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Tara Westover

L’educazione
Traduzione di Silvia Rota Sperti
Titolo dell’opera originale
EDUCATED
© 2018 Second Sally, Ltd.

Traduzione dall’inglese di
SILVIA ROTA SPERTI

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano


Prima edizione digitale 2018
da prima edizione ne “I Narratori” maggio 2018

Ebook ISBN: 9788858832431

In copertina: illustrazione di Patrik Svensson.

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
A Tyler
Il passato è bello perché non ci si rende mai conto
di un’emozione quando accade. Essa si espande in
seguito, quindi non abbiamo emozioni complete
riguardo al presente, ma solo riguardo al passato.
Virginia Woolf

Credo infine che l’istruzione vada intesa come una


ricostruzione continua dell’esperienza, che il
processo e il fine dell’istruzione siano la stessa
cosa.
John Dewey
Nota dell’autrice

Questo non è un libro sui mormoni né su nessun altro credo religioso. È


la storia di diverse persone, alcune credenti e altre no, alcune buone e altre
meno. Ciò non signica che per l’autrice ci sia alcun collegamento, positivo
o negativo, tra le due cose.
I nomi qui elencati in ordine alfabetico sono pseudonimi: Aaron, Audrey,
Benjamin, Emily, Erin, Faye, Gene, Judy, Peter, Robert, Robin, Sadie,
Shannon, Shawn, Susan, Vanessa.
Prologo

Sono in piedi sulla carrozza rossa del treno che è abbandonata accanto
alla stalla. Si alza il vento. I capelli mi frustano la faccia e sento un brivido
freddo nel colletto aperto della camicia. I venti sono forti da queste parti,
sembrano il respiro stesso della montagna. Più in basso la valle è tranquilla,
impassibile. Ma la nostra fattoria danza: le pesanti conifere ondeggiano
piano, mentre l’artemisia e i cardi selvatici tremolano e s’inchinano a ogni
raffica o vuoto d’aria. Dietro di me si alza una piccola collina che va a
cucirsi alle pendici della montagna. Se guardo in alto posso vedere la
sagoma scura della Principessa indiana.
La collina è un manto di grano selvatico. Se le conifere e l’artemisia sono
solisti, il campo di grano è un corpo di ballo: ciascun gambo segue gli altri
in slanci improvvisi, come un milione di ballerine che si piegano una dopo
l’altra quando le forti raffiche investono le loro teste dorate. La forma di
questo solco dura solo un istante, e allora si ha l’impressione di poter
vedere il vento.
Girandomi verso casa nostra, sulla collina, vedo dei movimenti diversi,
alte ombre che lottano contro le correnti. I miei fratelli sono svegli e stanno
testando le condizioni del tempo. M’immagino mia madre ai fornelli, alle
prese coi suoi pancake di crusca. Mio padre sarà curvo vicino alla porta sul
retro ad allacciarsi gli scarponi dalla punta d’acciaio e a infilare le mani
callose dentro i guanti da saldatore. Sulla statale di sotto, l’autobus della
scuola corre senza fermarsi.
Ho solo sette anni ma so che è questo, più di ogni altra cosa, a rendere
diversa la mia famiglia: noi non andiamo a scuola.
Il papà ha paura che lo Stato ci costringerà ad andarci, ma è impossibile
perché lo Stato non sa di noi. Dei sette figli dei miei genitori, quattro non
hanno un certificato di nascita. Non abbiamo libretti sanitari perché siamo
nati in casa e non abbiamo mai visto un dottore o un’infermiera.1 Non
abbiamo pagelle scolastiche perché non abbiamo mai messo piede in una
scuola. Quando avrò nove anni riceverò una dichiarazione tardiva di
nascita, ma per il momento, per lo Stato dell’Idaho e il governo federale, io
non esisto.
Anche se, ovviamente, esistevo. Ero cresciuta preparandomi ai Giorni
dell’Abominio, quando il sole si sarebbe oscurato e la luna avrebbe
grondato un liquido simil-sangue. Passavo le estati a inscatolare pesche e
gli inverni a fare la rotazione delle provviste. Quando il Regno dell’Uomo
sarebbe finito, la mia famiglia avrebbe continuato indisturbata.
Ero stata istruita ai ritmi della montagna, ritmi per cui il cambiamento
non era mai definitivo ma solo ciclico. Lo stesso sole sorgeva ogni mattina,
illuminava la valle e poi scendeva dietro il picco. Le nevi che cadevano
d’inverno si scioglievano sempre in primavera. Le nostre vite erano un
ciclo, come il ciclo del giorno e il ciclo delle stagioni: cicli di continuo
cambiamento che, una volta completi, indicavano che non era cambiato un
bel niente. Credevo che la mia famiglia facesse parte di questo schema
immortale, che fossimo eterni, in un certo senso. Ma l’eternità apparteneva
solo alla montagna.
Mio padre ci raccontava spesso una storia a proposito del picco. Era una
cima vecchia e maestosa, simile a una cattedrale. La catena aveva altre cime
più alte e imponenti, ma Buck Peak era la più bella. La sua base si
allungava per circa un chilometro e mezzo e la sua sagoma scura si alzava
da terra in una guglia perfetta. Da lontano si poteva vedere una figura di
donna impressa sul versante: le gambe erano due grossi burroni, i capelli
una spruzzata di pini che si aprivano a ventaglio sopra la cresta
settentrionale. Aveva un’aria imponente e slanciava una gamba in avanti
con un movimento deciso che faceva pensare più a una falcata che a un
passo.
Mio padre la chiamava la Principessa indiana. Compariva ogni anno
all’inizio del disgelo, rivolta a sud, per guardare i bufali che facevano
ritorno nella valle. Il papà diceva che gli indiani nomadi leggevano nel suo
arrivo un segno della primavera, il segnale che la neve in montagna aveva
cominciato a sciogliersi, l’inverno era finito ed era ora di tornare a casa.
Tutte le storie di mio padre parlavano della nostra montagna, della nostra
valle, del nostro piccolo angolo smozzicato di Idaho. Non mi disse mai cosa
fare se un giorno avessi lasciato la montagna, se avessi attraversato oceani e
continenti e mi fossi trovata in una terra straniera, dove non potevo più
cercare la Principessa all’orizzonte. Non mi disse mai come avrei fatto a
capire quand’era ora di tornare a casa.
1
Tranne mia sorella Audrey, che da piccola si era rotta entrambe le braccia e una gamba, e allora
era stata portata a mettere il gesso.
Prima parte
1.
Scegli il bene

Il ricordo più vivo che ho non è un ricordo. È qualcosa che immaginavo e


che poi ho iniziato a ricordare come se fosse successo. Questo ricordo si è
formato quando avevo cinque anni, quasi sei, da una storia che mio padre
raccontava in maniera così dettagliata che io, i miei fratelli e le mie sorelle
ne avevamo tratto ognuno una propria versione cinematografica, con tanto
di grida e spari. Nella mia c’erano i grilli. È questo il rumore che sento
mentre la mia famiglia si acquatta in cucina, al buio, per nascondersi dai
Federali che hanno circondato la casa. Una donna cerca di prendere un
bicchiere d’acqua e la sua sagoma è illuminata dalla luna. Uno sparo
riecheggia come un colpo di frusta e la donna cade a terra. Nel mio ricordo
è sempre la mamma che cade, e ha in braccio un neonato.
Certo, il neonato è impossibile: sono la più piccola dei sette figli di mia
madre. Ma come ho detto, niente di tutto questo è successo.
Una sera, un anno dopo che mio padre ci aveva raccontato quella storia,
ci riunimmo a sentirlo leggere un brano di Isaia, una profezia su
Emmanuele. Era seduto sul nostro divano color senape con una grossa
Bibbia aperta in grembo. La mamma era accanto a lui. Noi eravamo sparsi
qua e là sulla moquette marrone rovinata.
“Egli mangerà burro e miele,” recitò in tono basso e monotono, stanco
dopo una lunga giornata passata a spostare rottami. “Finché egli sappia
riprovare il male e scegliere il bene.”
Ci fu una pausa carica di sigificato. Restammo seduti in silenzio.
Mio padre non era alto ma sapeva imporre attenzione. Aveva un certo
portamento, la solennità di un oracolo. Le sue mani grosse e legnose – le
mani di un uomo che aveva faticato tutta la vita – stringevano saldamente la
Bibbia.
Lesse il brano una seconda volta, poi una terza, una quarta. A ogni
ripetizione il suo tono di voce si faceva più alto. I suoi occhi, pochi istanti
prima gonfi di fatica, adesso erano aperti e vigili. Qui c’è un insegnamento
divino, disse. Avrebbe chiesto al Signore.
La mattina dopo il papà svuotò il nostro frigorifero di latte, yogurt e
formaggio e di sera tornò a casa con quasi trenta chili di miele sul furgone.
“Isaia non dice cos’è male, se il burro o il miele,” disse sorridendo,
mentre i miei fratelli trascinavano i mastelli bianchi di miele in taverna.
“Ma se chiedi, il Signore te lo dirà!”
Quando il papà lesse il versetto a sua madre, lei gli rise in faccia. “Ho del
sale nella dispensa,” disse. “Ti conviene prenderlo. Te ne manca un po’ in
quella zucca.”
La nonna aveva un volto magro e ossuto e una collezione infinita di finti
gioielli indiani, tutti argento e turchese, che le pendevano in massa dal collo
e dalle dita gracili. Dato che viveva più in basso rispetto a noi, vicino alla
statale, la chiamavamo “la nonna sotto la collina”. Questo serviva a
distinguerla dalla madre di nostra madre, che chiamavamo “la nonna in
città”, perché viveva circa venticinque chilometri più a sud, nell’unica città
della contea, che aveva un solo semaforo e un negozio di alimentari.
Il papà e sua madre andavano d’accordo come due gatti a cui avessero
legato insieme la coda. Potevano parlare per una settimana e litigare su
tutto, ma erano uniti da un comune attaccamento alla montagna. La famiglia
di mio padre viveva ai piedi di Buck Peak da mezzo secolo. Le figlie della
nonna si erano sposate ed erano andate via, ma mio padre era rimasto. Si
era costruito una brutta casa gialla, mai completata del tutto, poco più in
alto rispetto a quella di sua madre, ai piedi della montagna, e aveva piazzato
una discarica – una delle tante – accanto al suo prato curato.
Litigavano ogni giorno per il disordine della discarica, ma più spesso per
noi bambini. La nonna pensava che dovessimo andare a scuola e non, come
diceva lei, “vagare per la montagna come dei selvaggi”. Il papà diceva che
la scuola pubblica era una tattica dello Stato per allontanare i bambini da
Dio. “Tanto vale che consegni i miei figli al diavolo in persona,” diceva, “se
devo mandarli a quella scuola.”
Dio disse al papà di diffondere la rivelazione tra quanti vivevano e
coltivavano la terra all’ombra di Buck Peak. Di domenica si riunivano quasi
tutti in chiesa, una costruzione color noce poco lontano dalla statale, con il
piccolo e sobrio campanile tipico delle chiese mormone. Il papà prendeva
da parte gli altri padri a mano a mano che si alzavano dalle loro panche.
Cominciò con suo cugino Jim, che ascoltò benevolmente mentre il papà
sventolava la Bibbia e lo istruiva sulla peccaminosità del latte. Jim sorrise,
gli diede una pacca sulla spalla e disse che nessun Dio giusto avrebbe
negato a un uomo un bel gelato casalingo alla fragola in un caldo
pomeriggio d’estate. La moglie di Jim lo prese per un braccio. Quando ci
passò accanto sentii una zaffata di letame. Poi mi ricordai: Jim era il
proprietario del grosso caseificio che c’era poco meno di due chilometri a
nord di Buck Peak.
Dopo che il papà ebbe cominciato a predicare contro il latte, la nonna se
ne riempì il frigorifero. Lei e il nonno bevevano solo latte scremato ma nel
giro di un momento ne avevano di tutti i tipi: al due percento, intero,
perfino latte al cioccolato. Per la nonna sembrava una questione di
principio.
Le colazioni diventarono una prova di fedeltà. Ogni mattina la mia
famiglia si sedeva attorno a un grande tavolo di quercia rossa rilavorata e
mangiava fiocchi ai sette cereali con miele e melassa, o pancake ai sette
cereali, sempre con miele e melassa. Dato che eravamo in nove non c’erano
mai pancake pronti per tutti. Per me andavano bene anche i fiocchi, a patto
di poterci aggiungere il latte e lasciare che il liquido cremoso si spandesse
sui cereali e li inzuppasse. Ma da quando c’era stata la rivelazione usavamo
l’acqua. Era come mangiare una scodella di fango.
Ben presto cominciai a pensare a tutto il latte che andava a male nel frigo
della nonna. Poi presi l’abitudine di saltare la colazione ogni mattina e
andare dritta alla stalla. Davo la sbobba ai maiali e riempivo la mangiatoia
per le mucche e i cavalli, quindi saltavo la staccionata del recinto, giravo
attorno alla stalla ed entravo in casa della nonna dalla porta laterale.
Una di quelle mattine, mentre ero seduta al bancone a guardarla versare i
cornflake dentro una scodella, la nonna mi disse: “Ti piacerebbe andare a
scuola?”.
“No, non mi piacerebbe,” risposi.
“Come fai a saperlo?” ringhiò lei. “Non hai mai provato.”
Versò il latte e mi passò la scodella, poi si sedette sul bordo del bancone,
proprio di fronte a me, e mi guardò prenderne delle gran cucchiaiate.
“Domani partiamo per l’Arizona,” mi disse, ma lo sapevo già. Lei e il
nonno andavano sempre in Arizona quando cominciava a far freddo. Il
nonno diceva che era troppo vecchio per gli inverni nell’Idaho; gli facevano
male le ossa. “Se ti alzi presto presto,” disse la nonna, “verso le cinque, ti
portiamo con noi. Ti manderemo a scuola.”
Mi spostai sullo sgabello. Cercai di immaginarmi la scuola ma non ci
riuscii. Pensai invece al catechismo, che frequentavo ogni settimana e che
odiavo. Un bambino di nome Aaron aveva detto alle altre bambine che non
sapevo leggere perché non andavo a scuola e adesso quelle non mi
parlavano più.
“Il papà ha detto che posso venire?”
“No,” rispose la nonna. “Ma quando se ne accorgerà saremo già lontani.”
Mise la mia scodella dentro il lavandino e guardò fuori dalla finestra.
La nonna era una forza della natura – impaziente, aggressiva, sicura di sé.
Guardarla significava farsi da parte. Si tingeva i capelli di nero e questo
accentuava i suoi lineamenti già severi, soprattutto le sopracciglia, che si
disegnava ogni mattina in due spesse arcate nero-inchiostro. Se le faceva un
po’ troppo larghe e questo dava al suo viso un’aria tirata. Erano anche un
po’ troppo alte e le dipingevano sul volto un’espressione annoiata, quasi
sarcastica.
“Dovresti andare a scuola,” disse.
“Il papà non ti dirà di riportarmi qui?”
“Tuo padre non può dirmi di fare un bel niente.” La nonna si alzò e
raddrizzò le spalle. “Se ti vuole dovrà venirti a prendere.” Esitò, e per un
momento sembrò vergognarsi. “Ho parlato con lui ieri. Non potrà venirti a
prendere per un bel po’ di tempo. È indietro con quel capannone che sta
costruendo in città. Non può fare i bagagli e venire in Arizona, non finché il
tempo regge e lui e i ragazzi possono lavorare fino a tardi.”
Era un bel piano. Le settimane prima che cominciasse a nevicare, il papà
lavorava sempre dall’alba al tramonto. Raccattava ferrivecchi e costruiva
fienili cercando di mettere da parte abbastanza soldi per l’inverno, quando
c’era poco lavoro. Anche se sua madre scappava con la sua figlia più
piccola, non avrebbe smesso di lavorare finché il muletto non sarebbe stato
coperto di ghiaccio.
“Prima di partire devo dar da mangiare agli animali,” dissi. “Capirà che
sono andata via se le mucche sfondano il recinto per cercare l’acqua.”
Quella notte non chiusi occhio. Rimasi seduta sul pavimento della cucina
a guardare le ore passare sull’orologio. L’una. Le due. Le tre.
Alle quattro mi alzai e misi i miei stivali accanto alla porta sul retro.
Erano tutti sporchi di letame e di sicuro la nonna non me li avrebbe fatti
portare in macchina. Mi sembrava già di vederli, abbandonati sulla veranda
di casa sua, mentre scappavo scalza in Arizona.
Provai a immaginare cosa sarebbe successo quando la mia famiglia
avrebbe visto che non c’ero. Spesso io e mio fratello Richard passavamo
tutto il giorno in montagna, quindi probabilmente non se ne sarebbe accorto
nessuno fino a sera, quando Richard sarebbe tornato a casa per cena e io no.
M’immaginai i miei fratelli che uscivano di corsa per venirmi a cercare.
Prima avrebbero guardato alla discarica, dove avrebbero sollevato delle
lastre di ferro per vedere se ero rimasta imprigionata sotto qualche lamiera.
Poi si sarebbero spostati più in là, rastrellando la fattoria, arrampicandosi
sugli alberi e sul sottotetto della stalla. Infine sarebbero andati verso la
montagna.
A quel punto sarebbe stato quasi buio, quel momento che precede la notte
in cui il paesaggio è visibile solo in tinte scure e semiscure e le cose si
percepiscono più che vederle. M’immaginai i miei fratelli che si
sparpagliavano per la montagna e cercavano nell’oscurità dei boschi.
Nessuno avrebbe fiatato e tutti avrebbero pensato la stessa cosa. Potevi
avere guai seri in montagna. C’erano precipizi che comparivano
all’improvviso, i cavalli selvaggi del nonno che correvano liberi su spessi
banchi di cicuta acquatica, e non pochi serpenti a sonagli. Avevamo già
fatto una ricerca simile quando ci era sparito un vitello dalla stalla. Nella
valle potevi trovare un animale ferito; in montagna lo trovavi morto.
M’immaginai la mamma in piedi sulla soglia sul retro che passava gli
occhi lungo il crinale scuro della montagna, e mio padre che tornava a casa
per dirle che non mi avevano trovato. Mia sorella Audrey avrebbe proposto
di chiedere alla nonna e la mamma avrebbe detto che la nonna era partita
quella mattina per l’Arizona. Queste parole sarebbero rimaste sospese
nell’aria, poi tutti avrebbero capito. M’immaginai la faccia di mio padre, i
suoi occhi scuri che si stringevano, la piega amareggiata delle sue labbra
mentre si voltava verso mia madre. “Credi che sia scappata?”
La sua voce riecheggiò bassa e malinconica. Poi fu soffocata dai rumori
di un altro ricordo inventato – grilli, poi spari, poi silenzio.
Era una vicenda famosa, avrei scoperto in seguito, come Wounded Knee
o Waco. Ma quando mio padre ci raccontò quella storia per la prima volta
sembrava che non la conoscesse nessuno al mondo a parte noi.
Cominciò verso la fine della stagione dell’inscatolamento, quella stagione
che gli altri bambini probabilmente chiamavano “estate”. La mia famiglia
passava sempre i mesi caldi a inscatolare scorte di frutta perché il papà
diceva che ne avremmo avuto bisogno per i Giorni dell’Abominio. Una
sera, quando rientrò dalla discarica, sembrava inquieto. Durante la cena
misurò a grandi passi la cucina e quasi non toccò cibo. Dovevamo avere
tutto pronto, disse. C’era poco tempo.
Passammo il giorno dopo a bollire e sbucciare pesche. Entro sera
avevamo riempito decine e decine di barattoli di vetro, che disponemmo in
file ordinate ancora caldi di pentola a pressione. Il papà ci guardò lavorare,
contò i barattoli e mormorò qualcosa tra sé, poi si girò verso la mamma e
disse: “Non bastano”.
Quella sera il papà annunciò una riunione di famiglia e ci sedemmo
attorno al tavolo della cucina, che era sufficientemente lungo e largo da
ospitarci tutti. Avevamo diritto di sapere cosa ci aspettava, disse. Era in
piedi a capotavola. Noi eravamo appollaiati sulle panche, gli occhi fissi
sulle robuste assi di quercia rossa.
“C’è una famiglia poco lontano da qui,” disse. “Sono combattenti per la
libertà. Non vogliono che lo Stato faccia il lavaggio del cervello ai loro
bambini nelle scuole pubbliche, così i Federali sono venuti a cercarli.” Fece
un respiro lungo e lento. “I Federali hanno circondato la casa della famiglia,
li hanno tenuti chiusi là dentro per settimane e quando un bambino
affamato, un ragazzino, è sgattaiolato fuori per andare a caccia, l’hanno
ammazzato.”
Guardai i miei fratelli. Era la prima volta che vedevo la paura sul volto di
Luke.
“Sono ancora in quella casa,” continuò il papà. “Tengono le luci spente e
strisciano sul pavimento, lontani da porte e finestre. Non so quanto cibo
abbiano. Forse moriranno di fame prima che i Federali si arrendano.”
Nessuno disse nulla. Alla fine Luke, che aveva dodici anni, chiese se non
potevamo aiutarli. “No,” rispose il papà. “Non si può. Sono intrappolati
nella loro casa. Ma hanno dei fucili e potete scommetterci che è per questo
che i Federali non hanno fatto irruzione.” Si fermò e si sedette sulla panca
con dei movimenti lenti e rigidi. Sembrava vecchio, esausto. “Non
possiamo fare niente per loro, ma possiamo fare qualcosa per noi. Quando i
Federali verranno a Buck Peak, saremo pronti.”
Quella sera il papà scese in taverna e portò di sopra una pila di vecchi
zaini militari. Disse che erano i nostri zaini “per la fuga”. Passammo la sera
a riempirli di cose – rimedi erboristici, filtri per l’acqua, pietre focaie e
acciarini. Il papà aveva comprato diverse scatole di razioni militari e ne
infilammo quante più possibile nei nostri zaini, pensando al momento in
cui, dopo esserci nascosti tra i pruni selvatici vicino al torrente, le avremmo
consumate. Alcuni miei fratelli misero dentro anche dei fucili. Io avevo solo
un coltellino, ma anche così alla fine il mio zaino era grosso quanto me.
Chiesi a Luke di aiutarmi a metterlo su una mensola del mio armadio, ma il
papà disse che dovevo averlo vicino per ogni evenienza, così lo tenni con
me nel letto.
Mi esercitai a infilarmi lo zaino e a correre con quel coso sulla schiena.
Non volevo rimanere indietro. M’immaginavo la nostra fuga: una corsa di
mezzanotte verso la sicurezza della Principessa. Sapevo che la montagna
era dalla nostra parte. Con chi la conosceva poteva essere gentile, ma per gli
intrusi era piena di insidie e questo giocava a nostro favore. Ma se
dovevamo nasconderci in montagna all’arrivo dei Federali, non capivo che
bisogno c’era di inscatolare tutte quelle pesche. Non potevamo tirarci dietro
quei barattoli pesanti sul picco. O forse le pesche ci servivano per barricarci
in casa, come gli Weaver, e combattere da lì?
Sembrava un’opzione probabile, anche perché alcuni giorni dopo il papà
tornò a casa con più di una dozzina di fucili militari in eccedenza, perlopiù
SKS, le sottili baionette argentate ripiegate con cura sotto le canne. I fucili
arrivarono dentro a delle strette scatole di latta e ricoperti di Cosmoline, una
sostanza brunastra della stessa consistenza del lardo che poi andava tolta.
Una volta puliti, mio fratello Tyler ne scelse uno, lo posò su un telo di
plastica nera e gliel’avvolse attorno, sigillandolo con metri di nastro
isolante argentato. Poi si mise quel fagotto su una spalla, scese lungo la
collina e l’appoggiò per terra accanto alla carrozza rossa del treno. Quindi
cominciò a scavare. Quando la buca fu grossa abbastanza, ci buttò dentro il
fucile. Lo guardai ricoprirlo di terra, i muscoli gonfi per lo sforzo e la
mandibola stretta.
Qualche tempo dopo il papà comprò un macchinario per fabbricare
proiettili con le cartucce usate. Disse che ora potevamo resistere di più.
Pensai al mio zaino “per la fuga” che mi aspettava vicino al letto, al fucile
nascosto vicino alla carrozza del treno e cominciai a preoccuparmi per il
macchinario fabbrica-proiettili. Era enorme e imbullonato a un sostegno di
ferro in taverna. Se ci attaccavano di sorpresa, pensai, non avremmo avuto
il tempo di prenderlo. Forse dovevamo sotterrare anche quello insieme al
fucile.
Continuammo a inscatolare pesche. Non ricordo quanti giorni passarono
o quanti barattoli avevamo aggiunto alle nostre scorte, quando il papà
decise di andare avanti con la storia.
“Hanno sparato a Randy Weaver,” disse con voce debole, spezzata. “È
uscito di casa per prendere il corpo di suo figlio e i Federali l’hanno fatto
fuori.” Non avevo mai visto piangere mio padre, ma ora le lacrime gli
grondavano dal naso. Non se le asciugava, le lasciava cadere sulla camicia e
basta. “Sua moglie ha sentito lo sparo ed è corsa alla finestra con un
neonato al petto. Poi è arrivato il secondo sparo.”
La mamma era seduta a braccia conserte. Teneva una mano sul petto e
con l’altra si copriva la bocca. Fissai il linoleum punteggiato mentre il papà
continuava. Il neonato era stato tolto dalle braccia della madre, il volto
imbrattato dal sangue di lei.
Fino a quel momento una parte di me aveva voluto che arrivassero i
Federali, aveva sognato l’avventura. Adesso avevo paura, una paura cane.
M’immaginavo i miei fratelli acquattati al buio, che passavano le mani
sudate sui fucili. E la mamma che, stanca e assetata, si scostava dalla
finestra. Mi vedevo distesa sul pavimento, immobile e zitta, ad ascoltare
l’acuto frinire dei grilli nel campo. Poi vedevo la mamma che si alzava e
allungava una mano verso il rubinetto della cucina. Un bagliore improvviso,
spari assordanti, e la mamma cadeva a terra. Correvo a prenderle il neonato
dalle braccia.
Il papà non ci disse mai come andò a finire quella storia. Non avevamo né
la tv né la radio, quindi forse non lo sapeva nemmeno lui. L’ultima cosa che
gli sentii dire fu: “I prossimi potremmo essere noi”.
Quelle parole mi sarebbero rimaste dentro. Le avrei sentite nel frinire dei
grilli, nello squish delle pesche che cadevano dentro i barattoli di vetro, nel
tintinnio metallico di un SKS che veniva pulito. Le sentivo ogni mattina
quando passavo accanto alla carrozza del treno e mi fermavo a guardare la
stellaria e i cardi cresciuti là dove Tyler aveva sotterrato il fucile. Molto
tempo dopo, quando il papà si sarebbe dimenticato della rivelazione di Isaia
e la mamma avrebbe ricominciato a mettere in frigo bricchi di latte Western
Family al 2%, mi sarei ricordata degli Weaver.
Erano quasi le cinque di mattina.
Tornai in camera mia, la testa piena di grilli e di spari. Nel letto di sotto,
Audrey stava russando, un ronzio lieve e soddisfatto che m’invitava a fare
altrettanto. Invece salii sul mio letto, incrociai le gambe e guardai fuori
dalla finestra. Passarono le cinque. Poi le sei. Alle sette vidi uscire la nonna.
Camminava su e giù per la veranda, voltandosi di tanto in tanto a guardare
verso casa nostra. Poi lei e il nonno salirono in macchina e presero la
statale.
Quando la macchina si fu allontanata scesi dal letto e mangiai una
scodella di crusca e acqua. Di fuori fui accolta da Kamikaze, la capra di
Luke, che mi mordicchiò la camicia mentre andavo alla stalla. Passai
accanto al go-kart che stava costruendo Richard a partire da un vecchio
tagliaerba. Diedi la sbobba ai maiali, riempii la mangiatoia e portai i cavalli
del nonno su un nuovo pascolo.
Quand’ebbi finito mi arrampicai sulla carrozza del treno e guardai la
vallata. Era facile immaginare che la carrozza si muovesse, si allontanasse a
tutta velocità, che la valle sparisse da un momento all’altro dietro di me. Era
una fantasia che avevo proiettato per ore e ore nella mia mente, ma quel
giorno la bobina sembrava inceppata. Mi girai verso ovest, dall’altra parte
rispetto ai campi, e guardai il picco.
La Principessa raggiungeva il massimo splendore in primavera, quando le
conifere affioravano dalla neve e i loro aghi verde scuro sembravano quasi
neri in confronto ai marroni rossicci del terreno e delle cortecce. Adesso era
autunno. Riuscivo ancora a vederla ma cominciava a sbiadire: i rossi e i
gialli dell’estate morente velavano la sua sagoma scura. Tra non molto
avrebbe nevicato. Nella valle la prima neve si sarebbe sciolta ma in
montagna sarebbe rimasta, seppellendo la Principessa fino alla primavera
seguente, quando sarebbe ricomparsa, vigile e attenta.
2.
La levatrice

“Hai della calendula?” disse la levatrice. “Mi serve anche della lobelia e
dell’amamelide.”
Era seduta al bancone della cucina e guardava la mamma rovistare nei
nostri armadietti di betulla. In mezzo a loro, sul bancone, c’era una bilancia
elettrica e ogni tanto la mamma l’usava per pesare le foglie secche. Era
primavera. L’aria del mattino era fredda nonostante il sole splendente.
“La settimana scorsa ho fatto della calendula nuova,” disse la mamma.
“Tara, corri a prenderla.”
Recuperai la tintura, che fu infilata dentro un sacchetto della spesa
insieme alle erbe secche. “Serve altro?” La mamma rise. Una risata acuta,
nervosa. La levatrice la intimidiva, e quando mia madre s’intimidiva
diventava come senza peso e sfrecciava da tutte le parti ogni volta che
l’altra faceva uno dei suoi gesti lenti e sicuri.
La levatrice guardò la sua lista. “A posto così.”
Era una donna bassa e grassottella di quasi cinquant’anni, con undici figli
e un porro color ruggine sul mento. Aveva i capelli più lunghi che avessi
mai visto, una cascata color topo di campagna che le arrivava fino alle
ginocchia quando si scioglieva la crocchia tesa sopra la testa. I suoi
lineamenti erano marcati, la voce rauca e autorevole. Non aveva nessuna
licenza, nessun attestato. Era una levatrice solo perché lo diceva lei, e tanto
bastava.
La mamma sarebbe diventata la sua aiutante. Ricordo che le guardai quel
primo giorno, confrontandole. La mamma, con la sua pelle color petalo di
rosa e i capelli ondulati che le ricadevano morbidamente sulle spalle. Le sue
palpebre luccicavano. Si truccava ogni mattina e se non faceva in tempo
passava tutto il giorno a scusarsi, come se non truccandosi facesse un torto
agli altri.
La levatrice sembrava non pensare al proprio aspetto da una decina
d’anni, e coi suoi modi ti faceva pure sentire un’idiota per averlo notato.
Se ne andò con un cenno, le braccia piene delle erbe della mamma.
La volta dopo venne insieme a sua figlia Maria, che le rimase appresso
imitando i suoi movimenti, con un neonato stretto al suo corpicino di nove
anni. La guardai speranzosa. Non avevo conosciuto molte altre bambine
come me, che non andavano a scuola. Mi avvicinai timidamente, cercando
di attirare la sua attenzione, ma era tutta concentrata ad ascoltare sua madre,
che stava spiegando come bisognasse somministrare il viburno e la cardiaca
per alleviare le contrazioni post-parto. Maria faceva dei piccoli cenni di
assenso con la testa. Non staccava un momento gli occhi dal volto di sua
madre.
Mi trascinai per il corridoio verso camera mia, da sola, ma quando mi
voltai a chiudere la porta la trovai là, col neonato ancora sul fianco. Era
grosso e paffuto, e Maria doveva piegare il busto di lato per fare da
contrappeso.
“Ci vai?” disse.
Non capii la domanda.
“Io vado sempre,” continuò. “Hai mai visto nascere un bambino?”
“No.”
“Io sì, un sacco di volte. Lo sai cosa vuol dire quando un bambino è
podalico?”
“No.” Lo dissi in tono di scusa.
La prima volta che la mamma partecipò a un parto stette via due giorni.
Rientrò come un soffio di vento dalla porta sul retro, così pallida da
sembrare traslucida, e andò lentamente verso il divano, dove si fermò,
tremante. “È stato orribile,” sussurrò. “Anche Judy ha detto che si è
spaventata.” Chiuse gli occhi. “Non sembrava spaventata.”
Riposò per diversi minuti finché riprese un po’ di colore, poi raccontò
cos’era successo. Il travaglio era stato lungo, estenuante, e quando alla fine
il bambino era uscito la madre si era lacerata tutta. C’era sangue ovunque.
L’emorragia non si fermava. Era stato allora che la mamma si era accorta
che il bambino aveva il cordone ombelicale attorcigliato attorno al collo.
Era paonazzo, così immobile che sembrava morto. Mentre raccontava
questi dettagli la mamma impallidì in volto, finché si tirò su a sedere,
bianca come un uovo, le braccia strette al corpo.
Audrey le preparò una camomilla e la mettemmo a letto. Quando il papà
tornò a casa, quella sera, la mamma gli raccontò la stessa storia. “Non posso
farlo,” disse. “Judy sì, ma io no.” Lui le mise un braccio sulle spalle. “È il
volere del Signore,” disse. “E a volte il Signore chiede delle cose difficili.”
La mamma non voleva fare la levatrice. Era stata un’idea del papà, una
delle sue strategie per l’autosufficienza. Per lui non c’era niente di peggio
che dipendere dallo Stato. Diceva che un giorno saremmo stati
completamente autonomi. Non appena avesse trovato i soldi, aveva
intenzione di costruire un condotto per portare giù l’acqua dalla montagna,
poi avrebbe installato dei pannelli solari in tutta la fattoria. In questo modo
avremmo avuto acqua ed elettricità per la Fine dei Giorni, quando tutti gli
altri avrebbero bevuto dalle pozzanghere e sarebbero stati al buio. La
mamma era un’erborista e si sarebbe occupata della nostra salute, e se
imparava a fare la levatrice avrebbe fatto nascere i nipotini quando sarebbe
arrivato il momento.
La levatrice venne a trovare la mamma alcuni giorni dopo il primo parto.
Portò anche Maria, che mi seguì di nuovo nella mia stanza. “Purtroppo a tua
mamma ne è capitato uno difficile la prima volta,” disse sorridendo. “Il
prossimo sarà più facile.”
Alcune settimane dopo ci fu modo di verificarlo. Era mezzanotte. Dato
che non avevamo il telefono, la levatrice chiamò la nonna sotto la collina,
che salì da noi, stanca e irritata, e ringhiò che per la mamma era ora di
andare a “giocare al dottore”. Si fermò solo pochi minuti ma svegliò l’intera
casa. “Non capisco perché voialtri non potete andare all’ospedale come
tutti,” gridò, e uscì sbattendosi la porta alle spalle.
La mamma prese la sua borsa da notte, la cassetta per gli attrezzi che
aveva riempito di boccette scure di tintura, e uscì lentamente di casa. Ero
agitata e dormii male, ma quando la vidi tornare la mattina dopo, coi capelli
arruffati e delle borse scure sotto gli occhi, aveva un gran sorriso sulle
labbra. “Era una bambina,” disse. Poi andò a letto e dormì tutto il giorno.
Passarono dei mesi in questo modo. La mamma usciva a qualsiasi ora del
giorno e della notte e tornava a casa tremante e contenta in cuor suo che
fosse finita. Quando cominciarono a cadere le foglie aveva partecipato a
una decina di parti. Alla fine dell’inverno il numero era salito a diverse
decine. In primavera disse a mio padre che era abbastanza, che sapeva far
nascere un bambino se necessario, se arrivava la Fine del Mondo. Ora
poteva smettere.
Il papà si rabbuiò a quelle parole. Le ricordò che era il volere di Dio e che
sarebbe stata una benedizione per la nostra famiglia. “Devi fare la
levatrice,” disse. “Devi far nascere i bambini da sola.”
La mamma scrollò la testa. “Non posso,” disse. “E poi chi vuoi che mi
chiami se possono chiamare Judy?”
Aveva sfidato Dio, attirando il malocchio. Poco tempo dopo, Maria mi
disse che suo padre aveva trovato un nuovo lavoro nel Wyoming. “La
mamma dice che tua madre dovrebbe prendere il suo posto,” spiegò. Nella
mia mente si formò un’immagine entusiasmante. Sarei diventata come
Maria, la figlia della levatrice, esperta e sicura di sé. Ma quando mi voltai a
guardare mia madre, in piedi accanto a me, quell’immagine evaporò.
Fare la levatrice non era illegale nello Stato dell’Idaho, ma non era ancora
un mestiere riconosciuto ufficialmente. Se qualcosa andava storto, una
levatrice rischiava di essere accusata di esercitare la professione medica
senza permesso. Se qualcosa andava molto storto, rischiava di essere
perseguita penalmente per omicidio preterintenzionale e di farsi pure un
periodo in carcere. Dato che poche donne erano disposte a correre questo
rischio, non c’erano molte levatrici in giro. Il giorno che Judy partì per il
Wyoming, la mamma diventò l’unica levatrice nel raggio di centocinquanta
chilometri.
A casa nostra cominciarono ad arrivare donne col pancione che
supplicavano la mamma di aiutarle a partorire. Lei rispondeva
accigliandosi. Una di queste donne si sedette sul bordo del nostro divano
giallo sbiadito e, con gli occhi bassi, spiegò che suo marito era disoccupato
e non avevano i soldi per l’ospedale. La mamma rimase seduta in silenzio
con lo sguardo fisso, le labbra strette e un’espressione momentaneamente
severa sul volto. Poi l’espressione svanì e, con la sua voce sommessa,
rispose: “Non sono una levatrice, solo un’aiutante”.
La donna tornò più volte, sedendosi sempre sul bordo del divano e
descrivendo le nascite senza complicazioni degli altri suoi figli. Spesso,
quando il papà vedeva l’automobile della donna dalla discarica, entrava in
casa silenziosamente dalla porta sul retro con la scusa di prendere l’acqua.
Poi si fermava in cucina e beveva dei sorsi lenti e silenziosi, tendendo
l’orecchio verso il salotto. Ogni volta che la donna se ne andava, il papà
quasi non stava più nella pelle dall’eccitazione, tanto che alla fine, cedendo
alla disperazione della donna, all’entusiasmo del papà o a entrambe le cose,
la mamma si arrese.
Il parto andò bene. Poi la donna aveva un’amica che era pure lei incinta, e
la mamma fece nascere anche quel bambino. Poi quella donna aveva
un’amica... La mamma prese un’aiutante. In men che non si dica stava
facendo nascere così tanti bambini che io e Audrey passavamo le giornate
in giro in macchina per la valle insieme a lei a guardarla eseguire esami
prenatali e prescrivere erbe. Diventò per noi un’insegnante come,
occupandosi raramente della nostra istruzione domestica, non lo era mai
stata. Ci spiegava ogni rimedio e ogni cura palliativa. Se una donna aveva la
pressione alta bisognava darle il biancospino per stabilizzare il collagene e
dilatare i vasi sanguigni coronarici. Se un’altra aveva le contrazioni precoci
serviva un bagno allo zenzero per aumentare l’apporto di ossigeno all’utero.
Fare la levatrice cambiò mia madre. Era una donna adulta e con sette
figli, ma questa era la prima volta nella sua vita che, senza se e senza ma,
aveva il comando delle cose. Certi giorni, dopo un parto, notavo qualcosa
dell’autorevolezza di Judy nel modo deciso in cui girava la testa o nella
fierezza con cui inarcava un sopracciglio. Smise di truccarsi, poi smise di
scusarsi per non essersi truccata.
La mamma chiedeva circa cinquecento dollari per un parto, e anche
questo contribuì a cambiarla. All’improvviso aveva dei soldi. Secondo il
papà le donne non dovevano lavorare, ma credo che gli andasse bene che la
mamma venisse pagata come levatrice perché era un modo per danneggiare
lo Stato. E poi avevamo bisogno di soldi. Il papà lavorava come nessun
altro, ma raccattare rottami e costruire stalle e fienili non era molto
redditizio ed era un bene che la mamma potesse fare la spesa con le buste di
banconote di piccolo taglio che teneva nella borsetta. Certe volte, se
avevamo passato tutto il giorno a correre da una parte all’altra della valle
per consegnare erbe e fare esami prenatali, la mamma usava quei soldi per
portare me e Audrey fuori a cena. La nonna in città mi aveva regalato un
diario rosa con un orsacchiotto color caramello sulla copertina, su cui
descrissi la prima volta che la mamma ci portò al ristorante. Scrissi che era
un posto “davvero elegante, coi menu e tutto quanto”. A quanto pare la mia
cena era costata 3,30 dollari.
La mamma usava i soldi anche per migliorarsi nella professione. Si
comprò una bombola d’ossigeno da usare nel caso di complicanze
respiratorie e frequentò un corso di sutura per mettere i punti alle donne che
si laceravano. Judy aveva sempre mandato le donne all’ospedale per i punti,
ma la mamma era decisa a imparare. Autosufficienza, mi sembrava di
vederle scritto in fronte.
Col resto dei soldi la mamma fece installare una linea telefonica.2
Un giorno arrivò un furgone bianco e una manciata di uomini con delle
tute scure cominciarono a salire sui pali del telefono vicino alla statale. Il
papà si precipitò in casa dalla porta sul retro e chiese cosa diavolo stava
succedendo. “Pensavo volessi un telefono,” disse la mamma con
un’espressione talmente sorpresa da essere irreprensibile. Poi continuò,
parlando velocemente. “Dicevi che poteva essere un guaio se a una donna
venivano le doglie e la nonna non era in casa a prendere la telefonata. Così
ho pensato: ha ragione, ci serve un telefono! Che sciocca! Ho capito male?”
Il papà rimase a bocca aperta per diversi secondi. Certo che a una
levatrice serve un telefono, disse. Poi tornò in discarica e non toccò più
l’argomento. Da quel che ricordavo non avevamo mai avuto un telefono,
ma il giorno dopo eccolo là, adagiato sulla sua base verde chiaro, luccicante
e fuori luogo accanto ai barattoli torbidi di cimicifuga e scutellaria.
Luke aveva quindici anni quando chiese alla mamma un certificato di
nascita. Voleva iscriversi alla scuola guida perché Tony, il nostro fratello più
grande, stava guadagnando bene come auotrasportatore di ghiaia, e poteva
farlo perché aveva la patente. Shawn e Tyler, i fratelli che venivano dopo
Tony, avevano dei certificati di nascita. Solo i quattro più piccoli – Luke,
Audrey, Richard e io – non li avevano.
La mamma cominciò a sbrigare le pratiche. Non so se prima ne parlò col
papà. Se lo fece, non so cosa lo convinse a cambiare idea e perché
all’improvviso la sua politica decennale di non registrarsi allo Stato finì
senza tante storie, ma credo che c’entrasse il telefono. Forse mio padre
aveva finalmente accettato che, se voleva davvero dare battaglia allo Stato,
doveva correre certi rischi. Il lavoro della mamma come levatrice avrebbe
minato il Sistema Medico, ma per fare la levatrice le serviva un telefono.
Forse lo stesso ragionamento fu esteso anche a Luke: Luke avrebbe avuto
bisogno di un reddito per mantenere una famiglia, per comprare provviste e
prepararsi alla Fine dei Giorni, quindi gli serviva un certificato di nascita.
L’altra possibilità era che la mamma non avesse chiesto nulla al papà. Forse
decise per conto suo e lui l’accettò. Forse anche il papà – da uomo
carismatico e burrascoso che era – fu momentaneamente travolto dalla forza
di lei.
Una volta che la mamma cominciò le pratiche per Luke, decise che tanto
valeva richiedere dei certificati di nascita anche per noi. Fu più difficile di
quel che pensava. Mise sottosopra la casa per cercare dei documenti che
dimostrassero che eravamo figli suoi. Non trovò nulla. Nel mio caso,
nessuno sapeva quand’ero nata di preciso. La mamma ricordava una data, il
papà un’altra e la nonna sotto la collina, che andò in città e firmò una
dichiarazione giurata in cui diceva che ero sua nipote, ne ricordava una
terza.
La mamma chiamò la sede centrale della chiesa a Salt Lake City. Un
impiegato trovò un certificato del mio primo battesimo, alla nascita, e un
altro del rito battesimale che, come tutti i bambini mormoni, avevo ricevuto
a otto anni. La mamma chiese delle copie, che arrivarono per posta alcuni
giorni dopo. “Santo cielo!” disse quando aprì la busta. Sui due documenti
c’erano date di nascita diverse, e nessuna era uguale a quella che la nonna
aveva scritto sulla dichiarazione giurata.
Quella settimana la mamma passò delle ore al telefono. Con la cornetta
incastrata sulla spalla e il cavo che si snodava per la cucina, preparava da
mangiare, puliva e filtrava tinture di idraste e cardo mariano, ripetendo le
stesse frasi in continuazione.
“Lo so che avrei dovuto registrarla alla nascita, ma non l’ho fatto.
Quindi?”
Delle voci mormoravano all’altro capo del telefono.
“Gliel’ho già detto – come l’ho detto al suo sottoposto e al sottoposto del
suo sottoposto, e a cinquanta altre persone questa settimana: non ha un
libretto sanitario né documenti scolastici. Non ce li ha! Non li ho persi. Non
posso chiedere delle copie. Non esistono!”
“Il suo giorno di nascita? Diciamo il ventisette.”
“No, non ne sono sicura.”
“No, non ho documenti.”
“Sì, resto in linea.”
Le voci le chiedevano sempre di restare in linea quando ammetteva di
non sapere quand’ero nata, poi le passavano i loro superiori, come se non
conoscere la mia data di nascita delegittimasse il concetto stesso della mia
identità. Non puoi essere una persona se non hai un giorno di nascita,
sembravano dire quelle voci. Non capivo perché. Fino a quando la mamma
non aveva deciso di chiedere il certificato, non sapere quando compivo gli
anni non era mai stato un problema. Sapevo di essere nata verso la fine di
settembre e ogni anno sceglievo un giorno per il mio compleanno, facendo
in modo che non cadesse di domenica perché non è divertente festeggiare in
chiesa. Certe volte speravo che la mamma mi desse il telefono per potermi
spiegare. “Ho anch’io un giorno di nascita, come voi,” volevo dire a quelle
voci. “Solo che cambia. Non vi piacerebbe poter cambiare la data del vostro
compleanno?”
Alla fine la mamma convinse la nonna sotto la collina a firmare una
nuova dichiarazione in cui diceva che ero nata il 27, anche se la nonna era
ancora convinta che fosse il 29, e lo Stato dell’Idaho rilasciò una
dichiarazione tardiva di nascita. Ricordo il giorno che arrivò per posta. Mi
sembrò strano, quasi un esproprio ricevere quella prima prova legale della
mia esistenza: non avevo mai pensato che ci fosse bisogno di una prova del
genere
Comunque ottenni il mio certificato di nascita molto prima di Luke.
Quando la mamma aveva detto alle voci al telefono che credeva fossi nata
verso l’ultima settimana di settembre, quelle erano rimaste zitte. Ma quando
disse loro che non ricordava bene se Luke era nato a maggio o a giugno, si
scatenò un vespaio.
Quell’autunno, quando avevo nove anni, partecipai a un parto insieme
alla mamma. Erano mesi che glielo chiedevo, ricordandole che alla mia età
Maria aveva già visto decine di parti. “Non sono una balia,” disse. “Non ho
motivo di portarti con me. E poi non ti piacerebbe.”
Alla fine la chiamò una donna che aveva molti bambini piccoli. Fu deciso
che mi sarei occupata di loro durante il parto.
La telefonata arrivò nel cuore della notte. Lo squillo meccanico risuonò
per il corridoio. Trattenni il fiato, sperando che non avessero sbagliato
numero. Un momento dopo la mamma era accanto al mio letto. “È ora,”
disse, e corremmo insieme alla macchina.
Per una quindicina di chilometri ripeté insieme a me cosa dovevo dire se
andava storto qualcosa e arrivavano i Federali. Non dovevo dire per nessun
motivo che mia madre era una levatrice. Se chiedevano cosa ci facevamo là,
non dovevo rispondere nulla. La mamma la chiamava “l’arte del chiudere il
becco”. “Di’ solo che stavi dormendo e che non hai visto niente e non sai
niente e non ti ricordi perché siamo qui,” disse. “Non dargli altri motivi per
tirarmi il collo, oltre a quelli che hanno già.”
La mamma si azzittì. La osservai guidare. Il suo volto era illuminato dalle
luci del cruscotto e sembrava di un bianco spettrale nel buio pesto delle
strade di campagna. Aveva la paura scolpita in viso, la fronte corrugata, le
labbra strette. Quando eravamo noi due sole, era di nuovo la mamma di
sempre, fragile e ansiosa.
Sentii dei leggeri sussurri e mi accorsi che venivano da lei. Si stava
facendo delle domande sottovoce. E se andava storto qualcosa? Se c’erano
precedenti medici che non le avevano detto, delle complicazioni? O se
capitava un normale imprevisto, una crisi, e andava nel panico, si bloccava,
non riusciva a fermare l’emorragia in tempo? Nel giro di pochi minuti
saremmo arrivate, e allora avrebbe avuto due vite tra le sue piccole mani
tremanti. Prima di allora non mi ero mai resa conto del rischio che correva.
“Le persone muoiono negli ospedali,” sussurrò, spettrale, le dita strette al
volante. “A volte Dio se le prende a casa, e non c’è niente da fare. Ma se
succede a una levatrice...” Si voltò verso di me. “Basta un solo errore e
dovrai venirmi a trovare in prigione.”
Quando arrivammo, la mamma si trasformò. Diede subito una serie di
istruzioni al padre, alla madre e a me. Non riuscivo a toglierle gli occhi di
dosso e quasi mi dimenticai di fare come diceva. Mi rendo conto adesso che
quella notte vedevo per la prima volta la sua forza interiore.
Continuò a dare ordini e noi li eseguimmo senza fiatare. Il bambino
nacque senza complicazioni. Fu epico e romantico assistere così da vicino a
quel passaggio del ciclo della vita, ma la mamma aveva ragione: non mi
piacque. Fu lungo ed estenuante, tutto puzzava di sudore inguinale.
Non le chiesi di accompagnarla al parto successivo. La mamma tornò a
casa pallida e scossa. Raccontò l’accaduto a me e mia sorella con voce
tremante. La frequenza cardiaca del nascituro era scesa drasticamente,
riducendosi a poco più che un fremito. Aveva chiamato un’ambulanza, poi
aveva deciso che non potevano aspettare e aveva caricato la madre in
macchina. Aveva guidato così veloce che era arrivata all’ospedale con una
volante della polizia alle calcagna. Al pronto soccorso aveva cercato di dare
ai medici le informazioni necessarie senza sembrare troppo esperta, perché
non pensassero che fosse una levatrice senza qualifiche.
Fu fatto un cesareo d’emergenza. La madre e il bambino rimasero in
ospedale diversi giorni e, quando furono dimessi, la mamma smise di
tremare. Non solo, sembrava euforica e cominciò a raccontare la storia in
maniera diversa, entusiasmandosi quando veniva fermata dal poliziotto,
sorpreso di trovare una donna sofferente e chiaramente in preda alle doglie
sul sedile di dietro. “Allora ho recitato la parte della donna svampita,” disse
a me e Audrey, la voce sempre più alta e appassionata. “Agli uomini piace
pensare che stanno salvando una povera scema che si è cacciata nei guai.
Ho dovuto solo farmi da parte e lasciare a lui il ruolo dell’eroe!”
Il momento più rischioso per la mamma era arrivato alcuni minuti dopo,
in ospedale, dopo che la donna era stata portata via in barella. Un dottore
l’aveva fermata e le aveva chiesto perché, tanto per cominciare, si trovasse
là al momento del parto. Sorrise al ricordo. “Gli ho fatto la domanda più
scema che mi è venuta in mente.” Fece una vocina acuta e civettuola che
non le apparteneva. “Oh! Era la testa del bambino, quella? I bambini non
nascono dai piedi?” Il dottore si era convinto che non poteva essere una
levatrice.
Nel Wyoming non c’erano erboriste brave come la mamma e, pochi mesi
dopo l’episodio dell’ospedale, Judy tornò a Buck Peak a rifornirsi. Le due
donne chiacchierarono in cucina, Judy appollaiata su uno sgabello, la
mamma appoggiata al bancone, la testa pigramente sorretta da una mano.
Portai la lista delle erbe nel ripostiglio. Maria, con in braccio un altro
neonato, mi seguì. Mentre prendevo foglie essiccate e liquidi torbidi dalle
mensole, mi vantai delle imprese della mamma, concludendo con lo
scambio di battute in ospedale. Maria, dal canto suo, aveva da raccontarmi
certe storie su come avevano evitato i Federali, ma la interruppi non appena
cominciò a parlare.
“Judy è una brava levatrice,” dissi gonfiando il petto. “Ma quando ci sono
di mezzo dottori e poliziotti, nessuno sa fare la scema come mia mamma.”
2
Se tutti i miei famigliari si ricordano che per molti anni i miei genitori non ebbero il telefono, ci
sono opinioni contrastanti su quali fossero questi anni. Ho chiesto ai miei fratelli, zie, zii e cugini, ma
non sono riuscita a stabilire una cronologia esatta, quindi mi sono basata sui miei ricordi.
3.
Scarpe bianco crema

Mia madre, Faye, era figlia di un postino. Era cresciuta in città, in una
casa gialla con una staccionata bianca bordata di iris viola. Sua madre era
una sarta, la migliore della valle secondo alcuni, tanto che da giovane Faye
indossava vestiti bellissimi e dal taglio perfetto, dalle giacche di velluto ai
pantaloni sintetici, dai completi pantalone di lana agli abitini di gabardine.
Andava a messa e partecipava alle attività della scuola e della comunità. La
sua vita aveva un’aria di rigore, normalità e grande rispettabilità.
Quell’aria di rispettabilità era coltivata con cura da sua madre. Mia nonna
LaRue era diventata maggiorenne negli anni cinquanta, nel decennio di
fervore idealistico dopo la Seconda guerra mondiale. Il padre di LaRue era
un alcolizzato in un’epoca in cui il linguaggio della dipendenza non era
ancora stato inventato, quando gli alcolizzati non si chiamavano alcolizzati
ma ubriaconi. La nonna veniva dalla famiglia “sbagliata”, ma faceva parte
di una devota comunità di mormoni che, come molte comunità, riversava
sui figli le colpe dei genitori. Era considerata inadatta al matrimonio dagli
uomini rispettabili della città. Quando conobbe e sposò mio nonno – un
giovanotto d’indole buona appena tornato dalla Marina – si dedicò con tutta
se stessa alla creazione della famiglia perfetta, quantomeno in apparenza.
Questo secondo lei avrebbe protetto le sue figlie dal disprezzo sociale che
l’aveva tanto ferita.
Un risultato di tutto questo fu la staccionata bianca e l’armadio pieno di
vestiti fatti a mano. Un altro fu che la sua figlia maggiore sposò un
giovanotto austero dai capelli corvini piuttosto anticonformista.
In altre parole, mia madre reagì testardamente alla rispettabilità che le era
stata imposta. La nonna voleva dare a sua figlia il dono che lei non aveva
mai avuto, il dono di venire da una buona famiglia. Ma Faye non lo voleva.
Mia madre non era una rivoluzionaria sociale – anche all’apice della sua
ribellione mantenne la sua fede mormona, con la sua dedizione al
matrimonio e alla maternità –, ma i sovvertimenti sociali degli anni settanta
sembrarono avere almeno un effetto su di lei: non ne voleva sapere di
staccionate bianche e abiti di gabardine.
Mia madre mi raccontava un sacco di aneddoti sulla sua infanzia, di come
la nonna si preoccupasse da morire della posizione sociale della sua figlia
maggiore, del taglio del suo vestito di piqué o della tonalità blu dei suoi
pantaloni di velluto. Queste storie finivano quasi sempre con mio padre che
si precipitava dentro e andava a scambiare il velluto con dei blue jeans. C’è
un episodio che mi è rimasto impresso in modo particolare. Ho sette o otto
anni e sono in camera mia che mi preparo per andare a messa. Mi sono
passata un panno umido sulla faccia, sulle mani e sui piedi, frizionando solo
le parti di pelle che saranno visibili. La mamma mi guarda infilare la testa
dentro un vestito di cotone che ho scelto perché ha maniche lunghe, per non
dovermi lavare le braccia, e gli occhi le brillano di risentimento.
“Se fossi figlia di tua nonna,” dice, “ci saremmo alzate alle prime luci
dell’alba per lisciarti i capelli. Poi avremmo passato il resto della mattina a
tormentarci su quali scarpe stanno meglio, quelle bianche o quelle bianco
crema.”
La mamma fa un sorriso più simile a una smorfia. Vorrebbe ridere ma il
ricordo è amaro. “Una volta scelte quelle color crema saremmo comunque
in ritardo, perché all’ultimo momento la nonna cadrebbe nel panico e
andrebbe a casa di sua cugina Donna per farsi prestare le sue scarpe color
crema, quelle con il tacco più basso.”
La mamma guarda fuori dalla finestra. Si è chiusa in se stessa.
“Bianche o bianco crema?” dico. “Non è lo stesso colore?” Avevo un solo
paio di scarpe per la messa ed erano nere, o almeno erano state nere quando
appartenevano a mia sorella.
Dopo che mi sono infilata il vestito vado davanti allo specchio e mi
sfrego via lo sporco lungo la scollatura, pensando a quant’è fortunata la
mamma a essere fuggita da un mondo in cui c’era una differenza sostanziale
tra il bianco e il bianco crema, e in cui simili questioni potevano rovinare
una bella mattina. Una mattina che poteva essere passata a saccheggiare la
discarica di papà insieme alla capra di Luke.
Mio padre Gene era uno di quei giovanotti che in qualche modo riescono
a sembrare sia seri che smaliziati. Non passava inosservato: capelli d’ebano,
volto severo e angoloso, naso simile a una freccia tra due occhi fieri e
infossati. Le sue labbra erano spesso chiuse in un sorriso scherzoso, come
se potesse ridere di ogni cosa al mondo.
Anche se sono cresciuta sulla stessa montagna dov’era cresciuto mio
padre, dando la sbobba ai maiali nella stessa mangiatoia di ferro, so
pochissimo della sua giovinezza. Non ne parlava mai, così posso solo
rifarmi a quello che mi ha accennato mia madre, secondo cui da giovane il
nonno sotto la collina era stato un uomo violento e irascibile. Il fatto che la
mamma usasse le parole “era stato” mi è sempre sembrato buffo. Lo
sapevamo tutti che era meglio non contraddire il nonno. Si arrabbiava
facilmente, era un dato di fatto, e chiunque nella valle poteva confermarlo.
Era logorato dal tempo, dentro e fuori, inquieto e burrascoso come i cavalli
che lasciava correre liberi sulla montagna.
La madre del papà lavorava per il Farm Bureau in città. Da adulto il papà
si sarebbe opposto duramente alle donne che lavorano, prendendo posizioni
estreme perfino per la nostra comunità mormona rurale. “La donna è fatta
per stare a casa,” diceva ogni volta che vedeva una donna sposata che
lavorava in città. Ora che sono più grande, mi chiedo a volte se tanta foga
non avesse a che fare più con sua madre che con la religione. Forse il papà
avrebbe solo voluto che lei fosse rimasta a casa, che non l’avesse lasciato
per tutte quelle ore in balìa del caratteraccio del nonno.
L’infanzia del papà fu assorbita completamente dal lavoro alla fattoria.
Non credo che abbia mai pensato di andare al college. Eppure, da come ne
parla la mamma, all’epoca il papà era un vulcano di energia, buonumore ed
eleganza. Guidava un maggiolino Volkswagen celeste, indossava vestiti
bizzarri e colorati e sfoggiava dei grossi baffi alla moda.
Si conobbero in città. Faye lavorava come cameriera alla sala da bowling
quando, un venerdì sera, Gene entrò insieme a un gruppetto di amici. Non
l’aveva mai visto in giro e capì subito che non era della città, doveva venire
dalle montagne attorno alla valle. La vita di campagna aveva reso Gene
diverso dagli altri ragazzi: era serio per la sua età, più robusto e di mentalità
aperta.
C’è un senso di indipendenza che accompagna la vita in montagna, una
sensazione di intimità e isolamento, quasi di dominio. In quei vasti spazi
puoi navigare da solo per ore, galleggiando su pini, cespugli e rocce. È una
quiete che è frutto dell’immensità, che ti calma in virtù della sua stessa
vastità e rende irrilevanti le questioni umane. Gene si era formato in questa
ipnosi alpina, in questo tacere di ogni dramma umano.
Nella valle, Faye cercava di non sentire i continui pettegolezzi della
piccola città che s’insinuavano dentro le finestre e strisciavano sotto le
porte. La mamma si descriveva spesso come una persona compiacente: non
poteva fare a meno di chiedersi come gli altri volevano che fosse e di
calarsi compulsivamente e malvolentieri in quella parte. Nella sua
rispettabile casa in centro, così tanto addossata ad altre quattro da poter
sbirciare dentro le finestre e lasciar sfuggire un commento, Faye si sentiva
in trappola.
Mi sono immaginata spesso il momento in cui Gene portò Faye sulla
cima di Buck Peak e lei, per la prima volta, si sentì libera dal vedere i volti
o sentire le voci della città di sotto. Erano lontani. Piccoli al cospetto della
montagna, zittiti dal vento.
Si fidanzarono poco dopo.
La mamma raccontava spesso un aneddoto del periodo prima delle nozze.
Essendo molto vicina a suo fratello Lynn, un giorno decise di fargli
conoscere l’uomo che sperava sarebbe diventato suo marito. Era estate,
all’imbrunire, e i cugini del papà si stavano azzuffando per gioco come
facevano spesso dopo il raccolto. Lynn arrivò e, vedendo una stanza piena
di bulli dalle gambe arcuate che si gridavano addosso menando i pugni per
aria, pensò di trovarsi davanti una rissa in stile John Wayne. Voleva
chiamare la polizia.
“Gli ho detto di ascoltare,” diceva la mamma con le lacrime agli occhi a
forza di ridere. Raccontava questa storia sempre allo stesso modo ed era un
tale classico che, se si discostava per qualche motivo dal solito copione, ci
pensavamo noi a correggerla. “Gli ho detto di prestare attenzione alle parole
che stavano gridando. Sembravano arrabbiati come bisce, ma in realtà
stavano chiacchierando tranquillamente. Bisognava ascoltare cosa
dicevano, non come lo dicevano. Gli ho detto che era solo il modo di
parlare dei Westover!”
Di solito entro la fine della storia eravamo stesi sul pavimento. Ridevamo
così tanto che ci facevano male le costole a forza di immaginare nostro zio,
così compìto e serioso, che incontrava la combriccola scalmanata del papà.
Lynn trovò la scena così sgradevole che non tornò mai più, e in tutta la mia
vita non l’ho visto una sola volta in montagna. Ben gli stava, pensavamo.
Era quel che si meritava per essersi impicciato, per aver cercato di riportare
la mamma a quel mondo fatto di abiti di gabardine e scarpe bianco crema.
Sapevamo che lo scioglimento della famiglia della mamma significava la
nascita della nostra. Le due famiglie non potevano coesistere. Solo una
poteva averla.
Anche se la mamma non ci ha mai detto che la sua famiglia era contraria
al fidanzamento, noi l’avevamo capito. C’erano tracce che il tempo non
aveva cancellato. Mio padre non metteva piede quasi mai nella casa del
nonno in città, e quando lo faceva era imbronciato e fissava la porta. Da
bambina vedevo pochissimo le zie, gli zii o i cugini da parte di mamma. Li
andavamo a trovare raramente – non sapevo nemmeno dove abitasse la
maggior parte di loro – e ancora più raramente loro venivano in montagna.
L’unica eccezione era zia Angie, la sorella minore della mamma, che viveva
in città e continuava a frequentarla.
Quello che so del fidanzamento mi è arrivato in maniera frammentaria,
più che altro dai racconti di mia madre. So che aveva l’anello al dito prima
che il papà partisse in missione – com’era richiesto a tutti i fedeli mormoni
di sesso maschile – e passasse due anni in Florida a fare proseliti. Lynn
approfittò dell’assenza per presentare a sua sorella ogni uomo maritabile
che riuscì a trovare su questo versante delle Montagne Rocciose, ma
nessuno riuscì a farle dimenticare il fiero ragazzo di campagna che regnava
sulla sua montagna.
Gene tornò dalla Florida e lui e la mamma si sposarono.
LaRue cucì il vestito nuziale.
Ho visto una sola fotografia del loro matrimonio. I miei genitori sono in
posa davanti a una tenda semitrasparente color bianco avorio. La mamma
indossa un vestito tradizionale di seta con perline e pizzo veneziano, con
una scollatura che le arriva sopra le clavicole. Ha la testa coperta da un velo
ricamato. Mio padre ha un abito bianco crema dal bavero largo e nero. Sono
entrambi ubriachi di felicità. La mamma sorride beatamente; il papà ha un
sorriso così largo che gli spunta fuori dagli angoli dei baffi.
Faccio fatica a credere che il giovane spensierato in quella fotografia sia
mio padre. Se penso a lui vedo un uomo stanco di mezza età, spaventato e
ansioso, che accumula cibo e munizioni.
Non so quando l’uomo nella fotografia sia diventato l’uomo che conosco
come mio padre. Forse non c’è stato un momento preciso. Il papà si era
sposato a ventun anni e aveva avuto il suo primo figlio, mio fratello Tony, a
ventidue. A ventiquattro anni aveva chiesto alla mamma se potevano
chiamare un’erborista per far nascere mio fratello Shawn. Lei aveva
accettato. Era un primo indizio o solo un tipico comportamento da Gene,
eccentrico e anticonformista, per scandalizzare quei simpaticoni dei suoi
parenti acquisiti? In fondo, venti mesi dopo, Tyler era nato in ospedale.
Quando il papà aveva ventisette anni era arrivato Luke, con un parto in casa
e l’aiuto di una levatrice. Il papà decise di non chiedere il certificato di
nascita, una decisione che ripeté anche con Audrey, Richard e me. Alcuni
anni dopo, quando aveva più o meno trent’anni, rititò i miei fratelli da
scuola. Non me lo ricordo perché non ero ancora nata, ma mi chiedo se sia
stato questo un momento decisivo. Nei quattro anni seguenti il papà fece
staccare il telefono e decise di non rinnovare la patente. Smise di registrare
e assicurare l’auto di famiglia. Poi cominciò ad accumulare scorte di cibo.
Quest’ultima parte mi suona più famigliare, ma non è questo il padre che
ricordano i miei fratelli più grandi. Il papà aveva da poco compiuto
quarant’anni quando i Federali misero sotto assedio gli Weaver, un evento
che confermò le sue peggiori paure. Dopo questo episodio scese sul piede di
guerra, anche se la guerra era tutta nella sua testa. Forse è per questo che
quando Tony guarda quella foto di matrimonio vede suo padre, mentre io
vedo un estraneo.
Quattordici anni dopo l’episodio degli Weaver sarei stata seduta in
un’aula universitaria a sentir parlare un professore di psicologia di una cosa
chiamata disturbo bipolare. Fino ad allora non sapevo nemmeno cosa
fossero le malattie mentali. Certo, sapevo che le persone potevano
impazzire e fare cose come mettersi dei gatti morti in testa o innamorarsi di
un tulipano. Ma non avevo mai pensato che una persona potesse essere
efficiente, lucida, convincente, e nello stesso tempo avere qualcosa che non
va.
Il professore snocciolava fatti con voce monotona e prosaica: la malattia
compare in media attorno ai venticinque anni; prima di quell’età possono
non esserci sintomi.
La cosa ironica era che se il papà era bipolare – o aveva uno dei molti
disturbi che potevano spiegare il suo comportamento –, la stessa paranoia,
che era un sintomo della malattia, avrebbe impedito che venisse
diagnosticata e curata. Non l’avrebbe mai saputo nessuno.
La nonna in città è morta tre anni fa, a ottantasei anni.
Non la conoscevo bene.
In tutti quegli anni che ero transitata per la sua cucina non mi raccontò
mai com’era stato vedere sua figlia chiudersi in se stessa, circondata da
fantasmi e paranoie.
Se penso a lei rivedo una sola immagine, come se la mia memoria fosse
un proiettore per diapositive col carrello inceppato. È seduta su una panca
imbottita. Ha un cespuglio di riccioli compatti in testa e le labbra chiuse in
un sorriso educato, che sembra incollato alla faccia. I suoi occhi sono
cortesi ma assenti, come se stesse osservando una scena recitata.
Quel sorriso non mi dà pace. Era sempre là, come se fosse l’unica cosa
eterna al mondo. Impenetrabile, distante. Indifferente. Adesso che sono più
grande e mi sono presa la briga di conoscerla, più che altro attraverso le mie
zie e i miei zii, so che mia nonna non era nessuna di queste cose.
Sono andata al funerale. La bara era aperta e mi sono ritrovata a studiarle
il volto. Quelli delle pompe funebri non le avevano sistemato le labbra nel
modo giusto. Le avevano tolto quel sorriso gentile che aveva indossato
come una maschera di ferro. Era la prima volta che la vedevo senza quel
sorriso ed è stato allora che ho capito: la nonna era l’unica persona che
forse poteva comprendere cosa mi stava succedendo. La paranoia e il
fondamentalismo mi stavano rovinando la vita, mi allontanavano dalle
persone che amavo, lasciando al loro posto solo lauree e attestati, e un’aria
di rispettabilità. Quello che stava succedendo adesso era già successo. Era
la seconda separazione di madre e figlia. Era un nastro che girava in loop.
4.
Donne apache

Nessuno vide l’auto uscire di strada. Mio fratello Tyler, che aveva
diciassette anni, si addormentò al volante. Erano le sei di mattina e aveva
guidato in silenzio per gran parte della notte, portando la nostra station
wagon attraverso l’Arizona, il Nevada e lo Utah. Eravamo all’altezza di
Cornish, un piccolo centro rurale una trentina di chilometri a sud di Buck
Peak, quando la station wagon si spostò piano verso l’altra corsia e finì
fuori strada. La macchina superò un fossato, urtò due robusti pali della luce
in cedro e si fermò solo quando andò a sbattere contro un trattore interfilare.
Il viaggio era stato un’idea della mamma.
Alcuni mesi prima, quando le foglie secche avevano cominciato a cadere,
indicando la fine dell’estate, il papà sembrava euforico. A colazione batteva
col piede il ritmo di certe canzonette e durante la cena indicava spesso la
montagna mentre spiegava, con gli occhi che brillavano, dove avrebbe
messo i condotti per portare l’acqua alla casa. Ci promise che quando si
sarebbe messo a nevicare avrebbe fatto la più grossa palla di neve di tutto
l’Idaho. Sarebbe salito fino alla base della montagna, avrebbe preso una
piccola palla di neve, poi l’avrebbe fatta rotolare giù dal pendio,
guardandola triplicarsi di dimensioni ogni volta che correva giù da una
collinetta o lungo una gola. Arrivata a casa nostra, sull’ultima collina prima
della valle, sarebbe stata grossa quanto la stalla del nonno e la gente lungo
la statale si sarebbe fermata a guardare in alto a bocca aperta. Ci serviva
solo la neve giusta. Fiocchi grossi, collosi. Dopo ogni nevicata gli
portavamo delle manciate di neve e lo guardavamo passarsela tra le dita.
Questa neve era troppo farinosa. Quella troppo umida. Dopo Natale, diceva.
Solo allora sarebbe arrivata la vera neve.
Ma dopo Natale il papà sembrò afflosciarsi, crollare su se stesso. Smise di
parlare della palla di neve, poi smise del tutto di parlare. Un’ombra
cominciò a velargli gli occhi fino a oscurarli. Camminava con le braccia
abbandonate lungo i fianchi e le spalle cadenti, come se qualcosa si fosse
impadronito di lui e lo stesse trascinando a terra.
A gennaio il papà non riusciva più ad alzarsi dal letto. Se ne stava
sdraiato supino a fissare l’intonaco del soffitto coi suoi motivi complessi di
rilievi e venature. Non batteva ciglio quando ogni sera gli portavo il piatto
con la cena. Credo che non si accorgesse nemmeno della mia presenza.
Fu allora che la mamma annunciò che saremmo andati in Arizona. Disse
che il papà era come un girasole, che sarebbe morto nella neve. Entro
febbraio bisognava portarlo via e trapiantarlo al sole. Così ci stringemmo
nella station wagon e viaggiammo per dodici ore, attraversando canyon
serpeggianti e correndo per superstrade buie, finché raggiungemmo la casa
mobile nell’arido deserto dell’Arizona dove i miei nonni erano andati a
svernare.
Arrivammo alcune ore dopo il tramonto. Il papà si trascinò fino alla
veranda della nonna, dove rimase sdraiato per il resto del giorno con un
cuscino lavorato ai ferri sotto la testa e una mano callosa sulla pancia. Restò
in quella posizione per due giorni, con gli occhi aperti, muto e immobile
come un cespuglio nell’arsura secca e senza vento.
Il terzo giorno sembrò tornare in sé e accorgersi di quel che aveva
attorno. Durante i pasti ascoltava le nostre chiacchiere anziché fissare
imbambolato la moquette. Quella sera, dopo cena, la nonna ascoltò i
messaggi sulla segreteria del telefono, perlopiù di vicini di casa e amici che
volevano salutarla. Poi dalla cornetta uscì una voce femminile che le
ricordava un appuntamento dal dottore per il giorno dopo. Quel messaggio
ebbe un effetto drammatico sul papà.
All’inizio le fece delle domande: che appuntamento era, con chi, perché
voleva andare da un dottore quando la mamma poteva darle delle tinture?
Il papà aveva sempre creduto fermamente nelle erbe della mamma, ma
quella sera era diverso, come se qualcosa dentro di lui stesse cambiando,
come se si stesse affermando una nuova fede. L’erboristica, disse, era una
dottrina spirituale che separava il frumento dalle erbacce, i fedeli dagli
infedeli. Poi usò una parola che non avevo mai sentito prima: Illuminati.
Sembrava esotica, potente, qualunque cosa significasse. Disse che senza
rendersene conto, la nonna era un’agente degli Illuminati.
Dio non poteva ammettere l’infedeltà, disse il papà. Per questo i peccatori
peggiori erano quelli che non sapevano decidersi, che usavano sia le erbe
sia la medicina, che venivano dalla mamma il mercoledì e andavano dal
loro dottore il venerdì – o, in altre parole, “un giorno pregano all’altare di
Dio e il giorno dopo offrono un sacrificio a Satana”. Queste persone erano
come gli antichi israeliti perché avevano ricevuto una vera religione ma
adoravano i falsi idoli.
“Dottori e pastiglie,” continuò il papà quasi urlando. “Son questi gli dèi a
cui si prostituiscono.”
La mamma fissava il suo piatto. Alla parola “prostituirsi” si alzò, lanciò
un’occhiataccia al papà e se ne andò in camera sua sbattendo la porta. Non
sempre la mamma la pensava come lui. Quando il papà non c’era, l’avevo
sentita dire certe cose che lui – o almeno questa sua nuova incarnazione –
avrebbe chiamato blasfeme, cose come “Le erbe sono un supplemento. Per i
problemi seri dovrebbe andare da un medico”.
Il papà non fece caso alla sedia vuota della mamma. “Quei dottori non
vogliono curarti,” disse alla nonna. “Vogliono ucciderti.”
Quando penso a quella serata rivedo la scena chiaramente. Sono seduta a
tavola. Il papà sta parlando, la sua voce è insistente. La nonna mi è seduta
davanti e mastica e rimastica asparagi con la bocca storta, come farebbe una
capra. Sorseggia la sua acqua ghiacciata e sembra non sentire una parola di
quello che dice il papà. Lancia solo delle occhiate infastidite all’orologio,
che l’informa che è ancora troppo presto per andare a letto. “Sei complice
dei piani di Satana, e lo sai,” le dice il papà.
Questa scena si ripeté ogni giorno, anche più volte al giorno, per il resto
della nostra permanenza. Seguiva sempre lo stesso copione. Il papà, tutto
accalorato, parlava per un’ora o più ripetendo le stesse frasi in
continuazione, mosso da un fuoco interiore che continuava ad ardere anche
dopo che noi, a forza di ascoltarlo, piombavano in una muta apatia.
La nonna aveva un modo memorabile di ridere alla fine di questi sermoni.
Era una specie di sospiro, una lunga emissione di fiato che finiva con un
roteare d’occhi in una pigra imitazione di esasperazione, come se volesse
alzare le braccia al cielo ma fosse troppo stanca per portare a termine il
gesto. Poi sorrideva, non per confortare qualcun altro, ma per se stessa. Era
un sorriso divertito e sconcertato, un sorriso che sembrava dire La vita è
proprio buffa, ve lo dico io.
Era un pomeriggio torrido, così caldo che non potevi camminare a piedi
nudi sull’asfalto, quando la nonna portò me e Richard a fare un giro in
macchina nel deserto, dopo averci messo per la prima volta nella nostra vita
le cinture di sicurezza. Guidò fin dove la strada cominciava a scendere, poi
continuammo mentre l’asfalto si trasformava in polvere sotto gli pneumatici
e proseguimmo comunque, con la nonna che ora saliva a zig zag sempre più
in alto tra le colline sbiancate, fermandosi solo quando lo sterrato lasciava il
posto a un sentiero per escursionisti. Allora continuammo a piedi. La nonna
si stancò dopo pochi minuti, così si sedette su un pietrone rosso e indicò una
formazione di arenaria in lontananza, con delle guglie semi-sgretolate
dall’aria antichissima. Ci disse di andare fin là e di cercare delle pepite di
roccia nera.
“Si chiamano ‘lacrime degli apache’,” disse. Infilò una mano in tasca ed
estrasse una piccola pietra nera, sporca e frastagliata, coperta di venature
grigie e bianche come vetro crepato. “Ecco come diventano dopo che le
lustri un po’.” Dall’altra tasca estrasse una seconda pietra color nero
inchiostro e così liscia da sembrare molle.
Richard le riconobbe come ossidiana. “Sono rocce vulcaniche,” disse con
la sua migliore voce enciclopedica. “Mentre queste no.” Scalciò una pietra
sbiadita e fece un cenno verso la formazione rocciosa. “Queste sono
sedimenti.” Richard aveva un talento per le scienze. Di solito ignoravo i
suoi sermoni ma quel giorno ne fui affascinata, così come lo ero per quel
terreno strano e riarso. Camminammo attorno alla formazione per un’ora,
tornando dalla nonna col davanti delle magliette gonfio di pietre. La nonna
era contenta; poteva venderle. Le mise nel bagagliaio e mentre tornavamo a
casa ci raccontò la leggenda delle lacrime degli apache.
A quanto pare cent’anni prima una tribù apache aveva combattuto contro
la cavalleria statunitense proprio su quelle rocce sbiadite. La tribù era
numericamente inferiore. La battaglia era già persa, la guerra finita. Non
restava altro da fare che aspettare di morire. Poco dopo l’inizio della
battaglia, i guerrieri si ritrovarono in trappola su uno strapiombo. Non
volendo subire una sconfitta umiliante, ammazzati a uno a uno mentre
cercavano di aprirsi un varco tra i soldati, montarono sui loro cavalli e si
lanciarono giù dal precipizio. Quando le donne apache trovarono i loro
corpi sfracellati sulle rocce di sotto, piansero lacrime grosse e disperate che
si trasformarono in pietra non appena toccarono terra.
La nonna non ci disse mai cosa successe alle donne. Gli apache erano in
guerra ma, non avendo più guerrieri, forse il finale era troppo triste da
raccontare. Veniva in mente la parola “macello”, perché è questo che
succede in battaglia quando una delle due parti non può difendersi. Era una
parola che usavamo alla fattoria. Macellavamo i polli, non li uccidevamo.
Probabilmente l’esito del gesto coraggioso dei guerrieri era stato un
macello. Erano morti da eroi e le loro mogli da schiave.
Mentre tornavamo alla casa mobile e il sole calava, spandendo i suoi
ultimi raggi sulla superstrada, pensai alle donne apache. Come l’altare di
arenaria su cui erano morte, la loro vita era stata forgiata anni e anni prima
– prima che i cavalli si lanciassero al galoppo, inarcando i corpi fulvi per
quell’ultimo impatto. Il modo in cui sarebbero vissute e sarebbero morte era
stato deciso molto tempo prima del balzo dei guerrieri. Era stato deciso dai
guerrieri, dalle donne stesse. Le scelte, innumerevoli come granelli di
sabbia, si erano stratificate e compattate, unendosi in sedimento, poi in
roccia, fino a incastonarsi nella pietra.
Era la prima volta che mi allontanavo dalla montagna e mi mancava la
vista della Principessa scolpita fra i pini del massiccio. Mi ritrovai a
guardare il cielo vuoto dell’Arizona, sperando di veder spuntare la sua
sagoma scura dalla terra a rivendicare la sua metà di cielo. Ma niente. Più
che la sua vista mi mancavano le sue carezze – il vento che soffiava per
canyon e burroni e che mi arruffava i capelli ogni mattina. In Arizona non
c’era vento. C’era solo un’ora torrida dopo l’altra.
Passavo le giornate a vagare da una parte all’altra della casa mobile, poi
uscivo sul patio sul retro, andavo sull’amaca, poi sulla veranda anteriore,
dove scavalcavo la sagoma semi-cosciente del papà e tornavo dentro. Fu un
gran sollievo quando, il sesto giorno, il quad del nonno si ruppe e Tyler e
Luke lo smontarono per cercare di capire qual era il problema. Mi sedetti a
guardarli su un grosso bidone di plastica blu, chiedendomi quando saremmo
tornati a casa. Quando il papà avrebbe smesso di parlare degli Illuminati.
Quando la mamma avebbe smesso di uscire da una stanza ogni volta che
entrava il papà.
Quella sera, dopo cena, il papà disse che era il momento di tornare a casa.
“Prendete le vostre cose,” disse. “Partiamo tra mezz’ora.” Cominciava a far
buio e la nonna disse che era assurdo mettersi in viaggio a quell’ora. La
mamma propose di aspettare fino al mattino. Era un viaggio di dodici ore.
Ma il papà voleva tornare per lavorare in discarica coi ragazzi la mattina
dopo. “Non posso perdere altri giorni di lavoro,” disse.
Gli occhi della mamma si rabbuiarono, ma non disse nulla.
Mi svegliai quando la macchina urtò il primo palo della luce. Stavo
dormendo sul pavimento sotto i piedi di mia sorella, con una coperta sopra
la testa. Cercai di tirarmi su ma la macchina sbatteva, balzava – sembrava
che stesse andando a pezzi – e Audrey mi cadde addosso. Non riuscivo a
vedere cosa stava succedendo ma potevo sentirlo. Ci fu un altro botto, una
sbandata, mia madre che gridava “Tyler!” dal sedile davanti, e un ultimo
scossone violento prima che tutto si fermasse e scendesse il silenzio.
Passarono diversi secondi durante i quali non successe nulla.
Poi sentii la voce di Audrey. Ci stava chiamando per nome a uno a uno.
Alla fine disse: “Ci siamo tutti tranne Tara!”.
Cercai di gridare ma avevo la faccia incastrata sotto il sedile, la guancia
premuta contro il pavimento. Mi dimenai sotto il peso di Audrey mentre
gridava il mio nome. Alla fine inarcai la schiena e la spinsi via, poi tirai
fuori la testa dalla coperta e dissi: “Ci sono”.
Mi guardai attorno. Tyler aveva ruotato il busto e stava praticamente
salendo sul sedile posteriore. Guardava con gli occhi fuori dalle orbite ogni
ferita, ogni livido, ogni paio di occhi sbarrati. Vedevo il suo volto ma non
sembrava lui. Dalla bocca gli usciva del sangue, che scendeva lungo la
camicia. Chiusi gli occhi e cercai di non pensare ai suoi denti storti e
insanguinati. Quando li riaprii, fu per controllare gli altri. Richard si teneva
la testa tra le mani, tappandosi le orecchie come per non sentire un rumore.
Il naso di Audrey era curvato in maniera strana e perdeva fiotti di sangue,
che le colavano lungo il braccio. Luke stava tremando ma non vedevo
tracce di sangue. Io avevo un taglio sull’avambraccio nel punto in cui mi
era rimasto impigliato nella struttura del sedile.
“State tutti bene?” Era la voce di mio padre. Ci fu un mormorio generale.
“Ci sono dei cavi elettrici sulla macchina,” disse. “Non scendete finché
non avranno tolto la corrente.” La sua portiera si aprì e per un momento
pensai che si fosse fulminato, ma poi vidi che si era buttato fuori in modo
da non toccare la macchina e il terreno allo stesso tempo. Ricordo che
sbirciai fuori dal finestrino rotto e lo vidi fare il giro della macchina, con la
visiera del suo berretto rosso girata all’insù, verso l’alto. Aveva un’aria
stranamente giovanile.
Girò attorno alla macchina e poi si fermò, accovacciandosi all’altezza del
posto del passeggero. “Stai bene?” disse. Poi lo ripeté. La terza volta gli
tremava la voce.
Mi piegai verso il sedile per vedere a chi stava parlando e solo allora mi
resi conto della gravità dell’incidente. La metà anteriore della macchina era
tutta accartocciata, il motore inarcato e piegato su se stesso come una falda
nella roccia solida.
Il primo sole del mattino si specchiava sul parabrezza. Vidi i motivi
incrociati di crepe e fessure. Non erano una novità. In discarica avevo visto
centinaia di finestrini rotti, ognuno diverso, col suo particolare velo di
ragnatela che si irraggiava dal punto dell’impatto come una cronaca dello
scontro. Le crepe sul nostro parabrezza avevano la loro storia da raccontare.
L’epicentro era un piccolo foro da cui le spaccature si diramavano in
maniera concentrica. Il foro era proprio di fronte al sedile del passeggero.
“Stai bene?” disse il papà con voce implorante. “Tesoro, mi senti?”
Sul sedile del passeggero c’era la mamma. Il suo corpo era riverso
dall’altra parte del finestrino. Non potevo vederla in faccia, ma c’era
qualcosa di terrificante nel modo in cui era accasciata sul sedile.
“Mi senti?” disse il papà. Lo ripeté diverse volte. Alla fine, con un
movimento appena percettibile, vidi la punta della coda di cavallo della
mamma andare su e giù. Stava annuendo.
Il papà si alzò, guardò i cavi elettrici, guardò per terra, guardò la mamma.
Sembrava smarrito. “Dici che... devo chiamare un’ambulanza?”
Credo di aver sentito queste parole. E se il papà le disse, come
evidentemente fece, la mamma evidentemente sussurrò una risposta. O
forse non era in grado di sussurrare nulla, non so. Mi sono sempre
immaginata che abbia chiesto di essere portata a casa.
In seguito mi dissero che il proprietario del trattore contro cui ci eravamo
schiantati era corso fuori casa. Quest’uomo, un contadino, aveva chiamato
la polizia. Sapevamo che c’erano guai in vista perché l’auto non era
assicurata e nessuno di noi aveva allacciato le cinture di sicurezza. Ci
vollero una ventina di minuti perché, dopo che il contadino ebbe avvertito
la centrale elettrica dello Utah, fosse tolta la corrente ai cavi. Allora il papà
tirò fuori la mamma dalla station wagon e la vidi in faccia – gli occhi
nascosti sotto due cerchi scuri e grossi come prugne, e il gonfiore che le
deformava i lineamenti delicati, allungandone alcuni e comprimendone
altri.
Non so come arrivammo a casa né quando, ma ricordo che la montagna
splendeva nella luce arancione del mattino. Una volta dentro vidi Tyler
sputare fiotti di sangue cremisi dentro il lavandino del bagno. Aveva battuto
gli incisivi contro il volante e gli si erano stortati verso il palato.
La mamma fu fatta sdraiare sul divano. Mormorò che la luce le dava
fastidio. Tirammo le tende. Voleva andare in taverna, dove non c’erano
finestre, così il papà la portò di sotto e non la vidi per diverse ore, fino a
sera, quando scesi con una debole torcia a portarle la cena. Era
irriconoscibile. Aveva gli occhi talmente violacei che sembravano neri, e
così gonfi che non capivo se erano aperti o chiusi. Mi chiamò Audrey anche
dopo che l’ebbi corretta due volte. “Grazie, Audrey, ma voglio solo buio e
silenzio. Buio. Silenzio. Grazie, Audrey. Vieni ancora a vedere come sto tra
un pochino.”
La mamma non uscì dalla taverna per una settimana. Ogni giorno il
gonfiore peggiorava e i lividi si facevano sempre più scuri. Ogni sera
pensavo che la sua faccia non potesse essere più pesta o deforme di così, ma
ogni mattina era ancora più livida e gonfia. Dopo una settimana, al
tramonto, spegnemmo le luci e la mamma venne di sopra. Sembrava che le
avessero legato due oggetti sulla fronte, grossi come mele e neri come
olive.
Non si parlò più di portarla in ospedale. Il momento di prendere quella
decisione era passato e tornare indietro avrebbe significato tornare a tutta la
violenza e alla paura dell’incidente. Il papà disse che tanto i dottori non
potevano fare nulla per lei. Era nelle mani di Dio.
Nei mesi seguenti la mamma mi chiamò con molti nomi diversi. Quando
mi chiamava Audrey non mi preoccupavo, ma era inquietante se durante
una conversazione mi chiamava Luke o Tony, e alla fine tutti in famiglia,
compresa lei stessa, prendemmo atto che dopo l’incidente non era più
quella di prima. Noi bambini la chiamavamo Occhi da panda. Pensavamo
fosse un bel soprannome. Quei cerchi neri erano là da settimane e ormai ci
avevamo fatto l’abitudine, tanto da scherzarci sopra. Non avevamo idea che
fosse un termine medico. Ecchimosi palpebrale, detta anche Occhi da
panda. Un segno di gravi lesioni cerebrali.
Tyler era roso dai sensi di colpa. Si sentiva responsabile dell’incidente e
continuò a sentirsi responsabile di ogni decisione successiva, di ogni
ripercussione, di ogni riverbero che si fece sentire nel corso degli anni.
Tornava sempre a quel momento e a tutte le sue conseguenze, come se il
tempo stesso fosse cominciato nell’istante in cui la nostra station wagon era
uscita di strada e non ci fosse mai stato nessun passato, nessun contesto,
nessuna azione di alcun tipo finché lui, all’età di diciassette anni, aveva
dato inizio a ogni cosa addormentandosi al volante. Ancora oggi, se la
mamma si dimentica qualche particolare, anche di poco conto, gli occhi di
Tyler riprendono quell’espressione – la stessa che aveva avuto subito dopo
lo scontro, quando si era guardato attorno perdendo sangue dalla bocca e
osservando quello che per lui era opera sua e soltanto sua.
Quanto a me, non ho mai dato la colpa a nessuno per l’incidente,
tantomeno a Tyler. Era successo e basta. Dieci anni dopo avrei visto le cose
in maniera diversa, in parte anche per la netta virata con cui entrai nell’età
adulta. Da allora l’incidente mi avrebbe sempre fatto pensare alle donne
apache e a tutte le decisioni che vanno a costituire una vita – alle scelte,
personali e collettive, che si combinano dando luogo a ogni singolo evento.
Granelli di sabbia incalcolabili che si compattano in sedimento e poi in
roccia.
5.
Fango onesto

