Era la tipica stanza senza finestre di uno qualsiasi delle migliaia di moderni palazzi per uffici, in cui da quando il mondo è diventato assolutamente virtuale qualsiasi parete può diventare una finestra, a piacimento di chi vi abita. Sembrava però che le persone presenti in quella stanza particolare non fossero disposte a indulgere anche all'illusione di una vista sul mondo; o forse quello che non apprezzavano era l'implicazione fondamentale di una finestra, cioè la possibilità di essere visti dall'esterno, oltre che di vedere. Le pareti erano cieche e spoglie, anche se brillavano di un bianco morbido, gettando una luce fredda e omogenea sul grande tavolo nero lucido al centro della stanza e sui cinque uomini seduti a una delle sue estremità. Sembravano in divisa. Magari un risvolto o una cravatta erano più stretti o più larghi, ma solo quei piccoli indizi sulla loro età o sulle loro preferenze nel campo della moda li differenziavano l'uno dall'altro. Per il resto, le cravatte erano tutte di toni dimessi, le camicie erano bianche o di colori tenui a tinta unita. Sotto quasi tutti i punti di vista erano persone prive di aspetti degni di nota e indossavano quella loro normalità come un travestimento. Era l'una.
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"Allora quando sarà pronto?" disse quello seduto al centro del gruppo. "È già pronto", disse quello che si trovava più lontano da lui nella parte a sinistra del tavolo, un uomo di aspetto giovanile con i capelli color ferro e occhi grigio metallico. "I controlli sono stati installati diciotto mesi fa, hanno consolidato le loro posizioni e si sono preparati per passare alla modalità di massimo intervento." "E nessuno ha avuto sospetti?" "Nessuno. Non abbiamo avuto alcuna tolleranza per le fughe di notizie... e anche se ce n e fossero state non avrebbero costituito un grosso problema. L'ambiente è così intrinsecamente caotico che si potrebbe lasciar cadere una bomba nucleare tattica e ci sarebbe un sacco di gente che si strappa i capelli e recrimina, ma non ci sarebbe un'analisi di qualche utilità." L'uomo dall'aspetto giovanile fece una risata sprezzante. "Non c'è più nessuno interessato all'analisi, comunque. Il contesto è tutto rivolto all'immediatezza delle sensazioni e all'esperienza'. Anche quando il programma partirà, nessuno avrà la minima idea di quello che sta succedendo finché non sarà tutto finito, e allora sarà troppo tardi." L'uomo al centro si rivolse a uno dei due alla sua destra, un uomo più vecchio con la faccia profondamente segnata dalle rughe e capelli biondi ispidi ormai tendenti al bianco. "E la gente a Ecs? È sistemata?" L'uomo con i capelli brizzolati annuì. "Hanno raggiunto il punto di massimo risultato economico parecchi mesi fa. Tutte le proiezioni sono state conformi agli esiti nel mondo reale... se 'reale' è la parola giusta. Possiamo sollevare il mondo, perfetto. La leva è pronta. Tutto quello di cui abbiamo bisogno è scegliere il posto a cui appoggiarci." L'uomo al centro annuì. "Va bene. Le vostre due sezioni dovranno lavorare a strettissimo contatto su questo punto, come avete già fatto in passato. Fate attenzione a scegliere il 'punto' giusto... e quando cominciate a fare forza, non risparmiatevi. Voglio che tutto sia buttato all'aria. Un sacco di gente sta guardando questa dimostrazione e si aspettano di vedere qualcosa di spettacolare per tutti i fondi che hanno investito in questo affare. Scusatemi. Volevo dire 'investito lateralmente'", gli altri sorrisero, "per ottenere i migliori risultati possibili. Dovete essere assolutamente sicuri che la posizione finale corrisponda ai
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modelli. Non voglio che poi qualcuno mi venga a raccontare di 'risultati ambigui'." I due a cui si era rivolto annuirono. "Benissimo", disse l'uomo al centro. "Il pranzo con quelli di Tokagawa è all'una e mezza. Non arrivate in ritardo. Vogliamo fare una presentazione unificata, e sapete quanto sia ligio alle buone maniere quel miserabile vecchio nanerottolo." "Se funzionerà", disse uno degli uomini a cui non si era mai rivolto, "non dovremo preoccuparci più delle buone maniere. Sarà lui quello che dovrà guardarsi alle spalle." L'uomo al centro si volse a guardarlo: un movimento lento, deliberato, di rotazione della testa, come un meccanismo di puntamento che ruota sulle sue sospensioni cardaniche e si fissa sul bersaglio. "Se...?" disse. L'altro impallidì leggermente e abbassò lo sguardo sul tavolo. L'uomo al centro mantenne fissa la propria espressione per qualche secondo ancora, poi si alzò. Gli altri lo imitarono. "L'auto sarà qui all'una e cinque", disse. "Andiamo avanti." L'uomo che era impallidito fu il primo a uscire, seguito subito dall'unico che non aveva parlato. Il giovane dai capelli grigio metallico lanciò un'occhiata all'uomo al centro, poi seguì gli altri. La porta si chiuse. Allora l'uomo al centro ridacchiò sottovoce. "Una bomba nucleare, eh? Potrebbe anche essere divertente." L'uomo con i capelli brizzolati assunse un'espressione leggermente sardonica e si alzò per raggiungere gli altri. "Beh", disse, "francamente, non so se me ne importerebbe. Probabilmente penserebbero che sia un evento magico..."
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Guado di Artel Talairn.
Regno Virtuale di Sarxos: tredicesimo giorno del mese verde. Anno del Drago-sotto-la-pioggia. Quel posto era talmente maleodorante che sembrava di trovarsi vicino a un impianto di trattamento dei liquami che avesse subito un guasto. Fu ciò che colpì di più Shel mentre scostava l'orlo della tenda e guardava all'esterno, nella luce del tramonto che sfumava. Gettò uno sguardo stanco allo spettacolo, illuminato da una luce color ruggine e striato d'ombre, dei boschi di pini, dei campi digradanti e delle rive del fiume che erano diventati, intorno a mezzogiorno, un campo di battaglia. Poi, per la magia di un istante, era stato esattamente quello che un luogo del genere sarebbe stato nei sogni più belli: gli eserciti schierati a ranghi serrati, le lance che luccicavano, le insegne che sventolavano brillanti nel vento vivace e sotto il sole e le trombe d'ottone che squillavano la propria sfida da una parte e dall'altra del fiume che era stato il confine fra i due schieramenti, il suo e quello di Delmond. Delmond era sceso marciando lungo la strada che portava al fiume, con i suoi duemila cavalieri e tremila fanti e aveva inviato l'araldo Azure Alaunt sull'acqua con la solita aria sprezzante, o meglio con lo spregio che era diventato tipico di Delmond man mano che si apriva la strada fra i principati minori di Sarxos. Non c'era stata nessuna delle cortesie che di solito un comandante offriva all'avversario; nessuna offerta di combattimento in singolar tenzone per risparmiare agli eserciti lo spargimento di sangue che doveva seguire; neanche il suggerimento, di buon senso e pragmatismo, che gli ufficiali dei due eserciti si incontrassero per valutare la possibilità che una delle due parti acquistasse i contratti dei mercenari dell'altra, una mossa che spesso poteva risparmiare una battaglia, dal momento che uno dei due eserciti avrebbe in questo modo raddoppiato le proprie forze a spese dell'altro, che le avrebbe dimezzate. No, Delmond voleva conquistare il piccolo territorio di Talairn, che era di Shel, dall'altra
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parte dell'Artel; e più ancora, cercava lo scontro a tutti i costi, voleva l'odore del sangue nel pomeriggio e gli squilli delle trombe. Così Shel aveva deciso di accontentarlo. Non aveva senso far finta che non fosse stato sufficiente. Le tattiche di Delmond erano state davvero insolenti: nessun esploratore, nessun tentativo di effettuare una ricognizione o di preparare il campo di battaglia in anticipo. Era semplicemente sceso direttamente dalla Via del Nord verso il fiume Artel come se non ci fosse assolutamente nulla da temere e, dopo quella breve pausa per esibire il suo sprezzo formale alle truppe schierate sull'altra riva, Delmond aveva guadato l'Artel alla testa delle sue truppe, puntando direttamente alla dolce salita erbosa sull'altra riva del fiume, come se non ci fosse assolutamente nulla di cui aver paura nell'attaccare dal basso, con una cavalleria già schierata. Delmond era diretto a Minsar, la piccola città a circa due miglia sulla strada del guado dell'Artel. Evidentemente aveva deciso che la forza combinata di cinquecento cavalieri e duemila fanti che Shel aveva posizionato fra il fiume e la strada per Minsar era un ostacolo che poteva spazzar via facilmente; tanto più che, a giudicare dalla mancanza delle insegne di comando sul grande stendardo delle forze di Talairn, Shel evidentemente non era con loro. Ma l'Artel era un vecchio fiume, che si piegava in meandri e anse semicircolari fra le morbide colline rivestite di pini fra le quali scorreva. Quelle colline celavano molti segreti, ben noti a chi era abituato a percorrerle. Un vasto numero di sentierini e strade nascoste, percorsi dei cacciatori e piste della selvaggina, che si intersecavano più e più volte fra i meandri del fiume... e i percorsi e i sentieri erano tutti ben nascosti fra i rami fitti dei pini e degli abeti torreggianti. Il terreno sotto quei grandi alberi antichi era rivestito da una fitta coltre di vecchi aghi secchi che avrebbero attutito il suono di chiunque si spostasse là sotto. Era stato così che, quando le forze di Delmond si erano trovate a metà del guado (la cavalleria davanti, i fanti a seguire, con la cavalleria che cominciava quasi per caso ad affrontare la cavalleria di Talairn disposta più in alto), erano state colte del tutto di sorpresa da Shel e da ottocento cavalieri scelti che erano piombati giù dalle colline
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circostanti da entrambe le rive del fiume e avevano attaccato i cavalieri e i fanti di Delmond ai fianchi. La cavalleria di Delmond, bloccata sulla riva del fiume dalla parte di Minsar o ancora impegnata a tentare di uscire dall'acqua, era stata spinta fra il fango, le canne e i falaschi dalle due parti del guado e lì era stata massacrata dai fanti di Shel, armati di alabarde. I soldati a piedi di Delmond, come era prevedibile e sensato, avevano cercato di scampare all'agguato, ma non c'erano posti in cui avrebbero potuto rifugiarsi. La cavalleria di Talairn, con Shel alla testa di uno dei quattro gruppi che erano spuntati dal riparo dei pini, li aveva circondati e aveva cominciato ad abbatterli come un raccolto di sangue. Nel giro di poco tempo, la battaglia era terminata. Messa così, sembrava un'impresa semplice, ma niente era stato facile. Un resoconto veritiero della battaglia avrebbe dovuto ricordare anche le ore e ore, a partire da prima dell'alba, che Shel aveva passato a sistemare le sue truppe a cavallo sulle colline, tutti gli spostamenti effettuati in un silenzio totale, mentre pregava che la nebbia che copriva il fiume non si levasse finché tutti i suoi uomini non fossero al riparo. Per non parlare del freddo micidiale sotto i pini, nelle prime ore del giorno, con il fiato che si condensava in nuvolette di fumo e i denti che battevano, seguito, nel volgere di un paio d'ore soltanto, dal calore soffocante di una giornata primaverile insolitamente calda, da togliere il respiro; i morsi degli insetti, il prurito pazzesco degli aghi di pino sotto la tunica di Shel e sotto la cotta mentre strisciava da postazione a postazione, per controllare che i suoi fossero dove dovevano essere, rincuorandoli qui e là con qualche parola di incoraggiamento ben mirata, quando in realtà sarebbe stato lui ad aver bisogno di essere rincuorato, ma non osava farlo trasparire. La descrizione avrebbe dovuto includere la fitta di paura allo stato puro che lo aveva attraversato quando aveva sentito la sfida delle trombe d'ottone di Delmond che scendeva dalla strada sulla riva lontana del fiume, mentre si avvicinava al guado. L'attesa, mista al timore estremo che almeno a quel punto Delmond potesse pensare di inviare qualcuno in ricognizione fra i pini, ma poi era arrivato il sollievo, accompagnato da un'ira irrefrenabile, quando realizzò che Delmond non aveva fatto nulla di simile. Grazie a Rod per questi
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piccoli favori, pensò Shel e, un secondo dopo, furioso: Per che razza di generale mi ha preso? Farò vedere a quel figlio di... E poi un ultimo, tremendo brivido di paura, quando le forze di Delmond stavano guadando il fiume, continuando a suonare a perdifiato le loro trombe. Che cosa pensano che sia, una parata del Memorial Day?... Vedremo chi avrà bisogno di una commemorazione, fra un paio d'ore! Frattanto l'esercito avversario era arrivato fino all'altro lato del guado, di fronte alle sue truppe in attesa: le sue truppe, guidate dalla giovane ed entusiasta Alla, suo luogotenente, che non aveva ricevuto altro ordine se non "Non farli passare! Resisti!". Avevano resistito. Avevano dovuto stare lì fermi senza tregua e combattere da soli, abbastanza a lungo da garantire che tutta la cavalleria di Delmond abboccasse all'amo e attraversasse il fiume per arrivare al terreno in salita, a loro sfavorevole. Se qualcuno fosse rimasto sull'altra riva del fiume, tutta la tattica di Shell, pianificata con cura, sarebbe andata direttamente al diavolo. Ma la psicologia di combattimento del suo avversario a quel punto era fin troppo evidente. Qualche vittoria contro avversari negligenti o sfortunati aveva convinto Delmond della sua abilità come valido stratega, anche se Shel sapeva che Delmond non aveva grandi capacità in nessuna delle due arti. Tutto quello che serviva allora era un'apertura ovvia, per una vittoria apparentemente facile, che inducesse Delmond a compiere la mossa apparentemente vincente. Delmond l'aveva bevuta... e anche allora Shel aveva dovuto soffrire parecchi minuti di tormento e di incertezza, mentre la sua piccola forza sull'altra riva del fiume manteneva le posizioni e sosteneva la prima carica di Delmond. Allora, insieme ai suoi cavalieri scelti, allora Shel aveva potuto salire in sella e dare fiato al suo corno per segnalare la carica e aveva condotto i suoi cavalieri all'attacco dai fianchi delle colline in un frastuono di zoccoli e pietre smosse, prendendo la fanteria di Delmond allo scoperto da sinistra e da destra e la sua cavalleria divisa alle spalle e sui due fianchi. L'urlo "Per Shel! Per Shel!" era salito dalle sue truppe sulla riva del fiume di Minsar, la disperazione trasformata in rabbia e trionfo in un solo attimo, mentre le forze del nemico avevano cominciato ad aprirsi la strada verso di lui, e lui con i suoi cavalieri verso di loro.
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Il peggio era effettivamente passato circa mezz'ora dopo, anche se la pulizia, come al solito, aveva richiesto fino al tramonto... non che alla fine ci fosse qualcosa di molto più pulito. Tutti i sopravvissuti trovati erano stati raggruppati e disarmati. I combattenti feriti erano stati raccolti e condotti da lui; quelli che potevano essere riscattati, quelli che era stato possibile identificare dopo che avevano tentato di rendersi irriconoscibili, erano stati separati dagli altri; poi erano state raccolte le loro garanzie ed erano stati lasciati in libertà. Shel aveva dovuto sovrintendere a tutto, sempre più esausto con il passare del tempo. E ora era tutto finito, tranne la parte più importante, il motivo per cui tutta la battaglia era stata combattuta: trattare con Delmond. A dire il vero Shel non ci aveva veramente pensato in anticipo, ed era ancora sorpreso che Delmond fosse cascato nella sua trappola. Ma in fondo anche gli svizzeri si erano stupiti quando gli austriaci erano caduti a Morgarten per una variazione sullo stesso tema. Delmond non era mai stato un grande studioso, perciò era condannato a ripetere i madornali errori militari dei secoli passati. Shel, per parte sua, pensava che Delmond se l'era proprio meritata. All'esterno, le trombe stavano suonando una versione stanca del recheat, con cui segnalavano che tutti i feriti erano stati raccolti e che a quel punto i civili, i mariti e le mogli dei caduti che avevano seguito i due eserciti, potevano reclamare i corpi dei loro parenti. Shel diede un ultimo sguardo al campo di battaglia, che si andava sempre più immergendo in un'ombra rarefatta tinta di rosa, mentre la nebbia saliva dall'Artel e copriva il terreno, nascondendo pietosamente quello che ancora vi giaceva. Dopo un momento lasciò ricadere l'orlo della tenda e andò a sedersi sulla sedia da campo vicino alla sua tavola da carteggio, con un profondo sospiro che esprimeva tutta la stanchezza della lunga giornata. Quando aveva combattuto la sua prima battaglia a Sarxos, qualche anno prima, Shel portava con sé le immagini consuete di come poteva presentarsi il campo dopo una grande battaglia: il suo stendardo che ondeggiava coraggiosamente sopra il campo distrutto, e quello del nemico calpestato nella polvere. Ora, con un po' più di esperienza alle spalle, molte battaglie perse e vinte, sapeva che la polvere preziosa su uno di quei campi di battaglia valeva davvero poco. Quella mattina,
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nella luce del sole, la leggera salita che partiva dal guado era stata una grande distesa di erba verde, pascolo per le greggi di pecore, tutta punteggiata di margherite bianche e di fiori gialli. Ora, dopo essere stata calpestata da ventimila zoccoli e diecimila piedi, era ridotta a fango. Fango rosso, che si attaccava agli stivali con orribile tenacia. Lo stendardo del suo nemico, ben calpestato, era solo un altro pezzo di tessuto madido, indistinguibile dalla tenda crollata di qualsiasi soldato, o dalla sopraveste di un nobilotto, abbandonata dal proprietario per non essere catturato e trattenuto in attesa di un pingue riscatto. E il mattino dopo, l'odore del campo devastato faceva sentire Shel sopraffatto da tanta forza distruttiva. Non stupiva che i mariti, le mogli e gli altri parenti dei caduti si presentassero sempre non appena la battaglia fosse finita, o comunque molto prima dell'alba, a chiedere il permesso di cercare i corpi dei propri cari. Sapeva, per dolorosa esperienza, quale olezzo sarebbe aleggiato in quel luogo non appena il sole fosse sorto e avesse cominciato a riscaldare ogni angolo della terra. Shell aveva intenzione di trovarsi ben lontano da lì in quel momento. Era già fin troppo duro bandire l'odore nauseabondo del campo di battaglia, di intestini calpestati o di corpi sventrati, risultato del primo incontro con la guerra di molti giovani e coraggiosi soldati. La guerra è un inferno, diceva un vecchio adagio. Ma Shel si sentiva più incline a sostituire un'altra parola di cinque lettere al posto di "inferno". Certo avrebbe preferito il puzzo dello zolfo all'odore prevalente in quel momento. "È solo un gioco", si disse... e poi fece una smorfia. Il creatore del gioco, un artigiano attento e preciso, aveva eseguito il suo lavoro con troppo zelo perché quelle blande rassicurazioni potessero fare la differenza. Non era permessa alcuna azione per sfuggirne le conseguenze. L'aria avrebbe dovuto avere la dolcezza della sera incombente, ma non era così. Poi, ovviamente, ci sarebbe stata una grande celebrazione della vittoria di Shel, quando fosse tornato a Minsar, un vasto raduno per festeggiare gli eroi che avevano contribuito al successo; le bandiere avrebbero sventolato, le trombe avrebbero suonato e i bardi avrebbero cantato le loro lodi... ma non qui. Quel luogo non avrebbe potuto essere ripulito da nessuna forza
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eccetto che quella della Natura, che pure avrebbe avuto bisogno di qualche mese. Anche dopo che l'erba fosse tornata verde e le margherite fossero fiorite nuovamente, le pecore che pascolavano in quei prati avrebbero dovuto passare fra le spade, le punte delle frecce e le ossa macchiate dei teschi per parecchi anni. Per lo meno l'erba sarebbe stata di ottima qualità e lussureggiante, nella tarda estate. Il sangue è un fertilizzante straordinario... L'orlo della tenda si alzò. Una delle guardie di Shel sbirciò all'interno, un vecchio compagno che si chiamava Talch. Shel alzò lo sguardo su di lui. "Quando volete incontrarlo, signore?" gli chiese Talch. Era grosso, un cavaliere, ancora tutto inzaccherato di fango e sangue e Rod sa cos'altro. Puzzava, ma anche Shel non era certo profumato, e così tutti gli altri per un miglio intorno. "Fra venti minuti o giù di lì", disse Shel, tendendosi ad afferrare, dall'altra parte del tavolo, una caraffa di bibita al sapore di miele. "Ho bisogno di fare qualcosa per gli zuccheri del mio sangue, prima. Ha detto qualcosa?" "Neanche una parola." Shel alzò le sopracciglia, incoraggiato. Delmond era famoso per la sua tendenza a fare lo spaccone anche quando aveva perso, purché pensasse di avere una possibilità di cavarsela. "Bene. Hai mangiato qualcosa?" "Non ancora. Nick è stato a caccia. Ha preso un cervo e adesso lo stanno macellando. Ma nessuno a dire il vero ha molta voglia di mangiare qui..." "E perché dovrebbero? Non lo faremo. Spedisci qualcuno a Minsar per accendere i fuochi e cucinare al di fuori delle mura. Ci accamperemo là stanotte. È di ad Alla che la voglio a rapporto immediatamente." Talch annuì e lasciò ricadere l'orlo della tenda. Shel rimase a fissarlo, chiedendosi, come faceva a volte, se Talch fosse un giocatore o un costrutto, uno dei tanti personaggi "extra" contenuti nel gioco stesso. Ce n'erano molti, perché la maggior parte dei giocatori preferisce interpretare personaggi più interessanti rispetto ai soldati o ai civili al seguito della truppa; ma non si può mai dire. Uno dei più grandi generali dei ventidue anni di esecuzione di Sarxos, il maestro
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di cavalleria Alainde, aveva passato quasi due anni a ricoprire il ruolo del lavandaio al servizio del granduca Erbin, prima di iniziare la sua stupefacente ascesa nei ranghi dell'esercito. In ogni caso, nell'etichetta di Sarxos, la domanda "Sei un giocatore?" non si formulava mai. Rompeva l'incantesimo. Se un giocatore sceglieva di rivelarsi era diverso, e a quel punto lo si ringraziava per la fiducia. Ma a Sarxos c'erano decine di migliaia di giocatori che preferivano restare nell'anonimato sia per il nome, sia per la propria condizione sociale, individui che magari sprofondavano nel Regno Virtuale per divertirsi una sera ogni tanto, o che arrivavano tutte le sere, come faceva Shel, inseguendo qualcosa di specifico, divertimento, eccitazione, avventura, vendetta, potere, o semplicemente per fuggire dal mondo reale che talvolta diventava un po' troppo opprimente. Shel bevve un lungo sorso della sua bibita melata, si sedette e si mise a riflettere, distraendosi un istante per sgranchirsi e grattarsi. Altri aghi di pino nella tunica... ci sarebbero voluti giorni, prima di riuscire a liberarsene completamente. Avrebbe preferito svolgere il resto del lavoro che lo attendeva quella sera al mattino, ma non c'era modo di scoprire che genere di trucchi avrebbe potuto tentare di mettere in atto Delmond, se gliene si fosse lasciato il tempo. Anche nella sua posizione di forza, Shel non poteva ignorare la fama di viscido ingannatore che Desmond si era guadagnato. Sua madre, Tarasp delle Colline, era una principessa maga, notoriamente non allineata, che cambiava posizione fra la Luce e il Buio senza preavviso. Da lei Delmond aveva ereditato sia una piccola quantità di potere perché in grado di cambiare forma, sia una pericolosa instabilità di temperamento che lo rendeva capace di firmare un trattato di pace con una mano, mentre teneva nascosto nell'altra il coltello per sventrarti. Una volta aveva effettivamente tentato un assassinio di quel genere in una tenda in cui avrebbe dovuto scendere a patti con qualcun altro che lo aveva sconfitto in battaglia. Nel gioco c'era chi ammirava quel tipo di tattiche, ma Shel non ne aveva molta stima e non aveva alcuna intenzione di farsi imbrogliare proprio in quel momento. Allo stesso tempo, Shel non era troppo affascinato dall'idea di ucciderlo. Appoggiata al palo che sosteneva la tenda, senza fodero, c'era la sua spada dalla lama ampia un palmo e mezzo: un'arma
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dall'aspetto molto semplice, in acciaio grigio con una sfumatura leggermente azzurra. Aveva molti nomi, come del resto la maggior parte delle spade di Sarxos, almeno quelle che valessero qualcosa. La spada che la gente lì intorno chiamava Ululante aveva una pessima reputazione, ed era famosa per la sua capacità di proteggere chi la possedeva senza che questi dovesse effettivamente impugnarla. Pochi avevano sentito l'urlo di Ululante ed erano sopravvissuti per raccontarlo. Shel inclinò il capo all'udire dei passi all'esterno accompagnati da una serie di rimproveri e quindi da robuste imprecazioni, nella lingua di Elstern. "Talch?" Una pausa, poi la sua guardia infilò la testa nella tenda. "Il ragazzo sta diventando impaziente?", chiese Shel. La guardia fece un sorrisetto sardonico: "Sembra che la sua dignità sia stata ferita, perché non gli abbiamo assegnato una tenda personale." "Dovrebbe considerarsi fortunato perché la sua dignità è l'unica cosa che gli sia stata ferita." "Penso che la maggior parte dell'accampamento sarebbe d'accordo. Nel frattempo, signore, Alla sta aspettando che lei sia pronto a cominciare." "Dille di entrare." "Subito, signore." L'orlo della tenda ricadde, poi fu scostato nuovamente. Alla entrò, con la maglia che tintinnava leggermente sulla sua lunga tunica di pelle di cervo mentre si muoveva e il cuore di Shel ebbe un sobbalzo, come gli capitava ormai da un po' di tempo quando la osservava dopo un combattimento. Era per la struttura fisica una valkiria: grande, robusta ma non troppo muscolosa, con i capelli di un biondo splendente, il volto che poteva passare dall'amichevole al selvaggio nel giro di pochi secondi... come le accadeva regolarmente sul campo di battaglia. Era un'altra delle persone nei cui confronti Shel provava una particolare curiosità, a Sarxos. Era reale da entrambi i lati dell'interfaccia, o solo da questo? Non glielo avrebbe chiesto, ma, nel caso di Alla, la reticenza di Shel aveva a che fare più con il suo nervosismo che con le regole del gioco. Non gli avrebbe fatto piacere scoprire che non c'era una Alla nel mondo reale, così come venire a
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conoscenza del fatto che ne esistesse una gli avrebbe immediatamente sollevato qualche problema. E che cosa farai allora? Ver il momento, lasciava perdere. Ma un giorno, pensò, un giorno troverò un modo per affrontare l'argomento... molto gradualmente. E se vorrà dirmi qualcosa, beh... "Come ti senti?", le chiese Shel. "Hai visto il chirurgo?" Lei si sedette, con un'espressione da cui si capiva che non ne vedeva molto la necessità. "Sì... mi ha ricucito la gamba. Non c'è voluto molto. Dice che sarà guarita per domani, mi ha curato con una di quelle pozioni magiche a effetto prolungato. E tu? Ti sei tolto il tremito dal tuo sistema nervoso?" "Per favore", disse Shel. "Ci vorrà una settimana o anche di più. Odio le battaglie." Alla fece roteare gli occhi in modo espressivo. "Devi... ne hai fatte così tante. Vuoi il resoconto adesso?" "Sì." "Dalla nostra parte: centonovantasei morti, trecentoquaranta feriti, dodici dei quali in condizioni critiche. Dalla parte delle forze di Delmond: duemilaquattordici morti, centosessanta e rotti feriti, di cui quaranta in condizioni critiche." Shel fischiò sottovoce. La notizia della spettacolarità di quel successo si sarebbe diffusa e sarebbe servita a tener lontani per un po' alcuni dei più affamati di territori e combattimenti fra gli abitanti del Continente Meridionale di Sarxos. Molti avrebbero pensato all'impiego di una strategia sofisticata. Molti più ancora avrebbero pensato che fosse stato merito della magia... il che andava benissimo a Shel. "Altri prigionieri?" "Trenta soldati di fanteria non feriti. Pochi i nobili non feriti, circa una decina. Quasi tutti gli altri sono rimasti feriti o sono caduti nel combattimento. Gli scampati sembra siano fuggiti, in prevalenza verso sud." "Verso le sue città. Che cos'ha questa gente? Vuole finire in pasto alla cavalleria?" Alla scrollò le spalle. Non era particolarmente interessata alla politica. Preferiva combattere e mangiare, anche se quel che faceva di tutte le calorie ingerite era un mistero eterno per Shel, e un po' anche
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fonte di invidia. Se solo guardava un pasticcio di carne o una fetta di cinghiale arrosto lui metteva su peso. "C'è altro?" chiese. "Faresti bene a dare un'occhiata ai contenuti delle loro salmerie", disse Alla, estraendo dalla tunica un pezzo di pergamena e tendendoglielo. Shel lo scorse e, nel leggere, rimase a bocca aperta. "Ma che... A che cosa gli serviva tutta questa roba?" "Sembra che dovesse esserci una grande celebrazione per la vittoria a Minsar stanotte", disse Alla, stirandosi pigramente, anche se il suo volto aveva quell'espressione ferina. "Vestì pregiate e cibi speciali, l'esibizione di un ricco bottino per i vincitori e l'umiliazione rituale per i perdenti... le solite cose. Cappio intorno al collo, mentre loro ci scagliano addosso ossa di manzo e piedini di maiale." Shel sbuffò. "Come se fosse probabile trovarne qualcuno in questo paese di pecore." "Già. Così, invece di un gran banchetto per la vittoria e di una collettiva sbornia colossale, ideati per innervosire gli altri signori locali, ora Delmond raccoglie i cocci e noi abbiamo le sue salmerie." Shell annuì, benché stesse ancora leggendo incredulo il manifesto di carico. "L'assoluta stupidità di portarsi appresso tutta questa roba... Non posso credere che sia così ingenuo... deve avere in mente qualcosa. Mi chiedo che cosa. Con chi ha trattato negli ultimi tempi? Qualcuno a cui poteva far comodo dar intendere di essere stupido, o dissennato?" Alla sollevò le sopracciglia. "Noi?" Shel la guardò. "Stai suggerendo che ci abbia ammannite questa battaglia intenzionalmente? Che si sia infilato nella trappola di proposito?" "A lui non importa molto della vita dei suoi, se gli fa comodo", rispose Alla. "Ma questa non sarebbe una novità." "Hmm." Shel rimase immobile a riflettere. "Beh, vedremo. Se non stava cercando di imbrogliare noi..." Si allungò sulla schiena, domandandosi se qualcuno dei suoi avversari recenti potesse nascondersi dietro le azioni di Delmond. Chi ne avrebbe tratto vantaggio? Argath forse? No, lui no... di solito è un po' più diretto. Elblai? No, lei si sta preparando a misurarsi con Argath, da quel che ho sentito dire... un tentativo di minare l'Alleanza Tripartita.
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Shel continuò a pensarci, lasciando vagare la mente sulle diverse possibilità mentre i suoi occhi si spostavano sul tavolino delle carte, dove giaceva un pezzo rotolante e fumante di pergamena. In quel momento le alleanze in tutto Sarxos stavano cambiando, da quando il Signore delle Tenebre aveva iniziato la nona uscita dell'anno dal suo territorio chiuso fra le montagne, nel tentativo di conquista finale di tutti i territori del Regno. Ogni volta che ci provava, i signori di Sarxos si univano per ricacciarlo indietro, ma l'ultima alleanza era stata un po' meno organizzata del solito, poiché aveva impiegato un po' troppo tempo per costituirsi... e il Signore delle Tenebre aveva avviato il suo giro di "iniziative diplomatiche" dopo la sconfitta molto prima del solito. Come se pensasse che questa volta potesse effettivamente vincere... Era una situazione complicata, come quasi tutto a Sarxos. Ecco perché quel gioco era così attraente. Nel frattempo, Shel avrebbe dovuto trattare Delmond in modo tale da non trovarsi immediatamente addosso i suoi nemici, in particolare sua madre, che aveva un certo potere nel Regno, con molti legami potenzialmente pericolosi. Doveva trattare Delmond in modo che sembrasse corretto, magari addirittura mostrarlo sotto una buona luce. "Penso che dovresti ucciderlo", disse Alla. Shel le rivolse un sorrisetto di traverso. "Non si guadagnano abbastanza punti", le rispose; ma non era la ragione vera, ed era certo che Alla ne fosse consapevole. Lei fece nuovamente roteare gli occhi. "Ti farà solo perdere tempo", gli disse. "Chi vuole diventare un giorno il Signore di Tutto il Grande Regno", disse Shel, "deve comportarsi correttamente anche all'inizio del gioco, non solo alla fine. Diciamo che si tratta di fare pratica, va bene? Qualche altra cosa che devo sapere a proposito del repulisti?" Alla scosse la testa. "I quartiermastri vogliono sapere quando trasformeremo tutta questa spazzatura in denaro. Le truppe stanno diventando un po', beh, irrequiete essendo così vicino a tanto oro." "Ero pronto a scommetterci. Ci occuperemo dei pagamenti domattina a Minsar. Domani è giorno di mercato; i gioiellieri e i commercianti di metalli preziosi di Vellathil saranno lì, felici di ritirare questa roba. Di' alle truppe che il pagamento sarà rigorosamente a
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percentuale, e che cederò la mia parte, in modo che sia destinata come contributo ai fondi per i funerali." Alla inarcò le sopracciglia. "Hai preso un brutto colpo in testa, oggi, capo?" "No, voglio solo assicurarmi una forza di volontari su cui far conto nel giro di qualche settimana. Nel frattempo, spilla qualche barile del vino che ci mettono a disposizione le salmerie del nostro previdente avversario e distribuiscilo fra le truppe. E libera le danzatrici. Dando per scontato che vogliano essere libere." "La maggior parte di loro sono già abbastanza 'libere'." "Beh, fai solo sapere loro che sono libere di andare dove vogliono." Shel sospirò. "Altro?" Alla fece un cenno di diniego. "Va bene", disse Shel. "Talch?" Costui infilò la testa nella tenda. "Signore?" "Signore" significava che Delmond era lì fuori. "Fai entrare il prigioniero", disse Shel. Un attimo dopo Delmond entrò con aria arrogante nella tenda di Shel. Gli avevano tolto l'armatura nera che era il suo elemento distintivo, ma anche in calzamaglia e haqueton trapuntato rimaneva una figura imponente: spalle larghe, muscoloso e tarchiato, il volto momentaneamente deformato dall'ira. L'unico capo d'abbigliamento che non gli era abituale era il collare di ferro chiuso attorno al collo, metodo infallibile per mantenere nella forma attuale qualcuno che poteva mutare aspetto. Lo seguiva un uomo alto, bello ed esile, vestito con una cotta d'arme decorata con un grande cane azzurro. Sia l'uomo che la cotta erano scrupolosamente puliti, notò Shel, mentre l'araldo si affrettava a spolverare la sedia vuota davanti al tavolo delle carte. Delmond si sedette con un grugnito. L'araldo si alzò e recitò, con un tono di voce più alto del dovuto: "Annuncio alle vostre Grazie la presenza del Signore Delmond Lavirh della Nera Veste, Principe di Elster e Signore Supremo di Chax". Ambedue i titoli erano abbastanza importanti, ma nessuno era tale che valesse la pena vantarsene con tanto fragore. Elster era un paese così diviso per motivi ereditari da avere decine di principi, e Chax era una regione di Sarxos piccola ma molto popolata nota soprattutto per le foreste di betulle, i suoi vini rossi leggeri, la posizione di
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importanza strategica per la confluenza di due grandi fiumi, e il continuo passaggio di mano in mano fra i giocatori principali almeno una volta ogni due settimane. Delmond, però, era arrivato a dominare Chax per caso... un fatto che divertiva seriamente alcuni dei giocatori più assidui ed esperti di Sarxos. Da quando l'aveva conquistato (perché il suo avversario aveva condotto malamente una battaglia) si era pavoneggiato fra i Regni come se fosse di gran lunga più prestigioso di quanto lo era realmente. Era una reazione tipica dei giocatori, soprattutto di quelli alle prime armi. Ogni tanto si assestavano e diventavano forze con cui bisognava fare i conti. Più spesso, incorrevano, in campo diplomatico o in battaglia, in momenti di declino spettacolari e almeno altrettanto rapidi di quanto lo era stata la loro fortuna, dopodiché si bruciavano e abbandonavano il gioco; oppure esaurivano a tal punto gli altri giocatori che qualche volta si riunivano le forze più improbabili con il dichiarato obiettivo di schiacciare ed eliminare il seccatore, in modo pubblico e ostentato. Finora Delmond non aveva raggiunto quella condizione, ma ci si stava avvicinando. Shel guardò l'araldo, poi Alla, e Alla annunciò, senza alzare la voce: "E qui c'è Shel Lookbehind di Talairn e Irdain, libero condottiero di un popolo libero, che oggi vi ha sconfitti in battaglia. Spetta a noi dettare le condizioni". L'araldo, Azure Alaunt, era inorridito, come se qualcuno avesse proposto una discussione sugli odori corporali. "Ascolterete ora le parole del Signore Supremo di Chax..." "Lui non dirà nulla", intervenne Alla, "finché il vincitore non avrà parlato e precisato le condizioni per accettare la vostra resa." Azure Alaunt si rizzò. "Prima il mio signore chiede che dimostriate la dovuta cortesia a noi suoi soldati, ferocemente armati, dalla grande forza, che abbiamo lottato con tragico esito nelle terribili fatiche della guerra odierna." "Scusami", disse Shel all'araldo. "Tu eri in mezzo alla battaglia, oggi, Azure Alaunt? Non penso proprio, perché non hai l'aspetto di tutti noi, e sicuramente non odori come tutti noi. Perciò puoi tralasciare il 'noi'."
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"Ehm. Ricordando che nessuno può resistere da solo contro le grandi forze del Signore delle Tenebre, se non restiamo uniti, saremo tutti..." "Oh, per favore, non tirare in ballo Benjamin Franklin", disse Shel. "Per quanto riguarda il resto, beh, in questo momento del Signore delle Tenebre non mi importa nulla." Delmond strabuzzò gli occhi. Aprì la bocca, come per dire qualcosa, poi la richiuse. "E adesso veniamo al sodo", disse Shel. "Non dovresti trovare così strano questo atteggiamento, dal momento che hai venduto il tuo contratto con le Forze Nere e ti sei messo in proprio non appena ne hai avuto la possibilità. Una decisione incerta, ma non c'è bisogno che te lo dica io adesso, anche se tutti hanno cercato di avvertirti a tempo debito. Anche tua madre. E adesso te ne stai seduto qui sperando che grazie alla stupidità, voglio dire la bontà, del mio cuore io sarò clemente e 'rispetterò le usanze della guerra' salvando il tuo posteriore dal pasticcio in cui ti sei andato a cacciare." Prese una lunga sorsata di bevanda addolcita col miele. "Beh, ho qualche novità per te. Le 'usanze della guerra', come sono onorate a Sarxos, dicono che di un prigioniero non riscattato posso fare quello che voglio. I miei maghi hanno parlato a tutte le parti potenzialmente interessate, sin dal primo pomeriggio. Non sono riusciti a raggiungere tua madre, per inciso; i suoi apprendisti maghi dicono che oggi 'è il giorno in cui si lava i capelli'. Non sono state avanzate offerte di riscatto per te... nemmeno quando abbiamo abbassato il prezzo. Mi dispiace. Perciò, a meno che non ci sia una proposta entro domani a quest'ora, cosa di cui francamente dubito, io potrò fare di te, personalmente, tutto quello che vorrò." Shel si appoggiò allo schienale della sedia e rimase a contemplare per un momento la sua coppa di bibita melata. Alla osservava Delmond senza batter ciglio, sorridente, come un gatto che aspetta di vedere da che parte salterà il topo. Poi Shel parlò nuovamente. "Ora, per parte mia io penso che sarebbe veramente divertente vederti trascinare in eterna schiavitù nelle fosse degli schiavi di Oron, Signore della Lunga Morte. Vedi, questo è il messaggio che mi ha inviato questo pomeriggio, chiedendo il privilegio della tua piacevole compagnia."
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Shel allungò la mano sul tavolo e afferrò con il coltello il frammento di pergamena fumante, augurandosi dentro di sé che l'inchiostro smettesse di fumare. L'effetto era sconcertante, e lui non riusciva a fare a meno di preoccuparsi che il messaggio incendiasse qualcosa di prezioso. "Non è un'offerta di riscatto. È un'offerta di acquisto. E ci sono circa duecento altri generali, signori e signore, insieme a piccoli e grandi nobili del Grande Regno e del Regno Virtuale di Sarxos, che mi consiglierebbero caldamente di accettare l'offerta. A me però la schiavitù non piace molto e i miei quartiermastri mi hanno convinto che sarebbe un affare assai più vantaggioso semplicemente spogliarti di ogni avere e abbandonarti a mendicare il pane sulle strade, in modo che i contadini, a cui hai rovinato la vita, bruciando i campi e distruggendo ogni loro mezzo di sostentamento, possano lanciarti mangime per animali mentre passi." Delmond rabbrividì visibilmente. "Sicuramente sarebbe più utile per te, intendo dire dal punto di vista politico, sequestrare il mio esercito e rimandare me e la mia proprietà a casa con una scorta adeguata." "Scusa?" Shel si infilò un dito nell'orecchio e cominciò ad agitarlo come per stapparselo. "Giurerei di averti sentito affermare di possedere un esercito. Quella misera banda di rimasugli nel recinto là fuori, incatenati, col sedere floscio, quelle duecento reclute senza cavalli e senza armi: quell'esercito? Oh." Si diceva da tempo che Delmond non cogliesse l'ironia, e Shel scoprì a quel punto che era proprio vero. "Non quest'esercito", disse Delmond frettolosamente. "L'altro." Shel scoppiò in una risata fragorosa. "Mi dispiace", disse. "Se ne hai un altro nascosto da qualche parte, cosa di cui dubito molto, non sarà tuo a lungo. Non dopo che si diffonderanno le notizie su quel che è accaduto questo pomeriggio." E Shel sperava che fosse vero. Era abbastanza probabile che Delmond avesse un altro esercito... ma non era una cosa che Shel fosse disposto ad ammettere in quel momento. "E anche se ne avessi un altro, perché dovrei ambire a possederlo, vista la qualità delle tue truppe? Sempre che 'qualità' sia la definizione appropriata in questo caso." "Terra, allora."
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Shel sospirò. "Non voglio i tuoi possedimenti." Considerevoli pensò, ma non era il momento giusto per parlare delle sue ambizioni personali con Delmond. La battaglia appena conclusa faceva parte di una lunga serie di iniziative di cui aveva discusso con altri due generali di Sarxos di cui Shel si fidava... beh, nella misura in cui era possibile fidarsi di chiunque giocasse a Sarxos: cioè mantenendo la debita distanza. Se le cose fossero andate per il verso giusto nei mesi successivi, Shel sarebbe entrato e avrebbe preso con la forza le terre di Delmond e tutti gli altri a Sarxos, comprese le popolazioni che vivevano in quei luoghi, avrebbero approvato con gratitudine il cambiamento. Per il momento, però, Shel disse: "No, grazie. Sono molto più interessato ai tuoi beni mobili e ti sta proprio bene perderli. Non riesco a immaginare perché ti porti appresso tutta questa spazzatura, se non che tu sia troppo viziato per mangiare in piatti normali sul campo, come chiunque altro. Mezzo acro di broccato per una tenda, mezza tonnellata di stoviglie d'oro, una decina di armature cerimoniali complete, una brigata di danzatrici..." "Non puoi prendermi quelle cose! Sono la dote regale della mia casa da tempo immemorabile!" "Delmond, le ho già prese. Oggi hai perso la battaglia. Questa è la parte della guerra che si chiama 'dettare le condizioni della resa'. Non te n'eri accorto? E comunque, i nove decimi dei tuoi averi perduti li hai rubati a Elansis di Schirholz un anno e mezzo fa. Hai messo a sacco il suo castello quando era presente solo il minore dei suoi fratelli, il Giovane Langravio, con una forza insufficiente per difenderlo. Gran brutto affare, Delmond, rubare gli argenti di famiglia ai bambini di nove anni. Immagino che non ci sia da meravigliarsi se non lasci questo bottino a casa. Hai paura che qualcuno possa tentare lo stesso trucchetto con te. Beh, allora ti sei fregato da solo, perché tutta questa roba, ora, non è altro che 'bottino di guerra', dato che è stata conquistata correttamente e inequivocabilmente sul campo di battaglia. Se l'avessi lasciata a casa, nessuno avrebbe avuto la possibilità di toccartela. "Ma Elansis sarà proprio contenta di riavere indietro l'Occhio di Argon. Significherà che quest'anno qualcosa crescerà nei campi di Schirholz e Talairn acquisterà un paio di alleati così potenti da destare scalpore da qui fino al Mare del Tramonto. Anche questo ti sta bene.
