor Steinberg. Due giorni dopo,
quando arrivai al nostro incontro, era silenzioso. Mi guardò con attenzione
dall’altra parte del tavolo. Aspettai che dicesse che la tesina era un disastro,
il prodotto di una mente ignorante, che era troppo ambiziosa, arrivava a
troppe conclusioni da troppo poco materiale.
“Insegno a Cambridge da trent’anni,” disse. “E questa è una delle tesine
più belle che io abbia mai letto.”
Ero pronta a degli insulti ma non a questo.
Probabilmente Steinberg disse delle altre cose sulla tesina, ma non le
sentii. Provavo un bisogno straziante di uscire da quella stanza. In quel
momento non ero più a Cambridge dentro una torre dell’orologio. Avevo
diciassette anni, ero su una jeep rossa e il ragazzo che amavo mi aveva
appena toccato la mano. Corsi via.
Potevo sopportare ogni forma di crudeltà, ma non la gentilezza. I
complimenti erano un veleno, mi soffocavano. Volevo che il professore mi
gridasse contro, lo desideravo così tanto che soffrivo di questa mancanza.
La mia bruttezza doveva essere espressa. Se non lo faceva lui, avrei dovuto
farlo io.
Non ricordo come uscii dalla torre dell’orologio, né come passai il
pomeriggio. Quella sera c’era una cena di gala. La sala era illuminata a
lume di candela ed era tutto molto bello, ma a me piaceva per un altro
motivo: non indossavo vestiti eleganti, solo una maglietta nera e pantaloni
neri, e pensavo che con quelle luci soffuse la gente non se ne sarebbe
accorta. La mia amica Laura arrivò in ritardo. Spiegò che erano venuti a
trovarla i suoi genitori e l’avevano portata in Francia. Era appena tornata.
Indossava un vestito viola acceso, con delle pieghe perfette sulla gonna. Il
bordo le svolazzava diversi centimetri sopra il ginocchio e per un momento
pensai che fosse un vestito da puttana, finché non disse che gliel’aveva
comprato suo padre a Parigi. Il regalo di un padre non poteva essere una
cosa da puttane. Il regalo di un padre era il segnale inequivocabile che una
donna non era una puttana. Mi arrovellai su questa contraddizione – un
vestito da puttana, donato a una figlia amata – fino alla fine della cena,
quando furono portati via i piatti.
Al nostro incontro successivo il professor Steinberg disse che, quando
avrei fatto domanda per il corso di laurea specialistica, avrebbe chiesto che
mi prendessero in qualunque università sceglievo. “Sei mai stata ad
Harvard?” disse. “O forse preferisci Cambridge?”
M’immaginai a Cambridge, un’universitaria con una lunga toga nera
frusciante che camminava per i corridoi antichi. Poi mi vidi curva in un
bagno con le braccia dietro la schiena e la testa dentro il water. Cercai di
concentrarmi sulla studentessa ma non ci riuscii. Non potevo visualizzare la
ragazza con la veste nera senza vedere anche quell’altra ragazza.
Studentessa o puttana, non potevano essere entrambe vere. Una era una
menzogna.
“Non ci posso andare,” dissi. “Non posso pagare le rette.”
“Ci penserò io alle rette,” disse Steinberg.
A fine agosto, la nostra ultima sera a Cambridge, ci fu una cena d’addio
nella grande sala. I tavoli erano apparecchiati con una quantità mai vista di
coltelli, forchette e calici, e i dipinti sulle pareti sembravano spettrali alla
luce delle candele. Mi sentivo vulnerabile a contatto con tanta eleganza, ma
in un certo senso anche invisibile. Guardavo passare le altre studentesse
osservando ogni vestito di seta, ogni occhio truccato. Ero ossessionata dalla
loro bellezza.
Durante la cena ascoltai le allegre chiacchiere dei miei amici mentre
sognavo la solitudine della mia stanza. Il professor Steinberg era seduto al
tavolo dei docenti. Ogni volta che gli lanciavo un’occhiata sentivo quel
vecchio istinto all’opera dentro di me, la tensione nei muscoli in
preparazione alla fuga.
Lasciai la sala al momento del dolce. Fu un sollievo sfuggire a tutta
quella bellezza e raffinatezza, poter smettere di essere piacevole a tutti costi
e non sentirmi più un pesce fuor d’acqua. Il professor Kerry mi vide uscire
e mi seguì.
Era buio. Il prato era scuro, il cielo ancora più scuro. Delle colonne di
luce biancastra si alzavano da terra e illuminavano la cappella, che
splendeva lunare contro il cielo notturno.
“Hai fatto colpo su Steinberg,” disse il professor Kerry, raggiungendomi.