Le nevi si sciolsero e la Principessa comparve sul versante della


montagna, sfiorando il cielo con la testa. Era domenica, un mese dopo
l’incidente, ed eravamo tutti riuniti in sala. Il papà aveva cominciato a
commentare una scrittura quando Tyler si schiarì la voce e disse che se ne
andava.
“Va-vado al co-co-college,” disse, serissimo in volto. A quelle parole gli
si gonfiò una vena sul collo, che compariva e scompariva a intervalli di
pochi secondi come un grosso serpente nervoso.
Tutti guardarono il papà. La sua espressione era muta, impassibile. Il
silenzio era anche peggio delle grida.
Tyler sarebbe stato il terzo dei miei fratelli ad andarsene di casa. Il più
grande, Tony, se n’era andato a lavorare come autotrasportatore di ghiaia o
rottami in attesa di racimolare abbastanza soldi per sposare la ragazza che
viveva in fondo alla strada. Shawn, il secondo in ordine di età, alcuni mesi
prima aveva litigato col papà e aveva tagliato la corda. Non lo vedevo da
allora, anche se ogni tanto la mamma riceveva una telefonata frettolosa in
cui Shawn la informava che stava bene e che lavorava come saldatore o
autotrasportatore. Se andava via anche Tyler il papà non avrebbe più avuto
aiutanti, e senza aiutanti non poteva costruire stalle o fienili. Avrebbe
dovuto ripiegare sui rottami.
“Cos’è il college?” dissi.
“Il college è una scuola extra per gli scemi che hanno ancora bisogno di
studiare,” rispose il papà. Tyler fissava il pavimento, teso in volto. Poi le
sue spalle si abbassarono, la sua espressione si distese e alzò lo sguardo.
Sembrava diventato un altro. I suoi occhi erano miti, cordiali. Non lo
riconoscevo più.
Ascoltò il papà, che attaccò con una delle sue prediche. “Ci sono due tipi
di professori universitari,” disse. “Quelli che sanno di mentire e quelli che
credono di dire la verità.” Fece un gran sorriso. “Se ci penso non so cosa sia
peggio, se un rappresentante in buona fede degli Illuminati, che almeno sa
di essere al servizio del diavolo, o un professore di alti principi che crede di
saperla più lunga di Dio.” Stava ancora sorridendo. La situazione non era
grave: doveva solo far ragionare suo figlio.
La mamma gli disse che stava perdendo tempo, che nessuno poteva far
cambiare idea a Tyler una volta che s’era messo in testa qualcosa. “Tanto
vale che prendi una scopa e ti metti a ramazzare il fango dalla montagna,”
disse. Poi si alzò, aspettò un momento di trovare l’equilibrio e scese
faticosamente di sotto.
Aveva l’emicrania. Ce l’aveva quasi sempre. Passava ancora le giornate
in taverna, salendo da noi solo dopo il tramonto, ma raramente si fermava
più di un’ora prima che la combinazione di sforzo e rumori le facesse
pulsare la testa. La guardai scendere i gradini lentamente e con attenzione,
la schiena curva, le mani strette al corrimano, come se fosse cieca e dovesse
avanzare a tentoni. Solo quando aveva piantato bene i piedi su un gradino
scendeva su quello successivo. Il gonfiore sul volto era pressoché
scomparso e sembrava quasi tornata quella di prima, tranne che per i due
cerchi attorno agli occhi, che erano gradualmente sbiaditi da nero a viola
scuro, e adesso erano un misto di lillà e color uvetta.
Un’ora dopo, il papà non stava più sorridendo. Tyler non aveva più
ripetuto il suo desiderio di andare al college ma non aveva nemmeno
promesso di restare. Se ne stava seduto con quell’espressione assente, in
attesa che finisse. “Un uomo non può vivere di libri e pezzi di carta,” disse
il papà. “Un giorno avrai una famiglia. Come puoi sfamare una moglie e dei
figli coi libri?”
Tyler piegò la testa per indicare che stava ascoltando, ma non disse nulla.
“Mio figlio, che si mette in fila per farsi lobotomizzare dai socialisti e
dalle spie degli Illuminati...”
“La s-s-scuola è gestita dalla c-c-chiesa,” l’interruppe Tyler. “Non s-sarà
co-così male, no?”
La bocca del papà si spalancò e uscì una folata d’aria. “Non credi che gli
Illuminati si siano infiltrati anche nella chiesa?” La sua voce era tonante;
ogni parola irradiava un’energia poderosa. “Non credi che il primo posto
dove andrebbero è la scuola, dove possono crescere un’intera generazione
di mormoni socialisti? Non è questo che ti ho insegnato!”
Mi ricorderò sempre mio padre in quel momento. La sua veemenza, la
sua disperazione. Si china in avanti, la mascella stretta e gli occhi socchiusi,
cercando sul volto di suo figlio un segno di assenso, un cenno d’intesa. Ma
non lo trova.
La storia di come Tyler decise di lasciare la montagna è strana, piena di
interruzioni e colpi di scena. Comincia con lo stesso Tyler, con la sua natura
così bizzarra. Succede a volte nelle famiglie: c’è un figlio che non c’entra
nulla, che segue un ritmo sballato, una metrica diversa. Nella nostra
famiglia questo figlio era Tyler. Mentre lui ballava un valzer, noi
saltellavamo una giga. Era sordo alla musica gracchiante delle nostre vite, e
noi eravamo sordi alla tranquilla polifonia della sua.
Tyler amava i libri e il silenzio. Amava organizzare, sistemare e
classificare le cose. Una volta la mamma trovò un intero scaffale di scatole
di fiammiferi nel suo armadio, suddivise per anno. Tyler disse che
contenevano trucioli di matita che aveva raccolto nei cinque anni passati e
che intendeva usare come micce da tenere nei nostri zaini “per la fuga”. Il
resto della casa era una confusione totale: sui pavimenti delle camere
c’erano pile di vestiti sporchi, unti e anneriti dalla discarica; i tavoli e gli
armadietti della cucina erano pieni di vasetti torbidi di tintura, che venivano
spostati solo per lasciar spazio a imprese ancora più caotiche, come
scuoiare una carcassa di cervo o togliere il Cosmoline da un fucile. Eppure,
in mezzo a quel disordine, Tyler possedeva mezzo decennio di trucioli di
matita, catalogati per anno.
I miei fratelli erano come un branco di lupi. Si confrontavano di continuo,
con litigi che scoppiavano ogni volta che uno dei piccoli cresceva
improvvisamente di peso e statura e reclamava importanza. Quand’ero
bambina di solito questi tafferugli si concludevano con la mamma che
sbottava per una lampada o un vaso rotto, ma a mano a mano che crescevo
c’erano sempre meno cose da rompere. La mamma diceva che un tempo,
quand’ero molto piccola, avevamo un televisore, ma che Shawn l’aveva
sfasciato sbattendoci contro la testa di Tyler.
Mentre i suoi fratelli si azzuffavano, Tyler ascoltava la musica. Aveva
l’unico stereo portatile che avessi mai visto, con accanto un’alta pila di cd
dai titoli strani come Mozart e Chopin. Una domenica pomeriggio, quando
Tyler avrà avuto sedici anni, mi sorprese a guardarli. Cercai di scappare,
temendo che mi picchiasse per avermi trovato in camera sua, invece mi
prese per mano e mi portò verso la pila di cd. “Qua-quale ti pi-piace di
più?” disse.
Ce n’era uno nero con in copertina un centinaio di uomini e donne vestiti
di bianco. Indicai quello. Tyler mi guardò dubbioso. “Qu-questa è musica
co-co-corale,” disse.
Infilò il disco nello stereo nero, poi si sedette alla sua scrivania a leggere.
Mi accovacciai per terra accanto ai suoi piedi a tracciare disegni sulla
moquette. La musica cominciò: un alito d’archi, poi un sussurro di voci che
cantavano, delicate come seta ma in qualche modo penetranti. Conoscevo
quell’inno – l’avevamo cantato in chiesa, un coro di voci scompagnate che
si alzavano in adorazione – ma questo era diverso. C’era l’adorazione ma
c’era anche qualcos’altro, qualcosa che aveva a che fare con lo studio, la
disciplina e la collaborazione. Qualcosa che ancora non capivo.
Il brano terminò e rimasi seduta paralizzata mentre cominciava il
secondo, poi quello dopo, finché il cd finì. Senza musica la stanza sembrava
priva di vita. Chiesi a Tyler se potevamo riascoltarlo e un’ora dopo, quando
la musica si fermò, lo supplicai di farlo partire di nuovo. Era molto tardi e la
casa era silenziosa quando Tyler si alzò dalla scrivania e premette play,
dicendo che era l’ultima volta.
“P-p-possiamo a-a-ascoltarlo ancora domani,” disse.
La musica diventò il nostro linguaggio. A causa del suo disturbo Tyler
aveva la tendenza a stare zitto, a tenere a freno la lingua. Per questo non ci
eravamo mai parlati molto. Non avevo avuto modo di conoscere mio
fratello. Adesso lo aspettavo ogni sera, quando rientrava dalla discarica.
Dopo che si era fatto la doccia, sfregandosi via dalla pelle la sporcizia del
giorno, si sedeva alla scrivania e diceva: “Co-co-cosa a-a-ascoltiamo
stasera?”. Allora sceglievo un cd e, mentre lui leggeva, mi sdraiavo per
terra accanto ai suoi piedi, gli occhi fissi suoi suoi calzini, e ascoltavo.
Di solito ero esagitata come gli altri fratelli, ma quando ero con Tyler mi
trasformavo. Forse era la musica, la sua grazia, o forse era la grazia di Tyler.
Era come se mi vedessi con i suoi occhi, in un certo senso. Cercavo di non
urlare. Cercavo di non litigare con Richard, soprattutto di non finire ad
azzuffarmi sul pavimento, con lui che mi tirava i capelli e io che gli
artigliavo la faccia.
Avrei dovuto sapere che un giorno Tyler se ne sarebbe andato. Tony e
Shawn se n’erano andati, ed erano molto più legati alla montagna rispetto a
Tyler. Tyler aveva sempre amato quello che il papà chiamava il “sapere
libresco”, una cosa a cui noialtri, con la sola eccezione di Richard, eravamo
del tutto indifferenti.
C’era stato un periodo, quando Tyler era piccolo, in cui la mamma aveva
nutrito grandi ideali in merito alla nostra educazione. Diceva sempre che lei
e il papà ci tenevano a casa per darci un’istruzione migliore rispetto agli
altri bambini. Ma era solo la mamma a dirlo, mentre secondo il papà
dovevamo acquisire più capacità pratiche. Quand’ero molto piccola la
questione era motivo di scontro, con la mamma che cercava di tenere scuola
ogni mattina e il papà che portava i miei fratelli in discarica non appena lei
si voltava dall’altra parte.
La mamma alla fine avrebbe perso quella battaglia. Cominciò tutto con
Luke, il quarto dei suoi cinque figli maschi. Luke era sveglio quando si
trattava della fattoria – sapeva occuparsi così bene degli animali che
sembrava in grado di parlare con loro – ma aveva grandi difficoltà di
apprendimento e faceva fatica a imparare a leggere. Per cinque anni, ogni
mattina, la mamma si sedette con lui al tavolo della cucina a spiegargli e
rispiegargli gli stessi suoni, ma arrivato a dodici anni Luke riusciva solo a
farfugliare una frase della Bibbia quando ci riunivamo a studiare le sacre
scritture. La mamma non capiva. Non aveva avuto problemi con Tony e
Shawn, e anche gli altri avevano imparato in qualche modo. Tony mi aveva
insegnato a leggere quando avevo quattro anni, credo per vincere una
scommessa con Shawn.
Una volta che Luke ebbe imparato a scribacchiare il suo nome e a leggere
delle frasi semplici, la mamma passò alla matematica. Le poche nozioni di
matematica che possiedo arrivano dalle mattine in cui, mentre lavavo i
piatti della colazione, ascoltavo la mamma ripetere in continuazione cos’è
una frazione o come si usano i numeri negativi. Luke non fece mai
progressi e dopo un anno la mamma si arrese. Smise di dire che avevamo
un’educazione migliore rispetto agli altri bambini. Cominciò a ripetere
quello che diceva il papà. “L’unica cosa che conta,” mi disse una mattina,
“è che voi bambini impariate a leggere. Le altre stupidaggini sono solo
lavaggio del cervello.” Il papà cominciò a portare i miei fratelli a lavorare
sempre prima finché, quando avevo otto anni e Tyler sedici, la scuola era
ormai un ricordo lontano.
La conversione della mamma alla filosofia del papà, tuttavia, non fu
totale, e ogni tanto ricadeva nei vecchi entusiasmi. Allora, mentre eravamo
tutti seduti a tavola per la colazione, annunciava che quel giorno avremmo
fatto scuola. In taverna c’era uno scaffale su cui teneva dei libri di
erboristica e alcuni vecchi tascabili. C’erano dei manuali di matematica, che
usavamo un po’ tutti, e un libro di storia americana che vidi leggere solo a
Richard. C’era anche un libro di scienze, ma doveva essere per bambini
piccoli perché era pieno di illustrazioni patinate.
Di solito ci mettevamo mezz’ora a trovare tutti i libri, poi ce li spartivamo
e andavamo nelle rispettive stanze a “fare scuola”. Non ho idea di cosa
facessero i miei fratelli quando facevano scuola ma, nel mio caso, aprivo il
libro di matematica e passavo dieci minuti a voltare le pagine, passando le
dita lungo il solco centrale. Se le mie dita toccavano cinquanta pagine,
dicevo alla mamma che avevo fatto cinquanta pagine di matematica.
“Fantastico!” diceva lei. “Visto? Non riusciresti mai a tenere questo ritmo
alla scuola pubblica. Puoi farlo solo a casa, dove puoi sederti e concentrarti
davvero, senza distrazioni.”
La mamma non teneva mai lezioni né ci sottoponeva a esami. Non ci
faceva mai scrivere degli elaborati. In taverna c’era un computer con un
programma chiamato Mavis Beacon che dava lezioni di dattilografia.
Certe volte, quand’era in giro a consegnare erbe, e se avevamo finito le
nostre faccende domestiche, la mamma ci lasciava alla biblioteca Carnegie
nel centro della città. Nel seminterrato c’era una stanza piena di libri per
bambini, che leggevamo. Richard prendeva anche dei libri dal piano di
sopra, libri per adulti, con titoli impegnativi di storia e scienze.
La cultura nella nostra famiglia era una questione da autodidatti: potevi
imparare tutto quello che riuscivi a studiare da solo, dopo che avevi finito di
lavorare. Alcuni di noi erano più disciplinati di altri. Io ero una delle
peggiori, tanto che verso i dieci anni l’unica materia che avessi studiato
sistematicamente era l’alfabeto Morse, perché il papà ci teneva in modo
particolare. “Se toglieranno l’elettricità, saremo gli unici nella valle in
grado di comunicare,” diceva, anche se non capivo bene con chi avremmo
comunicato se eravamo gli unici a conoscere quell’alfabeto.
I miei fratelli più grandi – Tony, Shawn e Tyler – erano cresciuti in un
decennio diverso ed era come se avessero avuto dei genitori diversi. Il loro
padre non aveva mai sentito nominare gli Weaver e non parlava mai degli
Illuminati. Aveva iscritto a scuola i suoi tre figli maggiori e, anche se li
aveva ritirati pochi anni dopo con la promessa di istruirli a casa, quando
Tony aveva chiesto di tornare sui banchi gliel’aveva permesso. Tony era
arrivato fino alle superiori ma aveva perso così tanti giorni lavorando in
discarica che non era riuscito a diplomarsi.
Tyler, essendo il terzo figlio, non si ricordava quasi nulla della scuola ed
era contento di studiare a casa. Finché non compì tredici anni. Allora, forse
perché la mamma passava tutto il tempo a insegnare a leggere a Luke, Tyler
chiese al papà se poteva iscriversi alla terza media.
Tyler passò a scuola tutto quell’anno, dall’autunno del 1991 alla
primavera del 1992. Imparò l’algebra, che gli sembrò facile e naturale come
respirare. Poi in agosto gli Weaver furono assediati dai Federali. Non so se
Tyler sarebbe tornato a scuola, ma so che dopo che il papà ebbe saputo
degli Weaver non permise a nessuno dei suoi figli di mettere mai più piede
in un’aula pubblica. Ad ogni modo, Tyler era rimasto stregato. Con i pochi
soldi che aveva si comprò un vecchio manuale di trigonometria e continuò a
studiare per conto suo. Poi volle passare all’analisi matematica ma, non
potendo permettersi altri manuali, andò a scuola e chiese al suo insegnante
se gliene poteva dare uno lui. L’insegnante gli rise in faccia. “Non puoi
imparare l’analisi matematica da solo,” disse. “È impossibile.”
“Mi dia un libro, credo che ce la farò,” ribatté Tyler. Se ne andò col
manuale sottobraccio.
Il vero problema era trovare il tempo per studiare. Ogni mattina alle sette
mio padre radunava i miei fratelli, li divideva in squadre di lavoro e li
mandava fuori a sbrigare le mansioni del giorno. Di solito ci metteva un’ora
ad accorgersi che Tyler non era con gli altri. Allora si precipitava in casa
dalla porta sul retro e marciava in camera sua, dove lo trovava seduto a
studiare. “Che diavolo stai facendo?” gridava, lasciando blocchi di fango
sulla moquette pulita. “Ho mandato Luke a caricare i profilati da solo – un
lavoro da due – e ti trovo qui seduto con le mani in mano?”
Se il papà mi avesse sorpresa sui libri anziché a lavorare, me la sarei data
a gambe. Tyler invece restava là. “Papà,” diceva. “La-lavorerò dopo p-p-
pranzo. Ma di m-mattina devo s-s-studiare.” Il più delle volte litigavano per
alcuni minuti, poi Tyler metteva giù la matita e, con le spalle basse,
s’infilava gli scarponi e i guanti da saldatore. Ma certe mattine, con mia
grande sorpresa, il papà se ne tornava fuori sbuffando dalla porta sul retro,
da solo.
Non pensavo che Tyler sarebbe andato davvero al college, che avrebbe
lasciato la montagna per unirsi agli Illuminati. Sapevo che il papà aveva
tutta l’estate per farlo ragionare e in effetti ci provava quasi ogni giorno
quando la sua ciurma rientrava per pranzo. Mentre i ragazzi davano una
mano a scodellare secondi e terzi piatti, il papà si sdraiava sul linoleum
della cucina – perché era stanco e aveva bisogno di distendersi un
momento, ma era troppo sporco per il divano della mamma – e attaccava
con la sua predica sugli Illuminati.
Ricordo un pranzo in particolare. Tyler sta preparando dei tacos con le
guarnizioni che la mamma ha disposto in tavola: mette i tre tacos l’uno
accanto all’altro sul suo piatto, poi aggiunge carne trita, lattuga e pomodori,
dosando con cura le porzioni e aggiungendo infine la panna acida. Il papà
continua a parlare senza sosta. Poi, proprio quando arriva alla fine della sua
predica e prende fiato per ricominciare, Tyler rovescia quei tre tacos perfetti
dentro il frullatore della mamma, quello che usa per preparare le tinture, e
l’accende. Il fracasso riempie la cucina, imponendo una specie di silenzio.
Il rumore cessa. Il papà riprende a parlare. Tyler versa il liquido arancione
dentro un bicchiere e comincia a bere lentamente, con attenzione, perché ha
ancora gli incisivi che dondolano e rischiano di cadere. Ci sono molti
ricordi che potrebbero rappresentare quel periodo della nostra vita, ma
questo mi è rimasto più impresso di tutti: la voce del papà che si alza dal
pavimento mentre Tyler beve i suoi tacos.
Quando la primavera lasciò il posto all’estate, la determinazione del papà
si trasformò in negazione. Era come se la questione fosse chiusa e lui
avesse vinto. Smise di parlare della partenza di Tyler e si rifiutò di assumere
un aiutante per sostituirlo.
Un pomeriggio Tyler mi portò a trovare la nonna e il nonno in città.
Abitavano nella stessa casa dov’era cresciuta la mamma, una casa che era
l’esatto opposto della nostra. Gli arredi non erano costosi, ma curati:
moquette bianco crema sui pavimenti, delicata tappezzeria floreale alle
pareti, pesanti tende pieghettate alle finestre. I nonni non cambiavano quasi
mai niente. La moquette, la tappezzeria, il tavolo della cucina, i ripiani... era
tutto uguale a come l’avevo visto nelle diapositive d’infanzia di mia madre.
Al papà non piaceva che frequentassimo quella casa. Prima di andare in
pensione il nonno faceva il postino e per il papà una persona che aveva
lavorato per lo Stato non meritava il rispetto. La nonna, a sentir lui, era
anche peggio. Era frivola. Non conoscevo il significato di quella parola, ma
il papà la ripeteva così spesso che avevo finito per associarla a lei – alla sua
moquette bianco crema e alla delicata carta da parati a fiorellini.
Tyler adorava quella casa. Gli piaceva la calma, l’ordine, il tono pacato
che avevano i nonni quando parlavano tra di loro. C’era un’atmosfera che
mi spingeva d’istinto, senza che me lo dicesse nessuno, a non gridare, a non
picchiare qualcuno e a non correre per la cucina a tutta velocità. Ma
dovevano dirmi, e ripetutamente, di lasciare le mie scarpe infangate
all’ingresso.
“Al college!” disse mia nonna dopo che ci fummo seduti sul divano a
fiori. Si voltò verso di me. “Devi essere così orgogliosa di tuo fratello!”
Socchiuse gli occhi per far posto a un grande sorriso. Potevo vedere la sua
dentatura al completo. Cavoli suoi, se crede che farsi fare il lavaggio del
cervello sia qualcosa da celebrare, pensai.
“Devo andare in bagno,” dissi.
Camminai lentamente per il corridoio, fermandomi a ogni passo ad
affondare le dita dei piedi dentro la moquette. Sorrisi pensando a quello che
aveva detto il papà, ovvero che la moquette della nonna era così bianca solo
perché il nonno non aveva mai lavorato davvero. “Può darsi che io abbia le
mani sporche,” aveva detto, facendo l’occhiolino e mostrandomi le sue
unghie nere. “Ma è fango onesto.”
Passarono le settimane e fu piena estate. Una domenica il papà riunì tutta
la famiglia. “Abbiamo delle buone scorte di cibo,” disse. “Abbiamo messo
da parte acqua e benzina. Quello che ci manca sono i soldi.” Prese una
banconota da venti dal portafoglio e l’accartocciò. “Non questi soldi finti.
Nei Giorni dell’Abominio, questi non varranno niente. La gente scambierà
banconote da cento dollari per un rotolo di carta igienica.”
M’immaginai un mondo in cui la statale era disseminata di bigliettoni
verdi come se fossero lattine delle bibite vuote. Mi guardai attorno.
Sembrava che anche gli altri stessero pensando la stessa cosa, soprattutto
Tyler. I suoi occhi erano concentrati, determinati. “Ho un po’ di soldi da
parte,” continuò il papà. “E anche vostra madre ha qualche risparmio. Li
cambieremo in argento. Presto la gente vorrà solo questo, oro e argento.”
Dopo poco il papà tornò a casa con l’argento e anche con un po’ d’oro. Il
metallo arrivò sotto forma di monete impacchettate dentro a piccole scatole
pesanti, che il papà andò ad ammucchiare in taverna. Non mi permise di
aprirle. “Non si gioca con queste cose,” disse.
Alcuni giorni dopo, Tyler prese diverse migliaia di dollari – quasi tutti i
risparmi che gli restavano dopo aver risarcito il contadino per il trattore e il
papà per la station wagon – e comprò anche lui dell’argento, che sistemò in
taverna accanto all’armadietto dei fucili. Rimase là a lungo a studiare le
scatole, come sospeso tra due mondi.
Tyler fu un bersaglio più facile: lo supplicai e mi diede una moneta
d’argento grossa quanto il palmo della mia mano. La moneta mi
tranquillizzò. Il fatto che Tyler l’avesse acquistata mi sembrava una
dichiarazione di fedeltà, una promessa alla nostra famiglia che nonostante la
follia che si era impadronita di lui, facendogli desiderare di andare a scuola,
alla fine avrebbe scelto noi. Avrebbe combattuto al nostro fianco quando
sarebbe arrivata la Fine. Quando le foglie cominciarono a cambiare colore,
dai verdi ginepro dell’estate ai rossi granata e gli ori bruniti dell’autunno,
quella moneta continuò a luccicare anche nella penombra, lustrata dal
continuo tocco delle mie dita. Avevo trovato conforto nella sua grezza
fisicità, sicura che se la moneta era reale, la partenza di Tyler non poteva
esserlo.
Una mattina d’agosto mi svegliai e vidi che Tyler stava infilando i suoi
vestiti, i libri e i cd dentro agli scatoloni. Aveva quasi finito quando ci
sedemmo a tavola per colazione. Mangiai velocemente, poi andai in camera
sua e guardai le mensole vuote a eccezione di un solo cd, quello nero con
l’immagine delle persone vestite di bianco. Il Coro del Tabernacolo
Mormone. Tyler comparve sulla soglia. “L’ho la-la-lasciato per t-te,” disse.
Poi uscì e lavò la sua macchina con la canna dell’acqua, ripulendola della
polvere dell’Idaho come se non avesse mai visto uno sterrato in vita sua.
Il papà finì di fare colazione e se ne andò senza dire una parola. Potevo
capirlo. Vedere Tyler che caricava gli scatoloni in macchina mi fece
impazzire. Avrei voluto gridare, invece corsi fuori dalla porta sul retro e su
per le colline in direzione del picco. Corsi finché il pulsare del sangue nelle
orecchie soffocò i pensieri nella mia testa. Poi mi voltai e tornai indietro di
corsa, girando attorno al pascolo e verso la carrozza rossa del treno. Mi
arrampicai sul tetto appena in tempo per vedere Tyler che chiudeva il
bagagliaio e girava in cerchio, come se volesse salutare ma non ci fosse
nessuno da salutare. M’immaginai che chiamasse il mio nome, e il suo
volto che s’intristiva vedendo che non rispondevo.
Si sedette al volante mentre scendevo dalla carrozza, e la sua macchina
stava sferragliando lungo lo sterrato quando balzai fuori da dietro un
serbatoio di ferro. Tyler si fermò, poi scese e mi abbracciò – non
l’abbraccio ricurvo che spesso gli adulti danno ai bambini, ma quell’altro:
tutti e due in piedi, e lui che mi prendeva tra le braccia e avvicinava il volto
al mio. Disse che gli sarei mancata, poi mi lasciò andare, salì in macchina e
corse giù dalla collina e sulla statale. Guardai la polvere posarsi a terra.
Da allora Tyler tornò a casa pochissime volte. Si stava costruendo una
nuova vita al di là delle linee nemiche. Faceva poche escursioni nel nostro
versante. Non ho quasi più ricordi di lui per i cinque anni seguenti finché,
quand’avrei avuto quindici anni, si sarebbe riaffacciato nella mia vita in un
momento critico. Ma ormai saremmo stati due estranei.
Ci avrei messo molti anni a capire quanto gli era costato andarsene quel
giorno e quant’era confuso sul suo futuro. Anche Tony e Shawn se n’erano
andati, ma per fare quello che gli aveva insegnato mio padre: guidare
camion, saldare, raccattare rottami. Quello di Tyler, invece, fu un salto nel
vuoto. Non so perché lo fece, non lo sa nemmeno lui. Non sa spiegare da
dove arrivò quella determinazione, né come riuscì a illuminare le tenebre
dell’incertezza. Ma ho sempre pensato che c’entrasse la musica nella sua
testa, una melodia incoraggiante che noi non potevamo sentire, la stessa
melodia segreta che aveva canticchiato sottovoce quando aveva comprato
quel libro di trigonometria o messo da parte tutti quei trucioli di matita.
L’estate stava declinando, sembrava evaporare nel suo stesso calore. Le
giornate erano ancora calde ma di sera cominciava a far freddo, e le ore di
buio dopo il tramonto reclamavano sempre più spazio. Tyler se n’era andato
da un mese.
Un pomeriggio mi trovavo dalla nonna in città. Di mattina mi ero fatta il
bagno, anche se non era domenica, e mi ero messa dei vestiti speciali senza
buchi o macchie così che, pulita e in ordine, potessi sedermi nella cucina
della nonna a guardarla preparare i biscotti alla zucca. Il sole autunnale
filtrava attraverso le tende sottili e bagnava le piastrelle con le decorazioni
di calendule, dando alla stanza un bagliore ambrato.
Dopo che la nonna ebbe infornato la prima teglia, andai in bagno.
Attraversai il corridoio di soffice moquette bianca e provai una fitta di
rabbia al pensiero che l’ultima volta che ero stata là c’era anche Tyler. Il
bagno mi metteva a disagio. Guardai il lavandino perlaceo, la tinta rosata
della moquette, il tappetino color pesca. Perfino la carta igienica spuntava
da sotto una copertura giallo canarino. Guardai il mio riflesso allo specchio,
incorniciato da piastrelle bianco crema. Non sembravo affatto io e per un
istante mi chiesi se era questo che voleva Tyler, una casa graziosa con un
bagno grazioso e una sorella graziosa che lo andasse a trovare. Forse era per
questo che se n’era andato. Lo odiai.
Vicino al rubinetto, dentro una conchiglia color avorio, c’erano diverse
saponette rosa e bianche a forma di cigni e rose. Presi un cigno e sentii la
sua figura tenera cedere sotto la pressione delle mie dita. Era bello e pensai
di prenderlo. Me l’immaginai nel nostro bagno in taverna, le sue ali delicate
contro il cemento grezzo. Lo vidi abbandonato in una pozza torbida sul
lavandino, circondato da strisce di tappezzeria arricciata e ingiallita. Lo
rimisi nella sua conchiglia.
Quando uscii trovai la nonna che mi aspettava in corridoio.
“Ti sei lavata le mani?” mi chiese, il tono dolce e burroso.
“No,” dissi.
La mia risposta le fece irrancidire la voce. “Perché no?”
“Non erano sporche.”
“Devi sempre lavarti le mani dopo che sei stata in bagno.”
“Non è importante,” dissi. “A casa non abbiamo nemmeno il sapone in
bagno.”
“Impossibile,” ribatté lei. “Non è così che ho tirato su tua madre.”
Raddrizzai le spalle, pronta a discutere, a ripetere che non usavamo il
sapone, ma quando alzai lo sguardo, la donna che vidi non era quella che mi
aspettavo di vedere. Non sembrava frivola, non sembrava una che avrebbe
perso un’intera giornata a preoccuparsi per la sua moquette bianca. In quel
momento si era trasformata. Forse c’era qualcosa nei suoi occhi, il modo in
cui mi guardavano increduli, o forse la linea dura della bocca, stretta,
determinata. O forse non era proprio niente, solo la stessa donna anziana di
sempre che diceva le cose che diceva sempre. Forse la sua trasformazione
dipendeva da un mio momentaneo cambio di prospettiva, come se ora la
vedessi con gli occhi di Tyler, quel fratello che odiavo e che amavo.
La nonna mi portò in bagno e mi guardò lavare le mani, poi indicò
l’asciugamano rosa dove asciugarle. Mi bruciavano le orecchie e avevo la
gola in fiamme.
Il papà venne a prendermi poco dopo, di ritorno da un lavoro. Accostò il
furgone e suonò il clacson e io uscii a testa bassa. La nonna mi seguì. Mi
affrettai a salire sul sedile del passeggero, spostando una cassetta degli
attrezzi e dei guanti da saldatore, mentre la nonna diceva al papà che non mi
lavavo. Il papà ascoltò succhiandosi le guance mentre con la mano destra
giocherellava con la leva del cambio. Una risata gli ribolliva dentro.
Ora che ero tornata da mio padre, sentivo il potere della sua persona. Una
lente famigliare mi scivolò sugli occhi e la nonna perse qualunque influenza
avesse avuto su di me un’ora prima.
“Non insegni ai tuoi figli a lavarsi le mani dopo che sono stati in bagno?”
disse la nonna.
Il papà inserì la marcia. Mentre il furgone si muoveva, fece un cenno e
disse: “Gli insegno a non pisciarsi sulle mani”.
6.
Scudo e brocchiere

L’inverno dopo la partenza di Tyler, Audrey compì quindici anni. Andò a


ritirare la sua patente in Comune e, sulla via del ritorno, trovò lavoro in un
fast food. Poi accettò un secondo lavoro come mungitrice di vacche alle
quattro di mattina, ogni giorno. Era un anno che litigava col papà per i
divieti che le imponeva. Adesso aveva dei soldi, una macchina sua e non la
vedevamo quasi mai. La famiglia si stava riducendo, la vecchia gerarchia si
stringeva.
Il papà non aveva abbastanza aiutanti per costruire fienili, così tornò a
raccattare rottami. Senza Tyler, il resto di noi avanzò di grado. Luke, a
sedici anni, diventò il figlio maggiore, il braccio destro di mio padre, e io e
Richard prendemmo il suo posto come soldati semplici.
Ricordo la prima mattina che misi piede in discarica nelle vesti di aiutante
del papà. Il suolo era ghiacciato, anche l’aria sembrava solida. Eravamo nel
terreno sopra il pascolo più basso, che era invaso da centinaia di auto e
furgoni. Alcuni veicoli erano vecchi e rotti, ma la maggior parte erano stati
demoliti, com’era evidente: piegati, incurvati e ritorti, facevano pensare più
a carta spiegazzata che a metallo. Al centro del terreno c’era un lago di
rottami, vasto e profondo: batterie che perdevano, cavi elettrici
aggrovigliati, trasmissioni abbandonate, pezzi di lamiera arrugginita, vecchi
rubinetti, radiatori fracassati, tubi d’ottone dentellati e lucenti e così via. Era
una massa informe, sterminata.
Il papà mi portò ai suoi margini.
“Sai che differenza c’è tra l’alluminio e l’acciaio inossidabile?” disse.
“Credo di sì.”
“Vieni qua.” Aveva un tono impaziente. Era abituato a comandare uomini
adulti. Dover spiegare il suo mestiere a una bambina di dieci anni per
qualche motivo ci faceva sentire entrambi piccoli.
Tirò fuori un pezzo di metallo lucente. “Questo qui è alluminio,” disse.
“Vedi come luccica? Senti com’è leggero?” Me lo mise in mano. Aveva
ragione: non era pesante come sembrava. Poi mi diede un tubo ammaccato.
“Questo qui è metallo,” disse.
Cominciammo a dividere i rottami in mucchi diversi – alluminio, ferro,
acciaio, rame – per poterli rivendere. Presi un pezzo di ferro. Era coperto di
una ruggine color bronzo e i suoi angoli seghettati mi pungevano i palmi.
Avevo un paio di guanti di cuoio, ma quando il papà li vide disse che mi
avrebbero rallentato. “Presto ti verranno dei calli,” promise mentre glieli
consegnavo. Avevo trovato un elmetto nell’officina, ma il papà mi requisì
anche quello. “Ti muoverai più piano se devi tenere in equilibrio ’sto coso
sulla testa,” disse.
Il papà era ossessionato dal tempo. Si sentiva il fiato sul collo. Lo capivo
dalle occhiate ansiose che lanciava al sole mentre si spostava nel cielo, dal
nervosismo con cui soppesava ogni tubo o pezzo di acciaio. Vedeva ogni
rottame per il prezzo a cui poteva rivenderlo, meno il tempo necessario a
smistarlo, tagliarlo e consegnarlo. Ogni lastra di ferro, ogni cerchio di tubi
di rame era cinque centesimi, dieci centesimi, un dollaro – meno, se ci si
metteva più di due secondi a estrarlo e classificarlo – e valutava
costantemente questi magri profitti rispetto alle spese di gestione della casa.
Calcolò che per poter continuare ad avere elettricità e riscaldamento doveva
lavorare a un ritmo serrato. Non lo vidi portare mai nulla ai bidoni di
smistamento: non faceva altro che lanciare i pezzi con tutta la forza che
aveva dal punto in cui si trovava.
La prima volta che lo vidi fare così pensai che fosse un caso, un gesto che
non si sarebbe ripetuto. Non avevo ancora capito le regole di quel nuovo
mondo. Mi ero abbassata a prendere una bobina di rame, quando qualcosa
di enorme mi sfrecciò accanto. Quando mi voltai per vedere da dove
arrivava, mi beccai un cilindro d’acciaio dritto in pancia.
L’impatto mi buttò a terra. “Ops!” gridò il papà. Mi rovesciai sul
ghiaccio, senza riuscire a respirare. Quando mi rialzai il papà aveva lanciato
qualcos’altro. Mi abbassai di scatto, ma persi l’equilibrio e caddi di nuovo.
Questa volta rimasi giù. Tremavo, ma non dal freddo. Mi formicolava la
pelle per la certezza del pericolo, ma quando cercai la fonte di quel pericolo
non vidi altro che un uomo vecchio e stanco che trascinava una plafoniera
rotta.
Ripensai a tutte le volte che avevo visto uno dei miei fratelli entrare di
corsa dalla porta sul retro, gemendo e stringendosi una parte del corpo che
si era tagliata, schiacciata, rotta o bruciata. Ripensai a quando, due anni
prima, un certo Robert, che lavorava per il papà, aveva perso un dito.
Ricordavo le sue grida sovrumane mentre correva in casa. Ricordavo di
aver guardato il moncone insanguinato e poi il dito mozzato, che Luke
portò dentro e mise sul bancone. Sembrava uno di quegli accessori che
usano i prestigiatori. La mamma lo mise nel ghiaccio e portò subito Robert
in città perché i dottori glielo riattaccassero. Quello di Robert non fu l’unico
dito che si prese la discarica. Un anno prima di Robert la fidanzata di
Shawn, Emma, era entrata dalla porta sul retro strillando. Stava aiutando
Shawn quando aveva perso un pezzo di indice. La mamma aveva portato
anche lei di corsa in città, ma la carne si era spappolata e non si poté far
nulla.
Mi guardai le dita rosa e in quel momento la discarica cambiò. Da piccoli,
io e Richard avevamo passato un sacco di tempo tra i rottami, saltando da
un’auto distrutta all’altra, saccheggiandone alcune, risparmiandone altre.
Quel posto aveva fatto da sfondo a mille battaglie immaginarie – tra demoni
e stregoni, fate e pagliacci, troll e giganti. Ora era diverso. Aveva smesso di
essere il campo giochi della mia infanzia ed era diventato qualcosa di reale,
governato da leggi fisiche misteriose e ostili.
Stavo pensando allo strano disegno tracciato dal sangue lungo il polso di
Emma, al suo avambraccio screziato, quando mi alzai e, ancora tremante,
cercai di staccare il piccolo pezzo di tubo di rame. Ce l’avevo quasi fatta
quando il papà lanciò una marmitta catalitica. Balzai di lato, tagliandomi la
mano contro il bordo seghettato di una tanica bucata. Mi asciugai il sangue
sui pantaloni e gridai: “Non lanciarli qui! Ci sono io!”.
Il papà alzò lo sguardo, sorpreso. Si era dimenticato della mia presenza.
Quando vide il sangue si avvicinò e mi mise una mano sulla spalla. “Non
preoccuparti, tesoro,” disse. “Dio e i suoi angeli sono qui che lavorano al
nostro fianco. Ti proteggeranno.”
Non ero l’unica a sentire il terreno mancarmi sotto i piedi. Nei sei mesi
successivi all’incidente in macchina, la mamma aveva continuato a
migliorare, tanto che avevamo pensato che si sarebbe rimessa del tutto. Le
emicranie erano diventate meno frequenti e doveva chiudersi in taverna
solo due o tre giorni alla settimana. Poi i progressi erano diminuti. Adesso
erano passati nove mesi. Le emicranie c’erano ancora e la mamma aveva
dei vuoti di memoria. Almeno due volte alla settimana mi chiedeva di
preparare la colazione quando tutti avevano già finito di mangiare da un
pezzo e i piatti erano stati lavati. Mi diceva di pesare mezzo chilo di
millefoglio, e le ricordavo che avevamo consegnato il millefoglio il giorno
prima. Cominciava a preparare una tintura e un momento dopo non
ricordava più che ingredienti aveva usato e bisognava buttare via tutto.
Certe volte mi chiedeva di starle accanto per controllare e, in caso,
avvertirla: “Hai già aggiunto la lobelia. Ora ci vuole la verbena blu”.
Temeva che non avrebbe più potuto fare la levatrice e, se la cosa la
rattristava, il papà era devastato. Si rabbuiava ogni volta che la vedeva
mandare via una donna. “E se mi viene l’emicrania quando cominciano le
doglie?” gli diceva. “E se non mi ricordo che erbe le ho dato o la frequenza
cardiaca del bambino?”
Alla fine non fu il papà a convincere la mamma a riprendere il lavoro. Si
convinse da sé, forse perché era una parte di lei a cui non poteva rinunciare
facilmente. Quell’inverno, da quel che ricordo, fece nascere due bambini.
Dopo il primo parto tornò a casa pallida e fiacca, come se mettere al mondo
quella vita avesse risucchiato parte della sua. Quando arrivò la seconda
telefonata era chiusa in taverna. Si mise in macchina con degli occhiali
scuri, cercando di sbirciare attraverso le onde che le deformavano la vista.
Quando arrivò a destinazione il mal di testa si era fatto accecante, pulsante,
ottenebrante. Si chiuse in una stanza sul retro mentre la sua assistente si
occupava del parto. Dopo quella volta, la mamma smise di fare la levatrice.
Al parto successivo diede il grosso del suo compenso a una seconda
levatrice perché la controllasse durante il lavoro. Sembrava che tutti la
dovessero controllare. Se prima era un’esperta, un’autorità indiscussa,
adesso doveva chiedere a sua figlia di dieci anni di ricordarle se aveva
pranzato. Fu un inverno lungo e buio, e a volte mi chiedevo se per caso la
mamma non restasse a letto anche se non aveva l’emicrania.
A Natale qualcuno le regalò una boccetta di una costosa miscela di oli
essenziali. Le alleviò i mal di testa, ma 10 ml costavano cinquanta dollari e
non potevamo permettercelo. La mamma decise allora di prepararla da sé.
Cominciò a comprare oli singoli e non diluiti – di eucalipto, elicriso,
sandalo e ravensara – e la casa, che per anni aveva saputo di corteccia e
foglie amare, all’improvviso profumava di lavanda e camomilla. Passava
giornate intere a mescolare oli, apportando modifiche per ottenere fragranze
e qualità specifiche. Lavorava con penna e blocchetto, annotando ogni
passaggio. Gli oli costavano molto di più delle tinture e fu un dramma
quando ne dovette buttare via una partita intera perché non ricordava se
aveva aggiunto l’abete rosso. Preparò un olio per l’emicrania e un altro per i
dolori mestruali, uno per i muscoli indolenziti e un altro per le palpitazioni.
Negli anni seguenti ne avrebbe ideati molti altri.
Per realizzare i suoi composti cominciò a usare una cosa chiamata “test
muscolare”, che come mi spiegò consisteva nel “chiedere al corpo di cosa
ha bisogno e lasciare che risponda”. La mamma diceva a voce alta: “Ho
l’emicrania. Cosa mi può far bene?”. Poi prendeva una boccetta, se la
premeva sul petto e chiedeva a occhi chiusi: “Questo?”. Se il suo corpo
oscillava in avanti significava che sì, quell’olio le avrebbe fatto bene. Se il
suo corpo oscillava all’indietro significava no, e allora doveva provare con
qualcos’altro.
Quando cominciò a prenderci la mano, smise di usare tutto il corpo e si
servì solo delle dita. Incrociava l’indice e il medio, poi li premeva
leggermente cercando di liberarli e faceva una domanda. Se le dita
restavano incrociate la risposta era sì, se si staccavano era no. Il rumore
prodotto da questo sistema era debole ma inconfondibile: ogni volta che il
polpastrello del dito medio slittava sull’unghia dell’indice, si sentiva un
carnoso clic.
La mamma usò il test muscolare per sperimentare anche altri metodi di
guarigione. In casa comparvero diagrammi dei chakra e dei punti di
pressione, e le sue clienti cominciarono a pagare per quello che chiamava
“lavoro energetico”. Non sapevo cosa significasse, finché un pomeriggio la
mamma chiamò me e Richard nella stanza sul retro. Con lei c’era una
donna di nome Susan. La mamma aveva gli occhi chiusi e teneva la mano
sinistra sopra quella di Susan. Le dita dell’altra mano erano incrociate.
Mormorò delle domande sottovoce. Dopo un po’ si girò verso la donna e
disse: “Il rapporto con tuo padre ti sta danneggiando i reni. Pensa a lui
mentre riequilibriamo il chakra”. Spiegò che il lavoro energetico funziona
meglio se partecipano più persone. “Così possiamo attingere all’energia di
ciascuno,” disse. Mi indicò la fronte e mi disse di toccarla al centro, tra le
sopracciglia, mentre con l’altra mano prendevo il braccio di Susan. Richard
doveva premersi un punto sul petto e stabilire un contatto con me con l’altra
mano, e la mamma si sarebbe premuta un punto sul palmo mentre toccava
Richard col piede. “Così,” disse mentre prendevo il braccio di Richard.
Restammo in silenzio per dieci minuti, come una catena umana.
Se ripenso a quel pomeriggio, la prima cosa che ricordo è l’imbarazzo. La
mamma diceva di sentire l’energia calda che scorreva attraverso i nostri
corpi, ma io non sentivo niente. Lei e Richard erano immobili, con gli occhi
chiusi, il respiro leggero. Riuscivano a sentire l’energia e ne erano
trasportati. Io ero irrequieta. Cercavo di concentrarmi, poi cominciavo a
pensare che forse stavo rovinando tutto, che stavo interrompendo la catena,
che i poteri curativi della mamma e di Richard non sarebbero mai arrivati a
Susan perché non riuscivo a trasmetterli.
Se ero scettica non era del tutto colpa mia. Non sapevo decidere di quale
delle mie madri fidarmi. Un anno prima dell’incidente, quando la mamma
aveva sentito parlare per la prima volta di test muscolare e lavoro
energetico, aveva detto che erano solo delle pie illusioni. “La gente vuole i
miracoli,” mi aveva detto. “Crederanno a qualsiasi cosa se gli si dà un
minimo di speranza, se pensano che li farà stare meglio. Ma la magia non
esiste. Alimentazione, esercizio fisico e uno studio attento delle proprietà
delle erbe: c’è solo questo. Ma quando sta male, la gente non vuole
accettarlo.”
Adesso la mamma diceva che la guarigione era una questione spirituale e
illimitata. Il test muscolare, mi spiegò, era una specie di preghiera, una
supplica divina. Un atto di fede in cui Dio parlava attraverso le sue dita. A
volte credevo a questa donna saggia che aveva una risposta a ogni
domanda; ma non potevo dimenticare le parole di quell’altra donna,
quell’altra madre, altrettanto saggia. La magia non esiste.
Un giorno la mamma annunciò che aveva sviluppato una nuova capacità.
“Non devo più fare la domanda ad alta voce,” disse. “Posso solo pensarla.”
Fu allora che cominciai a vederla spostarsi per casa posando delicatamete
la mano su vari oggetti e mormorando tra sé, mentre fletteva le dita a un
ritmo regolare. Faceva il pane e non sapeva bene quanta farina aveva
messo. Clic clic clic. Mescolava oli essenziali e non ricordava se aveva
aggiunto l’incenso. Clic clic clic. Si sedeva a leggere le sacre scritture per
mezz’ora, si dimenticava a che ora aveva cominciato, allora faceva un test
muscolare per capire quanto tempo era passato. Clic clic clic.
La mamma cominciò a eseguire test muscolari in maniera compulsiva,
quasi soprappensiero, ogni volta che si stancava di una conversazione, ogni
volta che le ambiguità della sua memoria o anche solo quelle della vita di
tutti i giorni la lasciavano insoddisfatta. Il suo viso si distendeva, la sua
espressione si faceva assente e le sue dita si mettevano a scattare come grilli
al crepuscolo.
Il papà era entusiasta. “I dottori non sanno dirti cos’hai toccandoti e
basta,” diceva. “Ma la mamma sì!”
Quell’inverno il ricordo di Tyler non mi dava pace. Ripensavo al giorno
che se n’era andato e com’era stato strano vedere la sua auto piena di
scatoloni sobbalzare giù dalla collina. Non potevo immaginare dov’era, ma
a volte mi chiedevo se la scuola non fosse così malvagia come diceva il
papà, perché Tyler era la persona meno malvagia che conoscessi e amava la
scuola – a quanto pare, l’amava più di quanto amasse noi.
Il seme della curiosità era piantato: ora aveva solo bisogno di tempo e di
noia per crescere. A volte, mentre staccavo del rame da un radiatore o
buttavo il cinquecentesimo pezzo di acciaio dentro il bidone, mi ritrovavo a
fantasticare sulle aule dove Tyler passava le sue giornate. Il mio interesse
aumentava col passare delle ore mortali che trascorrevo in discarica, finché
un giorno mi venne un’idea bizzarra: mi sarei iscritta alla scuola pubblica.
La mamma aveva sempre detto che potevamo andare a scuola se
volevamo. Dovevamo solo chiedere al papà. Poi potevamo andarci.
Ma non glielo chiesi. C’era qualcosa nella durezza del volto di mio padre,
nel sospiro leggero e implorante che faceva ogni mattina prima di
cominciare le preghiere di famiglia, che mi faceva pensare che la mia
curiosità fosse qualcosa di osceno, un insulto a tutto quello che aveva
sacrificato per crescermi.
Cercai in qualche modo di studiare nel tempo libero che mi rimaneva
dopo la discarica e le tinture e miscele di oli essenziali che preparavo con la
mamma. Lei aveva ormai rinunciato a istruirci in casa, ma aveva ancora un
computer e c’erano dei libri in taverna. Trovai il manuale di scienze, con le
sue illustrazioni colorate, e quello di matematica che mi ricordavo dagli
anni passati. Trovai anche un manuale di storia verde sbiadito. Ma appena
mi sedevo per studiare, mi addormentavo quasi sempre. Le pagine erano
lucide e leggere, rese ancora più leggere dalle ore passate a smistare
rottami.
Quando il papà mi vedeva con uno di quei libri cercava di farmi fare
altro. Forse ripensava a Tyler. Forse pensava che se riusciva a distrarmi per
qualche anno, il pericolo sarebbe passato. Così s’inventava dei lavoretti per
me, anche se non ce n’era bisogno. Un pomeriggio, dopo avermi sorpresa
col manuale di matematica, passammo un’ora a portare grossi secchi
d’acqua agli alberi da frutto nel campo, cosa che sarebbe stata
assolutamente normale se non fosse che stava diluviando.
Ma se il papà voleva evitare che i suoi figli s’interessassero troppo alla
scuola e ai libri – che si lasciassero sedurre dagli Illuminati, com’era
successo a Tyler –, avrebbe fatto meglio a tenere d’occhio Richard. Anche
Richard in teoria doveva passare i pomeriggi a preparare tinture per la
mamma, ma non lo faceva quasi mai. Il più delle volte spariva. Non so se la
mamma sapesse dove andava, ma io sì. Di pomeriggio Richard scendeva
quasi sempre in taverna e s’infilava nel minuscolo spazio tra il divano e la
parete con un’enciclopedia aperta davanti. Se il papà passava di là,
spegneva la luce, borbottando per lo spreco. Allora trovavo qualche scusa
per andare da basso e riaccenderla. Se il papà scendeva di nuovo, lo si
sentiva ringhiare per casa e la mamma doveva sorbirsi una delle sue
prediche sulla brutta abitudine di lasciare le luci accese nelle stanze vuote.
Dato che la mamma non se la prendeva mai con me, immagino che sapesse
dov’era Richard. Se non riuscivo a tornare di sotto ad accendere la luce,
Richard si avvicinava il libro al naso e leggeva al buio. Ci teneva un sacco.
Ci teneva un sacco a leggere l’Enciclopedia.
Tyler se n’era andato. Era come se non fosse mai stato in quella casa,
tranne che per un particolare: ogni sera, dopo cena, chiudevo la porta di
camera mia e tiravo fuori il suo vecchio stereo da sotto il letto. Avevo
spostato la sua scrivania nella mia stanza e mentre il coro cantava, mi
sedevo sulla sua sedia e studiavo, come l’avevo visto fare migliaia di volte.
Non studiavo storia o matematica. Studiavo religione.
Lessi il Libro di Mormon due volte. Lessi il Nuovo Testamento, una volta
velocemente e una seconda volta più piano, fermandomi a prendere appunti,
a fare rimandi, perfino a scrivere brevi elaborati su dogmi come la fede e il
sacrificio. Nessuno leggeva quegli elaborati: li scrivevo per me, come
m’immaginavo che Tyler avesse studiato per sé e per nessun altro. Mi
cimentai con l’Antico Testamento, poi lessi i libri del papà, che erano
perlopiù raccolte di discorsi, lettere e diari dei primi profeti mormoni. La
lingua era quella del diciannovesimo secolo – compassata, tortuosa, ma
precisa – e all’inizio non ci capivo niente. Ma col tempo occhi e orecchie si
abituarono e cominciai a sentirmi a mio agio con quei frammenti del
passato della mia gente, con le storie di quei pionieri – i miei antenati – che
avevano attraversato le selvagge regioni americane. Se le storie erano
vivide, i discorsi erano astratti, dei trattati su oscure questioni filosofiche, e
fu a queste astrazioni che dedicai la maggior parte dei miei studi.
Rispensandoci, credo che sia stata questa la mia educazione, quella che
avrebbe contato qualcosa: le ore che passai seduta a una scrivania presa in
prestito, cercando di analizzare piccoli frammenti di dottrina mormona e di
imitare un fratello che mi aveva abbandonato. Fu così che acquisii una dote
fondamentale: la pazienza di studiare cose che non riuscivo ancora a capire.
Quando la neve in montagna cominciò a sciogliersi, le mie mani erano
piene di calli. Una stagione in discarica aveva affinato i miei riflessi: avevo
imparato a riconoscere il basso grugnito che si lasciava sfuggire il papà
ogni volta che lanciava qualcosa di pesante, e quando lo sentivo mi buttavo
per terra. Era così tanto il tempo che passavo distesa nel fango, che non
avevo modo di lavorare granché. Il papà mi prendeva in giro. Diceva che
ero lenta come melassa che scorreva in salita.
Il ricordo di Tyler era sbiadito e con esso la sua musica, soffocata dal
fracasso del metallo che si schiantava contro il metallo. Erano questi i suoni
che adesso mi riempivano la testa di sera: il tintinnio della lamiera, il colpo
leggero del filo di rame, il fragore del ferro.
Ero entrata in quella nuova realtà. Vedevo il mondo con gli occhi di mio
padre. Vedevo gli angeli, o almeno m’immaginavo di vederli, che ci
guardavano lavorare e intervenivano per acciuffare le batterie o i tubi
d’acciaio seghettati che il papà lanciava per il prato. Avevo smesso di
gridare contro di lui quando li tirava. Piuttosto, pregavo.
Lavoravo più veloce quand’ero sola, così una mattina, mentre il papà era
all’estremità nord del terreno, vicino alla montagna, andai all’estremità sud,
vicino al pascolo. Riempii un bidone con quasi nove quintali di ferro; poi,
con le braccia dolenti, corsi a cercare il papà. Il bidone andava svuotato e
non sapevo manovrare la ruspa – un enorme muletto con un braccio
pieghevole e grosse ruote nere che erano più alte di me. La ruspa avrebbe
sollevato il bidone per circa sette metri e mezzo e poi, col braccio allungato,
avrebbe inclinato la forca in modo che i rottami scivolassero fuori,
rovesciandosi sul rimorchio con un fracasso infernale. Il rimorchio era un
pianale lungo quindici metri attrezzato per il trasporto dei rottami; in
pratica, un gigantesco secchio. Sui lati aveva delle robuste lastre di ferro
alte due metri e mezzo. Poteva ospitare tra i quindici e i venti bidoni, o circa
diciotto tonnellate di ferro.
Trovai il papà intento ad accendere un fuoco per bruciare il rivestimento
di un groviglio di cavi elettrici. Gli dissi che il bidone era pronto, così tornò
indietro insieme a me e salì sulla ruspa. Fece un cenno verso il rimorchio.
“Ce ne starà di più se sistemi il ferro dopo che è stato scaricato. Salta
dentro.”
Non capivo. Voleva svuotare il bidone con me dentro? “Ci salgo dopo che
l’hai rovesciato,” dissi.
“No, così si fa prima,” disse il papà. “Mi fermo quando il bidone è a
livello del rimorchio, così puoi uscire. Poi corri lungo il bordo e ti siedi
sulla cabina finché non ho finito di scaricare.”
Mi appostai su una lastra di ferro. Il papà infilò la forca sotto il bidone,
poi mi sollevò insieme ai rottami e cominciò a spostarsi a tutto gas verso la
parte anteriore del rimorchio. Mi reggevo a fatica. All’ultima curva, il
cassone girò con così tanta forza che uno spuntone di ferro mi volò
addosso. Mi si conficcò nella parte interna della gamba, appena sotto il
ginocchio, scivolando dentro la carne come un coltello nel burro. Cercai di
estrarlo ma il carico si era spostato, incastrandolo in parte. Sentii il leggero
gemito delle pompe idrauliche mentre il braccio si allungava. Il gemito si
fermò quando il bidone fu a livello del rimorchio. Il papà mi stava dando il
tempo di arrampicarmi sul rimorchio, ma non riuscivo a muovermi. “Sono
bloccata!” gridai, ma il ringhio del motore della ruspa era troppo forte. Mi
chiesi se il papà avrebbe aspettato a svuotare il bidone finché non mi
vedeva seduta al sicuro sulla cabina del camion, ma sapevo che non
l’avrebbe fatto. Non aveva tempo da perdere.
Le pompe idrauliche gemettero e il bidone si alzò di altri due metri e
mezzo. Posizione di scarico. Gridai di nuovo, questa volta più forte, poi
abbassai la voce cercando di trovare un tono che potesse far breccia nel
rombo del motore. Il bidone cominciò a inclinarsi, all’inizio piano, poi
velocemente. Ero bloccata sulla parte di dietro. Strinsi il bordo superiore,
pensando che così avrei avuto qualcosa a cui aggrapparmi quando il bidone
sarebbe stato verticale. Il bidone continuò a inclinarsi e i rottami davanti
cominciarono a scivolare fuori, un pezzo dopo l’altro, come un grosso
ghiacciaio di ferro che si spaccasse. Avevo ancora lo spuntone infilato nella
gamba. Persi la presa e stavo cominciando a scivolare quando finalmente lo
spuntone si staccò e cadde giù, schiantandosi sul rimorchio con un fragore
tremendo. Ero libera, ma stavo cadendo. Agitai convulsamente le braccia,
cercando di aggrapparmi a qualcosa che non stesse precipitando di sotto. Il
mio palmo afferrò la parete laterale del bidone, che ormai era quasi
verticale. Mi tirai da quella parte e spostai il corpo sul bordo, poi continuai
a scivolare ma dal lato del bidone e non sul davanti, e quindi sperai – pregai
– di cadere per terra e non dentro il rimorchio, che in quel momento era un
inferno di metallo cigolante. Precipitai, vedendo solo l’azzurro del cielo e
aspettando di sentire la pugnalata del metallo aguzzo o l’urto del terreno
duro.
La mia schiena urtò il ferro, la parete del rimorchio. Fui sbalzata a testa in
giù e continuai il mio tuffo sgraziato verso terra. La prima caduta fu di due
metri o due metri e mezzo, la seconda forse di tre. Fu un sollievo sentire il
sapore della terra.
Rimasi distesa sulla schiena per una quindicina di secondi prima che il
motore si azzittisse e sentissi i passi pesanti del papà.
“Cos’è successo?” disse, inginocchiandosi accanto a me.
“Sono caduta,” ansimai. Non riuscivo a respirare e mi pulsava forte la
schiena, come se mi avessero tagliato in due.
“Come hai fatto?” Il papà aveva un tono comprensivo ma deluso. Mi
sentii stupida. Avrei dovuto farcela, pensai. Era facile.
Il papà mi esaminò il taglio sulla gamba, che si era lacerato ulteriormente
quando lo spuntone era uscito. Sembrava una buca, come se i tessuti fossero
sprofondati fino a scomparire. Il papà si sfilò la camincia di flanella e me la
premette sulla gamba. “Vai a casa,” disse. “La mamma fermerà
l’emorragia.”
Zoppicai per il pascolo finché non vidi più il papà, poi mi accasciai tra
l’alta erba di grano. Tremavo e inghiottivo boccate d’aria che non
arrivavano mai ai polmoni. Non capivo perché stessi piangendo. Ero viva.
Sarei stata bene. Gli angeli erano intervenuti. Perché non riuscivo a
smettere di tremare?
Tutto girava mentre attraversavo l’ultimo campo e raggiungevo casa, e mi
precipitai dentro la porta sul retro come avevo visto fare ai miei fratelli,
come avevano fatto Robert ed Emma, gridando e chiamando la mamma.
Quando vide le impronte cremisi sul linoleum andò a prendere il rimedio
omeopatico che usava contro le emorragie e i traumi, chiamato Rimedio
d’emergenza, e mi mise dodici gocce di quel liquido trasparente e insapore
sotto la lingua. Appoggiò delicatamente la mano sinistra sulla ferita e
incrociò le dita della destra. I suoi occhi si chiusero. Clic clic clic. “Niente
tetano,” disse. “La ferita si rimarginerà. Ma ti resterà una brutta cicatrice.”
Mi fece girare a pancia in sotto ed esaminò il livido che si era formato
poco sopra il fianco, una macchia viola scuro grande quanto la testa di una
persona. Di nuovo, le sue dita si incrociarono e i suoi occhi si chiusero. Clic
clic clic.
“Ti sei danneggiata un rene,” disse. “Dovremo preparare una partita
nuova di ginepro e fiori di verbasco.”
Il taglio sotto il ginocchio aveva fatto la crosta – una cosa scura e lucida,
un fiume nero incastonato tra la carne rosa – quando mi decisi.
Scelsi una domenica sera, quando il papà stava riposando sul divano, con
la Bibbia aperta sul grembo. Gli rimasi davanti per quelle che sembrarono
ore, ma non alzò lo sguardo, così spiattellai quello che dovevo dire: “Voglio
andare a scuola”.
Sembrava che non avesse sentito.
“Ho pregato, e voglio andarci,” dissi.
Alla fine il papà alzò la testa e guardò dritto davanti a sé, fissando
qualcosa oltre le mie spalle. Il silenzio era denso, ingombrante. “In questa
famiglia,” disse, “ubbidiamo ai comandamenti del Signore.”
Prese la Bibbia e i suoi occhi si mossero a scatti da una riga all’altra. Feci
per andarmene, ma prima di arrivare alla porta il papà parlò di nuovo. “Ti
ricordi Giacobbe ed Esaù?”
“Sì,” dissi.
Tornò a leggere, e uscii in silenzio. Non avevo bisogno di spiegazioni;
conoscevo il significato di quella storia. Non ero la figlia che aveva
cresciuto, la figlia della fede. Avevo cercato di vendere la primogenitura per
un piatto di minestra.
7.
Il Signore provvederà

Era un’estate senza pioggia. Il sole splendeva nel cielo ogni pomeriggio,
bruciando la montagna col suo calore arido e secco, tanto che ogni mattina,
quando attraversavo il campo per andare alla stalla, sentivo gli steli di
frumento selvatico crepitare e spezzarsi sotto i piedi.
Trascorsi una mattina ambrata a preparare il Rimedio d’emergenza per la
mamma. Prendevo quindici gocce della formula base – che era conservata
nell’armadio da cucito della mamma perché non venisse usata né
contaminata – e ci aggiungevo una boccetta di acqua distillata. Poi formavo
un cerchio con l’indice e il pollice e ci facevo passare attraverso la boccetta.
La mamma diceva che la forza del rimedio omeopatico dipendeva da quante
volte la boccetta mi passava tra le dita, quante volte assorbiva la mia
energia. Di solito mi fermavo a cinquanta.
Il papà e Luke erano alla discarica sopra il pascolo superiore, a circa
quattrocento metri da casa. Stavano preparando le auto per lo
sfasciacarrozze, che il papà aveva prenotato per qualche giorno dopo. Luke
aveva diciassette anni. Aveva un corpo snello e muscoloso e, quand’era
all’aperto, sorrideva sempre. Luke e il papà stavano svuotando i serbatoi di
benzina. Lo sfasciacarrozze non accettava auto coi serbatoi attaccati perché
c’era il rischio che esplodessero, così bisognava svuotarli a uno a uno e
tirarli via. Era un lavoro lento, forare il serbatoio con martello e picchetto e
poi aspettare che la benzina gocciolasse fuori per poter staccare il pezzo in
sicurezza con una fiamma ossidrica. Il papà aveva escogitato un sistema più
rapido: un enorme spuntone di ferro robusto alto due metri e mezzo.
Sollevava l’auto con la ruspa e Luke lo guidava finché il serbatoio si
trovava esattamente sopra lo spuntone. Poi il papà abbassava la forca. Se
andava tutto bene l’auto si impalava sullo spuntone e la benzina usciva a
fiotti dal serbatoio, grondando lungo lo spuntone e dentro il contenitore dal
fondo piatto che il papà aveva saldato alla base per raccoglierla.
Entro mezzogiorno avevano svuotato tra le trenta e le quaranta auto. Luke
aveva raccolto la benzina in secchi da venti litri e cominciò a portarli verso
il furgone del papà. A un certo punto inciampò, inzuppandosi i jeans di
benzina. Il sole estivo asciugò il tessuto nel giro di pochi minuti. Finì di
portare i secchi, poi andò a casa a pranzare.
Ricordo quel pranzo con una chiarezza inquietante. Ricordo l’odore
vischioso dello sformato di manzo e patate e il tintinnio dei cubetti di
ghiaccio dentro i bicchieri alti e appannati dal calore estivo. Ricordo la
mamma che diceva che toccava a me lavare i piatti perché dopo pranzo
doveva andare nello Utah a dare una mano a un’altra levatrice per una
gravidanza difficile. Disse che forse non sarebbe riuscita a tornare per cena,
ma che c’erano degli hamburger nel freezer.
Ricordo che risi per un’ora intera. Il papà era sdraiato sul pavimento della
cucina a fare battute su un’ordinanza approvata di recente nel nostro piccolo
paese rurale. Un cane randagio aveva morso un bambino ed erano tutti sul
piede di guerra. Il sindaco aveva deciso di limitare a due il numero di cani
per ciascuna famiglia, anche se il cane in questione in realtà non
apparteneva proprio a nessuno.
“Questi socialisti sono dei geni,” diceva il papà. “Annegherebbero solo a
guardare la pioggia se non gli costruissi un tetto sopra la testa.” Ridevo così
tanto che mi faceva male la pancia.
Luke si era dimenticato completamente della benzina quando lui e il papà
tornarono sulla montagna e prepararono la fiamma ossidrica. Ma quando si
appoggiò l’aggeggio sul fianco e sfregò la pietra focaia, la scintilla fece
divampare le fiamme che gli avvolsero la gamba.
La parte che ci saremmo ricordati, raccontandola così tante volte da farne
una leggenda di famiglia, era che Luke non riuscì a togliersi i jeans
inzuppati di benzina. Quella mattina, come tutte le mattine, si era legato i
pantaloni con un pezzo di spago per il fieno, che è liscio e scivoloso e
dev’essere fissato con un nodo da cavallerizzo. Né l’aiutarono i grossi
scarponi dalla punta d’acciaio che aveva ai piedi e che erano così malconci
che da settimane se li scocciava col nastro isolante ogni mattina, tagliandolo
via ogni sera col suo coltellino. Luke avrebbe potuto tagliare lo spago e
spaccare gli scarponi nel giro di pochi secondi, ma si fece prendere dal
panico e corse via come un caprone marchiato, spargendo fuoco tra la salvia
e l’erba di grano, secchi e riarsi dall’estate torrida.
Avevo impilato i piatti sporchi e stavo riempiendo il lavello della cucina
quando lo sentii – un grido acuto e strozzato, che cominciava in una tonalità
e finiva in un’altra. Era umano, questo era certo. Non avevo mai sentito un
animale gridare così, con tali oscillazioni di altezza e tonalità.
Corsi fuori e vidi Luke che zoppicava sull’erba. Chiamò la mamma
gridando, poi si accasciò a terra. Fu allora che vidi che gli mancava la parte
sinistra dei jeans, come se si fosse sciolta. In certi punti la sua gamba era
livida, rossa e insanguinata; in altri era bianca e smorta. Dei sottili cordoni
di pelle gli avvolgevano delicatamente la coscia e il polpaccio, come cera
che colasse da una candela da due soldi.
Rovesciò gli occhi all’indietro.
Tornai in casa di corsa. Avevo impacchettato le boccette nuove di
Rimedio d’emergenza, ma la formula base era ancora sul bancone. La presi
e corsi fuori, poi ne versai metà tra le labbra convulse di Luke. Non
successe nulla. I suoi occhi erano bianchi come marmo.
Comparve un’iride marrone, poi l’altra. Luke cominciò a mormorare
qualcosa, poi a gridare. “Brucia! Brucia!” ruggì. Un brivido gli attraversò il
corpo e gli fece battere i denti. Stava tremando.
Avevo solo dieci anni e in quel momento mi sentii molto piccola. Luke
era il mio fratello maggiore: credevo che sapesse cosa fare. Lo presi per le
spalle e lo scossi con forza. “Devo raffreddarti o scaldarti?” gridai. Rispose
con un rantolo.
Il problema era l’ustione, riflettei. Dovevo occuparmi prima di quella.
Presi un pacchetto di ghiaccio dal congelatore a pozzetto che c’era sulla
veranda, ma quando glielo misi sulla gamba gridò – un grido da schiena
inarcata e occhi fuori dalle orbite, che mi fece esplodere il sangue nel
cervello. Dovevo trovare un altro modo per raffreddare la gamba. Pensai di
svuotare il congelatore e di metterci dentro mio fratello, ma il congelatore
funzionava solo col coperchio abbassato e così sarebbe soffocato.
Perlustrai mentalmente la casa. Avevamo un grosso bidone della
spazzatura simile a una balenottera azzurra. C’erano spiaccicati dentro dei
pezzetti di cibo marcio e puzzava così tanto che lo tenevamo chiuso in un
armadio. Corsi in casa e lo vuotai sul linoleum della cucina, notando il topo
morto che Richard aveva buttato il giorno prima, poi portai fuori il bidone e
lo spruzzai con la canna dell’acqua. Sapevo che dovevo lavarlo meglio,
magari col sapone per i piatti, ma guardando Luke, il modo in cui si
contorceva sull’erba, sentivo di non avere tempo. Gettai l’ultimo fiotto di
liquido sporco, raddrizzai il bidone e lo riempii d’acqua.
Luke stava arrancando verso di me per metterci dentro la gamba quando
sentii l’eco della voce di mia madre. Stava dicendo a qualcuno che il vero
problema delle ustioni non sono i tessuti danneggiati, ma le infezioni.
“Luke!” gridai. “No! Non mettere dentro la gamba!”
Mi ignorò e continuò a strisciare verso il bidone. Aveva uno sguardo
freddo e deciso, come se non contasse nient’altro a parte il fuoco che gli
bruciava la gamba e gli saliva al cervello. Mi mossi velocemente. Spinsi il
bidone e un’ondata d’acqua volò sull’erba. Luke mandò una specie di
gorgoglìo come se stesse soffocando.
Tornai di corsa in cucina e trovai i sacchetti per il bidone, poi ne tenni
aperto uno e dissi a Luke di infilarci dentro la gamba. Non si mosse, ma mi
lasciò alzare il sacchetto sulla carne scorticata. Raddrizzai il bidone e ci
cacciai dentro la canna dell’acqua. Mentre si riempiva, aiutai Luke a
reggersi su una gamba sola e a infilare dentro quella bruciata, ora avvolta
nella plastica nera. Faceva un caldo soffocante. L’acqua nel bidone si
sarebbe scaldata in fretta. Buttai dentro il pacchetto di ghiaccio.
Non ci volle molto – venti minuti, forse mezz’ora – perché Luke tornasse
in sé, si calmasse e riuscisse a reggersi in piedi. Poi Richard salì dalla
taverna. Il bidone era al centro esatto del prato, a tre metri buoni
dall’ombra, e il sole del pomeriggio picchiava. Essendo pieno d’acqua era
troppo pesante per poterlo spostare, e Luke non ne voleva sapere di tirar
fuori la gamba, nemmeno per un istante. Presi un sombrero di paglia che ci
aveva dato la nonna in Arizona. Luke stava ancora battendo i denti. Gli
portai anche una coperta di lana. Rimase in piedi così, con un sombrero in
testa, una coperta di lana sulle spalle e la gamba infilata dentro un bidone
della spazzatura. Sembrava una via di mezzo tra un senzatetto e un turista.
Il sole scaldò l’acqua. Luke cominciò a muoversi per il fastidio. Tornai al
congelatore ma non c’era più ghiaccio, solo una dozzina di sacchetti di
verdure congelate, così buttai dentro quelle. Il risultato fu una zuppa torbida
in cui galleggiavano pezzetti di piselli e carote.
Dopo un po’, non saprei dire quanto, il papà tornò a casa. Aveva
un’espressione desolata e sconfitta sul volto. Luke si era calmato e stava
riposando, per quel che poteva riposare stando in piedi. Il papà fece ruotare
il bidone verso l’ombra perché, nonostante il cappello, Luke si era scottato
le mani e le braccia al sole. Disse che la cosa migliore da fare era lasciare la
gamba dov’era finché non tornava la mamma.
La macchina della mamma comparve sulla statale verso le sei. Le andai
incontro a metà strada lungo la collina e le raccontai l’accaduto. Si precipitò
da Luke e disse che doveva vedere la gamba, così lui la tirò fuori,
gocciolante e col sacchetto di plastica appiccicato alla piaga. Per non
lacerare i tessuti fragili, la mamma tagliò il sacchetto lentamente e con cura,
fino a scoprire la gamba. C’era pochissimo sangue e ancor meno vesciche,
perché entrambe le cose richiedono pelle e Luke non ne aveva molta. Il
volto della mamma si fece di un giallo grigiastro, ma rimase calma. Chiuse
gli occhi e incrociò le dita, poi chiese ad alta voce se la ferita era infetta.
Clic clic clic.
“Stavolta ti è andata bene, Tara,” disse. “Ma cosa ti è venuto in mente
d’infilarlo in un bidone della spazzatura?”
Il papà portò dentro Luke e la mamma andò a prendere il suo bisturi. Ci
misero quasi tutta la sera a tagliar via la carne morta. Luke cercò di non
gridare, ma quando sollevavano e allungavano dei tratti di pelle per vedere
dove finiva la carne morta e cominciava quella viva, mandava dei forti
sbuffi e gli uscivano le lacrime.
La mamma gli spalmò sulla gamba una pomata di sua invenzione a base
di verbasco e consolida maggiore. Sapeva curare le ustioni, erano una sua
specialità, ma capivo che era preoccupata. Disse che non ne aveva mai vista
una brutta come quella di Luke.
Non sapeva cosa sarebbe successo.
Io e la mamma passammo quella prima notte al capezzale di Luke.
Delirava per la febbre e il dolore, e quasi non chiuse occhio. Gli
applicammo del ghiaccio sulla faccia e sul petto contro la febbre, mentre
per il dolore gli demmo lobelia, verbena blu e scutellaria. Era un’altra delle
ricette della mamma. L’avevo presa anch’io quand’ero caduta dal bidone
dei rottami, per alleviare il dolore pulsante alla gamba mentre aspettavo che
si rimarginasse la ferita. Ma non potevo dire che avesse funzionato.
Sapevo che le medicine dell’ospedale erano un abominio per Dio, ma se
quella notte avessi avuto della morfina l’avrei data a Luke. Quasi non
riusciva a respirare dal male. Era a letto appoggiato ai cuscini e, mentre il
sudore dalla fronte gli gocciolava sul petto, tratteneva il fiato fino a
diventare rosso, poi violaceo, come se privare il suo cervello di ossigeno
fosse l’unico modo per sopravvivere fino al minuto successivo. Quando il
dolore ai polmoni superava quello per l’ustione, rilasciava l’aria con un
forte rantolo, un grido di sollievo per i polmoni e di agonia per la gamba.
La seconda notte mi occupai da sola di Luke per lasciar riposare la
mamma. Rimasi vigile, svegliandomi al minimo movimento o principio di
affanno per andare a prendere ghiaccio e tinture prima che Luke diventasse
cosciente e ripartisse il dolore. La terza notte se ne prese cura la mamma e
rimasi sulla soglia ad ascoltare i suoi rantoli e a guardare la mamma
vegliare su di lui col volto incavato e gli occhi gonfi di stanchezza e
apprensione.
Quando dormivo, sognavo. Sognavo il fuoco che non avevo visto.
Sognavo di essere distesa su quel letto al posto di mio fratello, il corpo
debolmente avvolto dalle bende, mummificato. La mamma era
inginocchiata sul pavimento accanto a me, mi stringeva la mano incerottata
come stringeva quella di Luke, mi picchiettava la fronte e pregava.
Luke non andò in chiesa quella domenica, né la domenica dopo, né quella
dopo ancora. Il papà ci disse di dire che era malato. Disse che sarebbe stato
un guaio se lo Stato veniva a sapere della gamba di Luke, che i Federali
avrebbero portato via noi bambini. Che avrebbero messo Luke in un
ospedale, dove la gamba gli avrebbe fatto infezione e sarebbe morto.
Circa tre settimane dopo l’incidente, la mamma annunciò che la pelle
attorno ai margini dell’ustione aveva cominciato a ricrescere e che era
ottimista anche per le parti messe peggio. Luke adesso riusciva a stare
seduto e una settimana dopo, quando arrivò la prima ondata di freddo, era in
grado di reggersi in piedi con le stampelle per un minuto o due. Dopo poco
cominciò a spostarsi pesantemente per casa, magro come un fagiolino, e a
ingurgitare secchiate di cibo per riprendere il peso che aveva perso. Lo
spago per il fieno era ormai diventato una leggenda di famiglia.
“Un uomo deve avere una cintura come si deve,” disse il papà a colazione
il giorno che Luke si fu rimesso abbastanza da poter tornare in discarica.
Gli porse una cinghia di cuoio con una fibbia d’acciaio.
“Luke no,” disse Richard. “Lui preferisce lo spago, sai quanto va di
moda.”
Luke sorrise. “La bellezza è tutto,” disse.
Per diciotto anni non avrei più ripensato a quel giorno, non mi sarei fatta
domande. Le poche volte che la mia mente tornava a quel torrido
pomeriggio, la prima cosa che ricordavo era la cintura. Luke, pensavo.
Cagnaccio che non sei altro. Usi ancora lo spago sui pantaloni?
Adesso, a ventinove anni, mi siedo a scrivere e cerco di ricostruire
l’accaduto dagli echi e le grida di un ricordo lontano. Scrivo tutto, fino in
fondo. Quando arrivo alla fine mi fermo. C’è un’incongruenza, un fantasma
in questa storia.
Leggo. Rileggo. Eccolo qua.
Chi ha spento il fuoco?
Una voce rimasta a lungo silente risponde: il papà.
Ma Luke era solo quando l’avevo trovato. Se il papà fosse stato in
montagna insieme a lui l’avrebbe portato a casa, gli avrebbe curato
l’ustione. Il papà era a lavorare altrove, per questo Luke si era trascinato giù
dalla montagna da solo. Per questo la sua gamba era stata curata da una
bambina di dieci anni. Per questo era finita dentro un bidone della
spazzatura.
Decido di chiedere a Richard. È più grande di me e ha una memoria
migliore. E poi, da quel che ho saputo, Luke non ha più un telefono.
Chiamo. La prima cosa che Richard ricorda è lo spago che, fedele alla sua
natura, chiama “utensile per il fieno”. Poi ricorda la benzina rovesciata. Gli
chiedo come aveva fatto Luke a spegnere il fuoco e a scendere dalla
montagna, dato che era sotto shock quando l’avevo trovato. C’era il papà
con lui, risponde Richard senza mezzi termini.
Okay.
Allora perché il papà non era in casa?
Perché Luke era scappato tra le sterpaglie appiccando il fuoco alla
montagna, dice Richard. Ti ricordi com’era quell’estate. Secca, torrida. Non
puoi appiccare fuochi nei boschi quand’è tutto secco. Così il papà aveva
messo Luke sul furgone e gli aveva detto di andare a casa dalla mamma.
Solo che la mamma non c’era.
Okay.
Ci penso per alcuni giorni, poi mi siedo di nuovo a scrivere. All’inizio il
papà è a casa – il papà con le sue battute divertenti sui socialisti e i cani e il
tetto che impedisce ai liberali di annegare. Poi lui e Luke tornano in
montagna, la mamma se ne va in macchina e io apro il rubinetto per
riempire il lavello della cucina. Ancora. Per quella che sembra la terza
volta.
In montagna succede qualcosa. Posso solo immaginarmelo ma lo vedo
chiaramente, più chiaramente che se fosse un ricordo. Le auto sono
ammassate e in attesa, i serbatoi bucati e svuotati. Il papà indica una pila di
auto e dice: “Luke, stacca quei serbatoi, okay?”. E Luke risponde: “Certo,
papà”. Si appoggia la fiamma ossidrica sul fianco e sfrega la pietra focaia.
Le fiamme divampano dal nulla e lo avvolgono. Luke grida, armeggia con
lo spago, grida di nuovo e scappa via tra le sterpaglie.
Il papà lo rincorre, gli ordina di fermarsi. È forse la prima volta in tutta la
sua vita che Luke non gli obbedisce. Luke è veloce ma il papà è astuto.
Prende una scorciatoia attraverso una piramide di auto e abbranca Luke,
buttandolo a terra.
Non riesco a vedere cosa succede dopo, perché nessuno mi ha mai
raccontato come il papà ha spento il fuoco sulla gamba di Luke. Poi affiora
un ricordo: il papà, quella sera in cucina, che sussulta mentre la mamma gli
spalma un mucchio di pomata sulle mani rosse e piene di vesciche. Allora
capisco.
Luke non va più a fuoco.
Cerco d’immaginarmi il momento della decisione. Il papà guarda le
sterpaglie che bruciano in fretta e avidamente nel calore tremolante. Guarda
suo figlio. Pensa che se riuscirà a soffocare le fiamme finché sono ancora
all’inizio potrà fermare l’incendio e magari salvare la casa.
Luke sembra lucido. Il suo cervello non ha elaborato quello che è
successo; il dolore non è ancora cominciato. Il Signore provvederà, deve
pensare il papà. Dio l’ha lasciato cosciente.
M’immagino il papà che prega ad alta voce, gli occhi alzati al cielo,
mentre porta suo figlio al furgone e lo sistema al posto di guida. Inserisce la
prima, il furgone comincia a muoversi. Ora ha preso velocità, Luke stringe
il volante. Il papà salta giù dal furgone in corsa, cade a terra e rotola, poi
torna di corsa verso l’incendio, che si è propagato, si è fatto più alto. Il
Signore provvederà, ripete, poi si toglie la camicia e comincia a respingere
le fiamme.3
3
Da quando ho scritto questa storia, ho parlato con Luke dell’incidente. La sua versione dei fatti è
diversa sia dalla mia che da quella di Richard. Da quel che ricorda, il papà lo portò a casa, gli diede
un rimedio omeopatico contro lo shock e lo mise dentro una vasca d’acqua fredda, poi tornò a
domare l’incendio. Questo cozza contro i miei ricordi e contro quelli di Richard. Certo, può darsi che
ci ricordiamo male. Può darsi che io abbia trovato Luke dentro una vasca da bagno, da solo, invece
che sull’erba. Quello su cui sono tutti d’accordo, stranamente, è che Luke finì in qualche modo sul
prato davanti con la gamba dentro un bidone dell’immondizia.
8.
Piccole prostitute