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Non posso credere che tu abbia rubato quell'oggetto. Lo sanno tutti che lo Smeraldo Cremisi porta alla rovina chiunque lo prenda in mano, tranne i membri della casa del Langravio. Suppongo che ti abbia istigato tua madre, verdi" Delmond assunse un'espressione attonita. Shel ci pensò un momento, poi archiviò la questione alla voce "Madri/matrigne, malvagie, estrema cautela nell'affrontarle". "Giusto", disse Shell. "Nel frattempo ci prenderemo cura dei nobili sopravvissuti e li riscatteremo con la solita procedura. Per fortuna, per loro abbiamo avuto parecchie offerte. I soldati di fanteria che sono sopravvissuti passeranno un mese di lavoro a Minsar, a titolo di riparazione per il danno che hanno provocato al territorio di Talairn, poi saranno rilasciati. Chi lo sa, qualcuno di loro potrebbe decidere di rimanere con noi alla fine. Una combriccola malnutrita, ecco quel che sono. "Tu, invece, avrai un pasto stasera e un pasto domattina, poi ti forniremo dell'otre di pelle pieno d'acqua e di una sacca di pane e carne che ti spettano di diritto, quindi un cavaliere ti porterà per dieci miglia all'interno dei tuoi territori e da lì potrai avviarti a piedi verso casa. Ci potrai arrivare a metà estate, se non sprechi il tuo tempo. Il collare resta al suo posto, incidentalmente. Volare a casa in forma di uccello o di pipistrello non ti lascerebbe proprio il tempo sufficiente per riflettere sui tuoi errori." Delmond diventò di un meraviglioso color grigio, fece un lungo respiro e cominciò a dire cose terribili a proposito del passato di Shel e dei suoi parenti. Stava cominciando a prenderci gusto quando dalle vicinanze del palo della tenda cominciò a diffondersi un suono lamentoso. Ululante stava tremando leggermente, ma comunque abbastanza perché si vedessero i disegni della tempra nel metallo oscillare, come se l'acciaio respirasse, e il suono si fece sempre più forte. Simile al verso di un gatto che attacca un altro gatto... tranne che era più intenso, e la minaccia era assolutamente personale, come la nota irritata nella voce di una madre quando scopre perché il figlio è rimasto in bagno con la porta chiusa così a lungo. Delmond inghiottì a vuoto e si zittì. "Io penso che tu debba moderare il tuo linguaggio", disse Shel. "Sanno tutti che Ululante ogni tanto esce dalla mia tenda di notte e se ne va a spasso, non vorrei che cogliesse 'le sue legittime occasioni'; non sempre i suoi comportamenti
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sono rigorosamente leciti. Ma poi sono sempre io che pago peri funerali." Delmond a quel punto si era seduto e stava perfettamente immobile. "Così dunque sarà", disse Shel. "Azure Alaunt, come araldo incaricato del Dominio, ora dite: le disposizioni sono conformi alla legge?" "Sono conformi alla legge", disse l'araldo, guardando con un po' di nervosismo il suo datore di lavoro. "Bene. Ora sono disposto ad ascoltare qualsiasi protesta formale contro le disposizioni." Delmond inspirò profondamente, poi cercò le parole, infine, dopo un momento, sbottò: "Tutto questo non sarebbe successo se tu non avessi avuto la magia al tuo fianco! Non erano cavalli quelli che vi hanno portato giù dalle colline contro di noi, ma diavoli! Scopriremo dove prendi questi tuoi demoni, e ti distruggeremo dove tu..." "Vengono da Altharn, la maggior parte", disse Shel in tono tranquillo. "Una piccola, bella fattoria da quelle parti. È di mia proprietà. Incrociamo i nostri Delvairn neri con i pony delle montagne e si dice che nella miscela ci sia anche un ingrediente segreto... forse capra. Non penso che avrai molta fortuna con loro, però, Delmond. Mordono, e non si può far altro che abituarcisi... perché è il loro spirito che rende il loro incedere così sicuro." "Spiriti!", urlò Delmond, rivolgendosi ad Azure Alaunt. "Hai sentito? Lo ammette, erano spiriti!" Azure Alaunt gettò una rapida occhiata a Shel, un'espressione di totale impotenza che il suo padrone non vide. Shel si chiese se, in futuro, non sarebbe stato il caso di offrire un impiego a quell'uomo. "Mmmm", disse Shel a Delmond. "Non è una risposta degna della tua consuetudinaria alterigia. Le cose debbono andare proprio male giù al supermercato Wal-Mart." Delmond diventò molto più scuro in volto. Non era considerato di buon gusto fare riferimento, all'interno di Sarxos, alla "vita reale" di un giocatore. Il gioco, in fin dei conti, doveva essere un sollievo rispetto all'"esterno", un posto in cui i giocatori potevano lasciare le pressioni e la routine della propria vita per provare qualcosa di più esotico e dagli orizzonti più vasti in compagnia di molti altri impegnati nella stessa cosa. Ma in fin dei conti a Sarxos si verificavano un gran
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numero di eventi non proprio "da manuale", un fatto che il creatore del gioco evidentemente considerava un indice di corretto avanzamento del gioco stesso, che man mano diventava autonomo, come se creasse se stesso, quasi un'entità dotata di una propria vita. E comunque Delmond aveva piegato ai suoi interessi parecchie regole, in questo scontro. Ricambiarlo era del tutto corretto, pensò Shel. "Va bene", disse Shel. "La disposizione è presa. Talch?" La guardia ricomparve. "Portalo fuori e dagli da mangiare. Poi chiudilo in un carro per salire a Minsar, non uno dei suoi, uno dei nostri. Chissà quali trucchetti ha incorporato nei suoi equipaggiamenti. Fate preparare per lui la sacca abituale da mendicante domani mattina. E per dimostrare che non siamo degli spilorci, metteteci dentro anche un pezzo di formaggio duro." Tremante di rabbia, ma in silenzio, Delmond fu accompagnato fuori. Azure Alaunt si fermò sulla soglia della tenda e disse: "Una parola al vostro orecchio, signore, se posso..." Shel annuì. "Sua madre non è una persona che si possa offendere impunemente. Se a suo figlio dovesse succedere qualcosa sulla strada potrebbe rivelarsi dannoso per i vostri stessi interessi." Shel rimase in silenzio un attimo. "Parole audaci", disse poi. "E probabilmente anche vere. Prenderò il tuo avvertimento in seria considerazione, Azure Alaunt." L'araldo si inchinò e scivolò fuori dalla tenda. Shel rimase immobile ancora un poco, mordendosi il labbro pensosamente. "Un po' irritabile, quel tipo", disse Alla, alzandosi e stirandosi. "Forse. Andiamo", disse Shel, alzandosi a sua volta. "Facciamo smontare questa tenda dagli uomini delle salmerie e mettiamoci in cammino per Minsar e per la nostra cena. Abbiamo fatto un buon lavoro oggi." Alla annuì e uscì dalla tenda. Un attimo dopo, Shel uscì a sua volta nell'oscurità quasi completa e camminò un po' nel fango rosso appiccicoso, cercando un punto solido. Finalmente trovò un angolo che come per miracolo non era stato completamente ridotto in fanghiglia dalle migliaia di zoccoli, e si
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volse ad ammirare, verso sud, la prima luna, quella più piccola, che sembrava galleggiare bassa sopra la nebbia. Si girò a guardare a nord, verso Minsar, tra le colline coperte di boschi. Alla luce della luna, le punte dei pini erano leggermente più chiare del resto dei rami: argento lucido contro l'argento leggermente brunito e le ombre scure degli alberi. Era appena arrivata la primavera, nel Continente Meridionale, e alla luce del giorno si sarebbe visto correttamente che il colore delle punte delle conifere era quella particolare sfumatura di verde dei nuovi germogli. Altrove ci sarebbe stato un sottile velo di verde sulle gemme di querce e aceri; tutto splendeva di freschezza e di novità. Al mattino, i campi erano lucenti. Fra l'erba, oltre al giallo delle calendule e al bianco delle margherite del Continente Meridionale che arrivano dopo la neve, ci sarebbero state altre macchie di bianco, gli agnellini che saltellavano su gambe malferme nel sole primaverile, stupiti e felici di essere vivi. Perciò quando arrivava la notizia che qualcuno come Delmond era arrivato ai tuoi confini, pronto ad attraversarli e a ridurre a una polpa sanguinolenta i villaggi, gli abitanti, gli agnelli e le margherite, tutto quello che aveva valore, e molte cose che non avevano avuto importanza fino a quel momento, ti irritavi e ti ergevi a difensore di quel luogo. Shel aveva cominciato a farlo, sorprendendo se stesso, un po' di tempo prima. Raramente vedeva le margherite, tranne che dal fioraio in fondo alla strada e non aveva mai visto un agnello che non fosse stato ridotto a pezzi e avvolto nella plastica, sui banchi del supermercato, ma a Sarxos aveva scoperto che cosa significavano i fiori e il bestiame per gli abitanti della campagna, per i contadini e i piccoli proprietari fra cui si muoveva. E quando si era fermato per la prima volta e aveva scelto quella parte di Sarxos come casa-lontano-da- casa e qualcun altro a Sarxos lo aveva seguito, con l'intenzione di prendersi il bestiame e di uccidere gli uomini e le margherite (e non per necessità, ma per quello che considerava un espediente politico), Shel si era detto "Al diavolo", e aveva cominciato a organizzare un esercito. Sembrava passato tanto tempo da quella prima battaglia... da quella, e dai problemi che erano venuti in conseguenza di quel primo "salvataggio del paese". Gli eserciti, per piccoli che siano (e il suo lo
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era), hanno una penosa tendenza a voler essere pagati. Se la paga tarda, tendono ad andarsene altrove, o a rivoltartisi contro. Shel aveva trovato il modo di pagare il suo esercito, qualche volta di tasca propria, facendosi fama di eccentrico fra gli altri generali e i regnanti di Sarxos. Poi erano arrivati i padroni originari del "suo paese", risvegliati dalla lunga negligenza dall'azione: regnanti che sentivano (a ragione) che Talairn era loro proprietà e che non approvavano che qualcuno organizzasse un esercito per difenderla senza il loro permesso. Quel particolare disaccordo era andato avanti per quasi un anno, finché i regnanti non si erano resi conto che combattere con Shel non li portava da nessuna parte, e che il prezzo che offriva loro, per acquistare il paese, era effettivamente più che conveniente. Dopo, nel complesso, era stato lasciato in pace... se si faceva eccezione per quelli come Delmond. Quando persone come lui spuntavano a Talairn, Shel li combatteva come meglio poteva... perché si era innamorato di quel posto. Sapeva che era sempre pericoloso. Quando si ama si finisce spesso per farsi del male. Ma ci sono casi in cui vai la pena ferirsi. Shel rimase lì per qualche respiro ancora, guardando la luna, poi disse: "Il gioco finisce qui." Tutto attorno a lui improvvisamente acquistò l'aspetto perfettamente immobile di una fotografia fissa o di un ologramma. "Opzioni", disse la voce del server che controllava il "contesto" dell'esperienza virtuale. "Continua; salva; salva e continua." "Salva", disse Shel. "Bilancio, per favore." "Salvato. Bilancio per Shel Lookbehind", disse il computer principale dei giochi, mentre lo sfondo congelato cominciò lentamente a dissolversi in un colore azzurro omogeneo. "Totale ripreso dall'ultima esecuzione precedente del gioco: quattromilaottocentosedici punti. Punteggio acquisito in questa sessione: cinquecentosessanta punti. Totale complessivo: cinquemilatrecentosettantasei punti. Richieste?" "Nessuna richiesta", disse Shel. "Conferma approvazione bilancio, nessuna richiesta. Lettura dei messaggi in attesa?" "Salva per dopo", disse Shel.
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"Ricevuto", disse il computer. "Per favore inserisci i codici del tuo zaino personale per un salvataggio in archivio di questo risultato." Shel sbatté le palpebre due volte, richiamando la copia presente nel suo computer della "firma" costituita dal codice di zaino che registrava e verificava senza alcuna possibilità di errore i risultati del gioco per il computer principale del gioco. La firma era complessa, troppo complessa perché qualcuno potesse imitarla. Una parte del codice mutava a ogni sessione e si combinava con una seconda parte, che rimaneva permanentemente nella sua macchina, e con una terza, che era conservata dalla macchina "master" di Sarxos. Shel annuì al computer, rendendo definitivo il salvataggio. "Salvataggio confermato", disse il computer. Sbatté un po' le palpebre, rendendosi conto per la prima volta che la voce del computer era molto simile a quella di Alla. "Questa sessione di SarxosTM è completata. Sarxos è copyright di Christopher Rodrigues, 1999, 2000, 2003-2010 e anni successivi. Tutti i diritti riservati a livello universale e in tutti gli altri mondi che si potranno scoprire." E tutto era svanito. Ancora una volta Shel era seduto in una stanza piena di libri e nastri e di tutti gli altri ammennicoli della sua vita, fra cui la grande poltrona reclinabile (che occupava la maggior parte della stanza) che gli permetteva di allineare il suo impianto con il collegamento nel suo computer di casa. E ora Shel era lì, che sbadigliava, in carne e ossa, alle sei del mattino nel suo appartamento di Cincinnati, con l'alba che cominciava a farsi strada fra le tapparelle, e la sua carne cominciò a lamentarsi perché, dopo una lunga notte di battaglia, era rigida e intorpidita. L'apparecchiatura doveva comunicare con i muscoli svariate volte ogni ora, per mantenerli attivi, ma qualche volta quei movimenti di routine non erano sufficienti per liberare l'acido lattico in eccesso che si accumulava nei muscoli per la tensione. Per questo quanti giocavano regolarmente a lungo sollevavano pesi e facevano molta attività fisica con assiduità. Un luogo comune voleva che quanti si dedicavano troppo alla realtà virtuale fossero magri e senza tono muscolare, ma i giocatori di Sarxos in genere mostravano un livello sorprendentemente elevato di forma fisica. Sarebbe stato ben difficile combattere con tanta efficienza da conquistare un regno, se il tuo corpo non avesse sostenuto il gioco.
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Nel frattempo, il suo corpo stava dicendogli qualcosa di molto specifico. Cereali!, urlava. Cereali e latte! Shel si alzò e si stirò, sorridendo al pensiero di qualcosa da mangiare, poi all'espressione sulla faccia di Delmond quando si era reso conto che non avrebbe potuto scamparla con i suoi beni intatti con grande disappunto di sua madre. Tarasp delle Colline, pensò Shel, cercando le chiavi di casa. Che cosa faremo con te, signora? Sei una minaccia, anche per la carne della tua carne e il sangue del tuo sangue. Devo parlarne con i maghi... Si cambiò e si infilò una T-shirt meno spiegazzata, chiuse a chiave l'appartamento e scese le scale che lo portavano in strada due gradini alla volta, d'umore estremamente allegro. Nonostante fosse un sabato, non sarebbe stato libero. I turni serali in ospedale iniziavano alle tre e mezzo. Sarebbe stata un'altra serata entusiasmante di prelievi di sangue e di raccolta di campioni di laboratorio da un centinaio di pazienti, ciascuno dei quali odiava la sua vista. Nonostante tutto, quando entrò nel negozio, prese i cereali e il latte e poi passò dieci minuti o giù di lì a chiacchierare con Ya Chen, la commessa della notte, prima che il suo turno finisse. Il cuore di Shel cantava. Che splendida campagna. Che battaglia indimenticabile. Non vedo l'ora di cominciare ad affrontare il nido di vermi che questa storia avrà messo a nudo... Mentre tornava verso casa dal vicino negozietto, aperto tutta la notte, continuava a formulare piani... a pensare a quali giocatori avrebbe dovuto consultare. Il pensiero gli tornava alla continua minaccia del Signore delle Tenebre. Quali erano le sue vere intenzioni con quell'offerta di "acquistare" Delmond? La cifra che gli aveva offerto era il triplo del valore potenziale del riscatto. A meno che non ci fosse qualche accordo clandestino fra la madre di Delmond e il Signore delle Tenebre. Non ci sarebbe di che stupirsi, pensò Shel mentre saliva le scale di corsa. È un serpente, quella donna. In effetti, non era stato così fin dall'inizio? Una sorta di... Si fermò sul pianerottolo del suo appartamento, con le chiavi in mano, fissando la porta. Era accostata. Non dirmi che l'ho lasciata aperta. Aprì del tutto la porta, con cautela, e sbirciò dentro. Il cuore gli si fermò. Qualcuno era stato lì. Qualcuno era stato lì...
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... e aveva buttato all'aria l'appartamento. Entrò in punta di piedi. Una metà di lui si chiedeva se l'intruso fosse ancora lì, l'altra metà non se ne curava dal momento che oltre il salotto, dove c'era la sua scrivania e la poltrona con la sua interfaccia... era avvenuto un disastro. La scrivania era stata rovesciata. Il computer giaceva su un fianco, il contenitore principale del sistema aperto, le schede sparse ovunque. Lo schermo sfasciato, il suo sistema distrutto. Per prima cosa, Shel andò diritto al telefono e chiamò la compagnia di assicurazioni. Naturalmente, alla fine, avrebbero pagato un nuovo sistema. Ma c'era qualcosa per cui non avrebbero potuto far nulla, ed era il suo disco rigido. Shel scoprì poi, il lunedì, quando portò il disco rigido al negozio, che era stato riformattato. E le sue ultime speranze sfumarono. Non aveva fatto una copia di riserva dei suoi file nel suo archivio di "emergenza", prima di uscire. E, in particolare, non aveva fatto una copia dei suoi codici zaino, i codici complessi, del tutto impossibili da ricordare, che, combinati con i codici salvati nel server master dei giochi di Sarxos, gli consentivano di accedere al suo personaggio e alla storia di questo. Ci vollero giorni prima che smettesse di voler sbattere la testa contro a un muro, per la sua stupidità. Gli ci sarebbero volute settimane per risolvere quel pasticcio; quelli di Sarxos erano molto attenti, addirittura ossessivi, per tutto quello che riguardava la sicurezza. Ma alla fine sarebbe riuscito a rientrare nel gioco. Avrebbe inviato i risultati del suo ultimo salvataggio dai suoi backup remoti (come molti utenti di computer a quei tempi era abbonato a un servizio "salvavita", una società che conservava copie dei suoi file di riserva in un'altra sede) e le copie dei codici zaino che erano stati usati in quel salvataggio. La società avrebbe confrontato i suoi ultimi file archiviati con i loro e avrebbe controllato la validità delle sue altre identità, del mondo reale e del mondo virtuale e finalmente gli avrebbe assegnato una nuova password con cui rientrare nel gioco. Ma fino a quel momento, Shel non avrebbe più potuto vagare fra i campi verdi di Talairn. Poteva tornare a Sarxos con uno di quegli "abbonamenti introduttivi" a poco prezzo che venivano venduti a quanti non erano sicuri di volersi impegnare seriamente nel gioco. Ma non avrebbe potuto tornare ad essere Shel fino a che non gli
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avessero dato una nuova password e a quel punto la stagione di guerra di quell'anno sarebbe stata conclusa. Due anni di preparazione accurata del terreno per la campagna di quell'anno, due anni di affascinanti progetti con altri giocatori andati a farsi benedire. Alcuni di quelli con cui Shel aveva cospirato sarebbero stati furiosi; non avrebbero più voluto avere a che fare con lui in futuro, indipendentemente dal fatto che l'accaduto non fosse affatto colpa sua. Altri, in sua assenza, potevano semplicemente passare ad altre alleanze. E che cosa sarebbe successo ad Alla? Se era reale, poteva andarsene per l'assenza del giocatore con cui stava lavorando, magari poteva anche pian piano abbandonare completamente il gioco. Se invece non fosse stata reale... beh, i personaggi generati dal gioco che non avevano interazioni con regolarità in genere venivano "richiamati", un eufemismo per "cancellati". Sarxos, in fin dei conti, era un sistema organizzato e non sciupava le risorse che non venivano utilizzate. La possibilità che Alla potesse svanire, cessare di esistere, a causa della sua assenza, lo preoccupava ancora più della campagna persa. Tutta la situazione era estremamente irritante. Ma quelli erano solo alcuni dei rischi del gioco... e non c'era nulla che Shel potesse fare. Ricominciò di nuovo, ovviamente. Non era nella natura di Shel lasciar perdere qualcosa. Era una delle caratteristiche che lo avevano messo in luce come giocatore a Sarxos. Ma mentre iniziava il lento processo di recupero della sua vita virtuale (dopo che gli ebbero finalmente riassegnato una password), cercando di ricostruire la credibilità del suo personaggio, si poneva una domanda che continuava a restare senza risposta. Perché proprio a me? Perché? Qualche giorno dopo, alle sette e mezza del mattino, Megan O'Malley stava in cucina e frugava negli armadietti mormorando tra sé. "Non posso credere che siamo rimasti senza, ancora..." Avere quattro fratelli più grandi le aveva creato parecchi problemi, nel corso degli anni, ma il peggiore era che nessuno di loro smetteva mai di mangiare, o almeno così sembrava. Arrivavi per colazione, pronta a ingurgitare qualcosa di corsa prima di andare a scuola e ti accorgevi che la cucina era stata ripulita come un campo del terzo mondo dopo il passaggio di uno sciame di locuste. Quando i fratelli erano diventati abbastanza grandi da andarsene al college (almeno quelli che se
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n'erano andati), Megan aveva sperato che la situazione migliorasse, e invece era addirittura peggiorata; sembrava che Mike e Sean avessero cominciato a mangiare di più per compensare l'assenza di Paul e Rory. Nascondere il cibo ai due che studiavano vicino a casa alla George Washington University e a Georgetown funzionava solo in certi casi, cioè se si trattava di qualcosa che a loro non piaceva, ma non c'erano molti generi alimentari che ricadessero in quella categoria. I muesli erano fra quelli, per un po'... finché una sera tardi Sean, nel frugare fra gli armadietti, aveva scoperto la scorta di Megan. Aveva dovuto cominciare a spostare continuamente le sue riserve, da allora, e qualche volta quella tattica aveva portato qualche risultato. Non sempre. "Locuste", mormorò Megan disgustata, prendendo la scatola che aveva nascosto al sicuro sotto il lavandino, dietro il detersivo e i guanti di gomma. Era una scatola di veri muesli svizzeri, i Familia, non una delle marche locali che sapevano di segatura. Era una scatola vuota. In piedi in mezzo alla grande cucina con le piastrelle dorate, inondata dal sole, Megan sospirò, poi gettò la scatola di Familia nel cestino dei rifiuti, si diresse al banco dove stava il contenitore del pane e lo aprì. Niente pane. Così sono sfumati anche i toast, pensò Megan, lasciando ricadere il coperchio della confezione. È un peccato che non debba perdere peso, perché potrei cominciare da adesso. Oh, beh. Del te... Quello, almeno, c'era. I suoi fratelli, fortunatamente, erano diventati tutti bevitori di caffè non appena era risultato chiaro, ai loro genitori, che non avrebbe ostacolato la loro crescita (nulla, a dire il vero, avrebbe potuto farlo). Megan versò dell'acqua nel bollitore, lo mise sul fornello, regolò il bruciatore al massimo e cercò una tazza, guardando l'orologio. Sette e quarantacinque. Mezz'ora prima che mi vengano a prendere... potrei fare in tempo a controllare la posta. Si avviò verso la taverna nel seminterrato, una grande stanza che ospitava uno dei tre computer di casa messi in rete, e che per il resto era piena, dal pavimento al soffitto, su tutte e quattro le pareti, dei libri di consultazione di suo padre e di sua madre. Una giornalista del Washington Post e uno scrittore di romanzi gialli, perciò la loro biblioteca era una raccolta molto eclettica e in qualche caso
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apparentemente casuale; anche se i libri di politica ed economia internazionale, sull'ambiente e la storia mondiale e volumi un po' strani come Orrori innominabili e cosa fare in proposito e Progetti segreti della Luftwaffe, 1946 finivano sullo stesso scaffale o nella stessa pila con una raccolta davvero stupefacente di libri sulla medicina legale, le armi e i veleni, libri con titoli come Snobismo e violenza e Che cosa fare e cosa evitare nel commettere il crimine perfetto, Animali velenosi dalla A alla Z e Giurisprudenza medica e tossicologia del Glaister. Megan sapeva che suo padre era una persona assolutamente rispettosa della legge e che non avrebbe fatto male a una mosca. Una volta l'aveva visto piangere perché per errore aveva ucciso un topo che stava tentando di catturare per liberarlo poi all'esterno, dopo che uno dei gatti lo aveva portato in casa. Comunque, sperava che mai nessuno lo sospettasse di omicidio perché, chiunque fosse sceso lì sotto, non avrebbe creduto alla sua innocenza. Si sedette nella poltrona del computer e sospirò all'immancabile pila di libri sul tavolo di fronte all'interfaccia principale. Nonostante tutte le volte in cui l'aveva ricordato loro, suo padre e sua madre continuavano a lasciare il loro materiale di consultazione in modo da ostruire il percorso fra la macchina e la poltrona dell'impianto. Ma loro usavano impianti retinici/ottici, che si allineavano con la macchina molto sopra il livello del tavolo, mentre quello di Megan era un impianto di tipo più recente, collegato ai neuroni del collo e a vista laterale (un droud), che si allineava con un angolo minore. Mentre spostava il mucchio di libri di quel mattino (erano soprattutto di suo padre, che normalmente rimaneva a scrivere fino alle tre o alle quattro di notte), guardò i titoli con scarso interesse. In cima alla pila c'erano l'Orario delle ferrovie europee di Thomas Cooky la Guida Jane all'identificazione delle pistole e il Libro del Curry Club dei 250 piatti piccanti e speziati Rimase sconcertata da quest'ultimo. Fino a quel punto il possibile "intreccio" del libro a cui stava lavorando le si era formato in mente con naturale perfezione: attira qualcuno su un oscuro treno dell'Europa orientale, sparagli... e poi mettilo nel curry? Nooo. Comunque, decise che nel tornare a casa si sarebbe fermata in qualche negozio per acquistare un po' di yogurt. Se papà era
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intenzionato a preparare la cena, sarebbe stato indispensabile per estinguere i bruciori, se il chili fosse stato troppo infuocato. Megan fece ruotare la poltrona del computer per portarla nella posizione corretta. Le ci volle un istante per "ricordare" le impostazioni preferite, alzare un po' i piedi, reclinare lo schienale secondo l'angolo giusto. Allineò il suo impianto con l'interfaccia principale del computer e percepì la leggera scossa, ormai familiare, dell'interconnessione, come se qualcuno premesse un interruttore dentro le sue ossa: si spegne l'universo normale e se ne accende un altro. Megan sapeva che qualcuno organizzava il suo "spazio di lavoro" come un ufficio, pieno di classificatori, ma disprezzava quella ristrettezza di vedute. Dal momento che nella realtà virtuale era tutto possibile, perché la gente non faceva, beh, proprio niente. Dato il modo in cui si comportavano, non aveva risposte. Per quel che riguardava lei, proprio in quell'istante si trovava al centro di un gigantesco anfiteatro di pietra, con gradinate di sedili in calcare bianco che si elevavano per l'equivalente di un paio di piani. Al di sopra dell'ultima fila di posti, c'era un cielo nero con stelle luminose che arrivano fino allo zenit. Dietro le sue spalle, oltre la parte "frontale" dell'anfiteatro, c'era una lunga discesa, scarsamente illuminata, di ghiaccio dai riflessi rosa e di sabbia, spruzzata di neve di metano color bluastro; basso sull'orizzonte, schiacciato ai poli e di color arancione come una pesca matura, si vedeva Saturno, con gli anelli inclinati, mentre la lunga ombra lasciata dalla faccia rivolta verso il sole tagliava la superficie del pianeta lungo una diagonale dalla linea elegante. La luce riflessa dal pianeta rivestiva di un'aura pallida e dorata la superficie della luna Rea. Rea rivolgeva sempre verso il pianeta principale la stessa faccia, ma Megan sapeva che, se fosse rimasta lì a guardare abbastanza a lungo, Saturno avrebbe pian piano cominciato a calare, gli anelli si sarebbero spostati e il sole sarebbe salito sopra l'orizzonte di Rea e avrebbe mutato il colore predominante della luna da quell'oro tenue a un accecante bianco ghiaccio, mentre sull'anfiteatro sarebbe scesa la grande ombra gettata dal bordo elevato del vicino cratere d'impatto Tirawa. Purtroppo Megan aveva molte altre cose da fare quella mattina e non poteva dedicarsi all'osservazione dei pianeti. "Poltrona", disse, e dietro
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di lei ne comparve una, una copia di quella di casa. Si sedette, alzò i piedi e disse al computer: "La posta, per favore". "Posta in esecuzione", disse il computer con una piacevole voce femminile e cominciò a visualizzare una serie di "miniature" video- audio, identificate da didascalie, dei messaggi in attesa, senza accompagnare l'operazione con alcun suono. Altri personificavano il loro computer e lo facevano diventare una "segretaria" che parlava loro come una persona, offrendosi di aprire la corrispondenza e così via, ma Megan preferiva avere una macchina che semplicemente facesse il suo lavoro quando lei glielo chiedeva. Non aveva alcun interesse per interfacce chiacchierone con personalità dominanti. "E perché ne hai già una tu", le aveva detto Mike, qualche mese prima, quando gli aveva raccontato le sue preferenze. Mike poi si era lamentato per giorni dei segni che gli aveva lasciato. Gli stava proprio bene, pensò Megan, sorridendo ancora al ricordo. Se non è capace di imparare le arti marziali almeno quel tanto da impedire alla sua sorellina di buttarlo a terra ogni tanto, beh, non è certo un mio problema. La posta non conteneva quasi nulla di importante. "Primo", disse Megan, e la piccola immagine in miniatura di colpo si ingrandì, si sviluppò in tre dimensioni e cominciò a parlarle. L'etichetta al di sotto diceva che il messaggio arrivava dal suo assistente scolastico. Il signor Macllwain era seduto alla sua scrivania, che somigliava molto a quella dei suoi genitori, coperta di carte, dischi, libri e chissà che altro ancora. "Questo è per ricordarti che il tuo appello per i test SAT III e SAT IV/NMSQT è stato rinviato al 12 marzo. Se ti sei iscritta anche agli esami di assegnazione avanzata, l'appello relativo è stato rinviato al 15 marzo. L'esame di Scrittura creativa in inglese si svolgerà a livello nazionale solo ad aprile, perciò controlla di..." "Sì, sì, basta, cancella", disse Megan. Si era già preoccupata di tutte le cose citate nel messaggio ed era pronta per i test SAT come meglio non avrebbe potuto, anche se, ogni volta che le veniva sotto gli occhi la data dell'esame di assegnazione avanzata pensava, Le Idi di marzo, splendido... Come se Shakespeare e Giulio Cesare non avessero già fatto abbastanza per renderla una data maledetta. Comunque mancava ancora più di un mese all'esame. Un altro mese da passare in tensione... "Successivo", disse.
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La "miniatura" successiva si ingrandì e assunse la forma di Carrie Henderson, una compagna di scuola. "Ciao, Megan! Senti, so che non eri proprio interessata al comitato per il ballo, ma avremmo proprio proprio proprio..." "Stop", disse Megan, "salva". Io proprio proprio proprio non voglio essere impegolata in questa storia, che lo faccia qualcun altro. Se la ignoro per un po' magari trova qualcun altro al posto mio. "Successivo." La terza miniatura si trasformò in un uomo in giacca e cravatta che teneva in mano un tappeto campione e stava su un'estensione apparentemente infinita di tappeti, che formava un orrendo motivo a disegni astratti fino ai bordi dell'anfiteatro di Megan e per fortuna svaniva lì. "Caro utente del sistema", stava dicendo con entusiasmo l'uomo, "il tuo indirizzo è stato scelto tra un gruppo ristretto di utenti che sappiamo saranno in grado di apprezzare il valore di..." "Stop, cancella!", Megan sbottò infastidita. Ciberspazzatura... deve esistere un sistema per farla finita. Si chiese se qualcuna delle iniziative contro la ciberspazzatura, la posta pubblicitaria del ciberspazio, che la Net Force stava sostenendo, sarebbe mai riuscita a ottenere l'approvazione del Congresso. Il problema era che le lobby della "spazzatura" erano così potenti... e non appena il governo trovava un modo per fermarne un tipo ne spuntava fuori un altro. Significava che la sua casella postale, come quelle praticamente di ogni individuo che conosceva, continuavano a riempirsi di pubblicità indesiderata. Perlomeno le promozioni dei tappeti erano del tutto innocue. Alcuni dei messaggi pubblicitari che arrivano alla sua casella invece erano così irritanti e insistenti che avrebbe desiderato cominciare a esercitare le sue mosse di arti marziali sul computer, o, meglio ancora, sulle persone che inviavano quei messaggi... L'acqua ormai starà per bollire, pensò, guardando le didascalie delle ultime miniature restanti. Non c'è niente di veramente importante, questi messaggi possono aspettare... All'improvviso il suono morbido di un campanello riempì l'aria, e Megan si guardò intorno, sorpresa. Qualcuno stava cercando di raggiungerla per una chiacchierata in diretta. A quest'ora? "Chi è?", chiese al computer.
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"L'identificativo del messaggio indica James Winters", rispose il computer. "Davvero? Fantastico", disse Megan. "Accettato." Su un lato dell'anfiteatro comparve improvvisamente un ufficio decisamente più ordinato di quello dei suoi genitori. Il sole del primo mattino entrava attraverso le veneziane alle finestre e si rifletteva, in ampie bande, sulla grande scrivania in primo piano. Dietro la scrivania, che in quel momento era vuota, fatta eccezione per qualche stampa, qualche lettera e un po' di dischetti impilati, era seduto James Winters, uomo massiccio, dalle spalle larghe, ufficiale in servizio alla Net Force, agente di contatto per tutti i Net Force Explorers. Mise da parte il foglio di carta che stava leggendo e guardò "fuori", verso Megan: per un istante sembrò un impegnato uomo d'affari, se non fosse stato per il taglio di capelli alla marines e per gli occhi. Agli angoli di quegli occhi poteva formarsi una rete di rughe per un sorriso, ma in essi c'era una freddezza che la maggior parte degli uomini d'affari poteva soltanto augurarsi di avere. "Megan? Spero che non sia un brutto momento." "No, mi stavo preparando per andare a scuola, ma ho ancora qualche minuto." Ma tu lo sapevi, pensò, subito interessata. Winters conosceva perfettamente tutti i programmi dei Net Force Explorers. C'è qualcosa in ballo! La guardò con aria pensosa. "Megan, volevo solo controllare una cosa. Il tuo incartamento dice che sei una giocatrice di Sarxos." Le sue sopracciglia si alzarono. "Entro nel gioco ogni tanto." "Più di una volta ogni due settimane, diciamo?" Lei pensò. "Sì, direi di sì. Forse una volta alla settimana in media, qualche volta anche di più se comincia a succedere qualcosa di interessante. Ma è un bel posto anche solo per farsi un giro, anche quando non sono in corso guerre o faide fra maghi. Ci sono persone interessanti... e Rodrigues ha fatto proprio un bel lavoro con quel gioco. Lo si 'percepisce' come più reale di un sacco di altri giochi virtuali." Winters annuì. "Che cosa sai a proposito dei giocatori che vengono 'espulsi'?" Megan sbatté gli occhi. "Si riferisce alle persone i cui codici zaino vengono cancellati? Virus, personaggi sabotati, quel genere di cose? Ho
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sentito che qualche volta succede. Vendette, immagino. Qualcuno che prende le cose troppo sul serio..." "Qualcuno, sempre che si tratti solo di qualcuno, ha preso la faccenda un po' troppo a cuore negli ultimi tempi. Ci sono state circa una dozzina di persone 'espulse' nell'ultimo anno." Quella era una novità per Megan. "Una al mese... ma ci sono centinaia di migliaia di giocatori a Sarxos. Non sembra un gran numero." "Non sembrerebbe un granché nemmeno a me, ma so che non ci sono state 'espulsioni' per otto anni, fino a un anno e mezzo fa. Sta succedendo qualcosa e le aziende che sponsorizzano Sarxos si stanno innervosendo. Non vorrebbero proprio dover chiudere il server." "Immagino", disse Megan, un po' seccamente. I giocatori di Sarxos pagavano una tariffa a sessione oppure un "abbonamento" annuale. Ad ogni modo, ci doveva essere un mucchio di soldi in ballo, forse milioni e milioni di dollari ogni anno. "Beh, abbiamo avuto un "espulsione' particolarmente energica", disse Winters. "Non identificherò il giocatore con il suo nome vero, ovviamente, ma si tratta di un tizio che nel gioco aveva il nome di 'Shel Lookbehind'." "Davvero, Shel?, disse Megan, stupita. "Lo conoscevi?" "Un po'", disse Megan. "L'ho incontrato durante la campagna di guerra di circa un anno fa. Molti erano rimasti interessati alle schermaglie che aveva con la Regina di Mordili. Non c'erano protocolli che prevedessero che una persona potesse occupare il territorio di un altro, prima che fosse stato dichiarato abbandonato e tutti gli altri volevano vedere se si fosse creato un precedente. Sono andata a Talairn per vedere che cosa accadeva. Shel sembrava un buon giocatore, una persona davvero simpatica. Perlomeno, lo era il suo personaggio." "Beh, quel personaggio ora è nel limbo, come puoi immaginare", disse Winters, "finché la persona che lo interpreta non riuscirà a farsi riassegnare una password. E questa è stata l''espulsione' più violenta fin qui, ed è per questo che è arrivata alla mia attenzione. La maggior parte delle espulsioni, come hai detto tu, sono state provocate da 'persona o persone sconosciute', che inoculavano nel sistema della
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vittima un cavallo di Troia o un virus di un tipo o dell'altro. Inoltre c'è stato almeno un furto di un sistema domestico che può darsi sia o non sia una espulsione. Le prove non sono conclusive. Nel caso di Shel, però, qualcuno è entrato nel suo appartamento, ha buttato tutto all'aria, ha cancellato il suo dispositivo principale di memoria e sostanzialmente gli ha distrutto il sistema." Megan scosse la testa. "E nessuno ha idea di chi sia stato?" "Niente che i tecnici della polizia locale siano riusciti a scoprire, comunque. Ma speravo che tu potessi aiutarci un po'." "Vuole che vada a Sarxos e 'faccia qualche domanda'", disse Megan. "Saresti perfetta per questo lavoro. Hai già un'identità nel gioco, il che fa proprio comodo. Qualsiasi nuovo personaggio che arrivi e cominci all'improvviso a fare domande sulle espulsioni attirerebbe immediatamente l'attenzione e il sospetto. Ma tu no. Penso che sarebbe meglio, viste le circostanze, avere qualcuno che lavori con te. Un altro punto di vista potrebbe essere utile... e Sarxos è, in fin dei conti, un posto assai vasto. Una gran quantità di terreno da coprire." Megan si mordicchiò le labbra soprappensiero. "Qualcun altro dei Net Force Explorers?" "Sarebbe preferibile." Rimase a pensarci per qualche istante. "Devo confessare che non so quali dei Net Force Explorers che conosco possano essere 'giocatori'. Di solito è una cosa che non si chiede." "Beh", disse Winters, "io conosco almeno un altro Explorer che ha un'identità già stabilita. Ha già dichiarato il suo interesse e non gli importa se qualche altro Explorer viene a sapere che gioca. Conosci Leif Anderson?" Megan fu colta di sorpresa un'altra volta. "Vuol dire il Leif Anderson che vive a New York? Il ragazzo con i capelli rossi che conosce tutte quelle lingue? Lui è a Sarxos?" "Sì, e fa la parte di un..." Winters si fermò e diede un'occhiata al foglio che aveva in mano e ridacchiò. "Un 'mago delle siepi', dice qui. Immagino che non sia qualcuno che ti cura il giardino con la magia." Megan represse un risolino. "No. Significa indicare qualcuno che si dedica a piccoli incantesimi, invece di tentare quelli grandi e pericolosi. Può significare o qualcuno che preferisce lavorare a contatto con la terra e con 'la gente comune' o qualcuno che non è
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molto bravo a fare il suo mestiere e cerca di nascondere le proprie magagne. Questi maghi sono un po' degli incompetenti." Winters aveva un'aria divertita. "Bene. Beh, sarà una buona copertura, non pensi?" "Dovrebbe esserlo", disse Megan, pensandoci. "I maghi delle siepi viaggiano sempre in cerca di erbe rare, di strane formule magiche e di imprese da compiere. Di solito finiscono per conoscere un sacco di gente. Anche il mio personaggio conosce tanta gente, ma per motivi diversi... quindi dovrebbe funzionare." "Devo dirgli di mettersi in contatto con te, allora?" "Certo", disse Megan. "La cosa può aspettare fino a stasera? Oggi è una giornata un po' frenetica." "Nessun problema. Prendila con i tuoi ritmi. Preferisco che procediate con calma; arrivare con troppo impeto e mettersi a scavare con troppa insistenza potrebbe far sì che la 'persona' o le 'persone' responsabili si mettano tranquille... e non vogliamo che succeda." "No di certo. Avrò bisogno di un elenco degli altri personaggi che sono stati espulsi", disse Megan. "Eccolo qui", disse Winters. Con un altro scampanellio, nello spazio di lavoro di Megan comparve una piccola piramide in lenta rotazione, il simbolo di un file in attesa di essere aperto, che fluttuava nell'aria accanto a lei. "Sei hai qualche altra domanda, se c'è altro di cui hai bisogno, mettiti in contatto." "Sì, signor Winters. Grazie!" Winters e il suo ufficio svanirono. Megan rimase seduta: cominciava a sentirsi molto più eccitata di quanto avrebbe dovuto, visto che l'aspettava ancora una giornata di scuola che ora le sembrava interminabilmente lunga. Una cosa era appartenere ai Net Force Explorers, associata (sia pure non troppo strettamente) a persone che svolgevano un lavoro che poteva essere fra i più entusiasmanti, un'altra era avere un incarico, mentre le persone, con cui speravi di poter lavorare un giorno, ti osservavano... interessate e così fiduciose nelle tue capacità da assegnarti un lavoro e stare a vedere come lo svolgevi. Questo, pensò Megan, sarà proprio un bel colpo! Si alzò dalla poltrona e disse al computer: "Interrompi interfaccia", e si trovò seduta nella poltrona in taverna, con un fischio lacerante che
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echeggiava tutto intorno. Proveniva dalla cucina. Il bollitore preferito di sua madre, quello che all'uscita del vapore emetteva il fischio di un treno, in quel momento stava sbattendo rumorosamente e fischiando come se stesse per esplodere; e da fuori arrivava il suono di un clacson per avvisarla che erano arrivati a prenderla. Megan si precipitò in cucina per togliere il bollitore dal fuoco prima che succedesse un disastro. Niente tè, pensò, ma, mentre spegneva il fornello, afferrava dal tavolo la borsa del computer, i libri, i dischetti e la carta magnetica della serratura di casa e si affrettava verso la porta, sorridendo entusiasta. Sarxos, sto arrivando!