“Spero solo che lui abbia fatto colpo su di te.”
Non capivo.
“Da questa parte,” disse a un certo punto, girandosi verso la cappella.
“Devo dirti una cosa.”
Lo seguii, consapevole di quant’erano silenziose le mie scarpe di tela
sulla pietra rispetto al ticchettio elegante dei tacchi delle altre ragazze.
Il professor Kerry disse che era da un po’ che mi osservava. “Ti comporti
come se recitassi la parte di qualcun altro. Ed è come se per te fosse una
questione di vitale importanza.”
Non sapevo cosa dire, così non dissi niente.
“Non hai mai pensato,” continuò, “che hai diritto di essere qui come
chiunque altro?” Aspettava una spiegazione.
“Preferirei servire la cena,” dissi, “più che mangiarla.”
Sorrise. “Devi fidarti di Steinberg. Se dice che sei portata per gli studi –
‘oro puro’, l’ho sentito dire – allora è così.”
“Questo posto è magico,” dissi. “Qui luccica tutto.”
“Devi smetterla di pensare così,” disse il professor Kerry, alzando la
voce. “Non sei come la pirite, che luccica solo in una luce particolare.
Chiunque diventerai, qualunque cosa farai, lo sei sempre stata. Era già
dentro di te. Non a Cambridge. Dentro di te. Sei oro. E tornare alla
Brigham, oppure a quella montagna da cui vieni, non cambierà chi sei. Può
cambiare come ti vedono gli altri, può cambiare perfino come ti vedi tu –
anche l’oro appare sbiadito sotto certe luci – ma è quella l’illusione. E lo è
sempre stata.”
Avrei voluto credergli, prendere le sue parole e ricrearmi, ma non avevo
mai avuto quella convinzione. Per quanto mi sforzassi di seppellire i ricordi,
di chiudere gli occhi per non vederli, quando pensavo a me stessa rivedevo
le immagini di quella ragazza nel bagno, nel parcheggio.
Non potevo parlare al professor Kerry di quella ragazza. Non potevo
dirgli che il motivo per cui non potevo tornare a Cambridge era che stare
qui riportava a galla ogni momento violento e umiliante della mia vita. Alla
Brigham riuscivo quasi a dimenticare, a lasciare che il passato sfumasse nel
presente. Ma qui il contrasto era troppo forte, il mondo davanti ai miei
occhi troppo fantastico. I ricordi erano più reali – più credibili – delle guglie
di pietra.
Cercai di convincermi che ci fossero altri motivi per cui non potevo stare
a Cambridge, motivi che avevano a che fare con la classe sociale e lo status:
che era perché ero povera, venivo da un ambiente povero. Perché sapevo
stare in piedi nel vento sul tetto della cappella senza piegarmi. Era quella la
persona che non c’entrava nulla con Cambridge: la costruttrice di tetti, non
la puttana. Posso andare a scuola, avevo scritto sul mio diario quel
pomeriggio. E posso comprarmi dei vestiti nuovi. Ma resto sempre Tara
Westover. Ho fatto dei lavori che nessuno studente di Cambridge farebbe.
Vestiteci come vi pare, ma non saremo mai uguali. L’abbigliamento non
poteva correggere quello che non andava in me. C’era qualcosa di marcio
all’interno e il tanfo era troppo forte, il nucleo troppo rancido per
camuffarlo con dei semplici vestiti.
Non so se il professor Kerry intuisse qualcosa di tutto ciò. Ma sapeva che
mi ero fissata sui vestiti come un simbolo del perché non facevo parte – e
non potevo far parte – di questo mondo. Fu l’ultima cosa che mi disse prima
di allontanarsi, lasciandomi inchiodata e imbambolata accanto alla maestosa
cappella.
“Il primo a determinare quella che sei è dentro di te,” disse. “Steinberg
dice che è come Pigmalione. Pensa alla sua storia, Tara.” Fece una pausa,
gli occhi ardenti, la voce penetrante. “Era solo una londinese con un bel
vestito. Finché ha cominciato a credere in se stessa. A quel punto non aveva
più importanza il vestito che indossava.”
29.
Laurea
La volta successiva che tornai a Buck Peak era autunno e la nonna sotto
la collina stava morendo. Aveva combattuto contro il cancro al midollo per
nove anni; ora si avvicinava la fine. Avevo appena saputo di aver vinto un
dottorato a Cambridge quando mi scrisse la mamma. “La nonna è di nuovo
in ospedale,” disse. “Vieni subito. Credo che sarà l’ultima volta.”