Volevo chiudere con la discarica e c’era un solo modo per farlo, lo stesso
che aveva usato Audrey: trovare un lavoro e non essere in casa quando il
papà radunava la sua squadra di lavoranti. Il fatto è che avevo undici anni.
Pedalai per un chilometro e mezzo fino al centro polveroso del nostro
paesino. Non c’era granché, solo una chiesa, un ufficio postale e una
stazione di rifornimento chiamata Papa Jay’s. Entrai nell’ufficio postale.
Dietro lo sportello c’era una signora anziana. Sapevo che si chiamava
Myrna Moyle perché lei e suo marito Jay (Papa Jay) erano i proprietari
della stazione di rifornimento. Secondo il papà erano stati loro a spingere
per l’ordinanza comunale che limitava il possesso di cani a due per
famiglia. Avevano proposto anche altre ordinanze e adesso ogni domenica il
papà tornava a casa dalla messa imprecando contro Myrna e Jay Moyle, che
venivano da Monterey, Seattle o chissà dove e pensavano di poter imporre il
socialismo della West Coast alla brava gente dell’Idaho.
Chiesi a Myrna se potevo attaccare un annuncio al tabellone. Mi chiese di
che si trattava. Dissi che cercavo lavoro come babysitter.
“Che orari puoi fare?” disse.
“Sempre, a qualsiasi ora.”
“Intendi dopo la scuola?”
“Intendo sempre.”
Myrna mi guardò e piegò la testa. “A mia figlia Mary serve qualcuno che
le tenga il piccolo. Glielo chiederò.”
Mary insegnava infermieristica alla scuola, che per il papà era il massimo
del lavaggio del cervello per una persona: essere al servizio sia del Sistema
Medico sia dello Stato. Pensai che forse non mi avrebbe lasciato lavorare
per lei; invece, dopo poco mi ritrovai a occuparmi della bimba di Mary ogni
lunedì, mercoledì e venerdì mattina. Poi Mary aveva un’amica, Eve, a cui
serviva una babysitter per i suoi tre figli di martedì e giovedì.
A circa un chilometro e mezzo da casa nostra c’era un tizio di nome
Randy che vendeva anacardi, mandorle e noci di macadamia. Un
pomeriggio passò all’ufficio postale e, chiacchierando con Myrna, le disse
che era stanco di riempire scatole da solo e che avrebbe voluto impiegare
qualche ragazzino, se non fossero stati tutti presi dal calcio e dagli amici.
“Ne conosco una in paese che non lo è,” disse Myrna. “E credo che lo
farebbe molto volentieri.” Indicò il mio annuncio e di lì a poco mi ritrovai a
fare la babysitter dal lunedì al venerdì dalle otto a mezzogiorno, per poi
andare da Randy a impacchettare anacardi fino all’ora di cena. Non
prendevo molto ma, non essendo mai stata pagata, mi sembrava tanto.
La gente in chiesa diceva che Mary suonava benissimo il pianoforte.
Usavano la parola “professionale”. Non sapevo cosa significasse, finché
una domenica sentii Mary suonare un assolo durante la messa. Rimasi a
bocca aperta. Avevo sentito suonare il piano un miliardo di volte come
accompagnamento agli inni, ma la musica di Mary non c’entrava niente con
quell’amorfo pestare di tasti. Era liquida, era aria. Era roccia un istante e
vento quello dopo.
Il giorno successivo, quando Mary tornò da scuola, le chiesi se al posto
dei soldi poteva pagarmi in lezioni. Ci sedemmo sulla panca davanti al
pianoforte e mi fece vedere alcuni esercizi per le dita. Poi mi chiese
cos’altro studiavo oltre al piano. Il papà mi aveva detto come rispondere
quando la gente mi faceva quella domanda. “Faccio scuola ogni giorno,”
dissi.
“Stai con gli altri bambini?” mi chiese. “Hai degli amici?”
“Certo,” dissi. Mary tornò alla lezione. Quando finimmo e fui pronta ad
andarmene, disse: “Mia sorella Caroline insegna danza ogni mercoledì sul
retro del Papa Jay’s. Ci sono un sacco di bambine della tua età. Potresti
andare anche tu”.
Quel mercoledì uscii presto dalla casa di Randy e pedalai fino alla
stazione di rifornimento. Indossavo dei jeans, una larga maglietta grigia e
un paio di scarponi dalla punta d’acciaio. Le altre bambine avevano dei
body neri, delle gonne velate e luccicanti, calzamaglie bianche e minuscole
ballerine color toffee. Caroline era più giovane di Mary. Era truccata in
maniera impeccabile e tra i riccioli castani le scintillavano due cerchi d’oro.
Ci fece mettere in fila, poi ci mostrò una piccola sequenza di passi. Da
uno stereo nell’angolo uscivano le note di una canzone. Non l’avevo mai
sentita, ma le altre bambine la conoscevano. Guardai il nostro riflesso allo
specchio: dodici bambine slanciate e splendenti come macchie piroettanti di
nero, bianco e rosa. Poi guardai me, grossa e grigia.
Alla fine della lezione Caroline mi disse di comprare un body e delle
ballerine.
“Non posso,” dissi.
“Oh.” Sembrava a disagio. “Magari una delle bambine può prestartene
uno.”
Non aveva capito. Pensava che non avessi i soldi. “Non è sobrio,” dissi.
Lei aprì la bocca, sorpresa. Queste Moyle della California, pensai.
“Be’, non puoi danzare con gli scarponi,” disse. “Parlerò con tua madre.”
Alcuni giorni dopo, la mamma guidò per sessantacinque chilometri e mi
portò a un negozietto dove c’erano scaffali pieni di scarpe esotiche e strani
vestiti sintetici. Non ce n’era uno sobrio. La mamma andò dritta al bancone
e disse alla commessa che avevamo bisogno di un body nero, una
calzamaglia bianca e delle scarpette da danza.
“Tienili in camera tua,” mi disse quando uscimmo dal negozio. Non
dovette aggiungere altro. Avevo già capito che non dovevo far vedere il
body al papà.
Quel mercoledì m’infilai il body e la calzamaglia, con sopra la mia
maglietta grigia. Anche se la maglietta mi arrivava quasi alle ginocchia, mi
vergognavo di avere le gambe così scoperte. Il papà diceva che una donna
perbene non si scopriva mai sopra la caviglia.
Le altre bambine non mi parlavano quasi mai, ma mi piaceva un sacco
stare con loro. Adoravo la sensazione di conformità. Imparare a danzare era
come imparare a far parte di qualcosa. Potevo memorizzare i movimenti e
in questo modo entrare nei loro pensieri, fare un balzo quando lo facevano
loro, alzare le braccia a tempo con loro. Certe volte, quando guardavo lo
specchio e vedevo il groviglio delle nostre figure roteanti, non riuscivo a
distinguermi subito in mezzo al gruppo. Non importava se indossavo una
maglietta grigia ed ero un’oca in mezzo ai cigni. Ci muovevamo insieme
come un unico stormo.
Quando cominciammo a fare le prove per la recita di Natale, Caroline
telefonò alla mamma per parlare del costume. “Fin dove arriverà la gonna?”
chiese la mamma. “E velata? No, non si può fare.” Sentii Caroline dire
qualcosa su quello che avrebbero voluto indossare le altre bambine. “Tara
non può mettersi quelle cose,” disse la mamma. “Se le altre bambine si
vestiranno così, lei starà a casa.”
Il mercoledì dopo la telefonata di Caroline arrivai al Papa Jay’s alcuni
minuti in anticipo. Era appena finita la lezione per le più piccole e la sala
era piena di bambine di sei anni che saltellavano intorno alle loro madri con
indosso cappellini di velluto rosso e gonne con lustrini scintillanti di un
intenso rosso scarlatto. Le guardai ancheggiare e balzare per i corridoi, le
gambette coperte solo dalle calzamaglie velate. Sembravano delle piccole
puttane.
Arrivarono le altre bambine del mio corso. Quando videro i costumi
corsero dentro a vedere cos’aveva preparato Caroline per loro. Caroline era
in piedi accanto a uno scatolone pieno di grosse felpe grigie. Cominciò a
distribuirle. “Ecco i vostri costumi!” disse. Le bambine alzarono le felpe,
incredule. Si aspettavano chiffon e nastrini, non Fruit of the Loom. Caroline
aveva cercato di abbellire le felpe cucendoci sopra dei grossi Babbo Natale
bordati di paillettes, con il risultato opposto.
Io e la mamma non avevamo detto al papà della recita. Non gli chiesi di
venire. C’era un istinto all’opera dentro di me, una specie di
consapevolezza. Il giorno della recita, la mamma disse al papà che quella
sera avevo una “cosa”. Lui, sorprendentemente, le fece un sacco di
domande e dopo alcuni minuti la mamma ammise che si trattava di un
saggio di danza. Il papà fece una smorfia quando seppe che prendevo
lezioni da Caroline Moyle. Pensai che si sarebbe messo a parlare di nuovo
del socialismo in California, ma non lo fece. Invece prese il cappotto e
andammo tutti e tre alla macchina.
La recita era in chiesa. C’erano tutti, con macchine fotografiche luccicanti
e grosse videocamere. Mi cambiai nella stessa stanza dove facevo
catechismo. Le altre bambine chiacchieravano allegramente. M’infilai la
felpa, cercando di allungare il tessuto ancora di qualche centimetro. Lo
stavo ancora tirando verso il basso quando ci mettemmo in fila sul palco.
Partì la musica da uno stereo appoggiato sul pianoforte e cominciammo a
danzare, battendo i piedi in sequenza. Poi dovevamo fare un balzo, alzare le
braccia e ruotare su noi stesse. I miei piedi rimasero piantati per terra.
Invece di slanciare le braccia sopra la testa, le alzai solo fino alle spalle.
Quando le altre bambine si accovacciarono per colpire il palco con le mani,
mi piegai. Al momento di fare la ruota barcollai, impedendo alla gravità di
fare quel che doveva fare, ovvero alzarmi la felpa ancora di più sulle
gambe.
La musica finì. Le bambine mi guardarono malissimo mentre
scendevamo dal palco – avevo rovinato lo spettacolo –, ma non ci feci caso.
Esisteva una sola persona per me in quel momento, ed era mio padre.
Cercai tra il pubblico e lo trovai senza difficioltà. Era in piedi in fondo alla
chiesa. Le luci del palco gli si riflettevano sugli occhiali squadrati. Aveva
un’espressione fredda e impassibile, sotto la quale potevo vedere la sua
rabbia.
Anche se casa nostra distava solo un chilometro e mezzo, il viaggio di
ritorno mi sembrò infinito. Ero seduta sul sedile posteriore e ascoltavo mio
padre gridare. Come aveva potuto la mamma lasciarmi peccare così? Era
per questo che non gli aveva detto della recita? La mamma ascoltò per un
po’ mordicchiandosi il labbro, poi alzò le mani e disse che non aveva idea
che il costume sarebbe stato così sconcio. “Quella Caroline Moyle mi
sentirà!” disse.
Mi piegai in avanti per vederla in faccia, sperando che si voltasse, che
afferrasse la domanda che le stavo facendo mentalmente, perché non capivo
proprio. Sapevo che non era arrabbiata con Caroline, perché aveva visto le
felpe giorni prima. L’aveva perfino chiamata per ringraziarla di aver scelto
un costume che potevo mettere anch’io. La mamma girò la testa verso il
finestrino.
Guardai i capelli grigi sulla nuca del papà. Era seduto in silenzio ad
ascoltare la mamma, che continuava a insultare Caroline e a dire
quant’erano scandalosi e osceni i suoi costumi. Il papà annuì mentre
salivamo sobbalzando per il vialetto ghiacciato, e sembrò farsi più calmo a
ogni parola che lei diceva.
Il resto della serata fu occupato dalla predica del papà. Disse che il corso
di danza di Caroline era un trucco di Satana, come la scuola pubblica,
perché si spacciava per una cosa mentre in realtà era un’altra. Diceva di
insegnare danza, invece insegnava l’indecenza e la promiscuità. Satana era
astuto, disse. Chiamandola “danza” aveva convinto dei mormoni perbene ad
accettare che le loro figlie saltellassero qua e là come puttane nella casa di
Dio. Era questo a oltraggiarlo più di ogni altra cosa: che un’esibizione così
oscena fosse avvenuta in chiesa.
Dopo che si fu sfogato e fu andato a letto, m’infilai sotto le coperte e
fissai il buio. Qualcuno bussò alla porta. Era la mamma. “Dovevo
immaginarlo,” disse. “Dovevo capire che razza di corso era.”
Credo che la mamma si sia sentita in colpa dopo la recita, perché nelle
settimane seguenti cercò qualcos’altro da farmi fare, qualcosa che andava
bene anche al papà. Aveva notato che passavo un sacco di tempo chiusa in
camera ad ascoltare il Coro del Tabernacolo Mormone col vecchio stereo di
Tyler, così cercò un insegnante di canto. Ci mise alcune settimane a
trovarlo, e altre settimane ancora a convincere l’insegnante, una donna, a
darmi lezioni. Erano molto più care del corso di danza, ma la mamma usava
i soldi che guadagnava vendendo oli.
L’insegnante era alta e magra, con delle unghie lunghe che ticchettavano
mentre si spostavano rapidamente sui tasti del piano. Mi raddrizzava la
postura tirandomi i capelli sul collo fino a farmi rincagnare il mento, poi mi
faceva sdraiare sul pavimento e mi camminava sulla pancia per rinforzare il
diaframma. Era ossessionata dall’equilibrio e spesso mi schiaffeggiava le
ginocchia per ricordarmi di piantare bene i piedi per terra e occupare lo
spazio di cui avevo bisogno.
Dopo alcune lezioni annunciò che ero pronta a cantare in chiesa. Aveva
già organizzato tutto. Quella domenica avrei cantato un inno davanti
all’assemblea dei fedeli.
I giorni passarono veloci, come succede quando aspetti qualcosa con
terrore. Domenica mattina salii sul pulpito e guardai le facce della gente di
sotto. C’erano Myrna e Papa Jay, e dietro di loro Mary e Caroline.
Sembravano dispiaciuti per me, come se sapessero che avrei fatto una
figuraccia.
La mamma suonò l’introduzione. La musica si fermò. Toccava a me.
Avrei potuto pensare alla mia insegnante e alle sue tecniche – piedi ben
piantati, schiena dritta, bocca aperta. Invece pensai a Tyler, a quando stavo
sdraiata sulla moquette accanto alla sua scrivania a fissare i suoi calzini di
lana mentre il Coro del Tabernacolo Mormone cantava e gorgheggiava. Mi
aveva riempito la testa delle loro voci, che per me erano la cosa più bella al
mondo dopo Buck Peak.
Le dita della mamma indugiavano sui tasti. La pausa si era fatta
imbarazzante; la gente, a disagio, si spostava sulle panche. Pensai alle voci,
alle loro strane contraddizioni – al modo in cui facevano fluttuare il suono
nell’aria, quel suono delicato come un vento caldo ma così intenso da
toccarti l’anima. Cercai quelli voci, le cercai dentro di me – e le trovai.
Nulla mi era mai venuto più naturale: era come se pensassi la musica, e
pensandola le facessi prendere vita. Ma la realtà non si era mai piegata ai
miei pensieri prima di allora.
La canzone finì e tornai alla nostra panca. Fu recitata una preghiera per
concludere la messa, poi la folla mi fu addosso. Donne in vestiti a fiori
sorridevano e mi stringevano la mano, uomini in antiquati completi neri mi
davano delle pacche sulle spalle. La direttrice del coro m’invitò a far parte
del coro, Fratello Davis mi chiese di cantare per il Rotary Club e il vescovo
– l’equivalente mormone di un prete –, disse che gli sarebbe piaciuto che
cantassi la mia canzone a un funerale. Dissi di sì a tutti.
Il papà non smetteva di sorridere. Non c’era praticamente nessuno in
chiesa a cui non avesse dato dell’infedele – perché era andato da un dottore
o aveva mandato i figli alla scuola pubblica –, ma quel giorno sembrò
dimenticarsi del socialismo californiano e degli Illuminati. Mi rimase
accanto, con una mano sulla mia spalla, a ricevere garbatamente
complimenti. “È una benedizione,” ripeteva. “Una grande benedizione.”
Papa Jay attraversò la cappella e si fermò davanti alla nostra panca. Disse
che cantavo come un angelo di Dio. Il papà lo guardò un momento, poi
cominciarono a brillargli gli occhi e gli strinse la mano come se fossero
vecchi amici.
Non avevo mai visto questo lato di mio padre, ma da allora l’avrei visto
spesso – ogni volta che cantavo. Anche se aveva faticato tutto il giorno in
discarica, non era mai troppo stanco per prendere la macchina e venirmi a
sentire. Anche se odiava i socialisti come Papa Jay, quell’odio non era mai
così forte da impedirgli, se queste persone decantavano la mia voce, di
mettere da parte la sua grande lotta contro gli Illuminati e dire: “Già, Dio ci
ha dato una benedizione, una grande benedizione”. Era come se, quando
cantavo, il papà si dimenticasse per un po’ che il mondo era un luogo
minaccioso, che poteva corrompermi, e che dovevo restare a casa al sicuro.
Voleva che tutti sentissero la mia voce.
Al teatro in città stavano allestendo un musical, Annie, e la mia
insegnante disse che se il regista mi sentiva cantare, mi avrebbe dato la
parte principale. La mamma mi avvertì di non montarmi la testa. Disse che
non potevamo permetterci di fare venti chilometri quattro sere alla
settimana per andare alle prove e che in ogni caso il papà non mi avrebbe
mai permesso di passare del tempo da sola in città in compagnia di chissà
chi.
Provai lo stesso le canzoni perché mi piacevano. Una sera ero in camera
mia a cantare The sun’ll come out tomorrow, quando il papà entrò verso
l’ora di cena. Masticò il suo polpettone in silenzio e ascoltò.
“Troverò i soldi,” disse alla mamma quando andarono a letto quella sera.
“Portala a quel provino.”
9.
Integro tra i suoi contemporanei

L’estate che cantai come voce solista per Annie era il 1999. Mio padre era
in pieno stato d’allerta. Era da quando avevo cinque anni e gli Weaver erano
sotto assedio che non si sentiva così sicuro che i Giorni dell’Abominio
fossero alle porte.
Il papà lo chiamava Y2K. Il primo gennaio, diceva, i computer di tutto il
mondo sarebbero andati in tilt. Non ci sarebbe più stata corrente elettrica né
telefoni. Tutto sarebbe sprofondato nel caos e questo avrebbe inaugurato il
Secondo Avvento di Cristo.
“Come fai a sapere la data?” gli chiesi.
Il papà disse che lo Stato aveva programmato i computer su un calendario
a sei cifre, in cui l’anno aveva solo due cifre. “Quando il novantanove
diventerà zero-zero,” disse, “i computer non capiranno più che anno è. Si
bloccheranno.”
“Non possono correggerli?”
“No, non si può,” disse il papà. “L’uomo ha fatto affidamento sulle sue
forze, ma le sue forze sono deboli.”
In chiesa il papà mise tutti in guardia contro l’Y2K. Consigliò a Papa Jay
di procurarsi dei lucchetti robusti per la sua stazione di rifornimento e
magari qualche arma da difesa. “Il tuo emporio sarà il primo a essere
saccheggiato in tempi di carestia,” lo avvertì. Disse a Fratello Mumford che
ogni uomo perbene doveva avere una scorta almeno decennale di cibo,
benzina, armi e oro. Fratello Mumford si limitò a lanciare un fischio. “Non
siamo mica tutti virtuosi come te, Gene,” disse. “Alcuni di noi sono dei
peccatori!” Non lo ascoltò nessuno. La gente continuò come se niente fosse
sotto il sole estivo.
Nel frattempo la mia famiglia bolliva e sbucciava pesche, denocciolava
albicocche e riduceva mele in composta. Tutto era cotto a pressione,
sigillato, etichettato e immagazzinato in un deposito sotterraneo che il papà
aveva scavato nel campo. L’ingresso era nascosto da una collinetta; il papà
diceva che non dovevo mai farne parola con nessuno.
Un pomeriggio il papà salì sulla scavatrice e fece una grossa buca accanto
alla vecchia stalla. Poi, usando la ruspa, ci mise dentro un serbatoio da
quasi quattromila litri e lo ricoprì di terra con una pala, piantando
accuratamente ortiche e grespini nel terreno appena rivoltato perché
crescessero e nascondessero il serbatoio. Mentre spalava fischiettava I Feel
Pretty di West Side Story. Aveva il cappello girato all’indietro sulla testa e
un sorriso radioso sul volto. “Saremo gli unici ad avere benzina quando
arriverà la Fine,” disse. “Andremo in macchina mentre tutti gli altri se la
daranno a gambe. Passeremo anche dallo Utah a prendere Tyler.”
Quasi tutte le sere avevo le prove al Worm Creek Opera House, un teatro
fatiscente vicino all’unico semaforo che c’era in città. Sembrava di stare in
un altro mondo. Nessuno parlava dell’Y2K.
I rapporti interpersonali al Worm Creek erano completamente diversi da
quelli a cui mi aveva abituato la mia famiglia. Ovviamente avevo passato
del tempo con altre persone all’infuori dei miei famigliari, ma erano come
noi: donne che avevano chiamato la mamma per far nascere i loro bambini,
o che venivano per le sue erbe perché non credevano nel Sistema Medico.
Avevo una sola amica, di nome Jessica. Alcuni anni prima il papà aveva
convinto i suoi genitori, Rob e Diane, che le scuole pubbliche erano solo dei
programmi di propaganda statale, e da allora l’avevano tenuta a casa. Prima
che i suoi genitori la ritirassero dalla scuola, Jessica era una di loro e non
avevo mai provato a parlare con lei. Ma poi diventò una di noi. I bambini
normali smisero di considerarla, e non le rimasi che io.
Non avevo mai imparato a parlare con quelli che non erano come noi –
gente che andava a scuola e che si faceva curare dai dottori. Che non si
preparava ogni giorno alla Fine del Mondo. Il Worm Creek era pieno di
persone così, le cui parole sembravano strappate da un’altra realtà. Ecco
come mi sentii la prima volta che il regista mi parlò: come se stesse
parlando da un’altra dimensione. Disse solo: “Va’ a chiamare FDR”. Non mi
mossi.
Ci provò di nuovo. “Il presidente Roosevelt. FDR.”
“È una specie di JCB?” dissi. “Le serve un muletto?”
Scoppiarono tutti a ridere.
Anche se avevo memorizzato tutte le mie battute, alle prove me ne stavo
seduta per conto mio, fingendo di studiare quello che c’era scritto sul mio
quadernone nero. Quando arrivava il mio turno di salire sul palco, recitavo
le battute a voce alta e senza esitazioni. La cosa mi dava una certa
sicurezza. Io non avevo niente da dire, ma Annie sì.
La settimana prima della serata di apertura, la mamma mi tinse i capelli
color rosso ciliegia. Il regista disse che erano perfetti e che ora dovevo solo
procurarmi i costumi prima delle prove generali di sabato.
In taverna trovai un enorme maglione lavorato a maglia, macchiato e
pieno di buchi, e un brutto vestito blu, che la mamma candeggiò facendolo
diventare marrone sbiadito. Era l’abbigliamento perfetto per un’orfanella ed
ero contenta di aver trovato i costumi così facilmente, finché mi ricordai
che nel secondo atto Annie indossava dei vestiti splendidi che le aveva
comprato Daddy Warbucks. Non avevo niente del genere.
Lo dissi alla mamma, che si adombrò. Guidammo per quasi centosessanta
chilometri tra andata e ritorno, cercando in ogni negozio di seconda mano
che trovammo lungo la strada, ma inutilmente. Mentre eravamo sedute nel
parcheggio dell’ultimo negozio, la mamma strinse le labbra e disse: “C’è un
altro posto dove possiamo provare”.
Andammo a casa di zia Angie e parcheggiammo davanti alla staccionata
bianca che condivideva con la nonna. La mamma bussò alla porta, poi
indietreggiò e si lisciò i capelli. Angie sembrava sorpresa di vederci – la
mamma non andava a trovare spesso sua sorella –, ma sorrise
affettuosamente e ci invitò a entrare. Il suo soggiorno, pieno di seta e
merletti, mi ricordava le lobby degli alberghi di lusso che si vedevano nei
film. Io e la mamma ci sedemmo su un divano pieghettato color rosa pallido
mentre la mamma spiegava il motivo della nostra visita. Angie disse che
sua figlia aveva dei vestiti che potevano fare al caso nostro.
La mamma aspettò sul divano rosa mentre Angie mi portava di sopra in
camera di sua figlia e mi mostrava una bracciata di vestiti, ognuno così
raffinato, con motivi di pizzo così elaborati e fiocchi così delicati che sulle
prime ebbi paura di toccarli. Angie mi aiutò a provarli, annodando le fasce
attorno alla vita, allacciando i bottoni e gonfiando i fiocchi. “Dovresti
prendere questo,” disse poi, passandomi un vestito blu scuro con delle
cordicelle bianche intrecciate sul corpetto. “Li ha cuciti la nonna, questi
dettagli.” Presi il vestito, insieme a un altro di velluto rosso col colletto di
pizzo bianco, e io e la mamma tornammo a casa.
Lo spettacolo andò in scena una settimana dopo. Il papà era in prima fila.
A fine spettacolo andò dritto in biglietteria e comprò dei biglietti anche per
la sera dopo. Quella domenica, in chiesa, non parlò d’altro. Non di dottori,
non di Illuminati, non dell’Y2K. Solo dello spettacolo in città in cui la sua
figlia minore cantava nella parte della protagonista.
Il papà non mi impedì di fare un provino per lo spettacolo successivo, né
per quello dopo, anche se era preoccupato che passassi così tanto tempo
lontano da casa. “Chissà che baldorie fanno in quel teatro,” disse. “Sarà un
covo di adulteri e fornicatori.”
Quando il regista dello spettacolo successivo divorziò, il papà vide
confermati i suoi sospetti. Disse che non mi aveva tenuto lontana dalla
scuola pubblica per tutti quegli anni perché mi facessi corrompere su un
palcoscenico. Poi mi accompagnò alle prove. Quasi ogni sera diceva che
avrebbe messo fine a quella cosa, che una sera si sarebbe presentato al
Worm Creek e mi avrebbe riportato a casa. Ma ogni volta che c’era la prima
di uno spettacolo lo vedevo seduto in prima fila.
Certe volte faceva la parte dell’agente o del manager, correggendomi la
tecnica o suggerendomi canzoni per il mio repertorio, dandomi perfino dei
consigli di salute. Quell’inverno presi una sfilza di mal di gola che
m’impedirono di cantare, e una sera il papà mi chiamò da lui e mi aprì la
bocca per guardarmi le tonsille.
“Okay, sono gonfie,” disse. “Grosse come albicocche.” Visto che la
mamma non riusciva a ridurre il gonfiore con l’echinacea e la calendula, il
papà propose il suo rimedio. “La gente non lo sa, ma il sole è la medicina
più potente che abbiamo. È per questo che la gente non prende il mal di
gola d’estate.” Annuì come per approvare il suo ragionamento, poi disse:
“Se avessi delle tonsille come le tue mi metterei fuori al sole ogni mattina e
lascerei penetrare i raggi per una mezz’ora. Si restringeranno in un
momento”. Lo chiamava “trattamento”.
Lo feci per un mese.
Era scomodo stare con la bocca aperta e la testa rovesciata all’indietro per
far entrare il sole. Non resistevo mai mezz’ora. Dopo dieci minuti mi faceva
male la mandibola e mi sembrava di congelare a forza di stare là in piedi
ferma nell’inverno dell’Idaho. Continuavo ad ammalarmi alla gola e ogni
volta che il papà mi sentiva un po’ rauca diceva: “Be’, che ti credi? Non ti
ho visto fare il trattamento tutta la settimana!”.
Fu al Worm Creek Opera House che lo vidi per la prima volta: un
ragazzino che non conoscevo, che rideva insieme a un gruppo di amici della
scuola pubblica. Aveva delle grosse scarpe bianche, pantaloncini kaki e un
grande sorriso sul volto. Non recitava con noi, ma non c’era molto da fare
in città e quella settimana lo vidi venire più volte a trovare i suoi amici. Poi
una sera, mentre vagavo da sola nell’oscurità dietro le quinte, girai l’angolo
e lo trovai seduto sulla cassa di legno dove avevo l’abitudine di sedermi
anch’io. La cassa era appartata: per questo mi piaceva.
Si spostò sulla destra per farmi spazio. Mi sedetti lentamente,
nervosamente, come se la cassa fosse fatta di aghi.
“Io sono Charles,” disse. Aspettava che gli dicessi il mio nome, ma non lo
feci. “Ti ho vista nell’ultimo spettacolo,” disse un momento dopo. “Volevo
dirti una cosa.” Mi tenni forte, non so bene perché, poi disse: “Volevo dirti
che non ho mai sentito nessuno cantare così bene”.
Un pomeriggio, dopo aver finito di impacchettare noci di macadamia,
tornai a casa e trovai il papà e Richard alle prese con una grossa scatola di
metallo che avevano messo sul tavolo della cucina. Mentre io e la mamma
cucinavamo il polpettone, montarono il contenuto. Ci misero più di un’ora e
una volta finito indietreggiarono, rivelando quello che sembrava un enorme
telescopio verde militare, il lungo cilindro sorretto da un tozzo treppiede.
Richard era così eccitato che saltellava da un piede all’altro, declamandone
le doti. “Ha un raggio di oltre un chilometro e mezzo! Può abbattere un
elicottero!”
Il papà rimase in piedi in silenzio. Gli brillavano gli occhi.
“Cos’è?”
“È un fucile calibro cinquanta,” disse. “Vuoi provarlo?”
Guardai nel mirino, cercando il versante della montagna e fissando i
lontani gambi di frumento attraverso il reticolo di puntamento.
Lasciammo perdere il polpettone e corremmo fuori. Il sole era già
tramontato e l’orizzonte era buio. Guardai il papà abbassarsi sul terreno
ghiacciato, accostare l’occhio al mirino e, dopo quella che sembrò un’ora,
premere il grilletto. L’esplosione fu fragorosa. Mi ero tappata le orecchie
coi palmi delle mani, ma dopo il boato iniziale li tolsi e ascoltai lo sparo
riecheggiare per i burroni. Il papà sparò di nuovo, più volte, tanto che
quando rientrammo in casa mi ronzavano le orecchie. Riuscii a malapena a
sentire la risposta quando gli chiesi a cosa serviva il fucile.
“Per difesa,” disse.
La sera dopo avevo le prove al Worm Creek. Ero appollaiata sulla mia
cassa ad ascoltare il monologo in atto sul palco, quando arrivò Charles e mi
si sedette accanto.
“Non vai a scuola,” disse.
Non era una domanda.
“Dovresti venire al coro. Ti piacerebbe il coro.”
“Può darsi,” dissi, e lui sorrise. Alcuni dei suoi amici vennero a chiamarlo
dietro le quinte. Charles si alzò e mi salutò, poi lo guardai andare con loro e
scherzare in maniera disinvolta, e m’immaginai una realtà parallela in cui
ero una di loro. M’immaginai Charles che mi invitava a casa sua a giocare o
a guardare un film, e la cosa mi riempì di gioia. Ma quando m’immaginai
Charles che veniva a Buck Peak provai qualcos’altro, qualcosa di simile al
panico. E se trovava il deposito sotterraneo? Se scopriva il serbatoio di
benzina? Allora, finalmente, capii a cosa serviva il fucile. Quel grosso
cilindro, col suo raggio speciale che poteva arrivare dalla montagna fino
alla valle, era un perimetro difensivo per la casa, per le nostre provviste,
perché il papà diceva che saremmo andati in macchina mentre tutti gli altri
se la davano a gambe. Avremmo anche avuto da mangiare mentre tutti gli
altri facevano la fame e saccheggiavano in giro. M’immaginai di nuovo
Charles che saliva per la collina verso casa nostra. Ma nella mia fantasia ero
sulla cresta e lo guardavo avvicinarsi attraverso il mirino.
Il Natale fu modesto, quell’anno. Non eravamo poveri – l’attività della
mamma andava bene e il papà continuava a lavorare coi rottami –, ma
avevamo speso tutto in provviste.
Prima di Natale continuammo con i preparativi come se ogni gesto, ogni
piccola aggiunta alle nostre scorte fosse fondamentale per la sopravvivenza.
Dopo Natale, aspettammo. “Al momento del bisogno,” disse il papà, “non
ci sarà più tempo per prepararsi.”
I giorni passarono lentamente, poi arrivò il 31 dicembre. A colazione il
papà era calmo, ma sotto la sua tranquillità avvertivo una certa agitazione e
qualcosa di simile all’impazienza. Aveva aspettato così tanti anni
sotterrando fucili, accumulando cibo e mettendo in guardia gli altri. Tutti in
chiesa avevano letto le profezie; sapevano che sarebbero arrivati i Giorni
dell’Abominio. Eppure prendevano in giro il papà, ridevano di lui. Quella
sera avrebbero capito che aveva ragione.
Dopo cena il papà studiò Isaia per alcune ore. Verso le dieci chiuse la
Bibbia e accese la tv. Il televisore era nuovo. Il marito di zia Angie lavorava
per una compagnia televisiva satellitare e aveva proposto al papà un
abbonamento in offerta. Eravamo rimasti increduli quando il papà aveva
accettato, ma ripensandoci era tipico di mio padre passare nell’arco di un
giorno da niente tv o radio a trasmissioni via cavo in piena regola. A volte
mi chiedevo se il papà ci avesse concesso un televisore proprio quell’anno
solo perché sapeva che tutto sarebbe scomparso il 1° gennaio. Forse lo fece
per darci un piccolo assaggio del mondo prima che venisse spazzato via.
Il suo programma preferito era The Honeymooners e quella sera c’era uno
speciale che trasmetteva episodi non-stop. Guardammo, aspettando la Fine.
Controllai l’orologio più volte tra le dieci e le undici, e più volte ancora da
lì a mezzanotte. Anche il papà, che raramente si agitava per qualcosa,
guardò spesso l’orologio.
11:59
Trattenni il fiato. Ancora un minuto, pensai, e finirà tutto.
Poi arrivò mezzanotte. La tv mandava ancora il suo brusio e le sue luci
danzavano sulla moquette. Forse il nostro orologio era avanti. Andai in
cucina e aprii il rubinetto. L’acqua c’era. Il papà rimase immobile, gli occhi
fissi sullo schermo. Tornai sul divano.
12:05
Quando sarebbe saltata la corrente? C’era una scorta da qualche parte che
la faceva funzionare ancora qualche minuto?
Gli spettri in bianco e nero di Ralph e Alice Kramden discutevano per un
polpettone.
12:10
Aspettavo che lo schermo sfarfallasse e si spegnesse. Stavo cercando di
assimilare ogni cosa, quell’ultimo, lussuoso momento – l’intensa luce
gialla, l’aria calda che usciva dalla stufa. Provavo un senso di nostalgia per
la vita che avevo avuto finora e che avrei perso da un momento all’altro,
quando il mondo si sarebbe rovesciato e avrebbe cominciato a distruggersi.
Più restavo seduta immobile, respirando profondamente per assaporare
l’ultimo aroma di quel mondo perduto, più ero infastidita dalla sua
permanenza. La nostalgia si trasformò in stanchezza.
A un certo punto, dopo l’1:30, me ne andai a letto. Mentre mi allontanavo
lanciai un’occhiata al papà, al suo volto immobile nel buio, con la luce della
tv riflessa sugli occhiali squadrati. Sembrava in posa, per niente agitato o a
disagio, come se fosse la cosa più normale del mondo stare sveglio da solo
fin quasi alle due di notte a guardare Ralph e Alice Kramden che si
preparavano per una cena di Natale.
Sembrava fosse diventato più piccolo rispetto a quella mattina. La
delusione sul suo volto era così infantile che per un momento mi chiesi
come poteva Dio negargli una cosa del genere. Lui, un servitore fedele, che
soffriva volontariamente proprio come Noè aveva sofferto per costruire
l’arca.
Ma Dio gli negava il diluvio.
10.
Scudo di piume

Quando il 1° gennaio cominciò come ogni altra mattina, per il papà fu un


colpo al cuore. Non parlò mai più dell’Y2K. Cadde nello sconforto,
trascinandosi in casa ogni sera silenziosamente e pesantemente. Passava le
ore seduto davanti alla tv, avvolto da una nube nera.
La mamma disse che era ora di fare un altro viaggio in Arizona. Luke era
impegnato in una missione per la chiesa, quindi toccò solo a me, Richard e
Audrey stringerci nel vecchio furgone Chevy Astro che il papà aveva
aggiustato. Il papà tolse tutti i sedili tranne i due davanti, e al loro posto
mise un materasso matrimoniale. Poi ci salì sopra e non si mosse per il resto
del viaggio.
Com’era già successo in passato, il sole dell’Arizona rianimò il papà.
Rimase sdraiato sul duro cemento della veranda ad assorbire i suoi raggi,
mentre noi leggevamo o guardavamo la tv. Dopo alcuni giorni cominciò a
migliorare, e ci preparammo alle discussioni serali tra lui e la nonna. In quel
periodo la nonna andava da un sacco di dottori perché aveva un tumore al
midollo.
“Quei dottori ti faranno solo morire prima,” disse il papà una sera quando
la nonna tornò da una visita. Lei non volle interrompere la chemioterapia,
ma chiese alla mamma dei rimedi erboristici. La mamma ne aveva portati
alcuni con sé, sperando che glieli avrebbe chiesti, e la nonna li provò:
pediluvi di argilla rossa, tazze di infuso amaro al prezzemolo, tinture di
equiseto e di ortensia.
“Le erbe non ti faranno un bel niente,” disse il papà. “Queste cose
funzionano se ci credi. Non puoi affidarti a un dottore e poi chiedere al
Signore di guarirti.”
La nonna non rispose e sorseggiò in silenzio il suo infuso al prezzemolo.
Ricordo che la guardavo cercando segni di decadimento fisico. Non ne
vedevo nessuno. Sembrava la stessa donna salda e incrollabile di sempre.
Del resto del viaggio ho solo dei ricordi confusi, simili a istantanee: la
mamma che impartisce rimedi alla nonna col test muscolare, la nonna che
ascolta in silenzo il papà, il papà stravaccato di fuori nel caldo secco.
Poi sono su un’amaca sulla veranda sul retro a dondolarmi pigramente
nella luce arancione del tramonto, quando arriva Audrey e dice che il papà
vuole che prendiamo le nostre cose perché siamo in partenza. La nonna è
incredula. “Dopo quello che è successo l’ultima volta?” grida. “Vuoi
guidare ancora di notte? E la tormenta?” Il papà dice che ce la faremo
anche con la tormenta. Mentre carichiamo il furgone la nonna cammina
avanti e indietro, imprecando. Dice che il papà non ha imparato niente di
niente.
Richard guida per le prime sei ore. Sono sdraiata sul materasso di dietro
insieme a Audrey e al papà.
Sono le tre di notte e stiamo risalendo verso il Nord dello Utah, quando
passiamo dal freddo secco del deserto alle raffiche gelide di un inverno
alpino. La strada comincia a coprirsi di ghiaccio. I fiocchi di neve
colpiscono il parabrezza come minuscoli insetti, pochi all’inizio, poi così
fitti da far scomparire la strada. Avanziamo nel cuore della tormenta. Il
furgone slitta e sbanda. Il vento è furioso, fuori dal finestrino vediamo solo
bianco. Richard accosta. Dice che non possiamo proseguire.
Il papà prende il volante, Richard si sposta sul sedile accanto e la mamma
si sdraia accanto a me e Audrey sul materasso. Il papà torna sulla
superstrada e accelera rapidamente, come per ribadire qualcosa, fino a
toccare il doppio della velocità di Richard.
“Non dovremmo andare più piano?” dice la mamma.
Il papà sorride. “Non vado più veloce dei nostri angeli.” Continua ad
accelerare. Ottanta chilometri all’ora, poi novantacinque.
Richard è nervoso. Stringe il bracciolo con una mano e le sue nocche
diventano bianche ogni volta che gli pneumatici slittano. La mamma è
distesa sul fianco, il volto vicino al mio, e inspira brevemente ogni volta che
il furgone sbanda, poi trattiene il fiato mentre il papà lo riporta in
carreggiata. È così tesa che penso possa andare in frantumi. Il mio corpo
s’irrigidisce insieme al suo, preparandosi continuamente allo scontro.
È un sollievo quando il furgone finalmente esce di strada.
Mi svegliai che era tutto buio. Qualcosa di gelido mi correva lungo la
schiena. Siamo in un lago! pensai. Avevo addosso qualcosa di pesante. Il
materasso. Cercai di scalciarlo via ma non ci riuscii, così strisciai fuori da
sotto, premendo mani e ginocchia sul soffitto del furgone, che si era
capovolto. Raggiunsi un finestrino spaccato. Era pieno di neve. Poi capii:
eravamo in un campo, non in un lago. Strisciai fuori tra i vetri rotti e mi
alzai barcollando. Non riuscivo a stare in equilibrio. Mi guardai attorno ma
non vidi nessuno. Il furgone era vuoto. La mia famiglia era scomparsa.
Feci il giro della carcassa due volte prima di vedere la sagoma ricurva del
papà su una collinetta lontana. Lo chiamai e lui chiamò gli altri, che erano
sparsi per il campo. Il papà arrancò verso di me attraverso i cumuli di neve
e quando urtò una sbarra dei fari rotti vidi un taglio di quindici centimetri
sul suo avambraccio e il sangue che squarciava la neve.
In seguito mi dissero che ero svenuta per diversi minuti, nascosta sotto il
materasso. Avevano gridato il mio nome. Non sentendo risposta avevano
pensato che fossi stata sbalzata fuori dal furgone attraverso il finestrino
rotto, così erano usciti a cercarmi.
Tornarono tutti al furgone e restammo là in piedi a guardarlo, imbarazzati
e tremanti per il freddo o lo shock. Nessuno guardò il papà. Non volevamo
incolparlo.
Arrivò la polizia, poi un’ambulanza. Non so chi le avesse chiamate. Non
dissi che ero svenuta – avevo paura che mi portassero in ospedale. Rimasi
seduta nella macchina della polizia accanto a Richard, avvolta in una
coperta termica simile a quella che avevo nel mio zaino “per la fuga”.
Ascoltammo la radio mentre gli agenti chiedevano al papà perché il furgone
non era assicurato e perché aveva tolto i sedili e le cinture di sicurezza.
Dato che eravamo lontani da Buck Peak ci portarono alla stazione di
polizia più vicina. Il papà chiamò Tony, ma Tony era in viaggio col camion
su una lunga tratta. Poi provò con Shawn. Nessuna risposta. Solo in seguito
avremmo saputo che quella notte Shawn era in carcere per aver partecipato
a una specie di rissa.
Non potendo contattare i suoi figli, il papà chiamò Rob e Diane Hardy. La
mamma aveva fatto nascere cinque dei loro otto figli. Rob arrivò alcune ore
dopo, ridacchiando. “Non vi eravate già quasi ammazzati l’ultima volta?”
Alcuni giorni dopo l’incidente mi si bloccò il collo.
Una mattina mi svegliai senza riuscire più a muoverlo. All’inizio non
faceva male ma, per quanto mi sforzassi di girare la testa, non si spostava
più di due o tre centimetri. Poi la paralisi si propagò in basso, finché mi
sembrò di avere una sbarra di metallo infilata lungo la schiena e nel cranio.
Quando non riuscii più a piegarmi in avanti né a girare la testa, cominciò il
dolore. Avevo un mal di testa continuo, paralizzante, e non riuscivo a stare
in piedi senza aggrapparmi a qualcosa.
La mamma chiamò una terapeuta energetica di nome Rosie. Ero sdraiata
a letto da due settimane quando comparve sulla soglia, ondulata e distorta
come se la vedessi riflessa in una pozzanghera. Aveva una voce squillante,
allegra. Mi disse di immaginarmi sana e in forma, protetta da una bolla
bianca. Dentro la bolla dovevo mettere tutti gli oggetti che amavo, tutti i
colori che mi trasmettevano serenità. Visualizzai la bolla e m’immaginai al
suo interno, in grado di stare in piedi, di correre. Dietro di me c’era un
tempio mormone e la vecchia capra di Luke, Kamikaze, morta da tempo.
Un bagliore verde avvolgeva ogni cosa.
“Pensa alla bolla alcune ore ogni giorno,” disse Rosie, “e guarirai.” Mi
diede dei colpetti sul braccio e sentii la porta chiudersi alle sue spalle.
Pensai alla bolla ogni mattina, pomeriggio e sera, ma il mio collo restava
bloccato. Lentamente, nell’arco di un mese, mi abituai ai mal di testa.
Imparai a stare in piedi, poi a camminare. Usavo gli occhi per tenermi
dritta; se li chiudevo anche solo un istante mi girava tutto e cadevo.
Ricominciai a lavorare a casa di Randy e ogni tanto in discarica. E ogni sera
mi addormentavo pensando alla bolla verde.
Durante il mese che passai a letto sentii un’altra voce. Me la ricordavo ma
non mi era più famigliare. Erano passati sei anni da quando avevo sentito
riecheggiare quella risata malefica in corridoio.
Era la voce di mio fratello Shwan, che a diciassette anni aveva litigato
con mio padre e se n’era andato di casa per fare dei lavori occasionali,
perlopiù come camionista e saldatore. Era tornato perché il papà gli aveva
chiesto aiuto. Dal mio letto, l’avevo sentito dire che si sarebbe fermato solo
finché il papà non avesse messo insieme una squadra di lavoro decente. Era
solo un favore, disse, in attesa che il papà si rimettesse in sesto.
Fu strano trovare in casa quel fratello che per me era quasi un estraneo.
Sembrava che la gente in città lo conoscesse meglio di me. Avevo sentito
certe voci su di lui al Worm Creek. Dicevano che era una seccatura, un
bullo, un poco di buono, sempre pronto ad attaccar briga coi delinquenti
dallo Utah o anche da più lontano. Pare che avesse una pistola e che la
tenesse nascosta sotto i vestiti o fissata con una cinghia alla sua grossa
motocicletta nera. Una volta qualcuno disse che in realtà Shawn non era
cattivo, che faceva a botte solo perché aveva fama di essere imbattibile:
sapeva tutto quel che c’era da sapere sulle arti marziali e combatteva come
se non sentisse dolore, così ogni aspirante testa calda della valle pensava di
potersi fare un nome se riusciva ad avere la meglio su di lui. In realtà quindi
non era colpa sua. A forza di ascoltare queste voci, Shawn diventò per me
più una figura leggendaria che una persona in carne e ossa.
Il ricordo che ho di lui comincia in cucina, un paio di mesi dopo il
secondo incidente.
Sto preparando la zuppa di pesce. La porta cigola e giro il busto per
vedere chi è, poi torno ad affettare una cipolla.
“Vuoi restare uno stecco di ghiacciolo ambulante per sempre?” dice
Shawn.
“No.”
“Ti ci vuole un chiropratico.”
“Ci penserà la mamma.”
“Ti ci vuole un chiropratico,” ripete.
Pranziamo tutti seduti a tavola, poi ognuno se ne va per i fatti suoi.
Comincio a lavare i piatti. Ho le mani nell’acqua calda e saponosa quando
sento un passo dietro di me e due mani grosse e callose mi stringono il
cranio. Prima che possa reagire, Shawn mi torce la testa con un movimento
rapido e violento. CRACK! Il rumore è così forte che penso mi abbia staccato
la testa e la stia tenendo tra le mani. Mi cedono le gambe, cado a terra. È
tutto nero, tutto gira. Quando apro gli occhi alcuni istanti dopo, le sue mani
sono sotto le mie ascelle e mi sta sorreggendo.
“Forse ci metterai un po’ a stare in piedi,” dice. “Ma quando riesci, devo
fare l’altro lato.”
Mi girava troppo la testa e avevo troppa nausea perché l’effetto fosse
immediato. Ma durante la sera notai dei piccoli cambiamenti. Riuscivo a
guardare il soffitto. Riuscivo a piegare la testa per prendere in giro Richard.
Seduta sul divano, riuscivo a girarmi e a sorridere alla persona che avevo
accanto.
Quella persona era Shawn, ma anche se lo guardavo non lo vedevo. Non
so cosa vedessi, quale creatura evocai da quel gesto violento e
compassionevole – ma credo che fosse mio padre, o forse il padre che avrei
voluto: una figura protettiva, un eroe immaginario, qualcuno che non mi
buttava in una tormenta e che, se mi facevo male, mi rimetteva in sesto.
11.
Istinto

Quando il nonno sotto la collina era giovane, c’erano mandrie di bestiame


sparse per la montagna, di cui ci si occupava a cavallo. I cavalli del nonno
erano leggendari. Consumati come cuoio invecchiato, muovevano i loro
corpi massicci delicatamente, come se si facessero guidare dai pensieri di
chi li cavalcava.
O almeno, così mi dicevano. Io non li avevo mai visti. Col passare degli
anni il nonno cominciò ad allevare sempre meno e a coltivare sempre più,
finché un giorno smise anche di coltivare. I cavalli non gli servivano più,
così vendette quelli che valevano qualcosa e liberò gli altri, che col tempo si
moltiplicarono, tanto che alla mia nascita sulla montagna c’era un’intera
mandria di cavalli selvaggi.
Richard chiamava quei cavalli “cibo per cani”. Una volta all’anno Luke,
Richard e io aiutavamo il nonno a catturarne una dozzina circa da portare
all’asta in città, dove venivano venduti per il macello. Certi anni il nonno
guardava il piccolo branco impaurito destinato al tritacarne, i giovani
stalloni che andavano avanti e indietro alle prese con la loro prima cattività,
e un desiderio ardente gli riempiva gli occhi. Allora ne indicava uno e
diceva: “Non caricatelo. Questo qui lo addomestichiamo”.
Ma i cavalli selvaggi non si lasciano domare facilmente, nemmeno da uno
come il nonno. Io e i miei fratelli ci mettevamo dei giorni, anche delle
settimane a guadagnarci la fiducia del cavallo: solo allora potevamo
toccarlo. Poi gli accarezzavamo il lungo muso e gradualmente, dopo altre
settimane, riuscivamo a passargli le mani sul collo robusto e il corpo
muscoloso. Dopo un mese tiravamo fuori la sella e il cavallo muoveva la
testa con tanta violenza da strappare la cavezza o spezzare la fune. Una
volta un grosso stallone color rame sfondò come se niente fosse la
staccionata del recinto, uscendo dall’altra parte ferito e insanguinato.
Cercavamo di non dare dei nomi a queste bestie che speravamo di
addomesticare, ma dovevamo indicarle in qualche modo. Così sceglievamo
dei nomignoli descrittivi e non sentimentali come Gran rosso, Cavalla nera,
Gigante bianco. Non ricordo quante volte fui sbalzata a terra quando questi
cavalli sgroppavano, s’impennavano, si rotolavano o saltavano. Cadevo in
centinaia di posizioni scomposte, rialzandomi sempre in un lampo e
correndo al riparo di un albero, un trattore o una staccionata nel caso in cui
il cavallo avesse in mente di vendicarsi.
Non l’avevamo mai vinta del tutto; la nostra forza di volontà vacillava
molto prima della loro. Ne convincemmo alcuni a non sgroppare quando
vedevano una sella, e una manciata a tollerare una persona in groppa per dei
giretti dentro il recinto. Ma nemmeno il nonno osava cavalcarli in
montagna. La loro natura non era cambiata: erano divinità spietate e potenti
di un altro mondo. Montarli significava rinunciare all’equilibrio,
consegnarsi al loro dominio. Rischiare di essere portati via.
Il primo cavallo addomesticato che vidi fu un baio castrato che se ne
stava accanto al recinto a mordicchiare zollette di zucchero dalla mano di
Shawn. Era primavera e avevo quattordici anni. Erano passati molti anni
dall’ultima volta che avevo toccato un cavallo.
Il castrato era mio, me l’aveva regalato un prozio da parte di mia madre.
Mi avvicinai cautamente, sicura che a un certo punto si sarebbe messo a
sgroppare, a impennarsi o a caricare. Invece mi annusò la maglia, lasciando
una chiazza lunga e bagnata. Shawn mi lanciò una zolletta. Il cavallo fiutò
lo zucchero e la barba che aveva sul mento mi solleticò le dita facendomi
aprire il palmo.
“Vuoi addestrarlo?” disse Shawn.
Non ci pensavo nemmeno. Ero terrorizzata dai cavalli, o da quello che
pensavo che fossero, ovvero dei pesantissimi diavoli che ambivano a
sfasciare cervella contro le rocce. Dissi a Shawn che poteva addestrarlo lui.
L’avrei guardato dal recinto.
Mi rifiutai di dare un nome al cavallo, così lo chiamammo semplicemente
Puledro. Dato che era già abituato a cavezza e briglie, Shawn portò fuori la
sella già dal primo giorno. Puledro cominciò a raspare nervosamente per
terra non appena la vide. Mio fratello si mosse lentamente, lasciandogli
annusare le staffe e mordicchiare con curiosità il pomo. Poi gli passò il
cuoio levigato sull’ampio petto con dei gesti sicuri ma non affrettati.
“Ai cavalli non piacciono le cose che non riescono a vedere,” disse.
“Meglio abituarlo alla sella dal davanti. Quando sarà a suo agio col suo
odore e la sua presenza, potremo girarla dietro.”
Un’ora dopo la sella era fissata al suo posto. Shawn disse che era il
momento di salire in groppa. Mi arrampicai sul tetto della stalla, sicura che
nel recinto si sarebbe scatenato un putiferio. Ma quando Shawn montò in
sella, Puledro si mosse appena. Alzò gli zoccoli davanti di qualche
centimetro da terra, come se avesse pensato di impennarsi ma poi avesse
cambiato idea, quindi abbassò la testa e le sue zampe rimasero immobili.
Nell’arco di un solo momento aveva accettato la nostra decisione di
montarlo, di farsi montare. Aveva accettato il mondo per quel che era,
ovvero un mondo in cui lui era una cosa posseduta da qualcun altro. Non
era mai stato un cavallo selvaggio, quindi non poteva sentire il richiamo
irresistibile di quell’altro mondo, sulla montagna, dove non poteva
appartenere a nessuno né farsi montare da nessuno.
Lo chiamai Bud. Ogni sera per una settimana guardai Shawn e Bud
galoppare per il recinto nella grigia foschia del crepuscolo. Poi, una mite
sera d’estate, mi avvicinai a Bud, presi le redini mentre Shawn teneva ferma
la cavezza e montai in sella.
Shawn disse che voleva cambiare vita e che il primo passo da fare era
stare alla larga dai suoi amici. All’improvviso cominciò a passare tutte le
sere a casa, cercando qualcosa da fare. Decise di accompagnarmi in
macchina alle prove al Worm Creek. Quando eravamo solo noi due a
viaggiare lungo la statale era tranquillo e spensierato. Scherzava e faceva
delle battute, e a volte mi dava dei consigli, che in genere erano sui toni di
“non fare come ho fatto io”. Ma quando arrivavamo al teatro, cambiava.
All’inizio fissava i ragazzi più giovani con diffidenza, poi cominciò a
punzecchiarli. Non erano vere e proprie aggressioni, solo piccole
provocazioni. Magari faceva cadere con un colpetto il berretto di uno, o gli
rovesciava di mano una lattina di bibita e rideva mentre la macchia gli si
allargava sui jeans. Se qualcuno reagiva – cosa che succedeva di rado –
recitava la parte del bullo, indossando un’espressione indurita da “Embé?
Che vuoi fare ora?”. Ma quando eravamo di nuovo solo io e lui, Shawn si
toglieva la maschera, si sfilava quella spacconeria come una corazza e
tornava a essere mio fratello.
Andavo matta per il suo sorriso. I canini superiori non gli erano mai
cresciuti del tutto e i vari dentisti olistici da cui l’avevano portato i miei
genitori se n’erano accorti troppo tardi. Quando era andato da un chirurgo
orale, a ventitré anni, erano ormai ruotati di sbieco dentro le gengive e gli
stavano uscendo dai tessuti sotto il naso. Il chirugo che glieli tolse disse a
Shawn di tenersi i denti da latte il più a lungo possibile, poi, quando si
fossero cariati, gli avrebbe messo delle protesi. Ma non si cariarono mai.
Rimasero là come testarde reliquie di un’infanzia perduta, ricordando a
chiunque assisteva alla sua inutile, incessante, irresponsabile aggressività
che quell’uomo un tempo era stato un bambino.
Era una velata sera d’estate, un mese prima che compissi quindici anni. Il
sole era sceso dietro Buck Peak, ma il cielo tratteneva ancora qualche ora di
luce. Io e Shawn eravamo nel recinto. Dopo aver addestrato Bud, quella
primavera, Shawn si era votato seriamente ai cavalli. Ne aveva comprati
diversi durante tutta l’estate, di razza purosangue e Paso Fino, in genere non
addomesticati per spendere meno. Stavamo ancora lavorando con Bud.
L’avevamo portato a cavalcare più volte per i campi aperti, ma era
inesperto, capriccioso e imprevedibile.
Quella sera Shawn sellò un cavallo nuovo, una giumenta dal manto color
rame. Era la prima volta. Disse che era pronta per un piccolo giro, così
montammo in sella, lui sulla giumenta e io su Bud. Salimmo in montagna
per quasi un chilometro, muovendoci con cautela per non spaventare i
cavalli e avanzando a zig zag tra i campi di grano. Poi feci una cosa stupida.
Mi avvicinai troppo alla giumenta. Quella non fu contenta di avere il
castrato dietro di sé e all’improvviso balzò in avanti, spostando il peso sulle
zampe anteriori e scalciando Bud in pieno petto con quelle posteriori.
Bud andò su tutte le furie.
In quel momento stavo facendo un nodo sulle redini per migliorare la
presa e non le stavo tenendo strette. Bud sobbalzò tremendamente e
cominciò a sgroppare, tracciando dei piccoli cerchi con il corpo. Le redini
volarono sopra la sua testa. Afferrai il pomo della sella e strinsi le cosce,
curvando le gambe attorno alla sua grossa pancia. Prima che potessi
riprendere il controllo, Bud partì alla cieca su per un canalone, scalciando di
tanto in tanto ma senza smettere di correre. Un piede mi scivolò fuori dalla
staffa, che s’incastrò all’altezza del polpaccio.
Dopo tutte quelle estati passate a domare cavalli insieme al nonno,
l’unico consiglio che ricordavo era: “Qualunque cosa succeda, non
incastrare mai il piede nella staffa”. Non servivano spiegazioni. Sapevo che
se cadevo senza intralci probabilmente me la sarei cavata. Almeno ero a
terra. Ma se mi s’impigliava un piede, il cavallo mi avrebbe trascinato fino
a spaccarmi la testa contro una roccia.
Shawn non poteva aiutarmi, non in groppa a quella giumenta indomata.
Un cavallo impazzito fa impazzire anche gli altri, specialmente se sono
giovani e focosi. Tra tutti i cavalli di Shawn ce n’era uno solo – un isabella
di diciassette anni di nome Apollo – che forse era abbastanza vecchio e
tranquillo per farlo: partire a tutta velocità in un galoppo sventola-narici,
poi procedere piano mentre il cavaliere staccava il corpo, toglieva una
gamba da una staffa e raccoglieva da terra le redini di un altro cavallo
imbizzarrito dallo spavento. Ma Apollo era nel recinto, quasi un chilometro
a valle.
L’istinto mi diceva di lasciare il pomo della sella – l’unica cosa che mi
teneva a cavallo. Se lasciavo la presa sarei caduta, ma avrei avuto un
momento prezioso per afferrare le redini svolazzanti o cercare di tirar fuori
il polpaccio dalla staffa. Provaci, gridava il mio istinto.
Questo istinto era il mio custode. Mi aveva già salvato altre volte,
guidando i miei movimenti su una dozzina di cavalli sgroppanti, dicendomi
quando aggrapparmi alla sella e quando lasciarmi cadere lontano dagli
zoccoli battenti. Era lo stesso istinto che anni prima mi aveva spinto a
tirarmi fuori dal bidone dei rottami quando il papà lo stava svuotando,
perché sapeva che era meglio cadere da quell’altezza piuttosto che sperare
che lui intervenisse. Per tutta la vita l’istinto mi aveva insegnato una sola
cosa: che è meglio fare affidamento solo su se stessi.
Bud s’impennò, slanciando la testa così in alto che pensai sarebbe caduto
all’indietro. Scese pesantemente e sgroppò. Strinsi la presa attorno al pomo
e, ascoltando un istinto diverso, presi la decisione di non lasciarlo.
Shawn mi avrebbe raggiunto, anche in sella a quella giumenta non
addestrata. Avrebbe fatto un miracolo. La giumenta non avrebbe nemmeno
capito il comando quando le avrebbe gridato: “Vai!”. Al colpo del suo
scarpone sulla pancia, mai sentito prima, si sarebbe impennata, torcendosi
all’impazzata, ma lui le avrebbe abbassato la testa e, non appena i suoi
zoccoli avrebbero toccato terra, l’avrebbe calciata una seconda volta, più
forte, sapendo che si sarebbe impennata di nuovo. L’avrebbe ripetuto finché
non sarebbe partita di corsa, poi l’avrebbe diretta in avanti assecondando la
sua accelerazione, guidandola in qualche modo anche se non era ancora
avvezza a quella strana danza dei movimenti che col tempo diventa una
specie di linguaggio tra cavallo e cavaliere. Tutto questo sarebbe successo
nel giro di pochi secondi, un anno di addestramento ridotto a un unico,
disperato momento.
Sapevo che era impossibile. Lo sapevo anche mentre me l’immaginavo.
Ma continuai a stringere il pomo della sella.
Bud era fuori di sé. Balzava furiosamente, inarcando la schiena quando
saltava in alto e agitando la testa quando scaraventava gli zoccoli a terra. I
miei occhi riuscivano a decifrare a fatica quel che vedevano. C’era grano
dorato che volava da ogni parte, mentre il cielo azzurro e la montagna
sobbalzavano in maniera assurda.
Ero così disorientata che percepii, più che vederla, la possente giumenta
color rame ai margini della mia visuale. Shawn sollevò il corpo dalla sella e
s’inclinò verso terra, tenendo le redini strette in una mano mentre con l’altra
afferrava le redini di Bud tra le erbacce. Le cinghie di cuoio si tesero, il
morso costrinse la testa di Bud in alto e in avanti. Ora Bud non poteva più
sgroppare e passò a un galoppo ritmico e regolare. Shawn tirò con forza le
proprie redini, avvicinando la testa della giumenta verso il ginocchio e
obbligandola a girare in tondo. Avvicinò sempre di più la testa dell’animale
a ogni giro, avvolgendosi la cinghia attorno all’avambraccio e stringendo il
cerchio finché fu così piccolo che gli zoccoli dovettero fermarsi. Scivolai
giù dalla sella e mi sdraiai sul grano, lasciando che gli steli pungenti mi si
conficcassero nella maglia. Sopra la mia testa i cavalli ansimavano. Le loro
pance si gonfiavano e si sgonfiavano, i loro zoccoli raspavano il terreno.
12.
Occhi da pesce

Mio fratello Tony aveva chiesto un prestito per comprarsi un camion –


motrice e rimorchio –, ma per ripagarlo doveva lavorare, tenere il veicolo in
strada, quindi era lì che viveva, in strada. Poi sua moglie si ammalò e il
dottore da cui andò (era andata da un dottore) le prescrisse un periodo di
riposo a letto. Tony chiamò Shawn e gli chiese se poteva guidare il camion
al posto suo per una settimana o due.
Shawn odiava guidare sulle lunghe distanze, ma disse che l’avrebbe fatto
se l’accompagnavo. Il papà non aveva bisogno di me alla discarica e Randy
poteva darmi qualche giorno libero, così partimmo, diretti prima a Los
Angeles, poi a est ad Albuquerque, poi a ovest a Los Angeles, e infine a
nord nello Stato di Washigton. Credevo che avrei visto delle città, ma il più
delle volte vedevo solo stazioni di servizio e autostrade. Il camion aveva un
parabrezza enorme e sopraelevato come l’abitacolo di un aereo, tanto che le
auto di sotto sembravano delle macchinine giocattolo. La cabina dove
c’erano le cuccette per dormire era umida e buia come una grotta, cosparsa
di sacchetti di Doritos e frutta secca.
Shawn guidò per giorni interi dormendo pochissimo e conducendo il
nostro rimorchio da quindici metri come se fosse un’estensione del suo
stesso braccio. Ogni volta che incontravamo un posto di blocco falsificava i
libri di bordo per far sembrare che dormisse più di quanto dormiva in realtà.
Un giorno sì e uno no ci fermavamo a farci una doccia e a mangiare
qualcosa che non fosse frutta secca e muesli.
Il magazzino Walmart nei pressi di Albuquerque era pieno e non poté
farci scaricare per due giorni. Eravamo nella periferia della città e c’era solo
una stazione di servizio e sabbia rossa ovunque ti voltassi, così ci
chiudemmo nella cabina a mangiare Cheetos e a giocare a Mario Kart.
Verso la fine del secondo giorno eravamo indolenziti a forza di stare seduti
e Shawn disse che mi avrebbe insegnato le arti marziali. Facemmo la nostra
prima lezione al crepuscolo nel parcheggio.
“Se sai quello che fai,” disse, “puoi mettere fuori gioco un uomo col
minimo sforzo. Puoi controllare un corpo con due sole dita. Si tratta di
sapere dove sono i punti deboli e come sfruttarli.” Mi prese un polso e lo
chiuse, piegandomi fastidiosamente le dita verso l’interno
dell’avambraccio. Continuò a premere finché mi contorsi leggermente,
girando il braccio dietro la schiena per allentare la tensione.
“Vedi? Questo è un punto debole,” disse. “Se lo piego ancora di più, sarai
bloccata.” Fece quel suo sorriso d’angelo. “Ma non lo farò, perché ti
farebbe un male cane.”
Mi lasciò andare e disse: “Adesso prova tu”.
Gli piegai il polso e strinsi forte, cercando di fargli torcere il busto come
avevo fatto io. Non si mosse.
“Forse ho un’altra strategia per te,” disse.
Mi afferrò il polso in un modo diverso – come farebbe un aggressore,
disse. M’insegnò a spezzare la presa nei punti in cui le dita erano più deboli
e le ossa del mio braccio più forti, così che dopo pochi minuti riuscii ad
aprirmi un varco tra le sue dita robuste. M’insegnò a tirare un pugno con
tutto il peso del corpo e dove premere per schiacciare la trachea.
La mattina dopo, il rimorchio fu scaricato. Salimmo sul camion,
prendemmo un nuovo carico e guidammo per altri due giorni, guardando le
linee bianche sull’asfalto scomparire ipnoticamente sotto il cofano bianco-
osso. Non sapendo come passare il tempo, c’inventammo un gioco con le
parole. Il gioco aveva solo due regole. La prima era che ogni frase doveva
contenere almeno due parole con le prime lettere scambiate.
“Non sei la mia sorellina,” disse Shawn. “Sei la sia morellina.” Pronunciò
le parole lentamente, smussando le l in n così che sembrò dire “morennina”.
La seconda regola era che ogni parola che somigliava a un numero, o che
sembrava contenere un numero, doveva essere cambiata in modo che il
numero aumentasse di uno. Se dicevano “tu sei”, per esempio, diventava
“tu sette”.
“Morennina,” diceva allora Shawn, “dobbiamo fare nove-nzione. C’è un
posto di blocco più a-ventuno e non ho soldi per la multa. È ora che ti metta
la cintura.”
Quando ci stancavamo di giocare accendevamo il CB e ascoltavamo i
solitari scambi di battute tra i camionisti in viaggio lungo l’autostrada.
“Occhi aperti per un quattroruote verde,” disse una voce rauca mentre
eravamo da qualche parte tra Sacramento e Portland. “S’è piazzato a
campeggiare nella mia piazzola per mezz’ora.”
Nel gergo dei camionisti, mi spiegò Shawn, un quattroruote era un’auto o
un pickup.
Un’altra voce si stava lamentando di una Ferrari rossa che zigzagava nel
traffico a quasi duecento all’ora. “Quel bastardo ha quasi urtato una piccola
Chevrolet azzurra,” ringhiò la voce tra le interferenze. “Merda, ci sono dei
bambini in quella Chevrolet. C’è nessuno più avanti che vuol dare una
calmata a ’sto esagitato?” La voce comunicò la sua posizione.
Shawn guardò i cartelli con le indicazioni chilometriche. Eravamo
davanti. “Sono un Pete bianco con un frigo,” disse. Ci fu un momento di
silenzio mentre tutti guardavano negli specchietti cercando un Peterbit con
rimorchio frigorifero. Poi una terza voce, più rauca della prima, rispose: “Io
sono il Kenworth blu con container”.
“Ti vedo,” disse Shawn, e mi indicò un Kenworth blu scuro poche auto
più avanti.
Quando comparve la Ferrari, moltiplicata nei nostri vari specchietti,
Shawn cambiò marcia, mandando su di giri il motore e accostandosi al
Kenworth in modo che i due rimorchi da quindici metri procedessero fianco
a fianco, bloccando entrambe le corsie. La Ferrari strombazzò, zigzagò
avanti e indietro, frenò, strombazzò di nuovo.
“Quanto lo teniamo là dietro?” chiese la voce rauca con una risata
profonda.
“Finché non si calma,” rispose Shawn.
Dopo otto chilometri, lo lasciarono passare.
Il viaggio durò circa una settimana, poi dicemmo a Tony di trovarci un
carico per l’Idaho.
“Be’, Morennina,” disse Shawn quando accostammo nella discarica,
“eccoci qui, nov-timo lavoro!”
Il Worm Creek Opera House annunciò un nuovo spettacolo: Carousel.
Shawn mi accompagnò al provino, poi mi sorprese partecipando anche lui
alle selezioni. Vidi Charles. Stava parlando con una ragazza di diciassette
anni di nome Sadie. Sadie annuiva a quello che stava dicendo Charles, ma
non staccava un momento gli occhi da Shawn.
Alle prime prove, Sadie venne a sedersi accanto a mio fratello. Gli mise
una mano sul braccio, ridendo e scostandosi i capelli. Era molto carina, con
labbra morbide e piene e grandi occhi scuri, ma quando chiesi a Shawn se
gli piaceva mi rispose di no.
“Ha gli occhi da pesce,” disse.
“Occhi da pesce?”
“Sì, da pesce. Sono stupidi da morire, i pesci. Sono belli, ma hanno la
testa vuota come una zucca.”
Sadie cominciò a venire alla discarica verso l’ora di chiusura, di solito
con un frappè, dei biscotti o una fetta di torta per Shawn. Shawn quasi non
le rivolgeva la parola, limitandosi a prendere quello che gli aveva portato e
ad andare verso il recinto. Sadie lo seguiva e cercava di parlargli mentre lui
si occupava dei cavalli, finché una sera gli chiese se le insegnava a
cavalcare. Cercai di spiegarle che i nostri cavalli non erano del tutto
addestrati, ma non ne volle sapere, così Shawn la mise su Apollo e
cominciammo a salire tutti e tre per la montagna. Shawn non prestava
attenzione a Sadie e ad Apollo. Non l’aiutò neanche un po’, come invece
aveva fatto con me, insegnandomi ad alzarmi sulle staffe quando scendevo
per le gole ripide o a stringere le cosce quando il cavallo superava un ramo
con un salto. Sadie tremò come una foglia dall’inizio alla fine, ma finse di
divertirsi, sfoggiando il suo sorriso truccato ogni volta che Shawn guardava
nella sua direzione.
Alle prove seguenti Charles chiese a Sadie qualcosa riguardo una scena, e
Shawn li vide parlare. Sadie si avvicinò alcuni minuti dopo, ma Shawn non
le volle parlare. Si voltò dall’altra parte e lei se ne andò in lacrime.
“Che ti è preso?” chiesi.
“Niente,” disse.
Alcuni giorni dopo, alle prove, Shawn sembrò essersi dimenticato
dell’accaduto. Sadie si avvicinò con cautela, ma lui le sorrise e alcuni
minuti dopo stavano parlando e ridendo. Shawn le chiese di andare a
comprargli uno Snickers al negozietto sull’altro lato della strada. Lei
sembrò contenta della richiesta e corse fuori, ma quando tornò alcuni minuti
dopo per portargli lo snack, lui disse. “Cos’è ’sta roba? Ti ho chiesto un
Milky Way.”
“No,” rispose lei. “Hai detto Snickers.”
“Voglio un Milky Way.”
Sadie uscì di nuovo e andò a prendere il Milky Way. Glielo consegnò con
una risatina nervosa, e Shawn disse: “Dov’è il mio Snickers? Ma come, ti
sei dimenticata di nuovo?”.
“Non lo volevi!” disse lei, gli occhi scintillanti come vetro. “L’ho dato a
Charles!”
“Vallo a prendere.”
“Te ne comprerò un altro.”
“No,” disse Shawn, lo sguardo freddo. I suoi denti da latte, che di solito
gli davano un’aria allegra e maliziosa, ora lo facevano sembrare
imprevedibile, pericoloso. “Voglio quello. Prendilo, o non farti più vedere.”
Una lacrima scese lungo la guancia di Sadie, sbavandole il mascara. Si
fermò un momento ad asciugarla e riprese a sorridere. Poi andò da Charles
e, ridendo come se fosse una cosa da nulla, gli chiese se poteva riavere lo
Snickers. Charles infilò una mano in tasca e glielo diede, poi la guardò
tornare da Shawn. Sadie gli mise lo Snickers sul palmo come un’offerta di
pace e aspettò, fissando la moquette. Shawn l’avvicinò a sé, facendola
sedere sul suo grembo, e divorò la barretta di cioccolato in tre bocconi.
“Hai degli occhi bellissimi,” disse. “Come quelli di un pesce.”
I genitori di Sadie stavano divorziando e in città giravano un sacco di voci
su suo padre. Quando queste voci arrivarono alle orecchie della mamma,
disse che ora capiva perché Shawn s’interessava tanto a Sadie. “Ha sempre
protetto gli angeli con le ali spezzate,” disse.
Shawn scoprì l’orario scolastico di Sadie e lo memorizzò. Si mise in testa
di andare alla scuola superiore più volte al giorno, soprattutto quando
sapeva che Sadie si sarebbe spostata da un edificio all’altro. Accostava
lungo la statale e la guardava da là, troppo lontano perché lei potesse
raggiungerlo ma abbastastanza vicino perché lo vedesse. Era una cosa che
facevamo insieme, io e lui, quasi ogni volta che andavamo in città e a volte
anche quando non avevamo bisogno di andarci. Finché un giorno Sadie
comparve sui gradini della scuola insieme a Charles. Ridevano insieme.
Sadie non si era accorta del furgone di Shawn.
Vidi il volto di mio fratello indurirsi, poi rilassarsi. Mi sorrise. “So come
punirla,” disse. “La ignorerò e basta. Devo solo ignorarla, e lei soffrirà.”
Aveva ragione. Quando cominciò a non rispondere alle sue telefonate,
Sadie cadde nella disperazione. Disse ai compagni di scuola di non
camminarle accanto per paura che Shawn la vedesse, e quando Shawn
diceva che non gli piaceva qualcuno dei suoi amici, lei smetteva di
frequentarlo.
Sadie veniva a casa nostra ogni giorno dopo la scuola e allora vedevo
l’episodio dello Snickers ripetersi in continuazione, in forme diverse e con
oggetti diversi. Shawn le chiedeva un bicchiere d’acqua. Quando Sadie
glielo portava, lui voleva un gelato. Quando gli portava quello, chiedeva del
latte, poi di nuovo acqua, gelato, niente gelato, succo di frutta... La cosa
poteva durare anche mezz’ora prima che, in un’ultima prova, lui le
chiedesse qualcosa che non avevamo in casa. Allora Sadie prendeva la
macchina e andava a comprarlo in città – gelato alla vaniglia, patatine fritte,
un burrito – solo per sentirsi chiedere qualcos’altro non appena tornava. Le
sere che uscivano, mi sentivo sollevata.
Una sera Shawn tornò a casa tardi e di umore strano. Dormivano tutti
tranne io, che ero sul divano a leggere un capitolo delle scritture prima di
andare a letto. Shawn si lasciò cadere pesantemente sul divano. “Portami un
bicchiere d’acqua.”
“Ti sei rotto una gamba?” dissi.
“Portamelo, o domani non ti accompagno in città.”
Andai a prendere l’acqua. Quando gliela porsi, vidi il sorriso sul suo volto
e senza pensarci gliela rovesciai tutta in testa. Scappai in corridoio ed ero
quasi arrivata in camera mia quando mi acciuffò.
“Chiedi scusa,” disse. L’acqua gli gocciolava dal naso sulla maglietta.
“No.”
Mi prese per i capelli, una grossa ciocca vicino al cuoio capelluto per
riuscire a far leva meglio, e mi trascinò in bagno. Cercai a tentoni la porta,
afferrando lo stipite, ma Shawn mi alzò da terra, mi schiacciò le braccia
contro il corpo e poi mi cacciò la testa dentro il water. “Chiedi scusa,”
ripeté. Non dissi nulla. Spinse ancora più giù e il mio naso sfregò contro la
porcellana macchiata. Chiusi gli occhi, ma la puzza non mi permetteva di
dimenticare dov’ero.
Cercai di pensare a qualcos’altro, qualcosa che mi portasse altrove con la
testa, ma l’unica immagine che vedevo era quella di Sadie, rannicchiata e
sottomessa. Mi riempì di rabbia. Shawn mi tenne così, col naso che toccava
la tazza, per circa un minuto, poi mi lasciò alzare. Avevo le punte dei
capelli bagnate, il cuoio capelluto scorticato.
Credevo che fosse finita. Avevo cominciato a indietreggiare quando mi
prese un polso e lo piegò, torcendomi le dita e il palmo in una spirale.
Continuò a premere finché il mio corpo cominciò a stortarsi, poi premette
ancora di più, così che senza pensarci, senza rendermene conto, mi chinai in
un inchino teatrale, la schiena piegata, la testa che sfiorava il pavimento, il
braccio dietro la schiena.
Quando Shawn mi aveva fatto vedere questa mossa nel parcheggio mi ero
spostata appena, reagendo più alla sua descrizione che a una necessità
fisica. Allora non mi era sembrata particolarmente efficace, ma ora vedevo
la manovra per quello che era: controllo. Potevo a malapena muovermi o
respirare, se no rischiavo di spezzarmi il polso. Shawn mi teneva in
posizione con una sola mano. L’altra la lasciava ciondolare su un fianco, per
mostrarmi quant’era facile.
Sempre più difficile che se fossi Sadie, pensai.
Come se mi avesse letto nel pensiero, Shawn mi stortò il polso ancora di
più. Il mio corpo era raggomitolato, la mia faccia sfregava sul pavimento.
Avevo fatto tutto il possibile per allentare la pressione sul mio polso. Se
continuava a stortarlo si sarebbe spezzato.
“Chiedi scusa,” disse.
Ci fu una lunga pausa durante la quale il fuoco mi salì lungo il braccio e
dentro il cervello. “Scusa,” dissi.
Shawn mi lasciò il polso e caddi per terra. Sentii i suoi passi in corridoio.
Mi alzai e chiusi silenziosamente a chiave la porta del bagno, poi guardai
nello specchio quella ragazzina che si stringeva il polso. I suoi occhi erano
vitrei e le lacrime le rigavano le guance. La odiai per la sua debolezza, per
la sua sofferenza. Che lui potesse ferirla, che qualcuno potesse ferirla così
era imperdonabile.
Piango solo per il dolore, mi dissi. Per il dolore al polso. Solo per questo.
Quel momento avrebbe definito il mio ricordo di quella sera, e di molte
altre sere simili, per i dieci anni a venire. In quel ricordo mi vedevo
incrollabile, dura come pietra. All’inizio me l’immaginai e basta, finché un
giorno diventò realtà. Allora potevo dirmi, senza mentire, che non aveva
nessun effetto su di me, che lui non aveva nessun effetto su di me, perché
niente l’aveva. Non capivo quanto fosse vero e malsano. Quanto mi fossi
svuotata. Nonostante tutto il mio arrovellarmi sulle conseguenze di quella
sera, non avevo capito la verità essenziale: che il fatto che non avesse
nessun effetto su di me era il suo effetto.
13.
Silenzio nelle chiese

A settembre caddero le Torri Gemelle. Era la prima volta che ne sentivo


parlare. Guardai gli aerei schiantarsi dentro le torri e fissai sconcertata la tv
mentre quelle strutture incredibilmente alte oscillavano e poi crollavano. Il
papà era in piedi accanto a me. Era tornato dalla discarica per guardare.
Non disse nulla. Quella sera lesse la Bibbia ad alta voce, alcuni brani
conosciuti di Isaia, Luca e dell’Apocalisse che parlavano di guerre e
annunci di guerre.
Tre giorni dopo, a diciannove anni, Audrey si sposò con Benjamin, un
bracciante biondo che aveva conosciuto lavorando come cameriera in città.
Fu un matrimonio solenne. Il papà aveva pregato e ricevuto una rivelazione:
“Ci sarà un conflitto, una lotta finale per la Terra Santa,” aveva detto. “I
miei figli dovranno andare in guerra. Alcuni di loro non torneranno a casa.”
Dopo quella sera nel bagno mi ero tenuta alla larga da Shawn. Si era
scusato. Era venuto in camera mia un’ora dopo e, con gli occhi vitrei e la
voce rauca, mi aveva chiesto di perdonarlo. Avevo detto di sì, che l’avevo
già fatto. Ma non era vero.
Al matrimonio di Audrey, quando vidi i miei fratelli nei loro completi,
quelle divise nere, la mia rabbia si trasformò in paura, paura di una specie
di perdita prestabilita, e perdonai Shawn. Fu facile perdonarlo: dopotutto
era la Fine del Mondo.
Per un mese vissi come col fiato sospeso. Poi non ci fu nessun
arruolamento, nessun altro attentato. I cieli non si oscurarono, la luna non si
tinse di sangue. Ci furono alcune avvisaglie lontane di guerra, ma la vita
sulla montagna rimase quella di sempre. Il papà disse che dovevamo stare
all’erta, ma quando arrivò l’inverno la mia attenzione si era spostata di
nuovo sui futili drammi della mia vita.
Avevo quindici anni e sentivo tutto il peso di quell’età. Sentivo la gara
che stavo correndo contro il tempo. Il mio corpo stava cambiando: si
dilatava, s’ingrossava, si allungava, si gonfiava. Avrei voluto che si
fermasse ma era come se non fosse più mio. Ora apparteneva a se stesso e
non gl’importava nulla di come mi facevano sentire quelle strane
trasformazioni, o se volevo smettere di essere una bambina e diventare
qualcos’altro.
Quel “qualcos’altro” mi elettrizzava e mi spaventava. Avevo sempre
saputo che sarei diventata diversa dai miei fratelli, ma non avevo mai
pensato cosa potesse significare. Adesso non pensavo ad altro. Cominciai a
cercare degli indizi per capire questa differenza e, una volta che mi misi a
cercare, li trovai ovunque.
Una domenica pomeriggio aiutai la mamma a preparare un arrosto per
cena. Il papà si stava togliendo le scarpe e allentando la cravatta. Non aveva
smesso di parlare da quando avevamo lasciato la chiesa.
“La gonna di Lori le arrivava dieci centimetri sopra il ginocchio,” disse.
“Perché diamine una donna deve mettersi un vestito così?” La mamma
annuì distrattamente mentre affettava ua carota. Era abituata a quel genere
di prediche.
“E Jeanette Barney,” continuò il papà. “Se una donna porta una camicetta
così scollata non dovrebbe piegarsi in avanti.” La mamma si disse
d’accordo. Pensai alla camicetta turchese che aveva Jeanette quel giorno.
La scollatura le arrivava solo tre centimetri sotto le clavicole, ma era larga,
e m’immaginai che se si piegava si sarebbe visto tutto. Quel pensiero mi
agitò perché anche se una camicetta più stretta avrebbe reso il piegamento
di Jeanette più decoroso, il fatto stesso che fosse attillata non lo sarebbe
stato affatto. Le donne perbene non portano vestiti aderenti. Le altre sì.
Stavo cercando di calcolare quale potesse essere il grado giusto di
aderenza, quando il papà disse: “Jeanette ha aspettato a piegarsi per
prendere quell’innario finché non ha visto che la guardavo. Voleva che
vedessi”. La mamma emise uno tz di disapprovazione, poi tagliò in quattro
una patata.
A differenza di molti altri discorsi simili, questo mi sarebbe rimasto
impresso a lungo. Avrei ripensato spesso a quelle parole negli anni seguenti
e più ci pensavo, più temevo di poter diventare una donna sbagliata. Certe
volte non riuscivo quasi a muovermi per una stanza per paura di
camminare, piegarmi o accovacciarmi come loro. E dato che nessuno mi
aveva mai insegnato come piegarmi in avanti in modo decoroso, sapevo che
probabilmente lo stavo facendo nel modo sbagliato.
Io e Shawn partecipammo a un provino per un melodramma al Worm
Creek. Alle prime prove vidi Charles e passai metà serata a cercare di
trovare il coraggio di parlargli. Quando finalmente ci riuscii, mi confidò di
essere innamorato di Sadie. Non era il massimo, ma se non altro ci diede
qualcosa di cui parlare.
Io e Shawn tornammo a casa in macchina insieme. Era seduto al volante e
guardava la strada con aria truce, come se gli avesse fatto un torto.
“Ti ho visto parlare con Charles,” disse. “Vuoi che la gente pensi che sei
quel genere di ragazza?”
“Il genere di ragazza che parla?”
“Sai a cosa mi riferisco.”
La sera dopo Shawn entrò improvvisamente in camera mia mentre mi
stavo pitturando le ciglia col vecchio mascara di Audrey.
“Adesso ti trucchi?” disse.
“Mi sa di sì.”
Fece per andarsene ma si fermò sulla soglia. “Credevo che fossi
migliore,” disse. “Ma sei come tutte le altre.”
Smise di chiamarmi Morennina. “Andiamo, occhi da pesce!” gridò in
teatro una sera. Charles si guardò attorno incuriosito. Shawn cominciò a
spiegare il significato di quel nome, così mi misi a ridere forte sperando che
nessuno lo sentisse. Risi come se quel nome mi piacesse un sacco.
La prima volta che misi il rossetto, Shawn mi diede della puttana. Ero in
camera mia e me lo stavo provando davanti allo specchio, quando Shawn
comparve sulla soglia. Lo disse scherzando, ma mi sfregai via il colore
dalle labbra comunque. Più tardi quella sera, al teatro, quando mi accorsi
che Charles stava fissando Sadie, me lo misi di nuovo e vidi Shawn
cambiare espressione. Il ritorno a casa, quella sera, fu difficile. La
temperatura di fuori era scesa sottozero. Dissi che avevo freddo e Shawn
fece per alzare il riscaldamento. Poi si fermò, ridacchiò tra sé, e abbassò
tutti i finestrini. Il vento di gennaio mi colpì come una secchiata di ghiaccio.
Cercai di tirare su il mio finestrino, ma aveva messo la sicura per i bambini.
Chiesi a lui di farlo. “Ho freddo,” continuavo a ripetere, “Ho freddissimo.”
Lui rideva e basta. Guidò per tutti i venti chilometri così, ridacchiando
come se fosse un gioco, come se ci stessimo divertendo entrambi, come se
non stessi battendo i denti dal freddo.
Credevo che le cose sarebbero migliorate quando Shawn mollò Sadie –
mi ero come convinta che fosse lei la responsabile di tutto, delle cose che
faceva mio fratello, e che senza di lei Shawn sarebbe cambiato. Dopo Sadie
cominciò a frequentare una sua vecchia amica, Erin, che era più grande e
meno disposta a stare ai suoi giochetti. Sulle prime sembrò che ci avessi
visto giusto e che Shawn si stesse comportando meglio.
Poi Charles invitò fuori a cena Sadie, Sadie accettò e Shawn lo venne a
sapere. Quella sera mi ero fermata a lavorare da Randy più a lungo quando
arrivò, schiumante di rabbia. Andai con lui, pensando che sarei riuscita a
calmarlo, ma non ci riuscii. Guidò per la città per due ore cercando la jeep
di Charles, imprecando e giurando che quando trovava quel bastardo gli
avrebbe “rifatto la faccia”. Seduta sul sedile del passeggero del suo furgone,
ascoltai il motore andare su di giri mentre tracannava gasolio e guardai le
linee bianche scomparire sotto il cofano. Pensai a com’era Shawn un tempo,
a come me lo ricordavo, a come volevo ricordarlo. Pensai ad Albuquerque e
a Los Angeles, ai chilometri di autostrada tra le due città.
Sul sedile in mezzo a noi c’era un pistola e, quando non stava cambiando
marcia, Shawn la prendeva e l’accarezzava, a volte facendosela girare
attorno all’indice come un cowboy prima di rimetterla sul sedile, dove la
luce delle auto di passaggio scintillava sulla sua canna d’acciaio.
Mi svegliai con degli aghi nel cervello. Migliaia di aghi che pungevano e
oscuravano ogni cosa. Poi scomparvero per un istante vorticoso e tornai in
me.
Era mattina presto e dalla finestra della mia camera entrava una luce
ambrata. Ero in piedi ma era qualcos’altro a sorreggermi. Due mani mi
stringevano la gola e mi scuotevano con forza. Gli aghi erano il mio
cervello che sbatteva contro il cranio. Ebbi solo pochi secondi per
chiedermi perché, poi gli aghi tornarono, sbrindellandomi i pensieri. I miei
occhi erano aperti ma vedevo solo dei lampi bianchi. Percepivo solo alcuni
suoni.
“TROIA!”
“PUTTANA!”
Poi un altro suono. La mamma. Stava gridando. “Smettila! La stai
ammazzando! Smettila!”
Doveva averlo afferrato perché sentii il suo corpo divincolarsi. Caddi per
terra. Quando aprii gli occhi, la mamma e Shawn erano l’una di fronte
all’altro. La mamma indossava un accappatoio sdrucito.
Fui tirata in piedi. Shawn mi prese per i capelli come l’altra volta,
stringendo una ciocca vicino alla testa per manovrarmi, e mi trascinò in
corridoio. La mia testa era premuta sul suo petto. Vedevo solo pezzi di
moquette che mi scorrevano sotto i piedi. Mi martellava la testa, non
riuscivo a respirare, ma cominciavo a capire cosa stava succedendo. Allora
mi vennero le lacrime agli occhi.
Per il dolore, pensai.
“Ora la troia piange,” disse Shawn. “Perché? Perché qualcuno ti vede per
la puttana che sei?”
Cercai di guardarlo, di ritrovare mio fratello in quel volto, ma mi spinse
giù la testa e caddi sul pavimento. Mi allontanai carponi, poi mi tirai su. La
cucina girava: strane chiazze di rosa e giallo mi fluttuavano davanti agli
occhi.
La mamma singhiozzava, si tirava i capelli.
“Io ti vedo per quel che sei,” disse Shawn. I suoi occhi erano feroci. “Fai
finta di essere tutta casa e chiesa. Ma io ti vedo. Vedo come ti pavoneggi
con Charles come una puttana.” Si girò verso la mamma per osservare
l’effetto delle sue parole. Si era accasciata sul tavolo della cucina.
“Non è vero,” sussurrò la mamma.
Shawn era ancora girato verso di lei. Le disse che non aveva idea delle
balle che raccontavo, di come l’avevo presa in giro, di come a casa recitavo
la parte della brava ragazza mentre in città ero una puttana bugiarda.
Cominciai a muovermi lentamente verso la porta sul retro.
La mamma mi disse di prendere la sua macchina e andare via. Shawn si
voltò verso di me. “Ti servono queste,” disse, alzando le chiavi della
mamma.
“Non va da nessuna parte se prima non ammette che è una puttana,” disse
Shawn.
Mi afferrò un polso e il mio corpo scivolò nella solita posizione, testa
allungata in avanti, braccio stortato dietro le reni, polso piegato in maniera
assurda su se stesso. Come un passo di danza, i miei muscoli ricordavano la
musica e si affrettarono a precederla. I polmoni mi si svuotarono mentre
cercavo di piegarmi ancora di più, di offrire al mio polso ogni possibile
centimetro di sollievo.
“Dillo,” disse.
Ma ero altrove. Ero nel futuro. Dopo poche ore Shawn si sarebbe
inginocchiato accanto al mio letto e avrebbe detto che gli dispiaceva
tantissimo. Lo sapevo anche mentre ero là incurvata.
“Che succede?” Una voce maschile salì dalla tromba delle scale
all’ingresso.
Girai la testa e vidi un volto indugiare tra due sbarre di legno. Era Tyler.
Doveva essere un’allucinazione. Tyler non tornava mai a casa. A quel
pensiero scoppiai a ridere forte, una risata acuta e stridula. Bisognava essere
pazzi per tornare qui dopo essere riusciti a scappare. Ormai vedevo così
tante chiazze rosa e gialle che mi sembrava di essere dentro a una sfera di
neve. Bene. Significava che stavo per svenire. Aspettavo quel momento.
Shawn mi lasciò il polso e caddi di nuovo per terra. Alzai gli occhi e vidi
che stava fissando la tromba delle scale. Solo allora capii che Tyler c’era
davvero.
Shawn fece un passo indietro. Aveva aspettato che il papà e Luke fossero
usciti di casa per scatenarsi liberamente. Non aveva messo in conto di dover
affrontare quel fratello minore, meno violento ma a suo modo forte.
“Che succede?” ripeté Tyler. Guardò Shawn, avanzando piano come se si
stesse avvicinando a un serpente a sonagli.
La mamma smise di piangere. Era a disagio. Tyler ormai era un estraneo.
Se n’era andato da così tanto tempo che era stato spostato in quella
categoria di persone a cui tenevamo nascoste certe cose. A cui tenevamo
nascosta questa cosa.
Tyler salì le scale e andò verso suo fratello. Il suo volto era teso, il respiro
leggero, ma la sua espressione non sembrava sorpresa. Era come se Tyler
sapesse benissimo cosa stava facendo, che l’avesse già fatto altre volte,
quand’erano più piccoli e meno alla pari. Si fermò senza battere ciglio.
Guardò Shawn con aria truce come per dire Qualunque cosa stia
succedendo qui, è finita.
Shawn cominciò a mormorare delle cose sui miei vestiti e su quello che
facevo in città. Tyler lo interruppe con un gesto della mano. “Non voglio
sapere,” disse. Poi, rivolgendosi a me: “Vai. Vattene”.
“Non va da nessuna parte,” ripeté Shawn, alzando il mazzo di chiavi.
Tyler mi lanciò le sue chiavi. “Vai,” disse.
Corsi alla macchina di Tyler, che era parcheggiata tra il furgone di Shawn
e il pollaio. Cercai di uscire in retromarcia, ma premetti troppo
l’acceleratore e gli pneumatici slittarono, alzando ghiaia da tutte le parti. Al
secondo tentativo ci riuscii. La macchina indietreggiò velocemente e girò in
cerchio. Inserii la prima ed ero pronta a filare giù per la collina quando
Tyler comparve sul porticato. Abbassai il finestrino. “Non andare al
lavoro,” disse. “Ti verrebbe a prendere là.”
Quella sera, quando tornai a casa, Shawn non c’era. La mamma era in
cucina a mescolare i suoi oli. Non disse nulla di quella mattina e sapevo che
era meglio non toccare l’argomento. Andai a letto, ma alcune ore dopo ero
ancora sveglia quando sentii un pickup salire rumorosamente per la collina.
Alcuni minuti dopo la porta della mia camera si aprì cigolando. Sentii il
click della lampada, vidi la luce guizzare sulle pareti e sentii il peso di mio
fratello sul letto. Mi girai e lo guardai. Mi aveva messo accanto una
scatolina di velluto nero. Dato che non la toccavo, l’aprì e tirò fuori un filo
di perle opalescenti.
Disse che vedeva che avevo preso una brutta strada. Mi stavo perdendo,
stavo diventando come le altre ragazze, superficiale, manipolatrice. Usavo
il mio aspetto fisico per ottenere le cose.
Pensai al mio corpo, a com’era cambiato. Non sapevo cosa pensare: a
volte volevo che gli altri lo notassero e l’ammirassero, ma poi pensavo a
Jeanette Barney e mi sentivo disgustata.
“Tu sei speciale, Tara,” disse Shawn.
Davvero? Volevo crederlo. Una volta, anni prima, Tyler mi aveva detto
che ero speciale. Mi aveva letto un brano dal Libro di Mormon a proposito
di un bambino serio e molto devoto. “Mi ricorda te,” aveva detto Tyler.
Il brano parlava del grande profeta Mormon e questo mi aveva lasciato
perplessa. Una donna non poteva essere un profeta, eppure Tyler mi stava
dicendo che gli ricordavo uno dei più grandi profeti mai esistiti. Ancora non
so bene cosa intendesse, ma quello che capii allora era che potevo fare
affidamento su me stessa, che c’era qualcosa dentro di me, qualcosa che
avevano anche i profeti e che non era né maschio né femminia, né vecchio
né giovane. Una specie di valore intrinseco e incrollabile.
Ma adesso, mentre fissavo l’ombra di Shawn sulla parete e pensavo al
mio corpo che diventava adulto, ai suoi peccati e al mio desiderio di
peccare con esso, il significato di quel ricordo cambiò. All’improvviso quel
valore mi sembrò condizionato, come se potesse essere tolto o buttato al
vento. Non era qualcosa di intrinseco, ma di concesso. Ad avere valore non
ero io, ma la patina di obblighi e cerimonie che mi frenava.
Guardai mio fratello. In quel momento mi sembrò vecchio e saggio.
Conosceva il mondo. Conosceva le donne di mondo, così gli chiesi di
aiutarmi a non diventare come loro.
“Okay, occhi da pesce,” disse. “Lo farò.”
Quando mi svegliai, la mattina dopo, avevo il collo graffiato e il polso
gonfio. Mi faceva male la testa, un dolore non nel cervello ma del cervello,
come se mi dolesse l’organo in sé. Andai al lavoro ma tornai a casa presto e
mi sdraiai in un angolo buio della taverna in attesa che passasse. Ero distesa
sulla moquette a sentirmi martellare il cervello, quando Tyler mi trovò e si
rannicchiò sul divano accanto alla mia testa. Non ero contenta di vederlo.
Che Tyler avesse assistito alla scena era anche peggio che essere trascinata
per casa per i capelli. Se avessi potuto scegliere tra lasciare che succedesse
e ricevere l’aiuto di Tyler, avrei scelto la prima opzione. Senza dubbio.
Stavo quasi per svenire, in ogni caso, e poi avrei potuto dimenticarmene.
Nel giro di un giorno o due sarebbe stato come se non fosse successo
niente. Sarebbe diventato un brutto sogno e, dopo un mese, nient’altro che
l’eco di un brutto sogno. Ma Tyler l’aveva visto. L’aveva reso reale.
“Hai mai pensato di andartene?” mi chiese.
“E dove?”
“A scuola.”
M’illuminai. “A settembre m’iscriverò alle superiori,” dissi. “Al papà non
piacerà, ma lo farò.” Credevo che Tyler sarebbe stato contento, ma fece una
smorfia.
“L’hai già detto altre volte.”
“Lo farò.”
“Può darsi,” disse Tyler. “Ma finché vivi sotto il suo tetto sarà difficile
andarci se lui non vuole, sarà facile rimandare all’anno dopo, finché sarà
troppo tardi. E poi se cominci al secondo anno potrai diplomarti?”
Sapevamo entrambi che non potevo.
“È ora che te ne vai, Tara,” disse Tyler. “Più aspetti più sarà difficile.”
“Dici che devo andarmene?”
Tyler non batté ciglio, non esitò. “Credo che non esista posto peggiore di
questo per te.” Aveva parlato a bassa voce, ma era come se avesse urlato
quelle parole.
“Dove potrei andare?”
“Vai dove sono andato io,” disse Tyler. “Vai al college.”
Sbuffai.
“Alla Brigham accettano privatisti,” disse.
“È questo che siamo? Privatisti?” Cercai di ricordare quand’era stata
l’ultima volta che avevo aperto un manuale scolastico.
“Il comitato di ammissione saprà solo quello che gli diciamo,” disse
Tyler. “Se diciamo che hai studiato a casa, ci crederanno.”
“Non riuscirò a entrare.”
“E invece sì. Devi solo passare l’esame di ammissione. Che è una
cazzata.”
Tyler si alzò e fece per andarsene. “C’è un mondo là fuori, Tara,” disse.
“E ti sembrerà molto diverso una volta che il papà avrà smesso di
sussurrarti all’orecchio cosa ne pensa.”
Il giorno dopo andai dal ferramenta in città e comprai un chiavistello per
la porta di camera mia. Lo appoggiai sul letto, poi andai a prendere un
trapano all’officina e cominciai a fissare le viti. Credevo che Shawn fosse
uscito, dato che il suo furgone non era nel vialetto, ma quando mi girai col
trapano lo trovai là sulla soglia.
“Che stai facendo?” disse.
“Si è rotta la maniglia,” mentii. “Continua ad aprirsi la porta. Questo
chiavistello vale poco ma funzionerà.”
Shawn toccò l’acciaio robusto. Era evidente che non valeva poco. Rimasi
in silenzio, paralizzata dalla paura ma anche dalla pietà. In quel momento lo
odiavo e avrei voluto gridarglielo in faccia. M’immaginai come sarebbe
crollato, schiacciato sotto il peso delle mie parole e della vergogna. Era una
verità che capivo anche allora: Shawn si odiava molto di più di quanto
potessi odiarlo io.
“Stai usando le viti sbagliate,” disse. “Ti servono quelle lunghe per il
muro e delle viti mordenti per la porta. Altrimenti si staccherà subito.”
Andammo insieme all’officina. Shawn si spostò qua e là per alcuni
minuti, poi tornò con una manciata di viti d’acciaio. Tornammo a casa e
fissò il chiavistello, canticchiando tra sé con un sorriso che lasciava
intravvedere i suoi denti da latte.
14.
Senza terra sotto i piedi