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Regno Virtuale di Sarxos: ventitreesimo del mese verde,
anno del Drago-sotto-la-pioggia La locanda era costituita da un solo ambiente e il soffitto perdeva. La pioggia, che cadeva dolcemente con regolarità all'esterno, penetrava attraverso una parte del tetto su cui mancava la copertura di paglia, gocciolando cupamente sulla pietra incrinata del focolare, evaporando con un sibilo dove la colpiva. Il fumo del camino mal aerato si avvolgeva tutto attorno, azzurro come smog, sotto le travi annerite. Da quelle travi pendevano alcune lampade crepitanti, la cui luce nuotava nel fumo e in parte riusciva ad arrivare effettivamente fino alle antiche e massicce tavole di legno, tutte incise dai coltelli, al di sotto. Attorno a quelle tavole sedevano gruppi disparati di persone, che mangiavano e bevevano: contadini arrivati dai campi, nobili ostentatamente seduti sui loro mantelli ripiegati, in modo da non dover toccare fisicamente i banchi, soldati mercenari in armature di pelle tutte sfregiate, mercanti stranieri vestiti con eleganza che parlavano animatamente tra loro dei mercati di investimento di Sarxos e di come le guerre in corso li avrebbero influenzati, in altre parole la solita folla notturna dei Giorni-delle-Lune da Pheasant e Firkin, che tracannava bevande alle erbe o gahfeh oppure vino annacquato (ma fortunatamente senza piombo) dell'oste, dove tutti si guardavano a vicenda con sospetto e se la spassavano. Nell'angolo del camino c'era anche l'immancabile straniero tenebroso, incappucciato, con i piedi appoggiati su un grande alare, che fumava una lunga pipa e osservava la compagnia con gli occhi che sfavillavano da sotto il cappuccio. Un grosso gatto con il pelo bianco sporco, le orecchie seghettate e un occhio cieco lattiginoso passò accanto allo straniero, guardandolo e dicendo "Uh. Ancora tu..." e continuò la sua passeggiata. Leif Anderson, seduto nell'angolo più lontano della locanda, da solo a un tavolino accanto alla porta, si guardava attorno e pensava distrattamente che, in un certo senso, quello era proprio il tipo di posto da cui sua madre lo aveva sempre messo in guardia. Il
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problema era che, quando diventava apprensiva, lei si preoccupava che potesse finire in un posto come quello nel mondo reale, ma Leif dubitava moltissimo che ce ne fosse qualcuno: perlomeno, non dove avrebbe potuto incontrarli, a New York o a Washington. Forse nella Mongolia esterna, o nelle nuove Ebridi, o magari nello Yucon. Sorrise debolmente. Lo divertiva sempre che una persona dura come sua madre, che aveva danzato per anni nel balletto di New York City e perciò aveva un fisico come l'acciaio e una lingua tagliente come un rasoio, si preoccupasse del suo "bambino", come se non avesse ereditato a sua volta buona parte di quella durezza. All'improvviso comparve il locandiere: "Lei usa l'altra seggiola?" gli chiese. Era un archetipo, proprio come l'uomo vicino al camino: grasso, quasi calvo, con un grembiule che evidentemente era stato lavato l'ultima volta prima che cominciasse l'attuale ciclo del Drago e costantemente di cattivo umore. Leif alzò lo sguardo. "Sto aspettando qualcuno", disse. "Grande", disse il locandiere, afferrando con una mano la sedia vuota. "Quando arriva, può prendere un'altra seggiola. Ho bisogno di questa per i clienti che pagano" Leif raccolse il boccale di bevanda alle erbe che stava sorseggiando e lo scosse significativamente davanti al locandiere. "Però", disse il locandiere, "se vuole un'altra seggiola paga un'altra bevanda". Cominciò a ridere da solo a quella che doveva essere una battuta, mostrando dei denti che sarebbero stati perfetti in un romanzo horror per dentisti. "Non è una cosa saggia", disse Leif, "insultare un mago". Il locandiere lo squadrò con un ghigno di scherno, chiaramente non impressionato da quello che vedeva: un giovane magrolino in una tunica un po' malconcia decorata con simboli alchemici e magici stinti e dal significato oscuro. "Tu non sei nient'altro che un apprendista", lo schernì il locandiere. "Che cosa farai? Non lasci la mancia?" "Certo", disse Leif dolcemente, "che te la lascio." Si tolse il cappello, vi frugò all'interno per un attimo ed estrasse quello che stava cercando. Lo lanciò al locandiere, dicendo una parola sottovoce. Il locandiere lo afferrò istintivamente, rimase per un attimo a fissare quello che sembrava un semplice pezzo di straccio legato con un
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spago e poi assunse un'espressione stupita. Dal nulla comparve uno sbuffo di fumo, che lo avvolse. Tutte le teste si girarono a osservarlo. Il fumo si dileguò lentamente. Dove si trovava il locandiere ora c'era un topolino bianco che si guardava intorno sconvolto. Leif si chinò e raccolse il talismano avvolto nel cencio al suo fianco. "Anche i maghi delle siepi", disse, "conoscono qualche formula magica. Ti basta come mancia?" E lanciò un'occhiata sotto il tavolo vicino, prima di tornare a guardare il topo. "Buona giornata." Il topo si girò per capire che cosa avesse attirato l'attenzione di Leif... e vide il gatto bianco malconcio che gli si avvicinava con l'espressione di chi è pronto per uno spuntino prima di cena. Il topo si mise a correre sulle pietre consunte e piene di fessure del pavimento, con il gatto che lo inseguiva, senza affrettarsi troppo, già pregustando la prospettiva del suo antipasto. Gli altri avventori si girarono, non troppo preoccupati della vicenda, dal momento che la figlia del locandiere, del tutto indifferente, aveva cominciato a servire e a prendere gli ordini. Leif rimise via il suo talismano e si appoggiò allo schienale della seggiola con la sua bibita, distratto ancora una volta dal suono dei mercanti stranieri che discutevano dei mercati futuri. Qui, come nel mondo reale, c'era un commercio attivo fra i mercanti di futures di viscere di maiale e Leif non faceva fatica a immaginare suo padre seduto in mezzo a quei personaggi a parlare di margini e di vendite allo scoperto finché non arrivavano le mucche, o i maiali. Dovrei proprio farlo venire qui una volta o l'altra, pensò oziosamente Leif. L'abilità di suo padre nel campo degli investimenti, però, lo faceva saltare continuamente da una parte all'altra del pianeta, fisicamente e anche virtualmente: a tal punto che di solito si rifiutava completamente di passare il suo già scarso tempo libero in qualunque luogo virtuale, o facendo qualcosa che anche lontanamente potesse assomigliare a "parlare di lavoro". Se riuscissi a farlo venire qui, probabilmente preferirebbe essere un guerriero feroce vestito solo di un perizoma. Qualunque cosa pur di lasciare il doppiopetto... Momentaneamente l'attenzione di Leif fu attirata da un avventore dall'altra parte della stanza, un giovane alto, magro, dallo sguardo
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intenso in un farsetto scuro che stava controllando e pulendo metodicamente una pistola, una semiautomatica simile a una Glock dei tempi antichi. Normalmente quel genere di situazione avrebbe potuto generare un po' di agitazione, ma la locanda Pheasant e Firkin si trovava nel piccolo principato di Elendra, uno dei luoghi di Sarxos in cui la polvere da sparo non funzionava. In effetti non funzionava nella maggior parte dei posti a Sarxos. Il creatore del gioco aveva costruito il suo mondo alternativo soprattutto per quelli che preferivano armi strettamente meccaniche, in particolare quelle per cui i due avversari dovevano essere a distanza ravvicinata, faccia a faccia, per potersi uccidere. Chris Rodriguez però aveva evidentemente immaginato che ci sarebbe stato sempre qualcuno per cui la vita non sarebbe sembrata soddisfacente senza armi che facessero BANG, spesso e con più fragore possibile, e per loro, ai confini di Sarxos, c'erano i due paesi di Arstan e Lidios, in cui gli esplosivi e altre armi basate sull'energia chimica erano abilitate. Erano luoghi rumorosi, in cui si combattevano spesso guerre con un numero di vittime piuttosto elevato. Molti sarxoniani si proponevano di evitare completamente Arstan e Lidios, pensando che fosse meglio che i ragazzi e le ragazze con quei gusti continuassero a fare quello che li rendeva felici, senza distrarli o sconvolgerli con visioni irritanti di un mondo in cui la gente si comportava in maniera diversa. Evidentemente quelle visioni davano un po' fastidio a qualche giocatore, perché si verificavano spesso dei tentativi di trovare qualche esplosivo o qualche sostituto della polvere da sparo che funzionasse anche nel resto di Sarxos, nonostante il creatore del gioco insistesse che non c'era alcuna sostanza di quel genere, né ci sarebbe mai stata. Alcuni giocatori, aspiranti alchimisti o aspiranti trafficanti d'armi, ogni tanto passavano lunghi periodi di tempo a cercare di inventare una sostanza di quel tipo. Quasi sempre finivano per avere incidenti difficili da spiegare, tranne che con un vecchio detto sarxoniano: "Le regole si sistemano da sole". La maniglia di ferro nero della porta accanto a Leif si abbassò. La porta si aprì stridendo, ruotando verso di lui e bloccandogli la visuale. Gli avventori interruppero ogni attività e si girarono a guardare: lo facevano sempre, anche se la persona che entrava era qualcuno che
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conoscevano. Ma in questo caso evidentemente non lo era. Continuarono a osservarlo. L'individuo che era entrato si girò e chiuse la porta. Di altezza media, costituzione snella, con lunghi capelli castani intrecciati e avvolti intorno alla testa, abiti scuri, tutti di colori sobri, tunica marrone, calzoni e stivali neri, un farsetto di pelle aderente, fasce marroni incrociate sui pantaloni, un mantello scuro a coprire tutto, tagliato in fondo per andare a cavallo e uno zaino di pelle marrone. Se era armato, Leif non riusciva a vedere dove tenesse le armi... non che questo significasse qualcosa. La ragazza si guardò attorno abbastanza a lungo da completare la sua parte del gioco di sguardi, perché era un gioco. Bisognava incrociare gli occhi degli astanti, far sapere che si aveva lo stesso diritto loro di trovarsi lì... altrimenti sarebbero stati guai seri, che avrebbero potuto avere inizio o meno, ma che sicuramente avrebbero avuto una fine. Gli avventori di Pheasant e Firkin, percependolo, dimostrarono apertamente di aver perso interesse alla nuova arrivata. Il suo sguardo si rivolse a Leif. Lui si sollevò di nuovo il cappello, abbastanza da lasciar intravedere i capelli rossi. Lei sorrise e lo raggiunse, si sedette sulla sedia libera e si guardò attorno con un'espressione ironica. "Vieni qui spesso?" gli chiese. Leif fece roteare gli occhi a sentire la vecchia battuta. "No, parlo seriamente. Questo posto è una vera bettola. Come hai fatto a trovarlo?" Leif ridacchiò. "L'ho scoperto per caso l'anno scorso, durante le guerre. Ha un certo fascino, non ti sembra?" "Ah, topi! disse Megan, sollevando un po' i piedi da terra e osservando sotto la tavola qualcosa che correva. "Oh, beh, non importa, ecco che arriva il gatto..." Leif ridacchiò ancora. "Vuoi qualcosa da bere? Il tè non è male." "Magari tra un po'. Immagino che tu abbia avuto la lista di Winters." "Sì... qualche giorno fa." Leif allontanò il boccale e assunse un'espressione alquanto seriosa. "Devo ammettere che mi ha colto un po' alla sprovvista. Il problema
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è che le persone che conoscevo, le conoscevo con i nomi di gioco e non per la loro identità nel mondo reale, altrimenti forse me ne sarei resa conto prima; probabilmente ci sarebbero arrivati in molti. Ma quello che balza subito agli occhi è che tutti i giocatori 'espulsi' erano molto attivi. Nessun Bile" Leif usò il termine di Sarxos per "dilettanti", persone che entravano nel gioco con una frequenza inferiore a una volta alla settimana. "E per quel che posso dire, nessun personaggio 'secondario'. Tutti coloro che sono stati espulsi erano attori principali, di quelli che fanno muovere in un modo o nell'altro l'azione." Megan annuì. Anche lei evidentemente l'aveva notato. Ma lo guardò un po' storto. "Qualche giorno fa? Pensavo che avessi cominciato a guardarti intorno qui subito." "Oh, l'ho fatto." Leif le fece un sogghigno. "Ma volevo svolgere da solo un po' di lavoro di base. Se si fosse rivelata una perdita di tempo, beh, era solo il mio tempo, non quello di tutti e due." "Oh, va bene, e allora dove sei andato per il tuo lavoro di base?" "Verso nord, soprattutto." Sarxos aveva due continenti principali, uno a nord e uno a sud. Da quello settentrionale si stendeva un grande arcipelago, "la Mezzaluna" che scendeva verso sud, offrendo migliaia di paradisi adatti per i pirati, i ribelli e per quanti volevano trascorrere qualche settimana lontano dagli affari del gioco per perfezionare le proprie abbronzature virtuali. "Ho parlato con un po' di gente", disse Leif. "Uno di loro era un tizio il cui nome nel gioco era Lindau." "Lindau, quello dell'attacco del Porto Interno?" chiese Megan. "Già. Non che abbia attaccato un granché ultimamente, da quando è stato espulso. Ho chiacchierato anche con Erengis, che è stata la nemica principale di Lindau per tanto tempo. È una vera fucina di pettegolezzi su due gambe." Leif si stiracchiò, dando un'occhiata sotto il tavolo vicino. "Ho parlato anche ad alcuni nemici di Shel o di qualcuno degli altri espulsi; e anche con qualche loro amico." Doveva sembrare un po' compiaciuto, a giudicare dall'espressione sulla faccia di Megan. "Bravo", disse lei. "Ed è saltato fuori un nome particolare in mezzo a tutti? Sì, vero?" Leif fece un sorrisetto. "Sei stata là prima di me. "Argath", disse Megan. Leif annuì.
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Argath era il re di Orxen, uno dei paesi più a nord, una regione montuosa e scarsa di risorse, fatta eccezione per un gran numero di barbari vestiti di pelli di animali, uomini che amavano combattere senza preavviso. La regione si era guadagnata il soprannome di "Regno Nero", perché nell'arco dei tanti anni del gioco aveva avuto la tendenza a schierarsi con il Signore delle Tenebre durante le sue periodiche campagne. Chissà come, però, non era mai stata conquistata, cosa che provocava parecchia irritazione e invidia in alcuni altri giocatori. Argath era arrivato subdolamente alla guida di Orxen nell'ultimo decennio di gioco con mezzi che erano considerati normali a Sarxos. Si era fatto un nome come valoroso generale delle forze orxeniane nel corso del periodo di regno di un re debole e inefficace. Nessuno rimase particolarmente sorpreso quando il vecchio re Laurin una notte ebbe quello che sembrava un incidente vicino alla sua peschiera e fu trovato la mattina dopo dai suoi servitori annegato da parecchie ore. Nessuno si stupì quando l'omicidio non poté essere attribuito ad alcuna persona specifica e nessuno rimase sorpreso quando Argath fu eletto per acclamazione, visto che lo sfortunato re Laurin era sopravvissuto a tutti i suoi eredi. In seguito, la carriera di Argath era stata priva di eventi notevoli, secondo gli standard di Sarxos. Aveva fatto campagne di guerra in estate, come facevano quasi tutti, e durante l'inverno aveva intessuto i suoi intrighi, siglando accordi con altri giocatori o sottraendosi ad altri. Aveva vinto battaglie, e altre ne aveva perse, ma aveva soprattutto dominato: Argath sapeva far bene quello che faceva. Shel lo aveva combattuto circa un anno prima, con uno scontro simile a quello che aveva avuto con Delmond in cui era risultato il vincitore, fra la meraviglia della gente del luogo. L'esercito di Argath era molto più grande di quello di Shel. "E Argath", disse Megan, "non è un costrutto, non è un artefatto o una caratteristica intrinseca del gioco." "No, è un 'vivente', lo so", disse Leif. "Qualcuno una volta mi ha detto che cosa fa nella vita reale. Certamente uno come Argath potrebbe avercela con chiunque lo abbia sconfitto in un combattimento regolare."
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"Ma solo recentemente", disse Megan. "Tutte queste espulsioni sono avvenute nel corso degli ultimi tre anni di tempo-gioco. Perché avrebbe dovuto cominciare a dare la caccia ad altri all'improvviso?" "E perché no?" rispose Leif alzando le spalle. "Potrebbe essergli accaduto qualcosa nella vita reale che l'ha portato a giocare duro." "Può darsi, ma non abbiamo nessuna prova a sostegno di questa idea", disse Megan, "Sherlock Holmes afferma che è una mossa azzardata fare ipotesi senza avere abbastanza dati. Comunque, tutto quello che abbiamo fin qua sono prove circorstanziali." "Sì, ma da qualche parte si deve cominciare", disse Leif. "E sarà da Argath, a meno che tu non trovi qualcosa di meglio." "Non so se sia meglio", disse Megan. "Stavo pensando di andare a Minsar." "Dove è successa l'ultima espulsione." "Non tanto per il posto in sé, ma lì, come dicono, 'sono raccolte le aquile'. Non è possibile che il comandante di un esercito, anche di piccole dimensioni, finisca disperso-e-presunto-espulso senza attirare molta attenzione, e lì staranno fino a che la situazione non si risolve... finché non troveranno un nuovo signore a cui giurare fedeltà, o decideranno di sciogliersi. Potremmo scoprire parecchie cose mentre tutti scendono sul posto per trovare una soluzione." "Non è un'idea malvagia. Ma io continuo a pensare che dovremmo guardare ad Argath." Megan fece una faccia del tipo "e perché no". "E dove si trova esattamente il grande A al momento?" "Indovina." "Minsar?" Megan sembrava confusa. "Stai scherzando. E cosa ci farebbe là? Minsar è troppo piccola per lui. Una città libera non è qualcosa che possa suscitare il suo interesse. Argath si muove per interi paesi. Guarda che cosa ha fatto a Sarvent, e su a nord a Proveis! La città non è neanche un punto di particolare valore strategico. E il fiume non è navigabile fino a quell'altezza." "Nessuno saprà che cosa stia facendo là", disse Leif. "Può darsi che il motivo sia semplicemente la vendetta. In fin dei conti, Shel lo ha battuto una volta. C'è un vuoto di potere. Può darsi che ora pensi di poter arrivare e prendere il sopravvento."
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"Non so." Scosse la testa. "In passato Argath è stato un abile stratega. Perché dovrebbe fare una cosa così ovvia?" "Noncuranza", disse Leif. "La certezza di non essere colto in fallo." "Beh... può darsi. Comunque, come dici tu, da qualche parte si deve cominciare..." Megan si guardò intorno. "A chi si ordina qualcosa da bere qui?" "Alla figlia del locandiere. Il suo papà è impegnato." Leif fece un sorrisino che gli procurò una breve occhiata penetrante da parte di Megan. Leif se ne rimase lì con l'aria innocente finché non arrivò la figlia del locandiere. Megan ordinò del tè. Quando arrivò, per qualche momento si limitò a sorseggiarlo e a riflettere, mentre Leif rivolse la sua attenzione a qualcosa che stava succedendo nella penombra sotto un tavolo alla loro destra. "Allora", disse lei. "Come ci arriviamo? A piedi? O hai dei cavalli qui fuori?" "Uh?" Leif la guardò, sconcertato per un attimo. "Oh, no. Io cado da cavallo." "Oh." "Non me lo dire. Tu cavalchi." Megan storse la bocca. "In realtà, non è proprio il mio forte. Non mi importerebbe di marciare per tutta la strada, tranne che Minsar è parecchio distante da qui e odio perdere tempo." "Sei fortunata a viaggiare con un mago, allora", disse Leif. "Ho risparmiato circa tremila miglia." Fu soddisfatto del rapido sorriso di sollievo che Megan gli lanciò. Chi non aveva un cavallo che lo portasse in giro per Sarxos, o qualche altro mezzo di trasporto, come una squadra di lettighieri o un basilisco addestrato, di solito finiva per camminare... e poteva sembrare che i viaggi non finissero mai: faceva parte dell'obiettivo del progettista procurare ai giocatori una "vera esperienza" del proprio mondo. Ma i giocatori che lo volessero potevano scegliere di ricevere i punti che guadagnavano nel gioco non sotto forma di danaro o di potere, ma come transito: la possibilità (utilizzando l'opportuna formula magica di transito rapido, una formula così semplice che anche chi non era un mago poteva maneggiarla) di scomparire da un posto e ricomparire in un altro. Solo gli eserciti non potevano ricorrere a quello strumento: si raccontava che Rodriguez avesse detto che sarebbe stato "dannatamente troppo simile alla vita reale". Le persone che
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viaggiavano in pace e in compagnia potevano usarlo per andare dovunque volessero. "Sono parecchie miglia", disse Megan. "Che cosa hai fatto per guadagnare tutti quei punti?" "I soliti incantesimi dei maghi", disse Leif. "Guarire i malati... far risorgere i morti." Megan sollevò un sopracciglio. Erano ben pochi i maghi di Sarxos che avessero tutto quel potere. "Beh, guarire i malati comunque", disse Leif con un sorrisetto. "Quando sono entrato nel gioco, ho acquistato una pietra salutare da una vecchia saggia che si stava ritirando. È un'ottima pietra, efficace per tutto fino alle ferite di quinto livello circa e per le malattie di sesto livello." Megan sbatté le palpebre, evidentemente impressionata. "Quinto livello? Qualsiasi pietra che possa far ricrescere un braccio o una gamba tagliati deve averti reso molto popolare sui campi di battaglia. Come diavolo hai potuto permetterti una cosa del genere?" Leif rise sottovoce. "Beh, in realtà non avrei potuto permettermelo. Ma la donna è stata molto gentile. L'ho incontrata nella foresta e lei mi ha chiesto un sorso d'acqua, io gliel'ho dato." "Oh", disse Megan, "una di quelle vecchie signore. Hai fatto una Buona Azione e lei ti ha dato una Ricompensa." C'erano moltissime cose di questo genere a Sarxos: Rodriguez non si era fatto scrupolo di rubare soggetti, più o meno noti, da racconti di fate, leggende popolari e storie di fantasia di ogni epoca, dal presente fino ai tempi di Luciano di Samosata. Di conseguenza, di solito era bene trattare gli stranieri con sollecitudine, quando li si incontrava nei boschi. Potevano essere giocatori sotto mentite spoglie... oppure poteva trattarsi del creatore del gioco, interessato a scoprire se si giocava secondo lo spirito che si era auspicato. "Beh, ricompensato, sì, ma mi ha semplicemente fatto uno sconto, non me l'ha regalata", disse Leif. "Comunque, sembra proprio che tu abbia fatto un affare." "L'ho fatto. Ed è un'ottima copertura per me, per andare a Minsar", disse Leif. "Probabilmente ci sarà un bel numero di feriti che ancora non sono stati curati, o perlomeno non da maghi esperti. E qual è il tuo pretesto?"
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"Come al solito", disse Megan. "Guerriero provocatore indipendente, ladro o spia, a seconda delle occasioni e a seconda di chi mi paga. Me ne vado in giro, vedo chi fa che cosa e a chi poi vendo l'informazione a chi paga di più. Ogni tanto rubo anche qualcosa... per una buona causa, ovviamente. Combatto, se è il caso. Anche qui, dove la gente dovrebbe essere più accorta, non sempre sospettano che una ragazza o una donna possano essere in gamba nel combattimento come sono loro, o anche più in gamba." Sorrise, un po' amaramente. "Nessuno sospetta di te. Se poi non ti presenti come una scudiera gigante con un reggiseno d'ottone e una grande lancia. Ti dirò che mi fa perfino comodo sfruttare i luoghi comuni... anche se lo faccio solo al negativo." Leif annuì, pensieroso. "È una buona copertura", disse. "Le spie hanno un buon motivo per essere ovunque... anche quando, in realtà, non ce l'hanno. E fanno crescere il livello di paranoia intorno a loro semplicemente con la propria presenza. La gente si lascia sfuggire cose che altrimenti non si sarebbe magari lasciata sfuggire." "Già." Megan bevve altro tè, poi si fermò un attimo a guardare nel boccale. "Che diavolo... c'è qualcosa dentro questa roba!" "Che cosa? Altre erbe?" "Le erbe non hanno così tante zampe. Si tratta di un insetto", disse Megan fermandosi un istante per ripescarlo, esaminarlo un attimo con occhio critico e poi lanciarlo dietro le spalle. "Va bene. Ci aspettano molte miglia da percorrere. Ce ne andiamo appena finito qui, se sei pronto." "Certo. Ho bisogno di qualche istante per verificare le coordinate prima di partire e basta. Non voglio finire in Wussonia per errore." Megan lo guardò con un'espressione perplessa. "Wussonia? Non ho mai sentito questo nome." Leif fece una smorfia. "È proprio dall'altra parte della Baia del Crepuscolo", aggiunse. "Un posto piccolo, isolato. E per buoni motivi." "Oh?" "Non essere così interessata! Non vorresti mai andarci." Leif alzò leggermente le spalle. "Il posto è, beh, un po' soft. Pieno di principesse malinconiche travestite da Barbie che vanno in giro alla ricerca della Cosa Magica e saggi unicorni telepatici con grandi occhi
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pieni di tristezza atavica e piccoli nanetti coi cappelli a punta che viaggiano in groppa agli animali amichevoli della foresta. Orsetti e tassi in miniatura che vivono in casette costruite nei tronchi degli alberi. Fatine svolazzanti con alucce trasparenti." Megan fece una smorfia. "Sembra una cosa così dolciastra da farti salire il livello degli zuccheri nel sangue." "O da far male alla tua salute mentale. Non è molto lontana da Minsar: è questo il problema. Basta sbagliare una virgola decimale nella formula magica di trasferimento e ci ritroviamo là. O, peggio ancora, ci ritroviamo ad Arstan o a Lidios." Diede ancora un'occhiata al tizio che per la terza o forse la quarta volta stava pulendo il suo clone di Glock. "No, grazie", disse Megan, "ci sono già abbastanza pistole dove vivo." Leif annuì e si appoggiò allo schienale, stendendo le gambe. "Anche se non siamo già sulla traccia giusta, cosa di cui dubito", disse, "dovremmo riuscire a scoprire qualcosa di utile a Minsar, se, come dici tu, i grandi giocatori stanno tutti convergendo in quel posto. I pettegolezzi sono sempre più vivaci dopo una battaglia... in particolare dopo una battaglia in cui uno dei protagonisti è stato espulso." "È quello su cui conto io", disse Megan. "Se possiamo solo... che cos'è?" chiese curiosa, perché Leif improvvisamente stava guardando di nuovo sotto il tavolo vicino. "Oh, oh", disse Leif. "Beh, penso che la cosa sia andata avanti abbastanza a lungo. Esmiratovelithothl" Ci fu un BANG! per lo spostamento d'aria sotto il tavolo. Tutte le teste si girarono, in particolare quella del tipo che stava pulendo la quasi-Glock. Tutti rimasero a guardare. Da sotto il tavolo, sporco e imprecante, uscì carponi l'oste. Il viso e le braccia erano pieni di brutti graffi: i segni sembravano graffi di gatto, ma molto più profondi e ampi di quello che avrebbero dovuto essere. Mormorando, ma senza guardare Leif, l'oste si alzò in piedi, si spazzolò e si diresse verso la cucina imprecando con veemenza sempre maggiore quanto più si allontanava. Il ragazzo con il cappuccio scuro nell'angolo del camino stava ridendo, più rivolto al tipo con la Glock che all'oste. Megan rimase a guardare quest'ultimo incuriosita. "Era lui il topo?"
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"Uh, uh..." "Questo non viola la legge del quadrato-cubo o qualcosa del genere? Voglio dire, che cosa ne è stata di tutta quella massa mentre aveva le dimensioni di un topo?" "Ehi", disse Leif, "è magia, il che vuol dire che è il software a gestire tutti i dettagli più sordidi. Non chiedermi cose che riguardano la progettazione del software... non è la mia specialità." Si alzarono. Megan lanciò sulla tavola una moneta tintinnante. La figlia del locandiere la afferrò, la morse nel modo opportuno e quindi la nascose nel suo corpetto. "Questa volta tocca a me", disse Megan mentre la ragazza se ne andava. "Viste le circostanze, potresti avere dei problemi se tentassi di pagare. L'oste potrebbe pensare che vuoi lanciargli una maledizione." "Questa è una cosa che non farei mai." "Vallo a dire a lui" disse Megan, girandosi a dare un'occhiata all'oste ancora furioso, che continuava a inveire. Uscirono. Megan fu felice di andarsene, dato che si cominciavano a manifestare le premesse di uno scontro fra il tipo con la Glock e l'uomo con il cappuccio scuro che sedeva vicino al camino. "Stai guardando me?" stava chiedendo il tizio con la Glock. "Non c'è nessun altro da guardare qui? Stai guardando proprio me?" "L'aria si stava surriscaldando lì dentro", disse Megan mentre si dirigeva con Leif verso il grande rettangolo d'erba che era il "parco del villaggio" di fronte a Pheasant e Firkin. "Meglio andarsene adesso, allora", disse Leif. "A Minsar comunque succedono fatti più interessanti. Incidentalmente, quando arriviamo là, noi 'ci conosciamo'?" Megan ci pensò mentre si dirigevano, nel buio della sera, verso uno spazio vuoto di fronte alla locanda. Qua e là, nell'erba, c'erano pecore che brucavano e avevano lasciato nell'erba quel genere di tracce che le pecore lasciano spesso dietro di sé, perciò Megan stava attenta a dove metteva i piedi. "Non vedo perché non dovremmo. Ci sono abbastanza occasioni di incontrarsi per caso a Sarxos che nessuno probabilmente sospetterà che vi sia qualcosa di strano. E nessuno di noi ha un profilo tanto alto da attirare l'attenzione, solo perché è in compagnia dell'altro."
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"Giusto", disse Leif. "Va bene, possiamo fare il trasferimento da qui." "Non lì", disse Megan, indicando il terreno. "A meno che tu non voglia portare con te quel mucchio di sottoprodotto di pecora." "Oh." Leif si allontanò di qualche passo. "Giusto." "Quanto è grande il cerchio di transito?", disse Megan. "Un metro e mezzo. Sei pronta? Adesso andiamo." Megan si guardò intorno per verificare che tutto quello di cui aveva bisogno non si trovasse all'esterno del cerchio del metro e mezzo. Andava tutto bene. Le sue armi erano tutte fissate molto vicino alla sua persona, oppure facevano già parte di lei. Leif pronunciò una parola di sedici sillabe. Il mondo diventò nero, poi bianco, poi di nuovo si oscurò e Megan sentì una specie di scoppio nelle orecchie. Qualche secondo dopo, un altro scoppio, mentre tentava di far scomparire i puntini fosforescenti che le danzavano davanti agli occhi, sfregandoseli. Il problema con le magie di trasferimento era che per un attimo provocavano nella realtà virtuale la stessa sensazione che si solito si provava all'entrata e all'uscita dell'iperspazio, e per qualche secondo ti lasciavano disorientati e semiciechi, come se qualcuno ti avesse agitato una torcia elettrica davanti al viso. Megan sbatté le palpebre. La vista stava tornando rapidamente normale. Si trovavano nel silenzio profondo di una foresta di pini, buia e fitta, di quelle che compaiono regolarmente nelle storie di fate, con la notte che incombeva rapidamente. Nessuna traccia della città di Minsar. "Hai sbagliato", disse lei cercando di non avere un tono accusatorio. "Merde", mormorò Leif, "dannazione, come è potuto succedere?" "Non me ne preoccuperei", disse Megan, facendo uno sforzo per impedirsi di scoppiare a ridere. Sapeva che Leif conosceva bene le lingue, ma quello non era il tipo di impiego per cui normalmente pensava venisse utilizzato un simile talento. "Cerchiamo solo di scoprire dove ci troviamo." "Sì, certo..." Leif si guardò attorno, poi si infilò le dita in bocca ed emise un fischio lacerante. Megan lo guardò con un po' di invidia. Anche con quattro fratelli, era un'arte che non era mai riuscita a padroneggiare. Sembrava proprio che
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i suoi denti fossero nei posti sbagliati uno rispetto all'altro. Leif fischiò ancora, più forte, poi si guardò attorno, in attesa. Ci fu un fruscio in un pino vicino a loro, qualcosa di nero saltò da un ramo alto a un ramo più basso. Era un uccello esploratore. Questi uccelli si trovavano qua e là all'interno del gioco e fornivano indicazioni di carattere generale. A Sarxos, quando qualcuno chiedeva qualcosa, si poteva affermare tranquillamente, che "l'aveva detto un uccellino". Qualcuno di quegli uccelli non era tanto piccolo, però. Questo aveva le dimensioni e il colore di un corvo, ma con un aspetto intelligente e un po' malvagio che pochi corvi sarebbero stati capaci di dimostrare. "Ehi", disse Leif, "abbiamo bisogno di un consiglio." "Me ne è arrivato un rifornimento proprio questa mattina", disse l'uccello, con una voce untuosa dalla quale si poteva immaginare che in una vita precedente fosse stato un venditore di auto di seconda mano. "Se girate qui e prendete quella strada per un miglio circa", e indicò alla sua sinistra con il becco, "troverai di fronte a te, su un picco elevato, una farina sdraiata sulla roccia, circondata dal fuoco..." "Oh, no, assolutamente no", disse Leif rapidamente. "So come va a finire questa storia. Sarebbe meglio una guerra nucleare." "Certo dopo non troveresti più nessuno che canta così", disse Megan. "Che strada dobbiamo percorrere per arrivare a Minsar da qui?" L'uccello la guardò freddamente. "Quanto vale per te questa informazione?" "Una mezza ciambella inglese?" L'uccello sembrò prendere in considerazione la proposta. "Affare fatto." Megan frugò nel suo zaino e ne estrasse la frittella, che cominciò a sbriciolare per terra. L'uccello scese volando e cominciò a beccare le briciole, ma Megan fece un passo avanti e lo cacciò via. "Ehi!" disse l'uccello, arrabbiato. "Prima le indicazioni", disse Megan. "Proseguite per questa strada per un miglio e mezzo, prendete la prima a destra, procedete per un altro miglio e vi troverete al guado", disse l'uccello. "La città si trova giusto due miglia più a nord. Ora dammi."
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Megan indietreggiò e l'uccello svolazzò in avanti. "Come sono cambiate le cose", mormorò mentre cominciava a ingozzarsi di briciole di frittella. "Il problema è che nessuno si fida più di nessuno." Leif ridacchiò. "Nessuno dà niente per niente qui", disse. "Ciao ciao, uccellino!" L'uccello, impegnatissimo a beccare, non rispose. Se ne andarono. Leif sembrava ancora irritato per avere sbagliato il suo primo transito. "Posso trasportarci da qui", disse. "Le coordinate non dovrebbero essere un problema." Megan alzò le spalle. "Perché consumare buone miglia quando siamo così vicini? Possiamo tranquillamente camminare. Non è che la foresta sia infestata di spettri o da qualcosa del genere." "Non ho sentito niente di simile", disse Leif "ma comunque..." "Se vuoi saltare va bene", disse Megan. "Ma qualche miglio in mezzo al buio non mi preoccupa affatto." "Oh, va bene... hai ragione, immagino. Andiamo." Si incamminarono. Impiegarono poco più di un'ora per arrivare a Minsar e sentirono i suoni e gli odori del luogo molto prima di vederlo. Il primo odore che sentirono non fu proprio quello della città, bensì quello del campo di battaglia giù vicino al guado. Il tempo soggettivo a Sarxos passava più lentamente che non nel mondo reale. Era stato Rodriguez a volere che fosse così sia per consentire ai giocatori di avere più esperienza (vista la cifra che versavano per partecipare) sia per rifarsi alle antiche leggende che tramandavano che il tempo scorresse più lentamente per coloro che erano portati via da Elfi o da altre creature soprannaturali che popolavano altri mondi. Ciò significava che nel mondo esterno poteva essere trascorsa una decina di giorni dalla battaglia di Shel Lookbehind con Delmond, ma qui erano passati solo pochi giorni; e neanche un intero esercito di spazzini avrebbe potuto pulire il guado dell'Artel in quel mentre. Dato che era già buio, gli uccelli necrofagi se ne erano andati. Ma quando Leif e Megan scesero verso il guado e i loro passi fecero scricchiolare la ghiaia sulla riva, molti occhi fosforescenti si alzarono a guardarli dall'altra parte del fiume, curiosi, disturbati nel loro banchetto. "Sono solo lupi", disse Leif.
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Megan digrignò i denti, sia per l'odore sia per la vista di tutti quegli occhi interessati, mentre guadavano le acque fredde e veloci del fiume. "Appena. Appena un centinaio di lupi." "Dall'odore si direbbe che ci sia già molto che li tenga occupati", disse Leif. "Non ci importuneranno." "Sicuramente no", disse sottovoce Megan. Leif si voltò a guardarla e rimase leggermente sorpreso alla vista del pugnale, lungo e affilato, che le era comparso improvvisamente in mano. "E quello dove lo tenevi?" le domandò. "Certo non in vista", disse Megan, mentre avanzavano al centro del campo di battaglia. Non aveva senso tentare di aggirarlo; i cadaveri erano ovunque. Mentre attraversavano il campo, si sentivano gli sguardi dei lupi puntati addosso, ma poi questi ripresero a occuparsi del macabro pasto. Nel silenzio della notte, il suono della carne dilaniata e delle ossa triturate sembrava assordante. Megan fu molto felice quando finalmente ritornarono sulla strada e il rumore si allontanò alle loro spalle, dietro una curva. Ci volle più tempo perché svanisse l'odore e, quando se ne fu andato, stavano già percependo l'odore del sistema di fognature di Minsar, che scaricava quanto usciva dai canali di scolo al centro delle strade dentro a stagni situati all'esterno delle mura. Minsar risaliva a centinaia di anni addietro e le sue dimensioni ormai erano il doppio dell'area racchiusa dalle mura. Intorno alla cerchia delle vecchie mura fatte di blocchi di granito c'era una città più o meno permanente di tende e baracche, con l'inevitabile piccolo assembramento di botteghe artigianali dagli odori troppo sgradevoli o troppo pericolose per svolgere le proprie attività all'interno delle mura. Come quelle dei conciatori, dei cartai e dei fornai (come altre città Minsar aveva scoperto che, nelle condizioni giuste, la farina poteva diventare un esplosivo). Ora, però, c'era un nuovo accampamento di tende e di strutture temporanee all'esterno delle mura: il padiglione e i carri dell'esercito che aveva difeso Minsar e gli equipaggiamenti di numerosi altri gruppi di guerrieri, grandi e piccoli, che erano venuti sotto gli auspici di un signore o di un altro per mantenere il controllo della situazione. Megan e Leif si aprirono la strada verso le porte della città attraverso un frastuono assordante e un miscuglio di odori sgradevoli. Carne
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arrostita, vino spillato, pane che cuoceva dentro ai forni (i fornai evidentemente stavano lavorando ininterrottamente per soddisfare le richieste), sterco di cavalli, pozze stagnanti e maleodoranti sotto le mura della città, l'occasionale ventata di profumo che arrivava da qualche civile al seguito dell'esercito o da qualche soldato lavato e profumato, appena usciti dai bagni costruiti all'esterno delle mura, tutti quegli odori si fondevano in mezzo al suono di molte voci, che parlavano o urlavano in molte lingue diverse, ridendo, imprecando, scherzando, discorrendo. Leif e Megan ascoltavano i discorsi come meglio potevano, mentre si avvicinavano alle porte e le superavano. Le guardie alla porta esercitavano una sorveglianza assolutamente blanda. La città era evidentemente ancora di umore festoso, dopo essere stata salvata dal sacco minacciato da Delmond. La maggior parte dei discorsi che Leif e Megan sentivano, dirigendosi verso il selciato della via principale, non si riferiva ad altro: il pericolo scampato per un soffio, l'esercito improvvisamente privo di una guida e quale futuro lo attendeva. "Dov'è finito il coltello?" disse sottovoce Leif. "L'ho messo via", disse Megan. "Bene. I pugnali qui sono fuori legge." "Non penso che qualcuno sarà in grado di far valere questa regola, stanotte", disse Megan, guardando tutto intorno le schiere di uomini e donne armati che si aggiravano, tentando di arrivare alle locande della piazza, o che ne uscivano con le bevande in mano. Cercò di non fermarsi alla vista di un nano gobbo, vestito chiassosamente, che attraversava il loro cammino, facendosi strada attraverso la folla brandendo una spada in miniatura, con gran divertimento di tutti. "Tu vuoi provare a disarmare tutta questa gente? Quante guardie pensi che ci siano a Minsar?" "Stanotte? Meno del solito", disse Leif. "Sono d'accordo con te." Oltrepassarono un altro capannello di gente accalcata davanti alla porta di una locanda. All'interno c'era una folla impossibile, tutta schiacciata come sardine medioevali, che urlava e spingeva per arrivare al bancone o per allontanarsene. Una cameriera corpulenta stava attraversando la calca con le mani piene di boccali di birra, fatti di pelle, incatramata all'interno. Usava quelle specie di borracce di cuoio come armi offensive e intorno si formava un po' di spazio,
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quando la gente si tirava indietro per evitare di essere schizzata o calpestata. Leif si infilò nel capannello all'esterno della porta e vi si inoltrò un po', con Megan alle costole. Il turbine di voci si chiuse sopra le loro teste come l'acqua sopra il capo di un nuotatore. "Non so perché Ergen insista a venire la sera quando è il momento più affollato..." "Andarsene di qui..." "Su nel salone a cercare Elblai, ma non è rimasta a lungo, perciò pensavo..." "Troppi idioti qui che vogliono sbronzarsi e fare a cazzotti, non vorrei..." "Cinque di malto e un vino bollito..." Megan osservò uno dei primi che avevano parlato allontanarsi dalla folla seguito da un paio di amici. Batté sulla spalla a Leif e fece un gesto col capo per indicargli di cambiare direzione. Lui annuì, e la seguì un po' fuori dalla calca. "È un peccato che non abbiano delle docce qui", mormorò. "Dopo questo sento proprio di averne bisogno." "Ehi, la notte è giovane. Ascolta, ho sentito un nome che conosco." "Oh?" "Sì. Elblai. Vedi quei tipi. Quelli che sono entrati in quel vicolo. Vieni con me." Lui si guardò intorno, e li identificò in mezzo alla folla: due uomini alti, due più bassi e uno molto piccolo, che stavano infilandosi in un vicolo. Megan si avviò dietro di loro. Leif la seguì. "Che cosa dicevano?" "Qualcosa che mi ha incuriosito." Fece un mezzo sorriso nella luce debole delle torce. "Quando si fa la spia abbastanza a lungo, si colgono indizi di quello che vai la pena di ascoltare. Potrebbe trattarsi di qualcosa di interessante." Megan si addentrò nel vicolo, con Leif alle spalle. Il vicolo non era largo più di un metro e mezzo, con porte e finestre chiuse da imposte su ambedue i lati. "Questa non è una strada", mormorò Leif, "è un corridoio." Verso la fine del vicolo, c'era una porta leggermente socchiusa. Dalla fessura si vedeva uscire il tremolio della luce di un fuoco e dall'interno proveniva il suono smorzato di voci, risa e urla.
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La porta si aprì per far entrare gli uomini che Megan e Leif stavano seguendo, poi cominciò a richiudersi nuovamente. Megan corse avanti per seguirli prima che la porta si chiudesse completamente. Si infilò all'interno, cercando di farlo con noncuranza. All'interno c'era un camino proprio di fronte alla porta, e accanto a esso un portello che si apriva sulla cucina. Il portello aveva un ampio davanzale con vari boccali di birra in attesa e, quando Megan e Leif entrarono, delle mani si protesero dal portello e passarono a una cameriera un pollo arrosto su un piatto. Era un locale di medio livello. Mentre altre locande avevano torce infilate in anelli di ferro alle pareti, questa aveva vere lampade a olio, coi vetri attorno. Sui vecchi tavoli sfregiati, sparpagliati nel locale, c'erano candele con lo stoppino di giunco, ogni candela bloccata in un piccolo sostegno di ferro, che bruciava come una piccola stella fumosa. La maggior parte dei tavoli era occupata da persone che mangiavano e bevevano, fumavano e chiacchieravano. Leif, che era dietro a Megan, le batté sulla spalla, indicando un tavolo vuoto su un lato, non troppo vicino a quello a cui si stavano sedendo gli uomini che avevano seguito, ma non così lontano da non consentire di origliare la loro conversazione. Per fortuna, gli uomini non parevano affatto preoccupati di farsi sentire. Urlarono per richiamare l'oste, ordinarono vino, si sistemarono intorno al tavolo e ricominciarono la loro chiacchierata più o meno da dove l'avevano interrotta. "Andarsene via in questo modo." "È stato espulso. Lo sanno tutti." "Sì, beh, sono sicuri che sia proprio vero?" "Oh, via, chi ha mai sentito di qualcuno che abbia finto un'espulsione? Non penso nemmeno che sia possibile. Le Regole." "Non mi risulta che ci sia qualcosa nelle Regole che lo impedisca", disse l'uomo più piccolo, che aveva una faccia da falco e piccoli occhi saggi. "Potrebbe essere una nuova tattica interessante. Svanire... poi tornare quando non ti aspetta più nessuno." Megan fu distratta quando una donna alta e magra si fermò accanto al loro tavolo e chiese: "Cosa prendete?". "La vostra migliore bevanda al miele, buona donna", disse Leif. "E per la mia compagna..."
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"gahfeh, per favore", disse Megan. "Tostatura morstofiana, crema densa e doppio dolcificante." La donna alta e magra gettò all'indietro i capelli e disse: "Niente crema. Il dolcificante doppio è extra". "Oh, va bene, niente crema, dolcificante singolo", disse Megan, rassegnata. La donna se ne andò, con un'espressione che sembrava dubitare della salute mentale di Megan per aver chiesto un extra. "... Penso che sia una tattica che vorrei provare", disse uno degli uomini. "E non mi sembra neanche nello stile di Shel". "Oh, tu lo conosci bene, vero?" "No, ma io sento le notizie come tutti gli altri. Se lui..." Si interruppe quando al loro tavolo arrivò la cameriera, e ci fu una lunga digressione, che riguardava principalmente bevande calde e fredde. Megan non era interessata, ma era incuriosita dalla reazione di alcuni avventori, guerrieri e mercanti che sedevano abbastanza vicino da sentire quello che succedeva. Alcuni cercavano di avvicinarsi a quegli uomini senza farsi notare. Quando la cameriera si allontanò, gli uomini che Megan era stata ad ascoltare avevano abbassato notevolmente le voci. Aggrottò un po' le sopracciglia e si dedicò al suo gahfeh che era appena arrivato. "Tutta teoria", disse Leif sottovoce. "Qualche volta la gente non riesce a credere a quello che è successo veramente", disse Megan. "Cominciano a razionalizzare. Vorrei soltanto che citassero ancora quel nome, è tutto." Leif scosse la testa in un gesto che voleva dire "che importanza può avere". La voce degli uomini stava crescendo. "Perché dovremmo stare a marcire qui giù quando tutti gli altri sono su nel salone?" Megan si scoprì a desiderare che non fosse un gioco, ma qualche altra forma più tradizionale di intrattenimento in cui si potesse semplicemente alzare il volume per sentire meglio. "Non ci lasceranno sicuramente entrare", rispose l'uomo a cui era stato rivolto l'invito. Ci fu un'altra pausa quando arrivarono le bevande. Il primo uomo afferrò il boccale di pelle con la birra che aveva ordinato e ne ingollò rapidamente un lungo sorso. "Noi no forse, ma tutti i grandi Giocatori entrano tranquillamente. Non possono permettersi di lasciar fuori qualcuno stanotte. Chi sa mai chi può presentarsi; non riuscire a
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entrare, andarsene irritato... e ripresentarsi la prossima settimana con cinquemila altri che nessuno avrà il coraggio di mandare indietro? La città pagherà il conto per il divertimento dei grandi, stanotte, sono pronto a scommetterci. È nel loro interesse. Domani, chi lo sa; potrebbero non avere più riserve di viveri e trovare una scusa per buttar fuori tutti. Ma nessuno caccerà di là i pezzi grossi, non stanotte. Ci sono troppe trattative in ballo." "E tu che cosa ne sai di queste trattative?" "Oh, lo so e basta." "Certo, tu sei il miglior amico di Argath, lo so. È per questo che sei giù qui con tutti noi a bere questa roba annacquata." Ci fu uno scoppio di risa e un grugnito, dal quale si poteva dedurre che le cose avrebbero potuto mettersi male, se gli altri avessero insistito nel prenderlo in giro. Leif guardò Megan. "Hai sentito un nome? Che nome?" le chiese. Lei glielo disse. "Beh", disse lui, "penso di averne appena sentito un altro. Sembra che valga la pena fare una capatina". "Sì, certo, se riusciamo a trovare un modo per intrufolarci là senza essere presi per le orecchie buttati fuori." Leif si concentrò. Megan rimase tranquilla per qualche secondo, la discussione all'altro tavolo era scesa al di sotto della soglia di udibilità mentre un paio degli uomini cercava di calmare quello che era sembrato irritato, poi disse molto sottovoce a Leif: "Quanto te la cavi come mago delle siepi?" Lui la guardò con l'aria offesa per aver dubitato delle sue capacità professionali. "Sono un ottimo mago." "Vuoi fare un altro transito?" "Da qui? Se sbaglio solo un decimale ci ritroviamo dentro una parete, e così finisce una coppia di apprezzati personaggi. E tutta la missione va in fumo. No, grazie!" "Va bene. Puoi usare l'invisibilità?" Leif la guardò, un po' sorpreso. "Ovviamente." "Per due?" Ci pensò un poco. "Non a lungo." "Non ce n'è bisogno. Deve durare soltanto quel che basta per farci arrivare al salone dove i pezzi grossi si sono riuniti. Dopo possiamo nasconderci dietro un arazzo o qualcosa di simile."
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"Mi costerà parecchi punti", disse Leif. "E per una buona causa. Dai, Leif. Ti darò un po' dei miei punti per compensare quelli che usiamo! I punti non mi mancano." "Va bene", disse Leif. "Cerchiamo però di arrivare il più vicino possibile. Dov'è il salone?" "Nel maschio centrale, ne sono sicura." Fingendo la massima indifferenza, finirono le loro bevande, pagarono il conto e uscirono nel vicolo, chiacchierando in modo che speravano risultasse normale. In una notte come quella, persone che si muovessero silenziosamente nel buio avrebbero attirato l'attenzione. "Se ci sono tutti e due", disse Leif, "ci siamo." "Se sono lì", disse Megan. Si diressero verso il maschio, un'alta struttura quadrata in pietra che torreggiava sul retro della piazza centrale del mercato. Attorno alla porta d'ingresso, aperta, stazionavano quelle che sembravano parti di varie compagnie di guardie del corpo. Stavano bevendo in coppe di metallo pregiato e parlavano tranquillamente, guardandosi attorno, per aver almeno l'aria di non aver abbandonato ogni tipo di sorveglianza. Molti avevano dei giacconi colorati sopra le armature e quasi tutti avevano lo stemma di qualche signore ricamato sul petto del giaccone. Osservarono con scarso interesse il passaggio di Megan e Leif, diretti verso la zona in ombra sul fianco del maschio, dove passava una strada stretta che scendeva in mezzo alla città. Passando, Megan riuscì a lanciare un rapidissimo sguardo attraverso il portone a quello che succedeva all'interno: un turbinio di colori, suono di voci che rumoreggiavano e rimbombavano sotto l'alto soffitto del salone, grandi arazzi sul fondo del salone che si muovevano leggermente al vento che entrava dalle alte finestre, che quegli stessi arazzi nascondevano. Leif si fermò in un punto, appena girato l'angolo, in cui la luce delle torce non arrivavano e si frugò in una tasca. "Interazione di gioco", mormorò all'aria. Megan sentì la leggera vibrazione nell'aria da cui si capiva che il computer del gioco stava parlando a Leif in modo da non essere sentito da nessun altro. "Trasferimento punti", disse. "Invisibilità. Posto per due." Si fermò e le sue sopracciglia si alzarono. Guardò Megan, "Sai quanto ci verrà a..."