Quando atterrai a Salt Lake City, la nonna era in uno stato di
semincoscienza. Drew mi aspettava in aeroporto. Ormai eravamo qualcosa
di più che due semplici amici. Disse che mi avrebbe accompagnato in
macchina nell’Idaho, all’ospedale in città.
Non tornavo in quell’ospedale da quando ci avevo portato Shawn, anni
prima, e fu difficile non pensare a lui mentre attraversavo il corridoio
bianco e asettico. Trovammo la camera della nonna. Il nonno era seduto al
suo capezzale e le teneva una mano chiazzata. La nonna aveva gli occhi
aperti e mi guardò. “È la mia piccola Tara, venuta fin dall’Inghilterra,”
disse, poi i suoi occhi si chiusero. Il nonno le strinse la mano, ma si era
addormentata. Un’infermiera ci disse che probabilmente avrebbe dormito
per delle ore.
Drew si offrì di accompagnarmi a Buck Peak. Accettai, e solo quando la
montagna comparve all’orizzonte mi chiesi se avevo fatto la cosa giusta.
Drew aveva sentito le mie storie, ma portarlo qui significava comunque
correre un rischio: questa non era una storia, e dubitavo che gli altri
avrebbero recitato la parte che avevo scritto per loro.
La casa era nel caos. C’erano donne ovunque: alcune prendevano ordini
al telefono, altre mescolavano oli o filtravano tinture. C’era un nuovo
annesso sul lato sud della casa, dove alcune donne più giovani stavano
riempiendo boccette e impacchettando ordini da spedire. Lasciai Drew in
salotto e andai in bagno, che era l’unica stanza della casa a essere ancora
come me la ricordavo. Quando uscii m’imbattei in un’anziana donna esile,
coi capelli ispidi e un paio di grossi occhiali squadrati.
“Questo bagno è riservato alla direzione,” disse. “Le imbottigliatrici
devono usare il bagno nell’annesso.”
“Non lavoro qui,” dissi.
Mi guardò con attenzione. Impossibile. Tutti lavoravano qui.
“Questo bagno è riservato alla direzione,” ripeté, raddrizzandosi in tutta
la sua altezza. “Tu non puoi lasciare l’annesso.”
Si allontanò prima che potessi rispondere.
Non avevo ancora visto i miei genitori. Tornai zigzagando verso la sala e
trovai Drew sul divano che ascoltava le spiegazioni di una donna su
aspirina e infertilità. Lo presi per mano e lo portai con me, facendomi strada
tra tutti quegli estranei.
“È vero, questo posto?” disse.
Trovai la mamma in una stanza senza finestre al piano di sotto. Ebbi
l’impressione che si stesse nascondendo. Le presentai Drew e lei sorrise
affettuosamente. “Dov’è il papà?” chiesi. Pensai che fosse a letto malato.
Soffriva spesso di problemi respiratori da quando l’esplosione gli aveva
carbonizzato i polmoni.
“Sarà nella mischia di sicuro,” disse alzando gli occhi al soffitto, da cui
proveniva un calpestio di passi.
La mamma venne di sopra con noi. Non appena comparve sul
pianerottolo, fu accolta da una serie di dipendenti che avevano delle
domande da parte dei clienti. Sembrava che tutti volessero una sua opinione
– sulle loro ustioni, le loro palpitazioni, i loro bambini sottopeso. La
mamma le respinse con un cenno e proseguì. Si spostava per casa sua come
una celebrità in un ristorante affollato, come se non volesse farsi
riconoscere.
La scrivania di mio padre era grossa quanto un’automobile. Era
parcheggiata in mezzo al caos. Il papà stava parlando al telefono, che
teneva incastrato tra la guancia e la spalla perché non gli scivolasse dalle
mani cerose. “I dottori non sanno curare il diabete,” disse con una voce un
po’ troppo alta. “Il Signore sì!”
Guardai Drew di sbieco. Stava sorridendo. Il papà riagganciò e si girò
verso di noi. Salutò Drew con un gran sorriso. Irradiava energia,
ricavandola dalla confusione generale della casa. Drew disse che era colpito
dalla loro attività e il papà sembrò alzarsi di quindici centimetri. “Abbiamo
la fortuna di svolgere il lavoro del Signore,” disse.
Squillò di nuovo il telefono. C’erano almeno tre dipendenti incaricate di
rispondere, ma il papà si avventò sul ricevitore come se aspettasse una
telefonata importante. Non l’avevo mai visto così pieno di vita.
“Il potere di Dio sulla terra,” gridò nella cornetta. “Ecco cosa sono questi
oli: la farmacia di Dio!”
Il rumore in casa era frastornante, così portai Drew sulla montagna.