In ottobre il papà vinse un appalto per costruire certi granai industriali a


Malad City, la polverosa cittadina rurale dall’altra parte di Buck Peak. Era
un lavoro grosso per quella piccola squadra, composta solo dal papà,
Shawn, Luke e dal marito di Audrey, Benjamin. Ma Shawn era un buon
caposquadra e insieme a lui il papà si era guadagnato una reputazione di
lavoratore veloce e affidabile.
Shawn non voleva che il papà prendesse le cose alla leggera. La metà
delle volte che passavo dall’officina li sentivo discutere. Il papà diceva che
Shawn stava perdendo tempo, Shawn gridava che il papà aveva quasi
mozzato la testa a qualcuno.
Shawn lavorava fino a tardi ogni giorno per pulire, tagliare e saldare i
materiali per i granai, e una volta aperto il cantiere cominciò a passare quasi
tutto il tempo a Malad City. Quando lui e il papà tornavano a casa, diverse
ore dopo il tramonto, imprecavano quasi sempre. Shawn voleva fare le cose
in modo professionale e reinvestire i profitti in attrezzature nuove, mentre il
papà voleva lasciare tutto com’era. Shawn diceva che il papà non capiva
che l’edilizia era un mondo più competitivo di quello dei rottami e che se
volevano vincere dei buoni appalti dovevano investire cifre importanti in
attrezzature serie – nello specifico, una nuova saldatrice e una piattaforma
aerea con cestello.
“Non possiamo continuare con un muletto e un bancale vecchio come il
cucco,” diceva. “Fa schifo, e oltretutto è pericoloso.”
Il papà rideva di gusto all’idea di una piattaforma aerea. Usava muletto e
bancali da vent’anni.
Lavoravo fino a tarda sera quasi ogni giorno. Randy aveva in programma
di fare un lungo viaggio in macchina per trovare nuovi clienti e mi aveva
chiesto di gestire l’attività in sua assenza. M’insegnò a usare il suo
computer per tenere i conti, gestire gli ordini e fare l’inventario. Fu da
Randy che sentii parlare per la prima volta di Internet. Mi fece vedere come
connettermi, come visitare una pagina web e scrivere un’email. Il giorno
che partì mi diede un cellulare perché fossi raggiungibile in ogni momento.
Una sera mi chiamò Tyler mentre stavo tornando a casa. Mi chiese se
stavo studiando per l’esame di ammissione. “Non posso farlo,” dissi. “Non
so niente di matematica.”
“Hai i soldi,” disse Tyler. “Comprati dei libri e studia.”
Non risposi. Il college era l’ultimo dei miei pensieri. Sapevo già come
sarebbe stata la mia vita: a dicotto o diciannove anni mi sarei sposata. Il
papà mi avrebbe dato un angolo della fattoria e mio marito ci avrebbe
costruito una casa. La mamma mi avrebbe insegnato le proprietà delle erbe
e anche a far nascere i bambini, cosa che aveva ricominciato a fare ora che
le emicranie erano meno frequenti. Quando sarebbe arrivato il momento, la
mamma mi avrebbe aiutato a partorire i miei figli, finché un giorno, o così
pensavo, sarei diventata io la levatrice. Non vedevo cosa c’entrasse il
college con tutto questo.
Tyler sembrò leggermi nel pensiero. “Hai presente suor Sears?” disse.
Suor Sears era la direttrice del coro della chiesa. “Secondo te come ha
imparato a dirigere un coro?”
Avevo sempre ammirato suor Sears, invidiandole la sua conoscenza della
musica. Non mi ero mai chiesta come l’avesse imparata.
“Ha studiato,” disse Tyler. “Lo sapevi che puoi prendere un diploma in
musica? Se ce l’avessi potresti dare lezioni, potresti dirigere il coro della
chiesa. Anche il papà non avrebbe da ridire. Non più di tanto, almeno.”
Di recente la mamma aveva acquistato una versione prova di AOL. Finora
avevo usato Internet solo da Randy, per lavoro, ma quando Tyler mise giù il
telefono accesi il computer e aspettai che il modem si connettesse. Tyler mi
aveva parlato della pagina web della Brigham Young University. Ci misi
pochi minuti a trovarla. Poi lo schermo si riempì di immagini: ordinati
palazzi di mattoni color pietra del sole circondati da alberi smeraldo, belle
persone che passeggiavano e ridevano, con libri sottobraccio e zaini sulle
spalle. Sembrava la scena di un film. Di un bel film.
Il giorno dopo guidai per sessantacinque chilometri per andare alla
libreria più vicina, dove comprai una guida patinata per prepararmi al test
d’ingresso. Mi sedetti sul letto e cercai la simulazione del test di
matematica. Diedi una scorsa alla prima pagina. Non solo non sapevo
risolvere le equazioni, ma non conoscevo nemmeno i simboli. Idem sulla
seconda pagina, e sulla terza.
Portai l’eserciziario alla mamma. “Cos’è questo?” chiesi.
“Matematica,” disse lei.
“E dove sono i numeri?”
“È algebra. Le lettere stanno al posto dei numeri.”
“Come si fa?”
La mamma armeggiò con carta e penna per diversi minuti ma non riuscì a
risolvere nessuna delle prime cinque equazioni.
Il giorno dopo guidai di nuovo per sessantacinque chilometri, centrotrenta
tra andata e ritorno, e tornai a casa con un grosso manuale di algebra.
Ogni sera, prima di partire con gli altri da Malad City, il papà telefonava a
casa perché la mamma facesse trovare pronta la cena quando il furgone
saliva sobbalzando per la collina. Aspettavo quella telefonata e quando
arrivava prendevo la macchina della mamma e me ne andavo. Non so
perché. Andavo al Worm Creek, dove mi sedevo sulla balconata a guardare
le prove, con un piede sul parapetto e un libro di matematica aperto davanti.
Non studiavo matematica dai tempi delle divisioni in colonna e quelle
nozioni mi erano nuove. Capivo la teoria delle frazioni ma facevo fatica a
utilizzarle, e vedere un decimale sulla pagina mi metteva in agitazione. Per
un mese passai tutte le sere al teatro, seduta su una poltroncina di velluto
rosso, a esercitarmi con le operazioni più basilari – come moltiplicare le
frazioni, come usare un numero reciproco, come aggiungere, moltiplicare e
dividere i decimali – mentre sul palco gli attori recitavano le loro battute.
Cominciai a studiare trigonometria. Quelle strane formule ed equazioni
avevano qualcosa di confortante. Ero affascinata dal teorema di Pitagora e
dalla sua promessa di universalità – la capacità di predire la natura di tre
punti qualsiasi contenenti un angolo retto, sempre e ovunque. Quel poco
che sapevo di fisica l’avevo imparato in discarica, dove il mondo materiale
sembrava spesso incostante, volubile. Ecco che ora invece c’era una
dottrina che permetteva di definire e fissare la misura della vita. Forse la
realtà non era così mutevole. Forse la si poteva spiegare, prevedere. Forse le
si poteva dare un senso.
I guai cominciarono quando passai dal teorema di Pitagora a seni, coseni
e tangenti. Non capivo quelle astrazioni. Ne intuivo la logica, la loro
capacità di dare ordine e simmetria, ma non riuscivo ad accedervi. I loro
segreti erano inaccessibili, come una specie di cancello oltre il quale
m’immaginavo un mondo di leggi e razionalità. Ma non potevo oltrepassare
quel cancello.
La mamma disse che se volevo imparare la trigonometria aveva il dovere
di insegnarmela. Fissò una sera e ci sedemmo insieme al tavolo della cucina
a scribacchiare su pezzi di carta e a scervellarci. Passammo tre ore su un
problema, e ogni soluzione che proponemmo era sbagliata.
“Non andavo bene in trigonometria a scuola,” si lamentò la mamma,
chiudendo il libro con forza. “E mi sono dimenticata quel poco che
sapevo.”
Il papà era in sala a sfogliare planimetrie dei granai e a borbottare tra sé.
L’avevo guardato abbozzare quelle planimetrie ed eseguire i calcoli,
modificando quest’angolo o allungando quella trave. Aveva pochissime
conoscenze scolastiche di matematica ma era innegabilmente portato: per
qualche motivo sapevo che se avessi sottoposto l’equazione a mio padre,
l’avrebbe saputa risolvere.
Quando gli avevo detto che volevo andare al college, mi aveva risposto
che la donna era fatta per stare a casa e che dovevo studiare le erbe – “la
famacia di Dio” l’aveva chiamata con un sorriso – per prendere un giorno il
posto della mamma. Aveva detto molte altre cose, ovviamente, su come mi
stavo prostituendo al sapere umano anziché a quello divino, ma decisi
comunque di chiedergli aiuto con la trigonometria. Sapevo che
padroneggiava quella piccola scheggia di sapere umano.
Scribacchiai il problema su un foglio bianco. Il papà non alzò la testa
quando mi avvicinai, così feci scivolare il foglio delicatamente e lentamente
sopra le planimetrie. “Papà, sai risolvere questo?”
Mi guardò severamente, poi i suoi occhi si addolcirono. Ruotò il foglio,
lo fissò un momento, poi cominciò a tracciare numeri, cerchi e grandi linee
arcuate che si incrociavano tra loro. La sua soluzione era diversa da ogni
altra cosa che avessi visto sul manuale. Era diversa da ogni cosa avessi mai
visto in generale. I suoi baffi ebbero un fremito, e mormorò qualcosa. Poi
smise di scrivere, alzò lo sguardo e diede la risposta giusta.
Gli chiesi come avesse fatto a risolverlo. “Non so come risolverlo,”
rispose, passandomi il foglio. “So solo che la soluzione è questa.”
Tornai in cucina e confrontai l’equazione pulita e armoniosa con quel
caos di calcoli incompleti e schizzi vorticosi. Ero colpita dalla stranezza di
quella pagina: il papà sapeva dominare questa scienza, sapeva decifrare il
suo linguaggio, decriptare la sua logica. Sapeva piegare, storcere e spremere
fuori la verità. Ma, passando attraverso di lui, questa scienza si trasformava
in caos.
Studiai trigonometria per un mese. Certe volte sognavo seni, coseni e
tangenti, angoli misteriosi e calcoli terrificanti, ma nonostante ciò non feci
dei veri progressi. Non potevo imparare da sola la trigonometria. Ma
conoscevo qualcuno che l’aveva fatto.
Tyler mi diede appuntamento a casa di zia Debbie, perché abitava poco
lontano dalla Brigham Young University. Erano tre ore di macchina. Mi
sentii a disagio quando bussai alla sua porta. La zia era la sorella della
mamma e Tyler aveva vissuto da lei durante il suo primo anno di college.
Ma a parte questo non sapevo nulla di lei.
Venne ad aprire Tyler. Ci sedemmo in salotto mentre Debbie preparava
uno sformato. Tyler risolse le equazioni con facilità, scrivendo spiegazioni
ordinate di ogni passaggio. Stava studiando ingegneria meccanica e aveva
intenzione di laurearsi col massimo dei voti per poi fare un dottorato alla
Purdue. Le mie equazioni di trigonometria erano un gioco da ragazzi per
lui, ma se si annoiò non lo diede a vedere. Mi spiegò le regole
pazientemente, più e più volte. Il cancello si aprì di una fessura e potei
sbirciare dall’altra parte.
Tyler era andato via e Debbie mi stava cacciando in mano un piatto di
sformato, quando squillò il telefono. Era la mamma.
“C’è stato un incidente a Malad,” disse.
Non aveva molte informazioni. Shawn era caduto. Di testa. Qualcuno
aveva chiamato il 911 e l’avevano portato in elicottero a un ospedale di
Pocatello. I dottori non sapevano se ce l’avrebbe fatta. Questo era tutto quel
che sapeva.
Volevo di più, volevo delle probabilità, anche solo per poter dire che si
sbagliavano. Volevo che la mamma dicesse: “Credono che se la caverà” o
anche “Temono che lo perderemo”. Qualsiasi cosa a parte quello che stava
dicendo, ovvero: “Non lo sanno”.
La mamma disse che dovevo venire in ospedale. M’immaginai Shawn su
una barella bianca, in fin di vita. Provai un tale senso di perdita che quasi
mi cedettero le ginocchia, ma un momento dopo provai qualcos’altro.
Sollievo.
Era in arrivo una tormenta che avrebbe depositato un metro di neve sul
Sardine Canyon, all’imbocco della nostra valle. La macchina della mamma,
che avevo usato per andare da Debbie, aveva le gomme lisce. Dissi alla
mamma che non potevo farcela.
La storia della caduta di Shawn mi arrivò a sprazzi, piccoli frammenti
raccontati da Luke e Benjamin, che l’avevano vissuta. Era un pomeriggio
gelido e soffiava un vento forte, che alzava la polvere sottile in soffici
nuvole. Shawn si trovava su un bancale di legno, a un’altezza di sei metri
da terra. Circa tre metri e mezzo sotto di lui c’era un muro di cemento non
ancora ultimato, da cui spuntava fuori un’armatura simile a spiedi smussati.
Non so bene cosa stesse facendo Shawn sul bancale, ma probabilmente
stava inserendo dei pali o saldando qualcosa, perché era quello che faceva
di solito. Il papà guidava il muletto.
Ho sentito delle versioni contrastanti del motivo della caduta.4 Qualcuno
disse che all’improvviso il papà mosse il braccio del muletto e Shawn cadde
giù. Ma secondo la versione ufficiale, Shawn era in piedi vicino al bordo e a
un certo punto indietreggiò senza motivo, perdendo l’equilibrio. Fece un
volo di tre metri e mezzo e il suo corpo roteò lentamente nell’aria, andando
a sbattere di testa contro il muro di cemento dall’armatura affiorante e poi
capitombolando a terra per i restanti due metri e mezzo.
Fu così che mi descrissero la caduta, ma la mia mente se l’immagina
diversamente – su un foglio bianco dalle righe equidistanti. Mio fratello
sale, cade da un piano inclinato, colpisce l’armatura e ritorna a terra. È un
triangolo quello che vedo. L’accaduto ha senso se ci penso in questi termini.
Allora la logica della pagina si piega a quel che dice mio padre.
Il papà esaminò Shawn. Shawn era disorientato. Una delle sue pupille era
dilatata e l’altra no, ma nessuno sapeva cosa significava. Nessuno sapeva
che era indice di un’emorragia cerebrale.
Il papà disse a Shawn di prendersi una pausa. Luke e Benjamin lo
aiutarono ad appoggiarsi contro il pickup, poi tornarono a lavorare.
Da questo punto in avanti i fatti si fanno ancora più confusi.
A quanto pare, quindici minuti dopo Shawn tornò lentamente verso il
cantiere. Il papà pensò che fosse pronto a lavorare e gli disse di salire sul
bancale ma allora Shawn, a cui non era mai piaciuto ricevere ordini,
cominciò a dar fuori di matto per tutto – l’attrezzatura, i progetti dei granai,
la sua paga. Gridò tanto da diventare rauco e poi, proprio quando sembrava
che si fosse calmato, prese il papà per la vita e lo buttò a terra come un
sacco di grano. Prima che il papà potesse rialzarsi, Shawn scappò via a
gambe levate, gridando e ridendo, e Luke e Benjamin, ormai sicuri che
c’era qualcosa che non andava, gli corsero dietro. Luke fu il primo a
raggiungerlo, ma non riuscì a fermarlo; allora Benjamin gli saltò addosso e
Shawn rallentò un po’. Ma solo quando gli furono sopra in tre –
atterrandolo e facendogli battere con forza la testa per terra – finalmente
rimase disteso immobile.
Nessuno mi ha mai raccontato cosa successe quando Shawn batté la testa
la seconda volta. Non so se ebbe un attacco, se vomitò o se perse
conoscenza. Ma era agghiacciante che qualcuno – forse il papà, più
probabilmente Benjamin – avesse chiamato il 911, cosa che nessun membro
della mia famiglia aveva mai fatto prima.
Gli dissero che sarebbe arrivato un elicottero nel giro di pochi minuti. In
seguito i dottori avrebbero avanzato l’ipotesi che quando il papà, Luke e
Benjamin avevano atterrato Shawn, causandogli una commozione
cerebrale, Shawn fosse già in condizioni critiche. Dissero che era un
miracolo che non fosse morto nel momento in cui la sua testa aveva toccato
terra.
Cerco d’immaginarmi la scena mentre aspettavano l’elicottero. Il papà
disse che quando arrivarono i paramedici, Shawn stava singhiozzando e
chiamando la mamma. Quando arrivò all’ospedale, il suo stato d’animo era
cambiato. Era in piedi nudo sulla barella, con gli occhi fuori dalle orbite e
iniettati di sangue, e gridava che avrebbe cavato gli occhi al prossimo
bastardo che gli si avvicinava. Poi scoppiò in singhiozzi e infine perse
conoscenza.
Shawn superò la notte.
Di mattina andai a Buck Peak. Non saprei spiegare perché non corsi al
capezzale di mio fratello. Dissi alla mamma che dovevo lavorare.
“Chiede di te,” disse la mamma.
“Hai detto che non riconosce nessuno.”
“È vero. Ma l’infermiera mi ha appena chiesto se conosce una certa Tara.
Stamattina continuava a ripetere il tuo nome, sia da sveglio che mentre
dormiva. Ho detto che Tara è sua sorella e ora vogliono che tu venga qui.
Potrebbe riconoscerti e sarebbe un passo avanti. È l’unico nome che ha
detto da quando è entrato in ospedale.”
Rimasi zitta.
“Ti pago io la benzina,” disse la mamma. Credeva non volessi andarci per
i trenta dollari che avrei speso di carburante. M’imbarazzò che pensasse una
cosa simile, ma in fondo, se non era per i soldi, non avevo nessun motivo.
“Parto adesso,” dissi.
Mi ricordo stranamente poco dell’ospedale, o di mio fratello. Rivedo
vagamente una testa fasciata e, quando chiedevo perché, la mamma che
diceva che i dottori avevano fatto un’operazione chirurgica e gli avevano
aperto il cranio per ridurre la pressione, fermare l’emorragia o sistemare
qualcosa – in realtà non ricordo cosa disse. Shawn continuava a rigirarsi nel
letto come un bambino febbricitante. Rimasi seduta un’ora con lui. Ogni
tanto apriva gli occhi ma, se era cosciente, non mi riconosceva.
Quando tornai, il giorno dopo, era sveglio. Entrai nella stanza e lui batté
le palpebre e guardò la mamma come per accertarsi che mi vedesse anche
lei.
“Sei venuta,” disse. “Non pensavo l’avresti fatto.” Mi prese la mano e poi
si addormentò.
Gli fissai il volto, le bende che gli fasciavano la fronte e le orecchie, e
ogni rancore svanì. Allora capii perché non ero venuta prima. Avevo avuto
paura di quello che avrei provato. Paura che, se fosse morto, ne avrei gioito.
Sono sicura che i dottori volevano tenerlo in ospedale, ma non avevamo
un’assicurazione e il conto era già così alto che Shawn ci avrebbe messo più
di dieci anni a pagarlo. Non appena fu abbastanza stabile da poterlo
spostare, lo portammo a casa.
Visse per due mesi sul divano della sala. Era molto debole: riusciva a
malapena a fare avanti e indietro dal bagno. Aveva perso completamente
l’udito da un orecchio e ci sentiva male dall’altro, così spesso quando gli
altri parlavano girava la testa, rivolgendo loro l’orecchio sano anziché gli
occhi. A parte questo strano movimento e la fasciatura per l’operazione
chirurgica sembrava normale, senza gonfiore né lividi. Secondo i dottori era
perché la lesione era molto grave: una mancanza di ferite esterne
significava che il danno era tutto interno.
Ci misi un po’ a rendermi conto che, anche se Shawn sembrava lo stesso,
in realtà non lo era. Sembrava lucido ma, se lo ascoltavi con attenzione,
quello che diceva non aveva senso. Continuava a saltare di palo in frasca.
Mi sentivo in colpa per non essere andata subito in ospedale, così per
rimediare decisi di lasciare il lavoro e di occuparmi di lui giorno e notte.
Quando voleva dell’acqua gliel’andavo a prendere. Se aveva fame,
cucinavo.
Sadie cominciò a venirlo a trovare, e Shawn ne fu contento. Aspettavo
con impazienza le sue visite perché mi davano del tempo per studiare. La
mamma pensava che fosse importante che stessi con Shawn, così non
m’interrompeva nessuno. Per la prima volta nella mia vita avevo dei lunghi
intervalli di tempo da dedicare allo studio, senza dover smistare rottami,
filtrare tinture o fare l’inventario per Randy. Esaminai gli appunti di Tyler,
lessi e rilessi le sue spiegazioni accurate. Dopo alcune settimane, per magia
o per miracolo, cominciai ad afferrare i concetti. Rifeci la simulazione
d’esame. L’algebra avanzata era ancora indecifrabile, apparteneva a un
mondo che andava al di là della mia comprensione. Ma la trigonometria era
diventata accessibile: i suoi messaggi intelligibili parlavano di un mondo di
ordine e logica che esisteva solo nell’inchiostro nero e sulla pagina bianca.
Il mondo reale, nel frattempo, sprofondava nel caos. I dottori dissero alla
mamma che l’infortunio poteva avere alterato la personalità di Shawn, che
in ospedale aveva mostrato segni di instabilità, perfino di violenza, e che
questi cambiamenti potevano essere permanenti.
A volte in effetti aveva dei forti accessi di rabbia, dei momenti di collera
cieca in cui desiderava solo fare del male a qualcuno. Sapeva essere molto
cattivo e dire proprio le cose che ti ferivano di più, tanto che molto spesso
la mamma passava la notte in lacrime. Questi accessi di rabbia cambiarono,
e in peggio, col migliorare delle sue condizioni fisiche, e ogni mattina
pulivo il gabinetto sapendo che entro l’ora di pranzo rischiavo di ritrovarmi
con la testa là dentro. La mamma diceva che ero l’unica in grado di
calmarlo, e finii col crederle. Chi meglio di me? Pensavo. Non ha nessun
effetto su di me.
Se ci ripenso adesso, non sono sicura che l’infortunio l’avesse cambiato
più di tanto, ma mi convinsi che fosse così e che ogni crudeltà da parte sua
fosse totalmente nuova. Se rileggo i miei diari di quel periodo, vedo
l’evoluzione di una bambina intenta a riscrivere la propria storia. Nella sua
realtà fittizia andava tutto bene prima che suo fratello cadesse da quel
bancale. Vorrei poter ritrovare il mio migliore amico, scriveva. Prima
dell’incidente non mi aveva mai fatto del male.
4
La mia versione si basa su quello che mi raccontarono all’epoca. Tyler sentì la stessa storia; di
fatto, molti dei dettagli di questa descrizione provengono dai suoi ricordi. Quindici anni dopo, gli
altri ricordano l’accaduto in maniera diversa. La mamma dice che Shawn non era in piedi su un
bancale, ma solo sui rebbi del muletto. Luke ricorda il bancale, ma al posto dell’armatura ricorda un
tombino di ferro, con la grata rimossa. Dice che la caduta fu di tre metri e mezzo e che Shawn
cominciò a comportarsi in maniera strana non appena riprese conoscenza. Luke non si ricorda chi
chiamò il 911, ma dice che c’erano degli uomini che lavoravano in uno stabilimento nelle vicinanze e
crede sia stato uno di loro a chiamare subito dopo la caduta di Shawn.
15.
Non più bambina

Ci fu un momento, quell’inverno. Ero inginocchiata sulla moquette ad


ascoltare il papà che attestava la vocazione della mamma come guaritrice,
quando mi mancò il respiro nel petto e mi sentii come strappata fuori da me
stessa. Non vedevo più i miei genitori o il nostro salotto. Quello che vedevo
era una donna adulta, con le sue idee, le sue preghiere, che non sedeva più
come una bambina ai piedi di suo padre.
Vidi il pancione di questa donna, ed era la mia pancia. Accanto a lei era
seduta sua madre, la levatrice. La donna prendeva la mano di sua madre e
diceva che voleva partorire in ospedale, con un dottore. Ti accompagno io,
diceva sua madre. Le due donne andavano verso la porta, ma era bloccata –
dalla fedeltà, dall’obbedienza. Da suo padre. Che era in piedi, immobile.
Ma la donna era sua figlia e aveva preso da lui la stessa determinazione, la
stessa serietà. Lo scostava e usciva dalla porta.
Cercai d’immaginare quale futuro poteva aspettarsi una donna simile.
Cercai di raffigurarmi altre scene in cui lei e suo padre avevano opinioni
diverse. In cui lei ignorava il suo parere e restava convinta del proprio. Ma
mio padre mi aveva insegnato che non si possono avere due opinioni
sensate su uno stesso argomento: c’è la Verità e ci sono le Menzogne.
Rimasi inginocchiata sulla moquette ad ascoltare mio padre ma anche a
studiare questa sconosciuta, e mi sentii sospesa tra loro, attratta e respinta
da ciascuno di loro. Capii che non poteva esserci un futuro per queste due
persone insieme, che nessun destino poteva ammettere sia lui che lei. O
rimanevo una bambina per sempre, eternamente, o lo perdevo.
Ero sdraiata sul letto a guardare le deboli ombre che la lampada
proiettava sul soffitto, quando sentii la voce di mio padre alla porta. Balzai
in piedi d’istinto facendo una specie di saluto militare, ma poi non seppi
bene che fare. Era una cosa senza precedenti: mio padre non era mai venuto
in camera mia.
Entrò a grandi passi e si sedette sul letto, poi diede dei colpetti sul
materasso accanto a sé. Presi posto nervosamente, coi piedi che toccavano
appena il pavimento. Aspettai che dicesse qualcosa, ma c’era solo silenzio.
Aveva gli occhi chiusi, la bocca semiaperta, come se stesse ascoltando delle
voci serafiche. “Ho pregato,” disse. La sua voce era dolce, affettuosa. “Ho
pregato per la tua decisione di andare al college.”
Aprì gli occhi. Le sue pupille si erano dilatate alla luce della lampada,
assorbendo il nocciola delle iridi. Non gli avevo mai visto gli occhi così
neri. Sembravano soprannaturali, dei simboli di potere spirituale.
“Il Signore mi ha chiamato a testimoniare,” disse. “È scontento. Hai
abbandonato le Sue benedizioni per prostituirti al sapere dell’uomo. Hai
suscitato la Sua collera. Non tarderà a farsi sentire.”
Non ricordo quando mio padre si alzò per uscire ma evidentemente lo
fece, lasciandomi là seduta in preda al terrore. La collera di Dio aveva
devastato città, aveva inondato la Terra intera. Mi sentii debole, poi del tutto
impotente. Mi ricordai che la mia vita non mi apparteneva. Che potevo
essere spogliata del mio corpo in ogni momento, e trascinata in cielo a
render conto a un Padre infuriato.
La mattina dopo trovai la mamma che miscelava oli in cucina. “Ho deciso
di non andare alla Brigham,” dissi.
Alzò gli occhi, fissando la parete alle mie spalle, e mormorò: “Non dire
così. Non lo voglio sentire”.
Non capivo. Credevo sarebbe stata contenta di vedermi cedere al volere
di Dio.
Il suo sguardo si spostò su di me. Non sentivo la forza di quello sguardo
da anni e rimasi impietrita. “Di tutti i miei figli,” disse, “credevo saresti
stata tu la prima a filare via. Non me l’aspettavo da Tyler – è stata una
sorpresa – ma da te. Non restare. Vai. Non farti fermare da niente e da
nessuno.”
Sentii i passi del papà sulle scale. La mamma sospirò e batté le palpebre,
come se stesse uscendo da uno stato di trance.
Il papà si sedette al suo posto al tavolo della cucina e la mamma si alzò a
preparargli la colazione. Lui attaccò con una predica contro i professori
liberali e la mamma mescolò la pastella per i pancake, mormorando di tanto
in tanto per dargli ragione.
Senza Shawn come caposquadra, l’attività edilizia del papà precipitò. Io
avevo lasciato il mio lavoro da Randy per occuparmi di Shawn. Ora avevo
bisogno di soldi, così quando il papà tornò a raccattare rottami,
quell’inverno, lo feci anch’io.
Era una mattina gelida, come la prima volta che ci ero andata a lavorare,
quando tornai in discarica. Era cambiata. C’erano ancora alcune colonne di
auto sfasciate, ma non più così tante. Alcuni anni prima il papà era stato
incaricato dalla Utah Power di smantellare centinaia di torri delle linee
elettriche. Gli avevano permesso di tenere le travi angolari, quasi duecento
tonnellate in tutto, che ora erano accatastate in ammassi disordinati per tutto
il terreno.
Ogni mattina mi svegliavo alle sei per studiare, perché mi concentravo
meglio di mattina, prima di sfinirmi in discarica. Anche se temevo ancora la
collera di Dio, mi ero convinta di avere così poche probabilità di passare
l’esame di ammissione, che per farlo ci sarebbe voluto un intervento divino.
E se Dio interveniva, allora andare a scuola sarebbe stata la Sua volontà.
L’esame era composto da quattro parti: matematica, inglese, scienze e
comprensione scritta. Le mie conoscenze di matematica stavano
migliorando ma non erano granché. Anche se sapevo risolvere la maggior
parte dei quesiti della simulazione d’esame, ero lenta e ci mettevo il doppio
o il triplo del tempo assegnato. Quanto alla grammatica, mi mancavano le
nozioni basilari anche se stavo imparando, a cominciare dai nomi per
passare a preposizioni e gerundi. Scienze era un mistero, forse perché
l’unico manuale di scienze che avessi letto era quello con le pagine
staccabili da colorare. Delle quattro sezioni, comprensione era l’unica in cui
mi sentivo sicura.
La Brigham era una scuola competitiva. Dovevo prendere un punteggio
alto, almeno un ventisette, ovvero rientrare tra il quindici percento dei
migliori. Avevo sedici anni, non avevo mai fatto un esame e avevo
cominciato solo da poco a studiare in maniera regolare, ma mi iscrissi
comunque. Fu come lanciare dei dadi e affidare il punteggio alle mani di
Dio.
La notte prima non chiusi occhio. La mia mente produsse così tante scene
catastrofiche da bruciare come in preda alla febbre. Alle cinque mi alzai,
feci colazione e guidai per sessantacinque chilometri fino alla Utah State
University. Mi misero in un’aula bianca insieme a una trentina di altri
studenti, che presero posto e appoggiarono le loro matite sui banchi. Una
donna di mezza età distribuì le prove e degli strani fogli rosa che non avevo
mai visto prima.
“Scusi,” dissi quando mi diede il mio. “Cos’è questo?”
“È un modulo ottico. Per segnare le risposte.”
“Come funziona?” dissi.
“Come tutti gli altri moduli ottici.” Fece per allontanarsi, visibilmente
irritata, come se la stessi prendendo in giro.
“Non li ho mai usati.”
Mi studiò un momento. “Devi riempire il cerchietto della risposta giusta,”
disse. “Farlo diventare tutto nero. Capito?”
L’esame cominciò. Non ero mai stata seduta a un banco per quattro ore in
una stanza piena di persone. C’era un rumore incredibile ma sembravo
l’unica a sentirlo, a non riuscire a distogliere l’attenzione dal fruscio dei
fogli girati e dal graffiare delle matite sulla carta.
Quando finì, temevo di non aver superato la parte di matematica ed ero
sicura di aver sbagliato completamente quella di scienze. Per scienze, non
potevo nemmeno dire di averci provato. Le mie risposte erano del tutto
casuali, solo puntini sparsi qua e là su quello strano foglio rosa.
Tornai a casa. Mi sentivo stupida, ma più che stupida mi sentivo ridicola.
Ora che avevo visto gli altri studenti entrare nell’aula in file ordinate,
sedersi ai loro posti e scrivere con calma le loro risposte, come se fosse una
specie di routine, mi sembrava assurdo aver pensato di poter arrivare tra il
quindici percento dei migliori.
Quello era il loro mondo. M’infilai la mia salopette e tornai nel mio.
Quella primavera ci fu un giorno insolitamente caldo, e io e Luke lo
trascorremmo spostando arcarecci – le travi di ferro che corrono
orizzontalmente per la lunghezza di un tetto. Gli arcarecci erano pesanti e il
sole picchiava. Il sudore ci colava dal naso e sul ferro verniciato. Luke si
sfilò la maglia, prese le maniche e le strappò, lasciando dei grossi squarci da
cui poteva passare l’aria. Non mi sarei mai sognata di fare una cosa così
drastica, ma dopo il ventesimo arcareccio avevo la schiena fradicia di
sudore e agitai un po’ la maglietta per farmi aria, poi mi arrotolai le
maniche fino a scoprire qualche centimetro di spalla. Quando il papà mi
vide, alcuni minuti dopo, si avvicinò a grandi passi e mi tirò giù
bruscamente le maniche. “Questo non è un bordello,” disse.
Lo guardai andare via e meccanicamente, come se non fossi io a decidere,
le riarrotolai. Quando tornò, un’ora dopo, si fermò sul posto, perplesso. Mi
aveva detto cosa fare e io non l’avevo fatto. Rimase là un momento con aria
esitante, poi venne verso di me, mi prese le maniche e le tirò giù con forza.
Non aveva fatto dieci passi che me le arrotolai di nuovo.
Volevo obbedire. Davvero. Ma faceva così caldo quel pomeriggio ed era
così bello sentire un po’ di aria sulle braccia. Erano solo pochi centimetri.
Ero sporca dalla testa ai piedi. Ci avrei messo mezz’ora quella sera a
togliermi il nero dalle narici e dalle orecchie. Non mi sentivo esattamente
un oggetto del desiderio. Sembravo più un muletto umano. Che importanza
potevano avere tre centimetri di pelle?
Stavo mettendo da parte i soldi che guadagnavo in vista delle rette
scolastiche. Il papà se ne accorse e cominciò a farmi pagare delle piccole
cose. La mamma aveva ricominciato ad assicurare l’auto dopo il secondo
incidente e il papà disse che dovevo contribuire anch’io. Così feci. Poi volle
degli altri soldi per l’immatricolazione. “Queste imposte statali ti
ammazzano,” disse mentre gli consegnavo i soldi.
Questo sembrò calmarlo un po’, finché non arrivarono i miei risultati
d’esame. Un giorno tornai dalla discarica e trovai una busta bianca. L’aprii,
macchiando di unto la pagina, e saltai i risultati parziali per andare dritta al
totale. Ventidue. Avevo il cuore in gola dalla felicità. Non era un ventisette,
ma poteva aprirmi delle porte. Magari l’università dell’Idaho.
Mostrai il voto alla mamma, che lo disse al papà. Lui si agitò, poi urlò
che era ora che me ne andassi di casa.
“Se è grande abbastanza da prendere uno stipendio, è grande abbastanza
per pagarsi un affitto,” gridò. “E può pagarselo da un’altra parte.” All’inizio
la mamma si oppose, ma nel giro di pochi minuti cedette.
Ero rimasta in cucina a vagliare le mie opzioni e a pensare che avevo
appena dato al papà quattrocento dollari, un terzo dei miei risparmi, quando
la mamma si girò verso di me e disse: “Credi di potertene andare entro
venerdì?”.
Qualcosa si spezzò dentro di me, un argine o una diga. Mi sentii
sballottata, incapace di star ferma. Gridai, ma le mie grida erano strozzate.
Stavo annegando. Non avevo nessun posto dove andare. Non potevo
permettermi di pagare un affitto e anche se avessi potuto gli unici
appartamenti in affitto erano in città. Quindi avrei avuto bisogno di una
macchina. Avevo solo ottocento dollari. Farfugliai tutte queste cose alla
mamma, poi corsi in camera mia e sbattei la porta.
Venne a bussare alcuni istanti dopo. “So che pensi che non sia giusto,”
disse, “ma quando avevo la tua età, prima di sposare tuo padre, vivevo da
sola.”
“Ti sei sposata a sedici anni?” chiesi.
“Non essere sciocca,” disse. “Non hai sedici anni.”
La fissai. Mi fissò. “Sì. Ho sedici anni.”
Mi studiò con attenzione. “Ne hai almeno venti.” Piegò la testa. “No?”
Restammo zitte. Il cuore mi martellava nel petto. “Ho fatto sedici anni a
settembre,” dissi.
“Oh.” La mamma si morse il labbro, poi si alzò e sorrise. “Be’, allora non
preoccuparti. Puoi restare. Davvero, non so cosa pensasse tuo padre. Mi sa
che ci siamo dimenticati. È difficile tenere a mente quanti anni avete voi
ragazzi.”
Shawn riprese a lavorare, anche se zoppicava terribilmente. Indossava un
grosso cappello australiano a tesa larga di pelle ingrassata color cioccolato.
Prima dell’incidente l’usava solo per andare a cavallo, ma ora lo portava
sempre, anche in casa, e il papà lo trovava irrispettoso. Può darsi che Shawn
lo facesse apposta per mancargli di rispetto, ma credo che un altro motivo
fosse che era largo e comodo e gli copriva le cicatrici dell’operazione
chirurgica.
All’inizio lavorava solo poche ore al giorno. Il papà aveva vinto un
appalto per costruire una stalla di mungitura nella contea di Oneida, a una
trentina di chilometri da Buck Peak, così Shawn si dava da fare qua e là,
sistemando disegni tecnici e misurando profilati.
Luke, Benjamin e io smistavamo rottami. Il papà aveva deciso che era
arrivato il momento di recuperare le travi angolari ammucchiate tutt’attorno
alla fattoria. Per poterli vendere, i pezzi non dovevano misurare più di un
metro. Shawn propose di tagliare il ferro con la fiamma ossidrica, ma il
papà disse che ci avremmo messo troppo tempo e che avremmo speso
troppo in benzina.
Alcuni giorni dopo il papà tornò a casa col macchinario più spaventoso
che avessi mai visto. Lo chamava Trinciante. A prima vista sembrava un
paio di forbici da tre tonnellate, e avremmo scoperto che era proprio quella
la sua funzione. Le lame erano di ferro robusto, spesse trenta centimetri e
lunghe un metro e mezzo. Non tagliavano perché erano aguzze, ma in virtù
della loro potenza e della loro mole. Le due enormi fauci erano azionate da
un pesante pistone fissato a una grossa ruota di ferro. La ruota era mossa da
un motore a cinghia e questo significava che, se qualcosa s’impigliava nel
macchinario, ci sarebbero voluti da trenta secondi a un minuto per fermare
la ruota e bloccare tutto. Le lame andavano su e giù sferragliando peggio di
un treno mentre trituravano pezzi di ferro spessi quanto il braccio di un
uomo. Il ferro non veniva tanto tagliato, quanto strappato. Certe volte il
macchinario sgroppava violentemente, spingendo chiunque lo manovrasse
verso le lame smussate e tritanti.
Il papà aveva escogitato molti stratagemmi pericolosi nel corso degli
anni, ma questo fu il primo a lasciarmi sconvolta. Forse perché era così
palesemente letale, perché era chiaro come il sole che un movimento
sbagliato poteva costarti un arto. O forse perché era del tutto superfluo. Era
un capriccio. Come un giocattolo, ma un giocattolo che poteva mozzarti la
testa.
Shawn disse che era una macchina infernale e che il papà aveva perso
quel poco di buonsenso che gli rimaneva. “Stai cercando di uccidere
qualcuno?” disse. “Perché se è per questo ho una pistola nel furgone che
farà molto meno casino.” Il papà non riuscì a frenare un sorriso. Non
l’avevo mai visto così estasiato.
Shawn zoppicò verso l’officina, scrollando la testa. Il papà cominciò a
dare del ferro in pasto al Trinciante. Ogni pezzo lo sbalzava in avanti e per
due volte rischiò di cadere a testa in giù tra le lame. Chiusi forte gli occhi.
Sapevo che se la testa del papà finiva là in mezzo, le lame non avrebbero
nemmeno rallentato. Gli avrebbero spezzato il collo e avrebbero continuato
a masticare.
Una volta appurato che il macchinario funzionava, il papà fece un cenno a
Luke perché prendesse il suo posto, e Luke, sempre pronto a compiacerlo,
si fece avanti. Cinque minuti dopo Luke aveva un braccio squarciato fino
all’osso e stava correndo verso casa in un bagno di sangue.
Il papà esaminò la sua squadra di lavoro. Fece un cenno a Benjamin, ma
Benjamin scrollò la testa, dicendo che grazie tante ma ci teneva alle sue
dita. Il papà guardò pensosamente verso casa, chiedendosi probabilmente
quanto tempo ci avrebbe messo la mamma a fermare l’emorragia. Poi
spostò gli occhi su di me.
“Vieni qui, Tara.”
Non mi mossi.
“Avvicinati,” disse.
Avanzai lentamente, senza batter ciglio, guardando il Trinciante come se
potesse attaccare. Sulla lama c’era ancora il sangue di Luke. Il papà prese
una trave angolare di quasi due metri e mi passò un’estremità. “Tienila
stretta,” disse. “Ma se comincia a sbattere, lasciala.”
Le lame si aprivano e si chiudevano di scatto, ringhiando come un cane
rabbioso, come se volessero avvertirci di stare alla larga. Ma il papà era così
fissato su quel macchinario da aver perso completamente la testa.
“È facile,” disse.
Pregai quando infilai il primo pezzo tre le lame. Non di non farmi male,
perché quello era impossibile, ma che la ferita fosse come quella di Luke,
una fetta di carne, così che potessi tornare anch’io a casa. Scelsi dei pezzi
più piccoli, sperando di riuscire a controllare gli scossoni col mio peso. Poi
i pezzi piccoli finirono. Presi il più piccolo tra quelli rimasti, ma il metallo
era comunque robusto. Lo cacciai là in mezzo e aspettai che le fauci si
chiudessero. Il fragore del ferro massiccio che si spezzava era assordante.
La trave cominciò a sbattere, sollevandomi da terra e sbalzandomi avanti.
Lasciai la presa e caddi per terra, e il ferro, ora libero e triturato
violentemente dalle lame, schizzò per aria e mi si schiantò accanto.
“CHE DIAVOLO STA SUCCEDENDO?” Vidi Shawn con la coda dell’occhio. Si
avvicinò a grandi passi e mi tirò su, poi si girò verso il papà.
“Cinque minuti fa, ’sto mostro ha quasi strappato un braccio a Luke! E
ora ci hai messo Tara?”
“Guarda che è un osso duro,” disse il papà, facendomi l’occhiolino.
Shawn aveva gli occhi fuori dalle orbite. Avrebbe dovuto star calmo, ma
era fuori di sé.
“Le staccherà la testa!” gridò. Si voltò verso di me e indicò l’officina.
“Vai a fare dei morsetti per quegli arcarecci. Non voglio più vederti vicino a
quest’affare.”
Il papà si fece avanti. “Questa è la mia squadra. Tu lavori per me, e pure
Tara. Le ho detto di usare il Trinciante e lo farà.”
Si urlarono addosso per quindici minuti. Fu diverso dai loro soliti litigi:
questo era feroce, in un certo senso. Pieno d’odio. Non avevo mai visto
nessuno gridare così contro mio padre e fui sorpresa, poi spaventata, dal
cambiamento che provocò in lui. Il suo volto si trasformò, facendosi rigido,
disperato. Era come se Shawn avesse risvegliato qualcosa in lui, una specie
di bisogno primario. Il papà non poteva perdere quella discussione e salvare
la faccia. Se non usavo il Trinciante, il papà non sarebbe più stato il papà.
Shawn balzò in avanti e lo spinse con forza sul petto. Il papà barcollò
all’indietro, inciampò e cadde. Rimase disteso un momento nel fango,
scioccato, poi si rialzò in piedi e fece per avventarsi su suo figlio. Shawn
alzò le braccia per difendersi, ma quando lo vide così, il papà abbassò i
pugni, forse ricordandosi che Shawn aveva riacquistato solo da poco la
capacità di camminare.
“Le ho detto di farlo e lo farà,” disse il papà con voce bassa e rabbiosa.
“O non vivrà più sotto questo tetto.”
Shawn mi guardò. Per un momento sembrò pensare di aiutarmi a fare le
valigie – dopotutto era scappato dal papà quando aveva la mia età –, ma feci
di no con la testa. Non me ne sarei andata, non così. Prima avrei lavorato al
Trinciante, e Shawn lo sapeva. Guardò il Trinciante, poi il mucchio che
c’era accanto, quelle venticinque tonnellate di ferro. “Lo farà,” disse.
Il papà sembrò alzarsi di dieci centimetri. Shawn si piegò vacillando,
sollevò un pezzo pesante di ferro e lo portò verso il Trinciante.
“Non fare lo stupido,” disse il papà.
“Se lo fa lei, lo faccio anch’io,” rispose Shawn. Non c’era più rabbia nella
sua voce. Non avevo mai visto Shawn arrendersi al papà, nemmeno una
volta, ma ora aveva deciso di gettare la spugna. Aveva capito che se non si
sottometteva lui, di sicuro l’avrei fatto io.
“Sei il mio caposquadra!” gridò il papà. “Mi servi a Oneida, non qui a
trafficare coi rottami!”
“Allora spegni il Trinciante.”
Il papà si allontanò imprecando, esasperato, ma pensando probabilmente
che Shawn si sarebbe stancato e sarebbe tornato a fare il caposquadra prima
di cena. Shawn lo guardò, poi si voltò verso di me e disse. “Okay,
Morennina. Tu porti i pezzi e io li metto dentro. Se il ferro è spesso,
diciamo più di un centimetro, dovrai tenermi per la schiena per evitare che
finisca tra le lame. Okay?”
Io e Shawn usammo il Trinciante per un mese. Il papà era troppo testardo
per cedere, anche se lasciare il suo caposquadra tra i rottami gli sarebbe
costato di più che tagliare il ferro con le fiamme ossidriche. Quando
finimmo avevo alcuni lividi ma non ero ferita. Shawn sembrava stremato.
Erano passati solo pochi mesi da quand’era caduto dal bancale e il suo
corpo non poteva reggere lo sforzo. Fu colpito più volte alla testa quando
un pezzo di ferro sgroppava a un’angolatura inaspettata. Allora restava
seduto un momento per terra con le mani sugli occhi, poi si alzava e
prendeva il pezzo successivo. Di sera si sdraiava sul pavimento della cucina
con la sua camicia macchiata e i jeans impolverati, troppo stanco anche solo
per farsi una doccia.
Gli portavo tutto il cibo e l’acqua che mi chiedeva. Sadie veniva quasi
tutte le sere e correvamo fianco a fianco quando ci chiedeva del ghiaccio,
poi ci diceva di togliere il ghiaccio, poi di rimettere il ghiaccio. Eravamo
entrambe Occhi da pesce.
La mattina dopo io e Shawn tornavamo al Trinciante; lui infilava il ferro
tra le fauci, che masticavano con tanta potenza da sbalzarlo per aria,
facilmente, allegramente, come se fosse un gioco, come fosse un bambino.
16.
Un lupo tra le pecore

Cominciarono i lavori per la stalla di mungitura di Oneida. Shawn


progettò e saldò la struttura principale, ovvero le travi massicce che
formavano lo scheletro del fabbricato. Erano troppo pesanti per la ruspa;
andavano sollevate con la gru. Era una manovra delicata, per cui i saldatori
dovevano stare in equilibrio alle due estremità di una trave mentre veniva
abbassata sulle colonne e poi saldata. Shawn sorprese tutti annunciando che
voleva mettere me ai comandi della gru.
“Tara non può guidare la gru,” disse il papà. “Ci metteremo metà mattina
a insegnarle i comandi e alla fine non avrà capito un tubo lo stesso.”
“Ma starà attenta,” disse Shawn, “e io sono stufo di cadere.”
Un’ora dopo ero seduta nella cabina di controllo e Shawn e Luke erano in
piedi alle due estremità di una trave, a circa sei metri da terra. Toccai
leggermente la leva, ascoltando i cilindri idraulici che si allungavano
sibilando delicatamente. “Ferma!” gridò Shawn quando la trave fu in
posizione, poi si abbassarono gli elmetti e cominciarono a saldare.
Quello per la gru fu uno degli innumerevoli conflitti tra il papà e Shawn
che Shawn vinse quell’estate. La maggior parte non si risolsero in maniera
così pacifica. Litigavano quasi ogni giorno – per un difetto nei disegni
tecnici o un attrezzo che era stato dimenticato a casa. Sembrava che il papà
non vedesse l’ora di litigare. Voleva dimostrare chi comandava.
Un pomeriggio si fermò accanto a Shawn a guardarlo saldare. Un
momento dopo, di punto in bianco, cominciò a sbraitare: Shawn aveva fatto
una pausa pranzo troppo lunga, non ci faceva alzare abbastanza presto di
mattina, non ci faceva faticare abbastanza. Gridò per diversi minuti, poi
Shawn si tolse l’elmetto, lo guardò con calma e disse: “Vuoi startene zitto e
lasciarmi lavorare?”.
Il papà continuò a gridare. Disse che Shawn era pigro, che non sapeva
gestire una squadra, che non capiva il valore del duro lavoro. Shawn scese
dalla sua postazione e si diresse con calma verso il pickup. Il papà lo seguì,
senza smettere di sbraitare. Shawn si tolse i guanti lentamente,
delicatamente, un dito alla volta, come se non ci fosse un uomo che gli
gridava addosso a quindici centimetri dal volto. Rimase immobile per
diversi minuti, lasciandosi coprire d’insulti, poi salì sul pickup e se ne andò,
lasciando il papà a gridare alla polvere.
Ricordo l’ammirazione che provai mentre guardavo il pickup scendere
per lo sterrato. Shawn era l’unica persona che avessi mai visto tenere testa
al papà. Era l’unico che, con la sua tenacia e determinazione, poteva farlo
cedere. Avevo visto il papà perdere le staffe e gridare addosso a ciascuno
dei miei fratelli. Shawn era l’unico che gli aveva girato le spalle e se n’era
andato.
Un sabato sera ero a casa della nonna in città, col manuale di matematica
aperto sul tavolo della cucina e un piatto di biscotti accanto. Stavo
studiando per ripetere l’esame di ammissione. Andavo spesso a studiare
dalla nonna per evitare le prediche del papà.
Squillò il telefono. Era Shawn. Mi andava di vedere un film? Dissi di sì e
alcuni minuti dopo sentii rombare fuori dalla finestra. Con la sua potente
motocicletta nera e il cappello australiano a tesa larga, Shawn sembrava del
tutto fuori luogo mentre parcheggiava accanto alla staccionata bianca della
nonna. Mentre lei cominciava a preparare i brownies, io e Shawn andammo
di sopra a scegliere un film.
Lo interrompemmo quando la nonna venne a portarci i brownies.
Mangiammo in silenzio, coi cucchiai che battevano rumorosamente contro i
piatti di porcellana. “Prenderai ventisette, vedrai,” disse Shawn di punto in
bianco, quando finimmo.
“Non importa,” dissi. “Tanto non credo che ci andrò. E se ha ragione il
papà? Se mi faranno il lavaggio del cervello?”
Shawn diede un’alzata di spalle. “Sei sveglia quanto lui. Se è come dice il
papà, lo capirai da te.”
Il film finì. Demmo la buonanotte alla nonna. Era una mite sera d’estate,
perfetta per un giro in moto, e Shawn mi propose di tornare a casa con lui e
di venire a prendere la macchina il giorno dopo. Accese il motore e aspettò
che salissi in sella. Feci un passo verso di lui, poi mi ricordai il libro di
matematica sul tavolo della nonna.
“Vai pure,” dissi. “Ti raggiungo subito.”
Shawn si calcò il cappello in testa, girò la moto e partì a tutta velocità
sulla strada vuota.
Guidavo in un torpore felice. Era una sera buia, con quella fitta oscurità
tipica delle campagne, dove ci sono poche case e ancor meno lampioni,
dove le stelle brillano indisturbate. Correvo per la statale serpeggiante come
avevo fatto un’infinità di volte, sfrecciando giù da Bear River Hill e
procedendo a ruota libera per il tratto pianeggiante parallelo a Fivemile
Creek. Più avanti la strada saliva e curvava a destra. Conoscevo quella
curva a memoria e mi chiesi cosa fossero quei fari che brillavano fissi
nell’oscurità.
Cominciai a salire. C’era un pascolo alla mia sinistra e un fossato alla mia
destra. Quando la salita si fece più ripida vidi tre auto ferme vicino al
fossato. Le portiere erano aperte, le luci interne accese. Sette o otto persone
erano accalcate attorno a qualcosa sulla ghiaia. Cambiai corsia per
superarle, ma mi fermai quando vidi un piccolo oggetto in mezzo alla
strada.
Era un cappello australiano a tesa larga.
Accostai e corsi verso le persone raggruppate vicino al fossato. “Shawn!”
gridai.
La gente si scostò per lasciarmi passare. Shawn era disteso a faccia in giù
sulla ghiaia, in una pozza di sangue che sembrava rosa al bagliore dei fari.
Non si muoveva. “Ha investito una mucca appena imboccata la curva,”
disse un uomo. “È così buio stasera che non l’ha nemmeno vista. Abbiamo
chiamato l’ambulanza. Non osiamo spostarlo.”
Shawn aveva il corpo contorto, la schiena piegata. Non avevo idea di
quanto tempo potesse metterci un’ambulanza, e c’era sangue dappertutto.
Decisi di fermare l’emorragia. Gli infilai le mani sotto le ascelle e cercai di
sollevarlo, ma non ci riuscii. Alzai gli occhi verso i presenti e riconobbi un
volto: Dwain.5 Era uno di noi. La mamma aveva fatto nascere quattro dei
suoi otto figli.
“Dwain! Aiutami a girarlo.”
Dwain sollevò Shawn e lo mise di schiena. Per un secondo che sembrò
un’ora, fissai mio fratello e guardai il sangue che gli gocciolava dalla
tempia lungo la guancia destra, colandogli sull’orecchio e sulla maglietta
bianca. Aveva gli occhi chiusi, la bocca aperta. Il sangue fuoriusciva da un
buco grosso quanto una pallina da golf sulla sua fronte. Sembrava che
avesse grattato la tempia contro l’asfalto, raschiandosi via la pelle e poi
l’osso. Mi avvicinai e guardai dentro la ferita. Vidi luccicare qualcosa di
tenero e spugnoso. Mi tolsi il giubbino e glielo premetti sulla testa.
Quando toccai l’abrasione, Shawn fece un lungo sospiro e aprì gli occhi.
“Morennina,” biascicò. Poi sembrò perdere i sensi.
Avevo il cellulare in tasca. Feci il numero. Rispose il papà.
Dovevo essere agitatissima, farfugliavo. Dissi che Shawn si era
schiantato in moto, che aveva un buco in testa.
“Piano, piano. Cos’è successo?”
Raccontai tutto una seconda volta. “Cosa devo fare?”
“Portalo a casa,” disse il papà. “Ci penserà tua madre.”
Aprii la bocca ma non uscì alcun suono. Alla fine dissi: “Non sto
scherzando. Il cervello... gli si vede il cervello!”.
“Portalo a casa,” ripeté lui. “Tua madre sa come fare.” Poi, il brusio
monotono del segnale di libero. Aveva riagganciato.
Dwain aveva sentito. “Abito in fondo a questo campo,” disse. “Tua madre
può venire a curarlo là.”
“No,” dissi. “Il papà vuole che lo porti a casa. Aiutami a metterlo in
macchina.”
Shawn gemette quando lo alzammo, ma non parlò più. Qualcuno disse
che era meglio aspettare l’ambulanza. Qualcun’altro che dovevamo portarlo
noi all’ospedale. Credo che nessuno pensasse davvero che l’avremmo
portato a casa, non con il cervello che gli fuoriusciva dalla fronte.
Sistemammo Shawn sui sedili di dietro. Mi sedetti al volante e Dwain salì
dalla parte del passeggero. Guardai lo specchietto retrovisore per rimettermi
in carreggiata, poi alzai una mano e lo abbassai in modo da vedere il volto
di Shawn, spento e insanguinato. Il mio piede esitava sull’acceleratore.
Passarono tre secondi, forse quattro. Nient’altro.
Dwain stava gridando “Andiamo!”, ma quasi non lo sentii. Ero
completamente nel panico. I miei pensieri turbinavano attraverso una nube
di rancore. Era una condizione surreale, come se la tensione mi avesse
liberato da un’illusione a cui, fino a cinque minuti prima, avevo avuto
bisogno di credere.
Non avevo mai pensato al giorno che Shawn era caduto dal bancale. Non
c’era niente da pensare. Era caduto perché così aveva voluto Dio: non
c’erano altri significati nascosti. Non mi ero mai immaginata come sarebbe
stato vederlo. Vedere Shawn che precipitava, cercando di ghermire l’aria.
Vederlo schiantarsi, poi ripiegarsi, poi restare immobile. Non mi ero mai
permessa d’immaginare cos’era successo dopo – la decisione del papà di
lasciarlo vicino al pickup, o gli sguardi ansiosi che dovevano essersi
scambiati Luke e Benjamin.
Adesso, mentre fissavo le grinze sul volto di mio fratello, ciascuna un
piccolo fiume di sangue, mi ricordai. Ricordai che Shawn era rimasto
seduto vicino al pickup per un quarto d’ora, col cervello che sanguinava.
Poi aveva avuto quella crisi e i ragazzi l’avevano buttato a terra, e lui era
caduto, riportando un secondo trauma, quello che secondo i dottori aveva
rischiato di ucciderlo. Era per quello che Shawn non sarebbe più stato lo
stesso.
Se la prima caduta era stata opera di Dio, di chi era stata opera la
seconda?
Non ero mai stata all’ospedale in città, ma fu facile da trovare.
Dwain mi aveva chiesto che diavolo succedeva quando feci un’inversione
a U e partii a razzo giù dalla collina. Avevo ascoltato il respiro debole di
Shawn mentre correvo per la valle, lungo il Fivemile Creek e poi su per
Bear River Hill. All’ospedale parcheggiai nella corsia di emergenza e io e
Dwain portammo Shawn oltre le porte di vetro. Chiesi aiuto urlando. Arrivò
un’infermiera di corsa, poi un’altra. A quel punto Shawn aveva ripreso
conoscenza. Lo portarono via e qualcuno mi spinse nella sala d’attesa.
Non potevo non fare ciò che andava fatto subito. Chiamai il papà.
“Sei quasi arrivata?” disse.
“Sono in ospedale.”
Silenzio. Poi disse: “Arriviamo”.
Quindici minuti dopo eravamo là tutti e tre insieme ad aspettare
goffamente – io che mi mordicchiavo le unghie su un divano color azzurro
pastello, la mamma che andava su e giù facendo scattare le dita, e il papà
seduto immobile sotto un rumoroso orologio da parete.
Il dottore fece una TAC a Shawn. Disse che la ferita era brutta ma il danno
lieve, e ripensai a quello che mi avevano detto gli altri medici – che spesso
quelli che sembrano i traumi cranici peggiori in realtà sono i meno gravi.
Mi sentii una stupida per essere andata nel panico e averlo portato qui. Il
buco nell’osso era piccolo, disse il dottore. Poteva rimarginarsi da sé,
oppure si poteva mettere una placca metallica chirurgicamente. Shawn disse
che preferiva aspettare, così il dottore chiuse la pelle sopra la ferita e gli
diede dei punti.
Portammo a casa Shawn verso le tre di notte. Il papà guidava, la mamma
gli era seduta accanto e io ero sul sedile di dietro insieme a Shawn. Nessuno
parlò. Il papà non gridò né fece una delle sue prediche; di fatto non avrebbe
più detto una parola su quella notte. Ma c’era qualcosa nel modo in cui
guardava fisso davanti a sé, senza mai incrociare il mio sguardo, che mi
faceva pensare che fossimo arrivati a un bivio e che lui avesse preso una
direzione e io l’altra. Dopo quella notte non ci furono più dubbi sul fatto
che dovessi andarmene o rimanere. Era come se vivessimo nel futuro.
Come se me ne fossi già andata.
Quando ripenso a quella notte, non penso alla strada buia o a mio fratello
sdraiato in una pozza di sangue. Penso alla sala d’attesa col suo divano
azzurrino e le pareti chiare. Sento l’odore dell’aria asettica. Il ticchettio di
un orologio di plastica.
Di fronte a me c’è mio padre e, quando guardo il suo volto stanco,
capisco. La verità è così lampante che non so come non ho fatto a non
capirla prima. La verità è questa: non sono una brava figlia. Sono una
traditrice, un lupo tra le pecore. C’è qualcosa di diverso in me e questa
differenza non va bene. Vorrei gridare, piangere sulle ginocchia di mio
padre e promettergli che non lo farò mai più. Ma anche se sono un lupo non
so mentire, e in ogni caso fiuterebbe la menzogna. Sappiamo entrambi che
se un giorno trovassi di nuovo Shawn sulla statale, fradicio di sangue, farei
esattamente quello che ho appena fatto.
Non sono dispiaciuta. Mi vergogno e basta.
La busta arrivò tre settimane dopo, proprio quando Shawn stava
ricominciando a reggersi in piedi. L’aprii con indifferenza, come se stessi
leggendo una condanna dopo che il verdetto di colpevolezza era già stato
emesso. Cercai il risultato complessivo. Ventotto. Controllai di nuovo.
Controllai il mio nome. Non c’era nessun errore. In qualche modo – e un
miracolo fu l’unica spiegazione che riuscii a darmi – ce l’avevo fatta.
Il mio primo pensiero fu prendere una decisione: non avrei mai più
lavorato per mio padre. Andai all’unico supermercato che c’era in città,
chiamato Stokes, e feci domanda per lavorare come imbustatrice. Avevo
solo sedici anni, ma non lo dissi al direttore. Mi assunsero per quaranta ore
alla settimana. Il mio primo turno cominciava il giorno dopo, alle quattro di
mattina.
Quando tornai a casa il papà stava guidando la ruspa per la discarica. Salii
sulla scala e afferrai la sbarra. Sopra il ruggito del motore, gli dissi che
avevo trovato un lavoro ma che avrei continuato a guidare la gru di
pomeriggio finché non fosse riuscito ad assumere qualcun’altro. Abbassò il
braccio meccanico e guardò dritto davanti a sé.
“Hai già deciso,” disse. “Non serve che la tiri per le lunghe.”
Una settimana dopo feci domanda d’iscrizione alla Brigham. Non sapevo
come compilare il modulo, così Tyler lo fece al posto mio. Scrisse che
avevo studiato privatamente secondo un programma rigoroso ideato da mia
madre perché avessi tutti i requisiti necessari per diplomarmi.
Cambiavo idea continuamente, quasi di minuto in minuto. A volte ero
sicura che Dio volesse che andassi al college perché mi aveva fatto
prendere quel ventotto. Altre ero sicura che mi avrebbero scartato e che Dio
mi avrebbe punito per aver fatto richiesta, per aver voluto abbandonare la
mia famiglia. Ma comunque sarebbero andate le cose, sapevo che me ne
sarei andata. Sarei andata da qualche parte, anche se non a scuola. Casa mia
non era più la stessa da quando avevo portato Shawn all’ospedale invece
che dalla mamma. Avevo respinto una sua regola; ora lei stava respingendo
me.
Il comitato d’ammissione si diede da fare; non dovetti aspettare molto. La
lettera arrivò in una busta normale. Ebbi un tuffo al cuore quando la vidi. Le
lettere di rifiuto sono piccole, pensai. L’aprii e lessi: “Congratulazioni”. Ero
stata ammessa al semestre che cominciava il 5 gennaio.
La mamma mi abbracciò. Il papà cercò di essere allegro. “Questo se non
altro dimostra una cosa,” disse. “Casa nostra vale quanto la scuola
pubblica.”
Tre giorni prima di compiere diciassette anni, la mamma mi accompagnò
nello Utah a cercare un appartamento. Ci mettemmo tutto il giorno e
quando tornammo a casa, di sera tardi, il papà stava mangiando qualcosa
che aveva tirato fuori dal congelatore. Non l’aveva cucinato bene e si era
ridotto a una poltiglia. Era teso, irritabile. Sembrava che dovesse esplodere
da un momento all’altro. La mamma non si tolse nemmeno le scarpe. Corse
in cucina e cominciò ad armeggiare con le padelle per preparare una cena
come si deve. Il papà si spostò in sala e si mise a imprecare contro il
videoregistratore. Dall’ingresso, vidi che i cavi non erano collegati. Quando
glielo feci notare diede fuori di matto. Gridò e agitò le braccia, urlando che
i cavi dovevano stare sempre attaccati, che uno non poteva entrare nella sala
e trovare i cavi del videoregistratore staccati. E poi, perché diavolo li avevo
staccati?
La mamma arrivò di corsa dalla cucina. “Sono stata io,” disse.
Il papà se la prese con lei. “Perché la difendi sempre?” farfugliò. “Uno si
aspetterebbe un minimo di sostegno da sua moglie!”
Armeggiai coi cavi mentre il papà mi stava addosso e gridava.
Continuavano a cadermi. Il panico mi martellava la mente e annullava ogni
pensiero, tanto che non riuscivo nemmeno a ricordarmi come collegare il
rosso col rosso e il bianco col bianco.
Poi passò. Alzai gli occhi su mio padre, il suo volto paonazzo, le vene che
gli pulsavano sul collo. Non ero ancora riuscita a collegare i cavi. Uscii
dalla sala. Il papà stava ancora urlando quando raggiunsi la cucina. Mentre
proseguivo in corridoio, mi voltai. La mamma aveva preso il mio posto ed
era accovacciata sul videoregistratore a cercare i cavi a tastoni, col papà che
la guardava dall’alto.
Aspettare il Natale, quell’anno, fu come aspettare di cadere giù da un
dirupo. Era dai tempi dell’Y2K che non avevo la certezza che stesse per
succedere qualcosa di terribile, qualcosa che avrebbe spazzato via tutto
quello che avevo conosciuto fino ad allora. Cos’avrebbe preso il suo posto?
Cercavo d’immaginarmi il futuro, di popolarlo di professori, compiti, aule
scolastiche, ma la mia mente si bloccava. Non c’era nessun futuro nella mia
mente. C’era l’ultimo dell’anno e poi non c’era più niente.
Sapevo che dovevo prepararmi, cercare di acquisire le conoscenze di
scuola superiore come Tyler aveva scritto sul modulo di iscrizione
all’università. Ma non sapevo come fare e non volevo chiedergli aiuto.
Tyler si stava costruendo una nuova vita alla Purdue, tra non molto si
sarebbe pure sposato. Di sicuro non aveva voglia di occuparsi di me.
Quando tornò a casa per Natale, però, notai che stava leggendo un libro
chiamato Les Misérables e decisi che doveva essere uno di quei libri che
leggevano gli universitari. Me ne procurai una copia sperando che
m’insegnasse qualcosa di storia o letteratura, ma non fu così. Non poteva
insegnarmi nulla, perché non sapevo distinguere tra finzione e contesto
reale. Napoleone per me non era più reale di Jean Valjean. Non avevo mai
sentito parlare di nessuno dei due.
5
Quindici anni dopo, Dwain avrebbe detto di non ricordare nulla dell’accaduto. Ma c’era, me lo
ricordo perfettamente.
Seconda parte
17.
Santificare

Il primo dell’anno la mamma mi accompagnò alla mia nuova vita. Non


portai molte cose con me: una dozzina di barattoli di pesche in scatola,
lenzuola e un sacco dell’immondizia pieno di vestiti. Mentre correvamo per
l’autostrada guardai il paesaggio spaccarsi e farsi appuntito a mano a mano
che le cime scure e ondulate delle Bear River Mountains lasciavano il posto
alle taglienti Montagne Rocciose. L’università sorgeva nel cuore delle
Wasatch Mountains, coi loro massicci bianchi che spuntavano maestosi da
terra. Erano bellissimi, ma la loro bellezza mi sembrava aggressiva,
minacciosa.
Il mio appartamento si trovava circa un chilometro e mezzo a sud del
campus. Aveva una cucina, un salotto e tre piccole stanze da letto. Le altre
ragazze che ci vivevano – lo sapevo perché alla Brigham gli alloggi erano
divisi rigorosamente per genere – non erano ancora tornate dalle vacanze di
Natale. Io e la mamma ci mettemmo pochissimo a scaricare la macchina.
Restammo un momento in piedi in cucina, impacciate, poi la mamma mi
abbracciò e ripartì.
Rimasi tre giorni da sola nell’appartamento silenzioso. Che non era
esattamente silenzioso. Non lo era affatto. Avevo passato solo poche ore in
una città e non sapevo difendermi dagli strani rumori che entravano in
continuazione. Il trillo degli attraversamenti pedonali, l’urlo delle sirene, il
sibilo dei freni ad aria compressa, perfino il chiacchiericcio della gente che
passava sul marciapiede: distinguevo ogni singolosuono. Le mie orecchie
abituate al silenzio si sentivano bombardate.
Stavo morendo di sonno quando arrivò la mia prima coinquilina. Si
chiamava Shannon e studiava alla scuola per estetiste che c’era dall’altro
lato della strada. Indossava un paio di pantaloni del pigiama rosa e felpati, e
un’attillata canottiera bianca con le spalline filiformi. Fissai le sue spalle
nude. Avevo già visto altre donne vestite in quel modo – il papà le
chiamava infedeli – e me n’ero sempre tenuta alla larga, come se la loro
immoralità fosse contagiosa. Ora ne avevo una in casa.
Shannon mi studiò con palese disappunto, osservando il mio cappottone
di flanella e gli enormi jeans da uomo. “Quanti anni hai?” disse.
“Sono una matricola,” risposi. Non volevo ammettere che avevo solo
diciassette anni e avrei dovuto essere al terzo anno delle superiori.
Shannon andò al lavandino e vidi la parola “Piccante” scritta sul suo
sedere. Era troppo. Indietreggiai verso camera mia, farfugliando che me ne
andavo a letto.
“Buona idea,” disse lei. “La messa comincia presto. Arrivo sempre in
ritardo.”
“Tu vai a messa?”
“Certo. Tu no?”
“Sicuro. Ma tu... davvero ci vai?”
Mi fissò un momento, mordicchiandosi il labbro, poi disse: “La messa è
alle otto. Buona notte!”.
Chiusi la porta di camera mia, frastornata. Com’era possibile che quella
fosse una mormona?
Il papà diceva che gli infedeli erano ovunque, che la maggior parte dei
mormoni erano degli infedeli anche se non se ne rendevano conto. Pensai
alla canottiera e al pigiama di Shannon e all’improvviso capii che
probabilmente alla Brigham erano tutti degli infedeli.
L’altra coinquilina arrivò il giorno dopo. Si chiamava Mary e frequentava
il terzo anno di Scienze della formazione primaria. Era vestita come si
sarebbe vestita una mormona di domenica, con una gonna a fiori lunga fino
al pavimento. Il suo abbigliamento indicava che non era un’infedele e per
alcune ore mi sentii meno sola.
Fino a quella sera. A un certo punto Mary si alzò dal divano e disse:
“Domani cominciano le lezioni. È ora di fare provviste”. Uscì e fece ritorno
un’ora dopo con due sacchetti di carta. Anche se era proibito fare compere
nel giorno del Signore (non avevo mai comprato nemmeno una gomma da
masticare di domenica), Mary tirò fuori come se niente fosse uova, latte e
pasta senza rendersi conto che ogni cosa che metteva nel nostro frigorifero
comune era una violazione dei comandamenti di Dio. Quando prese una
lattina di Diet Coke, che secondo mio padre andava contro i precetti di
salute di Dio, scappai di nuovo in camera mia.
La mattina dopo sbagliai a prendere l’autobus e andai nella direzione
opposta. Nel tempo che ci misi a rimediare al mio errore, la lezione era
quasi finita. Restai in piedi goffamente in fondo all’aula finché la docente,
una donna magra e dai lineamenti delicati, mi fece segno di occupare
l’unico posto rimasto, che era quasi in prima fila. Mi sedetti sentendomi
osservata da tutti. Il corso parlava di Shakespeare e l’avevo scelto perché
avevo sentito quel nome e mi era sembrato un buon segno. Ma ora mi
rendevo conto che non sapevo nulla di lui. Era solo una parola che avevo
sentito e nient’altro.
Quando suonò la campanella, la docente venne al mio banco. “Non
dovresti essere qui.”
La fissai, confusa. Certo che non dovevo essere lì, ma come faceva a
saperlo? Stavo quasi per confessarle tutto – che non ero mai andata a
scuola, che in realtà non avevo i requisiti per il college – quando aggiunse:
“Questo corso è per gli studenti senior”.
“Ci sono corsi per i senior?” chiesi.
Strabuzzò gli occhi come se avessi voluto fare una battuta. “Questo è il
382. Tu dovresti essere nel 110.”
Avevo quasi attraversato a piedi tutto il campus quando capii cosa
intendeva dire, allora guardai il mio prospetto dei corsi e per la prima volta
notai dei numeri accanto ai titoli dei corsi.
Andai in segreteria, dove mi dissero che tutti i corsi per le matricole erano
al completo. Quello che potevo fare, dissero, era tenere d’occhio gli elenchi
in rete e iscrivermi se si ritirava qualcuno. Entro il fine settimana ero
riuscita a infilarmi nei corsi propedeutici di inglese, storia americana,
musica e religione, ma finii anche in un corso di arte della civiltà
occidentale per studenti del terzo anno.
Il corso d’inglese per le matricole era tenuto da una donna allegra di quasi
trent’anni che continuava a parlare di una cosa chiamata “struttura
dell’elaborato” che, ne era sicura, avevamo imparato alle scuole superiori.
Il corso seguente, storia americana, era in un auditorium intitolato al
profeta Joseph Smith. Avevo pensato che sarebbe stato un corso facile
perché il papà ci aveva insegnato la storia dei Padri Fondatori e sapevo tutto
di Washington, Jefferson, Madison. Ma il professore quasi non li nominò e
parlò invece di “basi filosofiche” e degli scritti di Cicerone e Hume, nomi
che non avevo mai sentito.
Alla prima lezione ci dissero che la volta dopo ci sarebbe stato un piccolo
test di comprensione. Per due giorni cercai di trovare un senso ai fitti brani
del libro di testo, ma espressioni come “umanesimo civico” e
“l’Illuminismo scozzese” punteggiavano la pagina come buchi neri che
risucchiavano all’interno ogni altra parola. Feci il test e sbagliai tutte le
risposte.
Fu un fallimento bruciante. Era stata una prima prova per capire se ce
l’avrei fatta, se quello che avevo nella testa in termini di istruzione era
sufficiente. Dopo il test la risposta era chiara: non era sufficiente. Quando
me ne resi conto avrei potuto prendermela col modo in cui ero stata
cresciuta, ma non lo feci. Il mio attaccamento a mio padre era aumentato
proporzionalmente ai chilometri che ci separavano. In montagna potevo
ribellarmi. Ma qui, in questo posto pieno di luci e rumori, circondata da
infedeli camuffati da santi, mi aggrappavo a ogni verità e a ogni dottrina
che mi aveva insegnato. I dottori erano Figli della Perdizione. Studiare a
casa era un comandamento del Signore.
Se fallire un test non intaccò la mia nuova devozione a un vecchio credo,
lo fece una lezione sull’arte occidentale.
L’aula era luminosa quando arrivai. Il sole del mattino riversava il suo
tepore attraverso le alte finestre. Presi posto accanto a una ragazza con una
camicetta dal collo alto. Si chiamava Vanessa. “Dovremmo aiutarci,” disse,
“mi sa che siamo le uniche matricole di tutto il corso.”
La lezione cominciò quando un uomo anziano dagli occhi piccoli e il
naso appuntito oscurò le finestre. Accese un interruttore e un proiettore
riempì l’aula di luce bianca. Era l’immagine di un dipinto. Il professore
parlò della composizione, delle pennellate, della storia. Poi passò al dipinto
successivo, a quello dopo e a quello dopo ancora.
Poi il proiettore mostrò un’immagine strana, di un uomo in cappello e
soprabito sbiaditi. Alle sue spalle si vedeva un muro di cemento. L’uomo
teneva alzato un foglietto vicino al volto ma non lo guardava. Guardava noi.
Aprii il libro illustrato che avevo comprato per il corso e guardai meglio.
Sotto il dipinto c’era scritto qualcosa in corsivo, ma non capivo cosa
volesse dire. Conteneva una di quelle parole-buchi neri, proprio nel mezzo,
che divorava tutto il resto. Dato che avevo visto altri studenti fare delle
domande, alzai la mano.
Il professore m’invitò a parlare e lessi la frase a voce alta. Quando arrivai
alla parola mi fermai. “Non conosco questa parola,” dissi. “Cosa sigifica?”
Ci fu silenzio. Non un semplice zittirsi di voci e rumori, ma un silenzio
totale, quasi violento. Nessun fruscio di fogli, nessuno sfregare di matite.
Il professore strinse le labbra. “Grazie tante,” disse, poi tornò ai suoi
appunti.
Quasi non mi mossi per il resto della lezione. Mi fissai le scarpe
chiedendomi cos’era successo e perché, ogni volta che alzavo gli occhi,
c’era sempre qualcuno che mi guardava come se fossi strana. Certo che lo
ero, e lo sapevo, ma non capivo come facessero a saperlo loro.
Quando suonò la campanella, Vanessa cacciò il quaderno nello zaino. Poi
si fermò e disse: “Non dovresti scherzare. Non è divertente”. Si allontanò
prima che potessi rispondere.
Rimasi seduta finché furono usciti tutti, fingendo che mi si fosse
incastrata la cerniera del cappotto per evitare di guardarli in faccia. Poi
andai dritta al laboratorio di informatica a cercare la parola “Olocausto”.
Non so quanto tempo rimasi là seduta a leggere, ma a un certo punto
avevo letto abbastanza. Mi appoggiai allo schienale della sedia e fissai il
soffitto. Credo che fossi scioccata, ma non so se per le cose orribili che
avevo appena scoperto o per la mia ignoranza. Di sicuro ricordo che per un
momento non vidi i campi di concentramento, le fosse comuni o le camere
a gas, ma il volto di mia madre. Un’emozione s’impadronì di me, un
sentimento così forte e nuovo che non capivo. Avrei voluto gridarle contro,
insultarla, e questo mi spaventò.
Cercai tra i miei ricordi. Per qualche motivo la parola “Olocausto” non mi
era del tutto nuova. Forse la mamma me ne aveva parlato mentre
coglievamo i cinorrodi o preparavamo la tintura di biancospino. In effetti mi
sembrava di ricordare vagamente che gli ebrei erano stati uccisi da qualche
parte, molto tempo prima. Ma credevo che fosse un conflitto da poco, come
il massacro di Boston, di cui ci parlava sempre il papà, durante il quale una
mezza dozzina di persone erano state martirizzate da un governo tirannico.
Aver frainteso a tal punto – cinque vittime contro sei milioni – mi sembrava
impossibile.
Trovai Vanessa prima della lezione seguente e mi scusai per lo scherzo.
Non spiegai, perché non potevo spiegare. Dissi solo che mi dispiaceva e che
non si sarebbe ripetuto. Per mantenere quella promessa, non alzai più la
mano per il resto del semestre.
Quel sabato mi sedetti alla mia scrivania con una pila di compiti davanti.
Dovevo finire tutto entro sera per non violare il precetto della domenica.
Passai la mattina e il pomeriggio a cercare di decifrare il manuale di
storia, senza molto successo. Di sera cercai di scrivere un elaborato per il
corso di inglese, ma non ne avevo mai scritto uno in vita mia – a parte
quegli scritti sul peccato e il pentimento che non aveva mai letto nessuno –
e non sapevo come fare. Non avevo idea di cosa intendesse l’insegnante con
“struttura dell’elaborato”. Scribacchiai alcune frasi, le cancellai, poi
ricominciai. Andai avanti così fino a mezzanotte passata.
Sapevo che dovevo fermarmi – ormai era il giorno del Signore – ma non
avevo ancora iniziato il compito di teoria musicale, che doveva essere
pronto per lunedì mattina alle sette. Decisi che la domenica sarebbe
cominciata al risveglio e continuai a lavorare.
Mi svegliai con la faccia sulla scrivania. C’era luce. Sentivo Shannon e
Mary in cucina. M’infilai il vestito della domenica e c’incamminammo tutte
e tre verso la chiesa. Essendo una congregazione di studenti, tutti si
sedevano insieme ai rispettivi coinquilini e così feci anch’io. Shannon si
mise subito a chiacchierare con la ragazza che c’era dietro di noi. Mi
guardai attorno e fui colpita di nuovo da quante ragazze portavano la gonna
sopra il ginocchio.
La ragazza che stava parlando con Shannon ci invitò a guardare un film
da lei nel pomeriggio. Mary e Shannon accettarono, ma io feci di no con la
testa. Non guardavo film di domenica.
Shannon strabuzzò gli occhi. “È molto religiosa,” bisbigliò.
Avevo sempre saputo, fin da bambina, che mio padre credeva in un Dio
diverso. Anche se la mia famiglia frequentava la stessa chiesa degli altri, la
nostra religione non era uguale alla loro. Loro credevano nell’umiltà, noi la
praticavamo. Loro credevano nella forza guaritrice di Dio, noi ci
affidavamo alle mani di Dio. Loro credevano che bisognasse prepararsi al
Secondo Avvento, noi ci preparavamo davvero. Sapevo da sempre che i
membri della mia famiglia erano gli unici veri mormoni che avessi mai
conosciuto, eppure per qualche motivo, qui in questa università, in questa
chiesa, il divario appariva per la prima volta incolmabile. Adesso capivo:
potevo stare con la mia famiglia o con gli infedeli, da una parte o dall’altra,
ma non c’erano appigli nel mezzo.
La messa finì e ci incamminammo in fila verso il catechismo. Mary e
Shannon si sedettero davanti. Mi tennero un posto ma esitai, pensando a
come avevo violato il giorno del Signore. Ero qua da meno di una settimana
e avevo già rubato del tempo al Signore. Forse era per questo che il papà
non voleva che andassi: perché sapeva che vivendo con loro, con queste
persone di una fede inferiore, rischiavo di diventare come loro.
Shannon mi chiamò con un cenno e la sua scollatura a V si abbassò. La
oltrepassai e m’infilai in un angolo, il più lontano possibile da loro. Era una
posizione famigliare, rassicurante. Nascosta in un angolo, lontano dagli altri
bambini: la riproduzione esatta di ogni lezione di catechismo della mia
infanzia. Era la prima volta che mi sentivo a mio agio da quand’ero arrivata
in questo posto, e ne fui felice.
18.
Sangue e piume