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"Non mi importa, basta che non sia più di tremila", disse lei, "perché quelli sono tutti i punti che ho." "Oh, no, sono solo duecento." "Bene. Interazione di gioco", mormorò lei. "Ascolto", le disse sottovoce il computer all'orecchio. "Trasferisci duecento punti a Leif." "Fatto." "Finito." "Va bene", disse Leif. "Sai come funziona?" "In linea di massima." "Non metterti mai fra gli occhi di qualcuno e una sorgente di luce intensa", disse lui. "Per fortuna, là dentro ci saranno soprattutto torce. Stai vicino alle pareti, è la cosa migliore e, se devi passare davanti alla luce, piegati. Parla a voce bassissima: il locus che ci rende invisibili amplifica i suoni. E, per Rod, non andare a sbattere contro qualcuno." "Bene." "Intervento di gioco", disse Leif. Seguì un breve silenzio. "Locus di invisibilità", disse Leif. Improvvisamente tutto ronzava e la pelle le faceva prurito. Megan si guardò intorno. Era tutto come sempre, eccetto che se adesso alzava le mani davanti agli occhi, non riusciva a vederle. Si girò, e scoprì di non poter vedere nemmeno Leif. Era un effetto collaterale che, per qualche motivo, non aveva previsto. "Va bene", disse la voce di Leif, con un forte rimbombo innaturale. "Guarda, proverò a passare dalla porta principale quando le guardie non prestano molta attenzione allo spazio fra loro e non c'è nessuno che entra o esce. Tu fai lo stesso. Poi mi dirigerò verso il nascondiglio più vicino sulla destra, tu invece, una volta entrata, nasconditi a sinistra. Gira per un po', poi scegli l'arazzo più grande e infilatici dietro. Lascerò diminuire un po' l'invisibilità finché siamo dentro, ci si stanca molto a conservarla a lungo." "Va bene, ma se c'è già qualcuno nascosto dietro l'arazzo?" "Scegline un altro e prega che non sia occupato anche quello." Avanzarono con cautela verso il portone. Megan dovette spostarsi rapidamente un paio di volte, quando qualcuno le passava accanto, quasi toccandola. Dovette farlo varie volte ancora mentre stava davanti al portone aperto, in attesa del momento giusto. Ma finalmente ci fu
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qualche secondo di tempo in cui nessuno entrava o usciva e i soldati di guardia erano girati in direzioni opposte. Si intrufolò, urtando qualcosa che non poteva vedere: Leif. Le ci volle un attimo per riprendersi dal colpo, poi oltrepassò la soglia e si scansò dal percorso di un nobile vestito elegantemente che avanzava dritto verso di lei. Rimase immobile per il tempo sufficiente a un rapido esame del salone. Era un luogo decorato con eleganza, per essere una camera che all'inizio era costituita solo da quattro pareti spoglie e una serie di fori in cui infilare travi di copertura. Adesso c'era un soffitto permanente, al posto di quello che ci doveva essere quando il maschio serviva esclusivamente a scopo di difesa. Per tutta la lunghezza della sala erano stati disposti alti pilastri bianchi, levigati. Al centro c'era un grande tappeto a motivi rossi e blu; pelli di vari animali, in particolare di pecore, erano distese un po' ovunque, accanto alle pareti lontane, dove gli arazzi coprivano la pietra nuda e riparavano dalle correnti. Al centro del salone c'erano molte persone, in prevalenza in gruppetti di tre o quattro, intente a bere e parlare. In fondo alla stanza, davanti all'arazzo più grande, c'era un palco, se tale poteva essere definito. Si elevava solo di uno scalino, sopra il quale si trovava una sedia bianca. La sedia era vuota. Quella sedia esprimeva, forse più eloquentemente di tutto il resto, la situazione. La città di Minsar ora non aveva un vero padrone: non più, da quando Shel se ne era andato. Ora la sua sala dei ricevimenti era piena di potenziali dominatori... persone che stavano esaminando la proprietà dando per scontato che il vecchio signore non sarebbe tornato, o comunque non in tempo per impedire l'usurpazione da parte di uno di loro, e alcuni non erano certo quelli che un agente immobiliare avrebbe definito "perditempo". Megan si guardava attorno, mentre avanzava con molta cautela verso la parete di sinistra e ci si appoggiava per riprendere fiato un istante e togliersi il ronzio dalle orecchie. Probabilmente, pensò, Minsar avrebbe dovuto passare un brutto periodo. A meno che la città non riuscisse a trovarsi, e in fretta, un protettore potente, molto presto si sarebbe trovata alle porte uno o l'altro di questi potenti, alla testa di un esercito e il messaggio sarebbe stato: "Accettaci come 'protettori'... o perderai tutto quello che hai". C'era una possibilità che il potenziale protettore si trovasse in mezzo a quella folla; quello, sospettava Megan,
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era il vero motivo per cui si teneva il ricevimento. Nessuna città avrebbe voluto mettersi in cattiva luce con il nuovo padrone, o essere accusata di avere offerto a lui (o a lei) un'ospitalità insoddisfacente, una volta che la polvere si fosse depositata. Guardò in giro per la sala per stabilire quale fosse l'arazzo più grande. Era quello che stava dietro il trono: non c'era alcun dubbio. Perlomeno sembrava che nessuno facesse capannello da quelle parti. Molti guardavano il trono, da una certa distanza, ma nessuno si avvicinava troppo. Probabilmente nessuno vuole mostrarsi troppo interessato, in questa prima fase, pensò Megan. Si mosse con cautela e si avviò lentamente lungo il lato sinistro del salone verso il palco, ascoltando attentamente tutto quello che sentiva. Più avanti c'era una gran quantità di cibo disposto su una serie di tavole disposte a U, e i nobili ospiti stavano per lanciarsi sul buffet come se non mangiassero da giorni. Fra loro si muoveva, affettando indifferenza (o così almeno parve a Megan), un uomo vestito in modo abbastanza semplice, in grigio scuro, ma con una grossa catena d'oro al collo, i cui anelli erano grandi quanto un pugno. Era il sindaco della città, l'unica autorità costituita rimasta a Minsar, in assenza di Shel. Agli occhi di Megan l'uomo aveva un'espressione piuttosto tormentata, nonostante l'aria disinvolta; guardava gli ospiti come se si aspettasse che da un momento all'altro potesse scoppiare, proprio in quel salone, una rissa per il possesso della sua città. Per fortuna non c'erano segni di possibili scontri. Megan guardò i nobili e i guerrieri di alto lignaggio che mangiavano e bevevano a spese di Minsar, ed ebbe l'impressione che tutti fossero interessati soprattutto a cogliere l'occasione di una buona cena. Quello che non vedeva, invece, era quel tipo di assembramento o di circolo di persone che indica la presenza di una personalità davvero importante. Aveva imparato a cercare quei piccoli raggruppamenti determinati dallo status dei partecipanti, da quando li aveva identificati nei cocktail che ogni tanto davano sua madre e suo padre. La regola era che la persona più importante della festa diventava inevitabilmente il centro di quei capannelli, anche se le persone nel gruppo potevano variare nel corso del party. L'altra regola era che prima o poi tutti finivano in cucina... ma qui era alquanto improbabile. La cucina era riservata rigorosamente ai servitori.
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Si avvicinò al buffet fin quando ne ebbe il coraggio, ascoltando attentamente, non osando andare oltre per paura che qualcuno potesse urtarla. Era una faccenda pericolosa, l'invisibilità. C'erano giocatori che, sentendo qualcosa che non potevano vedere, avrebbero reagito estraendo il loro pugnale. "... il salmone è davvero squisito..." "... senza vino. Dov'è quella ragazza? È proprio vergognoso, in questo posto non ci sono abbastanza servitori..." "... non ne valeva la pena, penso. È sul lato corto, e la discussione è già cominciata." "Oh?" "Certo. Guardati in giro. Chiunque sia davvero interessato è in disparte, che cerca qualche accordo. Ma non con lui, lui è fuori dal giro..." La persona che parlava, qualche duca o barone, a giudicare dalla piccola corona nobiliare informale, rivolse lo sguardo al sindaco, sorrise e volse la testa altrove. Poi girò intorno alla tavola, dalla parte di Megan, diretto nel punto dove era stato servito un maialino di latte. Arretrò rapidamente per togliersi dal suo cammino. Il duca o barone le girò le spalle e prese un coltello. Megan si mise fuori portata. C'erano persone che potevano percepire le cose invisibili, ed era meglio essere cauti, specialmente quando c'erano in giro coltelli che potevano sfuggire dalle mani di qualcuno senza preavviso... come sapeva molto bene. Megan si mosse il più adagio possibile fino a raggiungere il grande arazzo dietro il trono, poi ci si infilò dietro. Un bel po' più avanti poteva vedere un rigonfiamento nell'arazzo con la forma di Leif. Immaginò che anche lui potesse sentirla. Stava in piedi proprio nel punto in cui il palco e l'arazzo si toccavano e nessuno avrebbe potuto vedere i suoi piedi. Si avvicinò a lui. "Lo vedi?", gli disse. "Ah, sei tu. Che cosa?", mormorò Leif. "Il sindaco della città", disse lei. "Sta ungendo i dignitari. Letteralmente." "Già." "Guarda, toglimi questa cosa per un po'. Questo ronzio è fastidiosissimo. Non riesco a sentire altro."
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"È una conseguenza dell'incantesimo", disse Leif. "Non c'è modo di liberarsene senza annullare anche la magia. Se proprio vuoi..." "Niente affatto", disse Megan subito. "Sono vestita troppo male per questa gente. E per quanto ti riguarda, sembra che tu abbia dormito su un albero. Lo sapevi che c'è della paglia che spunta dal tuo cappello da mago?" "È per l'atmosfera", disse Leif, con un tono che sembrava un po' offeso. "Un mago delle siepi deve avere l'aria di uno appena uscito da una siepe." Megan frenò un risolino, perché Leif aveva controllato bene quell'aspetto del suo personaggio. "Voglio uscire ancora", disse lei. "Ma è proprio una sofferenza. Tu puoi renderti ancora invisibile, se vuoi, ma io sono tentata di tramortire una delle cameriere, prenderle i vestiti e mettermi a girare lì in mezzo con una caraffa di vino. Sarebbe più facile origliare." Leif sollevò le sopracciglia. "Fai un po' tu. Hai scoperto qualcosa?" "Niente, e anzi ho il sospetto che tutti quelli che ci interesserebbe ascoltare probabilmente siano altrove." Leif grugnì. "Immagino che non ci sia da meravigliarsi. Eppure... Rivediamoci qui fra qualche minuto. Vuoi la magia, o sei proprio intenzionata a mettere fuori gioco quella cameriera?" Lei sospirò. "La magia." Un istante dopo il ronzio nelle orecchie era tornato e Leif non si vedeva più. "Grazie. Ci vediamo tra poco." L'arazzo ondeggiò un po': Leif se n'era andato. Megan uscì dalla parte opposta, stando bene attenta a dove si dirigeva. Essere invisibili era utile, ma bisognava avere gli occhi anche sulla nuca, per non scontrarsi con nessuno, ed era molto strano camminare senza riuscire a vedere i propri piedi. Si avvicinò nuovamente ai tavoli del buffet e nei quindici o venti minuti successivi diventò assai abile nell'arrivare nei pressi del cibo e delle conversazioni senza urtare nessuno e senza inciampare. Cominciò addirittura a rubare un po' di cibo, con molta circospezione. Il salmone era ottimo, e si sentì davvero soddisfatta, dato che aveva un debole per il salmone. "... quasi finito qui, penso", disse un uomo vestito molto semplicemente con un abito con tagli ornamentali e i bordi ricamati in blu notte.
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La donna anziana a cui stava parlando aveva dei bei capelli argentati raccolti all'indietro e indossava un abito riccamente ornato, nero e argento. "Beh, immagino che il destino di questo posto sarà segnato nell'arco di qualche giorno, nel bene o nel male. Peccato. Mi piaceva questa piccola democrazia. Ma qualcuno farà un'offerta, probabilmente in conseguenza di quello che succede nelle Marche." "Che cosa, le Marche del nord? Così vicino? E così presto? Pensavo che questa faccenda si trascinasse ancora per qualche altra settimana, almeno." La vecchia signora si guardò intorno prima di rispondere. Non c'era nessun altro vicino (o così sembrava) e lei abbassò la voce: "Elblai ha qualche asso nella manica, penso. L'ho vista salire per parlare con Raist... e se non c'è il capo qui, Raist sarà disposto a negoziare." "Argath non è qui?" "Se n'è andato da circa un'ora, l'ho visto con i miei occhi. E di fretta, anche. Penso che stia succedendo qualcosa... qualcosa che ha a che fare con i suoi eserciti e che richiede il suo noto carisma." "E se n'è andato lasciando Raist l'Ambiguo a sistemare i dettagli?" "Non penso che Raist riuscirà a sistemare un granché." La vecchia signora ridacchiò. "Scommetto su Elblai..." Si allontanarono. Megan guardò gli arazzi dietro il trono vuoto, li vide ondeggiare, deglutì e si diresse da quella parte. Dietro l'arazzo, Leif si stava grattando. "Il prurito proprio ti distrugge", mormorò. "Non avresti dovuto parlarne", disse Megan, sentendosi all'improvviso come una pubblicità ambulante di un preparato antipulci. "Guarda, ho appena sentito una cosa curiosa. Argath non è qui. "Non c'è?" Leif si fermò, poi respirò a fondo e cominciò a mormorare sottovoce qualcosa, in una lingua che Megan immaginò fosse nordico. Non sembrava che si trattasse di preghiere. "Senti, dacci un taglio per un momento, va bene?" disse Megan. "Tutte quelle miglia sprecate..." "Non cominciare a fare il tirchio, Leif. Non c'è tempo. Sai invece chi è qui?" "Chi?" "Elblai."
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Ammiccò. "Quella Elblai?" "Proprio lei. È di sopra da qualche parte, che sta parlando con uno degli uomini di Argath, a quanto pare." "Zaffermets", disse Leif. Ricordi che cosa diceva quel tizio alla taverna..." "Sì, e non ho intenzione di parlarne ulteriormente finché non mi dirai in che lingua è zaffermets" Ho l'impressione che talvolta tu ti diverta a inventare qualcuna di queste parole solo per far colpo sulla gente. Come se tu non parlassi già abbastanza lingue. "È romancio", disse Leif con noncuranza, guardandosi attorno. "Dialetto sursilvano, penso. Guarda, penso di riuscire a reggere ancora un po' di invisibilità." "Sei sicuro?" "Vuoi andare a origliare che cosa dice Elblai, o no?" "Ohh..." Megan era esasperata. "Dai... dobbiamo trovarli." "Non dovrebbe essere difficile. Rimanendo invisibili, però..." "Non lasciartelo scappare", disse Megan, "qualunque cosa tu faccia. Vieni, le scale sono da questa parte. Staremo vicino al muro e cercheremo di non intralciarci a vicenda, va bene?" Le scale erano sorvegliate, ma le sentinelle non erano un ostacolo per Megan e Leif: erano attente, ma di certo non erano in condizioni di accorgersi di persone invisibili. Megan e Leif scivolarono dietro di loro e salirono in silenzio le scale, che seguivano la parete di sinistra fino al secondo piano. Leif si concentrò meglio che poteva per riuscire a mantenere attiva l'invisibilità. È vero che avevano pagato per averla, ma si doveva prestare attenzione poiché si poteva perdere l'invisibilità in qualsiasi momento. Il secondo piano era uno spazio unico, una grande stanza con paraventi di legno o coperti di tessuto posizionati qua e là alla maniera settentrionale, in modo da creare angoli appartati per chiunque volesse un po' di privacy. Sulle pareti erano appesi altri arazzi per riparare dalle correnti d'aria provenienti dalle feritoie. Da una parte c'era Elblai seduta su una grande poltrona adorna, di fronte a un paravento intagliato, mentre un uomo sedeva su una sedia più piccola di fronte a lei. Era un uomo di bassa statura, magro, con i capelli e la barba corti, vestito con abiti scuri.
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Leif si spostò cautamente nella loro direzione, restando sempre molto vicino alla parete. Poteva sentire i suoni attenuati di Megan che lo seguiva. L'illuminazione lì era meno intensa: due lampade a olio su sostegni metallici a volute intricate spargevano luce soprattutto al centro della stanza. Leif decise di non avvicinarsi a più di tre o quattro metri, e si appiattì contro l'arazzo, attento a non farlo muovere. Sentì un leggero ondeggiare della lana quando Megan fece lo stesso, e per un po' rimasero entrambi a esaminare Elblai. È una donna che vai la pena di analizzare, pensò Leif: sui cinquantanni, abbastanza robusta, con capelli biondo-argento tagliati corti e un viso piuttosto in contrasto con il corpo da casalinga. Aveva occhi dal taglio leggermente diagonale, che le davano un aspetto vagamente esotico, ma gli occhi erano grandi, pensosi e del blu più profondo che Leif ricordasse di aver mai visto, quasi viola. Sembrava una nonna... ma una nonna che si trovava a proprio agio con una spada in mano, la punta rivolta al pavimento di pietra e con indosso una bella cotta di maglia metallica lucente, su una lunga tunica di seta imbottita, che aveva il colore della punta della fiamma di una candela. I suoi stivali consunti erano appoggiati a un poggiapiedi di fronte alla sedia su cui Elblai era reclinata. Teneva la spada con una mano appoggiata all'elsa e la faceva dondolare, un po' da una parte, un po' dall'altra, con un lento movimento ondeggiante mentre parlava. "Quei tre sono una spina nel mio fianco da mesi", stava dicendo con una cadenza morbida del Midwest all'uomo basso ed elegante che le sedeva di fronte. "Ora, il vostro capo è in condizione di rendermi un buon servizio." "Sono sicuro che si possa convincerlo a fare ciò che vi preme", disse l'uomo accarezzandosi la barba, tagliata corta, "purché possiate dimostrargli che un intervento simile vada a suo vantaggio". Era vestito tutto di nero lucente, con una tunica di satin decorato e una lunga spada alla cintura. Elblai fece una grossa risata. "Raist, non puoi dirmi che Lillan e Guglielmo e Menel non abbiano rotto le scatole a lui almeno quanto a me. Da quando è arrivata la primavera sono andati in giro per il nord alla ricerca di una guerra in cui interferire. Io non avevo niente in corso in cui volevo che intervenissero e gliel'ho detto, chiedendogli di
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togliersi di mezzo prima che perdessi la pazienza. Beh, si sono tolti dai piedi, certo, ma dove se ne sono andati? Diretti alle Marche Orxeniane, e che cosa fanno, se non vendere ad Argath i contratti dei loro eserciti?" "Oh, via", disse l'ometto elegante, "via, signora, state facendo un po' di confusione. Quei contratti sono stati acquistati da Enver, Signore delle Marche, che, come tutti sappiamo..." "... che, come tutti sappiamo, non scoreggia se Argath non gli dice di farlo", disse Elblai, con un gesto di impazienza. "Non offendete la mia intelligenza cercando di convincermi che Enver sia un cane sciolto. Argath gli ha dato istruzioni di acquistare quei contratti senza tanto rumore, e poi di schierare gli eserciti di quei tre signori contro il mio, che, potrei aggiungere, è rimasto negli accampamenti estivi molto pacificamente pensando agli affari suoi. Uno stato di cose che il vostro padrone non riesce a capire, così pensa che dietro ci debba essere qualche genere di complotto." Elblai abbassò una gamba, poi accavallò l'altra, sempre continuando a far ondeggiare la spada con la punta in giù, pigramente, lentamente, avanti e indietro: la spada catturava la luce di una delle lampade a olio e il riflesso saettava di qua e di là su un arazzo appeso, così che i cani a caccia disegnati sull'arazzo sembravano fissare la chiazza di luce in movimento. "Beh, se vuole un complotto, gli daremo un complotto. Non pensate che non abbia notato i movimenti di truppe negli ultimi giorni. So riconoscere un accerchiamento quando lo vedo. Un tentativo di accerchiamento. Il vostro padrone, Argath, farà meglio a guardare a oriente, perché i miei rinforzi stanno arrivando. Ed è un numero di guerrieri tre volte superiore a quello che può mettere in campo lui in questo momento. So i suoi effettivi, e le sue intenzioni, se lui non sa le mie. Ma è per questo che assumo i miei maghi e faccio in modo di avere sempre i migliori." L'ometto elegante se ne stava immobile. Il suo volto non tradiva alcun cambiamento di espressione. "Ora il vostro padrone ha davanti a sé diverse strade possibili", continuò Elblai in modo ragionevole. "Può andare avanti sulla via che ha intrapreso. Nel qual caso domani sul tardi o alle prime luci del giorno dopo Lillan, Guglielmo e Menel saranno ridotti a concime, insieme con i loro eserciti. E dopo avere fatto di loro il miglior uso
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possibile, mi dedicherò a fare lo stesso con Argath. Ci vorrà magari un po' più di tempo, ma i miei sono mobilitati e pronti, mentre i suoi sono dispersi un po' dappertutto nel paese, con l'obiettivo di tenere i regni circostanti fuori da queste lotte. Beh, provvederemo anche a questo. La mia idea è che, nel momento in cui qualcuno attacca Argath con una forza abbastanza robusta da fare la differenza, allora tutti i suoi vicini, che hanno sopportato troppo a lungo i suoi saccheggi, gli si rivolteranno contro. Pensate che potrà parare un attacco su cinque fronti? Perché è di questo che stiamo parlando. Se non di più. Argath, re degli orxeniani, sarà ridotto a una viscida poltiglia di carne umana, quando i nostri cavalli avranno finito di passargli sopra." Elblai fece una pausa. La stanza era avvolta nel silenzio più completo, se si escludeva il piccolo r u mo r e prodotto dalla punta della spada di Elblai che strisciava sul pavimento di pietra. Leif trattenne il respiro, sicuro che qualcuno l'avrebbe sentito in quel silenzio. Accanto a lui, sospettò che Megan stesse facendo lo stesso. "Ora", riprese infine Elblai, "questa è una possibilità. Un'altra è che richiami i suoi tre amichetti e dica loro di portare i loro eserciti da qualche altra parte, nel qual caso tutti sapranno subito che cosa è successo esattamente. Nessuno di loro riesce a conservare un segreto che valga qualcosa, specialmente se pensa di essere stato usato per fini che non aveva previsto. In questo caso sicuramente lo penseranno, il vostro padrone perderà un bel po' di faccia e si esporrà a ogni genere di guaio, se non quest'anno, certo il prossimo. Ma scommetterei su quest'anno." "Siete molto sicura di tutto questo, vero?" le chiese Raist. "Oh, ci può scommettere", disse Elblai. "Sono altrettanto sicura che il tuo padrone non approfitterà della possibilità numero due. Troppo rischio di uscirne facendo una brutta figura. Perciò c'è anche la possibilità numero tre... nella quale affronta Lillan e Guglielmo e Menel lui stesso, e distrugge i loro eserciti, così dà alle sue truppe qualcosa da fare che non sia farsi spazzar via dalle mie e si fa la fama di "quello che mantiene l'ordine nelle Marche". Tanto per cambiare ci fa una bella figura. Una seccatura, voglio dire quei tre con i loro eserciti, eliminata. E Argath non perde la faccia." Raist aprì la bocca.
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"Ma normalmente non sceglierebbe nemmeno la possibilità numero tre, penso", continuò Elblai, "perché non è venuta in mente a lui per primo." Raist chiuse nuovamente la bocca. "Probabilmente dovrà ammazzare anche Lord Enver", aggiunse Elblai come se ci avesse appena pensato, "ma in fondo è un po' di tempo che avrebbe voglia di farlo." Ci fu ancora silenzio per qualche attimo. "Così", disse Elblai, "tornate al vostro signore, se n'è andato un'ora fa, diretto verso nord all'accampamento del suo esercito, e spiegategli le sue possibilità. Fate attenzione. Io per parte mia preferirei proprio la terza. Ma se cerca di forzarmi la mano, sono pronta a spazzare via lui e i suoi eserciti dalla faccia di Sarxos e neanche Rod verserà una lacrima. Fateglielo ben presente, perché mi è sempre piaciuto un bello scontro prima che arrivi l'autunno... e se insiste, sarà con lui. Questa è la sua ultima opportunità di cambiare idea e di preparare un bell'autunno tranquillo per tutti... e per essere sicuro di vivere abbastanza a lungo da vedere l'autunno." Raist si alzò. "Se ho il permesso di vostra signoria di andare..." "Tra un momento. Io so anche che dopo questa campagna ha dei progetti che riguardano Lord Fettick e la duchessa Morn. I loro paesi finora sono stati in posizioni molto precarie. Beh, abbiamo parlato un po'... e loro sono pronti a stringere un'alleanza strategica con un'altra potenza, che non sono io, ma lasciamo che il vostro signore e padrone scavi un po' per i fatti suoi, che è particolarmente interessata ad arruolarli. Quando questa alleanza sarà siglata, nel giro di qualche giorno, penso, le forze che potranno mettere in campo saranno davvero notevoli. Quasi certamente entreranno direttamente in guerra, non vedono l'ora di togliersi Argath dai piedi. Ed elimineranno anche il duca Mengor. Sanno perfettamente come Argath ha usato la collaborazione di quel piccolo pupazzo. Perciò fategli capire che i suoi problemi sono appena cominciati." Raist era rimasto in piedi, nervosamente in silenzio. Dopo un istante, Elblai gli fece un cenno con la testa. "Andate, dunque. Fate attenzione sulla strada. Ci sono molti lupi sciolti in giro in questo momento..." Raist si inchinò frettolosamente e se ne andò. I suoi passi echeggiarono sulle scale.
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Elblai rimase immobile nella stanza silenziosa. Dopo poco si sentirono altri passi sulle scale e comparve una ragazza bionda, con una tunica azzurra. "Zia El?" la chiamò. "Sono qui, tesoro." Zia?pensò Leif. La giovane si avvicinò. "E allora?" Elblai sospirò e appoggiò la spada contro il bracciolo della sedia. "Attaccherà", disse, "ne sono sicura." "E allora che cosa farai?" Elblai si alzò e si stirò. "Stenderò a terra lui e le sue truppe", rispose. "Non vedo molte altre possibilità, se voglio difendere la mia posizione. Per quel che riguarda lui, preferirei evitare di ucciderlo, ma non ha nemmeno il cervello che Rod ha dato alle ostriche a punta azzurra e insisterà nel voler mettere in scena il suo spettacolo. Non gli sarà di aiuto; non questa volta." La giovane sospirò, un sospiro quasi identico a quello che aveva emesso la zia. "Va bene", disse. "Parlerò agli altri capitani e li aggiornerò, e manderemo nostri messaggeri ai rinforzi." "Fallo. Di' loro che penso che Argath cercherà di raggruppare un po' di truppe dai regni tributari. Non penso che troverà molto più di un paio di migliaia di guerrieri, però, almeno non in così poco tempo. Gli saremo ancora superiori, tre contro uno, che è proprio come piace a me. Non ho mai avuto inclinazione per le imprese disperate del tipo o- morte-o-gloria." Sbuffò, un suono che Leif aveva sentito ogni tanto da sua nonna e che lo fece sorridere. "Vediamo di fare questa cosa... e poi scendiamo a mangiare qualcosa prima che finiscano tutto." Uscirono. Leif attenuò ancora una volta la magia dell'invisibilità. Per loro sollievo, il ronzio nelle orecchie scomparve. Leif guardò Megan. "Abbiamo un grosso problema", mormorò Megan. "Ah, sì? E quale?" "Abbassa la voce. Non hai sentito? Batterà Argath", disse Megan. "E questo la rende un bersaglio primario per l'espulsione." Leif la guardò storto. "Aspetta un attimo. Tu eri quella che prima parlava di non formulare teorie senza dati. Non abbiamo più dati di prima... se non a proposito di un attacco che sta per avvenire."
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"Certo... ma l'hai sentito, Leif! Ha su Argath una superiorità schiacciante, tre contro uno. Lo farà a pezzi. E sono le persone che l'hanno fatto a pezzi in passato che sono state espulse." "Ascolta, io spero che lei lo faccia a pezzi", mormorò Leif. "Non è esattamente un modello di elevati standard morali sarxoniani, no? E poi, se il suo personaggio viene ucciso e le espulsioni continuano, allora magari avremo qualche prova che non è lui il colpevole." Megan lo fissò. "Sarebbero prove circostanziali come quelle che abbiamo adesso", disse. "Leif, se Elblai verrà attaccata in qualche modo e noi abbiamo qualche sospetto, dobbiamo rischiare un po', uscire allo scoperto e farglielo sapere! Qui interpreta un personaggio molto forte, non sarebbe giusto lasciare che venga espulsa solo per indurre in tentazione l'espulsore' e farlo uscire allo scoperto. È il caso che prenda qualche precauzione." "Se noi l'avvertiamo", disse Leif, "potremmo mettere in guardia Argath o chiunque sia responsabile di queste espulsioni. E perdiamo un'occasione per scoprire chi sia, lui o lei." Megan si prese la testa fra le mani. "Non posso credere che stiamo facendo questa discussione. Non puoi usare un altro giocatore come esca!" "Megan, cerca di ragionare per un momento. Avvertirla cornei Non sappiamo chi sia, nella vita reale e non lo scopriremo. Che cosa mi dici delle regole di riservatezza? Se la sua identità è segreta e sceglie di restarlo, non c'è modo di trovarla." "Se riusciamo a raggiungere il gamesmastetf" disse Megan, "attraverso la Net Force..." "Certo. E gli chiediamo di violare la riservatezza sulla base di un sospetto. Non lo faranno mai. Anche se potessimo convincerli, ci vorrebbe troppo tempo per riuscire a combinare qualcosa di buono." "Dobbiamo avvertirla adesso, allora", disse Megan. Leif rimase a guardarla per un po'. Poi, con un po' di riluttanza: "Va bene. Hai visto il suo stemma, il basilisco. C'erano diversi dei suoi giù da basso, con quello stemma. Scendiamo e ci presentiamo... usciamo allo scoperto". "Va bene."
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Leif lasciò andare la magia dell'invisibilità, sollevato di non doverla mantenere più, e scesero nuovamente le scale. Nel salone si guardarono intorno, ma non c'era segno di Elblai. "Ci sono delle stanzette private sui lati", disse Leif. "Potrebbe essere in una di quelle..." "No", rispose Megan. "Ci sarebbero delle guardie. Ma osserva lì." Era la giovane che avevano visto con Elblai prima. Sulla semplice tunica azzurra ne aveva indossata una più scura, con lo stemma del basilisco rampante di Elblai. Stava guardando pensosamente in giro per la stanza i nobili e i guerrieri che mangiavano, bevevano e parlavano. Megan e Leif si diressero verso di lei, suscitando l'interesse e il divertimento dei nobili, non appena videro l'abbigliamento strano dei due che avevano fatto irruzione nel loro festino. "Mi scusi", disse Leif alla giovane donna bionda e si inchinò leggermente. "Se, come penso, lei è con la nobile signora Elblai..." "Se volete avere un'udienza", disse la donna, guardandolo con espressione interessata, "mi dispiace, ma stanotte non è disponibile." "Non un'udienza", disse sottovoce Megan, "un avvertimento." La donna inarcò le sopracciglia. "A che proposito?" "Argath", disse Leif. L'espressione della donna diventò molto più cauta. "Se, come corre voce, la vostra signora sta pensando di attaccare le forze di Argath", disse Leif, "dobbiamo avvertirla che potrebbe accaderle qualcosa di funesto. Tutti coloro che hanno battuto Argath recentemente in battaglia sono stati danneggiati... come si vede da questo consesso stasera." L'espressione sul volto della nipote di Elblai cominciava a farsi veramente gelida. "Un avvertimento interessante", disse. "Chi vi manda?" Leif aprì la bocca, poi la chiuse. "Si potrebbe pensare che questo avvertimento sia a vantaggio di Argath", disse la giovane, "se in effetti si fosse pensato a un tale attacco." "Non ci manda nessuno", disse Megan. "Siamo indipendenti... e vogliamo solo il bene di vostra zia."
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Gli occhi della giovane si spalancarono per un attimo, poi si fecero di nuovo duri. "La nostra parentela non è nota a molti", disse. "Chi siete voi?" "Uh", disse Megan. "Stiamo indagando sulle 'espulsioni'", disse Leif e Megan provò un improvviso senso di sollievo perché non aveva aggiunto "per la Net Force". Sarebbe stato spingersi un po' troppo oltre. "Temiamo che vostra zia corra il rischio di diventare un"espulsa', se continua per la strada che ha intrapreso." "Ah, sì? E quale sarebbe quella strada?" Come faccio a mettergliela nel modo più diplomatico? pensò Leif, chiedendosi come l'avrebbe formulata suo padre. Probabilmente in modo molto esplicito. "Se Lillan e Guglielmo e Menel..." cominciò Leif. Gli occhi della giovane si strinsero ancora di più. "Non parlo normalmente di avvenimenti esterni", disse, "con persone che non conosco, e della cui buona fede non posso essere certa." La sua espressione a quel punto era completamente gelida. "Penso di dovervi chiedere di andarvene." "Per favore... vogliamo solo parlare un attimo con Elblai." "È impossibile. Ha dovuto andarsene per affari: il che forse è una fortuna." "Guardi, è davvero importante", disse Megan. "Forse lo è per voi", disse la giovane donna con freddezza. "Avrei accolto il vostro avvertimento più cortesemente se non fosse ovvio che voi, o qualcuno collegato a voi, recentemente ci ha spiato. I consigli delle spie sono a doppio taglio, dicono, ed è mio compito proteggere mia zia contro quanti la vogliono danneggiare." "Ma questo è esattamente quello che stiamo cercando..." "Buona notte", disse la ragazza rigidamente. "Andatevene, adesso... prima che vi faccia buttar fuori." La fissarono, poi si diressero verso la porta. Leif si girò a guardarla un'ultima volta mentre uscivano. La nipote di Elblai aveva chiamato qualcun altro che presentava le insegne di sua zia, un uomo alto e calvo, che gli stava sussurrando qualcosa all'orecchio. L'uomo guardò in direzione di Leif e Megan, poi lasciò di fretta il salone, passando per una delle uscite laterali. Megan e Leif
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erano ancora in mezzo alla confusione della piazza principale quando accanto a loro passò veloce un cavaliere e poi semplicemente svanì con un botto di spostamento d'aria. "Fantastico", mormorò Leif. "Ora non abbiamo alcun modo di sapere dove se ne sia andata." "Ho una bruttissima sensazione", disse Megan. "Penso che questa storia con Argath si sia appena infiammata, in qualche modo. Altrimenti perché se ne sarebbe andato anche lui?" Leif scosse la testa. "Beh, almeno abbiamo tentato." "Tentare non significa finire il lavoro", sentenziò Megan con aria triste. "Fare significa portare a termine." Leif la guardò ironicamente mentre attraversavano la piazza. "Ah, ancora i classici. Chi è? Emerson? Ellison?" "Mia madre", rispose Megan. "Andiamo... vediamo di uscire da qui. Abbiamo bisogno di pensare e, per quanto mi secchi dirlo, penso sempre meglio quando non sono collegata." Uscirono dal gioco ed entrarono nello spazio di lavoro di Leif. Era qualcosa che Megan aveva visto solo in foto, una casa di legno in stile islandese antico, completamente coperta con assicelle, gli spioventi fortemente inclinati, ornati di teste di drago intagliate con grande raffinatezza. All'interno la casa era molto pulita e semplice, una versione high-tech di una moderna casa danese, con le grandi finestre polarizzate che guardavano su un paesaggio di morbidi campi verdi su cui si stendeva un cielo azzurro chiaro. Megan non era d'umore adatto per apprezzare lo spettacolo che la circondava. Discusse con Leif per quasi un'ora di quello che avevano fatto e di come avrebbero potuto migliorare. "Non sono sicuro che avremmo potuto fare di meglio, francamente", disse Leif. "Era una missione per scoprire dei fatti. Bene, li abbiamo trovati e anche significativi, direi." "Sì... ma, Leif, non riusciremo a trovare niente abbastanza in fretta da poterci cavare qualcosa! Non riesco a liberarmi dalla sensazione che avremmo dovuto affrontare la situazione in modo più strutturato." "Ah sì? E da quando hai questa sensazione? Non mi sembra che l'avessi quando ce ne siamo andati." "Non importa. Ce l'ho adesso. E mi preoccupano anche gli altri due che ha citato Elblai, Fettick e Morn." Megan stava camminando avanti e
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indietro, scuotendo la testa. "Supponiamo che Argath riesca a venir fuori dallo scontro che si profila, ipotesi da non escludere affatto, visto che è già successo in passato che lui sia riuscito a farla franca, anche quando il suo intero esercito è stato massacrato, e poi decida di prendersela con loro? Da quel che ha detto Elblai, saranno nelle condizioni di batterlo... il che li rende potenziali 'espulsi'." "Non è", disse Leif, "che stiamo finendo in un vicolo cieco con tutte queste congetture?" "Se hai in mente qualcosa di meglio", disse Megan, "mi piacerebbe tanto sentirlo." Leif si sedette su un divano molto semplice e si passò le dita tra i capelli rossi, con un gesto eloquente da cui si capiva che non aveva proprio niente in mente. "Sentì", disse, "facciamo una pausa, va bene? Stiamo solo girando a vuoto adesso." Megan sospirò e annuì. "Va bene. Quando ci rivediamo?" "Domani sera?" propose Leif. "Non posso. Domani sera c'è una riunione di famiglia. In quelle occasioni non gioco. Resto a guardare i miei fratelli che divorano la casa. Dopodomani sera?" "D'accordo." Megan si preparò a dire al suo impianto di uscire. "Sentì, mi dispiace di essermela presa con te." "Non è vero che ti dispiace", disse Leif e sorrise, anche se il sorriso era un po' storto. "Va bene. Non mi dispiace. Ma comunque avevi ragione. Abbiamo fatto del nostro meglio." Leif si infilò un dito in un orecchio come per pulirselo. "Deve essere colpa di tutto il tempo per cui ho dovuto mantenere l'invisibilità, ma giurerei di averti sentito dire che avevo ragione." "Dirò qualcos'altro fra un momento", disse Megan. "E in inglese. Ci vediamo dopodomani." Leif le fece un gesto di saluto mentre svaniva. Megan sbatté le palpebre e si trovò seduta nella poltrona nell'ufficio. Le luci nella stanza erano molto basse. Guardò l'orologio. Era molto tardi, visto che il giorno dopo doveva andare a scuola. Per fortuna aveva svolto i suoi compiti prima di entrare a Sarxos per incontrare Leif. Ci mancherebbe solo di avere addosso anche la mamma...
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Si alzò dalla poltrona intorpidita. Devo proprio scambiare ancora quattro chiacchiere con il programma muovi-i-tuoi-muscoli. Mi sento come se fossi rimasta nella stessa posizione per ore. Silenziosamente si mosse nell'ufficio nel seminterrato e spense le partì del sistema che dovevano essere spente la sera, poi si fermò vicino alla scrivania dove qualcuno, una volta tanto, aveva gentilmente spostato una pila di libri in modo da lasciare scoperto il ricevitore dell'impianto ottico. A cena con William Shakespeare. Qual è il futuro del caos. La guerra nel 2080. E cavaliere, la morte e il diavolo. Su che cosa stava facendo ricerchi pensò Megan sbadigliando, mentre se ne andava a letto. La mattina dopo si alzò presto e trovò suo padre seduto al tavolo della cucina che guardava la finestra videostereofonica appesa alla parete con un'espressione preoccupata. "Non è una cosa che fai anche tu nel tempo libero?" le disse indicando la finestra. Megan, che stava lottando con un maglione, riuscì finalmente a infilarselo sopra la camicetta e guardò la finestra. Mostrava il logo di Sarxos e, sotto, un filmato con una barella che veniva scaricata da un'ambulanza e portata in un pronto soccorso da paramedici con i tipici camici arancione e la scritta LifeStar in blu sulla schiena, "...l'attacco, secondo la nipote della donna, anche lei giocatrice di Sarxos, potrebbe essere legato a una faida o a una vendetta di cui sarebbe responsabile qualche altro giocatore. Ellen Richardson, che in Sarxos, il famoso gioco di ruolo della realtà virtuale, interpreta la parte di Elblai, stava recandosi al lavoro all'ufficio postale di Bloomington, Illinois, quando un pirata della strada ha spinto fuori dalla carreggiata la sua auto, facendola finire contro un palo della luce. La donna è stata ricoverata al Mercy Downtown Hospital, dove si trova in stato di coma. Le sue condizioni sono descritte come 'critiche ma stabili'." Venne inquadrata una donna in camice di laboratorio che leggeva un comunicato scritto. "La paziente in questo momento non risponde alle stimolazioni, ma sarà sottoposta a intervento chirurgico non appena possibile. I medici attualmente danno una probabilità di settanta a trenta di..." "Oh mio Dio", disse Megan sottovoce. "Non la conoscevi, vero?" le chiese il padre.
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Scosse la testa, senza riuscire a staccare gli occhi dalla finestra video, ora occupata dal volto della giovane donna dai capelli biondi con cui aveva parlato non più di otto o nove ore prima. Era rigato di lacrime e distorto da una rabbia controllata a stento. "Abbiamo ricevuto un avvertimento", stava dicendo, "che se mia zia avesse continuato a seguire una determinata linea d'azione nel gioco le sarebbe potuto succedere qualcosa di non meglio specificato ma sicuramente spiacevole. Mia zia non ha dato peso a quell'avvertimento. Si sente spesso questo genere di cose nel gioco, ma per lo più si tratta di bluff per metterti fuori strada. Nessuno aveva la benché minima idea che qualcuno potesse..." Non riuscì più a trattenere le lacrime e girò il viso dall'altra parte, facendo segno alla telecamera di andarsene. Megan rimase bloccata, invasa da ondate alternativamente calde e fredde di terrore. Siamo arrivati troppo tardi. Troppo tardi. E che cosa succede se... ... oh, no, e se qualcuno pensa che noi... Corse al computer per chiamare James Winters.
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3
Quando lo trovò nel suo ufficio, le veneziane erano chiuse e Winters
stava guardando pensosamente un blocco di informazioni audio-stereo sulla scrivania. "Sì", disse, senza alzare lo sguardo. "Pensavo che ti saresti fatta viva adesso. Che cosa sai di quello che è successo?" "Ho sentito di quella donna a Bloomington", disse Megan. "Signor Winters, mi sento malissimo, eravamo con lei proprio la notte scorsa..." "Me lo ha detto Leif", disse Winters "lei però non sa che c'eravate." "Dimmi qualcosa", riprese Winters e poi alzò una mano. "No, aspetta un attimo. Prima di cominciare..." si chinò nuovamente a guardare il blocco. "È appena arrivata una nota dall'ospedale di Bloomington. Sta entrando in sala operatoria proprio in questo momento. La maggior parte delle ferite non sono molto gravi, ma la situazione resta comunque critica per quel che riguarda i traumi cerebrali. Non si può dire quanto siano gravi finché il cervello non ha avuto il tempo di 'registrare' il danno e di reagire. Evidentemente si tratta di un caso di quello che chiamano "contraccolpo", in cui il cervello va a colpire l'interno del cranio e si danneggia all'impatto. Se riescono a far diminuire il rigonfiamento in tempo... andrà tutto bene. Almeno non sembra che sia in pericolo imminente di morte." "Oh, Dio", disse Megan "avremmo dovuto cercare di insistere di più, avremmo dovuto trovare qualche modo per avvisarla comunque, avremmo dovuto..." "Sì", disse Winters, solo un po' seccamente "del senno di poi... ma in questo caso, devi osservare quello che è successo con un po' di distacco e vedere se il tuo giudizio è annebbiato da ciò che è successo. Lo ammetto, è scioccante." Sospirò e allontanò il blocco. "In ogni caso, voglio che lasci subito perdere questa faccenda da questo istante e la lasci gestire a noi. Quando ci sono in gioco solo apparecchiature, furti, distruzioni di proprietà, è una cosa. Ma quando comincia la violenza... in questo caso, la violenza automobilistica con un arma letale... allora non è più soltanto una faccenda che riguarda solo noi. Apprezzerò comunque tutto quello che puoi dirmi sui tuoi sospetti."