Passeggiammo attraverso i campi di grano selvatico e poi lungo il margine
dei pini alla base della montagna. I colori autunnali erano tranquillizzanti e
restammo là delle ore a guardare in basso verso la valle silenziosa. Era il
tardo pomeriggio quando finalmente tornammo verso casa e Drew ripartì
per Salt Lake City.
Entrai nella Cappella dalla portefinestra e rimasi sorpresa dal silenzio che
c’era all’interno. La casa era vuota, i telefoni staccati, le postazioni di
lavoro abbandonate. La mamma era seduta da sola al centro della sala.
“Ha chiamato l’ospedale,” disse. “La nonna è morta.”
Mio padre perse ogni interesse per gli affari. Cominciò ad alzarsi dal letto
sempre più tardi e, quando lo faceva, sembrava fosse solo per insultare o
accusare. Gridava contro Shawn per la discarica e rimproverava la mamma
per come gestiva le sue dipendenti. Aggrediva Audrey quando cercava di
preparargli il pranzo e se la prendeva con me perché facevo troppo rumore
quando battevo sui tasti. Era come se volesse litigare a tutti costi, come se
volesse punirsi per la morte di sua madre. O forse era lei che voleva punire,
per il conflitto che c’era stato tra di loro e che si era concluso solo adesso
che era morta.
Lentamente, la casa si riempì di nuovo. I telefoni furono riattaccati e
comparvero delle donne a rispondere. La scrivania del papà rimase vuota.
Passava le giornate a letto a fissare il soffitto stuccato. Gli portavo la cena,
come avevo fatto da bambina, e come allora mi chiedevo se si accorgeva
della mia presenza.
La mamma si muoveva per casa con la vitalità di dieci persone,
miscelando tinture e oli essenziali e impartendo ordini alle sue dipendenti
perché organizzassero il funerale e cucinassero per ogni zia o cugino che
arrivava senza preavviso per ricordare la nonna. Il più delle volte la trovavo
in grembiule, con un arrosto davanti e un telefono in ciascuna mano, che
parlava con un cliente piuttosto che con uno zio o un amico che chiamavano
per fare le condoglianze. Nel frattempo mio padre rimaneva a letto.
Il papà parlò al funerale. Il suo discorso fu un sermone di venti minuti
sulle promesse di Dio ad Abramo. Citò la nonna due volte. Chi non lo
conosceva dovette pensare che non fosse turbato più di tanto dalla morte di
sua madre, ma noi vedevamo la sua devastazione.
Quando arrivammo a casa, dopo la messa, il papà sbottò perché non era
pronto il pranzo. La mamma si affrettò a servire lo stufato che aveva
lasciato cuocere a fuoco lento, ma dopo mangiato il papà sembrava
ugualmente irritato per i piatti, che la mamma pulì in fretta e furia, e poi per
i suoi nipoti, che giocavano rumorosamente mentre la mamma correva da
una parte all’altra cercando di farli stare zitti.
Quella sera, quando la casa fu vuota e silenziosa, sentii i miei genitori
litigare in cucina.
“Il minimo che potresti fare,” diceva la mamma, “è scrivere questi
biglietti di ringraziamento. Dopotutto era tua madre.”
“È un compito da mogli,” rispose il papà. “Non ho mai sentito di un
uomo che scrive biglietti.”
Era la cosa peggiore che potesse dire. Per dieci anni era stata soprattutto
la mamma a portare i soldi a casa, oltre naturalmente a cucinare, pulire e
fare il bucato, e non l’avevo sentita lamentarsi nemmeno una volta. Fino ad
ora.
“Allora tu vedi di comportarti da marito,” disse alzando la voce.
Un momento dopo stavano gridando entrambi. Il papà cercava di metterla
alle strette, di sottometterla con la sua grande rabbia, come aveva sempre
fatto, ma questo la rendeva solo più testarda. Alla fine la mamma buttò i
biglietti sul tavolo e disse: “Fai come ti pare. Ma se non li scrivi tu, non lo
farà nessun altro”. Poi scese a grandi passi di sotto. Il papà la seguì e per
un’ora le loro grida salirono attraverso il pavimento. Non avevo mai sentito
i miei genitori gridare così – almeno, non mia madre. Non l’avevo mai vista
rifiutare di arrendersi.
La mattina dopo trovai il papà in cucina che rovesciava della farina
dentro una sostanza collosa che immaginai essere pastella per i pancake.
Quando mi vide mise giù la farina e si sedette a tavola. “Sei una donna,
giusto?” disse. “Bene, questa è una cucina.” Ci fissammo e contemplai la
distanza che si era creata tra noi – come quelle parole sembravano naturali
alle sue orecchie, ma irritanti alle mie.