Dopo quella volta parlai poco con Shannon e Mary e anche loro mi
rivolgevano la parola raramente, se non per ricordarmi di sbrigare la mia
parte di lavori domestici, che non facevo mai. Per me l’appartamento
andava bene così. Che importava se c’erano delle pesche mezze marce in
frigo o dei piatti sporchi nel lavandino? Qual era il problema se sentivi
puzza quando entravi? Per come la vedevo io, se il tanfo era sopportabile la
casa era pulita. Applicavo quella filosofia anche alla mia persona. Usavo il
sapone solo quando mi facevo la doccia, di solito una o due volte alla
settimana, e certe volte neanche in quei casi. Quando uscivo dal bagno, di
mattina, passavo accanto al lavandino dove Shannon e Mary si lavavano
sempre – sempre – le mani. Le vedevo storcere il naso e pensavo alla nonna
in città. Che frivole, mi dicevo. Mica mi piscio sulle mani.
L’atmosfera nell’appartamento era tesa. Shannon mi guardava come se
fossi un cane rabbioso e io non facevo nulla per rassicurarla.
Il mio conto in banca calava a vista d’occhio. All’inizio temevo di non
superare gli esami ma a distanza di un mese, dopo aver pagato le rette,
l’affitto, i libri e il cibo, cominciai a pensare che anche se li superavo non
avrei continuato a studiare per un ovvio motivo: non potevo permettermelo.
Cercai in rete i requisiti per una borsa di studio. Per un rimborso totale delle
tasse universitarie bisognava avere una media altissima.
Anche se era passato solo un mese, sapevo che una borsa di studio era
fuori discussione. Storia americana stava diventando più facile, ma solo nel
senso che non sbagliavo più i test completamente. In musica andavo bene,
ma facevo fatica in inglese. L’insegnante diceva che ero portata per la
scrittura ma avevo una lingua un po’ troppo formale e artefatta. Non le dissi
che avevo imparato a leggere e a scrivere solo con la Bibbia, il Libro di
Mormon e i discorsi di Joseph Smith e Brigham Young.
Il vero problema, però, era civiltà occidentale. Le lezioni mi sembravano
incomprensibili, probabilmente perché per quasi tutto gennaio pensai che
l’Europa fosse uno stato e non un continente, quindi quello che diceva il
professore non aveva molto senso per me. E dopo l’incidente
dell’Olocausto non avevo certo intenzione di chiedere spiegazioni.
Eppure era il mio corso preferito, per via di Vanessa. Ci sedevamo sempre
vicine. Mi piaceva perché sembrava una mormona del mio stesso tipo:
indossava vestiti larghi con il collo alto, e mi aveva detto che non beveva
mai Coca-Cola né faceva i compiti di domenica. Era l’unica persona che
avevo conosciuto all’università che non sembrava un’infedele.
A febbraio il professore annunciò che anziché un esame unico a metà
semestre avremmo fatto degli esami mensili, il primo dei quali la settimana
seguente. Non sapevo come prepararmi. Non avevamo un vero e proprio
libro di testo, solo il libro illustrato con i dipinti e alcuni cd di musica
classica. Ascoltai la musica mentre sfogliavo i dipinti. Cercai in qualche
modo di memorizzare chi aveva dipinto o composto cosa, ma non come si
scrivevano quei nomi. L’unico esame che avevo fatto era quello di
ammissione e, poiché era a scelta multipla, davo per scontato che anche gli
altri sarebbero stati così.
La mattina della prova il professore ci disse di tirare fuori i quaderni
d’esame. Non ebbi nemmeno il tempo di chiedermi cosa fosse un quaderno
d’esame che tutti ne avevano tirato fuori uno dallo zaino. Fu un movimento
fluido, sincronizzato, come se si fossero esercitati. Sembravo l’unica
ballerina sul palco a non aver fatto le prove. Chiesi a Vanessa se ne aveva
uno in più, e me lo diede. Aprii il quaderno aspettandomi un esame a scelta
multipla, ma le pagine erano bianche.
Furono chiusi gli scuri. Il proiettore si accese, mostrando un dipinto.
Avevamo sessanta secondi per scrivere il titolo dell’opera e il nome
completo dell’artista. La mia mente produceva solo un ronzio sordo.
Continuò così per diverse domande: rimasi seduta immobile come una
statua, senza dare nessuna risposta.
Sullo schermo comparve un Caravaggio, Giuditta e Oloferne. Fissai
l’immagine, in cui una ragazzina avvicinava con calma una spada verso di
sé mentre passava la lama attraverso il collo di un uomo come un filo
attraverso il formaggio. Avevo decapitato dei polli insieme al papà, tenendo
ferme le zampe crostose mentre lui alzava la mannaia e l’abbassava con un
forte zac!, poi stringendo la presa con tutta me stessa mentre il pollo si
contorceva agonizzante, spargendo piume dappertutto e macchiandomi i
jeans di sangue. Pensando ai polli, mi chiesi quanto fosse plausibile la scena
del Caravaggio: nessuno poteva avere quell’espressione sul volto, quell’aria
tranquilla e disinteressata mentre mozzava una testa.
Sapevo che il dipinto era del Caravaggio ma ricordavo solo il cognome e
in ogni caso non sapevo come si scriveva. Ero sicura che il titolo era
Giuditta e qualcosa, ma non mi sarebbe venuto in mente Oloferne
nemmeno se il collo passato a fil di lama fosse stato il mio.
Mancavano trenta secondi. Forse potevo racimolare qualche punto se
scrivevo qualcosa, qualsiasi cosa, così scandii il nome foneticamente:
“Carevajio”. Non sembrava giusto. Mi sembrava di ricordare che c’era una
lettera doppia, così cancellai quel nome e scrissi “Carrevagio”. Sbagliato
anche questo. Feci altri tentativi, ciascuno peggiore dei precedenti. Venti
secondi.
Accanto a me, Vanessa continuava a scrivere. Ovvio. Il suo posto era qui.
La sua calligrafia era chiara e riuscii a leggere sul suo foglio: Michelangelo
Merisi da Caravaggio. E accanto, in uno stampatello altrettanto ordinato:
Giuditta e Oloferne. Dieci secondi. Copiai le parole tralasciando il nome
completo del Caravaggio perché, in un discutibile slancio di onestà, decisi
che quello significava barare. Il proiettore passò alla diapositiva seguente.
Sbirciai il foglio di Vanessa altre volte durante l’esame, ma non servì.
Non potevo copiare i suoi elaborati e mi mancavano le conoscenze fattuali e
stilistiche per comporne di miei. Senza capacità o conoscenze, immagino di
aver scribacchiato tutto quello che mi veniva in mente. Non ricordo se ci fu
chiesto di dare un giudizio su Giuditta e Oloferne, ma in quel caso avrei
espresso senz’altro quel che pensavo, ovvero che la calma sul volto della
ragazza non corrispondeva alla mia esperienza con i polli. Messa con le
parole giuste poteva essere una risposta fantastica, qualcosa sulla serenità
della donna come potente contrappunto al generale realismo della scena.
Ma dubito che il professore abbia apprezzato la mia osservazione: “Quando
tagli la testa a un pollo, è meglio se non sorridi perché potrebbero finirti
sangue e piume in bocca”.
L’esame finì. Furono aperti gli scuri. Uscii dall’aula e restai in piedi nel
freddo invernale a fissare le cime delle Wasatch Mountains. Volevo restare.
Le montagne erano ancora poco famigliari e minacciose, ma io volevo
restare.
Aspettai i risultati per una settimana, durante la quale sognai due volte
Shawn. Lo trovavo morto sull’asfalto, lo giravo e vedevo il suo volto tinto
di sangue cremisi. Sospesa tra la paura del passato e la paura del futuro,
scrissi il sogno sul mio diario. Poi senza motivo, come se il collegamento
tra le due cose fosse ovvio, scrissi: Non so perché non mi abbiano fatto
studiare da bambina.
Ci comunicarono i risultati alcuni giorni dopo. Non avevo passato
l’esame.
Un inverno, quand’ero molto piccola, Luke trovò un grosso gufo cornuto
nei campi, privo di sensi e semicongelato. Era color fuliggine e ai miei
occhi di bambina sembrava grande quanto me. Luke lo portò in casa, dove
guardammo incantati il soffice piumaggio e gli artigli feroci. Ricordo che
gli accarezzai le piume rigate, così lisce da sembrare liquide, mentre mio
padre alzava il suo corpo flaccido. Sapevo che, se fosse stato cosciente, non
mi sarei mai potuta avvicinare così. Toccarlo significava violare le leggi
della natura.
Le piume erano inzuppate di sangue. Una spina gli aveva trafitto un’ala.
“Non sono un veterinario,” disse la mamma. “Io curo le persone.” Ma tolse
la spina e pulì la ferita. Il papà disse che l’ala ci avrebbe messo delle
settimane a guarire e che il gufo si sarebbe svegliato molto prima.
Trovandosi in trappola, circondato da predatori, sarebbe morto a furia di
sbattere da tutte le parti nel tentativo di scappare. Era un animale salvatico,
disse, e in natura una ferita del genere era fatale.
Sdraiammo il gufo sul linoleum vicino alla porta di dietro e, quando si
svegliò, dicemmo alla mamma di non entrare in cucina. La mamma disse
che mai e poi mai avrebbe consegnato la sua cucina a un gufo, quindi entrò
a grandi passi e cominciò a preparare la colazione facendo baccano con le
pentole. Il gufo si dimenava penosamente, artigliando la porta e sbattendo la
testa in preda al panico. Piangemmo, e la mamma cedette. Due ore dopo il
papà aveva sbarrato metà cucina con delle assi di compensato. Il gufo
rimase là in convalescenza per diverse settimane. Catturavamo dei topi per
nutrirlo, ma non sempre li mangiava e poi non potevamo portare via le
carcasse. L’odore di carogna era forte e nauseante, un pugno nello stomaco.
Il gufo si fece irrequieto. Quando cominciò a rifiutare il cibo, aprimmo la
porta di dietro e lo lasciammo andare. Non era guarito del tutto, ma il papà
disse che aveva più probabilità di sopravvivere in montagna che da noi.
Quella non era casa sua. Non lo sarebbe mai stata.
Volevo dire a qualcuno che non avevo passato l’esame, ma qualcosa
m’impediva di chiamare Tyler. Forse era vergogna. O forse era il fatto che
Tyler stava per diventare papà. Aveva conosciuto sua moglie Stefanie alla
Purdue e si erano sposati poco dopo. Lei non sapeva nulla della nostra
famiglia. Avevo la sensazione che Tyler preferisse quella nuova vita –
quella nuova famiglia – alla vecchia.
Telefonai a casa. Rispose il papà. La mamma era andata a far nascere un
bambino, come faceva sempre più spesso ora che non soffriva più di
emicrania.
“Quando torna la mamma?” dissi.
“Non lo so,” rispose il papà. “Tanto vale che lo chiedi al Signore: è Lui
che decide.” Ridacchiò, poi mi chiese: “Come va a scuola?”.
Io e il papà non ci eravamo più parlati dopo la sfuriata per il
videoregistratore. Capivo che stava cercando di venirmi incontro, ma non
sarei mai riuscita ad ammettere che non stavo passando gli esami. Volevo
far finta che andasse tutto bene. È facilissima, pensai di dire.
“Non molto bene,” risposi invece. “Non pensavo fosse così difficile.”
Ci fu un momento di silenzio e m’immaginai il volto severo del papà che
s’induriva. Mi aspettavo un colpo basso, invece sentii una voce sommessa
che diceva: “Andrà meglio, tesoro”.
“No,” dissi. “Non c’è nessuna borsa di studio. Non passerò nemmeno il
semestre.” Mi tremava la voce.
“Pazienza per le borse di studio,” disse. “Forse posso darti una mano io.
Troveremo un modo. Ma su col morale, okay?”
“Okay.”
“Torna pure a casa se hai bisogno.”
Riagganciai. Avevo sentito bene? Sapevo che non sarebbe durata, che la
volta dopo sarebbe stato tutto diverso. La tenerezza di quel momento
sarebbe stata solo un ricordo e l’eterno conflitto tra di noi sarebbe riemerso.
Ma quella sera voleva aiutarmi. E non era poco.
A marzo ci fu un altro esame di civiltà occidentale. Questa volta preparai
delle schede didattiche. Passai ore a memorizzare nomi strani, molti dei
quali francesi (la Francia, avevo scoperto, faceva parte dell’Europa).
Jacques-Louis David e François Boucher: non sapevo come si
pronunciavano ma se non altro sapevo scriverli.
Gli appunti che avevo preso a lezione erano incomprensibili, così chiesi a
Vanessa se potevo usare i suoi. Mi guardò dubbiosa e per un momento
pensai che mi avesse sorpreso a copiare durante l’esame. Disse che non mi
avrebbe dato i suoi appunti ma che potevamo studiare insieme, così dopo la
lezione andai nella sua stanza. Ci sedemmo per terra con le gambe
incrociate e i quaderni aperti davanti.
Cercai di leggere i miei appunti ma le frasi erano incomplete,
indecifrabili. “Lascia stare gli appunti,” disse Vanessa. “È più importante il
manuale.”
“Che manuale?”
“Il manuale,” disse Vanessa. Rise come se stessi scherzando. Mi
innervosii perché non era così.
“Io non ho nessun manuale,” risposi.
“Ma certo!” Alzò il grosso libro illustrato che avevo usato per
memorizzare titoli e artisti.
“Ah, quello. Sì, l’ho guardato.”
“L’hai guardato? Non l’hai letto?”
La fissai. Non capivo. Era un corso di musica e arte. Ci avevano dato dei
cd di musica da ascoltare e un libro con delle foto di quadri da guardare.
Non avevo pensato di leggere quel libro più di quanto avessi pensato di
leggere i cd.
“Credevo che dovessimo solo guardare le figure.” Quella frase sembrò
stupida quando la dissi a voce alta.
“Perciò quando il programma diceva di studiare da pagina cinquanta a
pagina ottantacinque, non hai pensato che dovevi leggerle?”
“Ho guardato le figure,” ripetei. Sembrò anche peggio la seconda volta.
Vanessa cominciò a sfogliare il libro, che all’improvviso aveva tutta l’aria
di essere un manuale.
“Allora è questo il tuo problema,” disse. “Devi leggere il manuale.” Lo
disse in tono sarcastico, come se quell’errore madornale, dopo tutto il resto
– dopo la battuta sull’Olocausto e il test che avevo copiato – fosse troppo e
non ne volesse più sapere di me. Disse che me ne dovevo andare; doveva
studiare per un altro corso. Presi il mio quaderno e uscii.
“Leggi il manuale” si dimostrò un ottimo consiglio. All’esame dopo presi
una B e verso la fine del semestre stavo collezionando una A dopo l’altra.
Era un miracolo, non sapevo in quale altro modo spiegarmelo. Studiavo
fino alle due o alle tre di notte ogni giorno, pensando che fosse il prezzo da
pagare per guadagnarmi l’appoggio di Dio. Andavo bene in storia, meglio
in inglese e benissimo in teoria musicale. Una borsa di studio completa era
improbabile, ma forse potevo vincerne una che copriva metà delle tasse.
All’ultima lezione di civiltà occidentale il professore annunciò che il
primo esame era stato un tale disastro che aveva deciso di annullarlo. E puf!
Il mio voto negativo era scomparso. Avevo voglia di tirare pugni nell’aria,
di battere un cinque con Vanessa. Poi mi ricordai che non si sedeva più
vicino a me.
19.
In principio

Alla fine del semestre tornai a Buck Peak. Nel giro di qualche settimana
la Brigham avrebbe comunicato i risultati, e allora avrei saputo se potevo
tornare in autunno.
Continuavo a scrivere sui miei diari che non sarei tornata in discarica.
Avevo bisogno di soldi – il papà avrebbe detto che ero più al verde di un
bosco a primavera –, così cercai di tornare da Stokes. Mi presentai un
pomeriggio all’ora di punta, quando sapevo che sarebbero stati a corto di
personale, e infatti quando entrai trovai il direttore che imbustava la spesa ai
clienti. Gli chiesi se voleva lasciar fare a me e mi guardò per ben tre
secondi, poi si sfilò il grembiule dalla testa e me lo porse. La vicedirettrice
mi fece l’occhiolino: era stata lei a consigliarmi di venire a quell’ora. C’era
qualcosa in Stokes – nelle sue corsie dritte e pulite e nel personale gentile –
che mi dava un senso di calma e felicità. È una cosa strana da dire di un
supermercato, ma mi sentivo a casa.
Il papà mi stava aspettando quando entrai dalla porta sul retro. Vide il
grembiule e disse: “Quest’estate lavori per me”.
“Lavoro da Stokes,” risposi.
“Ti credi troppo in gamba per i rifiuti?” Aveva alzato la voce. “Questa è
la tua famiglia. Il tuo posto è qui.”
Aveva il volto tirato, gli occhi iniettati di sangue. Usciva da un inverno
terribile. In autunno aveva investito un sacco di soldi in attrezzature nuove
– una scavatrice, una piattaforma aerea e un carrello saldatore. Adesso era
primavera e non gli restava più nulla. Luke aveva accidentalmente dato
fuoco al carrello, riducendolo in cenere; la piattaforma era caduta da un
rimorchio perché qualcuno – non chiesi mai chi – non l’aveva fissata bene;
e la scavatrice era finita nel mucchio di rottami quando Shawn, dopo averla
caricata su un gigantesco rimorchio, aveva preso una curva troppo
velocemente, facendo ribaltare sia il camion che il rimorchio. Con una
fortuna del diavolo, Shawn era riuscito a strisciare fuori da quel disastro,
anche se aveva battuto la testa e non ricordava cosa era accaduto nei giorni
prima dell’incidente. Camion, rimorchio e scavatrice erano andati distrutti.
Il papà aveva la determinazione scolpita sul volto. Era nella sua voce,
nella sua asprezza. Doveva tirarsi fuori da quel punto morto. Si era convinto
che se facevo parte della sua squadra ci sarebbero stati meno incidenti,
meno contrattempi. “Sei più lenta della pece che scorre in salita,” mi aveva
detto un sacco di volte. “Ma almeno non sfasci nulla.”
Non potevo accettare, sarebbe stato come fare un passo indietro. Ero
tornata a casa, nella mia vecchia stanza, alla mia vecchia vita. Se
ricominciavo a lavorare per il papà, a svegliarmi ogni mattina, infilarmi gli
scarponi dalla punta d’acciaio e trascinarmi in discarica, sarebbe stato come
se gli ultimi quattro mesi non fossero mai esistiti, come se non me ne fossi
mai andata.
Mi chiusi in camera mia. La mamma venne a bussare un momento dopo.
Entrò senza fare rumore e si sedette così delicatamente che quasi non sentii
il suo peso sul letto. Credevo che avrebbe detto la stessa cosa dell’ultima
volta, quando le avevo ricordato che avevo solo diciassette anni e lei mi
aveva detto che potevo restare.
“Hai l’opportunità di aiutare tuo padre,” disse. “Ha bisogno di te. Non lo
ammetterà mai, ma è così. Sta a te decidere.” Rimase zitta un momento, poi
aggiunse: “Ma se non lo aiuterai, non potrai stare qui. Dovrai vivere da
qualche altra parte”.
La mattina dopo, alle quattro, andai da Stokes e feci un turno di dieci ore.
Era di primo pomeriggio e pioveva a dirotto quando tornai a casa e trovai i
miei vestiti sul prato davanti. Li portai in casa. La mamma stava
mescolando oli in cucina e non disse nulla quando le passai accanto con le
mie maglie e i jeans gocciolanti.
Mi sedetti sul letto mentre l’acqua impregnava la moquette. Avevo
portato un telefono con me. Lo fissai, non sapendo bene che fare. Non
avevo nessuno da chiamare. Non avevo nessun posto dove andare e nessuno
da chiamare.
Feci il numero di Tyler nell’Indiana. “Non voglio lavorare in discarica,”
dissi quando rispose. La mia voce era rauca.
“Cos’è successo?” Sembrava preoccupato; pensava ci fosse stato un altro
incidente. “Stanno tutti bene?”
“Sì,” dissi. “Ma il papà dice che se voglio stare qui devo lavorare in
discarica, e non posso più farlo.” Avevo un tono acuto, innaturale. Mi
tremava la voce.
“Cosa vuoi che faccia?” disse Tyler.
Se ci ripenso adesso capisco che diceva sul serio, che mi stava chiedendo
come poteva aiutarmi, ma lì per lì le mie orecchie, solitarie e diffidenti,
sentirono qualcos’altro: Cosa ti aspetti che faccia? Cominciai a tremare. Mi
girava la testa. Tyler era stata la mia àncora di salvezza. Per anni l’avevo
visto come un’ultima spiaggia, come una leva d’emergenza che potevo
tirare se mi trovavo con le spalle al muro. Ma ora che l’avevo tirata capivo
che era inutile. In fondo non serviva a niente.
“Cos’è successo?” chiese di nuovo.
“Niente. Va tutto bene.”
Riagganciai e chiamai Stokes. Rispose la vicedirettrice. “Basta lavoro per
oggi?” disse allegramente. Le dissi che mi licenziavo, che mi dispiaceva,
poi misi giù il telefono. Aprii l’armadio e li trovai là, dove li avevo lasciati
quattro mesi prima: i miei scarponi da rottamatrice. Me li infilai. Era come
se non me li fossi mai tolti.
Il papà stava alzando un mucchio di lamiere col muletto. Bisognava
mettere dei ceppi di legno sul rimorchio per permettergli di vuotare il
carico. Come mi vide, abbassò le lamiere per farmi salire, e lo accompagnai
a portare il carico verso il rimorchio.
I miei ricordi dell’università sbiadirono in fretta. Il grattare delle matite
sulla carta, il clac del proiettore che scattava alla diapositiva successiva, il
trillo della campanella che indicava la fine della lezione – tutto fu soffocato
dal fracasso del ferro e dal ruggire dei motori diesel. Dopo un mese in
discarica la Brigham sembrava un sogno, un’illusione. Adesso ero sveglia.
Le mie giornate ripresero la stessa routine di un tempo: dopo colazione
smistavo i rottami o staccavo il rame dai termosifoni. Se i ragazzi erano in
cantiere, a volte andavo a guidare la ruspa, il muletto o la gru. A pranzo
aiutavo la mamma a cucinare e a lavare i piatti, poi tornavo alla discarica o
al muletto.
L’unica cosa che era cambiata era Shawn. Non era come me lo ricordavo.
Non diceva mai una parola offensiva, sembrava in pace con se stesso. Stava
studiando per prendere l’attestato di diploma equivalente e una sera, mentre
tornavamo in macchina da un lavoro, mi disse che avrebbe provato un
semestre a un college locale. Voleva studiare legge.
Quell’estate davano uno spettacolo al Worm Creek Opera House e io e
Shawn comprammo dei biglietti. Vidi che c’era anche Charles, seduto
alcune file più avanti. Durante un intervallo, mentre Shawn era andato a
chiacchierare con una ragazza, mi si avvicinò. Per la prima volta riuscii a
non fare scena muta. Pensai a Shannon e a come parlava con la gente in
chiesa, allegra e amichevole, al modo in cui rideva e sorrideva. Fai come
Shannon, pensai. E per cinque minuti lo feci.
Charles mi guardava in modo strano, come avevo visto gli uomini
guardare Shannon. Mi chiese se sabato volevo vedere un film insieme a lui.
Il film che proponeva era volgare, pacchiano, non avrei mai voluto vederlo,
ma in quel momento ero Shannon e così dissi che mi sarebbe piaciuto
moltissimo.
Sabato sera cercai di fare come Shannon. Il film era terribile, peggio di
quel che pensavo, il tipo di film che solo un infedele avrebbe guardato. Ma
facevo fatica a vedere Charles come un infedele. Charles era solo Charles.
Pensai di dirgli che era un film immorale, che non doveva guardare certe
cose, ma – sempre per fare come Shannon – non dissi nulla e sorrisi quando
mi chiese se mi andava un gelato.
Shawn era l’unico ancora sveglio quando tornai a casa. Entrai col sorriso
sulle labbra. Shawn mi prese un po’ in giro dicendo che avevo un fidanzato,
e lo disse scherzosamente, per farmi ridere. Disse che Charles aveva buon
gusto, che ero la persona più perbene che conosceva, poi andò a letto.
Una volta in camera mi guardai a lungo allo specchio. La prima cosa che
notai furono i miei jeans da uomo, così diversi dai jeans che indossavano le
altre ragazze. La seconda fu che la mia camicia era troppo larga e mi faceva
sembrare più robusta di quant’ero in realtà.
Charles chiamò alcuni giorni dopo. Ero in camera mia dopo una giornata
passata a costruire un tetto. Puzzavo di acquaragia ed ero ricoperta di
polvere color cenere, ma lui non poteva saperlo. Parlammo per due ore.
Chiamò la sera dopo, e quella dopo ancora. Mi propose di andare a
mangiare un hamburger venerdì.
Giovedì, dopo aver finito di lavorare in discarica, guidai per
sessantacinque chilometri fino al Walmart più vicino e mi comprai un paio
di jeans da donna e due camicie azzurre. Quando me li provai e vidi come il
mio corpo si stringeva e si curvava, quasi non mi riconobbi. Me li tolsi
subito, trovandoli in qualche modo indecenti. Non lo erano, almeno non
tecnicamente, ma il fatto che volessi mettere in mostra il mio corpo era
indecente a prescindere dai vestiti.
Il pomeriggio dopo, finito il lavoro, corsi a casa. Mi feci una doccia per
togliere ogni traccia di sporco, sdraiai i vestiti nuovi sul letto e li guardai.
Diversi minuti dopo, li indossai e rimasi di nuovo a bocca aperta. Non c’era
tempo per cambiarsi, così m’infilai un giubbino anche se faceva caldo e a
un certo punto, anche se non so dire quando o perché, decisi che in fondo
non mi serviva il giubbino. Per il resto della serata non dovetti ricordarmi di
fare come Shannon. Parlai e risi con naturalezza.
Quella settimana io e Charles ci vedemmo tutte le sere. Andammo in
parchi pubblici e gelaterie, fast food e stazioni di rifornimento. Lo portai da
Stokes perché era un posto che adoravo e perché la vicedirettrice mi dava
sempre i bomboloni invenduti dal reparto panetteria. Parlammo di musica –
di gruppi che non avevo mai sentito e del suo sogno di diventare musicista e
girare il mondo. Non parlammo mai di noi, se eravamo amici o
qualcos’altro. Avrei voluto che tirasse fuori l’argomento, ma non lo fece.
Avrei voluto che me lo facesse capire in qualche modo – prendendomi
delicatamente la mano o mettendomi un braccio sulle spalle –, ma non fece
nemmeno quello.
Venerdì restammo in giro fino a tardi e al mio ritorno la casa era buia. Il
computer della mamma era acceso e lo screensaver spargeva una luce verde
per la sala. Mi sedetti e controllai meccanicamente il sito internet della
Brigham. Erano usciti i risultati. Avevo passato gli esami. Non solo: avevo
preso il massimo dei voti in ogni materia tranne civiltà occidentale. Avevo
diritto a una borsa di studio per metà delle tasse. Potevo tornare.
Io e Charles passammo il pomeriggio seguente al parco a dondolarci
pigramente sulle altalene fatte con gli pneumatici. Gli dissi della borsa di
studio. Avrei voluto vantarmi, ma per qualche motivo vennero a galla le mie
paure. Dissi che non dovevo nemmeno essere al college, che prima avrei
dovuto finire le superiori. O quantomeno cominciarle.
Charles rimase seduto in silenzio e non disse nulla per diverso tempo. Poi
disse: “Sei arrabbiata perché i tuoi genitori non ti hanno mandato a
scuola?”.
“È stato un vantaggio!” dissi quasi gridando. Fu una risposta istintiva. Fu
come sentire una frase di una canzone orecchiabile: non potei fare a meno
di recitare la frase successiva. Charles mi guardò scetticamente, come per
chiedermi cosa c’entrava con quello che avevo detto un momento prima.
“Be’, io sono arrabbiato,” disse. “Anche se tu non lo sei.”
Rimasi zitta. Non avevo mai sentito nessuno criticare mio padre a parte
Shawn e non sapevo come rispondere. Volevo dire a Charles degli
Illuminati, ma quelle parole appartenevano a mio padre e anche solo a
pensarci sembravano goffe, innaturali. Mi vergognai di non saperle
padroneggiare. Ero convinta – e una parte di me lo sarebbe sempre stata –
che le parole di mio padre dovessero essere le mie.
Ogni sera, per un mese, quando tornavo dalla discarica passavo un’ora a
togliermi lo sporco da sotto le unghie e dalle orecchie. Mi spazzolavo i
grovigli di capelli e mi truccavo goffamente. Mi spalmavo manciate di
crema sui polpastrelli per ammorbidire i calli, pensando che forse quella
sera Charles mi avrebbe toccato le mani.
Quando finalmente lo fece, era sera presto ed eravamo nella sua jeep.
Stavamo andando a casa sua a guardare un film. Avevamo quasi affiancato
il Fivemile Creek, quando allungò una mano sul cambio e l’appoggiò sulla
mia. La sua mano era calda e avrei voluto toccarla, invece sobbalzai come
se mi fossi scottata. Fu una reazione involontaria e sperai subito che la
riappoggiasse. Ma successe di nuovo quando ci riprovò. Il mio corpo scattò,
ubbidendo a un istinto strano e potente.
Quest’istinto mi attraversò sotto forma di una parola, di un testo
sfacciato, forte, assertivo. Non era una parola nuova. Mi accompagnava da
un po’, silenziosa, immobile, come addormentata in un angolo remoto della
mia memoria. Toccandomi, Charles l’aveva risvegliata e ora pulsava di vita.
Infilai le mani sotto le ginocchia e mi appoggiai al finestrino. Non potevo
lasciarlo avvicinare – non quella sera, né nessun’altra sera per mesi – senza
che quella parola, la mia parola, riaffiorasse dai ricordi. Puttana.
Arrivammo a casa sua. Charles accese la tv e ci mettemmo sul divano. Mi
piegai leggermente di lato. Le luci si abbassarono, partirono i titoli di testa.
Charles si spostò verso di me, lentamente all’inizio, poi con più sicurezza,
fino a sfiorarmi con una gamba. Nella mia mente partii a razzo, corsi mille
chilometri in un battito di ciglia. Nella realtà sussultai e basta. Anche
Charles sussultò: l’avevo spaventato. Mi riposizionai, spostando il corpo sul
bracciolo del divano, chiudendomi a riccio e allontanandomi da lui. Tenni
quella posa innaturale per una ventina di secondi, finché Charles capì, sentì
le parole che non riuscivo a dire e si sedette sul pavimento.
20.
Racconti dei padri

Charles fu il mio primo amico di quell’altro mondo, quello da cui mio


padre aveva cercato di proteggermi. Era convenzionale in tutti i modi e per
tutti i motivi per cui mio padre disprezzava la convenzionalità: parlava di
calcio e di gruppi rock più che della Fine dei Giorni, amava tutto della
scuola superiore, andava in chiesa ma (come la maggior parte dei mormoni)
se si ammalava poteva chiamare sia un prete mormone che un dottore.
Non potendo conciliare il suo mondo col mio, li tenevo separati. Ogni
sera aspettavo di vedere la sua jeep rossa fuori dalla finestra e, come
compariva lungo la statale, correvo alla porta. Quando arrivava sobbalzando
sulla collina mi trovava fuori sul prato e, prima che potesse scendere, ero
già sulla jeep a litigare con lui per la cintura di sicurezza. (Si rifiutava di
guidare se non me l’allacciavo.)
Una volta arrivò in anticipo e bussò alla porta. Farfugliai nervosamente
delle presentazioni. La mamma stava mescolando bergamotto e ylang-
ylang, facendo scattare le dita per testare le proporzioni. Salutò Charles ma
senza fermare le dita. Quando lui mi lanciò uno sguardo interrogativo, la
mamma spiegò che Dio le parlava attraverso le dita. “Ieri ho verificato che
oggi mi sarebbe venuta l’emicrania se non facevo un bagno di lavanda,”
disse. “Così ho fatto il bagno e indovina un po’? Niente mal di testa!”
“I dottori non sanno curare l’emicrania prima che si manifesti,”
intervenne il papà. “Il Signore sì!”
Mentre andavamo verso la sua jeep, Charles disse: “C’è sempre
quell’odore in casa tua?”.
“Che odore?”
“Come di verdure marce.”
Alzai le spalle.
“Impossibile che non l’hai sentito,” disse. “Era fortissimo. L’ho sentito
altre volte. Su di te. Ce l’hai sempre addosso. Merda, ora mi sa che ce l’ho
addosso anch’io.” Si annusò la camicia. Rimasi zitta. Non avevo sentito
nessun odore.
Il papà disse che stavo diventando “presuntuosa”. Non gli piaceva che
corressi a casa appena finito di lavorare in discarica, né che mi togliessi
ogni traccia di unto prima di uscire con Charles. Sapeva che avrei preferito
imbustare la spesa da Stokes che guidare la ruspa a Blackfoot, la cittadina
polverosa un’ora più a nord dove il papà stava costruendo una stalla di
mungitura. Lo infastidiva sapere che volevo essere altrove, vestita come
qualcun altro.
Al cantiere di Blackfoot s’inventava delle strane mansioni da affidarmi,
come se pensasse che in questo modo mi sarei ricordata chi ero. Una volta,
mentre eravamo a quasi dieci metri da terra ad arrampicarci sugli arcarecci
del tetto incompiuto, senza imbracature perché non le usavamo mai, si
accorse di aver lasciato il tracciatore a filo dall’altra parte dell’edificio.
“Vammi a prendere quel tracciatore, Tara,” disse. Studiai il percorso. Per
recuperarlo avrei dovuto saltare di trave in trave, una quindicina in tutto e
distanti oltre un metro l’una dall’altra, e poi ripetere la cosa in senso
inverso. Era esattamente il genere di mansione che di solito Shawn
commentava con un: “Tara non lo farà”.
“Shawn, mi porti tu col muletto?”
“Guarda che puoi farcela,” rispose Shawn. “Sempre che la tua scuola
sciccosa e il tuo fidanzato sciccoso non ti abbiano reso troppo intelligente
per questo.” Il volto gli s’indurì in un modo che mi era nuovo e nello stesso
tempo famigliare.
Vacillai lungo un arcareccio, raggiungendo la trave portante all’estremità
della stalla. Questo in un certo senso era più pericoloso, perché se cadevo
sulla destra non ci sarebbero stati arcarecci a fermarmi. Ma la trave portante
era più grossa e potevo camminarci sopra come un funambolo.
Fu così che il papà e Shawn diventarono soci, pur essendo d’accordo su
una sola cosa: che il mio incontro ravvicinato con la scuola mi aveva reso
presuntuosa e che bisognava riportarmi indietro nel tempo. Bisognava
fissarmi, ancorarmi a una versione precedente di me.
Shawn ci sapeva fare con le parole, soprattutto quando si trattava di
definire gli altri. Cominciò a setacciare il suo repertorio di soprannomi.
“Ragazzotta” fu il suo preferito per alcune settimane. “Ragazzotta, vammi a
prendere una mola,” gridava, oppure “Alza il braccio della ruspa,
ragazzotta!”. Poi mi studiava il volto in cerca di una reazione. Non la
trovava mai. Allora provò con “Scrofa”. Perché mangiavo un sacco, disse.
“Guarda un po’ ’sta maiala,” gridava con un fischio quando mi chinavo a
fissare una vite o a controllare una misurazione.
Shawn cominciò ad attardarsi fuori casa dopo che avevamo finito di
lavorare. Credo che volesse stare vicino al vialetto quando Charles passava
di là in macchina. Sembrava che dovesse sempre cambiare l’olio al furgone.
La prima sera che rimase là, corsi fuori e saltai sulla jeep prima che potesse
dire una parola. La sera dopo fu più veloce. “Tara non è bellissima?” gridò a
Charles. “Due occhi da pesce, e quasi la stessa intelligenza.” Era una
vecchia battuta, ormai abusata. Sapendo che non avrei reagito in cantiere,
l’aveva tenuta in serbo sperando che di fronte a Charles potesse avere
qualche effetto.
La sera dopo: “Uscite a cena? Attento a non toccare il cibo della Scrofa, o
ti troverai spiaccicato sull’asfalto”.
Charles non rispondeva mai. Era come se tra noi ci fosse il tacito accordo
che la serata sarebbe cominciata nel momento il cui la montagna
scompariva dallo specchietto retrovisore. Nell’universo che esploravamo
insieme c’erano stazioni di servizio e cinema, c’erano auto che
punteggiavano la statale come ninnoli, piene di persone che ridevano,
strombazzavano e salutavano con le mani, perché la città era piccola e tutti
conoscevano Charles. C’erano sterrati polverosi di gesso bianco, canali
dello stesso colore dello stufato di manzo e campi di grano di un bronzo
incandescente. Ma non c’era nessun Buck Peak.
Di giorno c’era solo quello – il Buck Peak, e il cantiere di Blackfoot. Io e
Shawn passammo quasi una settimana intera a preparare arcarecci per finire
il tetto della stalla. Usammo un macchinario grosso quanto una roulotte per
sagomarli a Z, poi attaccammo delle spazzole metalliche alle molatrici e
togliemmo la ruggine per poterli verniciare. Quando la vernice fu asciutta li
ammucchiammo accanto all’officina, ma nel giro di un giorno o due il
vento che soffiava dal picco li ricoprì di una polvere nera, che si trasformò
in sporco a contatto con gli oli presenti sul ferro. Shawn disse che andavano
lavati prima di poterli caricare, così andai a prendere uno straccio e un
secchio d’acqua.
Era una giornata caldissima e avevo la fronte imperlata di sudore. Mi si
ruppe la fascia per i capelli. Non ne avevo un’altra con me. Il vento che
soffiava dalla montagna mi faceva finire i capelli negli occhi e dovevo
scostarmeli di continuo. Avevo le mani sporche di grasso e ogni volta che
mi toccavo la faccia lasciavo un segno nero.
Quando finii di pulire gli arcarecci chiamai Shawn. Comparve da dietro
un profilato e si alzò la visiera dell’elmetto. Come mi vide fece un gran
sorriso. “La nostra Negra è tornata!” disse.
L’estate che io e Shawn avevamo lavorato col Trinciante c’era stato un
pomeriggio in cui mi ero asciugata il sudore dalla faccia così tante volte
che, al momento di rientrare per cena, avevo il naso e le guance
completamente neri. Fu quella la prima volta che Shawn mi chiamò
“Negra”. Quella parola mi sorprese ma non era del tutto nuova. L’avevo già
sentita usare dal papà, quindi in un certo senso sapevo cosa significava. Ma
in un altro senso non lo sapevo affatto. Avevo visto una sola persona di
colore nella mia vita, una bambina, la figlia adottiva di una famiglia che
veniva in chiesa. Era evidente che il papà non si riferiva a lei.
Shawn mi aveva chiamato Negra per tutta l’estate: “Negra, corri a
prendermi quei morsetti a C!” oppure “È ora di pranzo, Negra!”. Non c’era
tregua.
Poi tutto era cambiato: ero andata all’università, dove ero entrata in un
auditorium e avevo ascoltato con gli occhi sbarrati e la testa ronzante certe
lezioni di storia americana. Il professore, il dottor Richard Kimball, aveva
una voce sonora e contemplativa. Conoscevo lo schiavismo, ne avevo
sentito parlare dal papà e avevo letto qualcosa sul suo libro preferito sulla
fondazione dell’America. Avevo letto che durante l’epoca coloniale gli
schiavi erano più felici e più liberi dei loro padroni, perché i padroni
dovevano accollarsi i costi del loro mantenimento. Mi era sembrata una
cosa sensata.
Il giorno in cui il professor Kimball tenne una lezione sullo schiavismo,
proiettò sullo schermo un disegno a carboncino di un mercato di schiavi. Lo
schermo era largo e dominava l’auditorium come in una sala
cinematografica. Il disegno era caotico. Alcune donne incatenate, nude o
seminude, erano in piedi circondate dagli uomini. Il proiettore scattò.
L’immagine successiva era una vecchia fotografia in bianco e nero, sbiadita
e sovraesposta. Era un’immagine iconica. Un uomo era seduto a torso nudo
e mostrava alla macchina fotografica una serie di cicatrici incrociate e in
rilievo. La carne era così martoriata da non sembrare quasi più carne.
Nelle settimane seguenti vidi molte altre immagini. Avevo sentito parlare
della Grande Depressione anni prima, quand’avevo recitato nella parte di
Annie, ma le diapositive di uomini in cappelli e lunghi soprabiti in fila
davanti alle mense per i poveri erano una novità. Quando il professor
Kimball tenne una lezione sulla Seconda guerra mondiale, sullo schermo
comparvero file di aerei da combattimento inframmezzate alle rovine
scheletriche di città bombardate. Ogni tanto si vedevano dei volti.
Roosevelt, Hitler, Stalin. Poi la Seconda guerra mondiale svanì insieme alle
luci del proiettore.
La volta dopo che entrai nell’auditorium c’erano delle facce nuove sullo
schermo, ed erano di colore. Non si era più visto un nero su quello schermo
– o almeno così mi sembrava – dalle lezioni sullo schiavismo. Mi ero
dimenticata di loro, di questi altri americani che per me erano degli
sconosciuti. Non mi ero chiesta com’era finita la schiavitù: pensavo
semplicemente che tutti avessero ascoltato il richiamo della giustizia e che
la questione si fosse risolta così.
Era questo il mio stato d’animo quando il professor Kimball cominciò a
parlare di una cosa chiamata movimento per i diritti civili. Sullo schermo
comparve una data: 1963. Pensai che ci fosse un errore. Ricordavo che il
Proclama di Emancipazione era stato promulgato nel 1863. Non sapevo
spiegarmi quei cento anni in più, così pensai che fosse un errore di battitura.
Copiai la data sui miei appunti con un punto interrogativo, ma quando sullo
schermo comparvero delle altre fotografie non ci furono più dubbi sul
secolo che intendeva il professore. Le foto erano in bianco e nero ma i loro
soggetti erano moderni – vivaci, ben definiti. Non erano aridi fotogrammi di
un’altra epoca; restituivano il movimento. Marce. Polizia. Pompieri che
puntavano idranti sui giovani.
Il professor Kimball citò dei nomi che non avevo mai sentito. Cominciò
con Rosa Parks. Comparve l’immagine di un poliziotto che premeva il dito
di una donna su una spugna imbevuta d’inchiostro. Il professor Kimball
spiegò che questa donna aveva occupato un posto su un autobus. Lo disse
come se avesse rubato quel posto, anche se sembrava una cosa strana da
rubare.
L’immagine lasciò il posto all’istantanea di un bambino di colore in
camicia bianca, cravatta e cappello a tesa tonda. Non conoscevo la sua
storia. Stavo ancora pensando a Rosa Parks e a come fosse possibile rubare
un posto sull’autobus. Poi comparve l’immagine di un cadavere e sentii il
professor Kimball che diceva: “Hanno tirato fuori il suo corpo dal fiume”.
C’era una data sotto l’immagine: 1955. Mi resi conto che la mamma
aveva quattro anni nel 1955 e in quell’istante la distanza tra me ed Emmett
Till evaporò. La mia vicinanza a quel bambino assassinato era misurabile
nelle vite di persone che conoscevo. Non era un calcolo che aveva come
coordinate grandi cambiamenti storici o geologici, come il crollo delle
civiltà o l’erosione delle montagne. Si misurava nel corrugarsi della pelle
umana. Nelle rughe sul volto di mia madre.
Il nome successivo era Martin Luther King. Non avevo mai visto la sua
faccia né sentito il suo nome, e mi ci volle un po’ per capire che il professor
Kimball non si riferiva a Martin Lutero, di cui avevo sentito parlare. Ci misi
diversi minuti a collegare il nome all’immagine sullo schermo, in cui un
uomo di colore era in piedi di fronte a un tempio di marmo bianco,
circondato da una grande folla. Avevo appena cominciato a capire chi era e
perché stava parlando, quando mi dissero che era stato ucciso. Ero ancora
sufficientemente ignorante per sorprendermi.
“La nostra Negra è tornata!”
Non so cosa vide Shawn sul mio volto – se shock, rabbia o
un’espressione assente. Qualunque cosa fosse, gli piacque. Aveva trovato
una vulnerabilità, un punto debole. Era troppo tardi per far finta di niente.
“Non chiamarmi così,” dissi. “Non sai cosa vuol dire.”
“Certo che lo so,” disse lui. “Hai la faccia tutta nera, come una negra!”
Per il resto del pomeriggio, e per il resto dell’estate, fui “la Negra”. Fino
ad allora avevo sempre fatto finta di niente. Al limite la cosa mi faceva
sorridere e pensare che Shawn fosse intelligente. Adesso avevo voglia di
tappargli la bocca. O di farlo sedere con un libro di storia davanti, purché
non fosse quello che il papà teneva ancora in sala, sotto la copia
incorniciata della Costituzione.
Non sapevo esprimere a parole come mi sentivo. Shawn usava quel
soprannome per umiliarmi, per inchiodarmi a una vecchia idea di me stessa.
Ma anziché bloccarmi, quella parola mi portava lontano. Ogni volta che la
diceva – “Ehi Negra, alza il braccio della ruspa” o “Vammi a prendere una
livella, Negra” – tornavo all’università, in quell’auditorium, dove avevo
visto dischiudersi la storia dell’umanità e mi ero chiesta che posto occupassi
al suo interno. Ogni volta che Shawn gridava “Passa all’altra fila, Negra”
mi tornavano in mente le vicende di Emmett Till, Rosa Parks e Martin
Luther King. Quell’estate vidi i loro volti impressi su ogni trafilato che
Shawn saldava in posizione, tanto che verso la fine cominciai a capire una
cosa che avrebbe dovuto essere subito evidente: che qualcuno si era opposto
alla grande marcia per l’uguaglianza. Qualcuno aveva negato la libertà a
quelle persone.
Non pensavo che fosse il caso di mio fratello, né credo che lo penserò
mai. Ma qualcosa era cambiato. Avevo cominciato ad accorgermi di una
cosa fondamentale che riguardava mio fratello, mio padre, me stessa. Avevo
capito che eravamo stati scolpiti da una tradizione che ci era stata data da
altri, una tradizione di cui eravamo volutamente o accidentalmente
all’oscuro. Mi ero resa conto che avevamo prestato le nostre voci a un
discorso il cui unico scopo era quello di disumanizzare e abbrutire gli altri –
perché era più facile alimentare quel discorso, perché conservare il potere
sembra sempre la strada migliore.
Non avrei saputo esprimere queste cose, non mentre sudavo dentro la
ruspa in quei pomeriggi cocenti. Non avevo la capacità di linguaggio che ho
adesso. Ma capii una cosa: che se mi avevano chiamato Negra un miliardo
di volte e avevo riso, adesso non potevo più ridere. La parola e il modo in
cui Shawn la usava non erano cambiati; solo le mie orecchie erano diverse.
Non sentivano uno scherzo. Quello che sentivano era un avvertimento, un
richiamo che veniva da lontano, e che riceveva una risposta sempre più
convinta: non avrei mai più accettato di essere un soldato in una guerra che
non capivo.
21.
Scutellaria

Il papà mi pagò il giorno prima di tornare alla Brigham. Non poté darmi
quello che aveva promesso, ma i soldi sarebbero bastati a coprire la mia
metà delle tasse universitarie. Trascorsi il mio ultimo giorno nell’Idaho
insieme a Charles. Era domenica, ma non andai in chiesa. Avevo mal
d’orecchi da due giorni e durante la notte il dolore era aumentato
diventando una fitta costante e pungente. Avevo la febbre. Non ci vedevo
bene e i miei occhi erano sensibili alla luce. Fu allora che mi chiamò
Charles. Avevo voglia di andare da lui? Dissi che non riuscivo a guidare.
Mi venne a prendere un quarto d’ora dopo.
Mi coprii le orecchie con le mani e sprofondai sul sedile, poi mi tolsi il
giubbino e me lo misi sulla testa per schermare la luce. Charles mi chiese
che medicine avevo preso.
“Lobelia,” dissi. “E scutellaria.”
“Non credo che funzionino.”
“Invece sì. Ci mettono qualche giorno.”
Inarcò le sopracciglia ma non disse nulla.
La casa di Charles era ordinata e spaziosa, con grandi finestre luminose e
pavimenti scintillanti. Mi ricordava la casa della nonna in città. Mi sedetti
su uno sgabello e premetti la fronte sul bancone freddo. Sentii il cigolio di
un armadietto che si apriva e il pop di un coperchio di plastica. Quando
aprii gli occhi, davanti a me c’erano due pastiglie rosse.
“Questo è quello che prendono tutti quando hanno male da qualche
parte,” disse Charles.
“Noi no.”
“Noi chi?” disse Charles. “Parti domani. Non sei più una di loro.”
Chiusi gli occhi, sperando che la smettesse.
“Cosa credi che ti succeda se prendi le pastiglie?” disse.
Non risposi. Non sapevo cosa sarebbe successo. La mamma diceva
sempre che i medicinali erano un tipo particolare di veleno che ti restava nel
corpo e ti faceva marcire lentamente dall’interno per il resto dei tuoi giorni.
Diceva che se prendevo una medicina adesso, anche a distanza di dieci anni
i miei figli avrebbero avuto delle deformazioni.
“Tutti prendono le medicine per il dolore,” disse Charles. “È normale.”
Credo che feci una smorfia alla parola “normale”, perché si azzittì.
Riempì un bicchiere d’acqua e me lo mise davanti, poi spinse delicatamente
le pastiglie verso di me finché mi toccarono il braccio. Ne alzai una. Non
avevo mai visto una pastiglia da vicino. Era più piccola di quel che
pensavo.
La buttai giù. Prima una e poi l’altra.
Da quel che ricordavo, ogni volta che avevo male da qualche parte, per un
taglio piuttosto che per un mal di denti, la mamma preparava una tintura di
lobelia e scutellaria. Non aveva mai fatto passare il dolore, nemmeno un
po’. Per questo motivo avevo imparato a rispettare il dolore, al punto da
considerarlo necessario e intoccabile.
Venti minuti dopo aver buttato giù le pastiglie rosse, il mal d’orecchi era
sparito. Non capivo come fosse possibile. Passai il pomeriggio a dondolare
la testa da una parte all’altra nel tentativo di richiamare il dolore. Pensavo
che forse, se gridavo abbastanza forte o mi muovevo abbastanza veloce, il
mal d’orecchi sarebbe tornato e avrei capito che in fondo la medicina era
stata una truffa.
Charles mi guardava in silenzio ma dovette trovare assurdo il mio
comportamento, specialmente quando cominciai a tirarmi l’orecchio, che
mi doleva ancora debolmente, per testare i limiti di quella stregoneria.
La mamma doveva accompagnarmi alla Brigham la mattina dopo, ma
durante la notte la chiamarono per un parto. C’era una macchina nel vialetto
– una Kia Sephia che il papà aveva comprato da Tony alcune settimane
prima. Le chiavi erano nel cruscotto. Ci caricai sopra le mie cose e partii
per lo Utah, calcolando che la macchina avrebbe a malapena ripagato i soldi
che mi doveva il papà. Credo che lo capì anche lui perché non tirò mai fuori
l’argomento.
Mi trasferii in un appartamento a circa ottocento metri dall’università.
Avevo delle nuove coinquiline. Robin era alta e atletica, e la prima volta
che la vidi indossava un paio di pantaloncini da corsa decisamente troppo
corti, ma non la guardai a bocca aperta. Jenni stava bevendo una Diet Coke
quando la conobbi. Non fissai nemmeno lei, perché avevo visto spesso
Charles bere quelle bibite.
Robin era la più grande e per qualche motivo era protettiva nei miei
confronti. Sembrava capire che se facevo dei passi falsi era per ignoranza e
non perché lo volessi, e mi correggeva garbatamente ma con fermezza. Mi
disse apertamente cosa dovevo fare o non fare per andare d’accordo con le
altre ragazze dell’appartamento. Niente cibo andato a male negli armadietti
o piatti sporchi nel lavandino.
Mi spiegò queste cose durante una riunione di casa. Quando finì, un’altra
coinquilina, Megan, si schiarì la gola.
“Vorrei ricordare a tutte di lavarsi le mani dopo aver usato il bagno,”
disse. “E non solo con l’acqua, ma col sapone.”
Robin alzò gli occhi al cielo. “Sono sicura che qui tutte si lavano le
mani.”
Quella sera, quando uscii dal bagno, mi fermai al lavandino e mi lavai le
mani. Col sapone.
Le lezioni cominciavano il giorno dopo. Charles aveva compilato il mio
piano di studi. Mi aveva iscritto a due corsi di musica e uno di religione, nei
quali secondo lui non avrei avuto problemi. Poi mi aveva iscritto a due corsi
più impegnativi – algebra, che mi terrorizzava, e biologia, che non mi
terrorizzava ma solo perché non sapevo cos’era.
Algebra rischiò di mandare a monte la mia borsa di studio. Il professore
mormorava in maniera impercettibile durante le lezioni, andando su e giù
davanti alla lavagna. Non ero l’unica a sentirsi smarrita, ma lo ero più degli
altri. Charles provò ad aiutarmi, ma stava cominciando il suo ultimo anno
alle superiori e aveva il suo bel daffare in classe. In ottobre ci fu l’esame di
metà semestre e non lo passai.
Smisi di dormire. Restavo sveglia fino a tardi a torcermi i capelli e a
scervellarmi sul libro di testo, poi andavo a letto e rimuginavo sui miei
appunti. Mi vennero delle ulcere allo stomaco. Una volta Jenni mi trovò
raggomitolata sul prato di qualcuno, a metà strada tra il campus e il nostro
appartamento. Avevo lo stomaco in fiamme e tremavo dal dolore, ma non le
permisi di portarmi in ospedale. Rimase seduta mezz’ora insieme a me, poi
mi accompagnò pian piano a casa.
I dolori allo stomaco peggiorarono, facendosi brucianti di notte e
impedendomi di dormire. Mi servivano i soldi per l’affitto, così trovai
lavoro come custode del dipartimento di ingegneria. Il mio turno
cominciava ogni mattina alle quattro. Tra le ulcere e il lavoro come custode,
praticamente non chiudevo occhio. Jenni e Robin continuavano a ripetermi
che dovevo andare da un dottore, ma non lo feci. Dissi che sarei tornata a
casa per il giorno del Ringraziamento e che mi avrebbe curato mia madre.
Si scambiarono delle occhiate nervose ma rimasero zitte.
Secondo Charles avevo un comportamento autodistruttivo, una difficoltà
quasi patologica a chiedere aiuto. Stavamo parlando al telefono e me lo
disse con una voce così bassa che sembrava un sussurro.
Gli dissi che era matto.
“Allora vai a parlare col tuo docente di algebra,” disse. “Stai andando
male. Chiedi aiuto.”
Non mi era mai venuto in mente di parlare con un docente, non sapevo
che potessimo farlo, così decisi di provare, anche solo per dimostrare a
Charles che ne ero capace.
Bussai alla porta del suo ufficio poco prima del giorno del
Ringraziamento. Sembrava più basso in quell’ufficio rispetto a quand’era
nell’aula magna, e più luminoso: la luce sulla scrivania gli si rifletteva sulla
testa e sugli occhiali. Stava sfogliando certe carte e non alzò lo sguardo
quando mi sedetti. “Se non passo questo corso,” dissi, “perderò la borsa di
studio.” Non spiegai che senza borsa di studio non avrei potuto tornare.
“Mi dispiace,” rispose, quasi senza guardarmi. “Ma questa è una scuola
difficile. Forse è meglio se torni quando sarai più grande. O se ti
trasferisci.”
Non capivo cosa intendesse con “trasferirsi”, così non dissi nulla. Feci
per andarmene e per qualche motivo questo lo addolcì. “A dire la verità,”
disse, “un sacco di studenti stanno andando male.” Si appoggiò allo
schienale della sedia. “Senti qua: l’esame finale verterà sull’intero corso.
Annuncerò in classe che chi prenderà il punteggio massimo a quest’esame –
non un novantotto, ma un cento – avrà una A, indipendentemente da com’è
andato l’esame di metà semestre. Può andare?”
Dissi di sì. Era un azzardo, ma ero la regina degli azzardi. Chiamai
Charles. Gli dissi che tornavo nell’Idaho per il giorno del Ringraziamento e
che mi serviva un insegnante di algebra. Disse che sarebbe venuto a
prendermi a Buck Peak.
22.
Sussurri e grida

Quando arrivai a Buck Peak, la mamma stava preparando la cena per il


giorno del Ringraziamento. Il grande tavolo di quercia era pieno di barattoli
di tinture e boccette di oli essenziali, che spostai altrove. Sarebbe venuto
anche Charles.
Shawn era di cattivo umore. Si sedette su una panca attorno al tavolo e mi
guardò prendere le bottigliette e metterle via. Avevo lavato il servizio di
porcellana della mamma, che non era mai stato usato, e cominciai ad
apparecchiare la tavola studiando la distanza tra ogni piatto e coltello.
Shawn era infastidito da tante premure. “È solo Charles,” disse. “Non ha
grandi pretese. Non starebbe con te altrimenti.”
Andai a prendere i bicchieri. Quando gliene misi uno davanti, mi piantò
un dito nelle costole, spingendo con forza. “Non toccarmi!” strillai. Poi la
stanza si capovolse. Fui sollevata da terra e portata di corsa in sala, lontano
dagli occhi della mamma.
Shawn mi girò di schiena e mi si sedette sulla pancia, immobilizzandomi
le braccia sui fianchi con le ginocchia. L’urto del suo peso mi svuotò i
polmoni. Mi premette un avambraccio sulla trachea. Annaspai cercando di
prendere fiato per gridare, ma le vie aeree erano bloccate.
“Se ti comporti da bambina, mi costringi a trattarti come tale.”
Lo disse a voce alta, quasi gridando. Lo stava dicendo a me, ma non lo
stava dicendo per me. Lo stava dicendo per la mamma, per mettere in
chiaro le cose: ero una bambina che si comportava male e lui stava
sgridando quella bambina. La pressione sulla trachea si allentò e provai un
delizioso senso di pienezza ai polmoni. Sapeva che non avrei chiamato
aiuto.
“Piantala,” gridò la mamma dalla cucina, anche se non sapevo se diceva a
Shawn o a me.
“Gridare è da maleducati,” disse Shawn, sempre rivolto verso la cucina.
“Starai giù finché non chiederai scusa.” Mi scusai per aver gridato. Un
momento dopo ero in piedi.
Piegai della carta da cucina a mo’ di tovaglioli, che sistemai a ciascun
posto. Quando ne misi uno accanto al piatto di Shawn, mi ficcò di nuovo un
dito nelle costole. Non dissi niente.
Charles arrivò in anticipo – il papà non era ancora rientrato dalla discarica
– e si sedette a tavola di fronte a Shawn, che lo guardò con aria truce, senza
battere ciglio. Non volevo lasciarli soli, ma la mamma aveva bisogno di
aiuto ai fornelli, così andai da lei e m’inventai delle piccole scuse per
tornare di tanto in tanto al tavolo. In una di queste occasioni sentii che
Shawn stava raccontando a Charles dei suoi fucili. Un’altra volta lo sentii
parlare dei modi in cui sapeva uccidere un uomo. Risi a voce alta entrambe
le volte, sperando che Charles pensasse che erano degli scherzi. La terza
volta che tornai al tavolo, Shawn mi prese e mi fece sedere sul suo grembo.
Risi anche per quello.
La farsa non poteva durare, nemmeno fino a cena. Quando passai accanto
a Shawn con un grosso piatto di porcellana pieno di panini, mi diede un
colpo in pancia così forte da lasciarmi senza fiato. Feci cadere il piatto, che
andò in frantumi.
“Perché l’hai fatto?” gridai.
Fu questione di un momento. Non so come mi atterrò, ma ero di nuovo
stesa sulla schiena e lui mi era sopra. Voleva che chiedessi scusa per aver
rotto il piatto. Sussurrai delle scuse a bassa voce per non farmi sentire da
Charles, ma questo lo fece infuriare ancora di più. Mi prese per i capelli,
sempre vicino alla testa per far leva, e mi tirò su, poi mi trascinò verso il
bagno. Fu così improvviso che Charles non ebbe il tempo di reagire.
L’ultima cosa che vidi mentre la mia testa veniva scagliata in corridoio fu
Charles che balzava in piedi, con gli occhi sbarrati e il volto pallido.
Mi fu piegato il polso, stortato il braccio dietro la schiena. Mi fu cacciata
la testa nel water, il mio naso quasi sfiorava l’acqua. Shawn stava gridando
qualcosa ma non sentii cosa. Stavo aspettando un rumore di passi in
corridoio e quando lo sentii andai fuori di testa. Charles non poteva vedermi
così. Non poteva sapere che dietro a quella messinscena – il trucco, i miei
vestiti nuovi, i piatti di porcellana – era questo quello che ero.
Mi contorsi, inarcando il corpo e liberando il polso da Shawn. L’avevo
colto alla sprovvista: ero più forte di quel che pensava, o forse solo più
avventata, e perse la presa. Scattai verso la porta. Avevo messo un piede in
corridoio quando la mia testa fu scaraventata all’indietro. Shawn mi aveva
preso per i capelli e mi tirò verso di sé con così tanta forza che cademmo
entrambi all’indietro nella vasca da bagno.
L’ultima cosa che ricordo è Charles che mi faceva alzare e io che ridevo –
uno sghignazzare acuto, folle. Credevo che se fossi riuscita a ridere
abbastanza forte avrei ancora potuto salvare la situazione e convincere
Charles che era tutto uno scherzo. Le lacrime mi rigavano il volto – mi ero
rotta l’alluce – ma continuavo a ridacchiare. Shawn era sulla soglia,
impacciato.
“Stai bene?” continuava a dire Charles.
“Certo! Shawn è così, così... divertente.” Mi si strozzò la voce sull’ultima
parola, come feci forza sul piede e fui attraversata da una fitta di dolore.
Charles cercò di sorreggermi ma lo spinsi via e camminai sulla frattura,
stringendo i denti per non gridare e dando delle pacche giocose a mio
fratello.
Charles non si fermò a cena. Scappò via e non si fece più sentire per
diverse ore, finché mi chiamò e mi chiese di incontrarci alla chiesa. Non
voleva venire a Buck Peak. Restammo seduti nella sua jeep nel parcheggio
buio e vuoto. Stava piangendo.
“Non è come sembra,” dissi.
Se qualcuno me l’avesse chiesto, avrei detto che Charles per me era la
cosa più preziosa al mondo. Ma non lo era. E glielo dimostravo. Quello che
contava davvero per me non erano l’amore o l’amicizia, ma le menzogne
che sapevo raccontarmi. Convincermi che fossi forte. Charles aveva visto
che non lo ero, e non potevo perdonarglielo.
Diventai lunatica, esigente, ostile. Ideai dei parametri bizzarri e mutevoli
in base a cui misurare il suo amore per me, andando in paranoia ogni volta
che non rispondeva a quei requisiti. Facevo delle sfuriate terribili,
buttandogli addosso tutto l’odio e il rancore che provavo per il papà o per
Shawn, prendendomela con questo sconcertato spettatore che non aveva
mai fatto altro che aiutarmi. Quando litigavamo gli gridavo che non volevo
più vederlo, e lo gridai così tante volte che una sera, quando lo chiamai per
cambiare idea su qualcosa, come facevo sempre, non ne volle più sapere.
Ci incontrammo un’ultima volta in un campo vicino alla statale. Buck
Peak si stagliava sopra di noi. Disse che mi amava ma che non ce la faceva
più. Non poteva salvarmi. Solo io potevo.
Non capivo di cosa stesse parlando.
Quell’inverno il campus si coprì di uno spesso manto di neve. Rimasi in
casa a memorizzare equazioni algebriche e a cercare di vivere come prima,
immaginando che la mia vita all’università fosse separata da quella a Buck
Peak. Il muro che le divideva era stato impenetrabile. Charles aveva aperto
una breccia.
Ricominciarono le ulcere allo stomaco e insieme i bruciori e i dolori
notturni. Una volta fui svegliata da Robin che mi scuoteva delicatamente.
Disse che stavo gridando nel sonno. Mi toccai la faccia ed era bagnata. Mi
strinse tra le braccia così forte che mi sentii protetta.
La mattina dopo, Robin mi chiese di andare con lei da un dottore – per le
ulcere ma anche per fare una radiografia al piede, dato che il mio alluce era
diventato nero. Dissi che non avevo bisogno di un dottore. Le ulcere
sarebbero guarite e qualcuno mi aveva già curato l’alluce.
Robin alzò un sopracciglio. “Chi? Chi te l’ha curato?”
Scrollai le spalle. Pensò a mia madre e glielo lasciai credere. La verità era
che, la mattina dopo il giorno del Ringraziamento, avevo chiesto a Shawn
di dirmi se era rotto. Si era inginocchiato sul pavimento della cucina e gli
avevo messo il piede sul grembo. In quella posizione sembrava più piccolo.
Esaminò un momento il dito, poi alzò lo sguardo verso di me e vidi
qualcosa nei suoi occhi azzurri. Pensai che volesse chiedermi scusa, ma
proprio quando credevo che avrebbe aperto la bocca, prese la punta
dell’alluce e tirò con forza. Sentii una fitta così forte lungo la gamba che fu
come se mi fosse esploso il piede. Stavo ancora cercando di soffocare il
dolore quando Shawn si alzò, mi mise una mano sulla spalla e disse:
“Scusa, Morennina, ma fa meno male se non te l’aspetti”.
Una settimana dopo avermi chiesto di andare dal dottore, Robin mi
svegliò di nuovo. Mi tirò su e mi strinse a sé, come se il suo corpo potesse
tenermi insieme, come se potesse evitare che andassi in mille pezzi.
“Credo che dovresti parlare col vescovo,” disse la mattina dopo.
“Sto bene,” risposi, come dicono sempre le persone che non stanno bene.
“Ho solo bisogno di dormire.”
Poco dopo trovai un opuscolo del consultorio universitario sulla mia
scrivania. Lo buttai nella spazzatura senza nemmeno guardarlo. Non potevo
andare al consultorio. Sarebbe stato come chiedere aiuto, e io mi credevo
invincibile. Era un scappatoia elegante, una piroetta mentale. Il dito non era
rotto perché ero indistruttibile. Una radiografia avrebbe dimostrato il
contrario. Quindi la radiografia mi avrebbe rotto il dito.
Il mio esame finale di algebra fu pervaso da questa superstizione.
Acquistò una specie di potere mistico. Studiavo come una pazza, convinta
che se fossi riuscita a passare questo esame, a ottenere quel punteggio
impossibile anche con l’alluce rotto e senza l’aiuto di Charles, significava
che ero al di sopra di tutto. Intoccabile.
La mattina della prova zoppicai fino al centro esami e mi sedetti nell’aula
piena di spifferi. Avevo il test davanti. I problemi sembravano docili,
arrendevoli. Cedevano ai miei calcoli e producevano soluzioni, uno dopo
l’altro. Consegnai la mia prova e rimasi in piedi nel corridoio gelido a
fissare lo schermo su cui sarebbe comparso il punteggio. Quando arrivò
battei le palpebre, poi le battei di nuovo. Cento. Il punteggio massimo.
Provavo una deliziosa sensazione di torpore. Mi ubriacava e volevo
gridare al mondo: Ecco la prova: sono al di sopra di tutto.
Buck Peak era come ogni Natale – una guglia innevata, ornata di
sempreverdi – e i miei occhi, sempre più abituati a mattoni e cemento,
rimasero quasi accecati dalla sua mole e dal suo biancore.
Richard era sul muletto quando salii sulla collina. Stava spostando un
mucchio di profilati per l’officina che il papà stava costruendo a Franklin,
nei pressi della città. Richard aveva ventidue anni ed era una delle persone
più intelligenti che conoscevo, ma non aveva un diploma di scuola
superiore. Quando gli passai accanto sul vialetto, pensai che probabilmente
avrebbe guidato quel muletto per il resto della sua vita.
Ero a casa solo da venti minuti, quando chiamò Tyler. “Volevo solo
sapere se Richard sta studiando per l’esame di ammissione.”
“Vuol fare l’esame?”
“Non lo so,” disse Tyler. “Forse. Io e il papà stiamo cercando di
convincerlo.”
“Il papà?”
Tyler rise. “Già, il papà. Vuole che Richard vada al college.”
Pensai che fosse uno scherzo fino a quando, un’ora dopo, ci sedemmo a
tavola. Avevamo appena cominciato a mangiare quando il papà, con la
bocca piena di patate, disse: “Richard, ti dò una settimana di ferie retribuite
se le userai per studiare quei libri”.
Aspettai una spiegazione, e non tardò ad arrivare. “Richard è un genio,”
disse il papà un momento dopo, facendomi l’occhiolino. “È cinque volte più
intelligente di quell’Einstein. Può demolire tutte quelle teorie socialiste e
quelle speculazioni profane. Andrà là e farà saltare in aria l’intero cazzo di
sistema.”
Il papà continuò coi suoi deliri, ignaro dell’effetto che aveva sui suoi
ascoltatori. Shawn era stravaccato su una panca, la schiena contro la parete,
la faccia rivolta a terra. Sembrava così pesante, così immobile, che era
come guardare un uomo scolpito nella pietra. Richard era il figlio
miracoloso, il dono di Dio, l’Einstein che avrebbe smentito Einstein.
Richard avrebbe sollevato il mondo. Shawn no. Si era danneggiato troppo la
testa quand’era caduto da quel bancale. Uno dei figli di mio padre avrebbe
guidato il muletto per il resto della sua vita, ma non sarebbe stato Richard.
Richard sembrava ancora più infelice di Shawn. Aveva le spalle curve e il
collo infossato, come se fosse schiacciato sotto il peso degli elogi del papà.
Quando il papà andò a letto, Richard mi disse che aveva provato a fare una
simulazione dell’esame. Aveva preso un punteggio così basso che non
voleva dirmelo.
“A quanto pare sono Einstein,” disse, tenendosi la testa tra le mani. “Che
faccio? Il papà dice che farò il botto, ma non so nemmeno se passerò.”
Ogni sera era sempre così. Durante la cena il papà elencava tutte le false
teorie scientifiche che quel genio di suo figlio avrebbe demolito. Poi, dopo
cena, raccontavo a Richard del college, delle lezioni, dei libri, dei
professori, tutte cose che sapevo avrebbero stuzzicato il suo bisogno innato
di imparare. Ero preoccupata: il papà aveva delle aspettative così alte, e
Richard così tanta paura di deluderlo, che c’era il rischio che non tentasse
nemmeno l’esame.
Era arrivato il momento di costruire il tetto all’officina di Franklin. Così,
due giorni dopo Natale, infilai l’alluce, ancora storto e nero, dentro uno
scarpone dalla punta d’acciaio e passai la mattina su un tetto a infilare viti
filettanti nella lamiera zincata. Nel tardo pomeriggio Shawn mise giù
l’avvitatore e scese calandosi dal braccio allungato della ruspa. “È ora di
fare una pausa, Morennina,” gridò da sotto. “Andiamo in città.”
Saltai sul bancale e Shawn abbassò il braccio fino a terra. “Guidi tu,”
disse, poi reclinò il suo sedile e chiuse gli occhi. Andai da Stokes.
Ricordo dei particolari strani di quando arrivammo nel parcheggio –
l’odore di lubrificante che si alza dai nostri guanti di cuoio, la sensazione
graffiante della polvere sotto i polpastrelli. E Shawn che mi sorride dal
sedile del passeggero. Tra le molte macchine ne riconosco una, una jeep
rossa. Charles. Attraverso l’area di sosta principale e svolto nella zona
aperta sul lato nord dove parcheggiano i dipendenti. Abbasso l’aletta
parasole per darmi una controllata e vedo il groviglio in cui sono ridotti i
miei capelli per via del vento e il grasso di lamiera che mi si è depositato
nei pori, rendendoli grossi e bruni. I miei vestiti pesano da tanto sono
sporchi.
Shawn vede la jeep rossa. Mi guarda leccarmi il pollice e sfregarmi via lo
sporco dalla faccia, e si scalda. “Andiamo!” dice.
“Io aspetto in macchina.”
“Tu vieni dentro.”
Shawn fiuta la vergogna. Sa che Charles non mi ha mai vista così – che
l’estate prima, ogni giorno, correvo a casa a togliermi ogni macchia, ogni
segno di sporco, a nascondere tagli e calli sotto il trucco e i vestiti nuovi.
Shawn mi ha vista uscire dal bagno centinaia di volte, irriconoscibile, dopo
essermi lavata via ogni traccia della discarica sotto la doccia.
“Tu vieni dentro,” ripete. Gira attorno alla macchina e mi apre la portiera.
È un gesto all’antica, vagamente cavalleresco.
“Non mi va,” dico.
“Non vuoi che il tuo fidanzato ti veda così elegante?” Sorride e mi
punzecchia con un dito. Mi guarda in modo strano, come per dire: Tu sei
così. Hai fatto finta di essere qualcun altro. Qualcuno di migliore. Ma sei
così.
Si mette a ridere a voce alta, come un matto, come se fosse successo
qualcosa di divertente anche se non è successo niente. Senza smettere, mi
prende il braccio e lo alza, quasi volesse caricarmi sulla schiena e portarmi
dentro alla maniera dei pompieri. Non voglio che Charles mi veda, così
taglio corto. “Non toccarmi,” dico chiaro e tondo.
Di quello che succede dopo ho dei ricordi confusi. Rivedo solo delle
istantanee – il cielo che si capovolge in maniera assurda, pugni che mi
colpiscono, uno sguardo strano e feroce negli occhi di un uomo che non
riconosco. Vedo le mie mani che stringono il volante e sento delle braccia
forti che mi strattonano le gambe. Qualcosa si sposta dentro la mia caviglia,
si spezza o scoppia. Perdo la presa. Mi tirano fuori dalla macchina.
Sento l’asfalto ghiacciato sulla schiena, i sassolini che mi raschiano la
pelle. Ho i jeans abbassati sotto la vita. Li avevo sentiti scivolare giù,
centimetro dopo centimetro, mentre Shawn mi tirava per le gambe. La mia
camicia è alzata e mi guardo, vedo il mio corpo spalmato sull’asfalto, il
reggiseno, le mutande sbiadite. Vorrei coprirmi ma Shawn mi ha bloccato le
mani sopra la testa. Resto immobile, sento il freddo che mi penetra dentro.
Sento la mia voce che lo supplica di lasciarmi andare, ma non sembra la
mia voce. Sto ascoltando i singhiozzi di un’altra ragazza.
Vengo tirata su e messa in piedi. Armeggio coi vestiti. Poi mi piego su me
stessa e il mio polso viene stortato all’indietro, si curva, raggiunge il limite
eppure continua a curvarsi. Ho il naso vicino all’asfalto quando l’osso
comincia a piegarsi. Cerco di ritrovare l’equilibrio, di spingere nella
direzione opposta con le gambe, ma quando faccio forza sulla caviglia, si
storta. Grido. Teste che si girano nella nostra direzione. Gente che allunga il
collo per vedere che cosa sta succedendo. All’improvviso scoppio a ridere,
una risata stridula e isterica che nonostante tutti i miei sforzi sembra ancora
un po’ un grido.
“Tu vieni dentro,” dice Shawn, e sento l’osso del polso spezzarsi.
Vado con lui verso le luci forti. Rido mentre passiamo per le corsie,
prendendo le cose che vuole comprare. Rido a ogni parola che dice,
cercando di convincere chi può averci visti nel parcheggio che era tutto uno
scherzo. Cammino su una caviglia slogata ma quasi non sento dolore.
Non vediamo Charles.
Torniamo verso il cantiere senza dire nulla. Sono solo otto chilometri ma
sembrano ottanta. Quando arriviamo zoppico verso l’officina. All’interno ci
sono il papà e Richard. Zoppicavo anche prima per via dell’alluce, quindi
nessuno ci fa caso. Richard, comunque, mi lancia un’occhiata e vedendo la
mia faccia rigata di unto e di lacrime capisce che c’è qualcosa che non va. Il
papà non vede nulla.
Prendo l’avvitatore e comincio a fissare le viti con la mano sinistra, ma la
pressione non è uniforme e dato che appoggio il peso su un piede solo
faccio fatica a stare in equilibrio. Le viti saltano fuori dalla lamiera
verniciata, lasciando dei segni lunghi e contorti simili a nastri arricciati. Il
papà mi manda a casa dopo che ho rovinato due lamiere.
Quella sera, col polso fasciato stretto, cerco di scrivere qualcosa sul mio
diario. Mi faccio delle domande. Perché non ha smesso quando l’ho
supplicato? Era come prenderle da uno zombie, scrivo. Come se non
potesse sentirmi.
Shawn bussa alla porta. Infilo il diario sotto il cuscino. Ha le spalle curve
quando entra. Parla piano. Era un gioco, dice. Non credeva di avermi fatto
male finché non mi aveva visto reggermi il braccio al cantiere. Mi controlla
le ossa del polso, mi esamina la caviglia. Mi porta del ghiaccio avvolto in
uno strofinaccio e dice che la prossima volta che ci divertiamo dovrei dirgli
se c’è qualcosa che non va. Esce. Torno al mio diario. Era davvero un
gioco? Scrivo. Non capiva che mi stava facendo male? Non lo so. Non lo so
proprio.
Comincio ad avere dei dubbi, a chiedermi se forse non mi ero fatta capire
bene: cos’avevo sussurrato e cos’avevo gridato? Decido che se gliel’avessi
chiesto in maniera diversa, se fossi stata più calma, avrebbe smesso. Lo
scrivo e riscrivo finché ci credo, e non ci vuole molto perché in fondo
voglio crederci. È confortante pensare che l’errore sia mio, perché questo
significa che posso controllarlo.
Metto via il diario e mi sdraio a letto, ripetendomi questa storia come se
fosse una poesia che ho deciso di imparare a memoria. L’ho quasi
memorizzata quando mi blocco. Delle immagini m’invadono la mente –
immagini di me sulla schiena, con le braccia immobilizzate sopra la testa.
Poi sono nel parcheggio. Mi guardo la pancia bianca, poi alzo gli occhi
verso mio fratello. Ha un’espressione indimenticabile: non c’è nessuna
collera, nessun rancore. Nessuna rabbia. Solo un senso di piacere
imperturbabile. Allora, anche se non vorrei crederci, una parte di me
capisce che la mia umiliazione era la causa di quel piacere. Non era un
contrattempo o un effetto collaterale. Era il suo scopo.
Questa semiconsapevolezza mi lavora dentro come una specie di
ossessione e per alcuni minuti non penso ad altro. Mi alzo dal letto,
riprendo il diario e faccio una cosa che non ho mai fatto prima: scrivo cos’è
successo. Non uso parole vaghe e indistinte come ho fatto altre volte; non
mi nascondo dietro a indizi e allusioni. Scrivo quello che ricordo: A un
certo punto mi ha tirato fuori dalla macchina, mi ha bloccato le mani sopra
la testa e allora mi si è alzata la camicia. Gli ho chiesto di lasciarmela
sistemare ma era come se non sentisse. La guardava e basta, come un
grande stronzo. Per fortuna che sono così piccola. Se fossi più grande, in
quel momento l’avrei fatto a pezzi.
“Non so che cosa ti sei fatta al polso,” mi disse il papà la mattina dopo,
“ma non mi servi in questo stato. Tanto vale che te ne torni nello Utah.”
Il viaggio verso la Brigham fu ipnotico. Quando arrivai, i miei ricordi del
giorno prima si erano fatti sfocati e confusi.
Tornarono nitidi quando controllai l’email. C’era un messaggio di Shawn.
Si scusava. Ma l’aveva già fatto in camera mia. Non era da lui chiedere
scusa due volte.
Presi il diario e scrissi un’altra cosa accanto alla prima. Una cosa diversa.
Era un malinteso, scrissi. Se gli avessi chiesto di smetterla l’avrebbe fatto.
Ma comunque scegliessi di ricordarlo, quell’evento avrebbe cambiato
ogni cosa. Se ci ripenso adesso, sono sorpresa – non per quello che era
successo ma per aver scritto cos’era successo. Di sapere che da qualche
parte sotto quella fragile corazza – in quella ragazza svuotata dall’illusione
dell’invincibilità – c’era ancora una scintilla.
Le seconde cose che scrissi non avrebbero offuscato le prime. Sarebbero
rimaste entrambe, come i miei ricordi impressi accanto ai suoi. C’era
qualcosa di audace nel non cercare una coerenza, nel non strappare una
pagina piuttosto che l’altra. Ammettere l’incertezza significa ammettere la
debolezza, l’impotenza, significa credere in se stessi nonostante queste due
cose. È una fragilità, ma in questa fragilità c’è una forza: la consapevolezza
di pensare con la propria testa e non con quella di qualcun altro. Mi sono
chiesta spesso se le parole più potenti che scrissi quella sera non venissero
dalla rabbia o dal rancore, ma dal dubbio: Non lo so. Non lo so proprio.
Non avere certezze, ma non arrendersi a quanti dicono di averne, era un
privilegio che non mi ero mai concessa. La mia vita era una narrazione in
mano ad altri. Le loro voci erano decise, enfatiche, categoriche. Non avevo
mai pensato che la mia voce potesse essere forte quanto le loro.
23.
Vengo dall’Idaho

Una settimana dopo, di domenica, un uomo in chiesa m’invitò fuori a


cena. Rifiutai. Successe di nuovo alcuni giorni dopo, con un uomo diverso.
Rifiutai di nuovo. Non potevo accettare. Non m’importava niente di loro.
Il vescovo venne a sapere che nel suo gregge c’era una donna contraria al
matrimonio. Il suo assistente mi accostò dopo la messa e disse che mi
aspettava nel suo ufficio.
Il mio polso era ancora fragile quando strinsi la mano al vescovo. Era un
uomo di mezza età dal volto tondo e i capelli scuri pettinati con cura. La sua
voce era morbida come seta. Sembrava conoscermi ancora prima che aprissi
bocca. (In un certo senso era così; Robin gli aveva raccontato molte cose.)
Disse che avrei fatto bene a rivolgermi al consultorio universitario, così che
un giorno mi sarei potuta unire in matrimonio eterno con un uomo perbene.
Mentre parlava rimasi seduta, muta come un pesce.
Mi chiese della mia famiglia. Non risposi. Li avevo già traditi non
amandoli come dovevo; il minimo che potessi fare era stare zitta.
“Il matrimonio è un disegno di Dio,” disse il vescovo, poi si alzò.
L’incontro era terminato. Mi chiese di tornare la domenica dopo. Dissi di sì,
ma sapevo che non l’avrei fatto.
Andai verso l’appartamento con un senso di pesantezza nel corpo. Mi
avevano sempre insegnato che il matrimonio era il volere di Dio e che
rifiutarlo era una specie di peccato. Stavo disobbedendo a Dio. Eppure, non
avrei voluto. Volevo dei figli, una famiglia, ma anche se la desideravo
sapevo che non l’avrei mai avuta. Non ne ero capace. Non potevo stare
vicino a un uomo senza disprezzarmi.
Avevo sempre trovato buffa la parola “puttana”. Sembrava gutturale e
antiquata perfino a me. Ma anche se ridevo segretamente di Shawn per il
fatto che la usava, avevo finito per identificarmi con essa. Il fatto che fosse
antiquata non faceva che rafforzare l’associazione, perché significava che di
solito la sentivo solo riferita a me.
Una volta, quando avevo quindici anni e avevo cominciato da poco a
usare mascara e lucidalabbra, Shawn aveva detto al papà che giravano certe
voci su di me in città, che avevo una certa reputazione. Il papà pensò subito
che fossi incinta. Non avrebbe mai dovuto permettermi di andare a quelle
recite in città, gridò alla mamma. La mamma disse che ero una ragazza
seria e perbene. Shawn disse che non esistevano adolescenti serie e che a
volte, per esperienza, quelle che sembravano le più religiose erano le
peggiori di tutte.
Rimasi seduta sul letto con le ginocchia strette al petto a sentirli gridare.
Ero incinta? Non lo sapevo. Pensai a ogni scambio che avevo avuto con un
ragazzo, a ogni sguardo, ogni contatto fisico. Andai allo specchio e mi alzai
la camicia, poi mi passai le dita sull’addome, esaminandolo centimetro
dopo centimentro e pensando: Forse.
Non avevo mai baciato un ragazzo.
Avevo assistito a dei parti, ma nessuno mi aveva mai spiegato nulla del
concepimento. Mentre mio padre e mio fratello gridavano, l’ignoranza mi
teneva zitta: non potevo difendermi perché non capivo l’accusa.
Alcuni giorni dopo, quando fu confermato che non ero incinta, la parola
“puttana” cominciò ad avere un significato nuovo per me, basato meno
sulle azioni e più sulla sostanza. Il problema non era che avevo fatto
qualcosa di sbagliato, ma che ero sbagliata. C’era qualcosa di impuro nella
mia stessa esistenza.
È strano quanto potere dai alle persone che ami, avevo scritto sul mio
diario. Ma Shawn aveva un potere su di me che era inimmaginabile. Aveva
definito chi ero, e non esiste potere più grande di questo.
Una fredda sera di febbraio ero fuori dall’ufficio del vescovo. Non sapevo
cosa mi avesse spinto ad andarci.
Il vescovo si sedette con calma alla sua scrivania. Chiese cosa poteva fare
per me e gli dissi che non lo sapevo. Nessuno poteva darmi quel che
volevo, perché quel che volevo era ricrearmi.
“Posso aiutarti,” disse, “ma devi spiegarmi cosa c’è che non va.” La sua
voce era gentile, e quella gentilezza era crudele. Volevo che gridasse. Se
gridava mi avrebbe fatto arrabbiare e quand’ero arrabbiata mi sentivo forte.
Non sapevo se ce l’avrei fatta senza sentirmi forte.
Mi schiarii la gola, poi parlai per un’ora.
Io e il vescovo ci incontrammo ogni domenica fino a primavera. Anche se
per me era un patriarca autorevole, sembrava mettere da parte ogni autorità
nel momento stesso in cui superavo la soglia del suo ufficio. Io parlavo e lui
ascoltava, liberandomi dalla vergogna come un guaritore pulirebbe una
ferita da un’infezione.
Alla fine del semestre gli dissi che sarei tornata a casa per l’estate. Ero
senza soldi e non potevo pagare l’affitto. Mi guardò con aria stanca. “Non
andare a casa, Tara,” disse. “La chiesa ti pagherà l’affitto.”
Non volevo soldi dalla chiesa. Ormai avevo deciso. Il vescovo mi fece
solo promettere una cosa: che non avrei lavorato per mio padre.
Il giorno stesso che arrivai nell’Idaho mi feci riassumere da Stokes. Il
papà mi prese in giro e disse che non avrei mai guadagnato abbastanza per
tornare all’università. Aveva ragione, ma il vescovo aveva detto che Dio
avrebbe provveduto in qualche modo e gli credevo. Passai l’estate a
riempire scaffali e ad accompagnare anziane signore alle loro automobili.
Mi tenevo alla larga da Shawn. Non era difficile perché aveva una nuova
fidanzata, Emily, e si parlava addirittura di matrimonio. Shawn aveva
ventotto anni; Emily frequentava l’ultimo anno delle superiori. Era una
ragazza arrendevole. Shawn le faceva gli stessi giochetti che faceva a Sadie
per provare il proprio potere su di lei. Emily eseguiva immancabilmente i
suoi ordini, tremando quando lui alzava la voce, chiedendo scusa quando le
urlava addosso. Ero certa che il loro sarebbe stato un matrimonio
manipolatorio e violento, anche se quelle parole non erano mie. Me le
aveva dette il vescovo e stavo ancora cercando di capire cosa significassero.
Alla fine dell’estate tornai alla Brigham con solo duemila dollari in tasca.
La prima sera scrissi sul mio diario: Ho così tante cose da pagare che non
so come farò. Ma Dio mi darà delle sfide costruttive o i mezzi per farcela.
Sembrano frasi elevate e nobili, ma ci vedo un pizzico di fatalismo. Forse
avrei dovuto abbandonare gli studi. Poco male. C’erano dei supermercati
nello Utah. Avrei imbustato la spesa ai clienti e un giorno sarei diventata
direttrice.
Questa rassegnazione crollò due settimane dopo l’inizio del semestre
autunnale, quando una notte mi svegliai con un dolore atroce alla
mandibola. Non avevo mai provato nulla di così penetrante, così
fulminante. Mi sarei strappata via la mandibola dalla bocca pur di
liberarmene. Barcollai verso uno specchio. La causa era un dente che mi si
era scheggiato molti anni prima e che ora si era spezzato di nuovo, in
profondità. Andai da un dentista, il quale mi disse che il dente era marcio da
anni. Per sistemarlo ci volevano millequattrocento dollari. Non potevo
permettermi di pagare nemmeno metà di quella cifra e restare all’università.
Chiamai a casa. La mamma accettò di prestarmi i soldi, ma il papà mise
delle condizioni: l’estate seguente sarei tornata a lavorare per lui. Non ci
pensai nemmeno. Dissi che avevo chiuso con la discarica, chiuso per
sempre, e riagganciai.
Cercai di ignorare il dolore e di concentrarmi sugli studi, ma era come
sedersi a lezione mentre un lupo mi rosicchiava la mandibola.
Non avevo più preso un ibuprofene dopo quella volta con Charles, ma
cominciai a buttarli giù come mentine per l’alito. Funzionavano solo fino a
un certo punto. Il dolore era nevralgico e troppo violento. Non chiudevo
occhio da quand’era cominciato e iniziai a saltare i pasti perché anche solo
l’idea di masticare era impensabile. Fu allora che Robin ne parlò col
vescovo.
Un pomeriggio di sole il vescovo mi chiamò nel suo ufficio. Mi guardò
con calma da dietro la scrivania e disse: “Cos’hai intenzione di fare con
quel dente?”. Cercai di rilassare la faccia.
“Non puoi affrontare l’anno scolastico in queste condizioni,” disse. “Ma
c’è una soluzione semplice. Semplicissima. Quanto guadagna tuo padre?”
“Non molto,” risposi. “È pieno di debiti da quando i ragazzi hanno
distrutto le attrezzature l’anno scorso.”
“Benissimo,” disse lui. “Ho qui i moduli per una sovvenzione. Sono
sicuro che hai i requisiti necessari, e la bella notizia è che non dovrai
ripagare nulla.”
Avevo sentito parlare delle sovvenzioni statali. Il papà diceva che
accettarne una significava indebitarsi con gli Illuminati. “È così che ti
adescano,” aveva detto. “Ti danno dei soldi gratis, poi in men che non si
dica ti ingabbiano.”
Queste parole mi risuonavano dentro. Avevo sentito altri studenti parlare
di sovvenzioni, e me ne ero tenuta alla larga. Avrei lasciato la scuola
piuttosto che farmi comprare.
“Non credo nelle sovvenzioni statali,” dissi.
“Perché no?”
Gli riportai le parole di mio padre. Il vescovo sospirò e alzò gli occhi al
cielo. “Quanto costa sistemare il dente?”
“Millequattrocento,” dissi. “Troverò i soldi.”
“Pagherà la chiesa,” rispose lui con tranquillità. “Ho a disposizione un
fondo spese.”
“Quelli sono soldi sacri.”
Il vescovo alzò le mani. Restammo seduti in silenzio, poi aprì il cassetto
della scrivania e tolse un libretto degli assegni. Guardai l’intestazione. Era il
suo conto personale. Compilò un assegno a mio nome da millecinquecento
dollari.
“Non ti lascerò abbandonare gli studi per questo,” disse.
L’assegno era nella mia mano. Ero così tentata, e il dolore alla mandibola
era così feroce, che devo averlo tenuto per dieci secondi prima di restituirlo.
Avevo trovato un lavoro alla gelateria del campus, dove giravo
hamburger e servivo coni gelato. Mi barcamenavo tra i giorni di paga
ignorando bollette scadute e chiedendo piccoli prestiti a Robin, così che un
paio di volte al mese, quando mi arrivavano sul conto alcune centinaia di
dollari, i soldi sparivano nel giro di poche ore. Alla fine di settembre,
quando compii diciannove anni, ero completamente al verde. Avevo
rinunciato all’idea di farmi curare il dente; sapevo che non avrei mai avuto
millequattrocento dollari. E poi il dolore era diminuito: o il nervo era morto,
o il mio cervello si era abituato alle sue stilettate.
Avevo comunque altre spese da pagare, così decisi di vendere l’unica
cosa di un certo valore che possedevo: il mio cavallo Bud. Chiamai Shawn
e gli chiesi quanto potevo chiedere. Shawn disse che un meticcio non
valeva molto, ma che potevo metterlo all’asta come i cavalli “cibo per cani”
del nonno. M’immaginai Bud in un tritacarne, poi dissi: “Prima cerca di
trovare un acquirente”. Alcune settimane dopo, Shawn mi mandò un
assegno di alcune centinaia di dollari. Quando lo chiamai e gli chiesi a chi
aveva venduto Bud, farfugliò qualcosa a proposito di un tizio di Tooele di
passaggio.
Quel semestre persi ogni curiosità per gli studi. La curiosità è un lusso
riservato a chi non ha problemi di soldi: io ero presa da questioni più
urgenti, come il saldo del mio conto in banca, a chi dovevo cosa e quanto, e
se c’era qualcosa nella mia stanza che potevo vendere per dieci o venti
dollari. Consegnavo i compiti e studiavo per gli esami, ma lo facevo più per
paura – di perdere la borsa di studio se la mia media scendeva di un solo
decimale – che per vero interesse.
A dicembre, dopo l’ultimo stipendio del mese, avevo sessanta dollari sul
mio conto corrente. L’affitto era di 110 dollari, da pagare entro il 7 gennaio.
Mi servivano dei soldi e in fretta. Avevo sentito che vicino al centro
commerciale c’era una clinica che pagava i volontari disposti a donare
plasma. Probabilmente una clinica faceva parte del Sistema Medico, ma mi
convinsi che finché mi toglievano qualcosa, e non mi mettevano nulla
dentro, non mi sarebbe successo niente. L’infermiera mi bucò le vene per
una ventina di minuti, poi disse che erano troppo piccole.
Con gli ultimi trenta dollari rimasti comprai una tanica di benzina e tornai
a casa per Natale. La mattina di Natale il papà mi diede un fucile. Non lo
tirai fuori dalla scatola, quindi non ho idea di che modello fosse. Chiesi a
Shawn se lo voleva comprare, ma il papà me lo requisì dicendo che
l’avrebbe tenuto al sicuro.
Era tutto. Non c’era più niente da vendere, niente più amici d’infanzia o
regali di Natale. Era ora di lasciare la scuola e trovarsi un lavoro. Me ne feci
una ragione. Mio fratello Tony viveva a Las Vegas, dove lavorava come
camionista sulle lunghe distanze, così il giorno di Natale gli telefonai. Disse
che potevo stare da lui per un paio di mesi e lavorare all’In-N-Out Burger
sull’altro lato della strada.
Riagganciai e stavo camminando per il corridoio, pentendomi di non aver
chiesto a Tony un prestito per andare a Las Vegas, quando una voce rauca
mi chiamò. “Ehi, Morennina. Vieni un momento qua.”
La stanza di Shawn era uno schifo. Il pavimento era pieno di vestiti
sporchi e potevo vedere il calcio di una pistola spuntare da sotto un
mucchio di magliette macchiate. Le mensole erano curve sotto il peso di
scatole di munizioni e pile di tascabili di Louis L’Amour. Shawn era seduto
sul letto con le spalle infossate e le gambe piegate all’infuori. Sembrava che
fosse fermo in quella posizione da un po’ a contemplare lo squallore.
Sospirò, poi si alzò e mi venne incontro alzando il braccio destro. Feci
involontariamente un passo indietro, ma aveva solo infilato una mano in
tasca. Tirò fuori il portafogli, l’aprì ed estrasse una banconota da cento
dollari nuova di zecca.
“Buon Natale,” disse. “Tu non li sprecherai come me.”
Ero convinta che quei cento dollari fossero un segno di Dio. Dovevo
restare a scuola. Tornai alla Brigham e pagai l’affitto. Poi, sapendo che non
sarei riuscita a pagare il mese di febbraio, trovai un secondo lavoro come
donna delle pulizie a Draper, una ventina di minuti di macchina verso nord,
dove sarei andata tre volte alla settimana a pulire case costose.
Io e il vescovo continuavamo a incontrarci ogni domenica. Robin gli
aveva detto che non avevo comprato i libri di testo per il nuovo semestre.
“È assurdo,” mi disse. “Fai domanda per la sovvenzione! Sei povera!
Queste cose esistono apposta!”
Il rifiuto che opponevo era irrazionale, viscerale.
“Senti, io guadagno un sacco di soldi,” continuò il vescovo. “Pago un
sacco di tasse. Fai finta che siano soldi miei.” Aveva stampato i moduli, e
me li diede. “Pensaci. Devi imparare ad accettare aiuto, anche dallo Stato.”
Presi i moduli. Robin li compilò. Mi rifiutavo di spedirli.
“Ora recupera i documenti,” disse Robin. “Provaci almeno.”
Mi serviva la dichiarazione dei redditi dei miei genitori. Non ero
nemmeno sicura che pagassero le tasse, ma in quel caso sapevo che il papà
non me l’avrebbe data se avesse saputo perché la volevo. Pensai a una serie
di scuse per farmela dare, ma nessuna era credibile. Mi’immaginai la
dichiarazione dentro al grosso raccoglitore grigio che c’era in cucina. Poi
decisi di rubarla.
Partii per l’Idaho poco prima di mezzanotte nella speranza di esser là per
le tre, quando tutti sarebbero stati a letto. Una volta arrivata a Buck Peak
salii lentamente per il vialetto, facendo una smorfia ogni volta che un
sassolino schizzava via da sotto gli pneumatici. Aprii la portiera senza far
rumore, poi attraversai il prato in punta di piedi e m’intrufolai in casa dalla
porta sul retro, spostandomi silenziosamente e avanzando a tastoni verso il
raccoglitore.
Avevo fatto pochi passi quando sentii un click famigliare.
“Non sparare!” gridai. “Sono io!”
“Chi?”
Accesi la luce e vidi Shawn seduto dall’altra parte della stanza, che mi
puntava contro una pistola. L’abbassò. “Credevo che fossi... qualcun altro.”
“Chiaro,” dissi.
Restammo un momento in piedi impacciati, poi andai a letto.
La mattina seguente, dopo che il papà fu uscito, raccontai alla mamma
una di quelle scuse sul perché la Brigham voleva la sua dichiarazione dei
redditi. Sapeva che stavo mentendo – lo capii quando il papà entrò
inaspettatamente e le chiese perché stava copiando quei documenti, e lei
rispose che erano per i suoi archivi.
Presi le copie e tornai alla Brigham. Io e Shawn non ci dicemmo nulla.
Non mi chiese mai perché ero entrata di nascosto in casa alle tre di notte e
io non gli chiesi mai chi stava aspettando nel cuore della notte, con una
pistola carica in mano.
I moduli rimasero sulla mia scrivania una settimana prima che Robin mi
accompagnasse all’ufficio postale e mi vedesse consegnarli allo sportello.
Non ci volle molto: una settimana, forse due. Ero a fare le pulizie a Draper
quando arrivò la lettera. Robin me la mise sul letto insieme a un biglietto in
cui diceva che ora ero una comunista.
Strappai la busta e un assegno cadde sul letto. Quattromila dollari. Mi
sentii avida, poi spaventata dalla mia avidità. C’era un numero di telefono.
Lo chiamai.
“C’è un problema,” dissi alla donna all’altro capo della linea. “L’assegno
è da quattromila dollari, ma me ne servono solo millequattrocento.”
Silenzio.
“Pronto? Pronto?”
“Fammi capire,” disse la donna. “Stai dicendo che ti abbiamo dato troppi
soldi? Cosa vuoi che faccia?”
“Se ve lo rimando, potete spedirmi un altro assegno? Me ne servono solo
millequattrocento. Per una devitalizzazione.”
“Ascolta, tesoro,” disse. “Se te ne sono arrivati così tanti è perché ne hai
diritto. Sta a te poi riscuoterli o meno.”
Feci la devitalizzazione. Comprai i libri di testo, pagai l’affitto, e mi
avanzavano ancora dei soldi. Il vescovo mi consigliò di regalarmi qualcosa,
ma dissi che non potevo, dovevo risparmiare. Disse che potevo permettermi
di spenderne un po’. “Ricordati,” disse, “che puoi fare richiesta per la stessa
somma anche l’anno prossimo.” Mi comprai un vestito nuovo per la messa.
Pensavo che i soldi sarebbero stati usati per controllarmi, ma in realtà mi
permisero di tener fede alla mia parola: per la prima volta, quando dicevo
che non avrei mai più lavorato per mio padre, ci credevo veramente.
Mi chiedo ora se il giorno che andai a rubare la dichiarazione dei redditi
non fosse la prima volta che lasciavo casa mia per andare a Buck Peak.
Quella sera ero entrata nella casa di mio padre come un’intrusa. Fu un
cambiamento di linguaggio mentale, un abbandono delle mie origini.
Le mie parole lo confermavano. Quando gli altri studenti mi chiedevano
da dove venivo, dicevo “Sono dell’Idaho”, una frase con cui, pur avendola
dovuta ripetere un sacco di volte negli anni, non mi sono mai sentita a mio
agio. Quando appartieni a un posto e continui a crescere sul suo terreno,
non hai mai bisogno di dire da dove vieni. Non pronunciai mai le parole
“Sono dell’Idaho” se non dopo che l’ebbi lasciato.
24.
Un cavaliere, errante

