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IL MIO AMICO MICHAEL

UN’AMICIZIA ORDINARIA

CON UN UOMO STRAORDINARIO


FRANK CASCIO
con Hilary Liftin
Traduzione di Carmelina Criscenzo
INDICE
PROLOGO
PARTE PRIMA: IL CLUB DELLE TESTE DI MELE
CAPITOLO UNO : UN NUOVO AMICO
CAPITOLO DUE: IL RANCH
CAPITOLO TRE: ADDIO NORMALITA’
CAPITOLO QUATTRO: UN MONDO STRAORDINARIO
CAPITOLO CINQUE: IL SACRIFICIO
CAPITOLO SEI: DUE MONDI
CAPITOLO SETTE :LAVORANDO SU HISTORY
CAPITOLO OTTO: IL QUADERNO DEI DESIDERI
CAPITOLO NOVE: UN NEO PADRE
PARTE SECONDA: FRANK TAYSON E IL SIG. JACKSON
CAPITOLO DIECI: IN CRESCENDO
CAPITOLO UNDICI: SCARPE NUOVE
CAPITOLO DODICI: VITA A NEVERLAND
CAPITOLO TREDICI: CENTO CANZONI
CAPITOLO QUATTORDICI: FRAINTESO
CAPITOLO QUINDICI: QUALCOSA D’INATTESO
CAPITOLO SEDICI: TOCCARE IL FONDO
CAPIYOLO DICIASSETTE: LO SPETTACOLO CONTINUA
CAPITOLO DICIOTTO : INTERLUDIO
PARTE TERZA : IO E MICHAEL
CAPITOLO DICIANNOVE: LUCIDA FOLLIA
CAPITOLO VENTI: INCOMPRESO
CAPITOLO VENTUNO: FALSE ACCUSE
CAPITOLO VENTIDUE: GIUSTZIA
CAPITOLO VENTITRE: RICONCILIAZIONE
CAPITOLO VENTIQUATTRO: L’IMPENSABILE
EPILOGO
Il libro
Tutto è stato detto su Michael Jackson, tranne la verità. Per
la prima volta, uno dei suoi più stretti collaboratori rompe il
silenzio e svela chi era veramente. Frank Cascio l’ha
conosciuto nel 1984, quando era ancora bambino, e da
allora non l’ha più abbandonato; per lui, Michael è stato un
secondo padre, un fratello maggiore, una guida, un
confidente, ma soprattutto un grande amico. Confutando le
innumerevoli dicerie, menzogne e accuse rivolte al Re del
Pop, l’autore racconta venticinque anni di una carriera
straordinaria e controversa: i vertiginosi successi di Bad,
Dangerous e Invincible, le tournée trionfali in giro per il
mondo, il sogno di Neverland, l’ammirazione (e l’invidia …)
dei colleghi ma anche i problemi giudiziari e finanziari,
l’ostilità della stampa e la lunga, dolorosa dipendenza dai
farmaci. L’amico fraterno e – in molti casi – unico confidente
ha conosciuto il lato più intimo e segreto della star, quello
che i giornali hanno volutamente ignorato o manipolato:
l’amore per la contemplazione e la lettura, la trascinante
capacità di divertirsi, la generosità verso chiunque fosse in
difficoltà, il desiderio di formare una famiglia, la devozione
per i figli, il bisogno di legami autentici, la delusione per i
troppi tradimenti, il rimpianto per l’infanzia perduta e il
tentativo di ricrearla da adulto. Perché dietro l’immagine di
divo stravagante e paranoico, si nascondeva un uomo
entusiasta e onesto, fragile e leale, che aspirava a
un’esistenza normale e ha invece dovuto scontare per tutta
la vita la «colpa» di un talento eccezionale. Corredato da,
racconti e aneddoti mai resi pubblici, Il mio amico Michael è
la storia definitiva e toccante della più grande leggenda del
pop.
A Michael, il mio maestro. Grazie per essere stato un padre,
un fratello, un tutore, un amico. Grazie per la più grande
avventura che avrei mai potuto immaginare. Ti voglio bene e mi
manchi ogni giorno.
Con tutto il mio amore, Frank
A Paris, Prince e Blanket. Voglio che sappiate che vi
amo, vi adoro tutti e tre. Nascendo avete dato a vostro padre
nuova luce, nuova energia e nuovi obiettivi. Lo avete reso la
persona più felice del mondo. Eravate la cosa più importante
per lui. Siete sempre stati intelligenti, educati e belli come
voleva Michael. Vedervi crescere mi rende felice al posto suo
e vedo lui in ognuno di voi. Spero che la lettura di questo
libro vi regali bei ricordi su vostro padre e sul suo grande
amore per voi. Sappiate che vi sarò sempre vicino.
A Frank «Tookie» DiLeo. Voglio ringraziarti prima di tutto per
aver amato e protetto Michael in tutti questi anni. Ti voleva molto
bene. Mi mancano i nostri pranzi in piscina al Beverly Hilton
Hotel, quando mi raccontavi le tue folli esperienze. Grazie per
avermi fatto da mentore: sei stato come un padre per me. Mi
manchi e ti voglio tanto bene.
Ai fans di Michael Jackson. Scrivendo questo libro era mia
intenzione mostrarvi un lato nascosto di Michael che forse
conoscete o forse no. Spero che possiate apprezzare l’essere
umano che c’era dietro il suo enorme talento. Per più di
venticinque anni io e la mia famiglia abbiamo avuto la fortuna di
guardare il mondo dalla sua prospettiva. E visto con gli occhi di
Michael, il mondo è un posto molto diverso. Lui era l’innocente.
Abbiamo avuto tutti la fortuna di godere della sua presenza in
questo mondo. Lui non era solo il mio amico Michael, era il
nostro amico Michael
PROLOGO
Mentre guidavo per le stradine di Castelbuono in Sicilia, accesi
il cellulare. I messaggi cominciarono a scorrere, uno dopo l’altro,
così velocemente da non poterli leggere. Frammenti di frasi
come «È vero?» e «Stai bene?» comparivano sullo schermo
ammucchiati l’uno sull’altro, carichi di domande e di
preoccupazione. Non avevo idea di che cosa stessero parlando,
ma sapevo che non erano buone notizie.