Non era tipico della mamma lasciare che il papà si preparasse la
colazione da sé. Pensai che fosse ammalata e scesi di sotto a vedere come
stava. Non ero quasi nemmeno arrivata sul pianerottolo quando li sentii: dei
forti singhiozzi provenienti dal bagno, smorzati dal ronzio regolare di un
asciugacapelli. Rimasi fuori dalla porta e ascoltai per più di un minuto,
paralizzata. Preferiva che me ne andassi, che facessi finta di non aver
sentito? Aspettai che riprendesse fiato, ma i suoi singhiozzi si fecero solo
più disperati.
Bussai. “Sono io,” dissi.
La porta si aprì, prima di una fessura, poi di più, e vidi mia madre, la
pelle luccicante dopo la doccia, avvolta in un asciugamano troppo piccolo
per coprirla. Non avevo mai visto mia madre così e chiusi gli occhi
d’istinto. Il mondo si oscurò. Sentii un tonfo, plastica che si spaccava, e
aprii gli occhi. La mamma aveva lasciato cadere l’asciugacapelli, che aveva
battuto sul pavimento. Il suo ruggito era amplificato dal contatto col
cemento a vista. La guardai, lei mi avvicinò a sé e mi abbracciò. L’acqua sul
suo corpo bagnato mi penetrò nei vestiti e sentii delle piccole gocce
scivolare dai suoi capelli sulla mia spalla.
33.
Prodigi della fisica
Non rimasi molto a Buck Peak, forse una settimana. Il giorno che lasciai
la montagna, Audrey mi chiese di non partire. Non ricordo quella
conversazione, ma ricordo che la riportai la cosa sul mio diario. Lo feci la
prima sera che tornai a Cambridge, mentre ero seduta su un ponte di pietra e
guardavo la cappella del King’s College sopra di me. Ricordo il fiume, che
era calmo; ricordo le foglie autunnali che si posavano lentamente sulla
superficie di vetro. Ricordo il rumore della mia penna che si muoveva sulla
pagina, raccontando nel dettaglio, per otto pagine piene, cos’aveva detto di
preciso mia sorella. Ma il ricordo di lei che lo diceva è scomparso: è come
se lo avessi scritto per dimenticare.
Audrey mi chiese di restare. Shawn era troppo forte, disse, troppo
convincente per poterlo affrontare da sola. Le dissi che non era sola, aveva
la mamma. Audrey rispose che non capivo. In fondo nessuno ci aveva
credute. Se chiedevamo aiuto al papà, era sicura che ci avrebbe dato delle
bugiarde. Le dissi che i nostri genitori erano cambiati e che dovevamo
fidarci di loro. Poi presi un aereo e me ne andai a ottomila chilometri di
distanza.
Se mi sentivo in colpa a riportare le paure di mia sorella da quella
distanza di sicurezza, circondata da splendide biblioteche e cappelle
antiche, lo espressi solo una volta, nell’ultima frase che scrissi quella sera:
Cambridge è meno bella questa sera.
Drew era venuto con me a Cambridge perché era stato ammesso a un
corso post-laurea in studi mediorientali. Gli dissi della mia conversazione
con Audrey. Era il primo fidanzato a cui parlavo della mia famiglia –
raccontando la verità e non solo degli aneddoti divertenti. Ovviamente tutto
questo appartiene al passato, dissi. Ora la mia famiglia è diversa. Ma voglio
che tu lo sappia. Così puoi tenermi d’occhio se farò qualcosa di assurdo.
Il primo semestre passò in un turbine di cene e feste fino a tarda notte,
inframmezzate da nottate ancora più lunghe in biblioteca. Per avere un
dottorato dovevo presentare una mia ricerca accademica originale. In altre
parole, dopo cinque anni passati a studiare storia, ora mi chiedevano di
scriverla.
Ma cosa potevo scrivere? Mentre studiavo per la mia tesi di laurea, ero
rimasta sorpresa di trovare echi della teologia mormona nei grandi filosofi
del diciannovesimo secolo. Ne accennai a David Runciman, il mio relatore.
“Sarà questa la tua ricerca,” mi disse. “Puoi fare una cosa che non ha fatto
nessuno: puoi esaminare il mormonismo non solo come movimento
religioso, ma come movimento intellettuale.”
Cominciai a rileggere le lettere di Joseph Smith e Brigham Young. Da
bambina quella lettura era stato un atto di preghiera; adesso leggevo quelle
lettere con occhi diversi, non con gli occhi di un critico ma nemmeno con
quelli di un discepolo. Analizzai la poligamia, non come dottrina ma come
politica sociale. La confrontai con i miei ideali, così come con altri
movimenti e teorie dello stesso periodo. Sembrava un atto radicale.