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"I sospetti sono l'unica cosa che abbiamo", disse Megan. "Ma non riesco a liberarmi dall'idea che avrebbero potuto essere sufficienti per salvarla." "Forse", disse Winters. "Leif mi ha parlato un bel po' di un personaggio che si chiama Argath." Megan annuì. "Praticamente tutti quelli che si sono scontrati con lui negli ultimi tre anni di gioco e lo hanno battuto, sembra siano stati espulsi." "Ma non sei sicura che sia lui il responsabile." "Non lo so più. Ieri ne avevo proprio il sospetto ma... non c'erano abbastanza dati." Winters sorrise amaramente. "Può darsi che non ci siamo ancora. Dobbiamo essere un po' Sherlock Holmes al proposito. Naturalmente, quando entrerà in gioco la Net Force, saremo in grado di chiedere la collaborazione della gente di Sarxos e di farci dare i nomi veri, le registrazioni del gioco e altre informazioni simili. Ovviamente ci vorrà un bel po' di lavoro. Non divulgano mai facilmente informazioni proprietarie." Megan disse: "Magari se un giocatore avvicinasse Chris Rodrigues." "A questo punto non possiamo passare molto tempo con i 'forse'. Dobbiamo seguire perfettamente il manuale. Comunque, in base alle indagini che avete compiuto fin qui c'è qualcun altro su cui potrebbero ricadere seriamente i sospetti." "Nessuno che ci sia risultato evidente, no. Il problema è che ci sono così tanti giocatori. Anche se potessimo accedervi, il database è veramente enorme. Continuo a pensare che debba esistere qualche modo per esaminare tutti, ma non so quale potrebbe essere. Moltissimi giocatori avrebbero caratteristiche tali da far pensare a un motivo plausibile d'attacco, ma soltanto uno è responsabile. Non si può andare in giro ad accusare degli innocenti semplicemente in base alla possibilità che siano colpevoli." "Così parla una futura operativa", disse Winters, con una nota di approvazione nella voce. "Beh, Megan, sei ancora sotto choc, è comprensibile. Lo era anche Leif. Lasciamoci per il momento. Ma gradirei avere un resoconto scritto da te nelle prossime 18-24 ore: qualcosa che possa informare i nostri agenti quando li manderemo sul campo. Scrivi un resoconto il più dettagliato possibile. In effetti,
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gradirei molto se tu parlassi con la gente di Sarxos e ci concedessi l'accesso alle tue registrazioni di gioco dell'ultima notte." Megan arrossì. "Signor Winters" disse molto sottovoce "penso che qualcuna delle cose che abbiamo detto possa essere vista come una minaccia..." "Ho sentito la dichiarazione della nipote della signora Richardson", rispose Winters. "Capisco che tu possa avere qualche preoccupazione sulla tua posizione legale in questa situazione. Penso che tu sappia di poter contare sulla mia riservatezza. Dovesse esserci qualsiasi ripercussione legale, sai che ti sosterremo. Ma nel caso si dovesse arrivare a questo, qualcuno a casa tua può fornirti un alibi per la notte scorsa?" Megan scosse la testa. "Nessuno tranne la Rete stessa", rispose. "È impossibile falsificare la propria identità quando si accede. E il tuo cervello, il tuo corpo, il tuo impianto. E per il resto "No..." Alzò le spalle, poi aggiunse, con un sorriso tirato: "Non so come avrei potuto guidare da qui fino a Bloomington, Illinois, in tempo per mandare fuori strada Elblai, la signora Richardson, in macchina." "Hai ragione", disse Winters, facendo a sua volta un piccolo sorriso. "Non ti preoccupare. Per il momento sei coperta. Vai avanti, vai a scuola e preparami quel rapporto questa sera, se appena te la senti. Manderemo sul campo degli operativi il più rapidamente possibile. Nel frattempo, sei sollevata di ogni responsabilità per questa faccenda. Ma voglio ringraziarti moltissimo per l'aiuto che ci hai dato fin qui. Per lo meno, voi due ci avete dato una pista da seguire e qualche teoria che potrebbe rivelarsi utile. E anche una valutazione strategica di gran lunga migliore di quella che avremmo potuto formulare noi in breve tempo. Lo apprezziamo molto. Avete messo in gioco i vostri talenti e il vostro tempo... e forse, vista la natura della persona che a quanto sembra stiamo cercando, anche la vostra sicurezza personale, se quella persona ha avuto il minimo sentore di chi eravate e di quello che stavate facendo." "Non penso che gli siamo mai stati vicini", disse Megan. "Grazie comunque." Chiuse il collegamento, rimase a riflettere per un poco, poi parlò al suo impianto e gli fece chiamare Leif.
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Leif era seduto nel suo spazio di lavoro nella casa islandese e sembrava profondamente depresso, un atteggiamento del tutto inusuale per lui. Quando Megan comparve nel suo spazio alzò il capo. "Gli hai parlato?", le chiese. "Sì." "Siamo fuori dal caso." "Già." Leif guardò Megan incredulo. "Siamo fuori dal caso?" "Che cosa vuoi dire? Certo che sì. Ci ha tolto dal caso." "E tu hai intenzione di sederti e lasciar andare le così in questo modo? Proprio così?" "Beh". Megan rimase a fissarlo. Leif si alzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro. "Guarda, non voglio sembrare inutilmente un eroe né niente di simile, ma non so tu, io mi sento un po' responsabile." "Per che cosa? Noi non abbiamo buttato fuori strada quella donna!" "Abbiamo cercato di avvertirla. L'abbiamo fatto nel modo sbagliato. Non ci ha creduto. Non ti senti responsabile per questo?" Megan si sedette sul divano spartano e si prese la testa fra le mani. "Sì, sì. Tantissimo. E non so che cosa possiamo farci, adesso che è successo." "Non mollare", disse Leif. "Ma, Leif, hai sentito Winters. Ci ha tolto dall'indagine. Se ci pescano..." "E come fanno a pescarci? Non è che non siamo giocatori di Sarxos. Non è che non abbiamo il diritto di stare nel gioco quando abbiamo voglia di farlo. O no?" "Sì, ma... Leif, se lo facciamo, sapranno subito quello che stiamo facendo!" "Davvero? Ma noi siamo Net Force Explorers, o no?" Il sorriso di Leif spuntò di colpo e per un attimo sembrò malizioso come non mai. "Chi mai sospetterebbe che noi disobbediamo agli ordini? Intenzionalmente, comunque." Leif tenne la testa eretta e per un attimo assunse un atteggiamento da innocente e offeso. Megan non riuscì a trattenere una risata. "Non che ci possano dare ordini", continuò Leif. "Consigli, sì..." "Sei incredibile."
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"Grazie. £ modesto." "Ohi", disse Megan. "Guarda, pensaci un po'. La ragione per cui siamo stati tanto fortunati da diventare Explorer è perché hanno visto in noi qualcosa che non era il solito tipo di comportamento. Un po' più disposti della media a buttarci incontro all'ignoto, forse. Se adesso abbandoniamo solo perche ci è stato detto..." "Se facessimo parte della Net Force, dovremmo fare quello che ci è stato detto, Leif! La disciplina..." "Al diavolo la disciplina", disse Leif. "Beh, non volevo dire proprio quello. Ma noi non siamo del tutto parte della Net Force. E questo ci consente un po' di..." "Elasticità?", disse aggrottando le sopracciglia. " Megan, sono sicuro di aver ragione in questo caso. E anche tu lo sai. E per quello che stai facendomi quelle brutte facce. Dovresti vederti." Lei lo guardò perplessa. Ignorare il "suggerimento" di Winters andava contro la sua natura. Capiva la sua preoccupazione. Sapeva che cosa avrebbero detto i suoi genitori se avesse detto loro qualcosa in proposito. Ma se contasse di dir loro qualcosa, proprio in quel momento almeno, era tutta un'altra storia. Magari più tardi Ma adesso... devo fare una scelta. "Beh..." "E guarda", riprese Leif, "abbiamo ancora dei problemi. Argath, o chiunque sia, è ancora là fuori e scommetto che lui, lei, loro o quella cosa... "Lui, ci scommetterei", intervenne Megan. "Sì, comunque, stanno ancora prendendo di mira qualcuno. Che cosa ne dici di quegli altri due personaggi di cui parlava Elblai? Fettick e Morn? A giudicare da quello che diceva lei la notte scorsa, è probabile che siano i prossimi bersagli. Voglio dire, pensaci, Megan! Chiunque stia facendo queste cose, non stanno più aspettando di colpire qualcuno che abbia battuto Argath. Che sia Argath stesso, o qualcun altro che usa qualche strana copertura..." "Quel che continuo a non capire è perché qualcuno possa fare una cosa del genere."
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"Rancore", disse Leif. "Oppure è pazzo. Non importa... abbiamo ancora tempo per capirlo. Ma, quale che sia la causa, chiunque sia dietro a quanto è successo ha smesso di essere paziente. Sta colpendo la gente prima che combatta effettivamente contro Argath, quando sembra che ci sia semplicemente una possibilità che lo batta." "Sì. Va bene. Vedo che cosa intendi. E allora... che cosa facciamo? Andiamo e tentiamo di avvertirli? Quali erano i regni in ballo?" "Errint e Aedleia. Li conosco vagamente: sono regni sul confine settentrionale di Orxen. Ho transito più che sufficiente per arrivare fin là. Possiamo andarci stasera. Non era previsto che le loro battaglie dovessero verificarsi subito. È possibile che si riesca..." "Che cosa? Convincerli a non proseguire in una campagna che hanno pianificato e che vogliono fortemente? Sarà proprio un bel problema." "Dobbiamo tentare. Non abbiamo tentato con sufficiente convinzione ieri... e guarda che cosa è successo. Vuoi vedere anche questi nuovi bersagli buttati fuori strada... o peggio? E tutti gli altri che potrebbero presto trovarsi nella stessa situazione? Ci devono essere altri giocatori che stanno aspettando il momento opportuno per attaccare Argath. Dopo questi, anche loro saranno una minaccia. Se riusciamo a scoprire quali altri giocatori non vedono l'ora di combatterlo, magari possiamo trovare un filo conduttore, qualche linea di dati che ci porti a chi sta dietro questa storia. E io li voglio", disse Leif sottovoce. "Io li voglio." Megan annuì lentamente. Non le capitava spesso di sentirsi fisicamente violenta. Anche quando riusciva a creare situazioni che le davano la scusa, ogni tanto, di malmenare i suoi fratelli, aveva l'impressione di giocare; e provava una soddisfazione divertita a vedere le loro facce, quando ricordava loro che la vita non sempre è prevedibile. Ma in quel momento... in quel momento aveva voglia, quasi contro la sua natura, di far del male a qualcuno. E più precisamente, a chi aveva spedito Elblai all'ospedale, pallida, con una maschera di ossigeno che nascondeva il suo bel viso materno. "Guarda", disse Leif. "Prepara il tuo rapporto per Winters. Una volta terminato, lascialo pronto per l'invio nel tuo computer e programma l'invio a lui stanotte... quando saremo già a Sarxos. O per dopo che ne saremo ritornati."
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"Leif, stasera non posso", disse Megan. "Te l'ho già detto, ho questa cosa di famiglia..." "Questa è un'emergenza, o no? Non puoi semplicemente sganciarti per una volta?" Lei ci pensò, pensò allo sguardo preoccupato sul volto di suo padre. "Forse", disse. "Di solito non lo faccio mai." "Su, Megan. È importante. E non si tratta solo di quelle altre persone." La guardò con intensità. "Che cosa pensi di fare dopo che sarai uscita da scuola?" "Beh, operazioni strategiche, è ovvio, ma..." "Ma dove? Per qualche centro di ricerca? A farlo in qualche posto noioso dove non si esce mai effettivamente a vedere se quello che è stato pianificato succede effettivamente? Vuoi farlo alla Net Force, non è vero?" "Sì", disse Megan. "E... penso che sia una delle agenzie più importanti che ci siano ora, anche se probabilmente ci sono persone che pensano sia sopravvalutata." Si mosse sul divano, un po' a disagio. "È un posto all'avanguardia." "Beh, vuoi stare lì, no? Se ti ritiri adesso da questa cosa, solo perché Winters ti ha detto di evitare il pericolo, di evitare i rischi... Se riusciremo a entrare un giorno nella Net Force, ci saranno pericoli e rischi. Questo è solo un esercizio. Inoltre lo sai che siamo sotto osservazione. Se entriamo con loro, magari addirittura prima di loro, e riusciamo a risolvere questa faccenda, tenendo gli occhi aperti e facendo lavorare il cervello, pensi che saranno irritati con noi? Io penso di no. Saranno ben impressionati. Se li impressioniamo ora..." Megan annuì. "Non credo", disse lentamente, "che siamo meno bravi degli operativi che spediranno là. Inoltre, noi conosciamo Sarxos meglio di tutti loro. Per questo ci hanno chiesto di andare là, inizialmente. Perché siamo i migliori..." Alzò lo sguardo su Leif, sorrise e si alzò. "Sono con te. Guarda, però, che non so a che ora riuscirò a entrare nel gioco. Per poter lasciare la riunione di famiglia dovrò dare qualche spiegazione." "Va bene... beh, io entrerò prima, ti aspetterò e lascerò un po' di transito sul tuo conto. Ci troviamo a Errint e vediamo se possiamo trovare prima Fettick e avvisare lui. Si tratta di una piccola città-stato, un po' come Minsar. Quando arrivi in città, c'è una modesta locanda
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subito all'interno della terza cinta di mura, un posto che si chiama Da Attila." Megan alzò le sopracciglia. "Sì", disse Leif, "fanno dell'ottimo chili. Mi siederà lì e passerò un po' il tempo intanto che arrivi. Poi cercherò di riuscire ad avere un incontro con Fettick... ci vuole pazienza e fare in modo che capisca." "Va bene", disse Megan. "Dobbiamo tentare. Ma tentare di convincere qualcuno a rinunciare a una campagna sarà sicuramente un'impresa interessante." "Penso che possiamo fargli cambiare idea. Dopo, possiamo cominciare a guardarci in giro alla ricerca di altri indicatori di quello che sta effettivamente succedendo. Sono sicuro che possiamo trovare il bandolo della matassa, basta un po' più di tempo..." "Giusto. Ci vediamo stasera, allora." Megan svanì. Leif arrivò a Errint nel tardo pomeriggio di una giornata dorata. La città sorgeva in una piccola valle glaciale nel massiccio più orientale della grande catena settentrionale Highpeak. In un tempo molto lontano della storia geologica del luogo, quando il continente di Sarxos doveva essersi trovato in un'era glaciale, un enorme fiume di ghiaccio, dal letto molto ampio, era sceso lentamente, erodendo il terreno, dal vasto circo nevoso del monte Holdfast sopra la valle, in cui aveva scavato un solco con la sezione a U, lungo una quindicina di chilometri. Ora il ghiacciaio se ne era andato, si era ritirato fino ai piedi dell'Holdfast; aveva lasciato a ricordo il fiume che scendeva dalla morena terminale e percorreva la valle, in mezzo a pietre bianche arrotondate sparse qua e là, con la tipica acqua lattiginosa bianco-verdastra che rivelava che il fondale era coperto di "sabbia" glaciale. Errint si ergeva su un piccolo spuntone di roccia che in qualche modo era riuscito a evitare di essere eroso dal ghiacciaio. Nelle sue prime incarnazioni era stata una città tutta di legno, ma continuava a bruciare, così finalmente fu ricostruita in pietra e aveva preso la fenice come simbolo. Non aveva molti abitanti, ma la sua popolazione era famosa: gente di montagna robusta, indipendente, pericolosa in battaglia, abile con un'alabarda o con un arco. Tendevano a rimanere isolati e a non andarsi a infilare in guerre estranee... a
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meno che non fossero pagati bene. La loro città traeva una fonte di ricchezza, non grande ma regolare, dalle miniere di sale e ferro fra le montagne, miniere che venivano controllate gelosamente, e mai erano stati rivelati i segreti delle labirintiche vie di ingresso e uscita. Coltivavano la lunga valle di roccia, poco ripida, soprattutto a orzo e avena, e cercavano di farsi gli affari loro. La cosa era diventata sempre meno facile negli ultimi tempi. L'ascesa di Argath nelle terre del Nord aveva fatto sì che i regni posti ai bordi del suo dominio cominciassero a cercare alleati o stati- cuscinetto che li proteggessero dal vicino poco amichevole insediato subito oltre i passi delle montagne. Ai paesi a nord (cioè quelli di Argath) e a quelli a sud (i regni del duca Morgon e altri) Errint appariva come una possibilità perfetta: una popolazione ridotta, che non aveva molte possibilità di resistere; territorio che non valeva molto se non come cuscinetto, così che le battaglie combattute su quelle terre non ne avrebbero guastato il valore; e le miniere, fonte dell'impareggiabile ferro di Holdfast, assai ricercato a Sarxos come materia prima per le armi. Errint però non aveva accettato docilmente l'idea di fare da stato- cuscinetto per qualcun altro. Quando Argath era sceso dalle montagne per annetterselo, gli abitanti lo avevano combattuto e costretto a ritirarsi. L'anno precedente l'avevano fatto di nuovo. Ma Argath aveva commesso due volte l'errore di attaccare senza tener conto del tempo atmosferico in quella zona, che gli abitanti di Errint conoscevano meglio di chiunque altro. Anche in estate, quei picchi dolomitici dall'aspetto sonnacchioso potevano circondarsi di nubi e diventare ostili, e allora la valle veniva percorsa dal vento mortale ululante, il fiero vento caldo che si riversava sulle creste delle montagne settentrionali, faceva impazzire le acque dei piccoli laghi glaciali e provocava tempeste che sembravano quasi patologicamente innamorate dell'idea di colpire con i loro fulmini le truppe degli invasori. Era un osso duro, la piccola Errint. Non che fosse inespugnabile e i suoi capi non erano così mal avvertiti da pensarlo. Conoscevano benissimo il potere incombente di Argath a nord. Non erano mai stati nelle condizioni di attaccarlo da soli. Ma forse le cose stavano cambiando...
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Leif si fermò sulla porta aperta della città, guardandosi attorno, e le guardie, appoggiate alle loro alabarde affilate, lo guardarono a loro volta serenamente. Erano uomini di grande corporatura, capelli scuri e tratti grossolani, tipici del sangue di Errint, vestiti di pelle anziché di tessuto. Leif fece loro un cenno, sapendo che lo avevano giudicato innocuo e amichevole, altrimenti si sarebbe già trovato disteso con uno di quegli apriscatole militari sovradimensionati infilato nella pancia. Le guardie gli fecero a loro volta un cenno abbastanza cortese e Leif entrò nella città. La struttura fondamentale di Errint era un po' come quella di Minsar, ma su scala molto più piccola. Inoltre non erano permesse costruzioni oltre la quinta cinta di mura, la più esterna. Fornai e conciatori e così via erano confinati in fondo alla curva più lontana fra la quarta e la quinta cinta, ma nessuno erigeva tende o edifici temporanei all'esterno per il semplice motivo che una di quelle improvvise tempeste di vento o di pioggia avrebbe potuto semplicemente spazzarli via dalla collina di Errint e farli finire nel fiume. L'area del mercato, all'interno della terza cinta, perciò, era affollata più del solito di tende, tendoni, tavole, tavolati e balle. A Errint tutti i giorni erano giorno di mercato. E ogni giorno su e giù per l'unica strada della valle, che portava verso la pianura, c'era un gran movimento di persone che venivano per acquistare metalli o una pelle d'animale e si fermavano a scegliere qualcosa d'altro, un barilotto di burro delle montagne o il famoso vino delle montagne. La giornata ormai volgeva al termine e l'agitazione del mercato era molto scemata. Si sentiva ancora qualche grido di "Comprate la mia birra" o "Pelli, pelli bellissime, senza buchi!", ma con scarsa convinzione, senza continuità, come se tutti stessero già pensando ad andarsene a trovare qualcosa da mangiare o da bere. L'unico suono costante era un ting-CLANK, ting-CLANK che Leif conosceva e lo fece sorridere un po' mentre si dirigeva verso la sua fonte attraversando i banchi del mercato. In un paese di miniere di ferro, molti sapevano qualcosa dell'arte di forgiare, almeno i rudimenti, ma un bravo fabbro ferraio era più difficile da trovare e ancora più difficile era scovare un maniscalco davvero provetto. Chi sapeva quel mestiere tendeva a viaggiare per i luoghi in cui si facevano buoni affari. Solo i più bravi potevano avere
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una sede di lavoro stabile e aspettare che i loro clienti arrivassero fino alla loro porta trascinandosi dietro i cavalli. Quello, però, era davvero molto bravo. Leif superò la parte del mercato riservata ai macellai, superò le ultime carcasse di manzo appese nel sole del tardo pomeriggio con nubi di mosche che vi ronzavano attorno e giunse a un punto, vicino alla curva delle mura, dove qualcuno aveva parcheggiato un carro. Era da lì che giungeva il ritmico ting-CLANK. Vicino, la testa abbassata e le briglie legate a un anello di ferro all'estremità posteriore del carro, c'era un grosso cavallo da tiro biondo e paziente. Di fronte al cavallo, al lavoro su un'incudine appoggiata a quella che era stata la pietra per montare di qualche ricco abitante di Errint, si trovava un uomo non molto alto, di bell'aspetto, vestito con una leggera camicia di tela marrone logora e pantaloni di pelle altrettanto rovinati e un grembiule di pelle robusta al di sopra, che forgiava con un martello un ferro di cavallo appena tolto dalla fucina portatile scaricata dal carro e ora appoggiata sul terreno vicino all'incudine. Dalla struttura del carro pendevano i mantici, a portata di mano, pronti per l'impiego. Il maniscalco si fermò un istante per prendere il ferro di cavallo con le molle e rimetterlo fra i carboni per riscaldarlo ulteriormente. Quando diventò rosso ciliegia, lo estrasse con le molle e cominciò nuovamente a martellarlo sull'incudine. "Wayland", lo chiamò Leif. Il viso che si alzò a guardarlo era solcato da rughe profonde. Gli occhi avevano quell'espressione distante che ha chi è cresciuto fra le montagne, anche se non quelle di quei luoghi. "Guarda guarda, il giovane Leif', disse Wayland. "Ben incontrato nel pomeriggio! Che cosa ti porta fin quassù in questo periodo dell'anno?" "Me ne sto solo andando in giro", rispose Leif, "come al solito". Wayland lo guardò con un sorriso. "Ah, beh, può essere, può essere." "Potrei chiedere la stessa cosa a te", disse Leif. "Di solito non sei da queste partì in tempi così vicini all'autunno. Pensavo che avessi deciso di non voler più sopportare questo tempo. Mi sembra che dicessi 'la pianura fa per me, quando viene l'autunno'". "Aha, ma è ancora estate, no?", disse Wayland. Poi abbassò la voce. "E per quanto riguarda te, la tua pietra curativa e tutto il resto, non
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penso che tu stia semplicemente andandotene in giro. Scommetterei che hai qualche altro motivo per arrivare qui." "Mi dispiace vederti perdere la scommessa", disse Leif, sedendosi sul predellino del carro, in modo da non essere d'ostacolo. Per un paio di minuti rimase seduto a guardare Wayland che finiva di lavorare il ferro di cavallo. Wayland lo infilò in un secchio d'acqua lì vicino; l'acqua si mise a bollire e a fischiare, in un turbine di vapore. Il cavallo mosse le orecchie avanti e indietro, tranquillamente. "Se vuoi avere di che vivere", disse Wayland con indifferenza, "bisogna andare dove ci saranno affari." "E tu pensi che ci saranno affari qui?" "Oh, sì", disse Wayland, frugando con le pinze nel secchio per estrarne il ferro. "Un sacco di affari, presto, penso." Diede uno sguardo in direzione delle porte della città, su e oltre le mura, verso est alla lunga vallata. "Fra non molto qui intorno ci saranno scontri." Sollevò la zampa anteriore destra del cavallo, la strinse a morsa fra le ginocchia e diede la schiena a Leif. "Chi, secondo te?" chiese Leif. Per un momento Wayland non disse nulla. Si guardò alle spalle piuttosto preoccupato, o almeno così pensò Leif poi tornò a guardare il suo lavoro. Anche Leif a quel punto si guardò alle spalle, come aveva fatto Wayland, e vide, al di là delle varie persone che passavano per il mercato, al di là delle carcasse di manzo, una piccola, strana forma. Uno strano piccolo uomo, alto meno di un metro e trenta. No, per essere precisi, non una persona piccola ma decisamente un nano. Era vestito in un chiassoso abito da buffone arancione e verde che faceva male agli occhi, con un liuto in formato ridotto appeso a una bandoliera a spalla. Il nano scomparve alla vista per un attimo. "Il duca Mengor è venuto in visita", disse Wayland, apparentemente cambiando discorso. "In visita a Lord Fettick?" "Sì, sì." Wayland mise il primo dei chiodi nel primo dei fori predisposti nel ferro, lo infilò a metà, poi cominciò a battere la parte restante verso l'alto e verso l'esterno, in modo da fissarla attorno al bordo dello zoccolo. "È stato qui un giorno o giù di lì, per parlare delle cose di cui parlano di solito i grandi signori. Bella cena ieri notte sulla Casa Alta." Guardò di traverso il modesto castello che si trovava
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entro l'anello più interno della città. "Qualcuno dice che la figlia di Fettick sia in età da matrimonio." "E lo è?" Il volto di Wayland si contrasse in una smorfia, poi il maniscalco sputò. "Beh, ha quattordici anni. Può darsi che sia in età da matrimonio giù a sud, ma..." Alzò le sopracciglia. "Beh, non si può discutere delle usanze altrui." "Pensi che questo matrimonio si farà?" "Non se succede qualcosa d'altro", disse Wayland, molto sottovoce. "Qualcuno sta cercando di salvargli la pelle." Leif abbassò la voce a sua volta. "Questo non avrà per caso qualcosa a che vedere con Argath, vero?" Wayland lanciò un'occhiata a Leif e sputò nel fuoco: un vecchio gesto da montanaro per far capire che certe parole è meglio non pronunciarle affatto, tanto meno ad alta voce. Dopo qualche secondo, riprese. "Ho sentito dire che i suoi eserciti si stanno raccogliendo. Non so dove sia in questo momento, però." Leif annuì. "Ho sentito dire, anche", disse Wayland, con voce a malapena al di sopra di un soffio, "che qualcuno che avrebbe dovuto scontrarsi con lui e batterlo... non ce l'ha fatta." "Elblai", disse Leif, anche lui con un soffio di voce. "Si dice", continuò Wayland, "che sia stata espulsa". E sputò di nuovo nel fuoco. Leif rimase in silenzio per un poco, riflettendo mentre osservava Wayland che tornava a fissare i chiodi al ferro. Finì di mettere a posto l'ultimo, quindi lasciò andare il martello, raccolse una grossa lima grezza e cominciò a limare le estremità dei chiodi. "Wayland", disse Leif, "avrai tempo di parlare un po', più tardi?" "Certo", disse Wayland dopo un istante. "Perché no?" "In un posto tranquillo." "Conosci lo Scrag End nella Via delle Osterie? Fra la seconda e la terza cinta, procedendo con il sole dalle porte." "Il locale con l'alveare all'esterno? Sì." "Quando sarà buio, allora?" "Bene. Due ore dopo il tramonto?" "D'accordo." Wayland si raddrizzò. "Beh, allora, ragazzo..."
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Leif alzò la mano in un saluto informale e se ne andò per il mercato, guardando senza particolare interesse le poche cose ancora esposte sui banchi: pezze di tessuto, qualche ultima porzione di formaggio dall'aria stantia. Era contento di essersi imbattuto in Wayland. Era uno che sapeva notare le cose e che valeva la pena conoscere. Leif lo conosceva da tempo, dalla prima battaglia che aveva visto a Sarxos dopo aver ottenuto la sua pietra curatrice. Si erano incontrati infatti in un ospedale da campo, perché i maniscalchi, esperti di metalli ardenti e cauterizzazione, erano molto richiesti sui campi di battaglia, quando non si trovavano operatori di magia. Wayland era stato straordinariamente gentile con gli uomini che trattava, anche se il trattamento in sé era brutale. Ben pochi particolari di quel che succedeva attorno a lui gli sfuggivano e aveva una memoria fenomenale. Al momento, Leif era felice di poter parlare delle faccende di Sarxos con qualcun altro oltre a Megan. Un punto di vista diverso non fa mai male. Ritornò lentamente in direzione della locanda. E il cuore gli balzò in petto quando qualcuno gli batté su una spalla da dietro. Si girò allontanandosi da chi gli aveva battuto sulla spalla, come gli aveva insegnato sua madre, e lo affrontò con la mano pronta sul pugnale. Era Megan. Gli diede un'occhiata storta. "Mi sembrava avessi detto che ci saremmo incontrati dentro la locanda." "Oh... scusa. Mi sono distratto. Ho incontrato una persona che conoscevo." "Vuoi dire che non sei ancora entrato ad abbuffarti di chili?" Il suo stomaco improvvisamente brontolò. "Chili", disse. "Megan fece un sogghigno. "Andiamo", disse, poi si fermò sentendo il suono di una voce che si alzava cantando una canzone strana dall'altro lato dei banchi del mercato. "Che cosa diavolo è questo,?" disse Megan. La voce era accompagnata da uno strumento molto simile a un ukulele. Ora canterò della triste fanciulla, ed era una fanciulla davvero triste, che aveva perso il suo amore per il figlio del tritone nelle onde del grande mare salato...
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Il proprietario della voce, se così si poteva chiamarla, sbucò in mezzo a tavoli e banchi, seguito dalle risate rauche e dai motteggi di alcuni dei mercanti, mentre la canzone diventava più volgare. La sorgente era il nano con il chiassoso vestito variopinto. Si fermò presso uno dei banchi, un banco di frutta che i proprietari stavano smontando, e cominciò a strimpellare accordi piuttosto atonali con una sola mano, mentre con l'altra cercava di far scomparire qualche pezzo di frutta. La venditrice, una donna florida con gli occhi strabici, alla fine perse le staffe e colpì il nano sulla testa con un cesto vuoto. Quello cadde, si rialzò e trotterellò via, con una risatina cattiva e acuta che faceva pensare a uno scarafaggio da cartoni animati. Megan rimase a fissarlo. "Che cos'era quello?", chiede Leif alla venditrice. "Il Gobbo", disse la donna. "Scusa?", disse Megan. "Il Gobbo. È quella piccola peste del nano del duca Mengor. Una sorta di menestrello." "Non è una sorta di menestrello, signora, non con quella voce", disse uno dei macellai che stava passando con un quarto di bue sulle spalle. "Una sorta di buffone, allora", disse la fruttivendola. "E un bel tipo di seccatore. Te lo ritrovi sempre intorno, che approfitta, rubacchia e va in cerca di guai. Si infila sotto gli abiti della gente... "Sei solo gelosa perché non si è infilato sotto il tuo vestito", disse un altro dei mercanti che stava impacchettando la sua mercanzia. La fruttivendola si girò verso l'uomo e cominciò a riempirgli le orecchie con una sfilza di improperi tale che il poveretto si affrettò a scomparire dietro il banco di qualcun altro. Leif, ridacchiando, si rimise in moto verso Attila. Megan rimase ferma un momento, con lo sguardo fermo nel punto in cui era svanito il nano. "Non so perché", disse a Leif, "ma mi sembra di averlo già visto..." "Sì..." Leif guardò nella stessa direzione, poi: "Ti dirò io il perché. Lo hai visto a Minsar." "Davvero? Può darsi." Poi ricordò la strana piccola figura con la spada che correva per il mercato illuminato dalle torce, con quella sua risatina bizzarra. Rabbrividì, senza riuscire a capire perché. "Se era là", disse sottovoce, "che cosa ci fa all'improvviso qui?"
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Leif le prese il braccio e la trascinò verso Attila "Guarda, noi eravamo laggiù, e adesso siamo arrivati fin qui. Non c'è niente di strano." "Ne sei sicuro?" disse Megan. Osservò Leif che assumeva quella sua aria pensierosa... e poi pian piano quell'aria si trasformò in qualcosa d'altro: sospetto. "Mi chiedo...", disse. "Anch'io. Ma una cosa alla volta", disse Megan e questa volta toccò a lei afferrare il braccio di Leif. "È dura interrogarsi a stomaco vuoto." "Va bene. E poi... dopo... abbiamo un appuntamento." "Ah?" "Andiamo... Ti spiegherò tutto. Ammesso che riesca a parlare intanto che mangiamo. Questo chili è così forte..." "Quanto forte?" "Lo usano per castigare i draghi." "Dai! Io sono pronta!" Circa un'ora più tardi erano seduti da soli in un angolo da Attila e cercavano di riprendersi dalla cena. "Non posso credere di aver mangiato quella roba" disse Megan. "E non posso credere di averla presa due volte." Stava guardando i resti della sua seconda porzione. Leif ridacchiò e ingollò un sorso della sua bevanda. Non c'era cura per il chili di Attila, tranne il tè dolce freddo con la panna, perciò entrambi lo stavano bevendo, in alte tazze di ceramica. "Mi dispiace per i draghi di cui parlavi", disse Megan. Leif gettò un'occhiata alla finestra. "Siamo ormai abbastanza vicino al tramonto", disse Leif. "Probabilmente dovremmo cominciare ad andare." "Va bene, ma prima finisci di raccontarmi quello che avevi cominciato a dire", replicò Megan, "a proposito di Wayland." "Oh, no. Avevo finito." "Era qualcosa a proposito del suo nome." "Oh, quello... è solo un nome generico per un fabbro itinerante, un piccolo scherzo. Ma lui è uno di quelli bravi. E va molto in giro. Sente un sacco di cose. C'era qualcos'altro di cui dovevo parlarti prima di incontrarlo, però." Leif si guardò attorno. La proprietaria di Attila era uscita a prendere il fresco della sera che scendeva e stava appoggiata alla
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porta che si apriva sulla piazza del mercato, dove stava chiacchierando con qualche passante. Leif continuò sottovoce: "Prima di venire a Sarxos, oggi, ho fatto qualche ricerca su un'altra questione." "E cioè?" "Beh, tu hai detto che ci doveva essere qualche modo più sistematico di procedere nella ricerca dell''espulsore'. Mi sembrava che tu avessi ragione. Perciò ho pensato, se non si tratta di chi vince Argath in battaglia, visto che chiaramente ci stanno spingendo a pensare che sia così, allora la domanda diventa chi, quale giocatore o quale p e r s o n a g g i o , è stato a sua volta battuto in battaglie o scontri dalle stesse persone? Da tutte le stesse persone che hanno battuto Argath?" Megan lo stava guardando pensierosa. "Vedi", continuò Leif, "bisogna considerare il problema come se fosse un problema di teoria degli insiemi, qualcosa che si può rappresentare con un diagramma di Venn, qualcosa che sembri un po' una versione di Sarxos del logo della MasterCard. Bisogna prendere in esame tutta la storia delle battaglie combattute a Sarxos negli ultimi due anni, per vedere se ci sono sovrapposizioni, in termini di combattenti da una parte e dall'altra. E le sovrapposizioni debbono essere esatte, perché la copertura abbia successo. Mi segui?" Megan ammiccò e poi annuì. Sapeva che l'analisi era uno dei punti di forza di Leif; era semplicemente stupefacente vedergliela tirar fuori dal cappello in quel modo. "Va bene", disse lei. "E allora che cosa hai scoperto?" "Beh, tanto per cominciare, tutta la faccenda delle battaglie a Sarxos non è molto organizzata. Non è che ci sia una pianificazione o qualcosa del genere. Ma c'è una tendenza per cui i membri di un dato gruppo di giocatori combattono la maggior parte degli altri membri dello stesso gruppo e i raggruppamenti sono grosso modo basati sulle regioni. In parte è per la logistica stessa del gioco. È costoso, in termini di settimane di tempo-gioco, spostare un gran numero di persone, eserciti numerosi, da una parte di Sarxos all'altra. Non è fattibile, dal punto di vista logistico. Quand'è stata l'ultima volta che hai sentito parlare di una battaglia fra Continente Settentrionale e Continente Meridionale?"
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Megan scosse la testa. "Non mi sembra di aver mai sentito nulla del genere." "Ce n'è stata una", disse Leif, "ma è stato dodici anni fa, tempo di gioco, e ha mandato in bancarotta ambedue le parti. Peggio, nessuno l'ha veramente vinta e si è conclusa con uno stallo, perché vari paesi ai confini dei regni del Continente Settentrionale e del Continente Meridionale che si stavano combattendo hanno colto l'opportunità per attaccare i paesi che si stavano combattendo a vicenda. Si è venuta a creare una situazione simile a quella verificatasi durante la Rivoluzione americana, ma di gran lunga peggiore: Francia e Olanda e altri paesi, sul fronte diplomatico o sul campo, hanno colto l'opportunità di schierarsi contro l'Inghilterra mentre questa cercava di entrare in guerra con gli Stati Uniti. "Comunque, le guerre intercontinentali sembra non succedano più, qui; non c'è niente da guadagnarci." Leif si appoggiò allo schienale della sedia. "Perciò si arriva ai paesi che possono raccogliere abbastanza persone per gli eserciti e cioè la maggior parte; tutti amano combattere e metà della gente di Sarxos è qui per 'lavorare sul campo' e quindi nella buona stagione tendono a combattere chiunque altro sia disponibile in quel periodo. Finiscono per combattere praticamente con tutti gli altri di quel 'girone" o di quel 'gruppo', semplicemente perché sono vicini fisicamente. I 'gruppi' sono dispersi in modo piuttosto regolare su tutta l'area di gioco." "Non è un po' strano?" "Nel mondo reale, forse lo sarebbe. Ma qui... Mi sono messo a esaminare la carta di Sarxos e ho notato qualcosa di molto interessante a proposito di quel che ha fatto Rodrigues quando ha costruito questo luogo. Ha fatto in modo che non ci siano aree popolate del tutto prive di valore strategico. Dovunque tu viva, qualunque sia il paese che hai ereditato o conquistato, c'è sempre qualcosa di utile. Ma, ancora più importante, c'è sempre qualche posto più interessante, qualche posto che possiede cose che ti potrebbero essere utili, subito oltre l'orizzonte o oltre la prima collina. Hai un paese ricco chiuso in mezzo a due o tre più piccoli, più poveri. Oppure un paese grande e potente si troverà circondato da vari altri paesi che non potrà attaccare. Guarda Errint, per esempio. Argant è subito lì dietro e avrebbe potuto conquistare facilmente
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questo posto con i suoi grandi eserciti, ma non può farlo a causa della catena di montagne che sta fra lui e Errint i suoi passi evidentemente sono stati collocati con grande attenzione in modo da rendere difficile l'invasione." "Frustrazione intrinseca", disse Megan. "E qualcosa di più ancora, penso", disse Leif. "Rod, nella sua infinita saggezza", Leif alzò gli occhi al soffitto con aria divertita, "ha messo i semi del conflitto in questo posto. Ma anche i semi della stabilità, in modo da mantenere il tutto in equilibrio. Ma è stato molto sottile." "Hai pensato tutte queste cose da solo?", disse Megan, al tempo stesso colpita e divertita. "Uh? Quasi tutto", rispose Leif. "Sono stati scritti un paio di libri su Sarxos, ma nel complesso gli autori non conoscevano quello di cui parlavano, oppure sono stati catturati dall'ammirazione per i particolari esterni, l'interfaccia per computer, il sistema dei punti e tutto il resto, e non sono mai entrati veramente in profondità." "Beh, mi sembra tutto molto sensato", disse Megan. "Se sei il progettista di un gioco, vuoi essere sicuro che i giocatori non finiscano per annoiarsi. E devo dire che non mi sembra ci sia un pericolo del genere nel caso di Sarxos." "Vero. Ma Rod è stato tortuoso. Lasciando fuori dall'equazione Arstan e Lidios che sono casi speciali per la 'regola della polvere da sparo' e per lo più si combattono fra loro anziché combattere altri paesi, mi sembra che nel gioco ci siano fondamentalmente due insiemi alternativi di pressioni. Uno è determinato dai giocatori, che vogliono che le cose continuino a funzionare così, nel complesso, e vogliono che cambino solo nel modo che garba loro. L'altro insieme di pressioni, penso, viene da Rod: pressioni per garantire che le situazioni statiche non rimangano statiche per sempre e per impedire che avvengano mutamenti eccessivi o frettolosi. Se guardi i riepiloghi di gioco per gli ultimi dieci anni-gioco, hai la sensazione che, qua e là, a Sarxos venga data una spintarella... un calcetto. Comincia una tendenza in una certa direzione in un paese, ti ricordi quella storia della schiavitù a Dorlien?, e poi succede qualcosa che rimette sulla strada giusta quel luogo. Oppure un altro posto si è comportato sempre nello stesso modo a lungo e all'improvviso accade qualcosa, apparentemente
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proprio al momento giusto, per mandarlo fuori strada e spedirlo in una direzione del tutto nuova." Megan rimase silenziosa un momento. "Sembra un gran bel modo per mantenere le cose in movimento. Ma stai forse pensando", disse mentre l'espressione sul viso cambiava all'improvviso, "che queste espulsioni siano a loro volta delle 'spintarelle'. Non pensi che Rodrigues... che Rod..." Leif la guardò, annuendo lentamente. "Mi stavo chiedendo se anche tu saresti arrivata a formulare questa conclusione." Megan rimase pensierosa. "Sai, la paranoia è una cosa terribile. Comincia a intrufolarsi dappertutto." "Sì", disse Leif. "Ma resta la domanda: questa è solo paranoia, o no? Se il collegamento con Argath è effettivamente una copertura per qualche altra cosa, per la vendetta di qualcuno o per qualcosa di ancora più oscuro, allora, da come mi sembra vadano le cose, quel qualcuno prima si è messo a tavolino e ha condotto un'analisi molto attenta del gioco, della sua struttura e del modo in cui è stato configurato per trovare dove avrebbe potuto interferire nel modo più efficace e come avrebbe potuto interferire in modo che la colpa potesse cadere su qualcun altro. Se dici che una persona che si trova in una buona posizione per una cosa del genere è il progettista stesso del gioco, quello che manda avanti questo posto..." Megan scosse la testa; perplessa. "Molte altre persone si troverebbe in quella posizione." "Sì, lo so. Ma è una possibilità che dobbiamo prendere in considerazione." Megan cominciò a far ruotare la sua tazza di tè. "Un gamesmaster può gestire il suo gioco come vuole... ma perché comincerebbe a espellere i suoi clienti paganti? Senza movente, questa teoria non sta in piedi." "Non è ancora una teoria. È solo una possibilità." "Sherlock Holmes non la riterrebbe degna neppure di quel termine, penso." Ma poi Megan scrollò le spalle. Non aveva senso continuare in quella direzione al momento. "E allora proviamo a stare più sul generale. Ora mi sembri abbastanza certo del fatto che Argath non sia responsabile delle espulsioni. Pensi che sia qualcuno che sia stato
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sconfitto dalle stesse persone che hanno battuto Argath. Bene. E quante sono le persone con queste caratteristiche?" "Sei", rispose Leif. "Sono generali o comandanti che si chiamato Hunsal, Orieta, Walse, Rutin, Lateran e Balk il Cavatappi." "Che nome", disse Megan. "Già. Beh, quando si analizzano i dati in questo modo si è un po' aiutati, perché tutti questi giocatori hanno la propria 'base' nell'area nord-orientale del Continente Settentrionale. O le proprie città, i regni o gli eserciti si trovano lì, o le battaglie hanno avuto luogo nell'area di quel 'gruppo'." "Sembra che questa analisi faccia aumentare le probabilità che il vero 'espulsore' sia una di queste sei persone. Se non è Argath." "Giusto. O, perlomeno, così sembra a me. Ti viene in mente un altro modo di leggere i dati?" Megan scosse la testa. "Non al momento. Vorrei dare un'occhiata ai dati grezzi anch'io... ma ormai sarei influenzata. Questa è la tua specialità e, se la vedi così, sono disposta a seguirti." "Splendido. E allora questa sembrerebbe debba essere la nostra linea di indagine", disse Leif. "Ma hai preparato il tuo rapporto per Winters, vero?" "Sì. Dovrebbe riceverlo adesso. Aspetta un momento. Intervento di gioco" disse Megan all'aria. "In attesa." "Controllo ora, base casa." "Nove e quarantatré di sera." "Finito. L'ha ricevuto un quarto d'ora fa" disse Megan a Leif. "E tu?" "Oh, sì, il mio è stato programmato per l'invio, lo riceverà fra un'ora o giù di lì." "E questa linea d'indagine?" disse Megan, guardandolo con un'espressione maliziosa. "Gli hai parlato di queste nuove informazioni che hai scovato?" "Uh, beh..." "Glielo teniamo nascosto per vedere prima che cosa possiamo fare, eh?" "Beh, mi sembra coerente con quello che abbiamo discusso in precedenza... o no?" Megan si sentiva solo un po' incline a irritarsi. Al tempo stesso, aveva l'impressione che potessero essere davvero su una buona pista. "Senti,
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procediamo in questa direzione per un altro giorno o due", disse Leif. "Siamo vicini, lo sento. E dato che non ci sono nuove battaglie davvero imminenti..." "Sono d'accordo con te sul seguire questa pista per un altro giorno o giù di lì", disse Megan, "ma non sulla base della falsa premessa che non ci siano battaglie immediatamente in arrivo. Non possiamo assumere che avranno qualcosa a che fare con il fatto che il nostro 'espulsore' attacchi qualcuno o eviti di attaccarlo. Penso che espellerà tutti quelli che vuole, adesso, non appena si sente pronto e vorrei fare tutto il possibile questa sera. Dopo aver parlato con Wayland, dobbiamo subito metterci in contatto con Fettick e poi, la prossima volta che torniamo, con la duchessa Morn. Dobbiamo fare in modo che siano avvertiti e che credano all'avvertimento." "Sì. Poi dobbiamo cominciare a parlare con quei sei generali", aggiunse Leif, "oppure parlare di loro con qualcuno. Dovremo usare un bel po' di transiti, ma..." Alzò le spalle. "Sì, beh, puoi dividere un po' del lavoro di gambe con me" disse Megan. "Anch'io ho un po' di transiti, non quanti ne hai tu, forse, ma è una questione importante. Dobbiamo metterci in movimento. Probabilmente ci vorrà tempo per raccogliere su questi sei informazioni sufficienti per stabilire quale di loro abbia maggiori probabilità di essere l'espulsore." "E poi che cosa facciamo? Se siamo sicuri di aver trovato la persona giusta, voglio dire?" "Chiamiamo la Net Force", disse Megan. "Passiamo a loro tutto quello che abbiamo e diciamo loro di andare a prenderlo." "Vorrei molto insistere per essere presente a quel momento", disse Leif. "Insistere? E con chi? Winters?" Megan gli lanciò uno sguardo scettico. "Vuoi una stima delle tue possibilità di cavartela liscia?" "Uh, beh... comunque lo suggerirei con forza. Solo per la soddisfazione." "Sarebbe bello essere là, o qua, quando succede", disse Megan. "Anch'io vorrei esserci. Ma penso che gli 'adulti' ci vogliano sapere al sicuro da tutt'altra parte. Ma la soddisfazione? Ne avremo moltissima quando butteranno nella spazzatura l'espulsore." L'immagine del volto di Elblai mentre veniva trasportata all'ospedale, gli occhi viola chiusi, il
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viso coperto di escoriazioni, era sempre molto presente a Megan. "E in ogni caso avremo la gloria. La Net Force saprà chi ha fatto il lavoro di gambe." "Giusto. Andiamo", disse Leif, e si alzò, stirandosi. "Usciamo di qui e andiamo a vedere Wayland." Fecero la strada verso lo Scrag End con calma e attenzione. Le strade erano molto buie e la luna, anche se era già sorta, non si era ancora alzata abbastanza da gettare molta luce oltre le mura. Leif e Megan camminavano con cautela sull'acciottolato, tenendo le orecchie ben aperte. Non che Errint fosse una città poco sicura, per le condizioni generali di Sarxos. Ma in qualsiasi città può esserci il malvivente occasionale nascosto nell'ombra, qualcuno che vorrebbe alleggerirti del portafoglio o di qualsiasi bene tu porti. In effetti, a Sarxos esisteva una solida corporazione di ladri, persone che nel mondo reale conducevano vite del tutto rispettabili, ma passavano il tempo del gioco acquattati nell'ombra dei vicoli, vestiti di stracci, parlavano fra loro nel gergo della malavita e in generale facevano cose che, nelle loro esistenze normali, sarebbero state tremendamente antisociali, mentre a Sarxos erano solo puro divertimento ed erano considerate parte del paesaggio, come gli escrementi dei cani su un marciapiede di New York. Una sgradevole risata in fondo a un vicolo fece alzare la testa a Megan. Leif si fermò, scrutando nel buio, e Megan abbassò il tono di voce. "Molto interessante" sussurrò dopo un momento. Leif non riusciva a vedere niente, ma la voce gli era familiare. "Chi era?" chiese. "Ancora il nostro amichetto", rispose Megan. "Il Gobbo, il nano canterino." "Oh, davvero", disse Leif. "Avrei pensato che a quest'ora fosse al castello, intento a propinare le sue buffonerie al signore", disse Megan. "Magari è in giro a svolgere una commissione. Penso che siano mansioni che gli spettino." "Ma..." fece Megan, con aria non particolarmente convinta. "Beh, andiamo."