A Castelbuono, il luogo di provenienza della mia famiglia, molti


possiedono due case: una in Paese, dove lavorano, e un rifugio
estivo sulle colline, dove curano l’orto e coltivano i fichi. Avevo
trascorso la serata nella casa estiva dell’uomo che mi aveva
affittato un appartamento. Ero stato invitato a cena, insieme con
altre sei o sette persone, ed io ero l’ospite d’onore: a
Castelbuono arrivare da New York è una ragione più che
sufficiente per avere diritto a un caldo benvenuto.

Era il 25 giugno 2009. Non eravamo molti ma in tavola c’erano


cibo e vino in abbondanza, come in ogni cena che si rispetti.
Spensi il cellulare. Avendo trascorso anni legato al telefonino, ho
cominciato ad amare quei momenti in cui le buone maniere mi
costringono a tenerlo spento. Con gli altri ospiti mi attardai nella
notte mite e finalmente, dopo aver salutato il padrone di casa,
intorno a mezzanotte, mi diressi con alcuni amici verso la casa
che avevo affittato, seguendo la macchina di mio cugino Dario,
attraverso le difficili stradine alla volta della città.
Mentre il fiume di messaggi inondava il mio telefono, la
macchina di Dario deviò all’improvviso sul lato della strada e si
fermò bruscamente. Appena lo vidi accostare, seppi che ciò che
stavo iniziando a intuire doveva essere vero. Inchiodai dietro a
Dario, che nel frattempo correva verso di me gridando: «Michael
è morto!».
Scesi dall’auto e cominciai a camminare lungo la strada, senza
meta. Ero completamente stordito. Scioccato.

Non so quanto tempo passo prima che finalmente chiamassi


Karen Smith, una delle impiegate più fedeli di Michael. Era una
trovata di Michael? Uno scherzo alla stampa o un grottesco
escamotage per saltare un concerto? Purtroppo Karen confermò
che quanto avevo sentito era vero. Piangemmo insieme al
telefono. Non dicemmo molto. Piangemmo e basta.