I miei amici a Cambridge erano diventati una specie di famiglia per me e
provavo un senso di appartenenza che a Buck Peak non sentivo da anni.
Certe volte stavo male per questo. Una sorella non dovrebbe volere più
bene a un estraneo che a un fratello, pensavo. Una figlia non può preferire
un insegnante al proprio padre.
Ma anche se avrei voluto che non fosse così, non volevo tornare a casa.
Preferivo la famiglia che avevo scelto a quella che avevo ricevuto, e così
più mi sentivo felice a Cambridge, più la mia felicità era infangata dalla
sensazione di aver tradito Buck Peak. Quella sensazione diventò una parte
fisica di me, qualcosa di cui sentivo il sapore sulla lingua o l’odore nel
fiato.
Comprai un biglietto per l’Idaho per Natale. La sera prima della partenza
ci fu una festa al college. Un mio amico aveva messo in piedi un piccolo
coro che avrebbe cantato alcuni canti di Natale durante la cena. Stavano
provando da settimane, ma il giorno della festa il soprano si ammalò di
bronchite. Mi squillò il telefono nel tardo pomeriggio. Era il mio amico. “Ti
prego dimmi che conosci qualcuno che sa cantare,” disse.
Non cantavo da anni e non l’avevo mai fatto senza mio padre tra il
pubblico, ma alcune ore dopo salii insieme al coro su un palco vicino alle
travi, sopra il gigantesco albero di Natale che dominava la sala. Feci tesoro
di quel momento, godendomi la leggerezza che provavo nel sentire di
nuovo la musica che mi saliva dal petto e chiedendomi se il papà, se ci
fosse stato, avrebbe sfidato l’università e tutto il suo socialismo per sentirmi
cantare. So che l’avrebbe fatto.
Buck Peak era uguale al solito. La Principessa era sepolta sotto la neve
ma potevo vedere i contorni scuri delle sue gambe. La mamma era in cucina
quando arrivai. Stava mescolando uno stufato con una mano mentre con
l’altra teneva un telefono e spiegava le proprietà della cardiaca. La scrivania
del papà era ancora vuota. Era in taverna, disse la mamma, a letto. Aveva
qualcosa ai polmoni.
Un tizio robusto si trascinò dentro dalla porta sul retro. Ci misi un po’ a
capire che era mio fratello. Luke aveva una barba così folta che faceva
pensare a una delle sue capre. L’occhio sinistro era bianco e cieco: alcuni
mesi prima gli avevano sparato in faccia con un fucile da paintball.
Attraversò la stanza e mi diede una pacca sulla schiena, e lo fissai
nell’occhio che gli rimaneva cercando un segno di famigliarità. Ma solo
quando vidi la cicatrice in rilievo sul suo avambraccio, quel segno di spunta
ricurvo largo cinque centimetri dove il Trinciante gli aveva addentato la
carne, ebbi la certezza che quell’uomo era mio fratello.9 Mi disse che
viveva insieme a sua moglie e a un branco di marmocchi in una casa mobile
dietro alla stalla, e che si guadagnava da vivere lavorando in certi impianti
petroliferi nel North Dakota.
Passarono due giorni. Il papà veniva di sopra ogni sera e si sedeva su un
divano nella Cappella, dove tossiva e guardava la tv oppure leggeva il
Vecchio Testamento. Io passavo le mie giornate studiando o aiutando la
mamma.
La terza sera stavo leggendo al tavolo della cucina, quando Shawn e
Benjamin entrarono dalla porta sul retro. Benjamin stava raccontando a
Shawn di una scazzottata in seguito a un piccolo incidente automobilistico
in città. Disse che prima di scendere dal camion per affrontare l’altro
automobilista si era infilato la pistola nella cintura dei jeans. “Quel tipo non
sapeva a cosa andava incontro,” disse Benjamin con un gran sorriso.
“Solo un idiota prende una pistola per una roba del genere,” rispose
Shawn.
“Non volevo usarla,” borbottò Benjamin.
“Allora non prenderla,” disse Shawn. “Almeno sai che non la userai. Se
la prendi potresti usarla, è così che vanno le cose. Una rissa può
trasformarsi in una sparatoria molto in fretta.”
Shawn parlava con calma, ponderatamente. I suoi capelli biondi erano
sporchi e disordinati, la faccia coperta da un velo di barba color scisto. Gli
occhi brillavano sotto il lubrificante e lo sporco, due fiamme azzure avvolte
da nubi di cenere. La sua espressione, come le sue parole, sembravano
appartenere a un uomo molto più adulto, un uomo che aveva perso la sua
irruenza, che era in pace.