Avevo mille dollari sul conto corrente. Era già strano pensarci,
figuriamoci dirlo. Mille dollari. Extra. Che non mi servivano
nell’immediato. Ci misi delle settimane ad accettarlo ma, quando lo feci,
cominciai a toccare con mano il più grande vantaggio dei soldi: la capacità
di non dover pensare ai soldi.
All’improvviso riuscivo a vedere i miei professori; era come se prima
della borsa di studio li avessi guardati attraverso delle lenti sfocate. I libri di
testo cominciarono a farsi comprensibili e mi ritrovai a studiare anche più
del dovuto.
Fu allora che sentii parlare per la prima volta di disturbo bipolare. Ero a
una lezione di Psicologia 101 quando il professore lesse i sintomi a voce
alta dallo schermo sulla parete: depressione, mania, paranoia, euforia,
illusioni di grandezza e di persecuzione. Ascoltai con un interesse disperato.
È mio padre, scrissi sui miei appunti. Sta parlando del papà.
Alcuni minuti prima della campanella, uno studente chiese che ruolo
potevano aver avuto le malattie mentali nei movimenti separatisti. “Penso a
scontri famosi come quello di Waco in Texas, o di Ruby Ridge nell’Idaho,”
disse.
L’Idaho non è famoso per molte cose, quindi pensai che dovevo aver
sentito parlare di questo “Ruby Ridge”. Lo studente aveva detto che era
stato uno scontro. Cercai di ricordare se avevo già sentito quelle parole.
Non mi erano del tutto nuove. Poi nella mia mente comparvero delle
immagini deboli e distorte, come se la trasmissione fosse stata interrotta
all’origine. Chiusi gli occhi e la scena si fece nitida. Ero in casa nostra,
accovacciata dietro gli armadietti di betulla. La mamma era inginocchiata
accanto a me, il respiro lento e stanco. Si leccò le labbra e disse che aveva
sete, poi prima che potessi fermarla si alzò in piedi e allungò una mano
verso il rubinetto. Sentii il fragore degli spari e la mia voce che gridava. Ci
fu un tonfo quando qualcosa di pesante cadde sul pavimento. Le scostai il
braccio e presi il bambino.
Suonò la campanella. L’auditorium si svuotò. Andai al laboratorio di
informatica. Esitai un momento davanti alla tastiera, sapendo che forse mi
sarei pentita di quelle informazioni, poi digitai “Ruby Ridge”. Secondo
Wikipedia, Ruby Ridge era stato il luogo di un assedio mortale tra Randy
Weaver e alcune agenzie federali, tra cui la U.S. Marshals Service e l’FBI.
Il nome di Randy Weaver mi era famigliare e, proprio mentre lo leggevo,
lo sentii uscire dalle labbra di mio padre. Poi la vicenda, che aveva popolato
la mia immaginazione per tredici anni, cominciò a riproiettarsi nella mia
mente: un bambino ammazzato, poi suo padre, poi sua madre. Lo Stato
aveva ucciso tutta la famiglia, genitori e bambini, per insabbiare quello che
aveva fatto.
Saltai i retroscena e lessi della prima sparatoria. Gli agenti federali
avevano circondato la casetta di Weaver. Era solo una missione di
sorveglianza e gli Weaver non si accorsero degli agenti finché un cane non
si mise ad abbaiare. Pensando che il cane avesse fiutato un animale
selvatico, il figlio quattordicenne di Randy, Sammy, corse nel bosco. Gli
agenti spararono al cane e Sammy, che aveva con sé un fucile, aprì il fuoco.
Il conflitto che seguì fece due morti: un agente federale e Sammy, che stava
risalendo di corsa la collina verso la casa quando fu colpito alla schiena.
Continuai a leggere. Il giorno dopo spararono a Randy Weaver, anche a
lui alle spalle, mentre cercava di andare a vedere il corpo di suo figlio. Il
cadavere era nella baracca e Randy stava alzando il chiavistello alla porta
quando un cecchino mirò alla sua colonna vertebrale e sbagliò il colpo. Sua
moglie Vicki venne verso la porta per aiutare il marito e il cecchino fece
fuoco di nuovo. Il proiettile la colpì alla testa, uccidendola sul colpo mentre
stringeva al petto la loro bimba di dieci mesi. La famiglia si barricò in casa
per nove giorni con il cadavere della madre, finché le trattative misero fine
all’assedio e Randy Weaver fu arrestato.
Lessi quest’ultima frase più volte prima di capire. Randy Weaver era
vivo? Il papà lo sapeva?
Continuai a leggere. La nazione intera era indignata. Su tutti i giornali
principali erano comparsi articoli che denunciavano lo Stato e il suo brutale
disprezzo per la vita umana. Il dipartimento di giustizia aveva aperto
un’inchiesta e il senato aveva tenuto delle udienze. Entrambi avevano
chiesto delle riforme alle regole d’ingaggio, in particolare per quanto
riguardava l’uso della forza letale.
Gli Weaver avevano fatto causa per omicidio colposo e chiesto un
risarcimento da 200 milioni di dollari, ma risolsero la faccenda in forma
privata quando lo Stato offrì alle tre figlie di Vicky un milione di dollari a
testa. Randy Weaver ricevette 100 000 dollari e tutte le accuse, tranne un
paio relative alle comparizioni in tribunale, furono ritirate. Randy Weaver
era stato intervistato dai principali organi d’informazione e aveva perfino
scritto un libro a quattro mani insieme a sua figlia. Al momento si
guadagnava da vivere andando a parlare a certi comizi sulle armi.
Se era un tentativo di insabbiamento faceva acqua da tutte le parti. C’era
stata una copertura mediatica, inchieste ufficiali, monitoraggio. Non era
questa la misura di una democrazia?
C’era una cosa che ancora non capivo: perché i Federali avevano deciso
di circondare la casetta di Randy Weaver? Perché avevano preso di mira
proprio lui? Il papà aveva detto che poteva capitare anche a noi. Continuava
a ripetere che un giorno lo Stato avrebbe dato la caccia a quelli che si
opponevano al lavaggio del cervello, che non mandavano i loro bambini a
scuola. Per tredici anni avevo pensato che era per questo che lo Stato se
l’era presa con Randy: per costringere i suoi figli ad andare a scuola.
Tornai in cima alla pagina e rilessi tutto daccapo, questa volta senza
saltare i retroscena. Secondo tutte le fonti, tra cui lo stesso Randy Weaver, i
problemi erano cominciati quando Randy aveva venduto due fucili a canne
mozze a un agente segreto conosciuto a un raduno dell’Aryan Nations.
Lessi questa frase più di una volta, in realtà molte volte. Poi capii: al cuore
della vicenda c’era il suprematismo bianco, non l’istruzione dei bambini. A
quanto pare lo Stato non aveva mai avuto l’abitudine di ammazzare la gente
perché non mandava i figli alla scuola pubblica. Mi sembrava una cosa così
ovvia, adesso, che non capivo come avessi potuto pensare altrimenti.
Per un doloroso momento pensai che il papà ci avesse mentito. Poi rividi
la paura sul suo volto, il pesante rantolo del suo respiro, e capii che credeva
davvero che fossimo in pericolo. Cercai una spiegazione e mi vennero in
mente delle parole strane, parole che avevo imparato solo pochi minuti
prima: paranoia, mania, illusioni di grandezza e di persecuzione. E
finalmente la vicenda cominciò ad avere un senso – quella sullo schermo, e
quella che mi ero portata dentro per tutta l’infanzia. Il papà doveva aver
letto di Ruby Ridge o visto qualcosa al telegiornale e in qualche modo
questa cosa, filtrata dal suo cervello delirante, aveva smesso di essere una
storia su qualcun altro ed era diventata una storia su di lui. Se lo Stato ce
l’aveva con Randy Weaver, di sicuro doveva avercela anche con Gene
Westover, da anni in prima linea nella guerra contro gli Illuminati. Non
accontentandosi più di leggere degli eroismi altrui, mio padre si era forgiato
un elmetto ed era montato in groppa a un ronzino.
Il disturbo bipolare diventò la mia ossessione. Lo scelsi come argomento
per la ricerca che eravamo tenuti a scrivere per il corso di psicologia, poi
usai quella ricerca come scusa per andare a parlare con ogni neuroscienziato
e specialista cognitivo che c’era all’università. Descrissi i sintomi del papà,
attribuendoli non a mio padre ma a un ipotetico zio. Alcuni dei sintomi
corrispondevano in pieno, altri no. I professori mi dissero che ogni caso è
diverso.
“Da come lo descrivi sembrerebbe piuttosto schizofrenia,” disse uno.
“Tuo zio si è mai fatto curare?”
“No,” risposi. “È convinto che i dottori siano parte di un complotto dello
Stato.”
“Questo complica le cose.”
Con tutta la delicatezza di un bulldozer, scrissi degli effetti che i genitori
bipolari hanno sui loro figli. Fui accusatoria, brutale. Scrissi che i figli dei
genitori bipolari sono esposti a un duplice fattore di rischio: primo perché
sono geneticamente predisposti ai disturbi dell’umore, e secondo per
l’ambiente famigliare stressante e negativo dato da genitori con simili
disordini.
In classe ero venuta a conoscenza dei neurotrasmettitori e dell’effetto che
questi avevano sulla chimica del cervello; sapevo quindi che la malattia non
era una scelta. Questa consapevolezza avrebbe potuto farmi vedere mio
padre con occhi più comprensivi, ma non fu così. Provavo solo rabbia.
Eravamo stati noi a pagare per questo, pensavo. La mamma. Luke. Shawn.
Eravamo stati feriti, sfregiati e contusi, le nostre gambe avevano preso
fuoco e le nostre teste erano state aperte. Avevamo vissuto in stato di
allerta, in una specie di terrore costante, col cervello inondato di cortisolo
perché sapevamo che quelle cose potevano succedere da un momento
all’altro. Perché il papà metteva sempre la fede davanti alla sicurezza.
Perché si credeva nel giusto e continuava a crederlo – dopo il primo
incidente con la macchina, dopo il secondo, dopo il bidone, il fuoco, il
bancale. E a pagare eravamo sempre noi.
Tornai a Buck Peak il fine settimana dopo aver consegnato la mia ricerca.
Ero a casa da meno di mezz’ora quando io e il papà cominciammo a
litigare. Disse che ero in debito con lui per la macchina. In realtà lo accennò
solamente, ma diedi fuori di matto, ebbi una crisi isterica. Era la prima volta
in vita mia che urlavo contro mio padre – non per la macchina, ma per gli
Weaver. Ero talmente piena di rabbia che le parole non mi uscirono di bocca
come parole, ma come singhiozzi strozzati, farfuglianti. Perché fai così?
Perché ci hai terrorizzati così? Perché ti sei battuto tanto contro dei mostri
inventati, ma non fai niente per i mostri che ci sono in casa tua?
Il papà mi guardò esterrefatto. Aveva la bocca aperta e le mani
abbandonate lungo i fianchi, che si contraevano di tanto in tanto come se
volesse alzarle, fare qualcosa. Non lo vedevo così smarrito da quando si era
accovacciato accanto alla carcassa della nostra station wagon a guardare il
volto gonfio e dilatato della mamma, senza poterla toccare perché i cavi
elettrici stavano mandando una scossa letale attraverso il metallo.
Scappai via, non so se per la vergogna o per la rabbia. Guidai senza mai
fermarmi fino alla Brigham. Mio padre chiamò alcune ore dopo. Non
risposi. Gridargli contro non era servito. Forse era meglio ignorarlo.
Quando il semestre finì, rimasi nello Utah. Era la prima volta che non
tornavo a Buck Peak per l’estate. Questo allontanamento non fu nulla di
ufficiale: semplicemente, non avevo voglia di vedere mio padre né di
sentire la sua voce.
Decisi di provare ad avere una vita normale. Per diciannove anni avevo
vissuto come voleva mio padre. Ora avrei provato qualcos’altro.
Mi trasferii in un nuovo appartamento dall’altra parte della città, dove
non mi conosceva nessuno. Volevo un nuovo inizio. La prima settimana, in
chiesa, il mio nuovo vescovo mi salutò con una cordiale stretta di mano, poi
passò a un altro nuovo arrivato. Il suo disinteresse mi rincuorò. Se riuscivo
a fingermi normale per un po’ di tempo, forse sarebbe stato come esserlo
davvero.
Fu in chiesa che conobbi Nick. Nick aveva degli occhiali quadrati e i
capelli scuri ingellati con cura in tanti spuntoni. Il papà avrebbe riso di un
uomo che si metteva il gel sui capelli e forse è per questo che a me piaceva
tantissimo. Mi piaceva anche che non conoscesse la differenza tra un
alternatore e un albero motore. Ma Nick era un esperto di libri, di
videogiochi e di marche di abbigliamento. E di parole. Aveva un
vocabolario incredibile.
Io e Nick facemmo coppia fin dall’inizio. Mi prese la mano la seconda
volta che ci vedemmo. Quando la sua pelle toccò la mia, mi preparai a
soffocare quel bisogno primario di allontanarlo, ma non arrivò. Fu strano ed
eccitante, e non volevo assolutamente che finisse. Avrei voluto essere
ancora nella mia vecchia parrocchia per correre dal vescovo e dirgli che ero
guarita.
Sopravvalutai i miei progressi. Ero talmente concentrata su quello che
andava bene che persi di vista quello che non andava. Io e Nick eravamo
insieme da alcuni mesi, e avevo passato diverse sere insieme alla sua
famiglia, quando finalmente dissi qualcosa della mia. Lo feci senza pensare,
accennando distrattamente a uno degli oli della mamma quando Nick si
lamentò per un dolore alla spalla. Era incuriosito – aspettava da tempo che
gli parlassi dei miei genitori –, ma mi odiai per lo scivolone e feci in modo
che non si ripetesse.
Verso la fine di maggio cominciai a sentirmi poco bene. Per una settimana
feci fatica a trascinarmi al lavoro, uno studio legale dove stavo facendo
tirocinio. Dormivo dalla sera presto alla mattina tardi e passavo il resto del
giorno a sbadigliare. Cominciò a farmi male la gola e mi andò giù la voce,
irruvidendosi in un gracchiare profondo, come se le mie corde vocali
fossero diventate di carta vetrata.
All’inizio Nick era divertito che non volessi andare dal dottore, ma col
peggiorare della malattia il suo divertimento si traformò in preoccupazione,
poi in perplessità. Minimizzai. “Non è così grave,” dissi. “Ci andrei se lo
fosse.”
Passò un’altra settimana. Lasciai il lavoro e cominciai a dormire tutto il
giorno e tutta la notte. Una mattina Nick arrivò senza preavviso.
“Andiamo dal dottore,” disse.
Feci per ribattere, ma poi vidi la sua faccia. Era come se volesse
chiedermi qualcosa ma sapesse che non aveva senso chiedermelo. La linea
tesa della bocca, gli occhi stretti. Ecco com’è la sfiducia, pensai.
Dovendo scegliere se andare da un malefico dottore socialista o
ammettere al mio fidanzato che credevo che i dottori fossero dei socialisti
malefici, scelsi il dottore.
“Ci andrò oggi,” dissi. “Promesso. Ma preferirei andarci da sola.”
“D’accordo,” disse lui.
Se ne andò, ma ora avevo un altro problema. Non sapevo come andare da
un dottore. Chiamai una compagna di corso e le chiesi di accompagnarmi in
macchina. Mi venne a prendere un’ora dopo e la guardai perplessa
oltrepassare l’ospedale a pochi isolati dal mio appartamento. Mi portò a una
palazzina a nord del campus che chiamò “clinica”. Cercai di fingermi
disinvolta, di comportarmi come se l’avessi già fatto, ma quando
attraversammo il parcheggio ebbi come la sensazione che la mamma mi
stesse guardando.
Non sapevo cosa dire alla receptionist. L’amica attribuì il mio silenzio al
mal di gola e spiegò quali sintomi avevo. Ci dissero di aspettare. Alla fine
un’infermiera mi portò in una stanzetta bianca dove mi pesò, mi provò la
pressione e mi fece un tampone alla lingua. Disse che di solito i mal di gola
così acuti erano causati dai batteri dello streptococco o dal virus della
mononucleosi. L’avrebbero scoperto nel giro di pochi giorni.
Quando furono pronti i risultati andai alla clinica da sola. Mi accolse un
dottore stempiato di mezza età. “Congratulazioni,” disse. “Sei positiva sia
allo streptococco che alla mononucleosi. Sei l’unica persona che ho visto
prendere entrambi.”
“Entrambi?” mormorai. “Com’è possibile?”
“Sei molto, molto sfortunata,” disse. “Posso darti della penicillina per lo
streptococco, ma non posso fare molto per la mononucleosi. Dovrai
aspettare che passi. Comunque, una volta che avremo eliminato lo
streptococco dovresti sentirti meglio.”
Il dottore chiese a un’infermiera di portare della penicillina. “Dobbiamo
cominciare subito con gli antibiotici,” disse. Tenni le pastiglie sul palmo
della mano e mi venne in mente il pomeriggio in cui Charles mi aveva dato
l’ibuprofene. Pensai alla mamma e a tutte le volte che mi aveva detto che
gli antibiotici avvelenano il corpo, che provocano infertilità e
malformazioni congenite. Che lo spirito del Signore non può dimorare in un
recipiente impuro e che nessun recipiente è puro quando abbandona Dio per
affidarsi agli uomini. O forse quest’ultima parte l’aveva detta il papà.
Buttai giù le pastiglie. Non so se lo feci per disperazione, perché stavo
malissimo, o se più banalmente lo feci per curiosità. Ero là nel cuore del
Sistema Medico e volevo vedere finalmente di cos’avevo sempre avuto
paura. Mi sarebbero sanguinati gli occhi? Mi sarebbe caduta la lingua?
Sarebbe successo senz’altro qualcosa di terribile. Dovevo sapere cosa.
Tornai al mio appartamento e chiamai la mamma. Pensai che confessare
avrebbe alleggerito il senso di colpa. Le dissi che ero andata da un dottore e
che avevo sia lo streptococco che la mononucleosi. “Sto prendendo la
penicillina,” dissi. “Volevo solo che lo sapessi.”
Lei cominciò a parlare velocemente, ma ero così stanca che non capii
molto. Quando sembrò calmarsi, dissi “ti voglio bene” e riagganciai.
Due giorni dopo arrivò un pacchetto espresso dall’Idaho. Dentro c’erano
sei boccette di tintura, due fiale di olio essenziale e un sacchetto di argilla
bianca. Riconobbi le preparazioni: gli oli e le tinture servivano a rafforzare
fegato e reni, e l’argilla era per un pediluvio depurativo. C’era un biglietto
della mamma: Queste erbe ti espelleranno gli antibiotici dall’organismo. Ti
prego, usale finché ti ostinerai a prendere le medicine. Ti voglio bene.
Mi appoggiai al cuscino e mi addormentai quasi subito, ma prima di farlo
scoppiai a ridere forte. Non mi aveva mandato dei rimedi contro lo
streptococco o la mononucleosi. Solo contro la penicillina.
La mattina dopo fui svegliata dal trillo del telefono. Era Audrey.
“C’è stato un incidente,” disse.
Le sue parole mi trasportarono in un altro momento, all’ultima volta che
avevo risposto al telefono e avevo sentito quelle parole al posto di un
saluto. Pensai a quel giorno e a cos’aveva detto subito dopo la mamma.
Sperai che Audrey stesse leggendo un copione diverso.
“È il papà,” disse. “Se fai in fretta, se parti subito, potrai dirgli addio.”
25.
L’opera dello zolfo

C’è una storia che mi raccontavano da bambina. L’ho sentita così tante
volte e fin da quand’ero così piccola, che non ricordo chi me l’abbia
raccontata per la prima volta. La storia parlava del nonno sotto la collina e
di come si era fatto la cicatrice sopra la tempia destra.
Quando il nonno era giovane aveva passato un’estate calda sulla
montagna, in sella alla cavalla bianca che usava al maneggio. Era un
esemplare alto e ammansito dall’età. A sentire la mamma, quella cavalla era
salda come una roccia e il nonno non stava mai molto attento quando la
cavalcava. A volte lasciava andare le redini nodose, magari per togliersi una
lappola dallo stivale o alzarsi il cappello rosso e asciugarsi la faccia con la
manica della camicia. La cavalla restava immobile. Ma pur essendo così
tranquilla, era terrorizzata dai serpenti.
“Deve aver visto qualcosa strisciare tra l’erba,” diceva la mamma quando
raccontava la storia, “perché ha scaraventato a terra il nonno.” Dietro di lui
c’era un vecchio frangizolle. Il nonno ci cadde addosso e un disco gli si
conficcò nella fronte.
Cosa fu esattamente a fracassare il cranio del nonno cambiava ogni volta
che sentivo la storia. A volte era un frangizolle, ma altre volte era una
roccia. Credo che nessuno lo sapesse per certo. Non c’erano testimoni. Il
colpo fece perdere i sensi al nonno, che non ricorda molto a parte che la
nonna lo trovò sulla veranda, insanguinato dalla testa agli stivali.
Nessuno sa come abbia fatto ad arrivare a casa.
Dal pascolo più alto alla casa c’è una distanza di circa un chilometro e
mezzo – un terreno roccioso con pendii ripidi e inclementi che il nonno non
poteva aver affrontato in quelle condizioni. Eppure c’era riuscito. La nonna
sentì raspare debolmente alla porta e quando l’aprì si trovò davanti il nonno,
accasciato a terra, con il cervello che gli gocciolava fuori dalla testa. Lo
portò di corsa in città, dove gli misero una placca di metallo.
Dopo che il nonno fu tornato a casa e si fu un po’ ripreso, la nonna andò a
cercare la cavalla bianca. Vagò per tutta la montagna ma alla fine la trovò
legata alla staccionata dietro al recinto, fissata con un nodo complesso che
non sapeva fare nessuno a parte suo padre Lott.
Certe volte, quand’ero a casa della nonna a mangiare i cornflake con il
latte proibito, chiedevo al nonno di raccontarmi come aveva fatto a
scendere dalla montagna. Diceva sempre che non lo sapeva. Poi faceva un
respiro profondo – lungo e lento, come per prepararsi a uno stato d’animo
più che a una storia – e raccontava tutto dall’inizio alla fine. Il nonno era un
uomo riservato, quasi taciturno. Potevi passare un intero pomeriggio a
ripulire i campi con lui e non sentire mai più di dieci parole di seguito. Solo
dei “Già”, “Quello no”, “Credo di sì”.
Ma se gli chiedevi come aveva fatto a scendere dalla montagna quel
giorno parlava per dieci minuti, anche se ricordava solo di essere rimasto
disteso sul campo, senza riuscire ad aprire gli occhi, col sole che gli seccava
il sangue sulla faccia.
“Ma ti dirò una cosa,” diceva poi, togliendosi il cappello e passandosi le
dita sulla cicatrice che aveva sul cranio. “Sentivo delle cose mentre ero
sdraiato sull’erba. Delle voci che parlavano. E ne ho riconosciuta una,
perché era di nonno Lott. Stava dicendo a qualcuno che il figlio di Albert
era nei guai. Era la voce di Lott, lo so per certo, come so che mi trovo qui in
questo momento.” Gli luccicavano un po’ gli occhi, poi continuava: “Il fatto
è che Lott era morto da quasi dieci anni”.
Questa parte della storia ci lasciava ammutoliti. Sia la mamma che la
nonna amavano raccontarla, ma io preferivo la mamma. Abbassava la voce
nei momenti giusti. Sono stati gli angeli, diceva, e una piccola lacrima le
scendeva a lato del sorriso. Li ha mandati tuo bisnonno Lott per portare il
nonno giù dalla montagna.
La cicatrice era molto brutta, un cratere di due centimetri sulla fronte.
Ogni tanto da piccola, quando la guardavo, m’immaginavo un dottore alto
col camice bianco che picchiava un martello su una lastra di metallo. Nella
mia fantasia, il dottore usava le stesse lastre di lamiera che usava il papà per
fare il tetto ai fienili.
Ma questo succedeva solo ogni tanto. Di solito vedevo qualcos’altro. Una
prova che i miei antenati si aggiravano per il picco, vigili e pazienti, con
degli angeli al loro servizio.
Non so perché il papà fosse in montagna da solo, quel giorno.
Aspettava lo sfasciacarrozze. Credo che volesse staccare un ultimo
serbatoio, ma non so cosa lo spinse ad accendere la fiamma ossidrica senza
prima aver tolto la benzina. Non so a che punto fosse, quante placche di
ferro avesse tagliato, quando una scintilla della fiamma ossidrica raggiunse
il serbatoio. Ma so che il papà era in piedi accanto alla macchina, il corpo
appoggiato al telaio, quando il serbatoio esplose.
Indossava una camicia a maniche lunghe, guanti di pelle e schermo da
saldatore. I più colpiti furono il volto e le dita. Il calore dell’esplosione fece
sciogliere lo schermo come se fosse un cucchiaio di plastica. La parte
inferiore del volto si squagliò: il fuoco consumò la plastica, poi la pelle, poi
i muscoli. Lo stesso avvenne con le dita – i guanti di pelle non poterono
nulla contro l’inferno che li avvolse e li attraversò. Poi le lingue di fuoco gli
lambirono le spalle e il petto. Quando strisciò via dal rottame in fiamme,
immagino che il papà sembrasse più un cadavere che un essere vivente.
Ancora non capisco come abbia potuto muoversi, né tantomeno
trascinarsi per quattrocento metri verso il fossato. Se c’è mai stato un uomo
bisognoso di angeli, quello fu mio padre. Ma ce la fece, inspiegabilmente, e
come suo padre anni prima si accasciò fuori dalla porta di sua moglie senza
riuscire a bussare.
Quel giorno mia cugina Kylie era venuta ad aiutare la mamma a
imbottigliare oli essenziali. C’erano anche delle altre donne, occupate a
pesare foglie secche o a filtrare tinture. Kylie sentì un colpetto sulla porta
sul retro, come se qualcuno stesse bussando piano con un gomito. L’aprì,
ma non ricorda cosa vide dall’altra parte. “L’ho rimosso,” mi avrebbe detto
in seguito. “Non riesco a ricordare cos’ho visto. Ricordo solo cosa ho
pensato, cioè Non ha la pelle.”
Portarono mio padre sul divano. Gli versarono il Rimedio d’emergenza –
il medicinale omeopatico contro gli shock – dentro la cavità senza labbra
che prima era la bocca. Gli diedero lobelia e scutellaria per il dolore, la
stessa mistura che la mamma aveva dato a Luke anni prima. Il papà tossì al
contatto con le medicine. Non riusciva a deglutire. Aveva respirato
quell’esplosione di fuoco e le sue interiora erano carbonizzate.
La mamma cercò di portarlo all’ospedale, ma tra i respiri rauchi lui
mormorò che preferiva morire piuttosto che andare da un dottore. La
mamma fu costretta ad arrendersi.
Gli tolsero delicatamente la pelle morta e gli spalmarono dell’unguento –
lo stesso che la mamma aveva usato per la gamba di Luke anni prima –
dalla vita alla punta dei capelli, poi lo fasciarono con delle bende. La
mamma gli diede dei cubetti di ghiaccio da succhiare, sperando di idratarlo,
ma l’interno della bocca e della gola erano talmente ustionati che non
assorbivano liquidi e, senza labbra né muscoli, il papà non riusciva a tenere
il ghiaccio in bocca. Gli scivolava in gola e lo soffocava.
Quella prima notte rischiarono di perderlo diverse volte. Il respiro
rallentava, poi si fermava e allora mia madre – e la schiera provvidenziale
di donne che lavoravano per lei – si affrettavano ad allineare chakra e
premere punti di pressione, qualsiasi cosa potesse convincere i suoi fragili
polmoni a riprendere a sferragliare.
Fu quella mattina che Audrey mi chiamò.6 Disse che il cuore del papà si
era fermato due volte durante la notte. Probabilmente sarebbe morto per
quello, per il cuore, se i polmoni non cedevano prima. In ogni caso, Audrey
era sicura che se ne sarebbe andato entro mezzogiorno.
Chiamai Nick. Gli dissi che dovevo andare qualche giorno nell’Idaho per
un problema famigliare, nulla di grave. Capì che gli stavo nascondendo
qualcosa – sentii la sofferenza nella sua voce –, ma smisi di pensarci nel
momento stesso in cui riagganciai.
Rimasi un momento in piedi con le chiavi in una mano e l’altra sulla
maniglia. Lo streptococco. E se lo passavo al papà? Prendevo la penicillina
da quasi tre giorni. Il dottore aveva detto che dopo ventiquattr’ore non sarei
più stata contagiosa, ma era un dottore e non mi fidavo di lui.
Aspettai un giorno. Presi più volte la dose prescritta di penicillina, poi
chiamai la mamma e le chiesi cosa dovevo fare.
“Dovresti tornare a casa,” disse, e le si spezzò la voce. “Non credo che lo
streptococco possa fare più nulla domani.”
Non ricordo il paesaggio durante il viaggio in macchina. I miei occhi
notarono a malapena il mosaico di campi di granoturco e di patate, o le
colline scure coperte di pini. Ma vedevo mio padre, l’aspetto che aveva
l’ultima volta, la sua espressione stravolta. Ripensai alla mia voce acuta e
rabbiosa mentre gli urlava contro.
Come Kylie, non ricordo cosa vidi quando arrivai e guardai mio padre. So
che quando la mamma aveva tolto la garza, quella mattina, le orecchie
erano talmente ustionate e la pelle così collosa che si erano fuse col tessuto
viscoso sottostante. Quando entrai dalla porta sul retro la prima cosa che
vidi fu la mamma con un coltello da burro in mano che cercava di separare
le orecchie di mio padre dal cranio. La rivedo ancora mentre stringeva il
coltello, gli occhi fissi, concentrati. Ma al posto di mio padre c’è un buco
nella memoria.
In sala c’era un odore forte di carne bruciata e di consolida maggiore,
verbasco e piantaggine. Guardai la mamma e Audrey cambiare le ultime
bende. Cominciarono con le mani. Le dita erano viscide, rivestite di una
melma bianchiccia che poteva essere pelle sciolta oppure pus. Le braccia
non erano ustionate, nemmeno le spalle o la schiena, ma una spessa striscia
di garza gli correva sulla pancia e sul petto. Quando la tolsero, fui contenta
di vedere delle grosse chiazze di pelle viva e arrossata. C’erano alcuni
crateri nei punti dove probabilmente si erano concentrate le fiamme.
Mandavano un odore acre, come di carne marcia, ed erano pieni di una
sostanza bianca.
Ma fu la sua faccia a tormentarmi nel sonno quella notte. La fronte e il
naso c’erano ancora. La pelle attorno agli occhi e di parte delle guance era
rosa e sana. Ma sotto il naso, niente era dove doveva essere. Rossa,
maciullata, cadente, quella faccia sembrava una maschera teatrale di
plastica che fosse stata tenuta troppo vicino a una candela.
Il papà non ingeriva nulla da quasi tre giorni. Niente cibo, niente acqua.
La mamma chiamò un ospedale dello Utah e li supplicò di darle una flebo.
“Devo reidratarlo,” disse. “Morirà se non gli do dell’acqua.”
Il dottore disse che avrebbe mandato subito un elicottero, ma la mamma
disse di no. “Allora non la posso aiutare,” rispose il dottore. “Lo ucciderà, e
io non voglio responsabilità.”
La mamma era fuori di sé. In un ultimo tentativo disperato fece un
clistere al papà, spingendogli dentro il tubo il più possibile e cercando di
pompargli nel retto abbastanza liquido da tenerlo in vita. Non sapeva se
avrebbe funzionato, né se c’era un organo in quella parte del corpo in grado
di assorbire l’acqua, ma era l’unico orifizio che non si era bruciato.
Quella notte dormii sul pavimento della sala per essere là nel caso in cui
l’avessimo perso. Mi svegliai più volte per i rantoli, i movimenti
improvvisi, i mormorii; era successo di nuovo, aveva smesso di respirare.
Un’ora prima dell’alba, il respiro si fermò ancora ed ero sicura che fosse
finita: era morto e non si sarebbe più ripreso. Misi la mano su un angolo di
fasciatura mentre Audrey e la mamma si precipitavano attorno a me,
recitando preghiere e dandogli dei colpetti. Non c’era pace in quella stanza,
o forse semplicemente non c’era pace dentro di me. Erano anni che io e mio
padre vivevamo un conflitto, un continuo scontro di volontà. Credevo di
averlo accettato, di aver accettato il nostro rapporto per quel che era. Ma in
quel momento mi resi conto di quanto contassi su una fine delle ostilità, su
un futuro in cui saremmo stati un padre e una figlia in pace.
Gli guardai il petto, pregai che respirasse, ma non lo fece. Ormai era
passato troppo tempo. Ero sul punto di allontanarmi per permettere a mia
madre e a mia sorella di dirgli addio, quando tossì – una tosse secca e
graffiante simile a carta crespa che si accartocciava. Poi, come Lazzaro
risuscitato, il suo petto cominciò ad alzarsi e abbassarsi.
Dissi alla mamma che me ne andavo. Le dissi che forse il papà ce
l’avrebbe fatta. E in quel caso, non potevamo rischiare che l’uccidesse lo
streptococco.
L’attività della mamma come erborista si arrestò. Le donne che
lavoravano per lei smisero di fare tinture e imbottigliare oli e cominciarono
a preparare litri e litri di unguento – una nuova ricetta a base di consolida
maggiore, lobelia e piantaggine che la mamma aveva ideato appositamente
per mio padre. La mamma gli spalmava l’unguento sulla parte superiore del
corpo due volte al giorno. Non ricordo quali altri trattamenti usarono né
conosco abbastanza il lavoro energetico per spiegare cosa fecero. So solo
che nelle prime due settimane finirono quasi sessantacinque litri di
unguento e che la mamma ordinava quintali di garza.
Tyler arrivò in aereo dalla Purdue. Prese il posto della mamma,
occupandosi di cambiare le fasciature sulle dita del papà ogni mattina e di
grattare via gli strati di pelle e muscolo che si erano necrotizzati durante la
notte. Non faceva male. I nervi erano morti. “Ho tolto così tanti strati,” mi
disse, “che ero sicuro che una mattina avrei toccato l’osso.”
Le dita del papà si piegarono, inarcandosi all’indietro in maniera
innaturale all’altezza delle giunture. Questo perché i tendini avevano
cominciato a raggrinzirsi e a contrarsi. Tyler cercò di chiudergli le dita e di
allungare i tendini per impedire che la malformazione diventasse
permanente, ma il papà non riusciva a sopportare il dolore.
Tornai a Buck Peak quando fui certa di aver debellato del tutto lo
streptococco. Mi sedetti sul letto del papà a dargli dell’acqua con un
contagocce medico e a somministrargli verdure frullate come se fosse un
bebé. Non parlava quasi mai. Il dolore gli impediva di concentrarsi; riusciva
a malapena a cominciare una frase che la sua mente si perdeva. La mamma
si offrì di comprargli dei farmaci, gli analgesici più potenti che poteva
procurarsi, ma lui rifiutò. Era il dolore del Signore, disse, e doveva
sopportarlo fino in fondo.
Mentre ero via, avevo perlustrato ogni videoteca nel raggio di
centosessanta chilometri, finché avevo trovato un cofanetto con la serie
completa degli Honeymooners. Lo mostrai al papà. Lui batté le palpebre per
farmi capire che aveva visto. Gli chiesi se voleva guardare un episodio.
Batté di nuovo le palpebre. Infilai la prima cassetta nel videoregistratore e
mi sedetti accanto a lui, studiandogli il volto deforme e ascoltando il suo
uggiolare sommesso mentre sullo schermo Alice Kramden la faceva
continuamente in barba al marito.
6
È possibile che qui la mia ricostruzione sia imprecisa di un giorno o due. Secondo alcuni
testimoni, pur essendo terribilmente ustionato, mio padre non corse veri pericoli fino al terzo giorno,
quando cominciarono a formarsi le croste, che resero difficile la respirazione. La disidratazione
peggiorò le cose. Secondo questa versione, fu allora che si temette per la sua vita e che mia sorella mi
chiamò, ma io fraintesi pensando che l’esplosione fosse avvenuta il giorno prima.
26.
Aspettando che si muovano le acque

Il papà non lasciò il letto per due mesi, tranne quando uno dei miei fratelli
lo sollevava di peso. Pisciava dentro una bottiglia e continuava con i
clisteri. Anche quando fu chiaro che sarebbe sopravvissuto, non sapevamo
che genere di vita avrebbe avuto. Non potevamo fare altro che aspettare e
dopo un po’ ci sembrò che tutto quello che facevamo fosse solo una specie
di attesa – attesa di dargli da mangiare, di cambiargli le fasciature. Di
vedere se sarebbe tornato quello di prima.
Era difficile immaginare un uomo come il papà – così orgoglioso, forte,
fisico – menomato a vita. Mi chiesi come avrebbe fatto se la mamma avesse
sempre dovuto tagliargli il cibo nel piatto e come poteva avere una vita
felice se non era in grado di prendere in mano un martello. Erano cambiate
così tante cose.
Ma oltre alla tristezza, provavo anche un senso di speranza. Il papà era
sempre stato un uomo duro, uno che sapeva la verità su tutto e non voleva
sentire ragione dagli altri. Eravamo sempre noi ad ascoltare lui, mai il
contrario: se non era lui a parlare, pretendeva silenzio.
L’incidente lo trasformò da oratore a osservatore. Faceva fatica a parlare
per via del dolore costante, ma anche perché aveva la gola ustionata. Così
guardava e ascoltava. Rimase là sdraiato ora dopo ora, giorno dopo giorno,
con gli occhi vigili e la bocca chiusa.
Nel giro di poche settimane mio padre – che tempo prima non avrebbe
saputo azzeccare la mia età entro un margine di cinque anni – sapeva dei
miei corsi, del mio fidanzato, del mio lavoro estivo. Non gli avevo detto
nulla, ma mi aveva sentito chiacchierare con Audrey mentre cambiavamo le
bende.
“Vorrei sapere di più su quei corsi,” gracchiò una mattina sul finire
dell’estate. “Sembrano molto interessanti.”
Fu come un nuovo inizio.
Il papà era ancora costretto a letto quando Shawn ed Emily annunciarono
il loro fidanzamento. Era l’ora di cena e la famiglia era riunita attorno al
tavolo della cucina, quando Shawn disse che forse, alla fine, avrebbe
sposato Emily. Ci fu un momento di silenzio mentre le forchette sfregavano
contro i piatti. La mamma chiese se diceva sul serio. Lui disse che no,
probabilmente avrebbe trovato di meglio prima di dover fare quel passo.
Emily gli era seduta accanto con un sorriso sbieco sul volto.
Quella notte non chiusi occhio. Continuavo a controllare il chiavistello
sulla mia porta. Il presente sembrava indifeso rispetto al passato, come se
potesse esserne sopraffatto, come se in un batter d’occhio potessi avere di
nuovo quindici anni.
La mattina dopo Shawn disse che lui ed Emily sarebbero andati a fare una
cavalcata di più di venti chilometri fino al lago Bloomington. Li sorpresi
entrambi dicendo che sarei andata con loro. Avevo l’ansia al pensiero di
passare tutte quelle ore nella natura insieme a Shawn, ma la soffocai. C’era
una cosa che dovevo fare.
Cinquanta chilometri sembrano centocinquanta quando sei a cavallo,
soprattutto se il tuo corpo è più abituato a stare su una sedia che su una
sella. Quando arrivammo al lago, Shawn ed Emily scesero agilmente dai
loro cavalli e cominciarono ad accamparsi. Io non potei far altro che slegare
la sella di Apollo e sedermi su un albero caduto. Guardai Emily montare la
tenda dove avrebbe dormito insieme a me. Emily era alta e incredibilmente
magra, con capelli lunghi e lisci così biondi che sembravano argentati.
Facemmo un falò e cantammo alcune canzoni da campeggio. Giocammo
a carte. Poi ci ritirammo nelle nostre tende. Rimasi sdraiata al buio accanto
a Emily ad ascoltare i grilli. Stavo cercando un modo per cominciare il
discorso – per dirle che non doveva sposare mio fratello – quando parlò.
“Vorrei parlarti di Shawn,” disse. “So che ha dei problemi.”
“Già,” dissi io.
“È un uomo spirituale,” continuò. “Dio gli ha dato una vocazione
speciale. Per aiutare la gente. Mi ha raccontato come ha aiutato Sadie. E
come ha aiutato te.”
“Non mi ha aiutato.” Avrei voluto dire di più, spiegarle quello che mi
aveva detto il vescovo. Ma non erano parole mie. Io non avevo parole.
Avevo fatto cinquanta chilometri per parlare e adesso ero muta.
“Il diavolo lo tenta più degli altri,” disse Emily. “A causa delle sue doti
naturali, perché è una minaccia per Satana. È per questo che ha dei
problemi. Per la sua virtù.”
Si tirò su a sedere. Vedevo il profilo della sua lunga coda di cavallo nel
buio. “Mi ha detto che mi farà soffrire,” disse. “So che è colpa di Satana.
Ma certe volte ho paura di lui, ho paura di quello che farà.”
Le dissi che non avrebbe dovuto sposare qualcuno che le faceva paura,
che nessuno doveva farlo, ma le parole mi morirono sulle labbra. Ci
credevo ma non le capivo abbastanza per renderle vive.
Fissai l’oscurità cercandole il volto, tentando di capire che potere aveva
mio fratello su di lei. Sapevo che aveva avuto lo stesso potere su di me. In
parte ce l’aveva ancora. Non ero né succube né libera.
“È un uomo spirituale,” ripeté. Poi s’infilò nel suo sacco a pelo e capii
che la nostra conversazione era finita.
Tornai alla Brigham alcuni giorni prima del semestre autunnale. Andai
dritta all’appartamento di Nick. Non ci eravamo quasi più parlati. Ogni
volta che telefonava, sembrava che ci fosse sempre bisogno di me per
cambiare una fasciatura o preparare l’unguento. Nick sapeva che mio padre
si era ustionato, ma non sapeva quanto. Gli avevo nascosto più cose di
quante gliene avessi dette. Non gli avevo mai parlato dell’esplosione, né
che quando “andavo a trovare” mio padre non era in un ospedale ma nel
salotto di casa nostra. Non gli avevo detto del cuore che si era fermato. Non
gli avevo descritto le mani contorte, né i clisteri, né gli strati di tessuto
liquefatto che gli avevamo grattato via dal corpo.
Bussai e Nick venne ad aprire la porta. Sembrava sorpreso di vedermi.
“Come sta tuo padre?” mi chiese quando mi fui seduta sul divano insieme a
lui.
Ripensandoci, questo fu probabilmente il momento più importante della
nostra amicizia, il momento in cui avrei potuto fare una cosa, la cosa
migliore, e invece feci qualcos’altro. Era la prima volta che vedevo Nick
dopo l’esplosione. Avrei potuto raccontargli tutto: che la mia famiglia non
credeva nella medicina moderna, che stavamo curando l’ustione a casa con
unguenti e omeopatia, che era stato terribile, più che terribile. Che mi sarei
ricordata l’odore di carne bruciata fino alla fine dei miei giorni. Avrei
potuto dirgli tutto questo, liberarmi di un peso, lasciare che la nostra
relazione portasse quel peso e diventasse più forte. Invece mi tenni tutto
dentro e la mia amicizia con Nick, già anemica, malnutrita e trascurata,
cominciò a morire.
Credevo che sarei riuscita a riparare il danno – che adesso che ero tornata,
questa sarebbe stata la mia vita, e non importava se Nick non sapeva nulla
di Buck Peak. Ma il picco si rifiutava di lasciarmi. Mi rimase attaccato.
Spesso i crateri neri sul petto di mio padre si materializzavano sulle lavagne
e vedevo la cavità incurvata della sua bocca sulle pagine dei libri di testo. In
un certo senso quel mondo ricordato era più vivido del mondo reale in cui
vivevo, e oscillavo tra i due. Nick mi prendeva la mano e per un momento
ero con lui, sentivo la sorpresa della sua pelle sulla mia. Ma quando
guardavo le nostre dita intrecciate qualcosa cambiava e la mano non era più
quella di Nick. Era insanguinata e con gli artigli. Non era più una mano.
Quando dormivo mi abbandonavo totalmente al picco. Sognavo Luke, i
suoi occhi rovesciati all’indietro. Sognavo il papà, il lento sferragliare nei
suoi polmoni. Sognavo Shawn, il momento in cui mi aveva spezzato il
polso nel parcheggio. Sognavo me stessa, che gli zoppicavo accanto e
scoppiavo in quella risata stridula e orribile. Ma nei miei sogni avevo i
capelli lunghi e argentati.
Il matrimonio fu a settembre.
Arrivai in chiesa carica di energia nervosa, come se fossi in missione da
un futuro disastroso e le mie azioni avessero ancora un peso e i miei
pensieri delle conseguenze. Non sapevo cos’ero stata mandata a fare, così
mi torsi le mani e mi mordicchiai le guance in attesa del momento cruciale.
Cinque minuti prima della cerimonia, vomitai nel bagno delle donne.
Quando Emily disse “Lo voglio”, le forze mi abbandonarono. Diventai di
nuovo uno spirito e tornai fluttuando verso la Brigham. Fissai le Montagne
Rocciose dalla finestra della camera e mi sembrarono inverosimili. Come
dei dipinti.
Una settimana dopo il matrimonio ruppi con Nick – in malo modo, anche
se mi vergogno a dirlo. Non gli parlai mai della mia vita precedente, non gli
accennai mai al mondo che aveva invaso e distrutto quello che
condividevamo insieme. Avrei potuto spiegare. Avrei potuto dire: “Quel
posto ha una certa influenza su di me, forse non me ne libererò mai”.
Questo avrebbe centrato il punto. Invece sprofondavo nel tempo. Era troppo
tardi per confidarsi con Nick, per portarlo con me, ovunque stessi andando.
Così gli dissi addio.
27.
Se fossi una donna

Ero venuta alla Brigham per studiare musica, pensando che un giorno
avrei potuto dirigere il coro di una chiesa. Ma quel semestre, nell’autunno
del mio terzo anno, non mi iscrissi a nessun corso di musica. Non saprei
dire perché abbandonai teoria musicale avanzata a favore di geografia e
politica comparata, o perché rinunciai a solfeggio per seguire storia degli
ebrei. Ma quando avevo visto quei corsi sulla lista e letto ad alta voce i loro
nomi avevo percepito qualcosa di immenso, e volevo conoscere
quell’immensità.
Per quattro mesi frequentai delle lezioni di geografia, storia e politica.
Scoprii chi era Margaret Thatcher e cos’erano il Trentottesimo parallelo e la
Rivoluzione culturale. Studiai la politica parlamentare e i sistemi elettorali
di tutto il mondo. Venni a conoscenza della diaspora ebraica e della strana
storia dei Protocolli dei Savi di Sion. Verso la fine del semestre il mondo
sembrava vasto ed era difficile immaginare di tornare alla montagna, a una
cucina, o perfino a un pianoforte nella stanza accanto alla cucina.
Questo mi provocò una specie di crisi. Il mio amore per la musica e il mio
desiderio di studiarla erano compatibili con la mia idea di cos’è una donna.
Il mio amore per la storia, la politica e gli affari internazionali no. Eppure
erano queste le materie che mi chiamavano.
Alcuni giorni prima degli esami finali rimasi seduta un’ora in un’aula
vuota insieme al mio amico Josh. Stava controllando la sua domanda di
ammissione alla facoltà di Legge mentre io sceglievo quali corsi seguire nel
semestre successivo.
“Se tu fossi una donna,” gli chiesi, “studieresti Legge lo stesso?”
Josh non alzò lo sguardo. “Se fossi una donna,” disse, “non vorrei
studiare Legge.”
“Ma non parli d’altro da quando ti conosco. Studiare Legge è il tuo
sogno, no?”
“Sì,” ammise. “Ma non lo sarebbe se fossi una donna. Le donne sono
diverse. Non hanno questa ambizione. La loro ambizione sono i figli.” Mi
sorrise come se sapessi di cosa stava parlando. E lo sapevo. Sorrisi, e per
alcuni secondi fummo d’accordo.
Poi: “Ma se fossi una donna e per qualche motivo ti sentissi come ti senti
adesso?”.
Gli occhi di Josh fissarono un momento la parete. Ci stava pensando. Poi
disse: “Penserei che ho qualcosa che non va”.
Era dall’inizio del semestre, da quando avevo frequentato la mia prima
lezione di affari internazionali, che mi chiedevo se avevo qualcosa che non
andava. Non capivo come potessi essere una donna ma essere attratta da
cose che non erano da donna.
Sapevo che qualcuno doveva avere la risposta, così decisi di chiedere a
uno dei miei docenti. Scelsi quello del corso di storia ebraica perché era un
tipo tranquillo e pacato. Il professor Kerry era basso, con gli occhi scuri e
un’espressione seria. Si presentava a lezione con una pesante giacca di lana
anche quando faceva caldo. Bussai piano alla porta del suo ufficio,
sperando quasi che non rispondesse, e un momento dopo mi trovai seduta in
silenzio davanti a lui. Non sapevo cosa chiedere di preciso e lui non insisté.
Invece mi fece delle domande generiche – sui miei voti, sui corsi che stavo
seguendo. Mi chiese perché avevo scelto storia ebraica e senza pensarci
risposi che avevo scoperto cos’era l’Olocausto solo pochi semestri prima e
volevo sapere il resto della storia.
“Quando hai scoperto cos’è l’Olocausto?” disse.
“Alla Brigham.”
“Non te l’hanno insegnato a scuola?”
“Credo di sì,” dissi. “Ma io non c’ero.”
“E dov’eri?”
Spiegai meglio che potei che i miei genitori non credevano nella scuola
pubblica, che ci avevano tenuti a casa. Quand’ebbi finito, lui intrecciò le
dita come se stesse riflettendo su un problema difficile. “Dovresti metterti
alla prova. Vedere che succede.”
“Mettermi alla prova in che senso?”
Si piegò in avanti di scatto, come se avesse appena avuto un’idea. “Hai
mai sentito parlare di Cambridge?” Non l’avevo mai sentito. “È
un’università in Inghilterra,” disse. “Una delle migliori al mondo. Ci
organizzo un programma di studio all’estero. È molto competitivo ed
estremamente impegnativo. Può darsi che non ti prendano, ma in caso
contrario potrebbe darti un’idea delle tue capacità.”
Tornai al mio appartamento non sapendo bene cosa pensare di quel
colloquio. Cercavo un sostegno morale, qualcuno che conciliasse la mia
vocazione di moglie e madre con la mia vocazione a fare altro. Ma al
professore non interessava. Era come se mi avesse detto: “Prima capisci
cosa sai fare, poi decidi chi sei”.
Feci domanda per il programma.
Emily era incinta. La gravidanza non stava andando bene. Entro la fine
del terzo mese aveva quasi avuto un aborto spontaneo e adesso che era circa
alla ventesima settimana le erano venute le contrazioni. La mamma, che le
faceva da levatrice, le aveva dato l’erba di San Giovanni e altri rimedi. Le
contrazioni diminuirono ma non smisero del tutto.
Quando arrivai a Buck Peak per Natale, mi aspettavo di trovare Emily a
riposo a letto. Non fu così. La trovai in piedi al bancone della cucina che
filtrava erbe insieme a una manciata di altre donne. Parlava poco e
sorrideva anche meno, non faceva altro che spostarsi qua e là per la casa
con tinozze di viburno e cardiaca. Era talmente silenziosa da sembrare
invisibile e dopo poco minuti mi dimenticai della sua presenza.
Erano passati sei mesi dall’esplosione e, anche se il papà era di nuovo in
piedi, era chiaro che non sarebbe più tornato quello di prima. Non riusciva
quasi ad attraversare una stanza senza restare senza fiato da tanto erano
danneggiati i suoi polmoni. La pelle sulla parte inferiore del volto era
ricresciuta ma era fragile e cerea, come se qualcuno l’avesse sfregata con
della carta vetrata fino a renderla trasparente. Le orecchie erano piene di
cicatrici. Le labbra sottili e la bocca cadente gli davano un’aria smunta e
invecchiata. Ma era la mano destra la più impressionante: le dita erano
bloccate ciascuna in una posa diversa, alcune arricciate, altre curve, ritorte
in una grinfia nodosa. Poteva reggere un cucchiaio se l’incuneava tra
l’indice, piegato verso l’alto, e l’anulare, curvato in basso, ma faceva fatica
a mangiare. Eppure mi chiesi se un trapianto di pelle avrebbe avuto lo
stesso risultato dell’unguento di consolida e lobelia della mamma. Era un
miracolo, a detta di tutti, così fu quello il nome che diedero alla ricetta.
Dopo l’ustione del papà, diventò l’Unguento Miracoloso.
La mia prima sera al picco, a cena, il papà parlò dell’esplosione come di
un atto di misericordia del Signore. “È stata una benedizione,” disse. “Un
miracolo. Dio mi ha risparmiato la vita e mi ha affidato una splendida
missione. Per attestare la Sua potenza. E mostrare alla gente che c’è
un’alternativa al Sistema Medico.”
Lo guardai cercare d’incastrarsi senza successo il coltello tra le dita per
tagliare l’arrosto. “Non sono mai stato davvero in pericolo,” disse. “E ve lo
dimostrerò. Non appena riuscirò ad attraversare il cortile senza rischiare di
svenire, prenderò una fiamma ossidrica e staccherò un altro serbatoio.”
La mattina dopo, quando andai a fare colazione, trovai un gruppetto di
donne riunite attorno a mio padre. Silenziose e con gli occhi luccicanti, lo
stavano ascoltando parlare delle visitazioni divine ricevute mentr’era in
bilico tra la vita e la morte. Era stato assistito dagli angeli, diceva, come i
profeti del passato. C’era qualcosa nel modo in cui quelle donne lo
guardavano. Qualcosa di simile all’adorazione.
Le osservai per tutta la mattina e mi resi conto del cambiamento
provocato dal miracolo di mio padre. Prima le donne che lavoravano per la
mamma le si erano sempre rivolte in modo informale, facendole delle
domande pratiche attinenti al lavoro. Adesso il loro tono era sommesso e
pieno di ammirazione. A volte si litigavano ferocemente la considerazione
di mia madre o di mio padre. Il cambiamento in sostanza poteva essere
riassunto così: se prima erano delle dipendenti, adesso erano delle seguaci.
La storia dell’ustione del papà era diventata una specie di mito: veniva
raccontata in continuazione, ai nuovi arrivati come ai vecchi. Non passava
pomeriggio senza che in casa non si sentisse una qualche narrazione del
miracolo, e a volte queste narrazioni erano tutt’altro che accurate. Un
giorno sentii la mamma dire a una stanza piena di volti devoti che il papà
aveva riportato ustioni di terzo grado sul sessantacinque percento della
parte alta del corpo. Non era vero. Da quel che ricordavo, il grosso del
danno era superficiale: le braccia, la schiena e le spalle erano quasi rimaste
illese. Solo la parte inferiore del volto e le mani avevano ustioni di terzo
grado. Ma non dissi nulla.
Per la prima volta sembrava che i miei genitori la pensassero allo stesso
modo. La mamma non stemperava più le dichiarazioni del papà dopo che
lui lasciava la stanza, né dava sommessamente una sua opinione. Era stata
trasformata dal miracolo – trasformata in lui. Ricordavo quand’era una
giovane levatrice, così cauta, così umile quando si trattava delle vite di cui
era responsabile. Ora quell’umiltà sembrava scomparsa. Il Signore stesso
guidava le sue mani e se capitava una disgrazia era solo il volere di Dio.
Alcune settimane dopo Natale, l’università di Cambridge scrisse al
professor Kerry dicendo che avevano rifiutato la mia domanda. “C’è
moltissima competizione,” mi spiegò quando andai nel suo ufficio.
Lo ringraziai e feci per andarmene.
“Un momento,” disse. “Cambridge mi ha raccomandato di scrivere se
pensavo ci fossero delle grandi ingiustizie.”
Non capii, così ripeté. “Potevo aiutare uno studente solo,” disse. “Ti
hanno offerto un posto, se vuoi.”
Mi sembrava impossibile che mi avessero preso. Poi mi resi conto che mi
serviva un passaporto e che senza un vero certificato di nascita era difficile
che me lo dessero. Cambridge non era un posto per una come me. Era come
se l’universo lo sapesse e stesse cercando d’impedire quella blasfemia.
Feci richiesta di persona. L’impiegata allo sportello rise di gusto quando
vide la mia dichiarazione tardiva di nascita. “Nove anni!” disse. “Nove anni
non significa tardiva. Ha altre documentazioni?”
“Sì,” dissi. “Ma con date di nascita diverse. E su una c’è un nome
diverso.”
Stava ancora sorridendo. “Data diversa e nome diverso? No, non può
andare. Non potrà mai avere un passaporto.”
Tornai dall’impiegata molte altre volte, insistendo, finché alla fine fu
trovata una soluzione. Zia Debbie andò in tribunale e firmò una deposizione
giurata in cui garantiva che ero quella che dicevo di essere. Mi diedero un
passaporto.
A febbraio Emily partorì. Il bambino pesava poco più di mezzo chilo.
Quando Emily aveva cominciato ad avere le contrazioni, a Natale, la
mamma aveva detto che la gravidanza sarebbe avvenuta secondo il volere
di Dio. Il Suo volere, a quanto pare, fu che Emily partorisse in casa dopo
una gestazione di ventisei settimane.
Quella sera ci fu una bufera di neve, una di quelle poderose tormente di
montagna che rendono deserte le strade e chiudono le città. Emily era nelle
fasi avanzate del travaglio quando la mamma si rese conto che bisognava
portarla in ospedale. Il bambino, che chiamarono Peter, comparve alcuni
minuti dopo, scivolando fuori da Emily con tanta facilità che la mamma
disse di averlo “preso” più che averlo fatto nascere. Era immobile e color
cenere. Shawn pensò che fosse morto. Poi la mamma sentì un debole battito
cardiaco – in realtà vide il suo cuore pulsare attraverso il sottile velo di
pelle. Mio padre corse al furgone e cominciò a raschiare via la neve e il
ghiaccio. Shawn prese in braccio Emily e la sistemò sul sedile di dietro, poi
la mamma le mise il neonato sul petto e lo coprì, creando un’incubatrice di
fortuna. Marsupioterapia, l’avrebbe chiamata in seguito.
Mio padre partì. La tempesta infuriava. Nell’Idaho lo chiamiamo
whiteout: quando il vento sferza la neve così violentemente da imbiancare
la strada, coprendola come un velo, e non si vedono più né l’asfalto, né i
campi né i fiumi; non si vede niente a parte nuvole di bianco. In qualche
modo, sbandando tra la neve, arrivarono in città, ma l’ospedale era piccolo
e non era attrezzato per occuparsi di un così fragile sussulto di vita. I dottori
dissero che dovevano portarlo al McKay-Dee, in Oregon, il prima possibile,
non c’era tempo da perdere. Non potevano usare l’elicottero per via della
tormenta, così lo mandarono in ambulanza. In realtà mandarono due
ambulanze, nel caso in cui la prima restasse bloccata dalla tempesta.
Sarebbero passati molti mesi e innumerevoli operazioni chirurgiche al
cuore e ai polmoni prima che Shawn ed Emily portassero a casa il piccolo
fuscello di carne che mi presentarono come mio nipote. Anche se ormai era
fuori pericolo, i dottori dissero che i polmoni potevano non svilupparsi mai
del tutto. Rischiava di restare sempre cagionevole.
Il papà disse che Dio aveva orchestrato il parto così come aveva fatto con
l’esplosione. La mamma gli fece eco, aggiungendo che Dio le aveva posato
un velo sugli occhi perché non fermasse le contrazioni. “Peter doveva
venire al mondo così,” disse. “È un dono di Dio, e Dio dispensa i Suoi doni
come Gli pare e piace.”
28.
Pigmalione

La prima volta che vidi il King’s College, a Cambridge, non pensai che
era un sogno, ma solo perché la mia immaginazione non aveva mai prodotto
nulla di così grandioso. Il mio sguardo si posò su una torre dell’orologio
con intagli in pietra. Mi portarono alla torre, poi l’attraversammo ed
entrammo nel college. C’era un lago d’erba tagliata alla perfezione e,
dall’altra parte, un edificio color avorio di cui riconobbi vagamente lo stile
greco-romano. Ma era la cappella gotica, una montagna di pietra lunga
novanta metri e alta trenta, la vera protagonista.
Mi accompagnarono oltre la cappella e in un altro cortile, poi su per una
scala a chiocciola. Fu aperta una porta e mi fu detto che quella era la mia
stanza. Poi mi lasciarono sola perché potessi ambientarmi. Il signore gentile
che me lo disse non si rese conto di quanto fosse impossibile.
La colazione la mattina seguente fu servita in una grande sala. Era come
mangiare in una chiesa, il soffitto era cavernoso, e mi sentivo
continuamente osservata, come se tutti sapessero che ero nel posto
sbagliato. Avevo scelto un lungo tavolo pieno di altri studenti provenienti
dalla Brigham. Le ragazze parlavano dei vestiti che avevano portato.
Marianne era andata a fare shopping quando aveva saputo che era stata
ammessa al programma. “In Europa servono dei capi diversi,” disse.
Heather era d’accordo. Sua nonna le aveva pagato il biglietto aereo, così
lei aveva potuto rinnovare il suo guardaroba. “La gente qui si veste in
maniera più raffinata,” disse. “Non vanno bene i jeans.”
Pensai di correre in camera a togliermi la mia felpa e le scarpe di tela, ma
non avevo nient’altro da mettermi. Non avevo vestiti come quelli di
Marianne ed Heather – quei cardigan dai colori vivaci, accentuati da sciarpe
delicate. Non mi ero comprata nulla di nuovo per Cambridge perché avevo
dovuto chiedere un prestito studentesco anche solo per pagare le rette. E
poi, anche se avessi avuto i vestiti di Marianne e di Heather, non avrei
saputo portarli.
Arrivò il professor Kerry, che annunciò che eravamo invitati a fare un
tour della cappella. Potevamo anche salire sul tetto. Ci fu un parapiglia
generale mentre riportavamo i vassoi e seguivamo il professore fuori dalla
sala. Rimasi in fondo al gruppo mentre attraversavamo il cortile.
Non appena misi piede nella cappella rimasi senza fiato. La sala – se uno
spazio del genere si poteva definire sala – era immensa, come se potesse
contenere l’intero oceano. Superammo una porticina di legno e salimmo per
una stretta scala a chiocciola con dei gradini di pietra che sembravano
infiniti. Alla fine la scala sbucava sul tetto, che era molto inclinato, una V
capovolta e circondata da parapetti di pietra. Forti raffiche di vento
spingevano le nuvole attraverso il cielo. C’era una vista spettacolare e la
città sembrava miniaturizzata, completamente rimpicciolita dalla cappella.
Senza pensarci, mi arrampicai su uno spiovente del tetto e m’incamminai
lungo la linea di colmo, lasciandomi investire dal vento mentre guardavo in
lontananza la distesa di strade tortuose e cortili di pietra.
“Non hai paura di cadere,” disse una voce. Mi voltai. Era il professor
Kerry. Mi aveva seguito, ma sembrava che facesse fatica a reggersi in piedi,
come se dovesse cadere a ogni raffica di vento.
“Possiamo tornare giù,” dissi. Scesi sul ballatoio vicino al contrafforte. Il
professor Kerry mi seguì di nuovo, avanzando in modo strano. Anziché
camminare dritto girò il corpo e si mosse di lato, come un granchio. Il vento
non calava. Vedendolo così instabile gli offrii un braccio per l’ultimo tratto,
e lui lo prese.
“La mia era solo un’osservazione,” disse quando fummo scesi. “Te ne stai
là in piedi, dritta, con le mani in tasca.” Fece un cenno verso gli altri
studenti. “Mentre loro, vedi come stanno curvi? Come si aggrappano alla
parete?”
Aveva ragione. Alcuni si avventuravano sulla linea di colmo ma lo
facevano cautamente, muovendosi impacciati di lato come aveva fatto il
professor Kerry, piegandosi e oscillando al vento. Gli altri si tenevano stretti
al parapetto di pietra, con le ginocchia piegate e le schiene curve come se
non sapessero se camminare o strisciare.
Alzai una mano e mi aggrappai al muro.
“Non c’è bisogno che lo fai,” disse lui. “Non era una critica.”
Esitò, come indeciso se dire altro. “C’è stato un cambiamento,” disse.
“Gli altri studenti erano tranquilli prima di salire quassù. Adesso sono
inquieti, nervosi. Per te invece sembra il contrario. È la prima volta che ti
vedo veramente a tuo agio. È il modo in cui ti muovi, come se fossi su
questo tetto da tutta la vita.”
Soffiò una raffica di vento e il professor Kerry vacillò, aggrappandosi al
muro. Salii sulla linea di colmo perché potesse stringersi al contrafforte. Mi
fissò in attesa di una spiegazione.
“Ho costruito dei tetti ai fienili,” dissi alla fine.
“Quindi le tue gambe sono più forti? Per questo riesci a stare in piedi con
questo vento?”
Dovetti pensarci prima di rispondere. “Riesco a stare in piedi perché non
mi sforzo di farlo,” dissi. “Il vento è solo vento. Se puoi resistere a queste
raffiche sulla terraferma, puoi farlo anche quando sei in alto. Non c’è
nessuna differenza. È tutto nella tua testa.”
Mi guardò, perplesso. Non aveva capito.
“Sto in piedi e basta,” continuai. “Voi cercate di bilanciarvi, di abbassare
il corpo perché vi spaventa l’altezza. Ma acquattarsi e camminare di lato
non è naturale. Vi rendete vulnerabili. Se riusciste a controllare il panico, il
vento non vi farebbe niente.”
“Come non fa niente a te,” disse.
Avrei voluto una mente da studiosa, ma sembrava che il professor Kerry
vedesse in me la mente di una costruttrice di tetti. Gli altri studenti erano
fatti per stare in biblioteca; io ero fatta per stare dentro una gru.
La prima settimana passò in un turbine di lezioni. La seconda settimana a
ogni studente fu assegnato un supervisore con il compito di guidarlo nelle
ricerche. Scoprii che il mio supervisore era l’illustre professor Jonathan
Steinberg, un ex docente di un college di Cambridge che era molto
apprezzato per i suoi studi sull’Olocausto.
Il mio primo incontro col professor Steinberg avvenne alcuni giorni dopo.
Aspettai in portineria finché vidi arrivare un tizio magro che, tirando fuori
un mazzo di chiavi pesanti, aprì una porta di legno incassata nella pietra. Lo
seguii su per una scala a chiocciola e dentro la torre dell’orologio, dove
c’era una stanza ben illuminata e dall’arredamento essenziale: due sedie e
un tavolo di legno.
Sentii il sangue pulsarmi nelle orecchie mentre mi sedevo. Il professor
Steinberg aveva più di settant’anni ma non sembrava anziano. Era agile e i
suoi occhi si muovevano con curiosità per la stanza. Parlava in modo
scorrevole e misurato.
“Sono il professor Steinberg,” disse. “Cosa vorresti studiare?”
Mormorai qualcosa sulla storiografia. Avevo deciso di non studiare la
storia, ma gli storici. Credo che il mio interesse venisse dal senso di
smarrimento che provavo da quand’ero venuta a sapere dell’Olocausto e del
movimento per i diritti civili – da quando avevo capito che quello che una
persona sa del passato è e sarà sempre limitato da quel che gli dicono gli
altri. Sapevo cosa voleva dire correggere una convinzione sbagliata –
sbagliata a tal punto che rovesciarla voleva dire rovesciare il mondo.
Adesso avevo bisogno di capire come i grandi custodi della storia fossero
venuti a patti con la loro stessa ignoranza e parzialità. Pensavo che se fossi
riuscita ad accettare che quello che avevano scritto non era assoluto ma il
risultato di un processo parziale di scambi verbali e revisioni, forse avrei
accettato anche il fatto che la storia conosciuta dalla maggior parte della
gente non era la storia che mi avevano insegnato. Il papà poteva sbagliarsi,
dei grandi storici come Carlyle, Macaulay e Trevelyan potevano sbagliarsi,
ma dalle ceneri della loro disputa potevo costruire un mondo in cui vivere.
Forse il terreno sotto i miei piedi non era solido, ma speravo di poterlo
calpestare.
Non credo che riuscii a comunicare qualcosa di tutto questo. Quando
smisi di parlare, il professor Steinberg mi guardò e poi disse: “Dimmi dei
tuoi studi. Che scuole hai frequentato?”.
L’aria fu immediatamente risucchiata dalla stanza.
“Sono cresciuta nell’Idaho,” dissi.
“E sei andata a scuola là?”
Se ci penso adesso, credo che qualcuno avesse parlato di me a Steinberg,
forse il professor Kerry. O forse intuiva che stavo evitando la sua domanda
e questo lo incuriosiva. Qualunque fosse il motivo, non fu soddisfatto
finché non ammisi che non ero mai andata a scuola.
“Meraviglioso,” disse sorridendo. “È come se fossi entrato nel
Pigmalione di Shaw.”
Per due mesi ebbi incontri settimanali col professor Steinberg. Non mi
assegnava mai nulla da studiare. Studiavamo solo quello che chiedevo io,
che fosse un libro o una pagina.
Nessuno dei miei docenti della Brigham aveva mai analizzato così a
fondo quello che scrivevo come il professor Steinberg. Non tralasciava
nessuna virgola, nessuna frase, nessun aggettivo o avverbio. Non faceva
nessuna distinzione tra grammatica e contenuto, tra forma e sostanza. Una
frase scritta male era un’idea pensata male, e in quest’ottica la logica
grammaticale richiedeva altrettante correzioni. “Dimmi,” diceva, “perché
hai messo questa virgola qua? Che collegamento vorresti stabilire tra queste
due frasi?” Quando davo la mia spiegazione, lui a volte diceva “Bene”, e
altre volte mi correggeva con lunghe delucidazioni sulla sintassi.
Dopo essermi incontrata con Steinberg per un mese, scrissi una tesina in
cui confrontavo Edmund Burke e Publius, lo pseudonimo sotto il quale
James Madison, Alexander Hamilton e John Jay avevano scritto Il
Federalista. Quasi non dormii per due settimane: ogni volta che avevo gli
occhi aperti, o studiavo o pensavo a quei testi.
Avevo imparato da mio padre che i libri andavano adorati oppure banditi.
I libri che erano di Dio – quelli scritti dai profeti mormoni o dai Padri
Fondatori – non dovevano essere tanto studiati quanto venerati, come
qualcosa di perfetto in sé. Mi era stato insegnato a prendere le parole di
uomini come Madison come uno stampo in cui dovevo versare la mia
mente, come gesso, perché fosse rimodellata secondo i contorni del loro
esempio impeccabile. Leggevo per imparare cosa pensare, non per imparare
a pensare con la mia testa. I libri che non erano di Dio andavano banditi.
Erano pericolosi, possedevano un’astuzia potente e irresistibile.
Per scrivere la mia tesina dovevo leggere i libri in maniera diversa, senza
abbandonarmi né alla paura né all’adorazione. Dato che Burke aveva difeso
la monarchia britannica, il papà avrebbe detto che era un portavoce della
tirannia. Non avrebbe voluto quel libro in casa. Provavo un certo brivido,
ora, nel confrontarmi con quelle parole. Provavo un brivido simile nel
leggere Madison, Hamilton e Jay, soprattutto quando rifiutavo le loro
conclusioni a favore di quelle di Burke, o quando mi sembrava che le loro
idee non fossero poi molto diverse nella sostanza, ma solo nella forma.
C’erano dei presupposti meravigliosi insiti in questo metodo di studio: che i
libri non erano dei trucchi, e che io non ero una stupida.
Finii la tesina e la mandai al professor Steinberg. Due giorni dopo,
quando arrivai al nostro incontro, era silenzioso. Mi guardò con attenzione
dall’altra parte del tavolo. Aspettai che dicesse che la tesina era un disastro,
il prodotto di una mente ignorante, che era troppo ambiziosa, arrivava a
troppe conclusioni da troppo poco materiale.
“Insegno a Cambridge da trent’anni,” disse. “E questa è una delle tesine
più belle che io abbia mai letto.”
Ero pronta a degli insulti ma non a questo.
Probabilmente Steinberg disse delle altre cose sulla tesina, ma non le
sentii. Provavo un bisogno straziante di uscire da quella stanza. In quel
momento non ero più a Cambridge dentro una torre dell’orologio. Avevo
diciassette anni, ero su una jeep rossa e il ragazzo che amavo mi aveva
appena toccato la mano. Corsi via.
Potevo sopportare ogni forma di crudeltà, ma non la gentilezza. I
complimenti erano un veleno, mi soffocavano. Volevo che il professore mi
gridasse contro, lo desideravo così tanto che soffrivo di questa mancanza.
La mia bruttezza doveva essere espressa. Se non lo faceva lui, avrei dovuto
farlo io.
Non ricordo come uscii dalla torre dell’orologio, né come passai il
pomeriggio. Quella sera c’era una cena di gala. La sala era illuminata a
lume di candela ed era tutto molto bello, ma a me piaceva per un altro
motivo: non indossavo vestiti eleganti, solo una maglietta nera e pantaloni
neri, e pensavo che con quelle luci soffuse la gente non se ne sarebbe
accorta. La mia amica Laura arrivò in ritardo. Spiegò che erano venuti a
trovarla i suoi genitori e l’avevano portata in Francia. Era appena tornata.
Indossava un vestito viola acceso, con delle pieghe perfette sulla gonna. Il
bordo le svolazzava diversi centimetri sopra il ginocchio e per un momento
pensai che fosse un vestito da puttana, finché non disse che gliel’aveva
comprato suo padre a Parigi. Il regalo di un padre non poteva essere una
cosa da puttane. Il regalo di un padre era il segnale inequivocabile che una
donna non era una puttana. Mi arrovellai su questa contraddizione – un
vestito da puttana, donato a una figlia amata – fino alla fine della cena,
quando furono portati via i piatti.
Al nostro incontro successivo il professor Steinberg disse che, quando
avrei fatto domanda per il corso di laurea specialistica, avrebbe chiesto che
mi prendessero in qualunque università sceglievo. “Sei mai stata ad
Harvard?” disse. “O forse preferisci Cambridge?”
M’immaginai a Cambridge, un’universitaria con una lunga toga nera
frusciante che camminava per i corridoi antichi. Poi mi vidi curva in un
bagno con le braccia dietro la schiena e la testa dentro il water. Cercai di
concentrarmi sulla studentessa ma non ci riuscii. Non potevo visualizzare la
ragazza con la veste nera senza vedere anche quell’altra ragazza.
Studentessa o puttana, non potevano essere entrambe vere. Una era una
menzogna.
“Non ci posso andare,” dissi. “Non posso pagare le rette.”
“Ci penserò io alle rette,” disse Steinberg.
A fine agosto, la nostra ultima sera a Cambridge, ci fu una cena d’addio
nella grande sala. I tavoli erano apparecchiati con una quantità mai vista di
coltelli, forchette e calici, e i dipinti sulle pareti sembravano spettrali alla
luce delle candele. Mi sentivo vulnerabile a contatto con tanta eleganza, ma
in un certo senso anche invisibile. Guardavo passare le altre studentesse
osservando ogni vestito di seta, ogni occhio truccato. Ero ossessionata dalla
loro bellezza.
Durante la cena ascoltai le allegre chiacchiere dei miei amici mentre
sognavo la solitudine della mia stanza. Il professor Steinberg era seduto al
tavolo dei docenti. Ogni volta che gli lanciavo un’occhiata sentivo quel
vecchio istinto all’opera dentro di me, la tensione nei muscoli in
preparazione alla fuga.
Lasciai la sala al momento del dolce. Fu un sollievo sfuggire a tutta
quella bellezza e raffinatezza, poter smettere di essere piacevole a tutti costi
e non sentirmi più un pesce fuor d’acqua. Il professor Kerry mi vide uscire
e mi seguì.
Era buio. Il prato era scuro, il cielo ancora più scuro. Delle colonne di
luce biancastra si alzavano da terra e illuminavano la cappella, che
splendeva lunare contro il cielo notturno.
“Hai fatto colpo su Steinberg,” disse il professor Kerry, raggiungendomi.
“Spero solo che lui abbia fatto colpo su di te.”
Non capivo.
“Da questa parte,” disse a un certo punto, girandosi verso la cappella.
“Devo dirti una cosa.”
Lo seguii, consapevole di quant’erano silenziose le mie scarpe di tela
sulla pietra rispetto al ticchettio elegante dei tacchi delle altre ragazze.
Il professor Kerry disse che era da un po’ che mi osservava. “Ti comporti
come se recitassi la parte di qualcun altro. Ed è come se per te fosse una
questione di vitale importanza.”
Non sapevo cosa dire, così non dissi niente.
“Non hai mai pensato,” continuò, “che hai diritto di essere qui come
chiunque altro?” Aspettava una spiegazione.
“Preferirei servire la cena,” dissi, “più che mangiarla.”
Sorrise. “Devi fidarti di Steinberg. Se dice che sei portata per gli studi –
‘oro puro’, l’ho sentito dire – allora è così.”
“Questo posto è magico,” dissi. “Qui luccica tutto.”
“Devi smetterla di pensare così,” disse il professor Kerry, alzando la
voce. “Non sei come la pirite, che luccica solo in una luce particolare.
Chiunque diventerai, qualunque cosa farai, lo sei sempre stata. Era già
dentro di te. Non a Cambridge. Dentro di te. Sei oro. E tornare alla
Brigham, oppure a quella montagna da cui vieni, non cambierà chi sei. Può
cambiare come ti vedono gli altri, può cambiare perfino come ti vedi tu –
anche l’oro appare sbiadito sotto certe luci – ma è quella l’illusione. E lo è
sempre stata.”
Avrei voluto credergli, prendere le sue parole e ricrearmi, ma non avevo
mai avuto quella convinzione. Per quanto mi sforzassi di seppellire i ricordi,
di chiudere gli occhi per non vederli, quando pensavo a me stessa rivedevo
le immagini di quella ragazza nel bagno, nel parcheggio.
Non potevo parlare al professor Kerry di quella ragazza. Non potevo
dirgli che il motivo per cui non potevo tornare a Cambridge era che stare
qui riportava a galla ogni momento violento e umiliante della mia vita. Alla
Brigham riuscivo quasi a dimenticare, a lasciare che il passato sfumasse nel
presente. Ma qui il contrasto era troppo forte, il mondo davanti ai miei
occhi troppo fantastico. I ricordi erano più reali – più credibili – delle guglie
di pietra.
Cercai di convincermi che ci fossero altri motivi per cui non potevo stare
a Cambridge, motivi che avevano a che fare con la classe sociale e lo status:
che era perché ero povera, venivo da un ambiente povero. Perché sapevo
stare in piedi nel vento sul tetto della cappella senza piegarmi. Era quella la
persona che non c’entrava nulla con Cambridge: la costruttrice di tetti, non
la puttana. Posso andare a scuola, avevo scritto sul mio diario quel
pomeriggio. E posso comprarmi dei vestiti nuovi. Ma resto sempre Tara
Westover. Ho fatto dei lavori che nessuno studente di Cambridge farebbe.
Vestiteci come vi pare, ma non saremo mai uguali. L’abbigliamento non
poteva correggere quello che non andava in me. C’era qualcosa di marcio
all’interno e il tanfo era troppo forte, il nucleo troppo rancido per
camuffarlo con dei semplici vestiti.
Non so se il professor Kerry intuisse qualcosa di tutto ciò. Ma sapeva che
mi ero fissata sui vestiti come un simbolo del perché non facevo parte – e
non potevo far parte – di questo mondo. Fu l’ultima cosa che mi disse prima
di allontanarsi, lasciandomi inchiodata e imbambolata accanto alla maestosa
cappella.
“Il primo a determinare quella che sei è dentro di te,” disse. “Steinberg
dice che è come Pigmalione. Pensa alla sua storia, Tara.” Fece una pausa,
gli occhi ardenti, la voce penetrante. “Era solo una londinese con un bel
vestito. Finché ha cominciato a credere in se stessa. A quel punto non aveva
più importanza il vestito che indossava.”
29.
Laurea