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Ripresero a camminare, superarono un arco fra due pareti e si diressero lungo un'altra via stretta, curva e buia. Leif si fermò, mentre Megan procedeva. "Uau", disse lui. "Eccolo." Megan si fermò e guardò su e giù per la via. "Che cos'è?" "Questo." Leif si ricordava che Megan aveva chiamato Pheasant e Firkin una bettola. Fermi davanti allo Scrag End, con la luna che faceva gradualmente capolino sopra la cima della cinta di mura più esterna, Megan guardò la struttura che si protendeva sulla via, con le assi di legno tutte crepate e la porta con i rinforzi di ferro, segnata da colpi d'ascia. "Sembra una stalla!" disse. "Può anche darsi che un tempo lo sia stata", disse Leif. "Vieni, entriamo." Diede un pugno alla porta. Una piccola fessura rettangolare, all'incirca all'altezza degli occhi si aprì dalla parte interna della porta e un raggio di luce debole, parzialmente ostruito dall'ombra di una testa, si riversò nella strada buia. Due occhi socchiusi esaminarono Leif attraverso lo spioncino. "Wayland", disse Leif. Lo spioncino si richiuse e si sentì all'interno il rumore di un catenaccio di legno che veniva fatto scivolare di fianco e poi sollevato dai suoi sostegni. "Alta tecnologia", disse Megan sottovoce. Leif ridacchiò. Il battente si aprì pesantemente verso l'esterno e prima Leif, poi Megan, si infilarono nell'apertura. Leif osservò Megan che si guardava intorno e gli parve di vederla completare il pensiero: È una stalla! Probabilmente era effettivamente stata una stalla delle vecchie scuderie che si trovavano in quella zona. Il pavimento era dello stesso acciottolato della via e le pareti erano costituite di antiche assi di legno annerite e crepate, accostate una all'altra, rivestite qua e là da qualche tipo di stucco, nel fallimentare tentativo di sigillare le fessure. C'erano quattro o cinque piccoli tavoli di legno, ciascuno con un portacandela e una porta chiusa da una tenda che si apriva su una qualche area di servizio dietro la sala principale: probabilmente il posto in cui venivano conservati i barili di birra.
Tom Clancy & Steve Pieczenik 105 1999 - WarGame Mortale
L'uomo che aveva aperto loro la porta, un giovane alto e di bell'aspetto, in grembiule sporco e pantaloni, con una incongrua calvizie in cima alla testa, ma capelli lunghi tenuti ordinatamente legati sulla schiena, finì di chiudere con il catenaccio la porta, poi li squadrò dall'alto in basso e scomparve dietro la tenda che chiudeva la porta. A un tavolo proprio in fondo alla stanza, vicino a quella porta, c'era Wayland. Aveva un boccale di fronte a lui e due altri che attendevano sul tavolo. Si sedettero di fronte a Wayland. Leif gli fece un cenno di saluto con la testa, poi guardò i due boccali. "Vi ho visti da Attila", disse Wayland. Poi si volse verso Megan. "Penso che ci siamo già incontrati, noi due." "Credo anch'io", disse Megan, tendendosi per toccargli le mani, il cenno di saluto tipico. "Festival estivo di Lidios, vero? Il mercato." "Giusto. Il mio solito banco. Due anni fa?" "Sì." "Sei stata a Lidios?" le chiese Leif, leggermente sorpreso. "Che cosa ci facevi là?" "Curiosavo nei quartieri poveri", disse Megan, sorridendo leggermente. "Volevo dare un'occhiata a quel posto. Ma una volta mi è bastata." "Comunque, sii la benvenuta", disse Wayland. Alzarono i boccali e bevvero la debole birra chiara di Errint, più simile a un succedaneo della birra che altro. "Sono venuto via adesso dalla piazza", disse Wayland. "Il posto è tutto agitato come un nido di calabroni." "E perché?" "Novità su quello che sta succedendo"? disse Wayland e ingollò un altro sorso di birra, come per liberarsi la bocca da un cattivo sapore. "Tutta questa storia del duca che arriva quasi dal nulla e cerca di convincere il povero Fettick a formulare un'alleanza con Argath." Wayland scosse la testa. "Molti degli altri paesi che stanno da questa parte, sei o sette dei piccoli, hanno ricevuto molte pressioni, all'improvviso, per stringere alleanze. Qualcuno sembra abbia una gran fretta." "Perché?" chiese Megan. "Di chi pensate che abbia paura?" "Non so se si tratti di paura", disse Wayland. "Più probabile che si tratti di rabbia."
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Si distese sul banco, appoggiando la schiena alla parete scheggiata, e studiò la sua bevanda. "Ero dalle parti di Arstan e Lidios, come ho detto, e mi sono fermato sulla strada per sbrigare un po' di lavoro alla posta..." "Posta?" chiese Megan, "Oh sì", rispose Wayland. "Il sistema Swift- Post ha un percorso orientale che va dai Lidi a Orxen e poi gira attorno alla penisola di Daimish. Il loro deposito di dispacci è a Gallev, circa... quanto sarà? Cento leghe a sud di qui. Qualche volta, tra un lavoro e l'altro, o se ho bisogno di un po' di denaro, mi fermo là e ferro i cavalli della posta. C'è sempre lavoro. Ci sono sempre cavalieri di posta che arrivano e ripartono, corrieri speciali e cose simili." Sorseggiò ancora la sua birra. "Questa volta, nero, sono arrivato là intorno a metà estate. In quel periodo dell'anno sfruttano le giornate più lunghe per aggiungere corrieri giornalieri alle corse normali e ci sono sempre anche più corrieri privati che vanno avanti e indietro per lo stesso motivo. Se ne vede arrivare uno ogni paio d'ore. Un giorno sono arrivati quattro corrieri diversi da Argath, tutti con le sue insegne, tutti di fretta e furia. Due non si sono neanche fermati, due si sono fermati per cambiare i cavalli e poi proseguire, ma non senza buttar lì una parola o due su quello che andavano a fare; sai com'è, deve essere un lavoro noioso portare la posta a cavallo e a questa gente piace far colpo sugli altri facendo credere di rivestire un ruolo di grande importanza. "Beh, due di questi corrieri, uno di quelli che non si sono fermati e uno di quelli che hanno fatto sosta, arrivavano da Argath in persona, dal Palazzo Nero, e andavano direttamente alla città di Gema a Toriva." "Che cosa, al re Sten?" chiese Leif. "No, no. Al suo generale, Lateran." Leif improvvisamente si interessò alla sua birra. Megan alzò le sopracciglia. "Non lo conosco." Wayland alzò le spalle. "Un altro giovane generale molto brillante in ascesa. Qualche vittoria brillante, negli ultimi due anni. Qualcuna anche contro Argath. Schermaglie piuttosto imbarazzanti e poi la gente ha incominciato a guardare Argath e a dire Torse sta per cadere'. Qualcuno pensa che siano dovuti a questo tutti i problemi con Elblai
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su a nord." Wayland scosse la testa. "Così all'improvviso ci sono tutti questi messaggi che vanno avanti e indietro. E quel messaggero che si è fermato ha detto che l'altro corriere, quello che non si era fermato, stava portando la Freccia Nera." Anche Megan concentrò la sua attenzione sulla birra. Leif fece del suo meglio per fingere disinvoltura. La Freccia Nera era una tradizione del Continente Settentrionale, una dichiarazione di lotta all'ultimo sangue. "Forse Argath si è stancato di essere sconfitto", disse Leif. "Non so se sia solo questo", disse Wayland. Bevve, riappoggiò al tavolo il suo boccale. "Ma questo... era quello che mi stavi chiedendo, in un certo senso. Vero?" Leif annuì. "Di Elblai hai detto... che è stata espulsa." "È quello che ho sentito dire", rispose Wayland. "Le notizie viaggiano veloci." Leif annuì. In un contesto medievale, le notizie potevano impiegare giorni o settimane per arrivare da un posto all'altro, ma quello era un ambiente medievale dotato di posta elettronica. C'era ancora bisogno di corrieri a cavallo, ma per portare oggetti fisici, non notizie. "Quella battaglia non avverrà adesso", continuò Wayland. "Ma all'improvviso... sembra che Argath stia rivolgendo la sua attenzione a sud, verso Toriva e verso Lateran, almeno a quanto si dice in giro." "Perché questo cambiamento? chiese Megan sottovoce. Leif guardò Wayland, il quale altrettanto sottovoce rispose: "Non sei mai stato il tipo da impiacciarti di queste faccende, Leif. Qual è il tuo interesse? Hai intenzione di schierarti con una delle due parti? Se vuoi la mia opinione, io cercherei di non farmi invischiare in questa faccenda." Leif rimase in silenzio un momento, poi guardò Megan di traverso. Molto lentamente, lei annuì. "Non è che voglia schierarmi pro o contro qualcuno", disse Leif. "Vogliamo scoprire chi è la causa di queste espulsioni." Wayland annuì. "Molte persone vorrebbero saperlo. Quest'ultima..." Scosse la testa. "Brutto affare. Non è questo il motivo per cui Rod ha creato il Gioco. Non che qualcuna di queste 'espulsioni' sia stata buona. Qualcuno perde un anno, due anni, magari cinque, a costruire un personaggio, a diventare qualcuno, poi tutto all'improvviso..." Fece
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un gesto con le dita, come chi lancia una briciola di pane via dal tavolo. "Andato. Così. Tutto il lavoro, tutte le amicizie. C'è qualcosa che non torna." Il tono di voce era basso, ma impetuoso. "Vero", disse Leif. "Ascolta." Raccontò brevemente a Wayland ciò di cui avevano parlato lui e Megan: la possibilità che Argath fosse semplicemente un paravento dietro cui si nascondevano le vendette di qualcun altro contro i giocatori che lo avevano battuto in battaglia. E citò i nomi dei generali e dei comandanti che avevano perso campagne contro tutti i giocatori da cui anche Argath era stato sopraffatto: Hunsal, Rutin, Orieta, Walse, Balk il Cavatappi... e Lateran. Wayland fece un sorriso storto. "Questo è proprio interessante. Molto. Mi domando, c'è qualcun altro che ci abbia pensato? Qualcun altro è andato a fondo in questo modo?" "Ci stiamo provando noi", disse Megan. "Prima che il Gioco venga rovinato per tutti. È ancora un gioco... non è stato pensato per finire al pronto soccorso." Wayland annuì. Dopo un momento sospirò e disse: "Vi aiuterò, se posso. Mi muovo da qui fra un giorno. Volevo andare ancora a est, ma potrei andare invece a sudovest. In questo periodo dell'anno, se uno ama il clima dell'estate ha tutto il diritto di cambiare idea..." "Se tu potessi farlo, ci sarebbe di aiuto. E se trovi qualcosa..." "Ti mando un messaggio di posta elettronica." "C'è ancora una cosa che dobbiamo fare prima di andarcene", disse Megan. Dobbiamo parlare a Lord Fettick... per cercare di avvertirlo che probabilmente è un bersaglio. Se almeno conoscessimo qualcuno qui che potesse garantire per noi. L'ultima volta che abbiamo tentato di avvertire qualcuno, non è stato un gran successo." Wayland sorrise. "Ma c'è qualcuno che conoscete. Ci sono io. Sono io che ferro i cavalli di Fettick. Ho appena finito di sistemarglieli questa mattina. Prima di andarmene, domani, se volete, vi posso portare dal maggiordomo alla Casa Alta e posso presentarvi. Non possiamo farlo stasera, temo... saranno lì ancora con il duca, a festeggiare. Questa faccenda con la sua giovane figlia..." Wayland scosse la testa. "Non la mariteranno veramente a lui, no?" disse Megan, con espressione incerta.
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"Lei? Oh, no, no, di sicuro. Fettick stravede per lei. La strozzerebbe pur di non farla andar via in un'età così giovane. O a qualsiasi età, dicono le voci... ma ci vorrà comunque qualche anno prima che la cosa diventi un problema. Anche se dicono che la piccola Senei faccia di testa propria. Nel frattempo Fettick deve parlare con tranquillità al duca per impedire che compia azioni avventate o repentine, almeno per il momento. Spera, penso, che le cose cambino abbastanza in fretta, in questa parte di Sarxos, in modo che il duca non sia più un problema per lui." "Se possiamo scoprire quello di cui abbiamo bisogno", disse Leif, "potrebbe andare proprio così." Wayland si stirò. "Va bene. Domattina, allora. Ci vediamo al mercato. Non sposterò il carro fuori città finché non sarò proprio pronto ad andarmene." "Splendido. Grazie, Wayland." Wayland alzò una mano in un saluto amichevole e si diresse alla porta. Il giovanotto emerse dalla sala posteriore e lo fece uscire nella via buia poi chiuse nuovamente la porta. Si fermarono per finire la loro birra, poi a loro volta uscirono sulla via e si incamminarono lentamente per tornare alla zona del mercato. "Peccato che non abbiamo potuto risolvere la faccenda questa sera", disse Megan. Leif alzò le spalle. "Non importa. Riuscirai a collegarti domani mattina presto? Dovremo occuparcene in quel momento." "Non dovrebbe essere un problema. Le mattine sono molto tranquille a casa mia. E la sera che..." All'improvviso si zittì. "Uh?", disse Leif. "Niente", disse a bassa voce. "Continua a camminare." "Non è vero che non è niente. Che cos'è?" "È la sera che è un problema", continuò Megan ad alta voce, scrutando in un vicolo mentre lo superavano. "Mio padre può essere un vero seccatore per quel che riguarda le serate in famiglia. È ancora lui" mormorò. "Oh, beh, sono padri" disse Leif continuando a camminare. Megan vide che anche lui cercava di scrutare nel vicolo che aveva appena
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esaminato lei. Ma sembrava ancora perplesso. Immagino che la mia visione notturna sia migliore della sua... "Sono dei seccatori, ma non possiamo vivere senza di loro e non puoi mica eliminarli... Lui, chi?" "Il Gobbo", mormorò lei. "Una volta può essere una coincidenza... due può essere un caso... ma tre volte è un'azione ostile." "Scusa?" "Ci sta seguendo." "Ne sei sicura?" "Deve essere così. E sai una cosa? Ci segue da Minsar." "Potrebbe essere pura paranoia, Megan." "No, non lo è." Si infilò all'improvviso in un altro vicolo e trascinò Leif dietro di sé. Per un attimo si fermarono appoggiati a una delle umide mura di pietra nel silenzio assoluto. Non proprio assoluto. Passi frettolosi, poi silenzio. Poi un'altra corsetta, più vicino. "Giù di lì", mormorò Leif. "Forse è lui. Non voglio aspettare. Non mi piace essere seguita... mi fa venir voglia di praticare il lancio del nano." "Che cosa?" "Lancio del nano. Uno sport molto antico e scorretto. Mia madre sarebbe scioccata solo a sentirmelo nominare." Megan fece un sogghigno, poi si guardò attorno. "Dove siamo?" "Fra la terza e la quarta cinta di mura." "No, voglio dire, da che parte è l'est?" Molto più avanti di loro, verso sinistra su un muro di pietra c'era una chiazza di luce lunare. Leif indicò a destra. "Oh, sì", disse Megan sottovoce e rimase a riflettere per un istante. Insaziabile lettrice di mappe, Megan quel giorno, prima di muoversi, aveva dato un'occhiata alla mappa di Errint memorizzata nel gioco. In quel momento confrontò il punto in cui si trovavano con quel che ricordava della mappa e rimase a pensare ancora per un secondo o due. "Va bene", mormorò poi. "C'è una porta nella cinta alla tua sinistra, una cinquantina di metri più avanti. Porta alla cerchia successiva. Adesso io vado avanti. Conta trenta secondi e poi seguimi. Cammina nel centro della strada. Non fermarti alla porta. Continua a camminare." "Che cosa hai intenzione di fare?"
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Lei sorrise. E scomparve. Leif rimase con lo sguardo fisso. Non poteva aver fatto ricorso alla magia, poiché l'uso della magia a breve distanza lascia un'aura tipica, una sensazione nell'aria, che avrebbe percepito. Ma in silenzio, molto semplicemente, fra un batter di ciglia e un respiro, Megan aveva smesso di essere lì dove pensava che dovesse essere. La cosa gli dava un po' sui nervi. Uno, due, tre, pensò, chiedendosi come sempre se i suoi secondi fossero precisi come pensava che fossero. Leif rimase in ascolto della città addormentata, con grande attenzione. Da qualche parte, in alto, un pipistrello emetteva il fine squii-squii-squii del sonar, forse per localizzare gli insetti attirati dalle luci ancora accese dietro le finestre delle torri della Casa Alta. Non si muoveva nient'altro. Passi frettolosi.. una corsetta. Quindici sedici, diciassette, diciotto, pensò Leif. Diciannove, venti.. Lontano, in aperta campagna, risuonò breve, lontano e stupefacente il canto di una voce dolce. Un usignolo intonò una melodia, degna di un compositore, e Leif si distrasse quasi perdendo il conto. Per un attimo i passetti frettolosi si fermarono. Poi ricominciarono. ... ventotto, ventinove, trenta... Leif si portò al centro della via e cominciò a camminare con calma verso la porta. Non era particolarmente calmo, però. Errint era una città in cui era permesso portare armi all'interno delle mura, perciò aveva un pugnale. Era abbastanza abile con quell'arma da risultare pericoloso e aveva avuto un addestramento generale all'autodifesa sufficiente per farlo sentire a suo agio in qualsiasi grande città del mondo reale. Ma quella non era una qualsiasi grande città del mondo reale. Quello era Sarxos e non si poteva mai sapere quando qualcuno poteva assalirti uscendo da un vicolo buio con un basilisco carico... contro il quale le arti marziali non avrebbero avuto alcuna possibilità. Leif continuò a camminare, resistendo alla tentazione di fischiettare. Avrebbe potuto farlo sentire meglio al buio, ma avrebbe anche reso più facile la sua localizzazione per chiunque avesse avuto una visione notturna non particolarmente buona. Camminò, con tutta la calma di cui era capace, e superò il quadrato
Tom Clancy & Steve Pieczenik 112 1999 - WarGame Mortale
di luce lunare sulla parete di sinistra, un raggio sottile che sbucava tra due alti edifici sul lato orientale. La porta di cui aveva parlato Megan era distante forse altri venti metri. Molto, molto tranquillamente, Leif abbassò la mano e cominciò a liberare il pugnale dalla fodera. Dietro di lui, molto silenziosamente, qualcosa cominciò a muoversi furtivamente. Non si fermò a guardarsi alle spalle, anche se ne era fortemente tentato. Continuò a cammina re. Sentiva dentro di sé la voce di sua madre. Nessun malvivente comune ti arriva di nascosto proprio alle spalle. Fanno sempre una corsa, negli ultimi metri. Se è un professionista che tifa la posta, non hai alcuna speranza. Probabilmente sei già morto. Ma se è solo un delinquentello, se senti almeno quegli ultimi passi, hai ancora almeno qualche metro fra te e lui o lei. Quando senti quei passi, però, sono a portata. Fai qualcosa rapidamente. Leif si limitò a continuare a camminare. Corsetta. Passetti affrettati, pausa... passetti affrettati, pausa... Continuò a camminare. Ecco la porta, un punto di leggera luce, ampio e ad arco, nell'oscurità della parete alla sua sinistra. Leif la oltrepassò con aria innocente, senza girare la testa per guardare oltre, solo prendendosela comoda: ma con la visione periferica riuscì a capire che lì non c'era nessuno. Corsettina. Rumori di passi. Scarpe morbide sulle pietre. Molto più vicine ora. Leif deglutì. Corsetta. Passi affrettati.. ... e qualcuno che si metteva a correre. Leif si girò di scatto, estraendo il coltello, piegandosi in avanti sulle punte dei piedi quanto bastava per prepararsi a saltare o a correre. Non ebbe il tempo di fare né una cosa né l'altra. Una forma scura saltò fuori dalla porta e si abbatté sulla piccola massa scura che stava correndo verso di lui. Leif non riuscì a capire bene quello che successe poi, tranne che le due forme scure sembravano essersi fuse in una cosa sola... poi una delle due si separò dall'altra e finì contro la parete di fronte alla porta, con forza incredibile. Ci fu un grido, subito interrotto
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quando la forma più piccola scivolò contro la parete e finì sull'acciottolato. Leif si avvicinò di corsa. Megan era lì in piedi, neanche particolarmente affannata. Dominava la forma più piccola, con le mani appoggiate ai fianchi, e guardava verso il basso con un'espressione che era difficile decifrare nel buio, ma sembrava pensierosa. "Pesa quasi quanto il mio terzo fratello", disse mite. "Interessante. Va bene, Gobbo, tira su quel sedere, non ti ho fatto così male." Il nano se ne stava per terra, lamentandosi e contorcendosi. "Non farmi male, non farlo più!" Megan si abbassò e sollevò il Gobbo prendendolo per il farsetto colorato e per un po' lo tenne contro la parete, con il braccio teso, quasi all'altezza degli occhi. Osservarono il suo volto. Era quello di un uomo di mezza età, molto contratto per il nanismo: un viso cattivo, che faceva pensare a un sacco di guai. "Sono una persona molto importante e posso farvi finire in un sacco di pasticci!", squittiva il nano. "Lasciatemi andare!" "Oh, sì", disse Leif, "stiamo tremando, tutti e due. Era questo il lancio del nano?" chiese a Megan. "Molto scorretto", disse lei, con un tono di voce distante. "Ma ci si può fare l'abitudine." Il volto del nano si contorse per la paura. "No!" "Perché ci seguivi?", gli chiese Leif. "E perché ci hai seguito sin da Minsar?" chiese Megan. "Rispondi in fretta, oppure ti lancio oltre questo muro, te lo assicuro, e vediamo quanto la gravità pensa che tu sia importante, quando scenderai dall'altra parte." "Che cosa vi fa pensare..." Megan lo sollevò un po' più in alto. "Il tuo braccio si sta stancando?" disse Leif. "Posso prenderlo io. Riesco a sollevare quasi ottanta chili di questi tempi." "No", disse Megan, "non ce n'è bisogno. Non ho intenzione di aspettare molto ancora. Gobbo, questa è la tua ultima possibilità. Ho visto una donna a cui hai fatto male oggi e la cosa mi ha maldisposto, così adesso non mi sento molto paziente con le persone che non rispondono alle domande ragionevoli." Cominciò a sollevarlo ulteriormente.
Tom Clancy & Steve Pieczenik 114 1999 - WarGame Mortale
Il nano la guardo, con una strana espressione. "Mettimi giù", disse lui, "e ti dirò tutto quello che vuoi sapere." Megan lo osservò per un istante, poi lo rimise a terra. "Va bene", disse. "Sentiamo un po'." Il nano cominciò a frugarsi nelle tasche. Megan lo teneva d'occhio come un falco. Leif si stava chiedendo che cosa potessero contenere quelle tasche. "Ecco", disse il nano e alzò un braccio, tendendo qualcosa a Megan. Lei abbassò la mano e prese l'oggetto, curiosa. Lo portò vicino agli occhi, girandolo e rigirandolo nella quasi oscurità. Sembrava una moneta, solo che i bordi erano perfettamente lisci, non zigrinati. E non era un oggetto metallico. Era un cerchio di qualche minerale scuro, in cui era stato inciso un disegno. Megan lo sollevò contro un altro quadrato di luce lunare che finiva su una parete vicina e lo guardò, ci guardò attraverso. Leif stava facendo la stessa cosa. Colse un guizzo di rosso scurissimo, anche nella luce argentata. L'oggetto era di rubino rosso scuro e, incisa in profondità, in un vecchio tipo di carattere onciale, c'era la lettera S. Megan guardò Leif con una strana espressione sul volto. "Intervento di gioco", disse. "In ascolto." "Identifica questo oggetto." "Oggetto identificato come Simbolo del Creatore", disse la voce del computer. "Il Sigillo di Sarxos, identificazione positiva nel gioco del progettista del gioco e detentore del copyright." Ambedue si girarono a guardare il nano a bocca aperta. "Sì", disse il Gobbo, con voce del tutto differente. "Sono Chris Rodrigues."
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Raggiunsero di nuovo lo Scrag End. Quando ci arrivarono era
chiuso e completamente vuoto, c'era solo un giovane che faceva da guardia alla porta. Si aprì lo spioncino. "Mostragli quello che ti ho dato", disse il nano. Megan sollevò il sigillo di rubino in modo che il portiere potesse vederlo. I suoi occhi, anche attraverso lo spioncino, si spalancarono. Lo spioncino si chiuse e la porta si aprì. Mentre entravano, il giovane aveva lo sguardo fisso su Megan, con estremo stupore. "Tu?" "No, no, lui" disse la ragazza indicando il nano. Solo che non era più un nano. Di colpo davanti a loro stava un uomo abbastanza alto, in jeans, T- shirt e scarpe da ginnastica dall'aria provata. Un uomo robusto, di mezza età, con capelli ricci scarmigliati e una barba riccioluta e occhi marroni, gli occhi più gentili che Megan avesse mai visto. "Senti", disse Rodrigues al giovane, "so che vorresti parlare con me, ma io ho bisogno di parlare con queste persone adesso, ed è davvero urgente. Posso tornare e incontrarti la prossima settimana, ti va bene?" "Oh, certo, certo, va benissimo", disse il giovane. "Basta che chiudiate bene la porta quando ve ne andate." "Nessun problema." Il portiere uscì e si chiuse la porta alle spalle. Chris rimase immobile un istante, poi sollevò il chiavistello, lo rimise a posto e tornò a sedersi al tavolo in fondo, dove era avvenuta la conversazione con Wayland. Leif si era seduto e guardava fisso Rodrigues, ancora frastornato. "Sei davvero tu, non è vero?" "Certo che sono io. Non c'è modo di falsificare questo." Chris diede un colpetto al sigillo sul tavolo. "Ho sempre pensato che prima o poi avrei dovuto far conoscere a qualcuno la mia presenza, perciò ho cercato un modo per cui i giocatori potessero sapere che ero proprio io, un modo che non potesse essere falsificato." Megan annuì. Perché stavi seguendoci?" chiese. "Perché avete qualcosa a che vedere con queste espulsioni, vero?"
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Megan e Leif guardarono R o d r i g u e s completamente attoniti. "No, non voglio dire che siate implicati!" disse Rodrigues. "Ma state intorno a qualcuna delle persone che può darsi siano state coinvolte... o no? È una di loro... Elblai..." "Sì. Eravamo con lei la notte scorsa." "Sì, l'ho visto dalla documentazione del gioco. E la descrizione che sua nipote mi ha dato di voi era molto accurata." Rodrigues si appoggiò allo schienale. "Perciò ho pensato di dover dare un'occhiata in prima persona, questo prima che succedesse a Elblai, ricordatevelo, e poi vi ho seguito qui. Ho fatto in modo che il sistema mi avvertisse nel momento in cui foste tornati nel gioco. "Devo dirtelo", disse Leif, "non lo stiamo facendo per divertimento. Facciamo parte degli Explorers... siamo con la Net Force." "La Net Force, sì", disse Rodriges e si piegò in avanti sul tavolo, passandosi le mani fra i capelli. "Sì. C'è stata un po' di gente loro qui oggi. Naturalmente ce li ha portati la storia di Elblai e sono contento che siano venuti. Ma non so che cosa possano fare. Non so proprio che cosa possa fare chiunque di noi." Sembrava scoraggiato. Intervenne allora Megan: "Chiunque abbia fatto questo... non è possibile che sia riuscito a farlo senza lasciare tracce. Deve aver lasciato dietro di sé qualche indizio... secondo noi. È solo questione di tempo, ma prima o poi noi, o gli adulti operativi della Net Force, riusciremo a..." Rodrigues alzò la testa. "Tempo", disse. "Ma quanto ne abbiamo prima che questa persona espella qualcun altro? E lo faccia in modo violento? Le prime espulsioni, quelle con i vandalismi e la distruzione delle apparecchiature, quelle erano già una cosa grave. Ma un tentato omicidio? Non sono queste le cose che volevo succedessero nel mio gioco." "Lo sappiamo", disse Leif. "Neanche noi lo pensavamo. Per questo siamo venuti e abbiamo cominciato a guardarci in giro per vedere che cosa potevamo scoprire." "Ho fatto lo stesso anch'io", disse Rodrigues. "Ma non mi aspettavo di essere lanciato contro una parete." "Mi dispiace", disse Megan, arrossendo. "Pensavo che fossi..." "Un piccolo nano intrigante", concluse Rodrigues, con un sogghigno. "Sì. È uno dei miei personaggi preferiti, il Gobbo."
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"È il personaggio che interpreti, allora?" disse Leif, "È solo uno di una ventina", rispose Rodrigues. "Alcuni sono molto tranquilli... altri più appariscenti. Mi danno la possibilità di andare in giro e interagire con la gente in modi diversi... e controllare che giochino in modo corretto." Sorrise un attimo. "Uno dei piaceri di giocare a fare il Creatore, o Rod." Il sorriso diventò più ironico. "Ma negli ultimi mesi l'ho fatto più con l'intenzione di scoprire qualcosa su queste espulsioni. Non è solo che non mi piaccia che la mia creazione venga usata in questo modo... anche questo, comunque. Ma Sarxos ha sempre avuto la fama di essere un luogo sicuro, un posto in cui il Gioco si svolgeva nella massima correttezza... non una di quelle avventure ambigue in cui il creatore ti cambia le regole del gioco senza avvertirti. È non è solo un gioco, ovviamente. È un'attività guidata dai clienti. Bisogna trattare i clienti nel modo giusto. Se si sparge la voce che cominciano a succedere fatti di tal genere, se si verifica un solo altro caso di attacco come quello che ha subito Elblai, il gioco subirà un danno irreparabile. Potrebbe persino finire. Lascio alla vostra immaginazione che tipo di problemi legali ne potrebbero derivare. I ragazzi dell'amministrazione della società proprietaria non sarebbero contenti di me, non lo sarebbero proprio per niente." Leif stava studiando il tavolo con un'espressione non compromettente sul viso. "Guardate", disse Rodrigues, solo un po' duramente. "Sono già milionario, i miei milioni sono ormai così tanti che non mi diverto nemmeno più a contarli la sera, quando non riesco ad addormentarmi. Ho un grande privilegio: posso fare quello che mi piace per vivere. Non c'è niente di meglio di questo. Ma ci sono cose molto più importanti del mio godimento e del denaro. Se non c'è altro modo di fermare questa vicenda, mi darò da fare perché il gioco venga chiuso. Molte persone deluse sono meglio di poche morte. E questa è la piega che stanno prendendo i recenti accadimenti, secondo me. Vorrei tanto sbagliarmi, ma in fondo sono un pessimista, altrimenti non sarei un progettista così bravo." Sospirò. "Comunque, ho detto a quelli della Net Force che avrei cooperato con loro in qualsiasi modo mi fosse possibile. L'azienda non mi permette di consegnare direttamente a loro la documentazione del gioco, tirano fuori la storia della privacy, ma posso leggerla io e passare
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loro informazioni particolari. Hanno chiesto la vostra documentazione, incidentalmente." Megan annuì. "Lo sappiamo. C'è un messaggio di posta elettronica che sta per partire adesso, sempre che non sia già partito, con la mia liberatoria." "Perfetto, va bene. Anche tu?" Si rivolse a Leif. "Sì." "Bene." "E che cosa mi dici della tua documentazione di gioco?" chiese Leif all'improvviso. Rodrigues lo guardò. Megan per un attimo avrebbe voluto che la Terra si aprisse e la inghiottisse. "In che senso?" "Quelli della Net Force potrebbero farti capire", disse Leif con voce assai calma e quasi gentile, "che esiste l'eventualità che tu sia coinvolto in queste espulsioni." "E perché mai avrei dovuto fare una cosa simile?" disse Rodrigues, guardando in modo strano Leif. "Non ne ho idea", disse Leif, "e neppure credo che tu l'abbia fatto. Ma..." alzò le spalle. "Beh", disse Rodrigues, "se è per quello, i server del gioco tengono traccia di quello che faccio esattamente come fanno per chiunque altro. Non si può mai dire, potrei impazzire e cercare di sabotare il codice." Assunse di nuovo q u e i r espressione ironica che sembrava spuntargli sul volto ogni paio di minuti. "I giornali di bordo del server confermeranno quando ero qui... il che significa, francamente, la maggior parte delle ore in cui sono sveglio. Se non faccio lavoro di manutenzione per i bug che, contrariamente a quanto si crede comunemente, continuano a saltar fuori, sono anch'io dentro il gioco e passo buona parte del tempo correndo su e giù per scoprire chi è malvagio e chi è cortese. Fortunatamente non c'è modo di falsificare queste informazioni." Megan guardò Leif e i loro sguardi si incrociarono. Ambedue si chiedevano quanto quell'affermazione corrispondesse a verità. Poi ritornarono al loro compito. "Sai", disse Megan, "parlavamo di un modo più strutturato per condurre la nostra ricerca." Gli spiegò il complesso filo logico che avevano seguito. "Ma c'è un'altra possibilità", disse. "I giornali."
Tom Clancy & Steve Pieczenik 119 1999 - WarGame Mortale
Leif la guardò. "I giornali del server", disse Megan. "Tengono traccia di tutti quelli che giocano, di chiunque sia nel gioco. Ma, per eliminazione, indicano anche quando i giocatori non sono nel gioco. E le espulsioni, gli attacchi fisici alle apparecchiature e, nel caso di Elblai, alle persone si sono verificati quando il giocatore che commetteva quell'azione non era nel gioco. Se si potesse eseguire una ricerca sui computer..." Rodrigues la guardò con aria un po' triste. "Lo sai quante centinaia di migliaia, a volte quanti milioni di persone possono essere fuori del gioco in ogni istante? Bisogna trovare qualche altro criterio di esclusione, in modo da poter ridurre le dimensioni di quel campione." "Abbiamo altri gruppi di criteri,,, disse Leif. "In effetti, abbiamo un elenco di sei nomi che vorrei tanto confrontare con i giornali del server." "Quali sei nomi?" "Orieta, Hunsal, Balk il Cavatappi..." Rodrigues scosse la testa. "Dove vanno a trovare certi nomi..." "...Rutin, Walse e Lateran." "Uh", disse Rodriguez. "Tutti generali e condottieri, eh? Come mai vi interessano questi particolari personaggi?" Leif glielo disse. "Beh", disse Rodrigues, "questi sei dovremmo proprio essere in grado di controllarli." "Avete tutti gli orari degli attacchi effettivi?" disse Megan. "Oh, sì, credimi." Rodrigues intrecciò le dita e appoggiò il mento sulle mani. "Intervento di gioco. "In ascolto." "Qui è il capo." "Verificato." "Accedi ai tempi del mondo reale degli attacchi ai giocatori espulsi." "Accesso effettuato. In memoria." "Accedi ai record del server per l'uso del gioco relativo ai giocatori seguenti: Hunsal, Rutin, Orieta, Walse, Balk il Cavatappi e Lateran." "Accesso effettuato. In memoria." "Confronta." "Confronto in corso. Criteri?"
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"Identifica quali giocatori non erano nel gioco nei momenti degli attacchi." Leif e Megan erano immobili. "Walse, fuori gioco ad attacco uno, attacco tre. Orieta fuori gioco ad attacco cinque. Balk il Cavatappi, fuori gioco ad attacco sette. Tutti gli altri giocatori erano in gioco in tutti i momenti degli attacchi." Megan e Leif si guardarono a vicenda. Leif fece una smorfia. "Non ha funzionato. Speravo in qualcosa di un po' più decisivo. Tutti gli altri stavano giocando." "Così dice il computer." "Ci sono possibilità di errore?" disse Leif. "O che il programma o i giornali siano stati manomessi?" Rodrigues rise sottovoce. "Bel tentativo", disse, "ma non hai idea di come sia controllato strettamente il nostro sistema e di come venga gestito con estremo rigore l'accesso. È il computer stesso che scrive il codice. Non ci sono più programmatori umani che lo gestiscono. La macchina contiene una quantità sufficiente di euristiche per trattare tutto e, inoltre, ci sono non so più quanti miliardi di righe di codice da manipolare. Non esiste un numero abbastanza grande di umani, di scimmie o di altri primati incatenati alle tastiere che potrebbe lavorare abbastanza in fretta da soddisfare tutte le esigenze del sistema. Mi limito a dire alla macchina di che cosa c'è bisogno e l'operazione viene eseguita. Nessun altro ha accesso al codice, o ai giornali del server, tranne un paio di persone nell'azienda proprietaria. E non è affatto possibile che siano coinvolte in questa faccenda... gestiscono i giornali solo per l'archiviazione. Tutto comunque è cifrato, come succede per le chiavi private di gioco e così via." "Allora non c'è modo per manipolare queste cose." "No. Credetemi", disse Rodrigues, "c'è un sacco di interesse da parte di altre agenzie che hanno usato Sarxos, il suo codice e la sua struttura di base, come letto di prova per altri tipi di simulazioni, che non sono pubbliche. Tutta la nostra attività è controllata alla perfezione proprio a causa di queste affiliazioni." "Ma le persone che non erano in gioco durante gli attacchi", disse Megan, "non c'è modo di stabilire dove fossero, allora..."
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"Beh, no, almeno in una certa misura è possibile", disse Rodrigues, "perché possiamo verificare nei giornali quando sono rientrate di nuovo. Intervento di gioco." "In ascolto." "Esamina i giornali estratti. Nota se qualcuno di questi giocatori è stato assente dal gioco per più di... un'ora." "Walse. Assente per quattro ore tredici minuti." "Poi è tornato nuovamente al gioco." "Sì." "C'è solo un problema", disse Rodrigues, con uno sguardo leggermente sfuocato, che fece pensare a Megan che fosse in grado di vedere nell'aria qualche tipo di visualizzazione a loro preclusa. "Il primo attacco è stato ad Austin, in Texas, e Walse vive a Ulan Bator. Anche un trasporto quasi-spaziale non può portarti dalla Mongolia Esterna al Texas in quattro ore. Tanto per cominciare, non ci sono voli diretti. Pensate quante volte bisognerebbe cambiare." Scosse la testa. "No, non funziona." Si riaccomodò sulla sedia, incrociando le braccia. "È possibile", disse, "che la linea di ragionamento che state seguendo non sia quella giusta." "È tutto quello che abbiamo", disse Megan. "Ascoltate, non sto tentando di deprimervi", disse Rodrigues. "Io stesso non sono riuscito a trovare niente di meglio. Ho tentato di elaborare i dati in tutti i modi possibili e non sono approdato da nessuna parte. Spero proprio che i vostri della Net Force possano fare qualcosa per me adesso, perché sono ormai senza risorse. Vi dirò, però, che quando riusciremo a mettere le mani su colui che sta facendo questo..." "Quando", disse Megan, facendo un piccolo sorriso. Le piaceva il suono della certezza... ma al contempo la rattristava. Continuava a pensare a Elblai. "Hai saputo niente di Elblai, o meglio di Ellen?" gli chiese. "È uscita dalla sala operatoria", disse Rodrigues, "ma non ha ancora ripreso conoscenza. È sempre nei miei pensieri." Sospirò. "Ascoltate comunque. Debbo ringraziarvi per aver tentato di aiutare, per aver cercato di fare qualcosa. Posso contraccambiare in qualche modo il vostro interessamento?" Megan scosse la testa. "Non mi viene in mente niente, al momento."
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Leif disse all'improvviso: "Potrebbe farci comodo un po' di transito. Io ne ho consumato buona parte di quello accumulato, in queste ricerche." Rodrigues ridacchiò. "Continuerete a lavorare su questo problema?" Annuirono. "Uh, considerate i vostri conti aperti finché questa faccenda non sarà risolta. Intervento di gioco." "In ascolto." "Qui è il capo. Fai in modo che i personaggi Brown Meg e Leif mago-delle-siepi abbiano conti aperti da questo momento fino a una nuova ordinanza da parte mia." "Fatto." "Se non altro, un problema in meno di cui dobbiate preoccuparvi." Sospirò, guardò le mani congiunte sul tavolo, poi alzò di nuovo la testa. "Amo questo luogo", disse. "Avreste dovuto vederlo quando è iniziato. Piccolo, pieno di buchi, appena abbozzato, un universo solo video. Si poteva mettere tutto in un PC." Rise. "Poi ha cominciato a sfuggirmi di mano. Fanno questo, immagino, i mondi: sfuggono dal controllo dei propri creatori. Adesso ci sono qualcosa come quattro milioni di utenti... un vero popolo. Persone che sembrano proprio pensare che si tratti di qualcosa di speciale." Ancora una risatina sottovoce. "Ho ricevuto un messaggio di posta elettronica da qualcuno, qualche mese fa, in cui mi diceva che avremmo dovuto fare una petizione al governo perché ci lasciasse trasformare Marte e impostare Sarxos là. Ricevo un sacco di posta da gente che vorrebbe trasferirsi. Voglio dire, questo..." Picchiò leggermente sul tavolo. "Questo è assai vicino alla realtà, molto valido. Qui si può mangiare, si può bere, si può dormire, si può combattere... si può fare ogni genere di cosa. Ma non si può restare. C'è qualcuno che ha cominciato a dire che vorrebbe stare qui... vivere qui." Scosse la testa. "L'unica cosa che non sono stato capace di prevedere... è che le persone potessero cominciare a fare qualcosa l'uno all'altro nel mondo reale sulla base di quello che accadeva qui. Non è mai stato un posto pacifico. Non è stato costruito per essere un luogo pacifico. È un gioco di guerra, un war game! Anche se la maggior parte dei personaggi vorrebbe la pace... e questo mi sorprende sempre di più, che la gente volesse vivere qui, non semplicemente andare
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alla guerra in tutto il paese e combattersi a vicenda. Ma ora... è come se il serpente fosse sceso nell'Eden. Non mi piace questo serpente. Vorrei schiacciargli la testa." "Anche noi", disse Megan. "Lo so. È per questo che stiamo facendo questa conversazione." "Abbiamo intenzione", disse Leif, "di andare avanti... fino a che non troviamo il serpente. E di schiacciarlo." "Fatelo", disse Rodrigues. "Questo abuso, se mette le radici e non viene estirpato immediatamente... è destinato a distruggere questo mondo. Non voglio che succeda." Guardò attorno a sé le pareti scheggiate, la copertura di paglia del tetto e i ciottoli sul pavimento e quello che c'era stato rovesciato sopra. "Non voglio che tutto questo svanisca. Questo e le catene di montagne dove fanno il nido i basilischi, gli oceani con i mostri marini e il chiaro di luna... le stelle... le persone che vengono nel mio mondo per giocare... Non voglio vedere tutto questo collassato e archiviato per sempre. Voglio che mi sopravviva. Sarebbe proprio una bella forma di immortalità, un mondo che continua a funzionare quando il suo creatore se n'è andato, o è semplicemente nascosto..." Sorrise debolmente. "Un po' come quello che dobbiamo fare ora, là fuori nel mondo fisico." Rodrigues li guardò, intensamente. "Fate quello che potete... ma state attenti. Se lo fate, non posso assumermene la responsabilità... avete firmato la liberatoria quando siete entrati." "Siamo assai abili quanto a responsabilità", disse Megan. "Ce la faremo." "Va bene. Ecco, prendete questo." Infilò la mano in tasca e ne uscì con un altro sigillo con la S sopra: non di rubino, ma d'oro, o comunque di qualcosa somigliante all'oro. "Continuerete a lavorare insieme, perciò tenete questo. Se avete bisogno di qualcosa dal sistema come informazioni su altri giocatori, o capacità aggiuntive, sei un mago, sai che cosa intendo, chiedete al sistema. Nell'ambito del lecito, soddisferà ogni vostra richiesta. Questo vi permetterà anche di instaurare un canale di comunicazione con me o con il mio conto. Potete lasciarmi un messaggio di posta elettronica, oppure parlarmi, se sono nel gioco." "Ehi, grazie. Questo è veramente..." "Non ringraziate me. Sono io che vi sono grato per quello che state facendo. C'è qualcun altro oltre a voi che sta facendo ricerche
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con molta discrezione. Immagino che quanti più siamo a cercare, tanto meglio è. Ma nel frattempo, state in guardia." "Lo faremo", disse Leif. Rodrigues si alzò. "Va bene... si sta facendo tardi. Debbo andare. Grazie ancora." Lo salutarono con un cenno del capo. Rodrigues fece un cenno che sembrava una piccola onda rivolto verso di loro... poi con un botto per lo spostamento d'aria, svanì. Leif e Megan si guardarono a vicenda. "Non Lateran", disse Leif. "Merde? "Dobbiamo tornare al tavolo da disegno..." disse Megan. Si alzarono e uscirono dallo Scrag End, chiudendosi con cura la porta alle spalle. Wayland li aspettava al mercato, il mattino dopo, avendo già impacchettato tutto, pronto a partire. Aveva quello che Leif ricordava come il suo "cappello da viaggio", un grande cappello floscio con una piuma malconcia che gli dava un aspetto a metà strada fra un moschettiere in disarmo e una divinità normanna disoccupata. "Non sono ancora andato alla Casa Alta oggi", disse, conducendoli su per la cerchia successiva della città, "ma non dovremmo incontrare difficoltà a trovare il vecchio maggiordomo Tald. Vi porterà subito a vedere il Signore. Fettick comunque non è pretenzioso come molti altri. Niente grandi cerimonie da queste partì. La gente non lo sopporterebbe." "Pensavo invece che amassero le cerimonie da queste parti", disse Leif. "Dopo tutto c'è la Festa dell'Inverno, in cui bruciano l'uomo di paglia, e la Follia di Primavera, in cui tutti si sbronzano per tre giorni." "Probabilmente il vecchio Tald non se ne cura", disse Wayland, mentre attraversava la porta di comunicazione con la cerchia successiva e salutava con la mano alcuni conoscenti. "Ma è a posto, non vi creerà problemi." Megan osservò Wayland, un po' perplessa per l'improvvisa oscurità della risposta. Ma Wayland stava superando un'altra porta, davanti a loro con Leif subito dietro. Alzò le spalle e li seguì. La cinta interna di mura di Errint era il vecchio castello stesso, costruito con massi del ghiacciaio tagliati perfettamente in blocchi come se fossero stati formaggio. "Come abbiano fatto gli Antichi, ancora non
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lo sappiamo", disse Wayland, guardando in su le mura. "Non è un tipo di magia che si possa fare più di questi tempi." "Magari avevano dei laser", disse Megan, osservando la precisione dei tagli e quanto fossero lisce le superfici, senza essere state levigate. All'interno, pensò con ammirazione alla creatività di un uomo che riusciva a trovare il tempo per lasciare dettagli come quelli in tutto il suo mondo: non solo opere complesse o fuori dalla norma, ma misteri e rompicapo da elaborare a parecchi livelli diversi; il luogo stesso poteva essere argomento di ore di passatempo divertente, quando si tentava di capire se Rod avesse semplicemente buttato lì a caso qualche particolare, o se avesse voluto che la gente ci si spremesse le meningi per scovare qualche significato nascosto. E c'era sempre la possibilità che fosse uno scherzo, che non ci fosse alcun senso: una burla che Megan sospettava un Creatore fosse disposto a fare. "È piuttosto bello, questo è certo", disse Wayland e li condusse verso le porte del castello, che erano aperte. Nel cortile antistante, c'erano alcune donne che stendevano i panni al sole e un uomo grande e florido, vestito di blu scuro, che girava impartendo ordini a tutti, agitando le mani, fornendo indicazioni. Quando i tre entrarono, si rivolse immediatamente a Wayland. "Non ci sono posti vacanti, buon fabbro, non ci sono altre opportunità di impiego qui!" "Mastro Tald", disse Wayland, "non cominciare a urlare. Queste persone sono qui per affari" "Che tipo di affari?" "Meglio chiederlo direttamente a loro", disse Wayland. Leif si inchinò educatamente al maggiordomo e disse: "Signore, se possibile avremmo bisogno di vedere Lord Fettick, per una faccenda di una certa urgenza". "Non so, giovanotto, oggi è davvero molto impegnato." "Pensi che abbiano fatto ricorso a qualche incantesimo per queste pietre?" chiese improvvisamente Megan a Wayland, indicando la parete più vicina. Wayland si girò seguendo il gesto e, nel contempo, Leif si tolse il sigillo dalla tasca e lo mostrò per un attimo a Tald. Gli occhi di Tald si spalancarono. "Beh", disse, "è ancora presto e penso che i primi con cui ha appuntamento si presenteranno solo fra un po" Seguitemi". "Difficile dirlo", stava dicendo Wayland mentre Leif rimetteva in tasca il sigillo, "a questo punto...