Dopo aver riattaccato, continuai a camminare. Gli amici erano


rimasti in macchina ad aspettarmi. Mio cugino mi seguiva
dicendo: «Frank, sali in macchina. Dai Frank». Ma io non volevo
nessuno intorno.
«Ci vediamo a casa», gridai mentre mi allontanavo da loro.
«Voglio solo che ve ne andiate tutti.»

E così rimasi solo. Camminai su e giù lungo il selciato, sotto i


lampioni, fino a tarda notte. Michael, che era un padre, un
mentore, un fratello, un amico. Michael, che era il centro del mio
mondo da tanto tempo. Michael Jackson se ne era andato.

Lo avevo incontrato per la prima volta quando avevo cinque anni


e non passo molto tempo prima che diventasse un amico intimo
di famiglia che veniva a casa nostra nel New Jersey e
festeggiava il Natale con noi. Da bambino ho trascorso molte
vacanze a Neverland, sia con il resto della famiglia sia da solo.
Da adolescente l’ho accompagnato, insieme con mio fratello
Eddie, nel tour Dangerous.

A diciotto anni, avendo avuto sempre Michael come guida e


amico, sono andato a lavorare per lui, prima come suo
assistente, poi come manager personale. A essere onesti, la mia
posizione non aveva un vero e proprio titolo, ma era comunque
sempre qualcosa di «personale». Sono stato io a ideare uno
special televisivo per celebrare i suoi trent’anni nel mondo dello
spettacolo. Gli sono stato vicino quando preparava l’album
Invincible.
E la seconda volta che Michael fu accusato falsamente di
molestie sui bambini fui io a essere indicato come co-cospiratore
non imputato. La pressione esercitata da quel processo fu tanta.
Per quasi tutta la mia vita, fino alla morte di Michael (oltre
vent’anni in tutto) sono stato con lui, in un modo o nell’altro,
attraverso alti e bassi, lotte e trionfi, sempre come confidente e
amico intimo.

Conoscerlo è stata un’esperienza ordinaria e straordinaria al


tempo stesso. Ho capito subito (o quasi, d’altra parte avevo
appena cinque anni), che Michael era speciale, diverso, un
visionario. Quando entrava in una stanza, incantava tutti i
presenti. Ci sono tante persone speciali a questo mondo, ma
Michael aveva qualcosa di magico, come se fosse stato toccato
da Dio. Ovunque andasse, suscitava emozioni. I suoi concerti.
La sua Neverland. Le sue avventure notturne nelle metropoli più
remote. Intratteneva stadi pieni di gente e m’incantava.

Nello stesso tempo era invece una presenza normale e scontata.


Certo, apprezzavo sempre i momenti che condividevamo, ma
non l’ho mai guardato come una superstar. Era il mio amico, la
mia famiglia. Ero consapevole che non stavo vivendo una vita
normale, almeno se la paragonavo a quella dei miei amici; non
era una vita normale, ma per me lo era.

Non fu un caso che quando seppi della morte di Michael scappai


lontano da amici e parenti. Fin dall’inizio avevo mantenuto la
relazione con Michael solo per me; la sua fama richiedeva che i
suoi amici fossero discreti. Da bambino era abbastanza facile.
Avevo una vita nel New Jersey: andavo a scuola, giocavo a
pallone, apparecchiavo di tanto in tanto i tavoli o cucinavo nel
ristorante dei miei; e ne avevo un’altra con Michael, piena di
avventure. Le due vite non s’incrociavano mai. Ho sempre fatto
del mio meglio per tenerle distinte.

Quando iniziai a lavorare per lui, fui trasportato in un mondo a


parte, separato, e la mia vita passo in secondo piano. Non
parlavo di quello che accadeva sul lavoro, né di ciò che si
doveva fare ogni giorno, né dei momenti più bui delle false
accuse e del folle spettacolo dei media, né dei momenti gioiosi
trascorsi ad aiutare i bambini e a fare musica.
Naturalmente, vivere nel mondo di Michael era un’opportunità
rara e speciale, ed ecco perché rimanevo lì. Però, senza
rendermene conto, la discrezione ebbe ripercussioni su di me.
Fin da piccolo mi ero allenato a non parlare liberamente.