Il programma di studio all’estero finì e tornai alla Brigham. Il campus


sembrava quello di sempre, e sarebbe stato facile dimenticare Cambridge e
tornare alla mia vita di prima. Ma il professor Steinberg non voleva che
dimenticassi. Mi mandò un modulo di domanda per una cosa chiamata
borsa di studio Gates Cambridge che, mi spiegò, era un po’ come una borsa
di studio Rhodes, ma per Cambridge invece che per Oxford. Avrebbe
coperto tutte le spese necessarie per studiare a Cambridge, comprese le rette
universitarie, vitto e alloggio. Pensavo fosse assolutamente fuori dalla mia
portata, ma lui insistette per il contrario, così feci domanda.
Qualche tempo dopo notai un’altra differenza, un altro piccolo
cambiamento. Stavo passando la serata insieme al mio amico Mark, che
studiava lingue antiche. Come me, e come quasi tutti alla Brigham, Mark
era mormone.
“Secondo te la gente dovrebbe studiare la storia della chiesa?” mi chiese.
“Sì,” dissi.
“E se si deprime?”
Pensai di sapere a cosa si riferisse, ma aspettai che spiegasse.
“Molte donne mettono in dubbio la propria fede quando vengono a sapere
della poligamia,” disse. “Come mia madre. Non credo che l’abbia mai
capita.”
“Non l’ho mai capita neanch’io,” dissi.
Ci fu un silenzio carico di tensione. Aspettava che dicessi qualcosa del
tipo: prego per avere fede. E avevo pregato, molte, moltissime volte.
Forse stavamo pensando entrambi alla nostra storia, o forse solo io.
Pensai a Joseph Smith, che aveva avuto qualcosa come quaranta mogli.
Brigham Young aveva avuto cinquantacinque mogli e cinquantasei figli. La
chiesa aveva abolito la pratica temporale della poligamia nel 1890 ma non
aveva mai rinnegato la dottrina. Da piccola avevo imparato – sia da mio
padre ma anche al catechismo – che a tempo debito Dio avrebbe
reintrodotto la poligamia e che nell’aldilà sarei stata una moglie plurima. Il
numero delle mie sorelle-mogli sarebbe dipeso dalla rettitudine di mio
marito: più viveva decorosamente, più mogli avrebbe avuto.
Questa cosa non mi era mai andata giù. Da bambina mi ero immaginata
spesso in cielo, con una veste bianca, in piedi in una foschia perlacea di
fronte a mio marito. Ma quando la telecamera zumava all’indietro
comparivano dieci donne accanto a noi, con lo stesso vestito bianco.
Fantasticavo di essere la prima moglie, ma sapevo che non era detto e che
potevo finire nascosta ovunque in quella lunga catena di mogli. Da quel che
ricordavo, quest’immagine era sempre stata alla base della mia idea di
Paradiso: mio marito e le sue mogli. C’era un tarlo in quest’aritmetica, nel
sapere che secondo i calcoli divini un uomo equivaleva a innumerevoli
donne.
Pensai alla mia bis-bisnonna. Avevo sentito parlare di lei per la prima
volta a dodici anni, che per il mormonismo è l’età in cui smetti di essere
una bambina e diventi una donna. A dodici anni cominciavi a sentire parole
come purezza e castità alle lezioni di catechismo. Era anche l’età in cui ti
veniva richiesto, come parte dei tuoi doveri religiosi, di studiare la storia di
uno dei tuoi antenati. Chiesi alla mamma quale dovevo scegliere e, senza
nemmeno pensarci, lei disse “Anna Mathea”. Ripetei quel nome a voce alta.
Mi scivolò fuori dalle labbra come l’inizio di un favola. La mamma disse
che dovevo ringraziare Anna Mathea perché mi aveva dato un dono: la sua
voce.
“È stata la sua voce a portare la nostra famiglia nella chiesa,” mi spiegò.
“Aveva sentito predicare dei missionari mormoni per le strade della
Norvegia e, pregando, Dio le aveva concesso la fede e le aveva indicato
Joseph Smith come Suo profeta. Lei lo riferì a suo padre, ma lui aveva
sentito certe storie sui mormoni e non voleva che si facesse battezzare. Così
Anna cantò per lui un inno mormone chiamato O My Father. Quando finì,
suo padre aveva le lacrime agli occhi. Disse che una religione con una
musica così splendida non poteva che essere frutto di Dio. Si fecero
battezzare insieme.”
Dopo che Anna Mathea ebbe convertito i suoi genitori, la famiglia si sentì
chiamata da Dio a venire in America per conoscere il profeta Joseph.
Misero da parte dei soldi per il viaggio, ma dopo due anni poté partire solo
metà famiglia. Anna Mathea dovette restare a casa.
Fu un viaggio lungo e difficile, e quando finalmente arrivarono
nell’Idaho, in una comunità mormona chiamata Worm Creek, la madre di
Anna era malata e in fin di vita. Espresse un ultimo desiderio, quello di
rivedere sua figlia, così suo padre scrisse ad Anna, supplicandola di
racimolare tutti i soldi che aveva e di venire in America. Anna, che nel
frattempo si era innamorata e stava per sposarsi, lasciò il fidanzato in
Norvegia e attraversò l’oceano. Sua madre morì prima che mettesse piede
sulla costa americana.
La famiglia era molto povera e non avevano soldi per far tornare Anna
dal suo fidanzato, per il matrimonio a cui aveva rinunciato. Anna era un
onere finanziario per suo padre, così un vescovo la convinse ad andare in
sposa a un ricco agricoltore come seconda moglie. La prima moglie era
sterile ed ebbe un violento attacco di gelosia quando Anna rimase incinta.
Temendo che la prima moglie potesse fare del male al bambino, Anna tornò
da suo padre, dove diede alla luce due gemelli, di cui solo uno sopravvisse
all’inverno rigido.
Mark stava ancora aspettando una mia risposta. Poi si arrese e mormorò
le parole che avrei dovuto pronunciare io. Disse che non capiva bene, ma
che sapeva che la poligamia era un principio di Dio.
Mi dissi d’accordo, poi mi preparai a un’ondata di umiliazione – a vedere
l’immagine di me insieme a molte altre mogli in piedi dietro a un uomo
solitario e senza volto –, ma non arrivò. Cercai tra i miei pensieri e vi trovai
una nuova convinzione: non sarei mai stata una moglie plurima. Una voce
lo dichiarò in modo perentorio, e quella asserzione mi fece tremare. E se era
un comandamento di Dio? chiesi. Non lo faresti, rispose la voce. E sapevo
che era vero.
Pensai di nuovo ad Anna Mathea, chiedendomi che senso aveva che, per
seguire un profeta, avesse lasciato l’uomo che amava, attraversato un
oceano, accettato un matrimonio senza amore come seconda moglie e infine
seppellito il suo primo figlio, se ora sua nipote, due generazioni dopo,
attraversava lo stesso oceano nelle vesti di miscredente. Ero l’erede di Anna
Mathea: mi aveva dato la sua voce. Non mi aveva dato anche la sua fede?
Mi misero nella rosa dei candidati per la borsa di studio Gates. Ci sarebbe
stato un colloquio a febbraio ad Annapolis. Non sapevo come prepararmi.
Robin mi accompagnò in macchina a Park City, dove c’era un outlet di Ann
Taylor, e mi aiutò a scegliere un completo pantalone blu scuro e un paio di
mocassini da abbinare. Non avevo una borsetta, così Robin mi prestò la sua.
Due settimane prima del colloquio i miei genitori vennero a trovarmi alla
Brigham. Non erano mai venuti, ma passavano di là per andare in Arizona e
si fermarono a pranzo. Li portai al ristorante indiano dall’altra parte della
strada rispetto al mio appartamento.
La cameriera fissò un po’ troppo a lungo il volto di mio padre, poi
strabuzzò gli occhi quando li abbassò sulle mani. Il papà ordinò mezzo
menu. Gli dissi che tre portate erano più che sufficienti, ma mi fece
l’occhiolino e disse che i soldi non erano un problema. A quanto pare la
notizia della miracolosa guarigione di mio padre si stava diffondendo e
attirava sempre più clienti. I prodotti della mamma venivano venduti da
quasi tutte le levatrici e naturopate degli Stati dell’Ovest.
Mentre aspettavamo i nostri piatti, il papà mi chiese dei corsi. Dissi che
stavo studiando francese. “È una lingua da socialisti,” commentò, poi tenne
una predica di venti minuti sulla storia del ventesimo secolo. Disse che i
banchieri ebrei in Europa avevano firmato degli accordi segreti per
scatenare la Seconda guerra mondiale e che avevano agito in collusione con
gli ebrei d’America per finanziarla. Avevano architettato l’Olocausto, disse,
per guadagnare dal caos mondiale. Avevano mandato i propri fratelli a
morire nelle camere a gas per soldi.
Queste idee non mi erano nuove, ma ci misi un po’ a ricordare dove le
avevo sentite: a una lezione del professor Kerry sui Protocolli dei Savi di
Sion. I Protocolli, pubblicati nel 1903, sostenevano l’esistenza di un
complotto segreto di ebrei potenti con l’obiettivo di impadronirsi del
mondo. Il documento fu smascherato come un falso, ma si diffuse
comunque, alimentando i sentimenti antisemiti nei decenni prima della
Seconda guerra mondiale. Adolf Hitler aveva scritto riguardo ai Protocolli
nel Mein Kampf, affermando che erano autentici e che rivelavano la vera
natura del popolo ebraico.
Il papà parlava ad alta voce, a un volume che poteva andar bene in
montagna ma era eccessivo per il piccolo ristorante. Le persone sedute agli
altri tavoli avevano smesso di conversare e stavano in silenzio ad ascoltare
noi. Mi pentii di aver scelto un ristorante così vicino al mio appartamento.
Il papà passò dalla Seconda guerra mondiale alle Nazioni Unite,
all’Unione Europea e all’imminente fine del mondo, come se le tre cose
fossero sinonimi. Arrivò il curry e mi concentrai sul cibo. La mamma si era
stufata della predica del papà e gli chiese di parlare di qualcos’altro.
“Ma presto ci sarà la fine del mondo!” disse lui, praticamente gridando.
“Certo,” disse la mamma. “Ma non parliamone a cena.”
Misi giù la forchetta e li guardai. Tra tutte le strane affermazioni
dell’ultima mezz’ora, per qualche motivo fu questa a scioccarmi. I miei
genitori non erano mai stati nulla di sconvolgente per me. Mi era sempre
sembrato che tutto quello che facevano avesse un senso, come se
rispondesse a una logica che capivo. Forse era il contesto: Buck Peak era il
loro posto e li camuffava, tanto che quando li vedevo là, circondati dalle
chiassose e marcate reliquie della mia infanzia, era come se l’ambiente
attorno li assorbisse. O se non altro assorbiva il rumore. Ma qui, così vicino
all’università, sembravano così irreali da essere quasi mitologici.
Il papà mi guardò in attesa che dicessi qualcosa, ma mi sentivo estraniata
da me stessa. Non sapevo chi essere. In montagna prendevo istintivamente
la voce della loro figlia e seguace. Ma era come se qui non riuscissi a
trovare la voce che, all’omba di Buck Peak, mi veniva così naturale.
Tornammo all’appartamento e gli feci vedere la mia camera. La mamma
chiuse la porta, rivelando il poster di Martin Luther King che avevo appeso
quattro anni prima, quando avevo saputo del movimento per i diritti civili.
“È Martin Luther King quello?” disse il papà. “Non lo sai che aveva
legami col comunismo?” Mordicchiò il tessuto ceroso dove un tempo
c’erano state le labbra.
Partirono poco dopo per il loro viaggio notturno. Li guardai allontanarsi,
poi tirai fuori il mio diario. Come potevo credere ciecamente a queste cose?
scrissi. Il mondo intero aveva torto: solo il papà aveva ragione.
Pensai a quello che mi aveva detto al telefono Stefanie, la moglie di Tyler,
alcuni giorni prima. Diceva che ci aveva messo anni a convincere Tyler a
vaccinare i loro figli, perché una parte di lui credeva ancora che i vaccini
fossero un complotto del Sistema Medico. Ripensandoci adesso, con la
voce del papà ancora nelle orecchie, mi venne da sfottere mio fratello. È
uno scienziato! Scrissi. Come può non andare oltre le loro paranoie?
Rilessi quello che avevo scritto, e il disprezzo lasciò il posto all’ironia. Ma
d’altra parte, scrissi, chi sono io per prenderlo in giro, se non mi sono mai
fatta vaccinare nemmeno io?
Il mio colloquio per la borsa di studio Gates si svolgeva al St. John’s
College di Annapolis. Il campus aveva un’aria minacciosa, con i suoi prati
curati e l’impeccabile architettura coloniale. Mi sedetti nervosamente in
corridoio, aspettando che mi chiamassero. Mi sentivo impacciata nel
completo pantaloni e stringevo goffamente la borsetta di Robin. Ma alla
fine il professor Steinberg aveva scritto una lettera di raccomandazioni così
convincente che non mi restava molto da fare.
Ricevetti la conferma il giorno dopo: avevo vinto la borsa di studio.
Cominciarono le telefonate – da parte del giornale studentesco della
Brigham e dei notiziari locali. Feci una manciata di interviste. Finii in
televisione. Una mattina, al risveglio, trovai la mia foto sulla home page
della Brigham. Ero il terzo studente in tutta la storia della Brigham a
vincere una borsa di studio Gates, e l’università stava cercando di sfruttare
la visibilità. Mi chiesero dei miei studi di scuola superiore e quale dei miei
insegnanti delle elementari aveva gettato le basi del mio successo. Schivai
le domande, risposi in maniera evasiva, mentii quando necessario. Non dissi
a nessuno che non ero mai andata a scuola.
Non so perché non riuscissi a dirlo. Ma non sopportavo l’idea che la
gente mi desse delle pacche sulle spalle, sorpresa. Non volevo essere un
personaggio di Horatio Alger in un commovente tributo al sogno
americano. Volevo che la mia vita avesse un senso, e in quella storia non ne
trovavo nessuno.
Un mese prima della laurea andai a Buck Peak. Il papà aveva letto gli
articoli sulla mia borsa di studio e il suo commento fu: “Non hai parlato di
istruzione domestica. Credevo apprezzassi il fatto che io e tua madre ti
abbiamo tirato fuori da quelle scuole, visto come sono andate le cose.
Dovresti dire alla gente che il merito è dell’istruzione domestica”.
Rimasi zitta. Il papà interpretò il mio silenzio come delle scuse.
Non approvava il fatto che andassi a Cambridge. “I nostri avi hanno
rischiato la vita per attraversare l’oceano e scappare da quei paesi socialisti,
e tu che fai? Ti volti e torni indietro?”
Di nuovo, rimasi zitta.
“Non vedo l’ora che ti laurei,” disse. “Il Signore vuole che ne dica quattro
a quei professori.”
“Non provarci,” dissi a bassa voce.
“Se lo vuole il Signore, mi farò sentire.”
“Non provarci,” ripetei.
“Non andrò là dove lo spirito del Signore non è il benvenuto.”
Questa fu la nostra conversazione. Speravo che con il tempo sarebbe
passata, ma il papà era così risentito che non avessi parlato di istruzione
domestica che quella nuova ferita continuò a suppurare.
La sera prima della laurea era prevista una cena durante la quale avrei
ricevuto un riconoscimento come “studentessa modello” da parte del
dipartimento di Storia. Aspettai i miei genitori all’ingresso, ma non
arrivarono. Chiamai la mamma, pensando che fossero in ritardo. Disse che
non venivano. Andai alla cena e mi diedero una targa. Al mio tavolo
c’erano gli unici posti vuoti di tutta la sala. Il giorno dopo ci fu un pranzo
per gli studenti laureati con lode e mi sedetti insieme al preside di facoltà e
al direttore del programma dei corsi avanzati. Di nuovo, c’erano due posti
vuoti. Dissi che i miei genitori avevano avuto un problema con l’auto.
Dopo pranzo telefonai alla mamma.
“Tuo padre non verrà se non gli chiedi scusa,” disse. “E nemmeno io.”
Mi scusai. “Può dire quello che vuole. Ma vi prego, venite.”
Si persero quasi tutta la cerimonia; non so se mi videro ricevere il
diploma. Ricordo che aspettai insieme alle mie amiche prima che
cominciasse la musica, e che guardai i loro padri scattare fotografie e le loro
madri sistemarsi i capelli. Ricordo che avevano ghirlande colorate tra i
capelli e gioielli appena ricevuti in regalo.
Dopo la cerimonia rimasi da sola sul prato a guardare gli altri studenti con
le loro famiglie. Alla fine vidi i miei genitori. La mamma mi abbracciò. La
mia amica Laura fece due foto. In una ci siamo io e la mamma con dei
sorrisi forzati sul volto. Nell’altra sono in mezzo ai miei genitori e sembro
schiacciata, sotto pressione.
Dovevo partire per gli Stati dell’Ovest quella sera stessa. Avevo fatto le
valigie prima della cerimonia di laurea. Il mio appartamento era vuoto e le
valigie vicino alla porta. Laura si era offerta di accompagnarmi in
aeroporto, ma i miei genitori chiesero se potevano portarmi loro.
Credevo che mi avrebbero lasciato sul bordo del marciapiede, ma il papà
volle a tutti i costi entrare in aeroporto. Aspettarono che facessi il check-in,
poi mi seguirono ai controlli. Era come se il papà volesse concedermi fino
all’ultimo secondo per cambiare idea. Camminammo in silenzio. Quando
arrivammo al posto di controllo li abbracciai e li salutai. Tolsi le scarpe, il
portatile, la macchina fotografica, poi oltrepassai il controllo, rimisi le mie
cose nello zaino e andai verso il terminal.
Solo allora mi voltai e vidi il papà, fermo là in piedi, che mi guardava
andare via. Aveva le mani in tasca, le spalle basse, la bocca semiaperta. Lo
salutai con una mano e lui fece un passo avanti come se volesse seguirmi.
Mi tornò in mente quando, anni prima, la station wagon dove c’era la
mamma era coperta dai cavi elettrici e il papà era rimasto pericolosamente
in piedi accanto a lei.
Era ancora in quella posizione quando girai l’angolo. Quell’immagine di
mio padre non mi avrebbe mai abbandonato: quell’espressione sul suo
volto, di amore, paura e sconfitta. Sapevo perché aveva paura. Se l’era
lasciato sfuggire la mia ultima sera a Buck Peak, la stessa sera in cui aveva
detto che non sarebbe venuto alla mia laurea.
“Se sei in America,” aveva sussurrato, “possiamo venirti a prendere.
Ovunque sarai. Ho tremilasettecento litri di benzina sotterrati nel campo.
Posso venire da te quando arriverà la Fine, portarti a casa, metterti in salvo.
Ma se attraversi l’oceano...”
Terza parte
30.
Mano dell’Onnipotente

Una porta di pietra sbarrava l’ingresso al Trinity College. Incassata al suo


interno c’era una porticina di legno. L’oltrepassai. Un custode in soprabito e
bombetta neri mi fece da guida, accompagnandomi in Great Court, il cortile
principale del college. Attraversammo un viottolo di pietra ed entrammo in
un corridoio coperto le cui pareti avevano lo stesso colore del grano maturo.
“Questo è il chiostro settentrionale,” disse il custode. “È qui che Newton
ha pestato un piede per misurare l’eco, calcolando per la prima volta la
velocità del suono.”
Tornammo all’ingresso principale. La mia stanza era proprio di fronte,
sopra tre rampe di scale. Dopo che il custode se ne fu andato rimasi là in
piedi, tra le valigie, a guardare la mitica facciata di pietra e le sue merlature
surreali fuori dalla mia piccola finestra. Cambridge era proprio come me la
ricordavo: antica, bellissima. Io ero diversa. Non ero più un’ospite, una
visitatrice. Ero un membro dell’università. Sulla porta c’era scritto il mio
nome. Ufficialmente, questo era il mio posto.
Mi vestii di scuro per la mia prima lezione, sperando di non dare
nell’occhio, ma anche così mi sentivo diversa dagli altri studenti. Di sicuro
non parlavo come loro, e non solo perché erano inglesi. Avevano una
cadenza che mi faceva pensare più a un canto che a una parlata. Alle mie
orecchie sembravano raffinati, istruiti, mentre io avevo la tendenza a
biascicare e, quand’ero nervosa, a balbettare.
Scelsi una sedia attorno al grosso tavolo quadrato e ascoltai i due studenti
accanto a me parlare dell’argomento della lezione, ovvero i due concetti di
libertà secondo Isaiah Berlin. Lo studente più vicino disse che aveva
studiato Isaiah Berlin a Oxford; l’altro disse di avere già sentito le
osservazioni di questo professore su Berlin quando studiava a Cambridge.
Io non avevo idea di chi fosse Isaiah Berlin.
Il professore cominciò la sua presentazione. Parlò con calma ma espose il
materiale di studio velocemente, come dando per scontato che lo
conoscessimo già. Questo fu confermato dagli altri studenti, la maggior
parte dei quali non prendeva appunti. Io annotavo ogni parola.
“Quindi, quali sono i due concetti di Isaiah Berlin?” chiese il professore.
Quasi tutti alzarono la mano. Fu invitato a parlare lo studente che aveva
studiato a Oxford. “La libertà negativa,” disse quest’ultimo, “è la libertà
dagli ostacoli o dalle costrizioni esterne. In questo senso, una persona è
libera se non è fisicamente impedita ad agire.” Per un momento mi venne in
mente Richard, che sembrava sempre in grado di ripetere alla perfezione
tutto quello che aveva studiato.
“Molto bene, “disse il professore. “E il secondo?”
“La libertà positiva,” disse un altro studente, “è la libertà dalle costrizioni
interne.”
Scrissi questa definizione sui miei appunti, ma senza comprenderla.
Il professore cercò di spiegare. Disse che la libertà positiva è
autocontrollo – la padronanza di sé da parte del sé. Essere positivamente
liberi, spiegò, significa avere il controllo della propria mente, liberarsi da
paure e credenze irrazionali, da dipendenze, superstizioni e ogni altra forma
di autocostrizione.
Non avevo idea di cosa fosse questa autocostrizione. Mi guardai attorno.
Sembravano tutti tranquilli. Ero una delle poche che prendeva appunti.
Avrei voluto chiedere chiarimenti, ma qualcosa mi fermò – la certezza che
farlo sarebbe stato come gridare all’aula che non c’entravo niente con loro.
Dopo la lezione tornai in camera mia, dove fissai la porta di pietra con le
sue merlature medievali fuori dalla finestra. Pensai alla libertà positiva e a
cosa poteva significare l’autocostrizione, finché cominciai a provare un
dolore sordo alla testa.
Chiamai casa. Rispose la mamma. Alzò la voce, eccitata, quando
riconobbe il mio lacrimevole “Ciao, mamma”. Le dissi che non avrei
dovuto venire a Cambridge, che non capivo niente. Mi spiegò che aveva
fatto un test muscolare e aveva scoperto che uno dei miei chakra era
sbilanciato. Poteva sistemarlo. Le ricordai che ero a ottomila chilometri di
distanza.
“Non importa,” disse. “Sistemerò il chakra su Audrey e te lo manderò.”
“Cosa farai?”
“Te lo manderò,” disse. “La distanza non conta nulla per l’energia
vivente. Posso mandarti l’energia corretta da qui.”
“A che velocità viaggia l’energia?” chiesi. “Alla velocità del suono, o è
più come un aereo? Sarà un volo diretto o dovrà fare scalo a Minneapolis?”
La mamma rise e riagganciò.
Andavo a studiare quasi tutte le mattine alla biblioteca del college, vicino
a una piccola finestra. Una di quelle mattine Drew, un amico della Brigham,
mi mandò una canzone per email. Disse che era famosissima, ma non
l’avevo mai sentita e non conoscevo il cantante. L’ascoltai con le cuffiette.
Mi conquistò subito. La ascoltai più e più volte mentre fissavo il chiostro
settentrionale dalla finestra.
Emancipate yourselves from mental slavery
None but ourselves can free our minds
Scribacchiai quelle parole sui quaderni, ai margini delle tesine che stavo
scrivendo. Ci pensavo quando avrei dovuto studiare. Scoprii in rete che
avevano trovato un cancro al piede a Bob Marley. Scoprii anche che Marley
era un rastafariano e che i rastafariani credono nell’“integrità del corpo”, ed
era per questo che si era rifiutato di farsi amputare il dito del piede. Era
morto quattro anni dopo all’età di trentasei anni.
Emancipate yourselves from mental slavery. Bob Marley aveva scritto
quella frase un anno prima della sua morte, mentre un melanoma operabile
gli stava procurando delle metastasi ai polmoni, al fegato, allo stomaco e al
cervello. M’immaginai un avido chirurgo dai denti aguzzi e le lunghe dita
scheletriche che esortava Marley a farsi amputare. Inorridii a
quell’immagine spaventosa del dottore e della sua medicina corrotta, e solo
allora capii per la prima volta che, anche se avevo ripudiato il mondo di mio
padre, non avevo mai trovato davvero il coraggio di vivere in questo.
Sfogliai il mio quaderno, andando alla lezione sulla libertà negativa e
positiva. In un angolo libero scribacchiai la frase, None but ourselves can
free our minds. Poi presi il telefono e composi il numero.
“Devo fare le vaccinazioni,” dissi all’infermiera.
Di mercoledì pomeriggio frequentavo un seminario a cui partecipavano
anche due ragazze, Katrina e Sophie, che si sedevano quasi sempre vicine.
Un pomeriggio, alcune settimane prima di Natale, mi chiesero se mi andava
di prendere un caffè con loro. Non avevo mai “preso un caffè”, non sapevo
nemmeno che sapore avesse perché era proibito dalla chiesa, ma le seguii in
un bar sull’altro lato della strada. La cassiera sembrava impaziente, così
scelsi a caso. Mi allungò una tazzina microscopica con dentro una
cucchiaiata di liquido color fango e guardai con invidia le tazze schiumose
che Katrina e Sophie portarono al nostro tavolo. Cominciarono a discutere
di certi concetti affrontati a lezione, mentre mi chiedevo se bere il mio
caffè.
Usavano delle espressioni complesse con disinvoltura. Alcune di queste,
come “la seconda ondata”, le avevo già sentite anche se non sapevo cosa
significassero; altre, come “la mascolinità egemonica”, mi sembravano
impronunciabili oltre che incomprensibili. Avevo preso diversi sorsi di quel
liquido acre e granuloso, quando mi resi conto che stavano parlando del
femminismo. Le fissai come se fossero dietro una lastra di vetro. Non avevo
mai sentito usare la parola “femminismo” se non come rimprovero. Alla
Brigham la frase “Sembri una femminista” indicava la fine di una
discussione. Indicava anche che avevi perso.
Uscii dal bar e andai in biblioteca. Dopo cinque minuti online e alcune
ricerche sugli scaffali, mi trovai seduta al mio solito posto con una grossa
pila di libri di quelle che ormai conoscevo come le scrittrici della seconda
ondata: Betty Friedan, Germaine Greer, Simone de Beauvoir. Lessi solo
poche pagine di ciascun libro prima di chiuderlo con decisione. Non avevo
mai visto la parola “vagina” stampata su carta, né l’avevo mai detta a voce
alta.
Tornai a Internet e poi di nuovo agli scaffali, dove cambiai i libri della
seconda ondata con quelli anteriori alla prima: Mary Wollstonecraft e John
Stuart Mill. Lessi per tutto il pomeriggio e la sera, sviluppando per la prima
volta un vocabolario per il disagio che provavo fin dall’infanzia.
Fin dal primo momento in cui avevo capito che mio fratello Richard era
un bambino e io una bambina, avevo sognato di cambiare il mio futuro col
suo. Il mio futuro era la maternità, il suo la paternità. Detta così sembravano
due cose simili, ma non lo erano. Una significava decidere. Presiedere.
Dettare legge in famiglia. L’altra significava essere tra quanti dovevano
rispettare quella legge.
Sapevo che il mio era un desiderio innaturale. Questa consapevolezza,
come gran parte della consapevolezza che avevo di me stessa, mi era
arrivata dalla voce delle persone che conoscevo, che amavo. Nel corso degli
anni quella voce era sempre rimasta con me, sussurrando, interrogandosi,
preoccupandosi. Dicendomi che ero sbagliata. Che i miei sogni erano delle
perversioni. Quella voce aveva molti timbri, molti toni. Certe volte era la
voce di mio padre; più spesso era la mia.
Portai i libri nella mia stanza e lessi per tutta la notte. Mi piacquero molto
le pagine appassionate di Mary Wollstonecraft, ma c’era una singola frase
scritta da John Stuart Mill che, quando la lessi, mi aprì un mondo: “È un
argomento di cui non si può sapere nulla di definitivo”. L’argomento a cui si
riferiva Mill era la natura delle donne. Mill sosteneva che le donne erano
state persuase, convinte, spinte e costrette a una serie di forzature femminili
per così tanti secoli, che era impossibile definire le loro capacità o
aspirazioni naturali.
Mi salì il sangue alla testa. Provai un’elettrizzante scarica di adrenalina,
un senso di possibilità, di un confine che veniva ampliato. Della natura
delle donne, non si può sapere nulla di definitivo. Non avevo mai trovato
così tanto conforto in un vuoto, nella buia assenza di certezze. Sembrava
dirmi: qualunque cosa sei, sei una donna.
A dicembre, dopo aver consegnato la mia ultima tesina, salii su un treno
per Londra e presi un aereo. La mamma, Audrey ed Emily vennero a
prendermi all’aeroporto di Salt Lake City e imboccammo sbandando
l’autostrada. Era quasi mezzanotte quando la montagna comparve
all’orizzonte. Riuscivo appena a intravvedere la sua sagoma maestosa
contro il cielo nero-inchiostro.
Quando entrai in cucina notai un grosso buco nella parete, che portava a
un nuovo annesso che stava costruendo il papà. La mamma l’attraversò
insieme a me e accese la luce.
“Incredibile, eh?” disse. “Incredibile” era la parola giusta.
Era uno stanzone grande quanto una chiesa, con un soffitto a volta alto
quasi cinque metri. Le dimensioni erano talmente assurde che ci misi un po’
a notare gli arredi. Le pareti di cartongesso creavano un contrasto
spettacolare con le assi di legno del soffitto a volta. Alcuni divani di pelle
scamosciata cremisi erano disposti gradevolmente accanto al divanetto
macchiato che mio padre aveva recuperato dalla discarica molti anni prima.
Il pavimento era coperto per metà da pesanti tappeti dai motivi complessi,
mentre l’altra metà era di cemento grezzo. C’erano diversi pianoforti, di cui
solo uno sembrava funzionante, e un televisore grosso quanto un tavolo da
pranzo. Era uno spazio che si addiceva alla perfezione a mio padre: era
esagerato e straordinariamente assurdo.
Il papà aveva sempre detto che voleva costruire una stanza grande quanto
una nave da crociera, ma non credevo che avrebbe trovato i soldi. Guardai
la mamma in cerca di spiegazioni ma fu il papà a rispondere. Gli affari
andavano a gonfie vele, disse. Gli oli essenziali erano molto richiesti e la
mamma aveva i migliori sul mercato. “I nostri oli sono così buoni,” disse,
“che abbiamo cominciato a far concorrenza ai grossi produttori industriali.
Nell’Idaho lo sanno tutti chi sono i Westover.” A quanto pare un’azienda si
era così allarmata per il successo degli oli della mamma che le aveva offerto
la cifra astronomica di tre milioni di dollari per rilevare l’attività. I miei
genitori non ci avevano nemmeno pensato. Curare la gente era la loro
missione. Nessuna somma di denaro poteva corromperli. Il papà spiegò che
avrebbero riconsacrato a Dio il grosso dei profitti sotto forma di
approvvigionamenti – cibo, benzina, forse un vero e proprio rifugio
antiaereo. Dovetti frenare un sorriso. Da quel che vedevo, il papà era sulla
buona strada per diventare il pazzo meglio finanziato degli Stati dell’Ovest.
Richard comparve sulla tromba delle scale. Stava per finire un corso di
laurea triennale in chimica presso la Idaho State University. Era tornato a
casa per Natale e aveva portato con sé sua moglie Kami e il loro figlioletto
di un mese, Donavan. Quando avevo conosciuto Kami poco prima del
matrimonio, l’anno precedente, ero rimasta sorpresa dalla sua normalità.
Come Stefanie, la moglie di Tyler, anche Kami era diversa da noi: era una
mormona, ma il papà l’avrebbe definita “convenzionale”. Ringraziò la
mamma per i suoi consigli di erboristica, ma ignorò le loro aspettative e non
rinunciò ai dottori. Donavan era nato in ospedale.
Mi chiesi come facesse Richard a navigare le acque turbolente tra quella
moglie normale e quei genitori anormali. Lo guardai con attenzione, quella
sera, e mi sembrò che cercasse di vivere in entrambi i mondi, di aderire a
ogni credo. Quando mio padre accusò i dottori di essere schiavi di Satana,
Richard si girò verso Kami e fece una risatina, come se il papà stesse
scherzando. Ma quando mio padre inarcò le sopracciglia, l’espressione di
Richard si fece riflessiva e arrendevole. Sembrava in uno stato di
transizione continua, come se fluttuasse da una dimensione all’altra,
indeciso se essere il figlio di mio padre o il marito di sua moglie.
La mamma era sommersa di ordini per le vacanze, così trascorrevo le mie
giornate a Buck Peak come da bambina, ovvero in cucina a preparare
rimedi omeopatici. Versavo l’acqua distillata, aggiungevo le gocce della
formula base e infilavo la minuscola boccetta di vetro nel cerchio formato
dal mio pollice e indice, contando fino a cinquanta o a cento, poi passavo
alla boccetta successiva. Il papà entrò a prendere un bicchiere d’acqua.
Quando mi vide, sorrise.
“Chi l’avrebbe detto che dovevamo mandarti a Cambridge per farti
tornare al tuo posto, qui in cucina?” disse.
Di pomeriggio io e Shawn sellavamo i cavalli e arrancavamo su per la
montagna, coi cavalli che dovevano quasi saltare per superare i cumuli di
neve che gli arrivavano fino alla pancia. La montagna era bella e fresca,
l’aria odorava di cuoio e di pini. Shawn parlava dei cavalli, del loro
addestramento e dei puledri che aspettava in primavera, e mi ricordai che
dava sempre il meglio di sé quand’era con i suoi cavalli.
Ero a casa da una settimana quando la montagna fu investita da una
grande ondata di freddo. Le temperature precipitarono fino allo zero, poi
scesero ancora di più. Mettemmo al riparo i cavalli, sapendo che il sudore
rischiava di trasformarsi in ghiaccio sulle loro schiene. L’abbeveratoio si
congelò. Spaccammo il ghiaccio ma si riformò subito, così portammo dei
secchi d’acqua a ciascun cavallo.
Quella sera restammo tutti in casa. La mamma stava miscelando oli in
cucina. Il papà era nell’annesso, che avevo cominciato a soprannominare
scherzosamente “la Cappella”. Era sdraiato sul divano cremisi con una
Bibbia appoggiata sulla pancia, mentre Kami e Richard suonavano degli
inni al pianoforte. Mi sedetti col mio portatile sul divanetto, vicino al papà,
e ascoltai la musica. Avevo appena cominciato a scrivere un messaggio a
Drew quando sentii un colpo alla porta sul retro. La porta si spalancò ed
Emily si precipitò dentro.
Si stringeva le braccia esili al corpo e tremava, cercando di prendere fiato.
Non aveva né giubbotto né scarpe, solo un vecchio paio di jeans che un
tempo erano stati miei e una delle mie magliette logore. La mamma l’aiutò
a sedersi sul divano e l’avvolse nella prima coperta che trovò. Emily
strillava e piangeva, e per diversi minuti nemmeno la mamma riuscì a farle
dire cos’era successo. Stavano bene? Dov’era Peter? Era un bambino
fragile, sottopeso per la sua età, e portava delle cannule per l’ossigeno
infilate nelle narici perché i suoi polmoni non si erano mai sviluppati del
tutto. Gli erano collassati i polmoni? Aveva smesso di respirare?
La storia arrivò a sprazzi, inframmezzata ai singhiozzi e a un battere di
denti. Da quel che capii, quel pomeriggio Emily era andata a fare la spesa
da Stokes ed era tornata a casa con dei cracker sbagliati per Peter. Shawn
era sbottato. “Come farà a crescere se non compri il cibo giusto!” aveva
gridato, poi l’aveva presa e l’aveva scaraventata fuori dalla loro casa mobile
e dentro un cumulo di neve. Emily aveva battuto i pugni sulla porta,
supplicandolo di farla entrare, poi era corsa su per la collina verso casa
nostra. Guardai i suoi piedi nudi mentre parlava. Erano così rossi che
sembravano ustionati.
I miei genitori erano seduti insieme a Emily sul divano, uno per lato, e le
davano dei colpetti sulle spalle stringendole le mani. Richard andava su e
giù pochi metri dietro di loro. Sembrava frustrato, ansioso, come se volesse
agire ma qualcosa glielo impedisse.
Kami era ancora seduta al pianoforte. Fissava il gruppo accalcato sul
divano, confusa. Non aveva capito Emily. Non capiva perché Richard stesse
andando su e giù, né perché si fermasse in continuazione a guardare il papà
in attesa di una parola o di un gesto, un segnale qualsiasi di cosa bisognava
fare.
Guardai Kami e provai una stretta al petto. Non sopportavo che vedesse.
M’immaginai nei panni di Emily – mi venne naturale, lo facevo in
continuazione – e in un momento ero in un parcheggio a fare quella mia
risata stridula e a cercare di convincere il mondo che non mi si stava
rompendo il polso. Prima ancora di rendermene conto, avevo attraversato la
stanza. Presi mio fratello per un braccio e lo portai verso il pianoforte.
Emily stava ancora singhiozzando e nascosi i miei sussurri sotto i suoi
singhiozzi. Dissi a Kami che quella che stava vedendo era una faccenda
privata e che Emily si sarebbe sentita a disagio il giorno dopo. Dissi che per
il bene di Emily dovevamo andare tutti nelle nostre stanze e lasciar
risolvere la questione al papà.
Kami si alzò. Aveva deciso di fidarsi di me. Richard esitò, lanciò una
lunga occhiata al papà, poi la seguì fuori dalla sala.
Li accompagnai in corridoio, poi tornai indietro. Mi sedetti al tavolo della
cucina e guardai l’orologio. Passarono cinque minuti, poi dieci. Andiamo,
Shawn, cantilenai sottovoce. Arriva.
Mi ero convinta che se Shawn fosse arrivato entro qualche minuto,
sarebbe stato per accertarsi che Emily avesse raggiunto casa nostra – che
non fosse scivolata sul ghiaccio rompendosi una gamba o non stesse
morendo di freddo in un campo. Ma non arrivò.
Una ventina di minuti dopo, quando Emily finalmente smise di tremare, il
papà alzò il telefono. “Vieni a prendere tua moglie!” gridò nella cornetta.
La mamma stava cullando la testa di Emily sulla sua spalla. Il papà tornò a
sedersi e diede a Emily dei colpetti sul braccio. Mentre li fissavo, stretti
insieme sul divano, ebbi l’impressione che tutto questo fosse già successo e
che ognuno stesse recitando una parte provata più e più volte. Me
compresa.
Solo molti anni dopo avrei capito cos’era successo quella sera e che parte
avevo avuto. Avevo aperto bocca quando avrei dovuto stare zitta, e l’avevo
chiusa quando avrei dovuto parlare. Quello che serviva era una rivoluzione,
un ribaltamento dei vecchi, fragili ruoli che avevamo recitato fin dalla mia
infanzia. Quello che serviva – che serviva a Emily – era una donna libera da
ogni finzione, una donna che sapeva essere come un uomo, in grado di
esprimere un’opinione e di agire senza dover rendere conto a nessuno. Un
padre.
Le portefinestra che aveva installato mio padre si aprirono cigolando.
Shawn entrò strascicando i piedi. Indossava un paio di scarponi pesanti e un
grosso giubbotto invernale. Peter spuntò fuori tra le pieghe di lana spessa
dove Shawn l’aveva tenuto per proteggerlo dal freddo, e allungò le braccia
verso Emily. Lei lo strinse a sé. Il papà si alzò. Fece cenno a Shawn di
sedersi accanto a Emily. Io mi alzai e andai in camera mia, fermandomi a
lanciare un ultimo sguardo a mio padre che stava facendo un respiro
profondo, preparandosi a tenere un lungo discorso.
“È stato molto severo,” mi assicurò la mamma venti minuti dopo, quando
comparve sulla mia soglia per chiedermi se potevo prestare a Emily un paio
di scarpe e un giubbotto. Li andai a prendere e li guardai uscire dalla
cucina, infilati sotto il braccio di mio fratello.
31.
Tragedia e poi farsa

Il giorno prima di tornare in Inghilterra guidai per undici chilometri lungo


la catena montuosa, poi svoltai in una stradina sterrata e mi fermai davanti a
una casa azzurro chiaro. Parcheggiai dietro un camper che era largo quasi
quanto la casa stessa. Bussai. Mia sorella venne ad aprire.
Rimase sulla soglia con un pigiama di flanella, un bimbo sul fianco e due
bambine piccole aggrappate alla gamba. Suo figlio, di circa sei anni, era in
piedi dietro di lei. Audrey si scostò per lasciarmi passare, ma i suoi
movimenti erano rigidi e non mi guardava in faccia. Avevamo passato poco
tempo insieme da quando si era sposata.
Entrai in casa, fermandomi di colpo all’ingresso quando vidi un buco di
quasi un metro nel linoleum, che portava nel seminterrato. L’oltrepassai e
andai in cucina, dove sentii l’odore degli oli di nostra madre – betulla,
eucalipto, ravensara.
La conversazione fu lenta, esitante. Audrey non mi chiese nulla
dell’Inghilterra o di Cambridge. Non aveva punti di riferimento per la mia
vita, così parlammo della sua, di come secondo lei la scuola pubblica era
corrotta e quindi preferiva istruire i suoi figli a casa, da sola. Come me,
Audrey non era mai andata a scuola. A diciassette anni aveva fatto un
fugace tentativo di prendere un attestato di diploma equivalente. Aveva
anche chiesto aiuto a nostra cugina Missy, che era venuta appositamente da
Salt Lake City per darle lezioni. Missy aveva lavorato insieme ad Audrey
per tutta l’estate, dichiarando infine che era a un livello tra la quarta e la
quinta elementare e che quindi non sarebbe mai riuscita a diplomarsi. Mi
morsi il labbro e guardai sua figlia, che mi aveva portato un disegno,
chiedendomi che istruzione poteva sperare di ricevere da una madre che
non ne aveva mai avuta una.
Preparammo la colazione ai bambini, poi giocammo con loro nella neve.
Facemmo il pane, guardammo dei polizieschi in tv e creammo dei
braccialetti di perline. Era come aver attraversato uno specchio e vivere una
giornata della vita che avrei potuto avere se fossi rimasta sulla montagna.
Ma non ero rimasta. La mia vita aveva preso una direzione diversa da
quella di mia sorella e adesso era come se non avessimo più molto in
comune. Passarono le ore. Era il tardo pomeriggio, ma Audrey sembrava
ancora sulle sue. Si rifiutava ancora di guardarmi negli occhi.
Avevo portato un piccolo servizio da tè in porcellana per i bambini e,
quando cominciarono a litigare per la teiera, glielo tolsi. La bambina più
grande mi ricordò che aveva cinque anni e che a quell’età non si poteva
portarle via un giocattolo. “Se ti comporti come una bambina piccola,”
dissi, “ti tratterò come tale.”
Non so perché lo dissi; credo che per qualche motivo avessi in mente
Shawn. Mi pentii all’istante di quelle parole. Mi odiai per averle dette. Mi
voltai a consegnare il servizio da tè a mia sorella perché facesse giustizia
come meglio credeva, ma quando vidi la sua espressione per poco non lo
lasciai cadere per terra. Aveva la bocca aperta in un cerchio perfetto.
“Shawn diceva sempre così,” disse, guardandomi negli occhi.
Non mi sarei mai dimenticata quel momento. Ci ripensai il giorno dopo,
quando presi un aereo a Salt Lake City, e ci stavo ancora pensando quando
atterrai a Londra. Ero sconvolta. Per qualche motivo non mi era mai venuto
in mente che mia sorella poteva aver vissuto le stesse cose prima di me.
Quel semestre mi consegnai all’università come resina nelle mani di uno
scultore. Ero convinta di potermi ricreare, che la mia mente potesse essere
rimodellata. Mi sforzai di fare amicizia con gli altri studenti, presentandomi
goffamente più e più volte finché non mi creai una piccola cerchia di amici.
Poi cercai di abbattere le barriere che mi separavano da loro. Provai il vino
rosso per la prima volta e i miei nuovi amici risero quando videro le mie
smorfie. Misi da parte le maglie dal collo alto e cominciai a indossare
modelli più alla moda – attillati, spesso senza maniche, con scollature meno
severe. Se riguardo le foto di quel periodo mi stupisco della simmetria:
sembro come tutti gli altri.
In aprile cominciai ad andare bene. Scrissi una tesina sul concetto di
autosovranità di John Stuart Mill e il mio relatore, il dottor David
Runciman, disse che se avessi scritto una tesi altrettanto buona potevo
vincere un dottorato a Cambridge. Ero sbalordita. Mi ero intrufolata in
questo posto magnifico come una ladra, ma adesso potevo entrare dalla
porta d’ingresso. Cominciai a lavorare alla tesi e scelsi di nuovo Mill come
soggetto.
Un pomeriggio verso la fine del semestre, mentre pranzavo al self-service
della biblioteca, vidi un gruppo di studenti del mio corso di studi. Erano
seduti a un tavolino. Chiesi se potevo sedermi insieme a loro e un italiano
alto di nome Nic fece di sì con la testa. Sentendoli parlare, intuii che Nic
aveva invitato gli altri ad andarlo a trovare a Roma durante le vacanze di
primavera. “Puoi venire anche tu,” disse.
Consegnammo le nostre ultime tesine per il semestre, poi prendemmo un
aereo. La nostra prima sera a Roma salimmo su uno dei sette colli e
guardammo la metropoli aprirsi davanti ai nostri occhi. Le cupole bizantine
aleggiavano sulla città come palloni aerostatici. Era quasi sera e le strade
erano avvolte da una luce ambrata. Non era il colore di una città moderna,
dell’acciaio, del vetro e del cemento. Era il colore del tramonto. Sembrava
irreale. Nic mi chiese cosa ne pensavo della sua città e l’unica cosa che
riuscii a dire fu: non sembra vera.
La mattina dopo, a colazione, gli altri parlarono delle loro famiglie. Il
padre di uno era un diplomatico, quello di un altro un docente a Oxford. Mi
chiesero dei miei genitori. Dissi che mio padre aveva una discarica.
Nic ci portò al conservatorio dove aveva studiato violino. Si trovava nel
centro di Roma ed era elegantemente arredato, con una scalinata maestosa e
grandi sale riecheggianti. Provai a immaginare come sarebbe stato studiare
in un posto simile, camminare su pavimenti di marmo ogni mattina e,
giorno dopo giorno, imparare ad accomunare il sapere alla bellezza. Ma non
ci riuscii. Potevo immaginare la scuola solo come la stavo conoscendo
adesso, come una specie di museo, una reliquia della vita di qualcun altro.
Per un paio di giorni esplorammo Roma, una città che è sia un organismo
vivente che un reperto storico. Strutture imbiancate dell’antichità giacciono
come ossa secche, incastrate tra i cavi pulsanti e il traffico insistente, le
arterie della vita moderna. Visitammo il Pantheon, il Foro romano, la
Cappella Sistina. Provavo un istinto ad adorare, a venerare. Ecco come mi
sentivo a contatto con l’intera città: come se dovesse essere dietro una lastra
di vetro, ammirata da lontano, mai toccata, mai modificata. I miei compagni
si muovevano per la città in maniera diversa, consapevoli della sua
importanza ma non sottomessi. Non si zittivano di fronte alla Fontana di
Trevi, non restavano muti al cospetto del Colosseo. Invece, mentre
passavamo da una reliquia all’altra, discutevano di filosofia – Hobbes e
Cartesio, Tommaso d’Aquino e Machiavelli. C’era qualcosa di simbiotico
nel loro rapporto con questi posti magnifici: rendevano vive le architetture
antiche facendone lo sfondo dei loro discorsi, rifiutandosi di pregare al loro
altare come se fossero delle cose morte.
La terza sera ci fu un temporale. Restai sul balcone di Nic a guardare i
fulmini guizzare nel cielo, inseguiti dal fragore dei tuoni. Era come essere a
Buck Peak, circondati dalla forza della terra e del cielo.
La mattina dopo era sereno. Portammo vino e pasticcini per un picnic nel
parco di Villa Borghese. Il sole era caldo, i pasticcini divini. Non ricordavo
di essermi mai sentita più viva. Qualcuno disse qualcosa su Hobbes e
istintivamente citai una frase di Mill. Mi venne spontaneo portare quella
voce del passato in un momento già così saturo di storia, anche se la voce
era mescolata alla mia. Ci fu una pausa durante la quale tutti cercarono con
gli occhi chi aveva parlato, poi qualcuno chiese da che testo veniva quella
frase e la conversazione proseguì.
Per il resto della settimana vissi Roma come la vivevano gli altri: come
un luogo storico, ma anche come un luogo di vita, cibo, traffico, conflitti e
fragore. La città non era più un museo: era viva come lo era per me Buck
Peak. Piazza del Popolo. Le Terme di Caracalla. Castel Sant’Angelo. Nella
mia mente queste cose diventarono reali quanto la Principessa, la carrozza
rossa del treno, il Trinciante. Il mondo che rappresentavano, fatto di
filosofia, scienza, letteratura – un’intera civiltà – prese vita, ed era una vita
diversa da quella che avevo conosciuto fino ad allora. Alla Galleria
Nazionale d’Arte Antica mi fermai davanti a Giuditta e Oloferne e non
pensai nemmeno una volta ai polli.
Non so cosa provocò la trasformazione, perché all’improvviso fui in
grado di relazionarmi con i grandi pensatori del passato anziché venerarli
fino al mutismo. Ma c’era qualcosa in quella città, col suo marmo bianco e
l’asfalto nero, con la sua patina di storia e le luci fiammeggianti del traffico,
che mi diceva che potevo ammirare il passato senza esserne zittita.
Stavo ancora respirando l’umidità della pietra antica quando arrivai a
Cambridge. Corsi su per le scale impaziente di controllare l’email, sapendo
che avrei trovato un messaggio di Drew. Quando aprii il portatile, vidi che
mi aveva scritto Drew ma anche qualcun altro: mia sorella.
Aprii il messaggio di Audrey. Era un unico, lungo paragrafo, con pochi
segni di interpunzione e molti errori di ortografia, e all’inizio mi concentrai
su queste imprecisioni per non vedere il contenuto. Ma le parole gridavano
dallo schermo.
Audrey diceva che avrebbe dovuto fermare Shawn molti anni prima
perché non mi facesse quello che aveva fatto a lei. Diceva che quand’era
più giovane aveva pensato di dirlo alla mamma, di chiederle aiuto, ma
aveva avuto paura che non le credesse. Aveva ragione. Prima di sposarsi
aveva avuto degli incubi e flashback, e ne aveva parlato alla mamma. La
mamma le aveva detto che quei ricordi erano falsi, impossibili. Avrei dovuto
aiutarti, scriveva Audrey. Ma vedendo che mia madre non mi credeva, ho
smesso di crederci anch’io.7
Era un errore a cui voleva rimediare. Credo che Dio mi riterrà
responsabile se non impedirò a Shawn di continuare a fare del male,
scriveva. Aveva intenzione di metterlo di fronte a questa cosa, a lui come ai
nostri genitori, e mi chiedeva man forte. Lo farò con o senza di te. Ma senza
di te, probabilmente non l’avrò vinta.
Rimasi seduta al buio a lungo. Ero infastidita che mi avesse scritto. Era
come se mi avesse strappato da un mondo, da una vita in cui ero felice, e
riportato in un’altra.
Scrissi una risposta. Le dissi che aveva ragione, che di sicuro dovevamo
fermare Shawn, ma le chiesi di non fare nulla finché non sarei tornata
nell’Idaho. Non so perché le chiesi di aspettare, che beneficio credevo di
ottenere col tempo. Non so cosa credevo sarebbe successo quando avremmo
parlato con i nostri genitori, ma capivo istintivamente qual era la posta in
gioco. Finché non glielo chiedevamo potevamo pensare che ci avrebbero
aiutato. Dirglielo significava rischiare l’impensabile: significava rischiare di
scoprire che lo sapessero già.
Audrey non apettò neanche un giorno. La mattina dopo fece leggere la
mia email alla mamma. Non posso sapere cosa si dissero di preciso, ma so
che per Audrey dev’essere stato un sollievo enorme mostrare le mie parole
alla mamma, poter dire finalmente: non sono pazza. È successo anche a
Tara.
La mamma ci rifletté tutto il giorno. Poi decise che doveva sentire quelle
parole dalla mia bocca. Era il tardo pomeriggio nell’Idaho, e quasi
mezzanotte in Inghilterra, quando mia madre, non sapendo come fare una
chiamata internazionale, mi trovò online. Le parole sullo schermo erano
piccole, chiuse in un minuscolo riquadro nell’angolo, ma sembravano
divorare la stanza. Disse che aveva letto la mia lettera. Mi preparai a
sentirla sbottare.
È doloroso affrontare la realtà, scrisse. Rendersi conto che c’era qualcosa
che non andava, e che mi rifiutavo di vederlo.8
Dovetti rileggere quelle parole più volte prima di capirle. Prima di
rendermi conto che non era arrabbiata, che non mi stava incolpando o
cercando di convincermi che mi ero immaginata tutto. Mi credeva.
Non fartene una colpa, le dissi. Hai sempre avuto dei problemi alla testa
dopo l’incidente.
Può darsi, disse. Ma a volte penso che ci scegliamo le nostre malattie
perché ci giovano in qualche modo.
Chiesi alla mamma perché non aveva mai impedito a Shawn di farmi del
male.
Shawn diceva sempre che eri stata tu a cominciare, e immagino che
volessi credergli perché era più semplice così. Perché tu eri forte e saggia,
mentre lo vedevano tutti che Shawn non lo era.
Non capivo. Se sembravo tanto saggia, perché la mamma aveva creduto a
Shawn quando diceva che ero stata io a cominciare? Che dovevo essere
domata, disciplinata?
Sono una mamma, disse. Le mamme proteggono. E Shawn era messo così
male.
Avrei voluto dire che era anche mia mamma, ma non lo feci. Scrissi: non
credo che il papà crederà a queste cose.
Ci crederà, scrisse. Ma per lui è difficile. Gli ricorda il male che il suo
disturbo bipolare ha causato alla nostra famiglia.
Non l’avevo mai sentita ammettere che il papà poteva essere malato di
mente. Alcuni anni prima le avevo detto cos’avevo imparato a lezione a
proposito del disturbo bipolare e della schizofrenia, ma aveva fatto finta di
niente. Sentirglielo dire adesso fu liberatorio. La malattia mi dava qualcosa
contro cui prendermela oltre a mio padre, così quando la mamma mi chiese
perché non gliene avevo parlato prima, perché non avevo chiesto aiuto,
risposi con onestà.
Perché eri tiranneggiata dal papà, dissi. Non avevi potere in casa. Il papà
comandava e non ci avrebbe aiutate.
Adesso sono più forte, disse. Non scappo più.
Quando lessi queste parole ripensai a mia madre quand’era una donna
giovane, brillante ed energica, ma anche ansiosa e arrendevole. Poi
l’immagine cambiò, il suo corpo si fece magro e allungato, i suoi capelli
fluenti, lunghi e argentati.
Maltratta anche Emily, scrissi.
È vero, disse la mamma. Come è successo a me.
È come te, dissi.
È come me. Ma adesso lo sappiamo. Possiamo cambiare le cose.
Le chiesi di un ricordo. Era di alcune settimane prima che partissi per la
Brigham, dopo che Shawn aveva avuto una nottata particolarmente difficile.
Aveva fatto piangere la mamma, poi si era lasciato cadere sul divano e
aveva acceso la tv. Avevo trovato la mamma che singhiozzava al tavolo
della cucina e mi aveva chiesto di non andare alla Brigham. “Sei l’unica che
ha la forza per gestirlo,” aveva detto. “Io non ce la faccio, e nemmeno tuo
padre. Devi farlo tu.”
Scrissi lentamente e con riluttanza: Ti ricordi quando mi hai detto di non
andare a scuola, e che ero l’unica che sapeva gestire Shawn?
Sì, me lo ricordo.
Ci fu una pausa, poi comparvero altre parole – parole di cui non sapevo di
avere bisogno. Ma una volta che le vidi, mi resi conto che le stavo
aspettando da tutta la vita.
Eri la mia bambina. Avrei dovuto proteggerti.
Vissi una vita intera nel momento in cui lessi quelle parole, una vita che
non era quella che avevo vissuto realmente. Diventai una persona diversa,
che si ricordava un’infanzia diversa. Allora non capii la magia di quelle
parole, né la capisco adesso. So solo questo: che quando mia madre disse
che non era stata la madre che avrebbe voluto, diventò quella madre per la
prima volta.
Ti voglio bene, scrissi, e chiusi il portatile.
Io e la mamma parlammo solo una volta di quella conversazione, al
telefono, una settimana dopo. “È tutto risolto,” disse. “Ho detto a tuo padre
di te e tua sorella. Shawn si farà aiutare.”
Allontanai il problema dalla mia mente. Se n’era fatta carico mia madre.
Era forte. Aveva messo in piedi quell’attività, con tutta quella gente che
lavorava per lei, e al confronto l’attività di mio padre e ogni altra attività
nella zona non erano nulla. Lei, quella donna mansueta, aveva una forza che
noi non potevamo nemmeno immaginare. E poi c’era il papà. Era cambiato.
Era più tranquillo, più incline a ridere. Il futuro poteva essere diverso dal
passato. Anche il passato poteva essere diverso dal passato, perché i miei
ricordi potevano cambiare: non ricordavo più la mamma che ascoltava dalla
cucina mentre Shawn mi immobilizzava a terra, schiacciandomi la trachea.
Non ricordavo più la mamma che guardava dall’altra parte.
La mia vita a Cambridge si trasformò – o meglio, io mi trasformai in una
persona che si sentiva al suo posto a Cambridge. Smisi di vergognarmi della
mia famiglia quasi da un giorno all’altro. Per la prima volta nella mia vita
riuscivo a parlare apertamente delle mie origini. Ammettevo agli amici di
non essere mai andata a scuola. Descrivevo Buck Peak, con tutte le sue
discariche, i fienili, i recinti per il bestiame. Parlavo perfino del deposito
sotto il campo di grano, pieno di provviste, e della benzina sotterrata vicino
alla vecchia stalla.
Dicevo che ero stata povera, che ero stata ignorante e lo facevo senza
alcuna vergogna. Solo allora capii perché mi ero vergognata tanto: non
perché non avevo studiato in un conservatorio dai pavimenti di marmo o
non avevo un padre diplomatico. Non perché il papà era mezzo matto e la
mamma gli andava dietro. Ma perché avevo un padre che mi buttava tra le
lame del Trinciante anziché tenermi lontano da esse. Perché avevo passato
quei momenti sul pavimento sapendo che la mamma era nell’altra stanza,
sorda e cieca alle mie richieste d’aiuto, e decisa per il momento a non farmi
affatto da madre.
Mi creai un passato nuovo. Diventai un’ospite molto richiesta alle cene,
con i miei racconti sulla caccia e i cavalli, sul recupero dei rottami e gli
incendi domati in montagna. Parlavo della mia fantastica madre, levatrice e
imprenditrice, e del mio eccentrico padre, rottamaio e fanatico. Mi
sembrava di essere finalmente onesta sulla mia vita passata. Non era
esattamente la verità, ma lo era in un senso più ampio: era la verità di quello
che sarebbe stato in futuro, ora che tutto era cambiato per il meglio. Ora
che la mamma aveva trovato la sua forza.
Il passato era uno spettro, inconsistente e inoffensivo. Solo il futuro
contava.
7
Il corsivo usato in questa pagina indica che le parole dell’email a cui si fa riferimento sono
parafrasate e non citate direttamente. Il senso è stato mantenuto.
8
Il corsivo è una parafrasi dello scambio di messaggi a cui si fa riferimento e non una citazione
diretta. Il senso è stato mantenuto.
32.
Furore in una grande casa

La volta successiva che tornai a Buck Peak era autunno e la nonna sotto
la collina stava morendo. Aveva combattuto contro il cancro al midollo per
nove anni; ora si avvicinava la fine. Avevo appena saputo di aver vinto un
dottorato a Cambridge quando mi scrisse la mamma. “La nonna è di nuovo
in ospedale,” disse. “Vieni subito. Credo che sarà l’ultima volta.”
Quando atterrai a Salt Lake City, la nonna era in uno stato di
semincoscienza. Drew mi aspettava in aeroporto. Ormai eravamo qualcosa
di più che due semplici amici. Disse che mi avrebbe accompagnato in
macchina nell’Idaho, all’ospedale in città.
Non tornavo in quell’ospedale da quando ci avevo portato Shawn, anni
prima, e fu difficile non pensare a lui mentre attraversavo il corridoio
bianco e asettico. Trovammo la camera della nonna. Il nonno era seduto al
suo capezzale e le teneva una mano chiazzata. La nonna aveva gli occhi
aperti e mi guardò. “È la mia piccola Tara, venuta fin dall’Inghilterra,”
disse, poi i suoi occhi si chiusero. Il nonno le strinse la mano, ma si era
addormentata. Un’infermiera ci disse che probabilmente avrebbe dormito
per delle ore.
Drew si offrì di accompagnarmi a Buck Peak. Accettai, e solo quando la
montagna comparve all’orizzonte mi chiesi se avevo fatto la cosa giusta.
Drew aveva sentito le mie storie, ma portarlo qui significava comunque
correre un rischio: questa non era una storia, e dubitavo che gli altri
avrebbero recitato la parte che avevo scritto per loro.
La casa era nel caos. C’erano donne ovunque: alcune prendevano ordini
al telefono, altre mescolavano oli o filtravano tinture. C’era un nuovo
annesso sul lato sud della casa, dove alcune donne più giovani stavano
riempiendo boccette e impacchettando ordini da spedire. Lasciai Drew in
salotto e andai in bagno, che era l’unica stanza della casa a essere ancora
come me la ricordavo. Quando uscii m’imbattei in un’anziana donna esile,
coi capelli ispidi e un paio di grossi occhiali squadrati.
“Questo bagno è riservato alla direzione,” disse. “Le imbottigliatrici
devono usare il bagno nell’annesso.”
“Non lavoro qui,” dissi.
Mi guardò con attenzione. Impossibile. Tutti lavoravano qui.
“Questo bagno è riservato alla direzione,” ripeté, raddrizzandosi in tutta
la sua altezza. “Tu non puoi lasciare l’annesso.”
Si allontanò prima che potessi rispondere.
Non avevo ancora visto i miei genitori. Tornai zigzagando verso la sala e
trovai Drew sul divano che ascoltava le spiegazioni di una donna su
aspirina e infertilità. Lo presi per mano e lo portai con me, facendomi strada
tra tutti quegli estranei.
“È vero, questo posto?” disse.
Trovai la mamma in una stanza senza finestre al piano di sotto. Ebbi
l’impressione che si stesse nascondendo. Le presentai Drew e lei sorrise
affettuosamente. “Dov’è il papà?” chiesi. Pensai che fosse a letto malato.
Soffriva spesso di problemi respiratori da quando l’esplosione gli aveva
carbonizzato i polmoni.
“Sarà nella mischia di sicuro,” disse alzando gli occhi al soffitto, da cui
proveniva un calpestio di passi.
La mamma venne di sopra con noi. Non appena comparve sul
pianerottolo, fu accolta da una serie di dipendenti che avevano delle
domande da parte dei clienti. Sembrava che tutti volessero una sua opinione
– sulle loro ustioni, le loro palpitazioni, i loro bambini sottopeso. La
mamma le respinse con un cenno e proseguì. Si spostava per casa sua come
una celebrità in un ristorante affollato, come se non volesse farsi
riconoscere.
La scrivania di mio padre era grossa quanto un’automobile. Era
parcheggiata in mezzo al caos. Il papà stava parlando al telefono, che
teneva incastrato tra la guancia e la spalla perché non gli scivolasse dalle
mani cerose. “I dottori non sanno curare il diabete,” disse con una voce un
po’ troppo alta. “Il Signore sì!”
Guardai Drew di sbieco. Stava sorridendo. Il papà riagganciò e si girò
verso di noi. Salutò Drew con un gran sorriso. Irradiava energia,
ricavandola dalla confusione generale della casa. Drew disse che era colpito
dalla loro attività e il papà sembrò alzarsi di quindici centimetri. “Abbiamo
la fortuna di svolgere il lavoro del Signore,” disse.
Squillò di nuovo il telefono. C’erano almeno tre dipendenti incaricate di
rispondere, ma il papà si avventò sul ricevitore come se aspettasse una
telefonata importante. Non l’avevo mai visto così pieno di vita.
“Il potere di Dio sulla terra,” gridò nella cornetta. “Ecco cosa sono questi
oli: la farmacia di Dio!”
Il rumore in casa era frastornante, così portai Drew sulla montagna.
Passeggiammo attraverso i campi di grano selvatico e poi lungo il margine
dei pini alla base della montagna. I colori autunnali erano tranquillizzanti e
restammo là delle ore a guardare in basso verso la valle silenziosa. Era il
tardo pomeriggio quando finalmente tornammo verso casa e Drew ripartì
per Salt Lake City.
Entrai nella Cappella dalla portefinestra e rimasi sorpresa dal silenzio che
c’era all’interno. La casa era vuota, i telefoni staccati, le postazioni di
lavoro abbandonate. La mamma era seduta da sola al centro della sala.
“Ha chiamato l’ospedale,” disse. “La nonna è morta.”
Mio padre perse ogni interesse per gli affari. Cominciò ad alzarsi dal letto
sempre più tardi e, quando lo faceva, sembrava fosse solo per insultare o
accusare. Gridava contro Shawn per la discarica e rimproverava la mamma
per come gestiva le sue dipendenti. Aggrediva Audrey quando cercava di
preparargli il pranzo e se la prendeva con me perché facevo troppo rumore
quando battevo sui tasti. Era come se volesse litigare a tutti costi, come se
volesse punirsi per la morte di sua madre. O forse era lei che voleva punire,
per il conflitto che c’era stato tra di loro e che si era concluso solo adesso
che era morta.
Lentamente, la casa si riempì di nuovo. I telefoni furono riattaccati e
comparvero delle donne a rispondere. La scrivania del papà rimase vuota.
Passava le giornate a letto a fissare il soffitto stuccato. Gli portavo la cena,
come avevo fatto da bambina, e come allora mi chiedevo se si accorgeva
della mia presenza.
La mamma si muoveva per casa con la vitalità di dieci persone,
miscelando tinture e oli essenziali e impartendo ordini alle sue dipendenti
perché organizzassero il funerale e cucinassero per ogni zia o cugino che
arrivava senza preavviso per ricordare la nonna. Il più delle volte la trovavo
in grembiule, con un arrosto davanti e un telefono in ciascuna mano, che
parlava con un cliente piuttosto che con uno zio o un amico che chiamavano
per fare le condoglianze. Nel frattempo mio padre rimaneva a letto.
Il papà parlò al funerale. Il suo discorso fu un sermone di venti minuti
sulle promesse di Dio ad Abramo. Citò la nonna due volte. Chi non lo
conosceva dovette pensare che non fosse turbato più di tanto dalla morte di
sua madre, ma noi vedevamo la sua devastazione.
Quando arrivammo a casa, dopo la messa, il papà sbottò perché non era
pronto il pranzo. La mamma si affrettò a servire lo stufato che aveva
lasciato cuocere a fuoco lento, ma dopo mangiato il papà sembrava
ugualmente irritato per i piatti, che la mamma pulì in fretta e furia, e poi per
i suoi nipoti, che giocavano rumorosamente mentre la mamma correva da
una parte all’altra cercando di farli stare zitti.
Quella sera, quando la casa fu vuota e silenziosa, sentii i miei genitori
litigare in cucina.
“Il minimo che potresti fare,” diceva la mamma, “è scrivere questi
biglietti di ringraziamento. Dopotutto era tua madre.”
“È un compito da mogli,” rispose il papà. “Non ho mai sentito di un
uomo che scrive biglietti.”
Era la cosa peggiore che potesse dire. Per dieci anni era stata soprattutto
la mamma a portare i soldi a casa, oltre naturalmente a cucinare, pulire e
fare il bucato, e non l’avevo sentita lamentarsi nemmeno una volta. Fino ad
ora.
“Allora tu vedi di comportarti da marito,” disse alzando la voce.
Un momento dopo stavano gridando entrambi. Il papà cercava di metterla
alle strette, di sottometterla con la sua grande rabbia, come aveva sempre
fatto, ma questo la rendeva solo più testarda. Alla fine la mamma buttò i
biglietti sul tavolo e disse: “Fai come ti pare. Ma se non li scrivi tu, non lo
farà nessun altro”. Poi scese a grandi passi di sotto. Il papà la seguì e per
un’ora le loro grida salirono attraverso il pavimento. Non avevo mai sentito
i miei genitori gridare così – almeno, non mia madre. Non l’avevo mai vista
rifiutare di arrendersi.
La mattina dopo trovai il papà in cucina che rovesciava della farina
dentro una sostanza collosa che immaginai essere pastella per i pancake.
Quando mi vide mise giù la farina e si sedette a tavola. “Sei una donna,
giusto?” disse. “Bene, questa è una cucina.” Ci fissammo e contemplai la
distanza che si era creata tra noi – come quelle parole sembravano naturali
alle sue orecchie, ma irritanti alle mie.
Non era tipico della mamma lasciare che il papà si preparasse la
colazione da sé. Pensai che fosse ammalata e scesi di sotto a vedere come
stava. Non ero quasi nemmeno arrivata sul pianerottolo quando li sentii: dei
forti singhiozzi provenienti dal bagno, smorzati dal ronzio regolare di un
asciugacapelli. Rimasi fuori dalla porta e ascoltai per più di un minuto,
paralizzata. Preferiva che me ne andassi, che facessi finta di non aver
sentito? Aspettai che riprendesse fiato, ma i suoi singhiozzi si fecero solo
più disperati.
Bussai. “Sono io,” dissi.
La porta si aprì, prima di una fessura, poi di più, e vidi mia madre, la
pelle luccicante dopo la doccia, avvolta in un asciugamano troppo piccolo
per coprirla. Non avevo mai visto mia madre così e chiusi gli occhi
d’istinto. Il mondo si oscurò. Sentii un tonfo, plastica che si spaccava, e
aprii gli occhi. La mamma aveva lasciato cadere l’asciugacapelli, che aveva
battuto sul pavimento. Il suo ruggito era amplificato dal contatto col
cemento a vista. La guardai, lei mi avvicinò a sé e mi abbracciò. L’acqua sul
suo corpo bagnato mi penetrò nei vestiti e sentii delle piccole gocce
scivolare dai suoi capelli sulla mia spalla.
33.
Prodigi della fisica

Non rimasi molto a Buck Peak, forse una settimana. Il giorno che lasciai
la montagna, Audrey mi chiese di non partire. Non ricordo quella
conversazione, ma ricordo che la riportai la cosa sul mio diario. Lo feci la
prima sera che tornai a Cambridge, mentre ero seduta su un ponte di pietra e
guardavo la cappella del King’s College sopra di me. Ricordo il fiume, che
era calmo; ricordo le foglie autunnali che si posavano lentamente sulla
superficie di vetro. Ricordo il rumore della mia penna che si muoveva sulla
pagina, raccontando nel dettaglio, per otto pagine piene, cos’aveva detto di
preciso mia sorella. Ma il ricordo di lei che lo diceva è scomparso: è come
se lo avessi scritto per dimenticare.
Audrey mi chiese di restare. Shawn era troppo forte, disse, troppo
convincente per poterlo affrontare da sola. Le dissi che non era sola, aveva
la mamma. Audrey rispose che non capivo. In fondo nessuno ci aveva
credute. Se chiedevamo aiuto al papà, era sicura che ci avrebbe dato delle
bugiarde. Le dissi che i nostri genitori erano cambiati e che dovevamo
fidarci di loro. Poi presi un aereo e me ne andai a ottomila chilometri di
distanza.
Se mi sentivo in colpa a riportare le paure di mia sorella da quella
distanza di sicurezza, circondata da splendide biblioteche e cappelle
antiche, lo espressi solo una volta, nell’ultima frase che scrissi quella sera:
Cambridge è meno bella questa sera.
Drew era venuto con me a Cambridge perché era stato ammesso a un
corso post-laurea in studi mediorientali. Gli dissi della mia conversazione
con Audrey. Era il primo fidanzato a cui parlavo della mia famiglia –
raccontando la verità e non solo degli aneddoti divertenti. Ovviamente tutto
questo appartiene al passato, dissi. Ora la mia famiglia è diversa. Ma voglio
che tu lo sappia. Così puoi tenermi d’occhio se farò qualcosa di assurdo.
Il primo semestre passò in un turbine di cene e feste fino a tarda notte,
inframmezzate da nottate ancora più lunghe in biblioteca. Per avere un
dottorato dovevo presentare una mia ricerca accademica originale. In altre
parole, dopo cinque anni passati a studiare storia, ora mi chiedevano di
scriverla.
Ma cosa potevo scrivere? Mentre studiavo per la mia tesi di laurea, ero
rimasta sorpresa di trovare echi della teologia mormona nei grandi filosofi
del diciannovesimo secolo. Ne accennai a David Runciman, il mio relatore.
“Sarà questa la tua ricerca,” mi disse. “Puoi fare una cosa che non ha fatto
nessuno: puoi esaminare il mormonismo non solo come movimento
religioso, ma come movimento intellettuale.”
Cominciai a rileggere le lettere di Joseph Smith e Brigham Young. Da
bambina quella lettura era stato un atto di preghiera; adesso leggevo quelle
lettere con occhi diversi, non con gli occhi di un critico ma nemmeno con
quelli di un discepolo. Analizzai la poligamia, non come dottrina ma come
politica sociale. La confrontai con i miei ideali, così come con altri
movimenti e teorie dello stesso periodo. Sembrava un atto radicale.
I miei amici a Cambridge erano diventati una specie di famiglia per me e
provavo un senso di appartenenza che a Buck Peak non sentivo da anni.
Certe volte stavo male per questo. Una sorella non dovrebbe volere più
bene a un estraneo che a un fratello, pensavo. Una figlia non può preferire
un insegnante al proprio padre.
Ma anche se avrei voluto che non fosse così, non volevo tornare a casa.
Preferivo la famiglia che avevo scelto a quella che avevo ricevuto, e così
più mi sentivo felice a Cambridge, più la mia felicità era infangata dalla
sensazione di aver tradito Buck Peak. Quella sensazione diventò una parte
fisica di me, qualcosa di cui sentivo il sapore sulla lingua o l’odore nel
fiato.
Comprai un biglietto per l’Idaho per Natale. La sera prima della partenza
ci fu una festa al college. Un mio amico aveva messo in piedi un piccolo
coro che avrebbe cantato alcuni canti di Natale durante la cena. Stavano
provando da settimane, ma il giorno della festa il soprano si ammalò di
bronchite. Mi squillò il telefono nel tardo pomeriggio. Era il mio amico. “Ti
prego dimmi che conosci qualcuno che sa cantare,” disse.
Non cantavo da anni e non l’avevo mai fatto senza mio padre tra il
pubblico, ma alcune ore dopo salii insieme al coro su un palco vicino alle
travi, sopra il gigantesco albero di Natale che dominava la sala. Feci tesoro
di quel momento, godendomi la leggerezza che provavo nel sentire di
nuovo la musica che mi saliva dal petto e chiedendomi se il papà, se ci
fosse stato, avrebbe sfidato l’università e tutto il suo socialismo per sentirmi
cantare. So che l’avrebbe fatto.
Buck Peak era uguale al solito. La Principessa era sepolta sotto la neve
ma potevo vedere i contorni scuri delle sue gambe. La mamma era in cucina
quando arrivai. Stava mescolando uno stufato con una mano mentre con
l’altra teneva un telefono e spiegava le proprietà della cardiaca. La scrivania
del papà era ancora vuota. Era in taverna, disse la mamma, a letto. Aveva
qualcosa ai polmoni.
Un tizio robusto si trascinò dentro dalla porta sul retro. Ci misi un po’ a
capire che era mio fratello. Luke aveva una barba così folta che faceva
pensare a una delle sue capre. L’occhio sinistro era bianco e cieco: alcuni
mesi prima gli avevano sparato in faccia con un fucile da paintball.
Attraversò la stanza e mi diede una pacca sulla schiena, e lo fissai
nell’occhio che gli rimaneva cercando un segno di famigliarità. Ma solo
quando vidi la cicatrice in rilievo sul suo avambraccio, quel segno di spunta
ricurvo largo cinque centimetri dove il Trinciante gli aveva addentato la
carne, ebbi la certezza che quell’uomo era mio fratello.9 Mi disse che
viveva insieme a sua moglie e a un branco di marmocchi in una casa mobile
dietro alla stalla, e che si guadagnava da vivere lavorando in certi impianti
petroliferi nel North Dakota.
Passarono due giorni. Il papà veniva di sopra ogni sera e si sedeva su un
divano nella Cappella, dove tossiva e guardava la tv oppure leggeva il
Vecchio Testamento. Io passavo le mie giornate studiando o aiutando la
mamma.
La terza sera stavo leggendo al tavolo della cucina, quando Shawn e
Benjamin entrarono dalla porta sul retro. Benjamin stava raccontando a
Shawn di una scazzottata in seguito a un piccolo incidente automobilistico
in città. Disse che prima di scendere dal camion per affrontare l’altro
automobilista si era infilato la pistola nella cintura dei jeans. “Quel tipo non
sapeva a cosa andava incontro,” disse Benjamin con un gran sorriso.
“Solo un idiota prende una pistola per una roba del genere,” rispose
Shawn.
“Non volevo usarla,” borbottò Benjamin.
“Allora non prenderla,” disse Shawn. “Almeno sai che non la userai. Se
la prendi potresti usarla, è così che vanno le cose. Una rissa può
trasformarsi in una sparatoria molto in fretta.”
Shawn parlava con calma, ponderatamente. I suoi capelli biondi erano
sporchi e disordinati, la faccia coperta da un velo di barba color scisto. Gli
occhi brillavano sotto il lubrificante e lo sporco, due fiamme azzure avvolte
da nubi di cenere. La sua espressione, come le sue parole, sembravano
appartenere a un uomo molto più adulto, un uomo che aveva perso la sua
irruenza, che era in pace.
Shawn si voltò verso di me. Avevo cercato di evitarlo ma all’improvviso
mi sembrava una cosa ingiusta. Era cambiato e sarebbe stato crudele far
finta di non vederlo. Mi chiese se mi andava di fare un giro in macchina, e
accettai. Shawn voleva un gelato, così prendemmo due milkshake. La
conversazione era calma e disinvolta come lo era stata anni prima in quelle
sere buie dentro il recinto dei cavalli. Mi raccontò di come gestiva la
squadra di lavoro senza il papà, dei polmoni delicati di Peter – delle
operazioni chirurgiche e delle cannule per l’ossigeno che portava ancora di
notte.
Eravamo quasi a casa, a poco più di un chilometro e mezzo da Buck
Peak, quando Shawn girò il volante e la macchina sbandò sul ghiaccio.
Accelerò, gli pneumatici aderirono all’asfalto e la macchina imboccò una
stradina secondaria.
“Dove andiamo?” chiesi, ma quella strada portava solo in un posto.
La chiesa era buia, il parcheggio deserto.
Shawn fece il giro dello spiazzo e parcheggiò vicino all’ingresso
principale. Girò la chiave nel cruscotto e i fari si spensero. Riuscivo a
malapena a distinguere il suo profilo nel buio.
“Parli tanto con Audrey?” disse.
“Non proprio,” risposi.
Sembrò rilassarsi, poi disse: “Audrey è una bugiarda di merda”.
Guardai altrove, concentrandomi sulla guglia della chiesa, visibile alla
luce delle stelle.
“Le pianterei un proiettile in testa,” disse Shawn, e sentii il suo corpo
spostarsi verso di me. “Ma non voglio sprecare un proiettile per una brutta
puttana.”
Era fondamentale non guardarlo. Credevo quasi che, finché avrei tenuto
gli occhi sulla guglia, non mi avrebbe toccato. Quasi. Perché anche mentre
mi aggrappavo a questo pensiero, mi aspettavo di sentire le sue mani sul
collo. Sapevo che le avrei sentite, e presto, ma non osavo far nulla che
potesse spezzare l’incantesimo dell’attesa. In quel momento una parte di me
credeva, come avevo sempre creduto, che sarei stata io a rompere
l’incantesimo, che sarei stata io la causa. Quando la quiete sarebbe andata
in frantumi e la furia di mio fratello mi avrebbe aggredito, avrei saputo che
il catalizzatore, la causa, era qualcosa che avevo fatto io. C’è una speranza
in questa superstizione; c’è l’illusione del controllo.
Rimasi immobile, senza pensare né muovermi.
L’accensione scattò, il motore partì brontolando. Dalle bocchette uscì
l’aria calda.
“Ti va di vedere un film?” disse Shawn. La sua voce era tranquilla.
Guardai il mondo ruotare mentre la macchina girava su se stessa e tornava
sbandando verso la statale. “Mi sembra una bella idea,” disse.
Non dissi nulla. Non volevo muovermi o parlare per non violare lo strano
prodigio della fisica che ancora credevo mi avesse salvato. Shawn sembrò
non accorgersi del mio silenzio. Percorse l’ultimo tratto di strada verso
Buck Peak chiacchierando allegramente, quasi scherzosamente, sul fatto se
vedere o meno L’uomo che sapeva troppo poco.
9
È così che ricordo la cicatrice che Luke si era fatto col Trinciante. Ma poteva anche essersela
fatta in altro modo, mentre costruiva i tetti.
34.
Lo spessore delle cose

Non mi sentivo particolarmente coraggiosa quando andai da mio padre


nella Cappella, quella sera. Ero in ricognizione, era quello il mio ruolo:
dovevo solo riferire delle informazioni, dire al papà che Shawn aveva
minacciato Audrey. Il papà avrebbe saputo cosa fare.
O forse ero calma perché in realtà non ero là. Forse ero dall’altra parte
dell’oceano, in un altro continente, a leggere Hume sotto un arco di pietra.
Forse stavo correndo per il King’s College con il Discorso sulla
diseguaglianza infilato sotto un braccio.
“Papà, devo dirti una cosa.”
Dissi che Shawn aveva minacciato di sparare a Audrey e che secondo me
era perché Audrey l’aveva messo di fronte al suo comportamento. Il papà
mi fissò e la pelle dove un tempo c’erano state le sue labbra si tese. Chiamò
la mamma e lei arrivò. Sembrava di malumore; non capivo perché non mi
guardasse in faccia.
“Cosa stai dicendo di preciso?” disse il papà.
Da quel momento in poi fu un interrogatorio. Ogni volta che accennavo al
fatto che Shawn era violento o manipolatorio in qualche modo, il papà
gridava: “Come fai a dirlo? Hai delle prove?”.
“Ho i miei diari,” dissi.
“Prendili. Li voglio leggere.”
“Non ce li ho qui con me.” Era una bugia, erano sotto il mio letto.
“Cosa diavolo devo pensare se non hai delle prove?” Il papà non la
smetteva di gridare. La mamma era seduta sul bordo del divano, la bocca
aperta in una smorfia. Sembrava in agonia.
“Non servono prove,” dissi con calma. “L’hai visto. L’avete visto tutti e
due.”
Il papà disse che volevo veder marcire Shawn in prigione, che ero tornata
da Cambridge solo per scatenare un putiferio. Dissi che non volevo che
Shawn andasse in progione, ma che bisognava intervenire in qualche modo.
Guardai la mamma in attesa che mi desse man forte, ma rimase zitta.
Fissava il pavimento come se io e il papà non esistessimo.
Ci fu un momento in cui mi resi conto che non avrebbe parlato, che
sarebbe rimasta là seduta senza dire nulla, che ero sola. Cercai di calmare il
papà ma mi tremò la voce, si spezzò. Cominciai a piangere e i singhiozzi
eruppero dal profondo, da una parte di me che non sentivo da anni, di cui
mi ero dimenticata. Mi veniva da vomitare.
Corsi in bagno. Tremavo dalla testa ai piedi.
Dovevo soffocare in fretta i singhiozzi – il papà non mi avrebbe mai
preso sul serio altrimenti –, così usai i vecchi metodi: mi guardai allo
specchio e mi rimproverai per ogni lacrima. Era un processo così famigliare
che, nel farlo, mandai in frantumi l’illusione che avevo costruito con cura
per tutto un anno. Il finto passato, il finto futuro scomparvero.
Guardai l’immagine riflessa. Lo specchio era ipnotico, coi suoi triplici
pannelli bordati di falso legno di quercia. Era lo stesso specchio in cui mi
ero guardata da bambina, poi da ragazza, poi da giovane, metà donna e
metà ragazza. Alle mie spalle c’era lo stesso water dove Shawn mi aveva
infilato la testa, tenendomi giù finché non avevo ammesso di essere una
puttana.
Mi ero chiusa spesso in quel bagno dopo gli episodi con Shawn. Allora
spostavo i pannelli perché restituissero tre immagini del mio volto e le
guardavo tutte, riflettendo su quello che aveva detto Shawn e su quello che
mi aveva fatto dire, finché cominciava a sembrare tutto vero e non qualcosa
che avevo detto solo per fermare il dolore. E adesso ero ancora qua, davanti
a quello specchio. La stessa faccia, triplicata dagli stessi pannelli.
Ma non era la stessa faccia. Era la faccia di una persona più adulta, che
spuntava da un soffice maglione di cashmere. Ma il professor Kerry aveva
ragione: non erano i vestiti a fare la differenza. Era qualcosa dentro quegli
occhi, qualcosa nell’assetto della mascella – una speranza, un credo o una
convinzione – che la vita non era qualcosa di immutabile. Non so spiegare a
parole cosa vidi, ma credo fosse qualcosa di simile alla fede.
Avevo riacquistato una certa calma e uscii dal bagno portando quella
sensazione con delicatezza, come se fosse un piatto di porcellana in bilico
sulla mia testa. Percorsi lentamente il corridoio con passi piccoli e regolari.
“Io vado a letto,” dissi quando fui arrivata nella Cappella. “Ne parliamo
domani.”
Il papà era alla sua scrivania. Aveva un telefono nella mano sinistra. “No.
Ne parliamo adesso,” rispose. “Ho detto tutto a Shawn. Sta venendo qui.”
Pensai di scappare. Sarei riuscita a salire in macchina prima che arrivasse
Shawn? Dov’erano le mie chiavi? Mi serve il portatile, pensai, con la mia
ricerca. Lascia perdere, disse la bambina nello specchio.
Il papà mi disse di sedermi e lo feci. Non so quanto aspettai, paralizzata
dall’indecisione, ma mi stavo ancora chiedendo se scappare quando le
portefinestre si aprirono ed entrò Shawn. All’improvviso quella grande
stanza mi sembrò minuscola. Mi guardai le mani. Non riuscivo ad alzare gli
occhi.
Sentii dei passi. Shawn aveva attraversato la stanza e si era seduto
accanto a me sul divano. Aspettava che lo guardassi e, vedendo che non lo
facevo, allungò un braccio e mi prese la mano. Delicatamente, come se
stesse schiudendo i petali di una rosa, mi aprì le dita e ci mise dentro
qualcosa. Sentii il freddo della lama prima ancora di vederla e percepii il
sangue prima di vedere la striscia rossa che mi tingeva il palmo.
Era un coltello piccolo, lungo solo dieci o quindici centimetri, e molto
stretto. La lama scintillava di un rosso cremisi. Sfregai il pollice contro
l’indice, li avvicinai al naso e annusai. Un odore metallico. Era sangue, non
c’era dubbio. Non il mio – mi aveva solo dato il coltello –, ma di chi allora?
“Se hai un po’ di cervello, Morennina,” disse Shawn, “userai questo
coltello contro di te. Perché sarà meglio di quello che altrimenti ti farò io.”
“Non esageriamo,” disse la mamma.
La guardai a bocca aperta, poi guardai Shawn. Dovevo sembrare
un’idiota, ma non capivo cosa stava succedendo e non sapevo come reagire.
Pensai quasi di tornare in bagno, di entrare dentro lo specchio e far uscire
l’altra ragazza, quella di sedici anni. Lei saprebbe cosa fare, pensai. Non
avrebbe paura come me. Non soffrirebbe come me. Era fatta di pietra, senza
la tenerezza della carne. Non capivo ancora che era il fatto di essere tenera
– di aver vissuto per alcuni anni una vita che ammetteva la tenerezza – che
alla fine mi avrebbe salvato.
Fissai la lama. Il papà attaccò con una delle sue prediche, fermandosi
spesso perché la mamma confermasse le sue osservazioni. Sentii delle voci,
tra cui la mia, che intonavano dei canti in una sala antica. Sentii delle risate,
il gorgoglio del vino versato da una bottiglia, il tintinnio dei coltelli da
burro contro la porcellana. Sentii poco del discorso di mio padre, ma
ricordo esattamente, come se fosse ora, la sensazione di essere trasportata
dall’altra parte dell’oceano e a tre giorni prima, alla sera in cui avevo
cantato nel coro insieme ai miei amici. Devo essermi addormentata, pensai.
Troppo vino. Troppo cappone di Natale.
Avendo deciso che stavo sognando, feci quello che si fa normalmente nei
sogni: cercai di capire e di usare le regole di quella realtà bizzarra. Ragionai
con le strane ombre che impersonavano la mia famiglia e, quand’era
impossibile farlo, mentivo. Gli impostori avevano distorto la realtà. Adesso
toccava a me. Dissi a Shawn che non avevo detto niente al papà. Dissi cose
come “non so come il papà si sia fatto quell’idea” e “deve aver capito male”
sperando che, se negavo la loro percettività, quelle ombre si sarebbero
semplicemente dissolte. Un’ora dopo, quand’eravamo ancora seduti tutti e
quattro sui divani, dovetti rassegnarmi alla loro persistenza fisica. Erano
reali, e lo ero anch’io.
Il sangue sulle mie mani si era seccato. Il coltello era sulla moquette,
dimenticato da tutti tranne che da me. Cercai di non guardarlo. Di chi era
quel sangue? Guardai mio fratello. Non si era tagliato.
Il papà aveva cominciato una nuova predica e questa volta ero
sufficientemente presente da sentirla. Spiegò che le bambine devono essere
istruite sul comportamento da tenere con gli uomini per non risultare troppo
provocanti. Aveva notato certe abitudini sconvenienti nelle figlie di mia
sorella, la maggiore delle quali aveva sei anni. Shawn sembrava calmo. Era
sfiancato dall’interminabile blaterare del papà. Non solo, si sentiva protetto,
giustificato, tanto che quando la predica finalmente terminò mi disse: “Non
so cos’hai detto al papà stasera, ma mi basta guardarti per capire che ti ho
fatto soffrire. E mi dispiace”.
Ci abbracciammo. Ridemmo come facevamo sempre dopo un litigio. Gli
sorrisi come avevo sempre fatto, come avrebbe fatto lei. Ma lei non c’era, e
il mio sorriso era finto.
Andai in camera mia e chiusi la porta facendo scattare silenziosamente il
chiavistello, poi chiamai Drew. Dissi delle cose sconnesse per via del
panico, ma alla fine capì. Disse che dovevo andarmene subito e che mi
sarebbe venuto incontro a metà strada. Non posso, dissi. Le cose si sono
calmate. Se provo a scappare nel cuore della notte non so cosa succederà.
Andai a letto ma non per dormire. Aspettai fino alle sei di mattina, poi
trovai la mamma in cucina. Mi ero fatta prestare la macchina da Drew, così
le dissi che c’era stato un imprevisto e che Drew aveva bisogno della
macchina a Salt Lake City. Dissi che sarei stata via solo uno o due giorni.
Alcuni minuti dopo stavo scendendo dalla collina. Vedevo già la statale
poco più in basso, quando notai una cosa e mi fermai. Era la casa mobile
dove Shawn viveva insieme a Emily e Peter. Pochi metri davanti, vicino
alla porta, la neve era macchiata di sangue. Era morto qualcuno.
In seguito avrei saputo dalla mamma che si trattava di Diego, un pastore
tedesco che Shawn aveva comprato alcuni anni prima. Il cane faceva parte
della famiglia, Peter stravedeva per lui. Dopo la telefonata del papà, quella
sera, Shawn era uscito e aveva sgozzato il cane mentre suo figlio, a pochi
metri di distanza, sentiva le grida dell’animale. La mamma disse che non
c’entravo io, che l’aveva fatto perché Diego continuava ad ammazzare i
polli di Luke. Era una coincidenza, disse.
Volevo crederle ma non ci riuscii. Era da più di un anno che Diego
ammazzava i polli di Luke. Ma Diego era un cane di razza, Shawn l’aveva
pagato cinquecento dollari. Poteva rivenderlo.
Ma il vero motivo per cui non le credevo era il coltello. Avevo visto mio
padre e i miei fratelli abbattere decine di cani nel corso degli anni, perlopiù
randagi che non volevano stare alla larga dal pollaio. Non avevo mai visto
nessuno uccidere un cane con un coltello. Di solito gli sparavamo in testa o
al cuore per fare veloce. Ma Shawn aveva scelto un coltello, e un coltello
con una lama lunga a malapena quanto il suo pollice. Era un coltello fatto
apposta per assaporare il massacro, per sentire il sangue che ti scendeva
lungo la mano nel momento in cui il cuore smetteva di battere. Non era un
coltello da contadino e nemmeno da macellaio. Era un coltello da rabbia.
Non so cosa successe nei giorni seguenti. Anche adesso, se analizzo i
termini del confronto – la minaccia, la smentita, la predica, le scuse – faccio
fatica a collegarli. Quando ci riflettei alcune settimane dopo, mi sembrò di
aver commesso mille errori, di aver pugnalato al cuore la mia famiglia più e
più volte. Solo più avanti mi resi conto che forse non ero l’unica
responsabile del disastro di quella sera. E ci misi più di un anno a capire
quello che avrebbe dovuto essere lampante, ovvero che mia madre non
aveva mai parlato seriamente con mio padre, e mio padre non aveva mai
parlato con Shawn. Il papà non aveva mai promesso di aiutare me e Audrey.
La mamma aveva mentito.
Adesso, se ripenso alle parole di mia madre quand’erano comparse
magicamente sullo schermo, un dettaglio spicca su tutti: mia mamma aveva
descritto mio padre come bipolare. Era proprio il disturbo a cui pensavo io.
Era una parola mia, non sua. Allora mi chiedo se forse mia madre, che
aveva sempre rispecchiato la volontà di mio padre, quella sera non stesse
semplicemente rispecchiando la mia.
No, mi dico. Erano parole sue. Ma sue o non sue, quelle parole che mi
avevano tanto confortato e curato erano vuote. Non credo che fossero false,
ma la sincerità non riuscì a dar loro spessore e furono spazzate via da altre
correnti più forti.
35.
A ovest del sole