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"Penso anch'io", disse Megan. "Senti, Wayland, può darsi che ci voglia un po' di tempo." "Sarò giù al mercato, allora", disse lui, "o magari no". Li salutò con un gesto della mano e uscì dal castello. Leif lanciò a Megan uno sguardo dubbioso mentre seguivano il maggiordomo attraverso la porta del castello vero e proprio e su per una scala circolare che cominciava a salire attorno alle pareti della torre centrale, circolare. Megan scosse la testa e alzò le spalle. Il secondo piano era costituito da un'unica grande sala ariosa, simile al salone di Minsar, eccetto che per gli arazzi che sembrava fossero stati tolti per l'estate. Dato che in quella stagione il clima era abbastanza caldo e piacevole, non occorreva ripararsi dalle ingiurie del freddo. Il maggiordomo li guidò al centro della stanza, dove si trovavano un tavolo e una sedia su cui era seduto un uomo. "Lord Fettick", disse Tald, "questi due viaggiatori sono arrivati per affari urgenti, portando il sigillo di Rod". L'uomo sulla sedia alzò il capo, un po' sorpreso, poi si alzò per salutarli: cortesia di un tempo, a cui Leif e Megan risposero entrambi inchinandosi. "Davvero? Allora porta un paio di sedie, per favore e falli accomodare. Poi vai pure." Tald corse via, portò un paio di sedie di legno, che collocò all'altra estremità del tavolo, poi se ne andò. L'uomo indicò loro di accomodarsi. Leif e Megan si sedettero. Megan pensò che non aveva mai incontrato di persona qualcuno che indossasse occhiali con le lenti rosa, dato fra l'altro che conosceva pochissime persone che continuassero a portare gli occhiali, dopo gli sviluppi della chirurgia laser. Ma ecco che Fettick li aveva: un uomo alto, magro, dall'aspetto un po' divertito in un impermeabile di gabardine, che era il massimo dello stile per il quattordicesimo secolo, ma agli occhi di Megan risultava piuttosto un incrocio fra l'abito di un monaco e un accappatoio. Probabilmente è molto comodo, però, pensò. Se quella era la stanza del trono della Casa Alta, non era particolarmente adorna. Il trono in effetti era piuttosto una poltrona comoda, bene imbottita, accostata a quello che probabilmente era un tavolo per le cene di gala, ma che ora era adoperato come scrivania. La bella superficie lucida di ebano era quasi completamente coperta da carte e pergamene di ogni genere, rotoli e libri cuciti, piume, penne,
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stili e tavolette. Sembrava il risultato di un'esplosione in una biblioteca antica. "Signore", disse Leif, "grazie per avere acconsentito a riceverci". "Beh, siete i benvenuti... ma per poco. Spero che capiate che questa mattina sono molto impegnato e non ho molto tempo." Accennò vagamente alla scrivania. "Capiamo perfettamente", disse Leif. "Signore, riconosce questo sigillo?" Mostrò la moneta d'oro che Rodrigues aveva dato loro. Fettick gli rivolse uno sguardo vagamente scettico. "Intervento di gioco", disse sottovoce, poi mormorò qualcosa al computer. Quello gli rispose a sua volta con un mormorio impercettibile. Le sopracciglia si alzarono. Mormorò ancora. Poi aggiunse: "Davvero l'onnipotente Rod è stato qui!" "Sì, signore. L'abbiamo visto la notte scorsa. Le manda i suoi omaggi", disse Leif. Non era proprio vero, ma era una cosa che probabilmente Rod avrebbe detto. "Che cosa voleva?" "Voleva parlare con noi di una faccenda che ci sta a cuore... e per la quale siamo venuti a trovarla", disse Leif. "Signore", disse Megan, "le vostre forze sono entrate in conflitto con quelle del re Argath di Orxen non molto tempo fa." "Sì." Fettick si sedette e sul suo volto si disegnò un sorrisetto con un'aria vagamente ferina. Tutto d'un colpo non sembrava più troppo mite. "Sì, e abbiamo vinto, no?" "Sì, avete vinto. Il problema ora è, signore, che tutti quelli che hanno combattuto contro Argath e hanno vinto sembra corrano il rischio di essere... mi scusi, debbo usare una parola indecorosa... 'espulsi'." Gli occhi di Fettick si spalancarono per un momento. "È indecorosa", disse. Poi guardò nuovamente la tasca in cui Leif aveva rimesso il sigillo. "Comunque, avete quello... perciò immagino che possiamo parlare di cose come l'Esterno. Volete dire che la signora che è stata espulsa l'altro giorno era..." "Stava per avere uno scontro con Argath e con ogni probabilità avrebbe vinto. È stata espulsa proprio poco tempo prima dell'ora in cui avrebbe dovuto iniziare il combattimento. È successo anche ad altri,
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di solito dopo la battaglia. Ma ora sembra che cose di questo tipo comincino ad accadere prima che avvenga lo scontro." "E il responsabile è Argath, o è uno dei suoi oppure..." "Non lo sa nessuno. Tutto quello che abbiamo notato è il collegamento. Perciò stiamo avvertendo le persone che hanno combattuto recentemente con Argath e hanno avuto la meglio, perché badino alla loro sicurezza. Qui e altrove." "E che tipo di precauzioni dovrei prendere?" chiese Fettick. Leif e Megan si guardarono a vicenda. "Uh", disse Megan. "Fate più attenzione del solito quando uscite e rientrate", disse Leif. Era una cosa che conosceva abbastanza bene, viste le relazioni diplomatiche del padre. "Se seguite dei percorsi abituali quando viaggiate o nel lavoro esterno, variateli. Se avete programmato dei viaggi che non sono veramente necessari, annullateli. Controllate nel luogo in cui vivete che non ci siano oggetti che non siano stati messi da voi o che non riconoscete." "Rintanarsi in casa?", disse Fettick. "Oscurare le finestre? Chiudere a chiave la porta?" Leif lo guardò e pensò che forse era più saggio stare in silenzio per un attimo. Fettick si sedette nuovamente, allacciando le dita sul suo abito. "Giovane signore", disse. "Lei sa che cosa faccio io per vivere... 'là fuori'?" Leif scosse la testa. Non aveva scavato così a fondo nel retroterra di Fettick. "Raccolgo spazzatura", disse Lord Fettick, "a Duluth, Minnesota. E il tipo di lavoro che svolgo comporta che ripeta la mia routine senza sgarrare assolutamente, due volte alla settimana, su ciascuno dei tre percorsi. 'Variare' un percorso di raccolta della spazzatura verrebbe notato dai miei superiori con grande disappunto". Sospirò. "E sì, so come quella signora sia stata espulsa l'altra sera. È una tragedia. Sapete qualcosa sulle sue condizioni?" "È ancora in ospedale", disse Leif, "e al momento non ha ripreso conoscenza." "Sì. Beh", disse Fettick. "Stava andando al lavoro, penso, quando qualcuno le si è affiancato e ha buttato fuori strada la sua auto. Io lavoro tutto il giorno in mezzo a un traffico da medio a pesante, tutti i
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santi giorni e se qualcuno volesse uccidermi o ferirmi, credetemi, non avrebbe alcun problema. La mia unica preoccupazione è che possano mancarmi e uccidere uno dei miei compagni di lavoro. E, da quello che mi avete raccontato, sembra che non ci sia un granché che si possa fare per risolvere il problema alla radice in questo momento. Quelli fra noi che sono entrati nel mirino hanno già commesso l'offesa che li ha fatti diventare dei bersagli, e non c'è nulla che possiamo fare per fare ammenda." "Probabilmente no", disse Leif. "Stando così le cose", disse Lord Fettick, "posso passare i miei giorni da ora fino a quando quella persona verrà a cercarmi in una nebbia di paura, nel tentativo di proteggermi contro un assalto di cui non so nulla, chissà da quale direzione, oppure continuare a vivere la mia vita e rifiutare di farmi terrorizzare. Di solito è questo il modo di affrontare i terroristi, no?" "Questa è una posizione, eticamente, superiore", disse sottovoce Megan, "ma nella pratica qualche volta è poco efficace contro i terroristi, che hanno la tendenza ad andare dritto per la propria strada, cercando di spazzare via ogni ostacolo e a qualunque prezzo." "Beh, che vengano", disse Fettick. "Io ho intenzione di star saldo e continuare a fare il mio lavoro. Là, e qui." L'uomo alto e magro si alzò e girò intorno al tavolo per avvicinarsi a loro. "Ti dirò una cosa", disse. "Sono sfinito. Da due notti di tempo di gioco, che mi costano abbastanza visto il mio salario, il duca, miserabile lacchè di Argath, sta qui e si prende gioco di me con il suo pestilenziale nanetto, guarda avidamente mia figlia, divora tutto quello che ho in casa, beve tutto il mio vino migliore, cerca di farmi credere che un matrimonio dinastico con lui sarebbe una buona idea. Brutto vecchiaccio. E se n'è stato qui, queste due notti, facendo del suo meglio per ricattarmi. O peggio, per intimorirmi. Cerca di coinvolgermi in un'alleanza a cui non ho alcun interesse, un'alleanza per cui sarei condannato da un capo all'altro del nordest, un'alleanza con un uomo che ha attaccato me e il mio paese, neanche otto mesi fa! Il tipo più scadente e più sgradevole di racket di protezione. E debbo starmene qui e dire stupidaggini per amor di politica. Non crediate che non sappia almeno questo dell'arte della diplomazia. Ne ho fin qui di pressioni! Non ho bisogno di una vita come questa. Non ne vale la pena."
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Si sedette e sospirò, volgendo lo sguardo verso il pavimento. "Prenderò delle precauzioni ragionevoli", disse, "ma niente di più. Chiunque stia dietro a questa faccenda, mi rifiuto di lasciargli controllare la mia vita. Ma vi ringrazio per esservi dati la pena di avvertirmi. Immagino che ci saranno altre fermate nel vostro itinerario." "Sì", disse Megan. "La duchessa Morn..." Fettick scoppiò in una risata. "Avete intenzione di portare a lei lo stesso messaggio che avete portato a me?" "Sostanzialmente sì", disse Megan. "Avete un'armatura?" Megan e Leif si guardarono a vicenda. "Dovremmo averne bisogno?" Se andrete a dirle che deve variare la sua routine quotidiana, avrete bisogno di una testuggine, almeno", disse Fettick. "Beh, vi auguro buona fortuna. So che siete ispirati dalle migliori intenzioni... e se, come penso, siete in qualche modo coinvolti nel tentativo di scoprire chi si è messo a espellere persone, vi auguro tutta la fortuna che vi serve. Ora debbo continuare con le faccende di qui. Ma siete sicuri di non volervi fermare per colazione?" "Uh, no, signore", disse Leif. "Grazie, comunque. Dobbiamo andare direttamente dalla duchessa Morn." "Sicuri di non volerci ripensare a proposito dell'armatura?" Leif fece un sorriso forzato. "Penso che ce la faremo." Si inchinarono a Fettick e uscirono. Si guardarono attorno nella piazza del mercato, prima di effettuare il transito, ma scoprirono che Wayland se n'era già andato. Nessuno sapeva esattamente quando. "Oh, beh", disse Leif, "ci farà avere sue notizie. Pronta per il transito?" "Sì. Cerchio sempre delle stesse dimensioni?" "Stesso locus." "Pronta. Tappati le orecchie, avremo un bel cambiamento di altitudine." Il mondo diventò nero e bianco e pieno di fosfene. Megan deglutì per stappare le orecchie, poi deglutì di nuovo. Alla fine le orecchie si aprirono e abbassò lo sguardo su un paesaggio che era diverso da quello di Errint come il giorno dalla notte. Fin dove arrivava il suo
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sguardo c'era solo pianura, un basso delta paludoso con un'ansa semicircolare, in cui innumerevoli pozze e rigagnoli d'acqua brillavano e scintillavano nel sole del mattino. Ovunque c'erano canne, merli dalle ali rosse e rigogoli appollaiati sulle canne, che ondeggiavano e cantavano al vento che soffiava. Al centro di tutto c'era una grande piattaforma costruita su enormi piloni sprofondati nell'acqua e sulla piattaforma c'era una grande casa di legno, dotata di spalti e torrette come un castello. Per raggiungerla occorreva percorrere un corridoio in legno che attraversava il paesaggio umido, per finire davanti a un ponte levatoio e a una strada lastricata a tornanti stretti che portava alla piattaforma. Megan e Leif cominciarono ad attraversare il sentiero di legno che portava al castello della duchessa. Megan schiacciò una zanzara e disse: "Hai notato Wayland, questa mattina?" "Uh? No, non particolarmente." "Forse sono io che me lo sono sognato", disse Megan, "ma c'era qualcosa, non so, sembrava un po' 'fuori fase' questa mattina. Sembrava che fosse distratto, per qualche motivo." "A me sembrava che fossi tu a distrarlo. Come mai?" "Ho pensato che non era giusto far sapere a tutti del sigillo", disse Megan. "Rischiamo di farcelo rubare. A proposito, fammelo tenere per un po'. "Certo." Leif glielo passò. "Inoltre..." Megan divagò. "Hai notato il modo in cui rispondeva alle domande?" "No. Perché?" Megan alzò le spalle. "Niente, solo che continuava a propinarmi quelle risposte molto generali o... non lo so... non proprio adeguate a ciò di cui si stava parlando..." "Può darsi che abbia problemi di udito", disse Leif. "Oh, via." "No, seriamente. Se ha problemi di udito dovuti a nervi danneggiati, neanche la virtualità può fare molto in proposito, immagino. Può darsi che non ci sentisse bene. Ho visto succedere cose di quel genere con gli apparecchi acustici." "Uh." Megan ci ragionò sopra un po'. "E normalmente non è una cosa che si chiede."
Tom Clancy & Steve Pieczenik 132 1999 - WarGame Mortale
"Sei sicura di non esserti immaginata tutto?" Megan gli diede un'occhiata storta, poi si strofinò gli occhi. Si sentiva un po' provata, forse per tutti quei transiti. "Oh, non so... può darsi. O magari era solo stanco. Dio sa se lo sono io in questo momento. Tutto è possibile." Sospirò. Ma poco dopo, mentre camminavano, Megan ripensò a quello che aveva detto e alle risposte che aveva avuto e infine decise, No. No, era decisamente reale. Lui era proprio un po' fuori, in qualche senso. Non era concentrato... Immagino che chiunque possa essere distratto, anche quando sta giocando. Anche se, visto quello che si paga per giocare qui, uno penserebbe che eliminino i motivi di distrazione dai loro sistemi per non sprecare denaro. Pensò ancora per qualche istante, poi disse sottovoce mentre camminavano: "Intervento di gioco." "In ascolto." "Rilevi il sigillo del tuo capo qui?" "Sigillo di riconoscimento rilevato. Come posso aiutarti?" "Il giocatore che si chiama Wayland. È reale o generato?" "Vuoi sapere se il giocatore è un umano?" "Sì." "Sì, il giocatore è umano." "Uh. Fine", disse Megan e rimise in tasca il sigillo. Odio quando il computer mi dice cose che non varrei sentire. "Vedo che le guardie sulle mura ci hanno notati", disse Leif. "Guarda tutti quegli archi." "Forse è per questo che avevamo bisogno dell'armatura", disse Megan mentre arrivavano all'estremità del ponte levatoio, sotto l'ombra del corpo di guardia. "Troppo tardi per tornare indietro", disse Leif, con un'allegria esagerata per essere uno sotto il tiro di così tante armi. "Non so", disse Megan sottovoce, mentre le guardie cominciavano a riversarsi fuori dei corpi di guardia e a disporsi sul lato del castello del ponte levatoio, "Mi sembra che una tarda colazione cominci a risultare molto appetibile." * * * Megan uscì da Sarxos e tornò nel suo spazio personale, dove trovò un mucchio di posta elettronica da sbrigare: cose di ogni genere che
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avrebbe dovuto risolvere, ma semplicemente non era nelle condizioni giuste. Troppe delusioni, troppa eccitazione. Troppe cose non erano andate per il verso giusto. Uscì dal suo spazio personale, sentendosi totalmente esausta... come se fosse stata colpita su tutto il corpo con una mazza da baseball. Stress... Mentre si alzava dalla poltrona, diede un'occhiata all'orologio. 0516. Ooooh... non è possibile che sia così tardi... o no? Sì, è possibile... Megan passò dallo studio alla cucina, lamentandosi un po' a ogni movimento. Qualcuno premurosamente le aveva lasciato in vista il necessario per preparare il tè e una banana sul mobile. Papà, pensò, sorridendo. Le banane sono eccellenti per chi sta sveglio tutta la notte, diceva sempre. Il potassio aiuta il cervello a rimanere attivo. E dato che passava così tante notti al lavoro, queste cose le sapeva bene. L'abbandono della "serata in famiglia" da parte di Megan aveva provocato meno ripercussioni di quel che aveva temuto. Suo padre aveva capito chiaramente che stava succedendo qualcosa di importante. Evidentemente ne aveva parlato anche con sua moglie, e non aveva fatto domande in merito a Megan... il che era gentile da parte sua e tipico. Ma oggi ci sarebbero state sicuramente domande su ciò che le stava accadendo. Avrebbe dovuto dare spiegazioni... ed era agitata. Sapeva che ciò che aveva tralasciato di spiegare a Winters, suo padre l'avrebbe dedotto rapidamente e le avrebbe detto di scordarsi dei problemi delle espulsioni a Sarxos e di lasciare che se ne occupasse la Net Force. Se glielo avesse rivelato, avrebbe dovuto obbedire. Megan lo rispettava profondamente. Però... Mise il bollitore sul fornello e accese il bruciatore, sbucciò la banana e si sedette al tavolo della cucina mangiandola assorta nelle riflessioni. Per la decima volta forse ricominciò a rivedere di nuovo completamente, nella sua testa, le linee di indagine che avevano seguito lei e Leif. Era difficile pensare, però. Si sentiva sfinita e l'immagine della duchessa Morn che rideva loro in faccia a più non posso continuava a intrufolarsi nei suoi pensieri. Non avevano avuto esattamente bisogno di un'armatura per parlare con lei. Forse Fettick aveva un po' esagerato da quel lato. Ma il
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disprezzo di Morn all'idea che qualcuno potesse avere intenzione di espellere lei era abbastanza simile a quello di Fettick. Morn aveva almeno settantanni, era piccola e magra e dura come un vecchio cuoio da stivali e intensamente divertente. Fiera, pensò Megan. Si era trovata a desiderare di poter essere simile a lei a settantanni. "Che provino ad attaccarmi", era stato l'atteggiamento di Morn a proposito di tutta la faccenda. Era soddisfatta che il suo computer fosse abbastanza sicuro, che la sua vita fosse abbastanza protetta. Ma anche se non lo fosse stata, pensò Megan, Morn aveva la totale mancanza di timore di chi è convinto di aver vissuto bene la propria vita, e a lungo, e non ha paura di "andarsene" se quella è la carta che le capita al prossimo giro. Megan e Leif se ne erano andati dalla Casa- di-legno con le orecchie piene delle ingiurie divertite di una vecchia signora nei confronti di chi avesse tentato di intromettersi nei suoi affari personali. Poi loro due avevano dovuto uscire da Sarxos, perché li aspettava una giornata di scuola ed erano entrambi stanchi morti, anche se non l'avrebbero mai ammesso l'uno all'altra. "Ho avuto una lunga giornata", aveva detto Megan a Leif. "Ma magari ritorno più tardi. Mi lasci il sigillo di Chris, ti dispiace?" "Nessun problema", aveva detto Leif. Glielo aveva dato ed era scomparso, con l'aria di essere stanco quanto Megan e ancor più depresso. E adesso la questione stava lì, sulla sua "scrivania", nel suo spazio di lavoro virtuale. Finita la banana, il bollitore aveva cominciato a sibilare. Megan si alzò rapidamente a spegnerlo e pensò nuovamente al sigillo. Non Lateran. Ancora non riusciva a dimenticarsene. Sembrava proprio sbagliato. Ma Sherlock Holmes le sussurrava all'orecchio, Elimina l'impossibile, e quello che rimane è la verità. O almeno il possibile. Cinque e mezza. Non posso credere di essere rimasta là tutta notte. Ma... aggrottò le sopracciglia, sospirò, versò l'acqua bollente nella tazza da tè, poi andò nel piccolo bagno accanto alla cucina, inumidì un asciugamano con l'acqua fredda e se lo appoggiò sugli occhi per un attimo. Il freddo sul viso fu un po' uno shock, ma gradito. Megan lo tenne sul viso per un po' e guardò le luci leggere che si muovevano sotto le sue palpebre, sottoprodotti al fosfene della
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stanchezza dei suoi occhi. Poi levò l'asciugamano, lo lasciò vicino al lavandino e tornò a prendere il tè. Megan si sedette, lo sorseggiò con precauzione e cominciò a riesaminare tutto da capo. Non riusciva a liberarsi dalla sensazione di aver perso qualcosa nei giornali del server. Ma Leif sembrava pensare che avessero ricavato tutto il possibile dall'esame di quell'insieme di informazioni e lei era abbastanza disposta a inchinarsi alla sua competenza nel campo. Deve esserci qualcos'altro, pensò. Qualcosa che abbiamo trascurato... Ma la sua mente continuava a tornare ai giornali del server e non si placava. È solo una fuga del cervello, pensò Megan dopo un po', bevendo nuovamente il tè e scottandosi di nuovo. Sono come un topo che scende in un tunnel in cui non c'è formaggio e continua a cercare. Era lo stesso tipo di comportamento per cui prendeva in giro sua madre, quando metteva le chiavi della macchina da qualche parte e poi non riusciva più a trovarle, ma continuava a ricontrollare nello stesso punto, sempre lì, anche se ormai sapeva benissimo che lì non c'erano. Non sono meglio di lei. Il tè cominciava a raffreddarsi abbastanza. Megan lo sorseggiò ancora una volta. Mi sento così malmessa. Che cosa mi metto per andare a scuola oggi? Sono giorni che non controllo la situazione della biancheria. Poi imprecò sottovoce, si alzò di nuovo e si diresse rapidamente verso lo studio. Andò alla scrivania e spostò di lato un'altra pila di libri. Il Baedeker di Londra, 1875? Funghi del mondo? Sapori d'Oriente? Che cosa fa, vuole tornare indietro nel tempo per trovare il curry adesso? Magari con i funghi dentro, immagino. Si sedette di nuovo nella poltrona dell'impianto e allineò il suo impianto. Davanti a lei si stendeva la superficie ocra di Rea, tutta ricoperta di polvere blu per la neve appena fuoriuscita da una delle vicine bocche del metano, ed ecco là Saturno, dorato, appeso e privo di comunicativa nella lunga oscurità fredda, come un messaggio consegnato e non letto. Tutta quella posta... pensò Megan. "Computer? Poltrona, per favore." Comparve la poltrona. "Fammi vedere che cosa è arrivato."
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Nell'aria, davanti a lei, comparvero le icone di una quindicina di messaggi, alcune immobili, altre in lenta rotazione, altre ancora in continua e rapida oscillazione, a indicare l'urgenza. I messaggi urgenti erano la maggioranza, anche se Megan, leggendoli, si convinse una volta di più che il concetto di urgenza degli altri di solito non corrispondeva al suo. Altri due messaggi da Carrie Henderson, che proprio proprio voleva che facesse qualcosa che Megan non ebbe nemmeno la pazienza di stare ad ascoltare fino in fondo. Poi un altro avviso inutile a proposito degli esami SAT. Qualcuno che vendeva abbonamenti a un nuovo servizio di notizie virtuale, con una dimostrazione che cominciò a girare rumorosamente in un angolo del suo spazio, mostrando una distesa piena di fumo attraversata dalle linee brucianti dei laser da campo di battaglia, uno scontro a fuoco che stava avvenendo in qualche luogo oscuro dell'Africa. Avrebbe voluto avere a portata di mano un martello con cui colpire il mittente, ma dovette accontentarsi di dire alla macchina di disattivare la dimostrazione e proseguì a ridurre la confusione, icona per icona. Vari inviti a una chat, una conversazione in diretta... Beh, di solito rifiutava quelle conversazioni quando si trovava a Sarxos. J. Simpson? E chi è costui? Scosse la testa. Qualche volta si ricevono inviti a una chat da persone che non si sono mai viste o che non si sono mai nemmeno sentite nominare prima. Probabilmente qualcuno che aveva incontrato nel gioco e che voleva continuare qualche discorso. Aprì i messaggi, ma non contenevano nulla se non la solita frase, "messaggio fallito, chat rifiutata". Oh, beh, pensò Megan. Come diceva sua madre in questi casi, se è una cosa importante richiameranno. Anzi, richiameranno in ogni caso. Magari ha lasciato della posta a Sarxos, pensò Megan. "Computer? Collegamento a Sarxos." "In elaborazione." "La sua area non scomparve, ma si oscurò mentre nell'aria, come al solito, comparivano il logo di Sarxos e le dichiarazioni di copyright, il suo punteggio e le ore dell'ultima sessione di gioco. "Riprendere dall'ultimo punto di estrazione?" chiese il computer. "O iniziare il gioco in una nuova area?" "Altra alternativa." "Formula, per piacere."
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"Riconosci questo sigillo?" Raccolse il sigillo dorato di Rodrigues, facendolo girare in mano. "Sigillo di riconoscimento rilevato. Come posso aiutarti?" Giù per lo stesso vecchio tunnel, pensò Megan, rassegnata. "Identifica i tentativi di connessione per chat al mio conto fra le 1830 locali della notte scorsa e le 0515 di oggi." Un istante di silenzio. "Nessuna connessione dall'interno di Sarxos." "Va bene." J. Simpson. Scosse la testa. "Posta elettronica in attesa?" "Nessuna messaggio di posta." Perciò Wayland non aveva trovato niente di nuovo. "Voglio accedere ai giornali del server", disse Megan. "Accesso consentito con il tuo sigillo. Quali giornali vuoi vedere?" "Giornali per i giocatori Rutin, Walse, Hunsal, Orieta, Balk il Cavatappi e Lateran." "Specifica modalità. Audio? Testo? Grafica?" "Grafica, per favore", disse Megan. I suoi occhi non erano in condizioni di leggere molto testo in quel momento. "Quale intervallo temporale?" "Gli ultimi..." Megan fece un gesto con la mano, di indifferenza. "Quattro mesi." "In elaborazione." Nell'aria di fronte a Megan si impilarono sei istogrammi, che sembravano il resoconto dell'andamento dell'indice Dow Jones per l'ultimo trimestre. Ogni colonna verticale rappresentava un periodo di ventiquattrore: al suo interno, una serie di trattini luminosi disposti in verticale rappresentava il numero delle ore che la persona in questione aveva trascorso a Sarxos. I sei giocatori erano di quelli seri. Nessuno di loro sembrava avesse giocato meno di quattro ore al giorno, nell'arco di tutti i quattro mesi. Alcuni ne avevano giocate sei o otto; di norma. Alcuni avevano estensioni enormi, in particolare durante i fine settimana o nei periodi di vacanza, in cui stavano all'interno del gioco per quattordici ore di seguito, o anche più. Chissà quali programmi di massaggio usano, pensò Megan, stirando il suo corpo dolorante. Cavoli, pensavo di essere una che prende sul serio il gioco. Ma questa gente è proprio ossessionata.
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Per divertimento, disse al computer, "Recupera il giornale di server corrispondente a Brown Meg." Quando venne visualizzato, si lasciò sfuggire una risata tranquilla. Negli ultimi giorni, il suo ritmo d'uso del gioco, benché scaglionato nel tempo, era diventato ossessivo quanto il loro. Papà vorrà fare quattro chiacchiere con me, pensò. E per quel che riguarda mamma... no, non voglio nemmeno pensarci adesso. "Visualizza corrispondente uso del server per Leif mago-delle-siepi", disse Megan. Accanto al suo comparve un altro istogramma. L'uso di Leif era molto simile al suo, per gli ultimi giorni. Non va meglio di me. E ancora il tunnel, sempre senza formaggio alla fine. Fece una smorfia e disse. "Oh, avanti, visualizza l'uso del server per Lateran." Visualizzato. Lateran non era meglio degli altri. Anzi, era peggio. Un altro impazzito, continuamente dentro e fuori. "Visualizza tempo di gioco per Argath." Argath, curiosamente, non era presente nel gioco con la costanza che Megan aveva pensato. Il suo uso del sistema negli ultimi mesi in effetti sembrava più simile al suo schema normale, anche se era stato più presente del solito negli ultimi giorni. Non sembrava normale, in qualche senso... ma, in fin dei conti, qual è un tempo normale per un giocatore di Sarxos? Esiste una cosa simile? Probabilmente no. Megan alzò le sopracciglia al pensiero, poi disse al computer "Visualizza schema d'uso per... oh, Wayland." Il suo grafico fu visualizzato sotto quello di Argath. Megan ricominciò a sorseggiare il suo tè, che si era "portata" nello spazio virtuale, e rimase a guardare un po' annebbiata tutti gli istogrammi che fluttuavano luminosi nell'aria di fronte a lei. Dovrei uscire e ripetere il trucco dell'asciugamano con l'acqua fredda, pensò, ammiccando. E poi si fermò e guardò nuovamente i grafici: non come li avrebbe guardati normalmente, ma con gli occhi un po' socchiusi, come aveva fatto prima. Il grafico di Lateran era molto simile a quello di Wayland. Nell'andamento generale, il modo in cui i trattini illuminati e gli spazi vuoti erano disposti... c'erano molti più trattini, cioè tempi "dentro" il gioco, che non spazi vuoti. Il grafico di Lateran incuriosì sempre di più Megan, mentre osservava ciascun periodo di
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ventiquattrore e si rendeva conto in che misura fosse occupato da ore di gioco. Quasi tutto. Tantissimo. E se si metteva a confronto la fine di una giornata con l'inizio della successiva, nella maggior parte dei casi c'era continuità. Beh, mezzanotte. Ora di picco per il gioco, in fin dei conti. Ma c'era anche qualcosa d'altro. Intervalli di ventiquattrore filate. Quattordici, sedici qualche volta. Lo schema si ripeteva, tornando indietro lentamente nell'arco dei quattro mesi. Sei ore dentro, venti minuti fuori. Otto ore dentro, un'ora fuori. Due ore dentro, un'ora fuori. Cinque ore dentro... Lo schema si ripeteva. E l'impegno di Lateran andava oltre l'ossessione. Era veramente patologico. Quando dorme? si chiese Megan. Meglio ancora, quando lavora? Anche se lavorasse a casa, non gli sarebbe certo facile tenere orari simili. Senza farsi licenziare, per lo meno... "Computer." "In ascolto." "Profilo utente del giocatore Lateran." "Il tuo sigillo di riconoscimento non consente questo accesso. Consulta Chris Rodrigues per ulteriori informazioni." "Che ore sono per Chris Rodrigues?" chiese Megan. "0242." È in qualche punto della West Coast. Non lo sveglierò certo alle tre meno un quarto del mattino. A meno che... "Chris è nel gioco in questo momento?" "No." Dovrò aspettare. Guardò ancora il giornale del server per Lateran. Se questa persona ha un lavoro, deve svolgerlo a casa. Ma anche così, non può essere che un lavoro a tempo parziale... non con un impegno simile nel gioco. E non è un bambino. Il limite d'età per accedere a Sarxos, data la violenza del gioco, era stato fissato a sedici anni. Perciò Lateran deve frequentare la scuola o svolgere qualche tipo di lavoro... Scosse la testa. Il grafico del suo uso del server non aveva alcun senso. Megan esaminò il grafico di Wayland. Era proprio molto simile a quello di Lateran. Sei ore dentro, due ore fuori... otto ore dentro, due ore fuori... sette ore dentro... E lo schema si ripeteva ciclicamente
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nell'arco dei quattro mesi. Sono un po' fuori sincronizzazione. Non esattamente simili, ma... Scosse la testa. Aveva ancora in mente lo strano modo in cui le aveva risposto Wayland quel mattino. Cominciò a formarsi un sospetto molto particolare. Era impossibile, ovviamente, perché il giornale del server per Wayland e quello di Lateran indicavano che spesso erano in linea contemporaneamente... e non era possibile interpretare due personaggi allo stesso tempo. O no? "Computer"? disse Megan. "In ascolto." "Numero massimo di personaggi interpretati da un utente di Sarxos." "Trentadue." "Qual è il nome dell'utente?" "Questa informazione non è disponibile con l'attuale sigillo di riconoscimento. Consulta Chris Rodrigues per ulteriori informazioni." "Va bene, va bene. Accedi alla documentazione del giocatore Lateran." "Accesso alla documentazione effettuato: presente in memoria." "Quanti altri personaggi interpreta la persona che fa la parte di Lateran?" "Cinque." "E uno di questi è 'Wayland'?" Silenzio per un istante, poi: "Sì". Megan provò una sensazione di caldo e poi di freddo a sentire la conferma. "Ascolta", disse, mentre davanti a lei cominciava ad aprirsi tutta una serie di possibilità orribili. Ora il suo compito era cominciare a limitarle. "Con questo sigillo, posso accedere al file di Chris Rodrigues delle espulsioni tentate ed effettivamente avvenute ai danni di giocatori di Sarxos?" "Questo accesso è consentito." "Accedi a quel file, per favore, e tienilo in memoria." "Fatto." "Visualizza i periodi di espulsione su un istogramma simile. Evidenzia ciascuno."
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Il computer eseguì. I tempi delle espulsioni erano sovrapposti, sotto forma di asterischi luminosi, a un istogramma scuro traslucido corrispondente ai grafici sovrastanti. "Abbassa i grafici di Lateran e Wayland. Sovrapponi al diagramma delle espulsioni." Ubbidiente, il computer eseguì. Tutte le espulsioni, compresa l'ultima di Elblai, cadevano all'interno di periodi di tempo in cui sia Wayland sia Lateran risultavano presenti nel gioco. Ma è impossibile, pensò Megan, mentre cominciavano a farsi strada dentro di lei, sensazioni contemporanee di orrore e di trionfo. È impossibile. Questi due giornali di Wayland e Lateran non possono essere giusti. Non possono essere presenti entrambi contemporaneamente. A meno che... "Computer!" "In ascolto." "È possibile che un giocatore interpreti due personaggi contemporaneamente durante lo stesso periodo di gioco?" "Solo in sequenza. L'interpretazione simultanea di più personaggi è stata esclusa dal progettista e non è lecita nel sistema." Sono lo stesso giocatore. Sono nel sistema contemporaneamente. Non è possibile. E il computer non se n'è accorto, perché non è stato addestrato a notare una cosa simile. Qualcuno ha trovato un modo per far finta di essere nel sistema. "È troppo importante", mormorò. "Computer, ho bisogno di parlare con Chris Rodrigues adesso. È un'emergenza." Ci fu un istante di silenzio, poi il computer disse "Chris non risponde al suo cercapersone. L'utente è pregato di riprovare più tardi." "Questa è un'emergenza", disse Megan. "Mi capisci?" "Il sistema capisce 'emergenza'", rispose il computer, "ma non ha l'autorità, dato un sigillo di riconoscimento del tipo attualmente in possesso dell'utente, di contattarlo a quest'ora. L'utente è pregato di riprovare più tardi." È lui, pensò Megan. L'espulsore è lui. Oh, merda...! "Vuoi lasciare un messaggio per Chris Rodrigues?"
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Megan aprì la bocca, poi la richiuse mentre le veniva in mente un'altra idea. "No". "Quali altri servizi richiedi?" Megan rimase ferma a osservare tutti quegli istogrammi. "Mostrami gli altri giornali del server", disse, "stesso periodo, per tutti gli altri personaggi interpretati dal giocatore che fa la parte di Wayland e Lateran." "In elaborazione." Comparvero tre altri grafici. Il primo e il terzo erano molto simili all'andamento di quelli di Wayland e Lateran. C'erano piccole differenze nei tempi e gli schemi erano un po' più complessi, ma anche in questo caso quei personaggi passavano troppo tempo nel sistema per essere reali e anche loro ciclavano lentamente nell'arco dei quattro mesi. Automatici, pensò Megan. Non c'è alcun dubbio. Il grafico centrale aveva un andamento più realistico. Tre ore dentro, venti ore fuori. Quattro ore dentro, trentacinque ore fuori... uno schema d'uso molto più parco. Non un dilettante, ma nemmeno una persona ossessionata. Megan lasciò che il suo sguardo si sfocasse ancora, un buon modo per essere sicura di vedere le configurazioni che pensava di vedere. Le somiglianze erano troppo forti, fra tutti i grafici in questione, per essere una coincidenza. "Memorizza la visualizzazione", disse Megan. "Nome file?" "Megan-e-Leif-Uno. Posso copiare questa visualizzazione in un messaggio di posta elettronica?" "Sì." "Copia al giocatore Leif mago-delle-siepi." "Fatto. In attesa di ritiro." "Copiaglielo anche al di fuori del sistema." "Messaggio inviato sulla Rete alle 0554 locali." E adesso che cosa faccio? Megan deglutì, poi dovette farlo ancora. Aveva la bocca secca. Lateran. Avevamo ragione. Lo so che avevamo ragione. Il nuovo generale in rapida ascesa... Sorrise con un po' di amarezza. Bell'analista. E bel pericolo, a giudicare da questi grafici. Chiunque sia capace di inventare un modo per raggirare un sistema di realtà virtuale e fargli pensare che sei presente quando in realtà non lo sei...
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Ma poi, pensò Megan, perché sprecare tanta abilità tecnica qui dentro? È solo un gioco. Vero, c'erano persone che sembravano pensare che Sarxos fosse questione di vita o di morte, che passavano nel gioco quasi tutte le loro ore di veglia, che ci vivevano, ci dormivano, ci mangiavano, ci bevevano e, come aveva detto Chris, ci si volevano trasferire. Ma questo... Megan scosse la testa. Qui c'è qualcuno che vuole usare, o magari inventare, una tecnologia il cui unico fine è sfruttare l'aspetto fondamentale della presenza in un ambiente virtuale. Aveva sempre pensato che l'"impronta digitale" che si lasciava nella Rete in conseguenza della presenza con un impianto collegato fosse indelebile e non falsificabile. Era una delle verità fondamentali su cui era basato l'uso sicuro della Rete: sei chi il tuo impianto dice che sei, eri dove hai dichiarato di essere e quando hai detto di esserci stato. L'impianto attaccato alla tua fisicità doveva rendere definitiva e certa l'autenticazione delle tue azioni in Rete. Ma qualcuno, Wayland? Lateran? chiunque fosse aveva trovato un modo per "esserci" quando in realtà non era lì. Mentre la sua componente fisica genuina era da qualche altra parte e faceva qualche altra cosa. Entrava illegalmente nella casa di qualcun altro e gli sfasciava il computer... buttava fuori strada una nonna di mezza età e la faceva schiantare contro un palo. E poi? E tutto per un gioco. Davvero era tutto lì? Perché le conseguenze di una tecnologia simile erano orribili. Megan rabbrividì e deglutì di nuovo, con la bocca ancora secca. Non abbiamo ancora prove conclusive. Abbiamo solo prove circostanziali. Ma sono prove circostanziali buone e solleveranno un bel po' di interrogativi. E adesso? Rivolta al computer, disse: "Memorizza i grafici... toglili dal mio spazio di lavoro. Copia i file per James Winters alla Net Force." "Fatto." Megan si distese e si mise a osservare Saturno fuori dalla finestra.
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Lui lo sa, ovviamente. Glielo abbiamo detto in faccia su che cosa stavamo indagando, quali erano i nostri sospetti. Gli abbiamo parlato anche di Lateran. Sa che siamo sulle sue tracce. Non è di Fettick e di Morn che dovevamo preoccuparci. Dovevamo preoccuparci di noi stessi. E non è nemmeno che sia tanto difficile trovarci, pensò Megan. Programmi che non cambiano. Indirizzi noti. Fece un sorriso amaro. Ho bisogno di trovare Winters immediatamente. Ma... Poi si fermò. Quello che aveva in mente era l'immagine di Wayland, Lateran o chiunque lo interpretasse che veniva lì, che veniva per lei. O per Leif. Era molto facile recuperare indirizzi e numeri telefonici e informazioni "personali" di ogni genere dalla Rete. Ma al tempo stesso... Perché dovrei preoccuparmi? pensò Megan, mentre la bocca cominciava a inumidirsi un po'. Abbiamo il normale numero di armi da fuoco per difesa, qui, e io so come usarle. Qualcuno mi affronta in strada, o cerca di assalirmi... Sorrise con una smorfia. No, mi piacerebbe consegnare questo tizio a Winters, su un piatto d'argento... Beh, non lo posso fare. Devo procedere secondo le regole. Ma questo non significa che debba starmene qui ad aspettare che succeda, che Wayland venga a cercarmi... Guardò ancora pensierosamente a quei tentativi di contatto per una chat. J. Simpson, pensò. Chi sei, J. Simpson? "Computer di Sarxos", disse. "Grazie. Esco." "Di niente, Brown Meg. Buona giornata." L'informazione di copyright comparve e scomparve in un lampo viola. "Computer", disse Megan. "Accedi all'indirizzo di posta elettronica di J. Simpson. Apri nuovo messaggio di posta..." Sorrideva. Leif comparve nel suo spazio di lavoro con la casetta islandese e si sedette sul divano di design moderno, sfregandosi gli occhi. "Posta?" disse al suo computer. "Molta, mio signore. Come vuoi vederla? Prima le cose importanti? Le cose noiose? In ordine di arrivo?" "Sì, l'ultimo", disse Leif, sfregandosi ancora gli occhi. Si sentiva stanco morto.
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Aveva pensato di dormire come un ghiro (comunque dormano i ghiri), quando era uscito da Sarxos la notte prima. Ma invece aveva continuato a girarsi da una parte e dall'altra nel letto e non era riuscito a mettersi calmo. Qualcosa lo preoccupava, qualcosa che non riusciva a identificare, qualcosa che gli era sfuggito. Non è Lateran. Sukin syn, non è Lateran. Non poteva liberarsi da quell'idea. E pensava anche a Wayland. Quello che aveva detto Megan. "Una qualità "prefabbricata"..." Era in esecuzione un messaggio relativo a qualche evento a cui sua madre voleva che assistesse. "Guarda", disse alla macchina, "metti tutto in attesa per un momento." "Va bene." Leif ripensò agli altri incontri che aveva avuto con Wayland, risalendo fino ai primissimi. L'uomo gli era sembrato un po' eccentrico... ma era una sensazione che si provava ogni tanto con la gente di Sarxos. Quando più Leif pensava a quelle conversazioni, però, tanto più gli sembrava che quel che aveva detto Megan fosse vero. E un giocatore poteva rivivere le sue esperienze, se aveva avuto l'accortezza di salvarle. Leif sorrise amaramente. Per carattere tendeva a conservare qualsiasi cosa, fino a che suo padre aveva cominciato a lamentarsi della mancanza di spazio nella macchina per le attività lavorative. "Senti", disse Leif, "recupera i miei archivi di Sarxos." "La loro macchina è in linea, Capo", disse il suo computer, "e le cose che dice di te non mi sento di ripeterle. Lo spazio di archiviazione che stai usando..." "Sì, ma lo pago. Non ti preoccupare. Ascolta, voglio sentire tutte le conversazioni che ho avuto con il personaggio 'Wayland'." "Subito servito." Cominciò ad ascoltare. Alla terza conversazione, aveva già cominciato a cogliere frasi ripetute. Non solo perché erano familiari, ma perché erano pronunciate esattamente con la stessa intonazione tutte le volte. I capelli cominciarono a drizzargli sul collo. Un'altra frase: "Questo è proprio interessante". Ripetuta ancora, un paio di mesi dopo: "Questo è proprio interessante." Stessa intonazione. E poi una terza volta: perfetta, stessa durata, al millesimo di secondo.