Shawn si voltò verso di me. Avevo cercato di evitarlo ma all’improvviso
mi sembrava una cosa ingiusta. Era cambiato e sarebbe stato crudele far
finta di non vederlo. Mi chiese se mi andava di fare un giro in macchina, e
accettai. Shawn voleva un gelato, così prendemmo due milkshake. La
conversazione era calma e disinvolta come lo era stata anni prima in quelle
sere buie dentro il recinto dei cavalli. Mi raccontò di come gestiva la
squadra di lavoro senza il papà, dei polmoni delicati di Peter – delle
operazioni chirurgiche e delle cannule per l’ossigeno che portava ancora di
notte.
Eravamo quasi a casa, a poco più di un chilometro e mezzo da Buck
Peak, quando Shawn girò il volante e la macchina sbandò sul ghiaccio.
Accelerò, gli pneumatici aderirono all’asfalto e la macchina imboccò una
stradina secondaria.
“Dove andiamo?” chiesi, ma quella strada portava solo in un posto.
La chiesa era buia, il parcheggio deserto.
Shawn fece il giro dello spiazzo e parcheggiò vicino all’ingresso
principale. Girò la chiave nel cruscotto e i fari si spensero. Riuscivo a
malapena a distinguere il suo profilo nel buio.
“Parli tanto con Audrey?” disse.
“Non proprio,” risposi.
Sembrò rilassarsi, poi disse: “Audrey è una bugiarda di merda”.
Guardai altrove, concentrandomi sulla guglia della chiesa, visibile alla
luce delle stelle.
“Le pianterei un proiettile in testa,” disse Shawn, e sentii il suo corpo
spostarsi verso di me. “Ma non voglio sprecare un proiettile per una brutta
puttana.”
Era fondamentale non guardarlo. Credevo quasi che, finché avrei tenuto
gli occhi sulla guglia, non mi avrebbe toccato. Quasi. Perché anche mentre
mi aggrappavo a questo pensiero, mi aspettavo di sentire le sue mani sul
collo. Sapevo che le avrei sentite, e presto, ma non osavo far nulla che
potesse spezzare l’incantesimo dell’attesa. In quel momento una parte di me
credeva, come avevo sempre creduto, che sarei stata io a rompere
l’incantesimo, che sarei stata io la causa. Quando la quiete sarebbe andata
in frantumi e la furia di mio fratello mi avrebbe aggredito, avrei saputo che
il catalizzatore, la causa, era qualcosa che avevo fatto io. C’è una speranza
in questa superstizione; c’è l’illusione del controllo.
Rimasi immobile, senza pensare né muovermi.
L’accensione scattò, il motore partì brontolando. Dalle bocchette uscì
l’aria calda.
“Ti va di vedere un film?” disse Shawn. La sua voce era tranquilla.
Guardai il mondo ruotare mentre la macchina girava su se stessa e tornava
sbandando verso la statale. “Mi sembra una bella idea,” disse.
Non dissi nulla. Non volevo muovermi o parlare per non violare lo strano
prodigio della fisica che ancora credevo mi avesse salvato. Shawn sembrò
non accorgersi del mio silenzio. Percorse l’ultimo tratto di strada verso
Buck Peak chiacchierando allegramente, quasi scherzosamente, sul fatto se
vedere o meno L’uomo che sapeva troppo poco.
9
È così che ricordo la cicatrice che Luke si era fatto col Trinciante. Ma poteva anche essersela
fatta in altro modo, mentre costruiva i tetti.
34.
Lo spessore delle cose
Nel libro sono state inserite alcune note a piè di pagina per dar voce a
certi ricordi che sono diversi dai miei. Le note relative a due episodi –
l’ustione di Luke e la caduta di Shawn dal bancale – sono particolarmente
importanti e richiedono ulteriori spiegazioni.
In entrambi i casi le discrepanze tra le versioni sono molte e svariate.
Prendiamo l’ustione di Luke. Tutti quelli che erano presenti quel giorno, o
hanno visto qualcuno che non c’era o non hanno visto qualcuno che c’era. Il
papà ha visto Luke e Luke ha visto il papà. Luke ha visto me, ma io non ho
visto il papà e il papà non ha visto me. Io ho visto Richard e Richard ha
visto me, ma Richard non ha visto il papà, e né il papà né Luke hanno visto
Richard. Come dare un senso a tante contraddizioni? Gira e rigira, alla fine
l’unica persona sulla cui presenza sono tutti d’accordo è Luke.