Scappai dalla montagna con le valigie semivuote e non tornai mai a


recuperare le cose che avevo lasciato là. Andai a Salt Lake City e passai il
resto delle vacanze insieme a Drew.
Cercai di dimenticare quella sera. Per la prima volta dopo quindici anni,
chiusi il mio diario e lo misi via. Tenere un diario è un atto riflessivo, e non
volevo riflettere su niente.
Dopo Capodanno tornai a Cambridge, ma mi isolai dai miei amici. Avevo
visto la terra tremare, avevo sentito la scossa preliminare: adesso aspettavo
l’evento sismico che avrebbe trasformato il paesaggio. Sapevo come
sarebbe cominciato. Shawn avrebbe ripensato a quel che gli aveva detto il
papà al telefono e presto o tardi avrebbe capito che la mia smentita –
quando dicevo che il papà mi aveva frainteso – era una menzogna. Quando
avrebbe capito la verità, si sarebbe disprezzato per forse un’ora. Poi avrebbe
riversato il suo disprezzo su di me.
Era inizio marzo quando successe. Shawn mi mandò un’email. Non
conteneva nessun saluto, nessun messaggio. Solo un capitolo della Bibbia
di Matteo, con un verso evidenziato in grassetto: O generazione di vipere,
come potete dire cose buone, voi che siete cattivi? Mi si gelò il sangue nelle
vene.
Shawn chiamò un’ora dopo. Aveva un tono tranquillo e per una ventina di
minuti parlammo di Peter, delle condizioni dei suoi polmoni. Poi disse:
“Devo prendere una decisione e vorrei il tuo parere”.
“Certo.”
“Non riesco a decidere,” cominciò. Fece una pausa e pensai che fosse
caduta la linea. “Se devo ucciderti con le mie mani o pagare un sicario.” Ci
fu un silenzio disturbato solo dalle interferenze. “Forse mi conviene pagare
qualuno, considerato il costo del volo.”
Finsi di non aver capito ma questo lo rese solo più aggressivo. Cominciò
a lanciare insulti, a sbraitare. Cercai di calmarlo ma fu inutile. Eravamo alla
resa dei conti. Riagganciai ma mi chiamò di nuovo, più e più volte,
ripetendo sempre le stesse frasi, che dovevo guardarmi alle spalle, che un
sicario sarebbe venuto a cercarmi. Chiamai i miei genitori.
“Non fa sul serio,” disse la mamma. “E comunque non ha tutti quei
soldi.”
“Non è questo il punto,” risposi.
Il papà voleva delle prove. “Non hai registrato la telefonata?” disse.
“Come faccio a sapere se fa sul serio?”
“Sembrava serio quando mi ha minacciato col coltello insanguinato,”
dissi.
“Be’, allora mica diceva sul serio.”
“Non è questo il punto,” ripetei.
Alla fine le telefonate cessarono, ma non per merito dei miei genitori.
Cessarono quando Shawn decise di escludermi dalla sua vita. Mi scrisse
dicendomi di stare lontana da sua moglie e da suo figlio, e di stare alla larga
da lui. L’email era lunga, un migliaio di parole piene di accuse e di rabbia,
ma verso la fine aveva un tono dispiaciuto. Shawn diceva di amare i suoi
fratelli e che erano le persone migliori che conosceva. Tu eri la mia
preferita, scriveva, ma mi hai sempre pugnalato alle spalle.
Erano anni che non avevo più rapporti con mio fratello ma quell’addio,
anche se me l’aspettavo da mesi, fu un duro colpo.
I miei genitori dissero che aveva i suoi motivi per tagliare i ponti con me.
Il papà disse che ero isterica, che avevo esagerato con le accuse e che
chiaramente non ci si poteva fidare dei miei ricordi. La mamma disse che la
mia rabbia era minacciosa e che Shawn aveva il diritto di proteggere la sua
famiglia. “La tua rabbia quella sera,” mi disse al telefono, riferendosi alla
sera in cui Shawn aveva ucciso Diego, “era pericolosa il doppio di quella di
Shawn.”
La realtà divenne fluida. Mi mancava la terra sotto i piedi e mi sembrava
di precipitare vorticosamente, come sabbia che fuoriesce da un buco sul
fondo dell’universo. La volta dopo, al telefono, la mamma disse che il
coltello non voleva essere una minaccia. “Shawn voleva solo farti sentire a
tuo agio,” disse. “Sapeva che ti saresti spaventata se teneva in mano lui il
coltello, così te l’ha dato.” Una settimana dopo negò che ci fosse mai stato
un coltello.
“Quando parlo con te,” disse, “la tua realtà è così distorta. È come parlare
con qualcuno che non c’era nemmeno.”
Le diedi ragione. Era proprio così.
Quell’estate vinsi una borsa di studio per Parigi. Drew venne con me. Il
nostro appartamento si trovava nel sesto arrodissement, vicino ai Giardini
del Lussemburgo. La mia vita era nuova di zecca e feci tutto il possibile per
renderla simile a un cliché. Mi attraevano le zone più turistiche della città,
dove potevo mescolarmi tra la gente. Era un modo febbrile per dimenticare
e mi ci dedicai per tutta l’estate, perdendomi tra frotte di viaggiatori,
spogliandomi di ogni carattere e personalità, di ogni passato. Più
l’attrazione turistica era pacchiana, più mi attraeva.
Ero a Parigi da diverse settimane quando un pomeriggio, tornando da una
lezione di francese, mi fermai in un caffè a controllare le email. C’era un
messaggio di mia sorella.
Mio padre era andato a trovarla – questo lo capii subito –, ma dovetti
leggere il messaggio più volte per capire cos’era successo esattamente. Il
papà le aveva assicurato che Shawn era stato purificato dall’Espiazione di
Cristo, che era un uomo nuovo. Poi aveva avvertito Audrey che se
rivangava di nuovo il passato, l’intera famiglia sarebbe andata distrutta.
Disse che Dio voleva che io e Audrey perdonassimo Shawn. Non farlo
sarebbe stato un peccato gravissimo.
Non fu difficile immaginare l’incontro, la solennità di mio padre seduto
di fronte a mia sorella, l’intensità e la devozione della sue parole.
Audrey rispose che aveva accettato il potere dell’Espiazione già da tempo
e che aveva perdonato suo fratello. Disse che ero stata io a provocarla, a
scatenare la sua rabbia. Che l’avevo tradita perché avevo ceduto alla paura,
al regno di Satana, anziché camminare nella fede insieme a Dio. Disse che
ero pericolosa perché ero soggiogata da quella paura e dal Padre della
Paura, Lucifero.
Mia sorella concludeva la sua lettera dicendo che non ero più la
benvenuta a casa sua e che non dovevo più telefonarle a meno che non ci
fosse qualcun altro in linea, per evitare di cadere sotto la mia influenza.
Scoppiai a ridere quando lessi quelle parole. La situazione era assurda ma
non priva di ironia: alcuni mesi prima Audrey aveva detto che bisognava
tenere d’occhio Shawn quand’era insieme ai bambini. Adesso, dopo tutti i
nostri sforzi, quella che doveva essere controllata ero io.
Quando persi mia sorella, persi la mia famiglia.
Sapevo che mio padre sarebbe andato a parlare anche con i miei fratelli.
Gli avrebbero creduto? Probabilmente sì. In fondo Audrey avrebbe
confermato ogni cosa. Non potevo ribattere; i miei sarebbero stati gli
sproloqui di un’estranea. Mi ero allontanata troppo dalla famiglia, ero
troppo diversa, non avevo quasi più nulla della ragazzina con le ginocchia
sbucciate che ricordavano loro.
Non potevo sperare di cambiare la storia che mio padre e mia sorella
stavano imbastendo per me. La loro versione dei fatti avrebbe conquistato
prima i miei fratelli, poi si sarebbe propagata alle mie zie, zii, cugini,
all’intera valle. Avevo perso un’intera parentela, e per cosa?
Era questo il mio stato d’animo quando ricevetti un’altra lettera. Avevo
vinto una borsa di studio ad Harvard. Non credo di avere mai accolto una
notizia con più indifferenza. Capivo che avrei dovuto essere al settimo cielo
sapendo che mi avevano preso – io, una ragazza ignorante, strisciata fuori
da un mucchio di rottami. Ma non ci riuscivo. Avevo cominciato a capire
quanto poteva costarmi la mia educazione, e avevo cominciato a odiarla.
Dopo aver letto la lettera di Audrey, il passato si trasformò. Per prima
cosa cambiarono i ricordi che avevo di lei. Quando ripensavo alla nostra
infanzia, ai momenti di tenerezza e allegria, a quand’eravamo due bimbette
che giocavano insieme, il ricordo si modificava subito, si macchiava, si
guastava. Il passato diventava orribile come il presente.
Il cambiamento si ripeté con ogni altro membro della mia famiglia. I
ricordi che avevo di loro diventarono sinistri, accusatori. La bambina che li
abitava, e che ero un tempo, smise di essere una bambina e diventò
qualcos’altro, qualcosa di minaccioso e crudele, qualcosa che voleva
distruggerli.
Questa bambina mostruosa mi perseguitò per un mese prima che riuscissi
a scacciarla. E ci riuscii così: dicendomi che probabilmente ero pazza. Se
ero pazza tutto aveva un senso. Se ero sana di mente, niente l’aveva. Era
una logica incriminante ma al tempo stesso confortante. Non ero cattiva:
ero malata.
Cominciai a dipendere sempre più dal giudizio degli altri. Se Drew si
ricordava una cosa in maniera diversa da me, gli davo subito ragione.
Cominciai ad affidarmi a lui per i piccoli fatti della nostra vita. Godevo nel
mettere in dubbio che avessimo visto un amico la settimana prima piuttosto
che quella prima ancora, o che la nosta crêperie preferita si trovasse vicino
alla biblioteca o al mueso. Mettere in discussione queste piccolezze, e la
mia capacità di padroneggiarle, mi permetteva di mettere in dubbio che
ogni cosa che ricordavo fosse mai successa.
I miei diari erano un problema. Sapevo che i miei ricordi non erano solo
dei ricordi, che li avevo annotati, che esistevano nero su bianco. Questo
significava che non era solo la mia memoria a sbagliare. L’illusione era
radicata più nel profondo, nel centro stesso della mia mente, che
s’inventava le cose nel momento stesso in cui accadevano e poi annotava
quelle invenzioni.
Trascorsi il mese seguente vivendo come una malata di mente. Vedevo il
sole e pensavo che piovesse. Avevo il desiderio continuo di chiedere alla
gente di confermare che quel che vedevano loro era quel che vedevo
anch’io. Questo libro è blu? volevo chiedere. Quell’uomo è alto?
Certe volte questo scetticismo prendeva la forma di una certezza assoluta:
c’erano dei giorni in cui più dubitavo della mia salute mentale, più
difendevo strenuamente i miei ricordi, la mia “verità” come se fosse l’unica
verità possibile. Shawn era violento, pericoloso, e mio padre lo difendeva.
Non volevo sentire nessun’altra opinione al proposito.
In quei momenti cercavo disperatamente un motivo per considerarmi sana
di mente. Delle prove. Ne avevo bisogno come l’aria. Scrissi a Erin – la
donna che Shawn aveva frequentato prima e dopo Sadie, e che non vedevo
da quando avevo sedici anni. Le dissi quello che ricordavo e le chiesi, senza
mezzi termini, se ero pazza. Mi rispose subito che non lo ero. Per aiutarmi a
fidarmi di me stessa, mi parlò dei suoi ricordi – di quando Shawn le gridava
che era una puttana. La mia mente rimase impigliata a quella parola. Non le
avevo detto che era la mia parola.
Erin mi raccontò anche un’altra storia. Una volta aveva risposto male a
Shawn – solo un po’, disse, come temendo che la giudicassi – e lui l’aveva
trascinata fuori da casa sua e le aveva sbattuto la testa contro un muro così
forte che sembrava volesse ucciderla. Le aveva stretto le mani alla gola. Mi
è andata bene, scrisse. Ho gridato prima che cominciasse a strozzarmi, e
mio nonno ha sentito e l’ha fermato appena in tempo. Ma so cosa ho visto
nei suoi occhi.
La sua lettera era come un corrimano fissato alla realtà, un appiglio a cui
potevo aggrapparmi quando andavo in tilt. Questo, finché non cominciai a
pensare che forse Erin era pazza come me. È traumatizzata, mi dissi. Come
potevo fidarmi delle sue parole dopo quello che aveva passato? Non potevo
credere a questa donna perché io, più di chiunque altro, conoscevo i danni
provocati dalle sue ferite psicologiche. Dovevo cercare testimonianze
altrove.
Ne avrei trovata una quattro anni dopo, e per puro caso.
Mentre ero nello Utah a fare certe ricerche, avevo conosciuto un ragazzo
a cui il mio cognome aveva fatto accapponare la pelle.
“Westover,” avrebbe detto, adombrandosi. “Sei per caso parente di
Shawn?”
“È mio fratello.”
“Be’, l’ultima volta che ho visto tuo fratello,” avrebbe detto, enfatizzando
l’ultima parola come se volesse sputarci sopra, “teneva mia cugina per il
collo e le sbatteva la testa contro il muro. L’avrebbe ammazzata, se non
fosse stato per mio nonno.”
Ed eccolo là. Un testimone. Un ricordo imparziale. Ma quando lo trovai,
ormai non ne avevo più bisogno. La febbre dell’insicurezza era passata da
tempo. Questo non significa che mi fidassi ciecamente dei miei ricordi, ma
che mi fidavo nella misura in cui mi fidavo di quelli degli altri. E di sicuro
più di quelli di alcune persone.
Ma questo sarebbe successo anni dopo.
36.
Mulini a vento

Era un assolato pomeriggio di settembre quando trascinai la mia valigia


per Harvard Yard. L’architettura coloniale aveva un’aria poco famigliare ma
anche allegra e alla mano rispetto alle guglie gotiche di Cambridge. La
biblioteca centrale, chiamata Widener, era la più grande che avessi mai
visto, e per alcuni minuti dimenticai gli eventi di quell’anno e rimasi là a
guardarla imbambolata.
La mia stanza si trovava nei dormitori vicino alla facoltà di Legge. Era
piccola e cavernosa – buia, umida, fredda, con pareti grigio cenere e
piastrelle gelide color piombo. Cercavo di starci il meno possibile.
L’università sembrava offrirmi un nuovo inizio e volevo accettarlo. Mi
iscrissi a tutti i corsi che riuscii a mettere nel mio piano di studi, da
idealismo tedesco a storia del secolarismo, a etica e diritto. Presi parte a un
gruppo di studio settimanale di lingua francese e a un altro per imparare a
lavorare a maglia. La scuola di specializzazione offriva un corso gratuito di
disegno a carboncino. Non avevo mai disegnato in vita mia ma mi iscrissi
anche a quello.
Cominciai a studiare – Hume, Rousseau, Smith Godwin, Wollstonecraft e
Mill. Mi persi nel mondo in cui avevano vissuto queste persone, nei
problemi che avevano cercato di risolvere. Mi appassionai alle loro idee
sulla famiglia – su come una persona doveva considerare i doveri famigliari
rispetto ai doveri nei confronti dell’intera società. Poi cominciai a scrivere,
intrecciando aspetti che avevo trovato nella Ricerca sui principi della
morale di Hume con frammenti dalla Servitù delle donne di Mill. Era un bel
lavoro, me ne rendevo conto anche mentre lo scrivevo, e quando finii lo
misi da parte. Era il primo capitolo della mia tesi di dottorato.
Un sabato mattina tornai dalla mia lezione di disegno e trovai un’email di
mia madre. Veniamo ad Harvard, diceva. Lessi quella frase almeno tre
volte, sicura che stesse scherzando. Mio padre non viaggiava – non mi
risultava che fosse mai andato da nessuna parte tranne che in Arizona, da
sua madre – quindi l’idea che volasse dall’altra parte del paese per andare a
trovare una figlia che credeva posseduta dal demonio mi sembrava ridicola.
Poi capii: voleva venire a salvarmi. La mamma disse che avevano già
prenotato il volo e che avrebbero dormito nella mia stanza.
“Volete un albergo?” chiesi. Non lo volevano.
Alcuni giorni dopo aprii una vecchia chat che non usavo da anni. Sentii
uno scampanellio e un nome passò da grigio a verde. Charles è online,
lessi. Non so bene chi dei due cominciò a chattare o chi a un certo punto
propose di continuare al telefono. Parlammo per un’ora e fu come se non
fosse passato un minuto dall’ultima volta che ci eravamo visti.
Mi chiese dove stavo studiando. Quando risposi, disse: “Harvard! Santo
cielo!”.
“Già. Chi l’avrebbe detto?”
“Io!” disse, ed era vero. Charles aveva sempre visto quel futuro per me,
molto prima che ci fosse motivo di pensarlo.
Gli chiesi cos’aveva fatto dopo il college e ci fu un silenzio nervoso. “Le
cose non sono andate come avrei voluto,” disse. Non si era mai laureato.
Aveva abbandonato gli studi al secondo anno, dopo la nascita di suo figlio,
perché sua moglie si era ammalata e c’erano un mucchio di spese mediche
da pagare. Aveva accettato di lavorare negli impianti petroliferi nel
Wyoming. “Dovevano essere pochi mesi,” disse. “Ma è già passato un
anno.”
Gli raccontai di Shawn, di come l’avevo perso, di come stavo perdendo
anche il resto della mia famiglia. Ascoltò in silenzio, poi fece un lungo
sospiro e disse: “Non hai mai pensato che forse dovresti lasciarli andare e
basta?”.
No, non ci avevo mai pensato. Nemmeno una volta. “Non è definitivo,”
dissi. “Posso trovare un modo.”
“È buffo come sei cambiata,” disse Charles, “ma in fondo sembri la stessa
di quando avevamo diciassette anni.”
I miei genitori arrivarono quando le foglie cominciavano a cambiare
colore. Il campus era al massimo della sua bellezza e i rossi e i gialli
dell’autunno si mescolavano al bordeaux dei mattoni coloniali. Con la sua
parlata da bovaro, la camicia di jeans e il berretto della National Rifle
Association, il papà sarebbe sempre stato fuori luogo ad Harvard, ma le sue
cicatrici potenziavano l’effetto. L’avevo visto più volte dopo l’esplosione,
ma fu solo quando venne ad Harvard, nella mia nuova vita, che mi resi
conto di quant’era sfigurato. Lo notai attraverso gli occhi degli altri –
sconosciuti che cambiavano espressione quando lo vedevano passare per
strada e si giravano a lanciare una seconda occhiata. Allora lo guardavo
anch’io e notavo la pelle del mento tesa e plastica, le labbra prive di
naturale rotondità, le guance scavate in un’angolatura quasi scheletrica. La
sua mano destra, che alzava spesso per indicare questo o quello, era nodosa
e ritorta, e quando la guardavo, con le guglie e le colonne antidiluviane di
Harvard sullo sfondo, mi sembrava l’artiglio di una creatura mitologica.
Al papà non interessava molto l’università, così lo portai in città. Gli
insegnai a prendere la metropolitana – a infilare il biglietto nella fessura e a
superare il tornello. Rise di gusto, come se fosse una tecnologia favolosa.
Un senzatetto passò per la nostra carrozza chiedendo un dollaro. Il papà gli
diede una banconota da cinquanta nuova di zecca.
“Se continui così a Boston, resterai al verde,” dissi.
“Non credo,” rispose il papà facendomi l’occhiolino. “Gli affari vanno a
gonfie vele. Abbiamo più di quel che riusciamo a spendere!”
Dato che era di salute cagionevole, mio padre dormì nel mio letto. Alla
mamma diedi un materasso ad aria che avevo comprato. Io dormii per terra.
Entrambi i miei genitori russavano forte e non chiusi occhio per tutta la
notte. Quando finalmente spuntò il sole rimasi sul pavimento con gli occhi
chiusi, a fare dei respiri lenti e profondi mentre i miei genitori rovistavano
nel minifrigo e parlavano di me sottovoce.
“Il Signore mi ha chiamato a testimoniare,” diceva il papà. “Può essere
ancora condotta al Signore.”
Mentre loro pensavano a come riconvertirmi, io pensavo a come
lasciarglielo fare. Ero pronta ad arrendermi, anche se significava fare un
esorcismo. Ci voleva un miracolo: se riuscivo a inscenare una “rinascita”
credibile potevo prendere le distanze da tutto quello che avevo detto e fatto
nell’anno passato. Potevo cancellare ogni cosa – dare la colpa a Lucifero e
fare tabula rasa. Mi avrebbero accolto come un figliol prodigo. Mi
avrebbero amato. Non dovevo fare altro che sostituire i miei ricordi con i
loro e avrei riavuto la mia famiglia.
Mio padre voleva visitare il Bosco Sacro di Palmyra, nello Stato di New
York – il bosco dove, secondo Joseph Smith, Dio era apparso e gli aveva
ordinato di fondare la vera chiesa. Noleggiammo una macchina e sei ore
dopo arrivammo a Palmyra. Nei pressi del bosco, poco lontano dalla statale,
c’era un tempio luccicante con sopra una statua dorata dell’angelo Moroni.
Il papà accostò e mi disse di andare al tempio. “Toccalo,” disse. “La sua
forza ti purificherà.”
Gli studiai il volto. Aveva un’espressione tesa, seria, disperata. Con tutto
quello che si portava dentro, voleva che toccassi il tempio e fossi salvata.
Io e mio padre guardammo il tempio. Lui vedeva Dio, io vedevo granito.
Ci guardammo. Lui vedeva una donna dannata, io un vecchio demente,
letteralmente sfigurato dalle sue convinzioni. Eppure trionfante. Mi vennero
in mente le parole di Sancho Panza: Un cavaliere errante è qualcuno che un
momento è bastonato e quello dopo è imperatore.
Se ripenso a quel momento l’immagine si fa sfocata e si trasforma in
quella di un fervido cavaliere in sella a un destriero che si lancia in una
battaglia immaginaria, cercando di colpire ombre e di fendere l’aria. I suoi
occhi ardenti e determinati lanciano scintille che bruciano quel che toccano.
Mia madre mi rivolge uno sguardo spento, incredulo, ma quando lui la
guarda diventano unanimi, e allora combattono insieme contro i mulini a
vento.
Attraversai il campo e appoggiai un palmo sulla pietra del tempio. Chiusi
gli occhi e cercai di convincermi che quel semplice gesto avrebbe avverato
il miracolo invocato dai miei genitori. Che non dovevo fare altro che
toccare questa reliquia e, con la forza di Dio onnipotente, tutto si sarebbe
sistemato. Ma non sentii niente. Solo la roccia fredda.
Tornai alla macchina. “Andiamo,” dissi.
Quando la vita stessa sembra follia, chi può dire dov’è la pazzia?
Nei giorni seguenti scrissi quella frase ovunque, inconsciamente,
compulsivamente. La ritrovo ora sui libri che leggevo, tra gli appunti delle
lezioni, ai margini del mio diario. La recitavo come un mantra.
M’imponevo di crederci – di credere che non ci fosse nessuna vera
differenza tra quello che conoscevo per vero e quello che conoscevo per
falso. Di convincermi che ci fosse una certa dignità in quello che volevo
fare, nel rinunciare alle mie nozioni di giusto o sbagliato, di realtà e di
buonsenso, per avere l’amore dei miei genitori. Per loro credevo di poter
indossare un’armatura e battermi contro i giganti, anche se vedevo solo
mulini a vento.
Entrammo nel Bosco Sacro. Dopo un po’ trovai una panchina sotto le
fronde degli alberi. Era un luogo bellissimo, pieno di storia. Era il motivo
per cui i miei antenati erano venuti in America. Si spezzò un rametto e
comparvero i miei genitori. Mi si sedettero accanto, uno per parte.
Mio padre parlò per due ore. Disse che aveva visto angeli e diavoli.
Aveva assistito alle manifestazioni fisiche del male e gli era apparso il
Signore Gesù Cristo, com’era successo ai profeti del passato, com’era
successo a Joseph Smith in quello stesso boschetto. La sua fede non era più
una fede, disse, ma conoscenza perfetta.
“Lucifero si è impadronito di te,” sussurrò, mettendomi una mano sulla
spalla. “L’ho capito appena sono entrato nella tua stanza.”
Pensai alla mia stanza nel dormitorio – alle pareti scure e alle piastrelle
gelide, ma anche ai girasoli che mi aveva mandato Drew e al tessuto da
parete che mi aveva portato un amico dello Zimbabwe dal suo villaggio.
La mamma non disse nulla. Tenne lo sguardo fisso a terra, gli occhi
lucidi, le labbra strette. Il papà aspettava una risposta. Riflettei a fondo,
cercando dentro di me le parole che aveva bisogno di sentire. Ma non erano
dentro di me. Non ancora.
Prima di tornare ad Harvard convinsi i miei genitori a fare una deviazione
per le cascate del Niagara. L’atmosfera in macchina era pesante e all’inizio
mi pentii della proposta, ma nel momento in cui il papà vide le cascate si
trasformò, diventando euforico. Avevo portato una macchina fotografica. Il
papà aveva sempre detestato le macchine fotografiche ma quando vide la
mia gli brillarono gli occhi. “Tara! Tara!” gridò, correndo davanti a me e
alla mamma. “Fai una foto da qui. Non è carino?” Era come se avesse
capito che stavamo creando un ricordo, qualcosa di bello di cui potevamo
avere bisogno in futuro. O forse è solo una mia proiezione, perché era
quello che sentivo io. Oggi abbiamo fatto alcune foto che mi ricorderò
ancora più del boschetto, scrissi sul mio diario. Ce n’è una di me e il papà
insieme, felici. Una dimostrazione che è possibile.
Quando tornammo ad Harvard mi offrii di pagare un albergo ai miei
genitori. Rifiutarono. Per una settimana ci stringemmo alla bell’e meglio
nella mia stanza. Ogni mattina mio padre si trascinava per le scale verso la
doccia comune coperto solo da un piccolo asciugamano bianco. Alla
Brigham sarei sprofondata dalla vergogna, ma ad Harvard non ci feci caso.
Avevo superato l’imbarazzo. Che importanza aveva chi lo vedeva e cosa
pensavano gli altri? Era la sua opinione che mi interessava. Era lui quello
che stavo perdendo.
Poi arrivò l’ultima sera, e non mi ero ancora riconvertita.
Io e la mamma ci demmo da fare nella cucina comune per preparare uno
sformato di manzo e patate, che portammo in camera su dei vassoi. Mio
padre studiò il suo piatto in silenzio, come se fosse solo. La mamma fece
qualche osservazione sul cibo, poi rise nervosamente e si azzittì.
Quando finimmo di mangiare il papà disse che aveva un regalo per me.
“È per questo che sono venuto,” disse. “Per offrirti il dono del sacerdozio.”
Nel mormonismo il sacerdozio è la facoltà con cui Dio agisce sulla Terra
– per informare, consigliare, curare i malati e scacciare i demoni. È una
facoltà concessa all’uomo. Era il momento cruciale: se accettavo quel dono
mio padre mi avrebbe purificato. Avrebbe posato le mani sulla mia testa e
scacciato il male che mi aveva fatto dire quello che avevo detto, che mi
aveva reso sgradita alla mia stessa famiglia. Non dovevo fare altro che
sottomettermi e nel giro di cinque minuti sarebbe tutto finito.
Mi sentii dire di no.
Il papà mi guardò a bocca aperta, incredulo, poi cominciò a portare la sua
testimonianza – non su Dio, ma sulla mamma. Le erbe, disse, erano una
vocazione divina del Signore. Tutto quello che succedeva alla nostra
famiglia, ogni ferita, ogni quasi-morte, avveniva perché eravamo stati scelti,
eravamo speciali. Dio aveva orchestrato tutto perché potessimo screditare il
Sistema Medico e attestare la Sua potenza.
“Ti ricordi quando Luke si è bruciato la gamba?” disse, come se potessi
dimenticarlo. “Era un piano di Dio. Una prova. Per tua madre. Perché fosse
pronta per quello che sarebbe successo a me.”
L’esplosione, l’ustione. Essere una testimonianza vivente della potenza di
Dio, disse, era il massimo privilegio spirituale. Poi mi prese le mani tra le
sue dita deformi e disse che la sua deturpazione faceva parte dei disegni di
Dio. Era un dono misericordioso che aveva avvicinato le anime a Dio.
La mamma aggiunse la propria testimonianza con dei sussurri bassi e
riverenti. Disse che poteva arrestare un ictus riallineando un chakra,
fermare un infarto usando solo l’energia, curare il cancro se la gente aveva
fede. Lei stessa aveva avuto un cancro al seno, disse, e l’aveva curato.
Alzai di scatto la testa. “Hai il cancro?” dissi. “Sei sicura? Te l’hanno
diagnosticato?”
“Non ce n’era bisogno,” rispose. “L’ho capito col test muscolare. Era
cancro. L’ho curato.”
“Potevamo curare anche la nonna,” disse il papà. “Ma si era allontanata
da Cristo. Non aveva la fede ed è per questo che è morta. Dio non guarisce
gli infedeli.”
La mamma annuì ma senza mai alzare lo sguardo.
“Il peccato della nonna era grave,” continuò il papà. “Ma i tuoi peccati lo
sono ancora di più, perché ti è stata data la verità ma le hai voltato le
spalle.”
La camera era silenziosa. Si sentiva solo il sordo brusio del traffico lungo
Oxford Street.
Il papà mi fissava. Era lo sguardo di un veggente, di un sacro oracolo che
riceveva forza e autorità dall’universo stesso. Volevo affrontarlo, dimostrare
che sapevo tenergli testa, ma dopo alcuni secondi qualcosa dentro di me
cedette, una forza interiore si arrese e abbassai lo sguardo a terra.
“Dio mi ha incaricato di attestare che la sciagura ti aspetta,” disse il papà.
“Succederà presto, molto presto, e ti annienterà completamente. Ti butterà
in un abisso di umiliazione. E quando sarai là, quando sarai distrutta,
invocherai la misericordia del Padre Divino.” La sua voce, che si era alzata
fino a un tono febbrile, si abbassò in un sussurro. “E Lui non ti ascolterà.”
Lo guardai negli occhi. Ardeva di convinzione, potevo quasi sentire il
calore uscirgli dal corpo. Si chinò in avanti fin quasi a sfiorarmi il volto e
disse: “Ma io sì”.
Scese un silenzio totale, opprimente.
“Ti propongo, per l’ultima volta, di accettare un dono,” disse.
Era un gesto di misericordia. Mi stava offrendo le stesse condizioni di
resa che aveva offerto a mia sorella. M’immaginai il sollievo di Audrey
quando aveva capito che poteva scambiare la sua realtà – quella che
condivideva con me – con quella di nostro padre. La sua gratitudine di poter
pagare un prezzo così basso. Non la biasimavo per la sua scelta, ma in quel
momento capii che per me sarebbe stato impossibile. Tutti i miei sforzi, tutti
i miei anni di studio mi erano serviti ad avere quest’unico privilegio: poter
vedere e sperimentare più verità di quelle che mi dava mio padre, e usare
queste verità per imparare a pensare con la mia testa. Avevo capito che la
capacità di abbracciare più idee, più storie, più punti di vista era un
presupposto fondamentale per crescere come persona. Se mi arrendevo
adesso avrei perso più di una semplice discussione. Avrei perso il possesso
della mia mente. Era questo il prezzo che mi si chiedeva di pagare, adesso
mi era chiaro. Quello che la mia famiglia voleva allontanare da me non era
un demone: ero io stessa.
Il papà infilò una mano in tasca, estrasse una boccetta di olio consacrato e
me la mise sul palmo. La guardai. Sarebbe bastato quest’olio a eseguire il
rituale, questo e la sacra autorità che mio padre aveva tra le mani deformi.
M’immaginai di arrendermi, di chiudere gli occhi e rinnegare le mie
blasfemie. M’immaginai come avrei descritto il mio cambiamento, la mia
trasformazione divina, quali parole di gratitudine avrei gridato. Le parole
erano pronte, già formate, aspettavano solo di uscire dalle mie labbra.
Ma svanirono non appena aprii bocca.
“Ti voglio bene,” dissi. “Ma non posso. Mi dispiace, papà.”
Mio padre si alzò di scatto.
Ripeté che c’era una presenza malefica nella mia stanza, che non poteva
fermarsi un’altra notte. Anche se il loro volo era la mattina dopo, preferiva
dormire su una panchina che insieme al diavolo.
Mia madre si diede un gran daffare, buttando camicie e calzini nella
valigia. Cinque minuti dopo non c’erano più.
37.
Scommettere sulla salvezza

Qualcuno stava gridando. Un urlo lungo, continuo, così forte che mi


svegliò. Era buio. Lampioni, asfalto, un rumore lontano di automobili. Ero
in mezzo a Oxford Street, a meno di un isolato di distanza dal mio
dormitorio. Scalza, in canottiera e pantaloni del pigiama di flanella. Mi
sentivo osservata, ma erano le due di notte e per strada non c’era nessuno.
Tornai in qualche modo nella mia stanza, poi mi sedetti sul letto e cercai
di ricostruire l’accaduto. Ricordavo che ero andata a dormire. Ricordavo il
sogno. Quello che non ricordavo era di essere balzata giù dal letto, essermi
precipitata in corridoio ed essere corsa in strada gridando. Ma era quello
che avevo fatto.
Avevo sognato casa mia. Il papà aveva costruito un labirinto su Buck
Peak e mi aveva imprigionato all’interno. Le pareti alte tre metri erano fatte
dalle scorte conservate nel deposito sotterraneo – sacchi di grano, casse di
munizioni, fusti di miele. Stavo cercando qualcosa, qualcosa di prezioso e
insostituibile. Dovevo uscire dal labirinto per recuperarlo ma non trovavo
l’uscita e il papà m’inseguiva, ammucchiando sacchi di grano per bloccare
le uscite.
Smisi di partecipare al gruppo di francese, poi alle lezioni di disegno.
Anziché studiare in biblioteca o andare a lezione mi chiudevo in camera
mia a guardare tutte le serie più famose degli ultimi vent’anni. Alla fine di
un episodio passavo subito a quello dopo, senza pensare, come un respiro
ne segue un altro. Guardavo la tv diciotto o venti ore al giorno. Quando
dormivo sognavo Buck Peak e almeno una volta alla settimana mi svegliavo
per strada nel cuore della notte, chiedendomi se era mio il grido che avevo
sentito un momento prima di aprire gli occhi.
Non studiavo. Provavo a leggere ma le frasi non avevano senso. Avevo
bisogno che non ce l’avessero. Non sopportavo di unire le frasi in
frammenti di pensiero, o di imbastire da questi delle idee. Le idee erano
troppo simili alla riflessione, e le mie riflessioni mi portavano sempre al
volto teso di mio padre un momento prima che scappasse da me.
Il problema degli esaurimenti nervosi è che, anche se è chiaro che sei
esaurito, per qualche motivo non lo ammetti. Sto bene, pensi. Che importa
se ieri ho guardato la tv per ventiquattr’ore di fila? Non sto andando a
pezzi. Sono solo pigra. Non so bene perché sia meglio vedersi pigri
piuttosto che in difficolà. Ma era meglio. Non solo: era vitale.
A dicembre ero talmente indietro con gli studi che una sera, durante una
pausa prima di un episodio di Breaking Bad, mi resi conto che rischiavo di
perdere il dottorato. Era una situazione così ironica che risi come una pazza
per dieci minuti: dopo aver sacrificato la mia famiglia per lo studio, ora
rischiavo di perdere pure quello.
Dopo alcune settimane in queste condizioni, una sera mi trascinai giù dal
letto e decisi che avevo commesso un errore, che quando mio padre mi
aveva offerto quel dono avrei dovuto accettarlo. Ma non era troppo tardi.
Potevo rimediare al danno, aggiustare le cose.
Comprai un biglietto per l’Idaho per Natale. Due giorni prima di partire
mi svegliai coperta di sudore freddo. Avevo sognato di essere in ospedale,
sdraiata su delle lenzuola bianche e pulite. Il papà era ai piedi del letto e
stava dicendo a un agente che mi ero accoltellata. La mamma gli faceva
eco, gli occhi pieni di terrore. Poi, con mia sorpresa, sentivo la voce di
Drew. Gridava che dovevano trasferirmi in un altro ospedale. “Lui la
troverà qui,” continuava a ripetere.
Scrissi a Drew, che in quel periodo si trovava in Medio Oriente. Gli dissi
che sarei andata a Buck Peak. Mi rispose con toni aspri e insistenti, come se
volesse dissipare la nebbia che mi avvolgeva. Mia cara Tara, scriveva. Se
Shawn ti accoltellerà, non ti porteranno in ospedale. Ti metteranno in
taverna e ti daranno della lavanda per la ferita. Mi supplicò di non andare,
dicendo un centinaio di cose che sapevo già e di cui non m’importava nulla.
Poi, vedendo che non funzionava, disse: Mi hai raccontato la tua storia
perché potessi fermarti se facevi qualcosa di assurdo. Be’, Tara, ecco qua.
Questo è assurdo.
Posso ancora sistemare le cose, mi ripetei mentre l’aereo decollava.
Era una bella mattina d’inverno quando arrivai a Buck Peak. Ricordo
l’odore pungente di terra ghiacciata mentre mi avvicinavo alla casa e lo
scricchiolio della ghiaia e del ghiaccio sotto i miei piedi. Il cielo era di un
azzurro pazzesco. Respirai l’aroma accogliente dei pini.
Il mio sguardo si abbassò sulle pendici della montagna e mi mancò il
fiato. Quando la nonna era viva era riuscita a forza di brontolii, grida e
minacce a contenere la discarica di mio padre. Adesso c’erano rottami
ovunque, che salivano verso la base della montagna. Le colline ondulate, un
tempo dei perfetti laghi di neve, erano punteggiate di camion distrutti e
fosse biologiche arrugginite.
La mamma fu contentissima quando mi vide entrare. Non le avevo detto
del mio arrivo, sperando che così facendo sarei riuscita a evitare Shawn.
Parlava velocemente, nervosamente. “Ti preparo i crostini col sugo di
carne!” disse, poi volò in cucina.
“Ti aiuto tra un momento,” dissi. “Devo solo mandare un’email.”
Il computer di famiglia era nella parte vecchia della casa, in quella che
era stata la sala prima dell’ampliamento. Mi sedetti a scrivere a Drew.
Eravamo arrivati a una specie di compromesso e gli avevo giurato che, per
tutto il tempo che sarei stata a Buck Peak, gli avrei scritto ogni due ore.
Spostai leggermente il mouse e lo schermo si accese. Il browser era già
aperto: qualcuno si era dimenticato di disconnettersi. Feci per aprire
un’altra finestra ma mi fermai quando vidi il mio nome. Era contenuto nel
messaggio di posta che c’era aperto sullo schermo, e che la mamma aveva
mandato pochi istanti prima. All’ex fidanzata di Shawn, Erin.
Il messaggio cominciava dicendo che Shawn era “rinato” e spiritualmente
purificato. Che l’Espiazione aveva guarito la nostra famiglia e che adesso
era tutto sistemato. Tutto tranne me. Lo spirito mi ha sussurrato la verità su
mia figlia, scriveva la mamma. La mia povera bambina ha ceduto alla
paura, e questa paura la spinge ad avvalorare a ogni costo le sue idee
sbagliate. Non so se sia un pericolo per la nostra famiglia, ma ho motivo di
pensare che potrebbe esserlo.10
Sapevo ancora prima di leggere il messaggio che mia madre la pensava
come mio padre, che credeva che il diavolo si fosse impadronito di me, che
fossi pericolosa. Ma vedere quelle parole sullo schermo, leggerle e sentire
in esse la sua voce, la voce di mia madre, mi gelò il sangue nelle vene.
Non era finita. Nell’ultimo paragrafo dell’email la mamma parlava della
nascita del secondo figlio di Emily, una bambina, avvenuta il mese prima.
La mamma l’aveva aiutata a partorire in casa. A quanto pare Emily era
quasi morta dissanguata prima che potessero portarla in ospedale. La
mamma concludeva dicendo che quella notte le sue mani erano state mosse
da Dio. La nascita era una testimonianza della Sua potenza.
Ricordavo il dramma della nascita di Peter: com’era scivolato fuori da
Emily quando non pesava nemmeno mezzo chilo; com’era stato di un grigio
inquietante, tanto che l’avevano dato per morto; come avevano affrontato
una tormenta di neve per correre all’ospedale in città, solo per sentirsi dire
che non bastava e che gli elicotteri non volavano; com’erano state mandate
due ambulanze al McKay-Dee di Ogden. Che una donna con quei
precedenti clinici, una donna evidentemente ad alto rischio, fosse stata
convinta a partorire in casa una seconda volta sembrava fuori da ogni
logica.
Se la prima disgrazia era il volere di Dio, che dire della seconda?
Stavo ancora pensando alla nascita di mia nipote quando sullo schermo
comparve la risposta di Erin. Hai ragione su Tara, diceva. È persa senza
fede. Erin diceva alla mamma che i miei dubbi – il fatto che avessi scritto a
lei, Erin, per chiederle se mi sbagliavo, se mi ricordavo male –
dimostravano che la mia anima era in pericolo, che non ci si poteva fidare
di me: Sta costruendo la sua vita sulla paura. Pregherò per lei. Erin
concludeva il messaggio complimentandosi con mia madre per le sue doti
di levatrice. Sei un vero eroe, scriveva.
Chiusi il browser e fissai la carta da parati dietro lo schermo. Era la stessa
stampa floreale della mia infanzia. Da quanto sognavo di rivederla? Ero
venuta per ritrovare quella vita, per salvarla. Ma qui non c’era niente da
salvare, niente da recuperare. C’erano solo sabbie mobili, affetti incerti e
ricordi che cambiavano.
Ripensai al sogno, al labirinto. Ripensai alle pareti fatte di sacchi di grano
e casse di munizioni, fatte delle paure e paranoie di mio padre, delle sue
sacre scritture e profezie. Avevo voluto scappare dal labirinto, col suo
zigzagare sviante e i suoi tracciati cangianti, per trovare quella cosa
preziosa. Ma ora capivo: quella cosa preziosa era il labirinto. Non restava
nient’altro della vita che avevo trascorso qua: un puzzle di cui non avrei
mai capito le regole, perché non erano affatto regole ma una specie di
gabbia fatta per rinchiudermi. Potevo restare e cercare quella che era stata
casa mia, oppure potevo andarmene, adesso, prima che le pareti si
spostassero e l’uscita venisse sbarrata.
La mamma stava infilando i crostini nel forno quando entrai in cucina. Mi
guardai attorno, passando mentalmente in rassegna la casa. Cosa mi serve di
questo posto? C’era una cosa sola: i miei ricordi. Li trovai sotto il mio letto,
dentro una scatola, dove li avevo lasciati. Li portai alla macchina e li misi
sul sedile di dietro.
“Vado a fare un giro,” dissi alla mamma. Cercai di avere un tono calmo.
L’abbracciai, poi lanciai un lungo sguardo a Buck Peak, memorizzando
ogni contorno e ogni ombra. La mamma mi aveva vista portare i miei diari
in macchina. Doveva aver capito cosa significava, doveva aver intuito
l’addio di quel gesto, perché andò a chiamare mio padre. Lui mi abbracciò
rigidamente e disse: “Ti voglio bene, lo sai?”.
“Lo so,” risposi. “Non è mai stato questo il punto.”
Sono le ultime parole che ho detto a mio padre.
Andai verso sud, senza meta. Era quasi Natale. Avevo deciso di andare
all’aeroporto e salire sul primo volo per Boston quando mi chiamò Tyler.
Non parlavo con mio fratello da mesi – dopo quello che era successo con
Audrey mi sembrava inutile confidarmi coi miei fratelli. Ero sicura che la
mamma avesse raccontato a ogni fratello, cugino, zia e zio la storia che
aveva raccontato a Erin: che ero posseduta, pericolosa, soggiogata dal
diavolo. Non mi sbagliavo: la mamma li aveva avvertiti. Ma poi commise
un errore.
Dopo che ebbi lasciato Buck Peak, cadde nel panico. Temeva che
contattassi Tyler e che lui si schierasse dalla mia parte. Decise di chiamarlo
per prima per smentire tutto quello che gli avrei raccontato, ma fece male i
calcoli. Non pensò all’effetto che avrebbe avuto quell’avvertimento
spuntato dal nulla.
“Di certo Shawn non ha ammazzato Diego e minacciato Tara con il
coltello,” lo rassicurò. Ma per Tyler, che non aveva mai sentito quella storia
né da me né da nessun altro, quelle parole furono tutt’altro che rassicuranti.
Un momento dopo aver salutato la mamma, mi chiamò per chiedermi
cos’era successo e perché non gli avevo detto nulla.
Pensavo che mi avrebbe dato della bugiarda ma non lo fece. Accettò
quasi all’istante la realtà che avevo cercato di negare per un anno. Non
capivo perché si fidasse di me, ma poi mi raccontò certe cose di lui e capii:
Shawn era stato anche il suo fratello maggiore.
Nelle settimane seguenti Tyler cominciò a mettere alla prova i miei
genitori in quel modo sottile e non conflittuale che aveva solo lui. Suggerì
che forse la situazione era stata gestita male, che forse non ero posseduta.
Forse non ero affatto cattiva.
Avrei potuto trovare conforto nel sostegno di Tyler, ma il ricordo di mia
sorella bruciava ancora e non mi fidavo di lui. Sapevo che se Tyler parlava
con i miei genitori – se gli parlava davvero – l’avrebbero costretto a
scegliere tra me e loro, tra me e il resto della famiglia. E da Audrey avevo
imparato una cosa: non avrebbe scelto me.
La mia borsa di studio ad Harvard finì in primavera. Volai in Medio
Oriente, dove Drew stava concludendo un soggiorno con una borsa
Fulbright. Con una certa fatica riuscii a nascondergli quanto stavo male, o
almeno così credevo. Probabilmente non ci riuscii. Fu lui, dopotutto, a
inseguirmi per l’appartamento quando mi svegliavo nel cuore della notte
gridando e correndo, senza sapere dove mi trovavo ma con un disperato
bisogno di fuggire.
Lasciammo Amman e andammo a sud. Eravamo in un accampamento di
beduini nel deserto della Giordania il giorno in cui le Forze speciali della
marina uccisero Bin Laden. Drew parlava arabo e quando arrivò la notizia
passò delle ore a conversare con le nostre guide. “Non è un musulmano,”
gli dissero mentre eravamo seduti sulla sabbia fredda a guardare le fiamme
semispente di un falò. “Non conosce l’Islam, o non farebbe le cose terribili
che ha fatto.”
Guardai Drew parlare con i beduini, sentii quei suoni strani e dolci
uscirgli di bocca e mi sentii terribilmente fuori luogo. Quand’erano cadute
le Torri Gemelle, dieci anni prima, non avevo mai sentito parlare dell’Islam.
Adesso bevevo tè zuccherato insieme ai beduini zalabia, accovacciata su un
banco di sabbia a Wadi Rum, la Valle della Luna, a meno di trenta
chilometri dal confine saudita.
La distanza – fisica e mentale – che avevo percorso negli ultimi dieci anni
quasi mi faceva mancare il fiato, e mi chiesi se forse ero cambiata troppo.
Tutti i miei studi, le mie letture, le mie riflessioni, i miei viaggi mi avevano
trasformato in una persona senza radici? Pensai alla ragazzina che, non
conoscendo nient’altro che la sua discarica e la sua montagna, aveva
guardato uno schermo e visto due aerei tuffarsi dentro delle strane colonne
bianche. La sua aula era un mucchio di rifiuti. I suoi libri, lastre di lamiera.
Eppure aveva qualcosa di prezioso che io – nonostante tutte le mie
opportunità, o forse a causa di esse – non avevo.
Tornai in Inghilterra, a Cambridge, dove continuai a precipitare. La prima
settimana mi svegliai quasi ogni notte in strada, dopo che ero corsa fuori
gridando, addormentata. Avevo dei mal di testa che duravano giorni. Il mio
dentista disse che digrignavo i denti. Mi vennero degli sfoghi così brutti
sulla pelle che un paio di volte degli sconosciuti mi fermarono per strada e
mi chiesero se avevo una reazione allergica. No, risposi. Sono sempre così.
Una sera litigai con un’amica per una sciocchezza e un momento dopo mi
ritrovai contro la parete a stringermi le ginocchia al petto per evitare che mi
schizzasse fuori il cuore dal corpo. La mia amica corse ad aiutarmi ma mi
misi a gridare. Ci misi un’ora a permetterle di toccarmi, a riuscire a
staccarmi dalla parete. Ecco com’è un attacco di panico, pensai la mattina
dopo.
Mandai una lettera a mio padre. Non vado orgogliosa di questa lettera. È
piena di rabbia, sembro una bambina capricciosa che grida “ti odio!” a un
genitore. Contiene parole come “criminale” e “tiranno”, e va avanti per
pagine e pagine, un fiume di frustrazione e di insulti.
Fu così che dissi ai miei genitori che tagliavo i ponti con loro. Tra insulti
e attacchi di rabbia, dissi che avevo bisogno di un anno per rimettermi; poi
forse sarei tornata al loro mondo assurdo per cercare di trovare un senso a
tutto questo.
La mamma mi supplicò di tentare un’altra strada. Mio padre non disse
nulla.
10
Il corsivo è una parafrasi dello scambio di email a cui si fa riferimento e non una citazione
diretta. Il senso è stato mantenuto.
38.
Famiglia

Il mio dottorato stava andando a rotoli.


Se avessi spiegato al mio relatore, il professor Runciman, perché non
riuscivo a scrivere, lui mi avrebbe aiutato, avrebbe ottenuto altri fondi,
chiesto più tempo al dipartimento. Ma non lo feci, non ci riuscii. Non
capiva perché non gli mandavo più nulla da quasi un anno, così quando ci
incontrammo nel suo ufficio, un nuvoloso pomeriggio di luglio, mi propose
di ritirarmi.
“Il dottorato è terribilmente impegnativo,” disse. “Non preoccuparti se
non ce la fai.”
Lasciai il suo ufficio piena di rabbia contro me stessa. Andai in biblioteca
e presi una dozzina di libri, che trascinai nella mia stanza e appoggiai sulla
scrivania. Ma qualsiasi ragionamento mi dava la nausea e la mattina dopo i
libri si erano spostati sul letto, dove servivano da sostegno al portatile
mentre mi dedicavo assiduamente alle puntate di Buffy l’ammazzavampiri.
Quell’autunno Tyler parlò con mio padre. Prima telefonò alla mamma.
Dopo la telefonata mi chiamò e mi riferì cosa si erano detti. A quanto pare
la mamma era “dalla nostra parte”, pensava che la situazione di Shawn
fosse inaccettabile e aveva convinto il papà a fare qualcosa.
“Ci penserà il papà,” disse Tyler. “Andrà tutto bene. Puoi venire a casa.”
Due giorni dopo mi squillò il telefono e misi in pausa Buffy per
rispondere. Era Tyler. Era successo un casino. Dopo aver parlato con la
mamma si era sentito inquieto, così aveva chiamato il papà per capire
cos’avrebbe fatto di preciso con Shawn. Il papà si era arrabbiato ed era
diventato aggressivo. Gli aveva gridato contro che se tirava fuori di nuovo
quella storia l’avrebbe ripudiato, poi aveva riagganciato.
Sto male se penso a quella telefonata. La balbuzie di Tyler peggiorava
sempre quando parlava con il papà. M’immagino mio fratello che, curvo
sulla cornetta, cerca di concentrarsi e di buttar fuori le parole che tiene
bloccate in gola mentre suo padre gli lancia contro una raffica d’insulti.
Tyler si stava ancora riprendendo dalle minacce del papà quando gli
squillò il telefono. Credeva fosse lui che chiamava per scusarsi, invece era
Shawn. Il papà gli aveva raccontato tutto. “Posso sbatterti fuori da questa
famiglia in due minuti,” disse Shawn. “Sai che posso farlo. Chiedi a Tara.”
Ascoltai queste cose mentre fissavo l’immagine di Sarah Michelle Gellar
bloccata sullo schermo. Tyler parlò a lungo, passando velocemente da un
evento all’altro, ma indugiando in un deserto di ragionamenti e
autorecriminazioni. Il papà deve aver capito male, disse. Ci sarà stato un
errore, un equivoco. Forse la colpa era sua, forse non aveva detto la cosa
giusta nel modo giusto. Tutto qua. Era stato lui a combinare questo guaio, e
lui poteva rimediare.
Mentre l’ascoltavo, cominciai a provare una strana sensazione di distanza
che rasentava l’indifferenza, come se il mio futuro con Tyler, questo fratello
che conoscevo e amavo da una vita, fosse un film che avevo già visto e di
cui conoscevo il finale. Sapevo com’era fatto questo dramma perché
l’avevo già vissuto con mia sorella. Questo era il momento in cui avevo
perso Audrey: il momento in cui i costi erano diventati reali, in cui
bisognava pagare la tassa, saldare l’affitto. Il momento in cui si era resa
conto che era molto più facile voltarmi le spalle e che non le conveniva
barattare un’intera famiglia per una sorella sola.
Sapevo già che Tyler avrebbe fatto la stessa cosa. Potevo sentirlo torcersi
le mani attraverso la lunga eco del telefono. Stava decidendo cosa fare, ma
io sapevo qualcosa che lui non sapeva: che la decisione era già stata presa e
che quello che stava facendo adesso era solo un lungo tentativo di
giustificarsi.
Era ottobre quando ricevetti la lettera.
Arrivò sotto forma di un PDF allegato a un’email di Tyler e Stefanie. Il
messaggio spiegava che la lettera era stata scritta con grande cura e
riflessione, e che ne sarebbe stata mandata una copia ai miei genitori.
Quando la lessi, capii subito cosa significava. Significava che Tyler era
pronto ad accusarmi, a dire le stesse parole di mio padre, che ero posseduta,
pericolosa. La lettera era una specie di lasciapassare che l’avrebbe
riammesso in famiglia.
Non riuscivo a decidermi ad aprire l’allegato. Qualcosa mi bloccava le
dita. Ripensai a Tyler da giovane, a quel fratello maggiore silenzioso che
leggeva i suoi libri mentre io stavo sdraiata sotto la scrivania a fissargli i
calzini e respirare la sua musica. Non sapevo se avrei sopportato di sentire
quelle parole dalla sua voce.
Cliccai col mouse e l’allegato si aprì. Ero così frastornata che lessi
l’intera lettera senza capire: I nostri genitori sono bloccati dalle catene
della violenza, della manipolazione e del controllo... Vedono il
cambiamento come qualcosa di pericoloso e allontaneranno chiunque lo
cerca. È un’idea perversa di fedeltà famigliare... Parlano tanto di fede, ma
non è questo quel che insegna il Vangelo. Abbi cura di te. Ti vogliamo bene.
Dalla moglie di Tyler, Stefanie, avrei poi saputo i retroscena di questa
lettera. Pare che per giorni, dopo essere stato minacciato da mio padre,
Tyler fosse andato a letto ogni sera ripetendo tra sé e sé: “Cosa devo fare? È
mia sorella”.
Quando sentii questa storia presi l’unica decisione sensata che avessi
preso da mesi: mi rivolsi al consultorio dell’università. Mi fu assegnata
un’arzilla donna di mezza età dai capelli ricci e gli occhi penetranti, che
diceva poco durante le sedute, preferendo lasciar parlare me, cosa che feci
settimana dopo settimana, mese dopo mese. All’inizio non servì a nulla –
non ricordo una sola seduta che definirei “utile” –, ma col tempo quegli
incontri ebbero un’efficacia complessiva innegabile. Allora non lo capivo,
come non lo capisco adesso, ma c’era qualcosa di terapeutico nel ritagliare
quegli intervalli di tempo ogni settimana, nell’ammettere che avevo bisogno
di qualcosa che non sapevo procurarmi da sola.
Tyler mandò davvero la lettera ai miei genitori, e una volta presa quella
strada non vacillò mai. Quell’inverno passai molte ore al telefono con lui e
Stefanie, che per me diventò come una sorella. Erano disponibili ogni volta
che avevo bisogno di parlare, e in quel periodo ne avevo molto bisogno.
Tyler pagò un prezzo per quella lettera, anche se è un prezzo difficile da
definire. Non fu ripudiato, o almeno non in modo permanente. Alla fine
riuscì a concordare una tregua con mio padre, ma il loro rapporto non
sarebbe più stato lo stesso.
Non so quante volte ho chiesto scusa a mio fratello per quel che gli sono
costata, ma le parole incespicano e sembrano fuori luogo. Qual è la formula
giusta? Come si fa a chiedere scusa a una persona per aver guastato i suoi
rapporti con suo padre, con la sua famiglia? Forse non ci sono parole adatte.
Come fai a ringraziare un fratello che si è rifiutato di abbandonarti, che ti ha
preso per mano e ti ha tirato su proprio quando avevi deciso di arrenderti e
lasciarti annegare? Non ci sono parole nemmeno per questo.
Fu un inverno lungo, quell’anno, il grigiore inframmezzato solo dalle mie
sedute settimanali di terapia e dallo strano senso di vuoto, quasi di lutto, che
provavo ogni volta che finivo una serie tv e dovevo trovarne un’altra.
Poi arrivò la primavera, poi l’estate e finalmente, quando l’estate lasciò il
posto all’autunno, scoprii che riuscivo di nuovo a concentrarmi sulla lettura.
Riuscivo ad avere dei pensieri oltre alla rabbia e all’autoaccusa. Ripresi in
mano il capitolo che avevo scritto quasi due anni prima ad Harvard. Tornai
a leggere Hume, Rousseau, Smith, Godwin, Wollstonecraft e Mill. Tornai a
riflettere sulla famiglia. C’era un enigma, qualcosa di irrisolto. Cosa deve
fare una persona, mi chiedevo, quando i suoi doveri verso la famiglia si
scontrano con altri doveri – verso gli amici, la società, verso se stessi?
Cominciai la ricerca. Restrinsi il quesito, lo resi accademico, specifico.
Alla fine scelsi quattro movimenti intellettuali del diciannovesimo secolo e
analizzai come avevano affrontato la questione dei doveri famigliari. Uno di
questi movimenti era il mormonismo del diciannovesimo secolo. Lavorai
ininterrottamente per un anno e alla fine avevo una bozza della mia tesi:
Famiglia, moralità e scienze sociali nel pensiero cooperativo
angloamericano, 1813-1890.
Il capitolo sul mormonismo era il mio preferito. Da bambina, al
catechismo della domenica, mi avevano insegnato che la storia era stata
tutta un preparativo al mormonismo: che ogni evento dopo la nascita di
Cristo era stato forgiato da Dio per rendere possibile il momento in cui
Joseph Smith si sarebbe inginocchiato nel Bosco Sacro e Dio avrebbe
ripristinato l’unica vera chiesa. Guerre, migrazioni, disastri naturali – erano
solo dei preludi alla storia mormona. In realtà, però, le storie secolari
tendevano a ignorare del tutto i movimenti spirituali come il mormonismo.
La mia tesi gettava uno sguardo diverso sulla storia, uno sguardo che non
era né mormone né antimormone, né spirituale né profano. Non trattava il
mormonismo come l’obiettivo della storia dell’umanità, ma non scartava
nemmeno il contributo dato dal mormonismo nell’affrontare gli
interrogativi dell’epoca. Piuttosto, trattava l’ideologia mormona come un
capitolo della più vasta storia dell’uomo. Secondo il mio studio, la storia
non separava i mormoni dal resto della famiglia umana, ma li includeva in
essa.
Mandai la bozza al professor Runciman e alcuni giorni dopo ci
incontrammo nel suo ufficio. Mi si sedette di fronte e, con un’espressione
sorpresa, disse che avevo fatto un buon lavoro. “Alcune parti sono molto
buone,” disse. Ora stava sorridendo. “Mi stupirei se non ti facesse ottenere
il dottorato.”
Mentre tornavo a casa a piedi col pesante manoscritto, ripensai a quella
volta che il professor Kerry aveva cominciato una lezione scrivendo alla
lavagna: “Chi scrive la storia?”. Lì per lì mi era sembrata una domanda
strana. L’idea che avevo degli storici non era umana: erano personaggi
simili a mio padre, più profeti che uomini, le cui concezioni sul passato così
come sul futuro non potevano essere messe in discussione né tantomeno
ampliate. Adesso, mentre attraversavo il King’s College all’ombra
dell’enorme cappella, la mia vecchia diffidenza mi sembrò quasi buffa. Chi
scrive la storia? Pensai. La scrivo io.
Consegnai la mia tesi di dottorato il giorno del mio ventisettesimo
compleanno, o meglio, il giorno che avevo scelto come tale. La discussione
fu a dicembre, in un’aula piccola e arredata con semplicità. Superai la prova
e tornai a Londra, dove Drew aveva trovato lavoro e dove avevamo preso in
affitto un appartamento. A gennaio, quasi dieci anni esatti dopo aver messo
piede alla mia prima lezione alla Brigham, ricevetti conferma
dall’università di Cambridge: ero la dottoressa Westover.
Mi ero costruita una nuova vita, ed era una vita felice, ma provavo un
senso di vuoto che andava al di là della mia famiglia. Avevo perso Buck
Peak, non perché me n’ero andata ma perché me n’ero andata in silenzio.
Mi ero ritirata, ero scappata dall’altra parte dell’oceano e avevo lasciato che
mio padre raccontasse la mia storia al posto mio, che definisse chi ero a tutti
quelli che conoscevo. Avevo ceduto troppo terreno – non solo alla
montagna, ma all’intera provincia del nostro passato comune.
Era ora di andare a casa.
39.
Guardando i bufali

Era primavera quando arrivai nella valle. Percorsi la statale fino ai


margini della città, poi accostai nell’area di sosta che dava su Bear River.
Da là potevo vedere il bacino, un mosaico di campi in attesa che si
allungavano verso Buck Peak. La montagna era un tripudio di sempreverdi
che spiccavano chiari contro i marroni-grigi dello scisto e del calcare. La
Principessa era più splendida che mai. Mi si stagliava davanti, con la valle
nel mezzo, irradiando un senso di permanenza.
La Principessa non mi aveva mai lasciato. Avevo sentito il suo richiamo
dall’altra parte dell’oceano, come se fossi un vitello importuno che si era
allontanato dalla sua mandria. All’inizio la sua voce era stata gentile,
suadente, ma vedendo che non rispondevo, che restavo lontana, era
diventata furiosa. L’avevo tradita. M’immaginavo il suo volto distorto dalla
rabbia, il suo portamento severo e minaccioso. Era vissuta nella mia mente
così per anni, come una divinità del disprezzo.
Vedendola adesso, però, mentre vegliava sui suoi campi e i suoi pascoli,
mi resi conto che l’avevo fraintesa. Non ce l’aveva con me perché me n’ero
andata, perché andarsene faceva parte del suo stesso ciclo. La sua funzione
non era quella di spingere i bufali nei recinti, di radunarli e rinchiuderli con
la forza. Ma di celebrare il loro ritorno.
Tornai indietro di circa mezzo chilometro e parcheggiai accanto alla
staccionata bianca della nonna in città. Nella mia mente era ancora la sua
staccionata, anche se la nonna non abitava più là: era stata trasferita in un
ospizio dalle parti di Main Street.
Non vedevo i miei nonni da tre anni, da quando i miei genitori avevano
cominciato a dire ai parenti che ero posseduta. I miei nonni amavano la loro
figlia. Dovevano aver creduto senz’altro a quello che gli aveva raccontato
di me. E col tempo avevo rinunciato a loro. Ormai era troppo tardi per
riallacciare un rapporto con la nonna – era malata di Alzheimer e non mi
avrebbe riconosciuta. Così ero venuta dal nonno, per capire se poteva
esserci un posto per me nella sua vita.
Ci sedemmo in salotto. La moquette era dello stesso bianco vivo che
ricordavo dalla mia infanzia. Fu una visita breve e garbata. Il nonno mi
raccontò della nonna, di cui si era occupato a lungo anche dopo che aveva
smesso di riconoscerlo. Io gli raccontai dell’Inghilterra. Il nonno parlò di
mia madre, e lo fece con la stessa espressione reverenziale che avevo visto
sul volto delle sue seguaci. Non gliene feci una colpa. Da quel che avevo
sentito, i miei genitori erano diventate persone potenti nella valle. La
mamma commercializzava i suoi prodotti come un’alternativa spirituale all’
Obamacare e quasi non riusciva a star dietro alle vendite, anche con decine
di dipendenti.
Il nonno disse che doveva esserci Dio dietro a quel successo
meraviglioso. I miei genitori erano stati chiamati dal Signore a fare quel che
avevano fatto, a diventare dei grandi guaritori, ad avvicinare le anime a Dio.
Sorrisi e mi alzai per andarmene. Mio nonno era lo stesso anziano gentile
che ricordavo, ma mi sentivo sopraffatta dalla distanza che ci separava.
Sulla soglia, lo abbracciai e lo guardai a lungo. Aveva ottantasette anni.
Non sapevo se, negli anni che gli rimanevano, sarei riuscita a dimostrargli
che non ero quella che diceva mio padre, che non ero una cosa cattiva.
Tyler e Stefanie vivevano a Idaho Falls, a più di centocinquanta
chilometri a nord di Buck Peak. Era quella la mia destinazione successiva,
ma prima di lasciare la valle scrissi a mia madre. Un messaggio breve. Non
ero pronta a vedere il papà, scrissi, ma erano anni che non vedevo la faccia
di mia madre. Le andava di venire con me?
Aspettai una risposta nel parcheggio di Stokes. Non dovetti aspettare
molto.
Mi addolora che per te sia normale chiedermi questo. Una moglie non va
dove suo marito non è ben accetto. Non sarò complice in questa spudorata
mancanza di rispetto.11
Il messaggio era lungo e leggerlo mi fece sentire stanca come se avessi
fatto una lunga corsa. Per buona parte era una predica sulla fedeltà: diceva
che le famiglie perdonano e che se non sapevo perdonare la mia me ne sarei
pentita per il resto della mia vita. Il passato, scriveva la mamma, qualunque
esso sia, dovrebbe essere sepolto a quindici metri di profondità e lasciato
marcire là sotto.
La mamma aggiungeva che ero la benvenuta a casa, che pregava di
vedermi rientrare dalla porta sul retro, un giorno, gridando: “Sono tornata!”.
Volevo esaudire la sua preghiera – ero a meno di venti chilometri dalla
montagna –, ma conoscevo il tacito accordo che avrei firmato se varcavo
quella soglia. Potevo avere l’amore di mia madre, ma a certe condizioni. Ed
erano le stesse condizioni che mi avevano offerto tre anni prima, ovvero che
scambiassi la mia realtà con la loro. Che prendessi la mia intelligenza e la
seppellissi, lasciandola marcire sotto terra.
Il messaggio della mamma equivaleva a un ultimatum: potevo vedere lei
e mio padre, o non l’avrei vista mai più. Non ha mai ritrattato.
Il parcheggio si era riempito mentre leggevo. Lasciai che le parole della
mamma si quietassero, poi accesi il motore e presi Main Street. All’incrocio
girai a ovest, verso la montagna. Prima di lasciare la valle, volevo vedere
casa mia.
Nel corso degli anni avevo sentito molte voci sui miei genitori: che erano
miliardari, che stavano costruendo una fortezza sulla montagna, che
avevano nascosto abbastanza cibo per resistere decine d’anni. Le più
interessanti erano di gran lunga le storie sui dipendenti che il papà
continuava ad assumere e licenziare. La valle non si era mai ripresa dalla
crisi e la gente aveva bisogno di lavorare. I miei genitori erano tra i
maggiori datori di lavoro della contea, ma evidentemente le condizioni
mentali del papà gli rendevano difficile tenere i dipendenti a lungo: quando
andava in paranoia aveva la tendenza a licenziare la gente per la minima
cosa. Alcuni mesi prima aveva licenziato Diane Hardy, l’ex moglie di Rob,
lo stesso Rob che ci era venuto a prendere dopo il secondo incidente. Diane
e Rob erano amici dei miei genitori da vent’anni. Finché il papà licenziò
Diane.
Fu forse per uno di questi attacchi di paranoia che il papà licenziò Angie,
la sorella di mia madre. Angie ne parlò con la mamma, convinta che sua
sorella non avrebbe mai permesso una cosa simile. Quand’ero piccola
l’attività era gestita interamente dalla mamma; adesso era sia in mano sua
che del papà. Ma in quel caso specifico, il papà si dimostrò il vero
proprietario e Angie fu mandata via.
È difficile ricostruire cosa successe dopo, ma da quel che venni a sapere
in seguito Angie chiese il sussidio di disoccupazione e quando il
Dipartimento del lavoro chiamò i miei genitori perché confermassero che
era stata licenziata, il papà perse totalmente la testa. Non era il
Dipartimento del lavoro al telefono, disse, ma il Dipartimento di sicurezza
interna che si spacciava per il Dipartimento del lavoro. Secondo lui Angie
aveva messo il suo nome sulla lista nera dei terroristi, e ora lo Stato gli
stava addosso. Voleva i suoi soldi, i suoi fucili e la sua benzina. Era il
ritorno di Ruby Ridge.
Lasciai la statale e procedetti sullo sterrato, poi scesi dalla macchina e
guardai in alto verso Buck Peak. Capii subito che almeno alcune di quelle
voci erano vere – tanto per cominciare, che i miei genitori stavano facendo
soldi a palate. La casa era enorme. Quand’ero piccola aveva cinque stanze
da letto, ma ora era stata ampliata su ogni lato e sembrava contenerne
almeno quaranta.
Era solo una questione di tempo, pensai, prima che il papà cominciasse a
usare quei soldi per prepararsi alla Fine dei Giorni. M’immaginai il tetto
coperto di file di pannelli solari, disposti come un mazzo di carte.
“Dobbiamo essere autosufficienti,” mi sembrava di sentirlo dire mentre
trascinava i pannelli per la sua casa titanica. L’anno dopo avrebbe speso
centinaia di migliaia di dollari in attrezzature per setacciare la montagna in
cerca di acqua. Non voleva dipendere dallo Stato e sapeva che su Buck
Peak doveva esserci dell’acqua, bisognava solo trovarla. Ai piedi della
montagna sarebbero comparsi squarci grandi quanto campi da calcio,
lasciando una desolazione di radici spezzate e alberi abbattuti dove prima
c’era un bosco. “Me la cavo da solo,” avrebbe canticchiato il papà mentre
saliva su un cingolato dilaniando i campi di grano satinato.
La nonna in città morì il Giorno della mamma.
Stavo facendo delle ricerche in Colorado quando lo venni a sapere. Partii
subito per l’Idaho, ma mentre ero in viaggio mi resi conto che non sapevo
dove dormire. Fu allora che mi ricordai di zia Angie e che mio padre stava
dicendo in giro che la zia aveva fatto mettere il suo nome su una lista nera
dei terroristi. La mamma l’aveva esclusa dalla sua vita; forse avevo qualche
speranza di riallacciare i rapporti con lei.
Zia Angie viveva accanto al nonno, così parcheggiai di nuovo lungo la
staccionata bianca. Bussai. La zia mi accolse educatamente, come aveva
fatto il nonno. Capii subito che negli ultimi cinque anni aveva sentito molte
cose sul mio conto da mia madre e mio padre.
“Facciamo un patto,” dissi. “Dimenticherò tutto quello che il papà ha
detto su di te, se tu dimenticherai tutto quello che ha detto su di me.” La zia
scoppiò a ridere chiudendo gli occhi e rovesciando la testa all’indietro, e
quasi mi si spezzò il cuore. Sembrava di vedere mia madre.
Rimasi da zia Angie fino al funerale.
I giorni prima della funzione, i fratelli di mia madre cominciarono a
riunirsi nella loro casa d’infanzia. C’erano le mie zie e i miei zii, ma alcuni
di loro non li vedevo da quand’ero bambina. Zio Daryl, che conoscevo
appena, propose agli altri di passare un pomeriggio in uno dei suoi ristoranti
preferiti, a Lava Hot Springs. Mia madre rifiutò. Non poteva andare senza
mio padre, e lui non voleva più avere niente a che fare con Angie.
Era un soleggiato pomeriggio di maggio quando salimmo tutti su un
grosso furgone e partimmo per il viaggio di un’ora. Sapevo che avevo preso
il posto di mia madre e la cosa mi faceva sentire a disagio. Stavo andando
insieme ai suoi fratelli e al suo unico genitore rimasto a fare una gita per
ricordare sua madre, quella nonna che non avevo mai conosciuto bene. Mi
resi conto ben presto che il fatto che non la conoscessi era meraviglioso per
i suoi figli, che traboccavano di ricordi e amavano rispondere alle domande
su di lei. A ogni racconto l’immagine di mia nonna si faceva sempre più
nitida, ma la donna che stava prendendo forma da quei ricordi non
somigliava affatto alla donna che ricordavo io. Fu allora che capii quant’ero
stata crudele nel giudicarla e quanto avessi una percezione distorta di lei, a
forza di guardarla con gli occhi severi di mio padre.
Durante il viaggio di ritorno, zia Debbie m’invitò ad andarla a trovare
nello Utah. Zio Daryl le fece eco: “Ci farebbe molto piacere averti da noi in
Arizona”. Nell’arco di un giorno avevo ritrovato una famiglia – non la mia,
ma quella di mia madre.
Il funerale fu il giorno dopo. Rimasi in un angolo della chiesa e guardai i
miei fratelli arrivare alla spicciolata.
C’erano Tyler e Stefanie. Avevano deciso di istruire i loro sette figli a
casa e, da quel che avevo visto, i bambini stavano ricevendo un’istruzione
di altissimo livello. Poi entrò Luke, con una prole così numerosa che persi il
conto. Quando mi vide mi venne incontro e chiacchierammo per diversi
minuti. Nessuno dei due accennò al fatto che non ci vedevamo da cinque
anni e nessuno dei due accennò al motivo. Credi a quello che dice il papà
su di me? avrei voluto chiedergli. Credi che sia pericolosa? Ma non lo feci.
Luke lavorava per i miei genitori e, senza titoli di studio, aveva bisogno di
quel lavoro per mantenere la sua famiglia. Forzarlo a prendere una
posizione non avrebbe portato altro che sofferenza.
Richard, che stava finendo un dottorato in chimica, era venuto
dall’Oregon insieme a Kami e ai bambini. Mi sorrise dal fondo della chiesa.
Alcuni mesi prima mi aveva scritto, chiedendomi scusa per aver creduto al
papà e non avermi aiutato nel momento del bisogno, e dicendo che da allora
in avanti potevo contare su di lui. Siamo una famiglia, diceva.
Audrey e Benjamin scelsero una panca sul fondo. Audrey era arrivata
presto, quando la chiesa era ancora vuota. Mi aveva preso per un braccio e
aveva mormorato che rifiutarmi di vedere il papà era un grave peccato. “È
un grand’uomo,” disse. “Ti pentirai per il resto della tua vita di non aver
abbassato la testa e ascoltato i suoi consigli.” Erano le prime parole che mi
diceva dopo anni e non seppi come rispondere.
Shawn arrivò pochi minuti prima della funzione insieme a Emily, Peter e
una bambina piccola che non avevo mai visto. Non l’avevo più incontrato
dalla sera in cui aveva ucciso Diego. Ero tesa, ma non ce n’era bisogno.
Non mi guardò nemmeno una volta durante la messa.
Il mio fratello più grande, Tony, si sedette insieme ai miei genitori,
circondato dai suoi cinque figli. Tony aveva preso un attestato di diploma
equivalente e fondato una sua compagnia di autotrasporti a Las Vegas, che
però non era sopravvissuta alla crisi. Adesso lavorava per i miei genitori,
come Shawn, Luke e le loro mogli, e come Audrey e suo marito Benjamin.
Ora che ci pensavo, tutti i miei fratelli tranne Richard e Tyler dipendevano
economicamente dai miei genitori. La mia famiglia si stava spaccando a
metà: i tre che avevano lasciato la montagna e i quattro che erano rimasti. I
tre che avevano un dottorato e i quattro senza diploma di scuola superiore.
Si era aperta una crepa, e si stava allargando.
Sarebbe passato un anno prima che tornassi nell’Idaho.
Alcune ore prima del mio volo da Londra scrissi a mia madre – come
facevo sempre, come farò sempre – per chiederle se voleva vedermi. Di
nuovo, la sua risposta non si fece attendere. Non voleva vedermi, non
l’avrebbe mai fatto se non ero disposta a incontrare anche mio padre.
Vedermi senza di lui, disse, sarebbe stata una mancanza di rispetto nei
confronti di suo marito.
Per un momento mi sembrò inutile, questo pellegrinaggio annuale a una
casa che continuava a rifiutarmi, e mi chiesi se dovevo lasciar perdere. Poi
mi arrivò un altro messaggio, questa volta da zia Angie. Diceva che il
nonno aveva annullato i suoi programmi per il giorno dopo e che non
sarebbe nemmeno andato al tempio, come faceva ogni mercoledì, perché
voleva esserci se fossi passata a trovarlo. A questo zia Angie aggiungeva:
Noi due ci vediamo tra circa dodici ore! Tra poco!
11
Il corsivo è una parafrasi della conversazione a cui si fa riferimento e non una citazione diretta.
Il senso è stato mantenuto.
40.
L’educazione

Quand’ero bambina aspettavo di crescere, di accumulare esperienze e fare


delle scelte, di formarmi come persona. Quella persona, o quella sembianza
di una persona, aveva delle radici. Appartenevo a quella montagna, la
montagna che mi aveva creato. Solo quando diventai più grande mi chiesi
se sarei sempre stata così – se il modo in cui si forma una persona
determina per forza di cose quella che sarà in futuro.
Mentre scrivo le parole finali di questa storia non vedo i miei genitori da
anni, per la precisione dal funerale di mia nonna. Sono in contatto con
Tyler, Richard e Tony, e da loro, così come da altre famiglie, ho notizie del
continuo dramma in atto sulla montagna – gli infortuni, le violenze, i colpi
bassi. Ma ora, fortunatamente, tutto questo mi arriva come una voce
lontana. Non so se il distacco sarà permanente o se un giorno troverò il
modo di tornare, ma mi ha aiutato a recuperare serenità.
Non è stato facile arrivarci. Ho passato due anni a elencare i difetti di mio
padre, aggiornando costantemente la lista, come se ricordare ogni rancore,
ogni gesto di crudeltà e indifferenza vero o immaginario potesse giustificare
la mia decisione di escluderlo dalla mia vita. Fatto questo, credevo che non
avrei più provato tutti quei sensi di colpa e avrei potuto riprendere fiato.
Ma la giustificazione non può cancellare il senso di colpa. Nessuna
rabbia, nessun rancore verso gli altri può soffocarlo, perché il senso di colpa
non riguarda mai gli altri. Il senso di colpa è paura della propria mediocrità.
Non ha niente a che fare con le altre persone.
Mi sono liberata del senso di colpa quando ho accettato la mia decisione
per quello che era, senza alimentare all’infinito vecchi rancori, senza
mettere sulla bilancia gli errori di mio padre piuttosto che i miei. Senza
pensare più a mio padre. Ho imparato ad accettare la mia decisione per me
stessa, per il mio bene, non per lui. Perché ne avevo bisogno, non perché lui
se la meritava.
Solo così potevo amarlo.
Quando mio padre faceva parte della mia vita, quando cercava di
controllare quella vita, lo vedevo con gli occhi di un soldato, attraverso le
nebbie del conflitto. Non riuscivo a vedere i suoi lati più teneri. Quando me
lo trovavo davanti, imponente e indignato, non riuscivo a ricordare come un
tempo poteva ridere fino a farsi venire le lacrime agli occhi. La sua severità
m’impediva di ricordare come stringeva deliziosamente le labbra – prima
che le fiamme gliele divorassero – quando un ricordo gli faceva venire i
lucciconi. Solo adesso riesco a ricordare queste cose, adesso che tra noi ci
sono chilometri di distanza e anni di silenzio.
Ma quel che si è messo tra me e mio padre è qualcosa di più del tempo o
della distanza. È un cambiamento interiore. Non sono più la figlia che mio
padre ha cresciuto, ma lui è il padre che l’ha cresciuta.
Se c’è stato un momento preciso in cui questa frattura, che era andata
incrinandosi e scheggiandosi per vent’anni, è diventata incolmabile, credo
sia stata quella sera d’inverno in cui mi guardai allo specchio del bagno
mentre, senza che lo sapessi, mio padre prendeva il telefono con le sue mani
nodose e componeva il numero di mio fratello. Diego, il coltello. Quello
che successe dopo fu terribile. Ma il vero dramma era già avvenuto in
bagno.
Era avvenuto quando, per motivi che non comprendo, non ero riuscita a
entrare nello specchio e a far uscire al mio posto quella che ero a sedici
anni.
Fino ad allora quella ragazza era sempre stata con me. Anche se
sembravo cambiata, anche se avevo un’istruzione prestigiosa e un aspetto
diverso, ero ancora lei. Al massimo ero due persone, una mente spezzata.
Lei era dentro di me e affiorava ogni volta che mettevo piede in casa di mio
padre.
Quella sera chiesi il suo aiuto e lei non rispose. Mi abbandonò. Rimase
dentro lo specchio. Le decisioni che presi da quel momento in avanti non
erano quelle che avrebbe preso lei. Erano le scelte di una persona cambiata,
di una persona nuova.
Potete chiamare questa presa di coscienza in molti modi. Chiamatela
trasformazione. Metamorfosi. Slealtà. Tradimento.
Io la chiamo un’educazione.
Nota al testo

Nel libro sono state inserite alcune note a piè di pagina per dar voce a
certi ricordi che sono diversi dai miei. Le note relative a due episodi –
l’ustione di Luke e la caduta di Shawn dal bancale – sono particolarmente
importanti e richiedono ulteriori spiegazioni.
In entrambi i casi le discrepanze tra le versioni sono molte e svariate.
Prendiamo l’ustione di Luke. Tutti quelli che erano presenti quel giorno, o
hanno visto qualcuno che non c’era o non hanno visto qualcuno che c’era. Il
papà ha visto Luke e Luke ha visto il papà. Luke ha visto me, ma io non ho
visto il papà e il papà non ha visto me. Io ho visto Richard e Richard ha
visto me, ma Richard non ha visto il papà, e né il papà né Luke hanno visto
Richard. Come dare un senso a tante contraddizioni? Gira e rigira, alla fine
l’unica persona sulla cui presenza sono tutti d’accordo è Luke.
La caduta di Shawn dal bancale è ancora più sconcertante. Io non c’ero.
La mia descrizione dei fatti si basa sulle testimonianze di altri, ma sono
convinta che sia vera perché l’ho sentita raccontata allo stesso modo per
anni, da più persone, e perché anche Tyler ha sentito la stessa storia.
Quindici anni dopo, i suoi ricordi combaciavano con i miei. Così li ho
trascritti. Poi è comparsa quest’altra versione, secondo cui non c’è stata
nessuna attesa. L’elicottero è stato chiamato subito.
Mentirei se dicessi che questi dettagli non contano, che il “quadro
d’insieme” è lo stesso a prescindere dalla versione a cui si crede. Questi
dettagli sono importanti. O mio padre ha fatto scendere Luke dalla
montagna da solo, o non l’ha fatto; o ha lasciato Shawn sotto il sole con un
grave trauma cranico in corso, o non l’ha fatto. Da quei dettagli emerge un
padre diverso, un uomo diverso.
Non so a quale versione credere della caduta di Shawn. Cosa ancora più
strana, non so a quale versione credere dell’ustione di Luke, anche se c’ero.
Rivedo ancora la scena. Luke è sull’erba. Mi guardo attorno. Non c’è
nessun altro, non c’è l’ombra di mio padre né ho un vago ricordo della sua
presenza. Non c’è e basta. Ma nei ricordi di Luke il papà c’è, e lo sdraia
delicatamente dentro la vasca da bagno, dandogli un rimedio omeopatico
per lo shock.
Quello che posso concludere da tutto questo è una rettifica, non ai miei
ricordi ma alla mia comprensione. Siamo tutti molto più complessi di quel
che traspare dai ricordi altrui. Questo è particolarmente vero nelle famiglie.
Quando uno dei miei fratelli ha letto per la prima volta la mia descrizione
della caduta di Shawn, mi ha scritto: “Non credo che sia stato il papà a
chiamare il 911. Shawn sarebbe morto prima”. Ma forse no. Forse, dopo
aver sentito il cranio di suo figlio spaccarsi, il tonfo desolato di ossa e
cervello sull’asfalto, nostro padre non era più l’uomo che credevamo,
l’uomo che davamo per scontato. Ho sempre pensato che mio padre amasse
i suoi figli, profondamente, e ho sempre pensato che il suo odio per i dottori
fosse ancora più profondo. Ma forse mi sbaglio. Forse in quel momento,
quel momento drammatico, il suo amore soffocò sia la sua paura che il suo
odio.
Forse la vera tragedia è che avessimo questa idea di lui, io e mio fratello,
perché la sua reazione in altri momenti – in migliaia di drammi e crisi
minori – ci costringeva a vederlo così. A pensare che se fossimo caduti noi,
non sarebbe intervenuto. Che saremmo morti prima.
Siamo tutti più complessi dei ruoli che ci assegnano le storie. È una verità
che ho capito in pieno solo nel momento in cui mi sono seduta a scrivere
questo libro e ho cercato di definire su carta le persone a cui voglio bene, di
restituire il loro significato in una manciata di parole, cosa che ovviamente
è impossibile. Questo, quindi, è il massimo che posso fare: raccontare
quell’altra storia accanto a quella che ricordo. La storia di una giornata
d’estate, di un incendio, dell’odore di carne bruciata, e di un padre che aiuta
suo figlio a scendere dalla montagna.
Ringraziamenti

Se ho potuto scrivere questo libro lo devo innanzitutto ai miei fratelli


Tyler, Richard e Tony, senza i quali non avrei mai potuto vivere né
raccontare certe cose. Da loro e dalle loro mogli, Stefanie, Kami e Michele,
ho appreso molto di quel che so della mia famiglia.
Tyler e Richard sono stati particolarmente generosi nel dedicarmi il loro
tempo e i loro ricordi, leggendo varie stesure, aggiungendo dettagli e in
generale aiutandomi a rendere il libro il più accurato possibile. Anche se su
certi particolari avevamo prospettive diverse, la loro disponibilità a
verificare i fatti di questa storia mi ha permesso di scriverla.
Il professor David Runciman mi ha incoraggiato a scrivere questo libro ed
è stato tra i primi a leggere il manoscritto. Senza il suo appoggio, forse non
ci avrei mai creduto neanche io.
Ringrazio tutte le persone che dedicano la loro vita a lavorare con i libri e
che hanno dedicato parte della loro vita a questo libro: le mie agenti Anna
Stein e Karolina Sutton, i miei fantastici editor Hilary Redmon e Andy
Ward di Random House, e Jocasta Hamilton di Hutchinson, oltre a tutti
quelli che si sono dati da fare per revisionare, comporre e pubblicare questa
storia. In particolare, Boaty Boatwright dell’ICM è stato un vero modello
d’instancabilità. Un ringraziamento speciale va a Ben Phelan, che ha avuto
il difficile compito di verificare i fatti di questo libro, e che l’ha fatto con
grande sensibilità e professionalità.
Ringrazio di cuore tutti quelli che hanno creduto in questo lavoro prima
ancora che diventasse un libro, quando era solo un mucchio di fogli
stampati a casa. Tra questi primi lettori ci sono la dottoressa Marion Kant, il
dottor Paul Kerry, Annie Wilding, Livia Gainham, Sonya Teich, Dunni
Alao e Suraya Sidhi Singh.
Le mie zie Debbie e Angie sono ricomparse nella mia vita in un momento
cruciale e il loro sostegno è stato impagabile. Ringrazio il professor
Jonathan Steinberg per aver creduto in me fin dall’inizio. Un grazie di
cuore, infine, al mio caro amico Drew Mecham, che mi ha saputo dare un
rifugio, sia emotivo che concreto, dove scrivere queste pagine.
Indice

Nota dell’autrice
Prologo
Prima parte
1. Scegli il bene
2. La levatrice
3. Scarpe bianco crema
4. Donne apache
5. Fango onesto
6. Scudo e brocchiere
7. Il Signore provvederà
8. Piccole prostitute
9. Integro tra i suoi contemporanei
10. Scudo di piume
11. Istinto
12. Occhi da pesce
13. Silenzio nelle chiese
14. Senza terra sotto i piedi
15. Non più bambina
16. Un lupo tra le pecore
Seconda parte
17. Santificare
18. Sangue e piume
19. In principio
20. Racconti dei padri
21. Scutellaria
22. Sussurri e grida
23. Vengo dall’Idaho
24. Un cavaliere, errante
25. L’opera dello zolfo
26. Aspettando che si muovano le acque
27. Se fossi una donna
28. Pigmalione
29. Laurea
Terza parte
30. Mano dell’Onnipotente
31. Tragedia e poi farsa
32. Furore in una grande casa
33. Prodigi della fisica
34. Lo spessore delle cose
35. A ovest del sole
36. Mulini a vento
37. Scommettere sulla salvezza
38. Famiglia
39. Guardando i bufali
40. L’educazione
Nota al testo
Ringraziamenti

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