Tom Clancy & Steve Pieczenik 146 1999 - WarGame Mortale
Ma poi... fece riprodurre la registrazione della conversazione che lui e Megan avevano avuto con Wayland. "Questo è proprio interessante." Un'intonazione diversa. Molto più divertita... e decisamente più consapevole. Deglutì e girò lo sguardo su qualcosa che vibrava proprio lì su un lato. Era uno dei messaggi di posta elettronica... e come mittente aveva l'indirizzo di Megan. "Dannazione. Aprilo!" disse al computer. Leif si trovò a esaminare una serie di istogrammi impilati. Erano i giornali del server di varie persone, messi a confronto in funzione del tempo. Erano... Rimase a bocca aperta guardando gli ultimi grafici nella parte inferiore: due gruppi, sovrapposti uno all'altro, e, ancora sopra, gli asterischi che evidenziavano i tempi di tutte le espulsioni degli ultimi mesi. La gola gli si chiuse. Non riusciva neanche a imprecare. Non c'erano imprecazioni abbastanza pesanti per quello che stava osservando. Avevamo ragione. Era Lateran. E Lateran è Wayland, anche. E Wayland è "prefabbricato" in qualche modo. Ascoltavamo frasi pre-programmate... Tranne la notte scorsa. Questo è proprio interessante... e il sorriso di Wayland. Dov'è Megan?! Non aveva il suo codice di comunicazione vocale. Non ne avevano mai avuto bisogno: tutti i loro contatti erano avvenuti attraverso la Rete. "Computer! Invita Megan a una chat." "Non è disponibile, Capo." "Accedi a Sarxos. Cercala là." Attese alcuni interminabili secondi mentre la macchina si accreditava al sistema e mentre venivano visualizzati il logo e le informazioni di copyright. Dopo un attimo la macchina disse: "Non c'è, Capo." Non poteva neanche scoprire quando era stata là l'ultima volta, perché non aveva il sigillo. Ce l'aveva lei.
Tom Clancy & Steve Pieczenik 147 1999 - WarGame Mortale
Con il peso di quelle informazioni di fronte, i dati che adesso lei aveva, con il ricordo dell'incontro con Wayland la notte scorsa, le informazioni che adesso Wayland sapeva che loro avevano e il fatto che Leif non riusciva a trovarla, tutto si saldava insieme e all'improvviso Leif capì che cos'era successo: se era fortunato, che cosa stava succedendo in quel momento. Poi cominciò a imprecare, prima nei confronti di Megan, poi di Wayland, espressioni in russo che senza dubbio avrebbero fatto impazzire sua madre se le avesse sentite. Era sconvolto dalla completa impotenza di essere virtuale quando aveva disperatamente bisogno di essere concreto: la totale impossibilità di essere a Washington, proprio in quel momento, quando era in effetti bloccato a New York. Leif urlò al computer: "James Winters! Emergenza Net Force! Connessione immediata!" Una voce leggermente impastata disse "Winters..." Leif cercò faticosamente di prendere fiato, poi urlò: "AIUTO!" Spedì il messaggio di posta elettronica e aspettò... e non successe nulla. Qualche persona sensata è ancora a letto alle sette del mattino, pensò. E perché no? Infine Megan rinunciò ad aspettare. Si stava facendo tardi. Salì al piano superiore, si fece una doccia e si vestì. Facendo meno rumore possibile, perché suo padre chiaramente era stato alzato fino a tardi a lavorare in qualche altra stanza, visto che lo studio era occupato, e si era coricato da poco. Sua madre, come succedeva spesso, era già uscita. I suoi fratelli non erano rincasati quella notte: uno aveva il turno di chirurgia con inizio nelle prime ore del mattino, l'altro aveva parlato di un esame imminente per un corso intitolato "Cemento armato sotto sollecitazione, corso avanzato 302", e tutti e due si erano eclissati subito dopo cena. Scese nuovamente in cucina, pensò se farsi un'altra tazza di tè, poi decise di no. Non c'era niente di veramente importante a scuola; quel giorno... ma non era un buon motivo per non andarci. Tutti i compiti erano fatti. Il portatile era carico, tutti i contenitori di dati necessari, che contenevano i suoi testi di consultazione, erano già nella borsa. E fuori il clacson la stava chiamando.
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Megan afferrò la borsa e il portatile, infilò la chiave magnetica nella tasca, predispose la porta anteriore perché si chiudesse dietro di lei, uscì di corsa, sentì chiudersi la porta e sentì scattare la serratura, provò la maniglia per essere sicura che fosse chiusa bene, si girò... ... e lui era lì, in piedi davanti a lei, che stendeva il braccio, impugnando qualcosa di nero. Solo la prontezza di riflessi salvò Megan. Si gettò da una parte, mentre lui cercava di afferrarla, e gli lanciò addosso la borsa, facendolo arretrare un po'. Megan sentì vicino il fischio soffocato e lo sfrigolio di un destabilizzatore di campo corporeo. Un colpo a segno e la sua bioelettricità sarebbe impazzita per qualche secondo, abbastanza per farla cadere come un sacco dove si trovava, "cortocircuitata". Il raggio di azione efficace di quell'oggetto era di poco più di un metro. Megan rotolò appena toccò terra, puntò i piedi, si alzò e danzò lontano dall'uomo nel giardino davanti a casa, attenta a tenerlo abbastanza lontano. Lui scattò verso di lei e di nuovo Megan si ritirò, per quanto fosse seccata di doverlo fare. Metà di lei era spaventata da morire, il resto di lei era assorbito nell'impegno della danza. Non lasciarlo avvicinare, stai fuori dalla sua portata e dietro, nel profondo del cervello, le sembrava di sentire una tranquilla telecronaca diretta di quello che succedeva. Ho sentito il clacson, dov'è chi doveva darmi un passaggio, non è la macchina giusta, stessa marca, però, forse anche lo stesso anno, come ha fatto? Da quanto sospettava che lei e Leif fossero sulle sue tracce? Da quanto li stava controllando da vicino? Leif, pensò, perché non ho... L'uomo andò all'attacco ancora, senza parlare. Sperava quasi che urlasse, dicesse qualcosa. Circa un metro e settantacinque, diceva un'altra parte della sua mente, con precisione clinica: corporatura media, maglietta grigia, jeans, mocassini neri, calze bianche... naso grande. Baffi. Occhi... occhi... Non riusciva a stabilirne il colore da dove si trovava, ma non aveva nessuna intenzione di avvicinarsi per scoprirlo. Mani grandi, enormi: un volto sorprendentemente poco teso e immobile nonostante tutta l'attività che stavano compiendo, danzando in mezzo al giardino alle sette e quarantacinque del mattino, e perché non se n'è accorto nessuno, perché i vicini non...? Megan aprì la bocca per urlare con tutta la forza che aveva.
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E in quel momento si rese conto che lui aveva buttato via il destabilizzatore, e aveva in mano qualche altra cosa, con cui stava prendendo la mira. Non sentì mai il rumore dell'arma sonica che la colpì. Quando riprese coscienza era distesa a terra e non riusciva a muovere un muscolo in tutto il corpo. Era quasi una beffa di tutto l'addestramento che aveva avuto, di tutti i buoni consigli del suo istruttore di autodifesa. Chiusa fuori casa, senza alcun posto dove ripararsi, e neanche il tempo per fuggire. L'uomo si chinò su di lei, il volto non troppo espressivo, solo un po' irritato del fastidio che lei gli aveva provocato mentre cominciava a sollevarla, a metterla in posizione quasi seduta, in preparazione, lo sapeva, a prenderla e metterla in macchina per portarla via. Non lasciare mai che un assalitore ti porti da qualche parte, aveva detto uno dei suoi istruttori nei corsi di autodifesa, in un tono più pressante di quello che gli avesse mai sentito usare in precedenza. L'unico motivo per cui qualcuno può volerti portare da qualche parte è per avere un ostaggio, o per violentarti o ucciderti. Costringeteli a farlo in pubblico, se non potete impedirlo. Potrà essere terribile, ma è sempre meglio che morire... Fai qualcosa, disse alla sua gola, ai suoi polmoni. Urla! Un respiro profondo, poi urla! Ma il respiro profondo semplicemente non veniva e tutto l'urlo che le uscì era un "uh, uh". L'urlo era tutto nella sua testa, solo nella testa, e Megan si perse per un istante in un parossismo di rabbia e paura, ma solo per un istante perché, una cosa strana, l'urlo era nell'aria sopra la sua testa. L'uomo guardò in alto, sorpreso, la forma scura che scendeva come un masso verso di lui dal cielo. Guardò in basso di nuovo Megan, gli occhi stretti per un attimo, penetranti e mosse la mano. ... poi cadde di lato, pesantemente, vicino a lei e in parte sopra di lei. Sentì il rumore sgradevole della sua testa che colpiva il terreno. Era stato un periodo molto asciutto, il giardino era in gran parte marrone e il terreno era duro... Megan ricadde all'indietro, con lo sguardo fisso verso l'alto. Non riusciva a girare la testa, poteva sentire solo l'urlo del motore, il ronzio nelle orecchie. E allora avrebbe potuto cedere e mettersi a piangere, non per paura, ovviamente, ma per il sollievo, al suono di tutti i passi
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intorno a lei, alla vista, con la coda dell'occhio del beli*elicottero nero della Net Force con la fascia dorata sul fianco, e dell'elicottero della polizia che atterrava subito dietro. ... e alla vista di James Winters che all'improvviso comparve sopra di lei, e diceva al personale medico: "Sta bene, grazie a Dio, ha solo preso un colpo sonico, su, avanti, datele una mano. E per quanto riguarda lui..." Guardò in basso, al di fuori del ristretto cono visivo che era tutto quello che rimaneva a Megan in quel momento. "Ecco il nostro espulsore", disse Winters con una voce aspra per la rabbia e la soddisfazione. "Chiudetelo a chiave." Ci vollero parecchi giorni perché tutta l'agitazione si calmasse. Megan ne passò un paio in ospedale, i colpi sonici non sono cosette da cui ci si riprende in un attimo, e il terzo parlando con la polizia, con il personale della Net Force che era venuto a trovarla, compreso Winters, e con Leif, che era arrivato da New York. Tutti la trattavano con estrema gentilezza, come se potesse rompersi. Il primo giorno, non le diede particolarmente fastidio. Il secondo giorno, ogni tanto si irritava. Ma il terzo giorno cominciò proprio a darle sui nervi e lo disse, con impeto, a parecchie persone. Anche a Winters, alla fine. "Starà benissimo", lo sentì dire all'infermiera fuori della porta, mentre se ne andava. "Ma il giorno in cui esci di qui, tu e lui..." disse indicando con il dito Leif. "Nel mio ufficio, alle dieci in punto." "Ma io sarà a New York", disse Leif con voce speranzosa. "Che cosa c'è, il tuo computer si è rotto? Dieci in punto." Ed era andato. Megan si abbandonò sulla comoda poltrona nell'angolo... si era ormai alzata dal letto e disse a Leif: "Gli uomini della Net Force sono entrati con te questa mattina?" "Sì." "Ti hanno fornito qualche altro particolare più tecnico su come pensano che il signor Simpson, o Wallace o Duvalier" aveva infatti parecchie identità, "riuscisse a far credere al sistema di non essere lì quando c'era, e viceversa?" Leif scosse la testa. "Devo confessare che non sono molto ferrato sul lato tecnico della faccenda. Evidentemente aveva un secondo impianto a cui in qualche modo aveva insegnato a fingere di essere collegato al
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suo corpo. Non chiedermi come funziona... loro evidentemente sono molto interessati. E gli faceva eseguire un 'programma esperto', una routine di sistema consapevole." Leif si appoggiò al davanzale. "Si tratta di faccende molto vecchie. Hai mai sentito parlare di un programma che si chiamava Racter? Uno dei miei zii conosceva il tizio che l'aveva scritto." Megan scosse la testa. "Il nome è una abbreviazione di 'Raconteur'", disse Leif. "Era un discendente di quei vecchi programmi per il test di Turing, programmi che dovrebbero simulare un essere umano, almeno in misura sufficiente per essere scambiati per un uomo in una conversazione. L'obiettivo di Racter era convincerti che stavi chiacchierando con qualcuno, in modo informale. Simpson, o come diavolo si chiamava in realtà, aveva scritto un programma 'cosciente' su misura per Sarxos, che poteva sostenere conversazioni relativamente buone con altre persone sotto la sua maschera... e riusciva a cavarsela. Non c'è da meravigliarsi che abbia funzionato, immagino. Quando ti trovi a Sarxos dai automaticamente per scontato che quello con cui stai parlando possa essere un giocatore vero oppure un essere generato dal gioco stesso... e qualche volta i personaggi generati dal gioco si comportano in maniera un po' bizzarra. Anche Sarxos ha i suoi bug, in fin dei conti. E sembra che il nostro amico avesse quattro di questi programmi in esecuzione, qualche volta tutti insieme. Il quinto 'sé' era proprio lui, che si presentava qua e là, interpretando i vari personaggi in modo da essere sicuro che tutti pensassero che fossero proprio quello che dovevano essere... mentre lui si dedicava al resto della faccenda: cioè a interpretare la parte di Lateran e a liberarsi di tutti quelli che gli sembrava ostacolassero il cammino di Lateran, uno dopo l'altro." "Hanno idea del perché abbia espulso Elblai in modo così duro?" Leif scosse la testa. "Gli psichiatri della polizia gli hanno parlato, ma penso che l'impressione generale sia che Elblai gli ha fatto troppa pressione. È crollato. Può darsi che sia andato avanti così per un po'. Shel aveva esercitato parecchia pressione su di lui... ma non tanta quanta Elblai. Semplicemente è stato troppo per lui. Ma è stato molto attento, veramente astuto. Ha coperto le sue tracce a lungo... per più di quattro mesi, evidentemente." Leif fece una faccia divertita. "Non
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penso che, qualsiasi cosa riescano a trovare gli strizzacervelli, gli possa servire quando si troverà davanti a un tribunale. Pirateria della strada, tentata strage, vari furti e distruzione di proprietà privata e, nel tuo caso, tentato omicidio... dubito che lo rivedremo molto presto a Sarxos. O in qualsiasi altro posto." Leif si girò a guardarla, incrociando le braccia e volgendo le spalle alla finestra. "Sono contento che tu stia bene." "Sì, beh, se non fosse stato per te, probabilmente non starei bene." "Avevo una gran paura che fosse troppo tardi." "Anch'io ho avuto molta paura", disse Megan. "Ma basta adesso, lasciamo il passato alle spalle. Ci sono cose più importanti di cui preoccuparsi, ora." "Ah, sì?" "Dopodomani", disse Megan, "alle dieci in punto..." Quando arrivò il momento, Megan e Leif erano seduti, virtualmente, nell'ufficio di James Winters; ma il non essere lì fisicamente non rendeva affatto meno scomoda la loro presenza. La scrivania era ben ordinata. Di fronte a lui c'erano un paio di pile ordinate di stampate, un paio di solidi per la memorizzazione di dati su un lato. Winters sollevò lo sguardo dalle scartoffie, e il suo volto era molto freddo. "Ho bisogno di parlare un po' con voi due", disse, "di responsabilità." I due rimasero muti. Non sembrava il momento giusto per controbattere. "Ho avuto qualche colloquio con entrambi a proposito di questo problema", disse. "Te ne ricordate?" "Uh, sì", disse Megan. "Sì", disse Leif. Winters guardò con particolare intensità Megan. "Sei sicura di ricordartene, adesso? Perché le tue azioni da allora sembrerebbero far pensare a un grave episodio di amnesia. Sarei proprio tentato di consigliare ai tuoi genitori di portarti al centro di neuropsichiatria della Washington University per quello che mio padre, ai suoi tempi, avrebbe chiamato 'farti controllare la testa'. Se tu potessi dimostrare qualche patologia fisica che giustifichi il tuo comportamento, la mia vita sarebbe molto più semplice."
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Il volto di Megan era decisamente rosso di vergogna. "No, eh? Lo temevo. Perché non avete fatto quello che avevo detto?" riprese Winters. "Certo, non era un ordine, non siete ai miei ordini... ma normalmente, richieste di questo tipo da parte di un ufficiale anziato della Net Force a un Net Force Explorer si possono considerare dotate di qualche efficacia." Megan guardò il pavimento e deglutì. "Ho pensato che la situazione non fosse pericolosa come lei pensava", disse infine, sollevando lo sguardo. "Ho pensato che Leif e io potessimo affrontarla." "Non vi è passato magari per la testa che avreste voluto fare bella figura?" "Uh. Sì. Sì, ci abbiamo pensato." "E tu?" chiese Winters a Leif. "Sì", disse Leif. "Ho pensato che potessimo affrontarla da soli. E ho pensato che sarebbe stato bello risolverla da soli, prima che entrassero in gioco i membri anziani." "E allora", Winters lo guardò, "non stavate pensando di risparmiarci pericoli, o problemi, non specificamente." "No." "Tempo, forse", disse Megan. "E gloria?" chiese sottovoce Winters. "Un po'", disse Leif. Winters si appoggiò allo schienale. "Non posso dire che sia un interrogatorio facile. Beh, ho avuto il tempo di esaminare tutti i giornali del server. Non c'è dubbio che siate stati tenaci. E debbo dire che sento anche un po' di dedizione. C'eravate proprio dentro, vero?" "Non volevo mollare", disse Megan. "Avevamo iniziato un lavoro", disse Leif sottovoce. "Quando lei ci ha parlato... non avevamo finito. Volevamo finire." Winters rimase immobile, guardando il pacco di carta sulla sua scrivania. Prese l'angolo della pila e fece scorrere le molte pagine. "Ho ricevuto parecchia pressione dall'alto", disse, "affinché vi buttassi fuori dagli Explorers perché siete un rischio. L'esempio di sventatezza e mancanza di rispetto per l'autorità che offrono le vostre azioni degli ultimi giorni non sono giudicati un bene per il resto degli Explorers.
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Come sempre, si diffonderanno voci sull'accaduto e c'è chi è preoccupato che altri Explorers, con la loro giovane età e la loro inesperienza, comincino a pensare che questo tipo di comportamento sia effettivamente appropriato. Siamo riusciti a limitare i danni almeno in una certa misura, ma..." Fece roteare gli occhi. "Quella scenetta nel tuo giardino non ha aiutato, Megan. I particolari di quello che è successo e di quello in cui eri coinvolta finiranno sicuramente per trapelare. Spero per te che non ci siano ripercussioni legali. Quando fate quello che vi viene consigliato, abbiamo un po' di potere per difendervi, ma quando non lo fate..." Winters alzò gli occhi al soffitto come se stesse chiedendo silenziosamente aiuto, e scosse la testa. "Nel frattempo, debbo decidere che cosa fare di voi... perché stiamo subendo pressioni da più di una parte. C'è qualcuno, in questa organizzazione, che mi dice che l'analisi che vi ha portato alle vostre conclusioni è un bel caso di pensiero laterale, e loro vorrebbero lavorare con voi in un tempo futuro. E se io adesso vi butto fuori, questa opzione diventa molto difficile. Allo stesso tempo, però, altre persone scuotono la testa e dicono 'Buttali fuori di corsa!' E allora che cosa devo fare? Qualche suggerimento?" Li guardò. Leif aprì la bocca, poi la richiuse. "Vai avanti", disse Winters. "Non vedo come potresti rendere la tua situazione peggiore di quello che è già." "Ci tenga", disse Leif, "ma in prova." "Che cosa vuol dire per te essere in prova?" "Non lo so di preciso." "E tu?" Winters si rivolse a Megan. "Hai qualche idea?" "Solo una domanda." Deglutì. "Che cosa succede ai professionisti della Net Force quando fanno cose di questo genere?" "In genere vengono licenziati", disse Winters amaro. "Solo per circostanze attenuanti straordinarie qualche volta si salvano. Avete qualche attenuante?" "Che abbiamo scoperto forse una delle tendenze più pericolose in trent'anni di esperienza virtuale?" disse Leif, con aria innocente. Winters lo guardò in tralice e si lasciò sfuggire solo un sottile sorriso a malincuore. Leif lo colse e capì, subito, che era dalla loro parte, che sarebbe andato tutto bene. Non una soluzione comoda... ma tutto bene.
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"Questo, per vostra fortuna, è vero", disse Winters. "Finora tutto il sistema di virtualità è stato diffuso sulla base della certezza che le transazioni eseguite in remoto attraverso circuiti impiantati fossero genuine. E adesso, all'improvviso, tutto diventa molto confuso. Non c'è probabilmente parte della Rete che non sia toccata da questa vicenda. Bisognerà riesaminare tutti i protocolli di autenticazione, ovunque, e renderli inattaccabili al tipo di eversione che il vostro amico sarxoniano è riuscito a inventare. Con l'aiuto di chi, non sappiamo... ma ci stiamo pensando. Sarxos è stato il campo di collaudo per alcune tecnologie a cui sono interessati vari paesi. Quando qualcuno comincia a interferire con quel particolare gioco... beh, cominciano a suonare i campanelli d'allarme. E continueranno a suonare per parecchio tempo. "Lasciando da parte questo, comunque, questo incidente è stato una sveglia per moltissime persone convinte che i loro sistemi fossero sicuri. Sarxos aveva un sistema di sicurezza proprietario molto apprezzato. La scoperta che è stato aggirato in questo modo, riempito di dati spuri, e che nessuno abbia sospettato quello che stava succedendo, per mesi, forse per molti mesi... è stato un bello shock. Se qualcuno ha potuto sovvertire in quel modo Sarxos, lo stesso potrebbe succedere a molti altri sistemi proprietari. Sistemi bancari. Sistemi di borsa. Sistemi 'intelligenti' che gestiscono vari aspetti della sicurezza nazionale per diverse nazioni in tutto il mondo. Sistemi di controllo delle armi..." Winters lasciò la frase in sospeso. "Non si riesce nemmeno a immaginare in che misura bisognerà intervenire e riprogettare. Solo che bisogna pensarci, e subito, grazie a voi." Il sorriso a denti stretti diventò ironico. "Probabilmente in questo momento ci sono più responsabili e analisti di sistema ed esperti di hardware e di software che stanno maledicendo il vostro nome di quelli che vi capiterà mai in futuro di avere contro, se siete fortunati. E quelle stesse persone vi stanno benedicendo. Se doveste morire proprio adesso, è difficile stabilire in che direzione ve ne andreste." Si rilassò. "Nel frattempo... Sarxos stesso..." Raccolse uno dei fogli di carta dalla cima della pila, lo lesse, lo mise da parte. "Sarxos probabilmente è riuscito a sopravvivere come azienda grazie a quello che avete fatto voi. Era una grande fonte di profitti per la casa madre, e l'attacco a quel giocatore, insieme con l'incapacità di catturare il
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responsabile, cominciava ad avere effetti negativi sull'andamento dell'azienda sul mercato. La Legge del Mercato è 'guarda quando sono avidi, guarda quando sono spaventati'. Gli azionisti di Sarxos si sono spaventati, e il mercato ha cominciato a perdere fiducia nell'azienda. Il valore delle loro azioni è sceso in tutto il mondo, ovunque il titolo fosse trattato. "Ora, il progettista del gioco, una persona che non è esattamente priva di ascendente politico, visto che è ricco almeno la metà di Creso, ci ha chiesto di darvi ogni possibile credito, nel prendere le nostre decisioni. L'amministratore delegato della casa madre ha fatto pressioni in vostro favore, una cosa inaudita per un uomo che tutti pensano non si scompaginerebbe se il Lupo cattivo facesse un boccone di sua nonna, a meno che la povera vecchietta in quel momento non portasse una borsa piena delle sue azioni. "La polizia di Bloomington è molto contenta di voi, perché la testimonianza del vostro sospetto li ha portati diritti al veicolo a noleggio usato nell'incidente che ha messo in pericolo la vita di quella signora. L'FBI è contento perché lo stesso sospetto ora ha confessato crimini in vari stati e cerca probabilmente di scendere a un compromesso, ma non so quanto gli gioverà. Ci sono varie organizzazioni, di cui né voi né io dobbiamo conoscere l'esistenza, che sono contente a loro volta, per motivi che o non mi dicono o che non sono autorizzato a discutere. E sembra che in questo momento tutto il pianeta sia attraversato da un'ondata generale di benevolenza scatenata a vostro favore." La sua voce era molto asciutta. "È curioso. Persone che normalmente non ti darebbero retta se chiedessi loro che ore sono ci stanno chiedendo di essere clementi con voi." Winters si appoggiò di nuovo allo schienale e li guardò. "Francamente, penso che non capiscano esattamente che cosa avete fatto, in qualche caso, o perché l'avete fatto, in altri casi... ma comunque, alcuni di loro hanno ragione." Leif lanciò un'occhiata a Megan, che stava del tutto immobile e silenziosa. "Stando così le cose", disse Winters, "dubito che sacrificarvi sull'altare dell'obbedienza cieca possa dare qualche vantaggio a qualcuno. Preferisco lasciare aperta la possibilità che un giorno, magari, possiate essere assunti fra... com'è l'espressione che vi ho sentito usare? 'i grandi'?"
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Megan si contorse e lo stesso fece Leif. "Lei legge il pensiero?" gli chiese all'improvviso Megan. Winters la guardò, alzò un sopracciglio, poi disse: "Di solito no. Mi viene il mal di testa. Le facce sono più che sufficienti. Per tutto il resto..." Winters alzò le sopracciglia, si risistemò sulla poltrona, spostò un po' di lato la relazione. "Una cosa che dovete imparare, nell'eventualità che arriviate a lavorare con i 'grandi', nell'eventualità che arriviate anche voi a raggiungere quello stato beato, è che il vostro lavoro all'interno di una squadra non ha necessariamente l'obiettivo di 'essere nel giusto', e che c'è una sottile, sottilissima differenza fra 'essere nel giusto' e 'avere ragione'. Quest'ultima condizione può essere fatale. La distanza fra le due cose è sufficiente a farvi ammazzare, o a far ammazzare il vostro partner, o a far ammazzare qualche persona innocente che vi sta intorno." Si rivolse a Megan. "Che cosa sarebbe successo se tuo padre fosse uscito di casa nel mezzo di quell'attacco, qualche giorno fa? Che cosa sarebbe successo se uno dei tuoi fratelli ci si fosse trovato casualmente coinvolto?" Megan stava fissando ancora il pavimento, il viso in fiamme. "Va bene", disse Winters. "Non ho intenzione di andare avanti ancora su questo punto. Sembra che tu sia almeno vagamente cosciente delle conseguenze. Ma allo stesso tempo, la domanda vale anche per te." Si rivolse a Leif. "Tu eri il successivo nella lista. Aveva l'indirizzo della tua scuola. Ti avrebbe trovato là. Avrebbe tentato di rapirti, e probabilmente ci sarebbe riuscito, nel qual caso ti avremmo trovato in una fossa da qualche parte, o in un fiume, oppure avrebbe tentato di farla finita con te subito. Avrebbe potuto farlo in molti modi diversi, e ci sono molte possibilità che avrebbe potuto uccidere 'accidentalmente' anche qualcuno dei tuoi compagni di scuola. E la responsabilità sarebbe stata tutta tua." Anche Leif cominciò a provare un profondo interesse per il tappeto. "Un giorno può darsi che capiti a voi", disse Winters. "Tutto quello che posso offrirvi, per il momento, è come vi sentite adesso: questa vergogna, questo senso di colpa, questa paura. Tutto quello che posso fare è dirvi che è infinitamente meglio di quello che sentirete quando, perché non avete ubbidito a un ordine, uno dei vostri
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compagni cade nell'adempimento del suo dovere. Una morte senza senso: o qualcosa di peggio della morte." La stanza era avvolta nel silenzio totale. "E a proposito di questo", disse Winters, piegandosi nuovamente un po' in avanti, "la vostra amica Ellen..." "Elblai! Come sta?" disse Megan. "Ha ripreso conoscenza questa mattina", rispose Winters. "Le è stato raccontato quello che è successo: evidentemente ha insistito per saperlo. Dicono che si riprenderà bene. Ma sembra che sia proprio irritata a proposito di qualche battaglia a cui è mancata con questo..." Si piegò in avanti sulla scrivania, guardò un altro dei fogli della pila. "Questo personaggio 'Argath'. Che, incidentalmente, si è rivelato completamente estraneo al caso." "Lo avevamo pensato", disse Leif. "Sì, è vero. Il che è interessante, vista la quantità molto limitata di dati che avevate a disposizione. Ma anche le intuizioni hanno un posto nel nostro genere di lavoro, non solo l'hardware... e saper cavalcare a briglia sciolta un'intuizione è sicuramente un talento che possiamo sfruttare." "Perché l'ha fatto?", chiese Megan. "Chi? Ah, vuoi dire il signor Simpson dalle molte identità?" Winters si ridistese sulla poltrona. Senza quasi preavviso, in un angolo dell'ufficio di Winters comparve un uomo seduto su una sedia. L'uomo aveva la divisa dei prigionieri, una semplice tuta blu, e la stessa espressione fredda che Megan aveva visto sul suo volto mentre le puntava addosso un'arma. Si trattenne a malapena dal rabbrividire. "Io non vinco mai", diceva l'uomo, con una voce piatta che corrispondeva al viso senza emozioni, e Megan fu felice che durante l'attacco non le avesse rivolto la parola. Sembrava un robot, in quel filmato olografico. "Voglio dire, non vincevo mai. Ma adesso, a Sarxos... vinco sempre. Nessuno è furbo come me. Nessuno conosce la strategia come me." "Specialmente quando interpretavi tutti quei personaggi diversi", disse una voce tranquilla, fuori campo, probabilmente uno psichiatra. O un programma psichiatrico, pensò Megan.
Tom Clancy & Steve Pieczenik 159 1999 - WarGame Mortale
"Come avrei potuto altrimenti essere tutte le persone che sono? Come avrebbero potuto vincere tutte, altrimenti? Non solo io", disse Simpson. "Io posso essere il principale... ma vincere, vincere è così importante. Mio padre lo diceva sempre, 'non importa come giochi, l'unica cosa che importa è se vinci o perdi'. Poi è morto..." Solo in quel momento il suo viso dimostrò qualche emozione: un lampo di rabbia pura del tutto incontaminata dalla maturità o dall'esperienza. Si sarebbe detto che appartenesse a un bambino di tre anni che stava per buttarsi per terra per un capriccio su grande scala, con tanto di urla, fino a diventare cianotico. Solo che il bambino di tre anni in realtà aveva ormai superato la quarantina. "Ho vinto un sacco di volte", riprese la voce, nuovamente tranquilla, ricucitasi sul volto senza smagliature quella maschera senza emozioni, "e avrei continuato a vincere. Tutti i miei vincevano, tutte le persone che sono dentro. E io vincerò ancora, un giorno, anche se adesso sono fuori dal gioco. Prima o poi, vincerò di nuovo..." La figura sulla sedia scomparve, e Megan e Leif rimasero a guardarsi a vicenda con una combinazione di pietà, paura e repulsione. "Non usiamo più l'espressione 'matto come un cavallo'", disse Winters, "ma se la usassimo ancora direi che questo tipo è un buon candidato per questa descrizione. Ci vorrà un bel po' di tempo perché i terapeuti riescano a raggiungere il fondo dei suoi problemi... ma direi che un disturbo da personalità multipla fa parte del quadro clinico, complicato dall'incapacità di distinguere la realtà dal gioco... o di capire che un gioco è per giocare." Nella stanza ricadde il silenzio. Winters sospirò. "Va bene, voi due. Non vi butterò fuori dagli Explorers, più che altro perché odio sprecare della materia grezza che ha qualche valore. E voglio sottolineare la parola 'grezza'." Li guardò entrambi, ed entrambi abbassarono nuovamente lo sguardo sul tappeto, con il volto in fiamme. Ma Leif rialzò la testa. "Grazie." "Sì", disse Megan. "Per il resto... se in un prossimo futuro troveremo una faccenda che sia adatta per i vostri talenti speciali di ficcanaso, la vostra incapacità di accettare una risposta negativa, la persistenza irritante, e il vostro ragionare contorto..." sorrise, "sarete i primi ad avere mie notizie. Ora
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andatevene e preparatevi per la conferenza stampa. Sarà meglio che entrambi abbiate il buon senso di comportarvi come piccoli e modesti Net Force Explorers, altrimenti, per Dio, io..." Sospirò. "Non importa. Avete visto che cosa mi avete combinato? Tutta una mattina di contegno serio andata in fumo. Fuori, fuori di qui alla svelta." Si alzarono. "E prima che ve ne andiate", disse Winters, "solo questo. Non c'è niente di più tragico che credere che una menzogna sia la verità. Pensate a tutte le menzogne tragiche da cui avete salvato il mondo. Anche con tutte le altre cose che avete sbagliato e che avete fatto male... questa è una cosa di cui potete essere orgogliosi." Si girarono e uscirono, lanciandosi a vicenda un rapido sorrisetto... ben attenti a non farlo vedere a Winters. "Ah, e un'ultima cosa." Si fermarono sulla soglia, e si guardarono alle spalle. Winters stava scuotendo la testa. "Che cosa diavolo è un 'Balk il Cavatappi'?" Altrove, in una stanza senza finestre, tre uomini in doppiopetto si stavano guardando a vicenda. "Non ha funzionato", disse quello che stava a capotavola. "Ha funzionato", disse un altro, cercando di non sembrare disperato. "Era solo questione di qualche altro giorno. Il primo annuncio ha avuto sulle azioni dell'azienda conseguenze sempre più negative, man mano che i media hanno diffuso la notizia del primo attacco. Qualche altra ora, un altro paio di attacchi, e le notizie successive avrebbe influenzato le loro azioni in modo così drastico che avrebbero dovuto bloccarne la contrattazione. La gente avrebbe abbandonato quell'ambiente a frotte. Cosa più importante, la tecnologia ha funzionato." "Ha funzionato una volta", disse l'uomo a capotavola. "Adesso sanno che esiste. Doveva funzionare e non essere scoperta. Adesso è una causa celebre. Chiunque abbia sentito parlare di questa cosa si metterà a frugare nei suoi database, alla ricerca di tracce di non presenza o di presenza surrogata fra i suoi utenti. Era una finestra di opportunità straordinaria... ma ora si è chiusa." La stanza cadde nel silenzio. "Beh", disse l'uomo che aveva cercato di non sembrare disperato, e non c'era riuscito, "la documentazione necessaria sarà sulla vostra scrivania in mattinata."
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"Non aspettare fino a domani mattina. Falla arrivare entro un'ora. Svuota la tua scrivania e vattene. Se te ne vai adesso, avrò una scusa quando Tokagawa arriverà qui, domattina." Il terzo uomo si alzò e uscì di corsa. "E adesso?", chiese il secondo. Il primo alzò le spalle. "Proviamo in un altro modo", disse. "È un peccato. Questo aveva delle possibilità. Ma sono state avanzate delle proposte per ulteriori possibili vie d'attacco." "Eppure... è un peccato aver perso questo. In un paradigma come questo si sarebbero potute combattere delle guerre. Guerre vere..." "Ma vere solo quanto le rende il software di controllo", disse il primo uomo con il sorriso più tirato e più freddo. "Quello che abbiamo dimostrato è che la tecnologia attuale è insufficiente per quello che abbiamo in mente... non è abbastanza sicura da convincere i nostri clienti a usarli al posto dei campi di battaglia più tradizionali. Non è necessariamente una brutta cosa, però, perché tutti daranno per scontato che, quando arriverà la prossima ondata di tecnologia, sarà a prova di bomba. E ovviamente non lo sarà. Saremo ancora lì, a predisporre le nostre 'porte di servizio'. E sin dall'inizio del processo, questa volta, invece di cominciare a metà. Grazie a questo insuccesso saremo più furbi. E quelli fra noi che non saranno più furbi dovranno svuotare le loro scrivanie." Guardò il secondo uomo. "E dove sarai tu?" "Se non ti dispiace", disse il secondo, alzandosi per uscire, "devo fare una telefonata." Quando fu uscito, il primo uomo rimase seduto a riflettere. Oh, beh. La prossima volta... perché quello che l'uomo può inventare, un altro uomo può smontare e falsificare, e in tutti i giochi c'è sempre il modo di barare, se li si studia abbastanza. La prossima volta di sicuro... Agli estremi confini di Sarxos, dicono le leggende, c'era un luogo segreto. Aveva molti nomi, ma quello usato più spesso era anche il più breve: la Casa di Rod. Alcuni sarxoniani, saliti sulle cime più alte delle montagne nordorientali del Continente Settentrionale, guardando verso ovest nelle giornate di tempo più bello, sostenevano di averlo visto là: un'isola da sola, un picco enorme e isolato nelle acque selvagge,
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lontano nel Mare del Tramonto. I racconti su quel luogo non mancavano certo, anche se era improbabile riuscire a trovare qualcuno che fosse stato là. Le anime dei buoni si recavano là, dicevano alcuni dei racconti, e vivevano in completa beatitudine per sempre con Rod; altri racconti dicevano che Rod stesso ci andava, nei fine settimana, e guardava il mondo che aveva fatto, e lo trovava buono. Pochi sapevano che cosa ci fosse di vero in quei racconti. Ma Megan e Leif adesso lo sapevano. Era un castello. Più o meno, era inevitabile. Ma la somiglianza finiva subito, perché il posto sembrava fosse stato progettato da un architetto che aveva avuto un incubo sullo Schloss Neruschwanstein e aveva cercato di creare una copia in un incrocio fra antico assiro e tardo rococò. Tutto attorno erano disposti giardini verdi, con aiuole organizzate con gusto, piene di asfodeli. C'era una piccola spiaggia bianca a cui si poteva attraccare con una nave. Si diceva che gli Elfi amassero farvi tappa, sulla strada verso l'Ovest. "Il Vero Ovest, però", disse Rod, divertito. "Questo è il Falso Ovest. Se vuoi quello vero, devi continuare per la tua via, direttamente fuori del pianeta, piegare a destra alla seconda luna e poi avanti diritto, non puoi mancarlo." Dal corpo principale del castello si alzava verso il cielo un'alta torre, con un terrazzo rivolto a est. Tutte le finestre del castello guardavano a est. Tutta Sarxos si trovava da quella parte, le montagne che si perdevano nelle nuvole e i mari, i laghi, il luccicare lontano delle nubi che riflettevano il sole al tramonto... "Bella vista, vero?", chiese una voce alle spalle di Megan. Si girò e annuì a Rod, che teneva in mano una lattina di cola e guardava fuori dalla finestra al di là di lei. "Abbiamo dei tramonti splendidi, qui", disse, "ma li si può vedere solo dalla torre." "Motivi personali?" chiese Megan. Rod sembrava rassegnato. "Dell'architetto, forse. Questo posto è stato progettato dalla mia ex moglie. Lei lo chiamava una 'caratteristica'. A me sembra invece una seccatura. Penso che volesse solo essere sicura che io facessi molto esercizio fisico." "Ci vuole molto per arrivare fino in cima?" "Il numero tradizionale di scalini", disse Rod, "trecentotrentatré. Per questo ho fatto mettere l'ascensore." Rise.
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Anche Megan rise, girandosi a osservare tutte le persone riunite nella grande stanza del primo piano. Nessuno rifiutava un invito a un party come quello! C'erano in giro molti dei giocatori "estinti" che in un modo o nell'altro erano morti nel corso del gioco, e tutti i giocatori che erano stati espulsi. Shel Lookbehind era in piedi non molto lontano dalla tavola del buffet, e stava felicemente discutendo di ricostruzione del terzo mondo con Alla. C'era Elblai, che chiacchierava amichevolmente con Argath, che non aveva mai incontrato in precedenza in carne e ossa. "Io sono la cara estinta onoraria", stava dicendo allegramente, "e credimi, non m'importa..." C'erano anche alcuni dei fortunati viventi di Sarxos. Alcuni non capivano molto bene perché ci fossero anche Megan e Leif, ma non avevano intenzione di essere curiosi. Alcuni, il personale di assistenza di Sarxos, oppure amici di Rod, lo sapevano, o almeno avevano qualche sospetto, e tenevano la bocca cucita. "Non posso pubblicizzare troppo la cosa", aveva detto Rod a Leif e Megan in precedenza. "Il perché lo sapete. Ci sono persone che si agiteranno. Ma comunque... volevo dirvi grazie." Megan se ne andò all'altro capo della stanza, dove suo padre e sua madre erano in piedi, con i bicchieri in mano, e parlavano animatamente con i genitori di Leif. Quando le si avvicinò, sua madre si guardò intorno con un sorriso che non era affatto duro come avrebbe dovuto essere, vista la discussione che avevano avuto il giorno prima. "Così questo è la causa di tutto, tesoro." "Forse non di tutto, mamma. Ma... queste sono le persone che stavamo aiutando." "Beh..." Sua madre le strofinò una mano sulla testa, un gesto affettuoso a cui Megan reagì immediatamente cercando di rimettersi in qualche modo in ordine i capelli. "Immagino che tu abbia fatto bene..." "Più di questo", disse Elblai, arrivando alle spalle di Megan con la nipote: ambedue sorridevano a Megan. "Volevo ringraziarti ancora per quello che hai fatto. È molto raro che qualcuno si interessi degli altri, e cerchi di aiutarli." "Dovevo", disse Megan. "Tutti e due dovevamo." Guardò Leif, desiderando disperatamente che le fosse di qualche aiuto in quella situazione imbarazzante.
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Ma Leif rimase muto e si limitò ad annuire. "Dovete essere molto orgogliosi di vostra figlia", disse Elblai, e sua nipote, rivolta a Megan: "Mi sento ancora così stupida per non avervi creduto quella sera. Se vi avessi creduto, ci saremmo potuti risparmiare così tanti guai." "Stavi giocando secondo le Regole", disse Megan. "Così vanno le cose. Le Regole sì mettono a posto da sole." "Vero", disse Elblai. "Avete preso un po' di quel sushi, l'omelette? Sono davvero ottimi." "Omelette?" disse il padre di Megan, le lanciò uno sguardo di approvazione e si diresse verso il tavolo del buffet. Megan lo seguì. "Papà..." "Hmm?" "Che cosa stai scrivendo in questo periodo?" Lui sorrise. "È una storia del commercio delle spezie. L'avresti mai detto?" "Non è vero! Mi stai prendendo in giro!" "Certo. Devo vendicarmi in qualche modo." Sogghignò. "Senti, Megan. Sono contento che quello che hai fatto giovedì sera fosse davvero importante. Altrimenti mi avresti sentito. Ma dopo questo, una cosa così importante da rischiare di farsi sparare... Sostengo di avere il diritto di sentire tutta la storia per primo. Va bene?" Lo sguardo che le lanciò era al tempo stesso irritato e profondamente preoccupato, e le riuscì impossibile avercela con lui. "Uh, sì. Sì, papà." "Bene. Nel frattempo, potrai leggere quello che sto facendo quando sarà finito. Un giorno o l'altro della prossima settimana." Si girò con un sorriso. "Imparare l'arte della pazienza non ti farà male." "Entrerò di nascosto nella tua macchina." "Sei libera di provare", disse lui con un sogghigno diabolico e se ne andò a cercare le omelette. Megan andò vicino a Leif, intento a guardare fuori dalla finestra. "Vuoi andare sulla torre?" "Certo, tutti gli altri sono già andati là, a questo punto." Scelsero l'ascensore. Al termine della corsa, si fermò all'altezza di una piccola stanza circolare al di sopra della quale c'era il tetto a punta, fatto come la punta di una candela: sembrava che stesse su da
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solo, senza che nulla lo sostenesse. L'ultima luce del tramonto si stava spegnendo verso occidente. A est, sopra Sarxos, stava salendo la luna, piena e rotonda. La seconda luna saliva da una parte, per così dire "nella corsia di sorpasso", superò progressivamente la prima e si diresse rapidamente verso l'alto nel cielo. Lontano, la luce lunare faceva luccicare le nevi delle montagne nordorientali. Sopra di loro, nel cielo, le stelle cominciarono ad accendersi come fuochi artificiali. Da sotto arrivarono tanti ooh e aah. "Ehi", disse una voce allegra da molto più sotto, sulle scale, "sono le mie stelle. Posso farle sparire, se voglio. Poi ricrescono il mattino dopo, comunque." Lontano, dalla parte orientale, arrivò librandosi una forma alata. Diventò più grande, più grande, ancora più grande in modo incredibile. "Che cos'è quella cosa?", disse Megan. Leif scrollò la testa e rimase a guardare. La forma enorme si avvicinò, sempre più vicina, più vicina, le ali dalle nervature nere come nubi da temporale contro il cielo che si andava facendo sempre più scuro. Subito dopo aver superato la torre virò, guardandoli: un'esperienza come essere osservati da un trasporto spaziale a bassa quota. Il vento provocato dal suo passaggio era una tempesta. Le enormi ali si aprirono in posizione di stallo, sbattendo. Il vento diventò più forte per un attimo, poi diminuì quando il re dei basilischi si abbassò lentamente sul picco della montagna su cui si trovava la Casa di Rod, assicurò la presa e ripiegò le ali. Avvolse la lunga coda sottile attorno alla cima della montagna per avere più presa, e piegò il capo, lungo più di tre metri, per osservare pensosamente Leif e Megan con i suoi occhi brucianti come il sole. Giù nell'acqua, un mostro marino mise il capo sul lungo collo slanciato, seguito dal numero prescritto di nodi, e gridò il suo disprezzo all'intruso. Persi nello stupore e nell'ammirazione, Megan e Leif riuscivano solo a far correre lo sguardo dall'uno all'altro. "Benvenuti nel mio mondo", disse la voce di Rod dietro di loro, "dove chi bara non ha successo." Questa volta, pensò Megan... e rimase in silenzio. FINE
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Ringraziamenti
Vorrei ringraziare le seguenti persone, senza le quali la
realizzazione di questo libro non sarebbe stata possibile: Diane Duane che mi ha aiutato nella revisione del manoscritto; Martin H. Greenberg, Larry Segriff, Denise Little e John Heifers della Tekno Book; Mitchell Rubenstein e Laurie Silvers della BIG Entertainment; Tom Colgan della Penguin Putnam Inc.; Robert Youdelman e Tom Mallon di Esquire; Robert Gottlieb della William Morris Agency, mio agente e amico. Grazie a tutti.
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