La caduta di Shawn dal bancale è ancora più sconcertante. Io non c’ero.
La mia descrizione dei fatti si basa sulle testimonianze di altri, ma sono
convinta che sia vera perché l’ho sentita raccontata allo stesso modo per
anni, da più persone, e perché anche Tyler ha sentito la stessa storia.
Quindici anni dopo, i suoi ricordi combaciavano con i miei. Così li ho
trascritti. Poi è comparsa quest’altra versione, secondo cui non c’è stata
nessuna attesa. L’elicottero è stato chiamato subito.
Mentirei se dicessi che questi dettagli non contano, che il “quadro
d’insieme” è lo stesso a prescindere dalla versione a cui si crede. Questi
dettagli sono importanti. O mio padre ha fatto scendere Luke dalla
montagna da solo, o non l’ha fatto; o ha lasciato Shawn sotto il sole con un
grave trauma cranico in corso, o non l’ha fatto. Da quei dettagli emerge un
padre diverso, un uomo diverso.
Non so a quale versione credere della caduta di Shawn. Cosa ancora più
strana, non so a quale versione credere dell’ustione di Luke, anche se c’ero.
Rivedo ancora la scena. Luke è sull’erba. Mi guardo attorno. Non c’è
nessun altro, non c’è l’ombra di mio padre né ho un vago ricordo della sua
presenza. Non c’è e basta. Ma nei ricordi di Luke il papà c’è, e lo sdraia
delicatamente dentro la vasca da bagno, dandogli un rimedio omeopatico
per lo shock.
Quello che posso concludere da tutto questo è una rettifica, non ai miei
ricordi ma alla mia comprensione. Siamo tutti molto più complessi di quel
che traspare dai ricordi altrui. Questo è particolarmente vero nelle famiglie.
Quando uno dei miei fratelli ha letto per la prima volta la mia descrizione
della caduta di Shawn, mi ha scritto: “Non credo che sia stato il papà a
chiamare il 911. Shawn sarebbe morto prima”. Ma forse no. Forse, dopo
aver sentito il cranio di suo figlio spaccarsi, il tonfo desolato di ossa e
cervello sull’asfalto, nostro padre non era più l’uomo che credevamo,
l’uomo che davamo per scontato. Ho sempre pensato che mio padre amasse
i suoi figli, profondamente, e ho sempre pensato che il suo odio per i dottori
fosse ancora più profondo. Ma forse mi sbaglio. Forse in quel momento,
quel momento drammatico, il suo amore soffocò sia la sua paura che il suo
odio.
Forse la vera tragedia è che avessimo questa idea di lui, io e mio fratello,
perché la sua reazione in altri momenti – in migliaia di drammi e crisi
minori – ci costringeva a vederlo così. A pensare che se fossimo caduti noi,
non sarebbe intervenuto. Che saremmo morti prima.
Siamo tutti più complessi dei ruoli che ci assegnano le storie. È una verità
che ho capito in pieno solo nel momento in cui mi sono seduta a scrivere
questo libro e ho cercato di definire su carta le persone a cui voglio bene, di
restituire il loro significato in una manciata di parole, cosa che ovviamente
è impossibile. Questo, quindi, è il massimo che posso fare: raccontare
quell’altra storia accanto a quella che ricordo. La storia di una giornata
d’estate, di un incendio, dell’odore di carne bruciata, e di un padre che aiuta
suo figlio a scendere dalla montagna.
Ringraziamenti
Nota dell’autrice
Prologo
Prima parte
1. Scegli il bene
2. La levatrice
3. Scarpe bianco crema
4. Donne apache
5. Fango onesto
6. Scudo e brocchiere
7. Il Signore provvederà
8. Piccole prostitute
9. Integro tra i suoi contemporanei
10. Scudo di piume
11. Istinto
12. Occhi da pesce
13. Silenzio nelle chiese
14. Senza terra sotto i piedi
15. Non più bambina
16. Un lupo tra le pecore
Seconda parte
17. Santificare
18. Sangue e piume
19. In principio
20. Racconti dei padri
21. Scutellaria
22. Sussurri e grida
23. Vengo dall’Idaho
24. Un cavaliere, errante
25. L’opera dello zolfo
26. Aspettando che si muovano le acque
27. Se fossi una donna
28. Pigmalione
29. Laurea
Terza parte
30. Mano dell’Onnipotente
31. Tragedia e poi farsa
32. Furore in una grande casa
33. Prodigi della fisica
34. Lo spessore delle cose
35. A ovest del sole
36. Mulini a vento
37. Scommettere sulla salvezza
38. Famiglia
39. Guardando i bufali
40. L’educazione
Nota al testo
Ringraziamenti