Tenevo tutto dentro, soffocavo la maggior parte delle mie


reazioni ed emozioni, non ero mai aperto e libero al cento per
cento. Non che mentissi. Salvo, lo ammetto, quando lavoravo per
Michael e dicevo in giro che ero un venditore porta a porta della
Tupperware e che ero orgoglioso della qualità della plastica che
vendevo, oppure che la mia famiglia veniva dalla Svizzera e
operava nel settore della cioccolata. Con gli amici e la famiglia
non mentivo mai, ma quando si parlava delle mie esperienze con
Michael sceglievo con cura le parole. Lui era una persona
riservata, come me.

Non volevo attirare l’attenzione o essere considerato in modo


diverso dato il nostro rapporto, né tantomeno volevo essere fonte
di pettegolezzi sul suo conto. Di quelli ce n’erano già in
abbondanza. Parlare è rivelare. Per me parlare liberamente è
ancora così: penso e ripenso sempre prima di dire qualcosa.

Nel corso del nostro rapporto Michael ha svolto molti ruoli. È


stato un secondo padre, un insegnante, un fratello, un amico, un
bambino. Guardandomi, vedo il modo in cui le esperienze con
Michael hanno formato e plasmato ciò che sono, nel bene e nel
male. Era il migliore insegnante del mondo, per me
personalmente e per molti dei suoi fans. All’inizio ero una
spugna. Condividevo e facevo miei tutti i suoi pensieri e le sue
opinioni. Da lui ho imparato il valore della tolleranza, della lealtà
e della sincerità.

Crescendo, il nostro rapporto si è evoluto e ho iniziato a vedere


con chiarezza che non era perfetto. Divenni una specie di
protettore, aiutandolo nei momenti più difficili. Ero sempre lì
quando aveva bisogno di un amico; per parlare, per pensare e
concepire idee o solo per un sostegno. Michael sapeva di poter
contare su di me.

Quando avevamo un po’ di tempo libero ci rilassavamo nel ranch


di Neverland, la sua fantastica tenuta di circa mille ettari vicino a
Santa Barbara: era una casa/parco divertimenti/zoo/rifugio.
Talvolta mi chiedeva se potevamo semplicemente prendere
qualche film, rimanere in casa e «puzzare» (Michael aveva una
predilezione per gli scherzi infantili riguardo agli odori corporali).

Una di quelle sere, mentre il sole stava per tramontare, mi disse:


«Vieni, Frank. Andiamo in montagna». Neverland è adagiata
nella valle di Santa Ynez ed è circondata dalle alture. Chiamava
la più alta Mount Katherine, dal nome di sua madre. Nella tenuta
c’erano diversi sentieri che portavano alle cime, dove i tramonti
erano straordinari. Prendemmo uno di quei sentieri con una golf
cart, ci sedemmo e osservammo il sole fiammeggiare dietro le
montagne, lasciandole avvolte in un’ombra purpurea. Fu lì che
finalmente capii «la maestà delle montagne di porpora» di
America the Beautiful.

Ogni tanto gli elicotteri volavano sulla tenuta nel tentativo di


rubare qualche scatto; un paio di volte ci videro sulle montagne e
noi scappammo, nascondendoci tra gli alberi. Ma quella sera
tutto era immobile. Michael rifletteva e iniziò a parlare delle
dicerie e delle accuse che lo tormentavano. Il tutto gli sembrava
ridicolo e triste. Dapprima disse che riteneva di non dover
spiegare niente a nessuno, ma poi il suo tono cambiò.

«Se la gente sapesse come sono davvero, potrebbe capire»,


esclamò con la voce velata di speranza e di frustrazione.
Rimanemmo in silenzio per un po’, entrambi con il desiderio di
trovare un modo con cui lui potesse rivelarsi e far capire alla
gente veramente chi era e come viveva.

Mentre rimugino sulle origini di tutta la storia, penso spesso a


quella notte. Le persone hanno paura o sono intimidite da ciò
che non capiscono. La maggior parte di noi opta per una vita
«comune». Facciamo quello che i genitori o altri modelli intorno a
noi hanno fatto. Seguiamo un sentiero sicuro, comodo, già
battuto. Non è difficile trovare altre persone che conducono una
vita simile a quella che abbiamo scelto. Questo non era vero per
Michael. Fin dall’inizio, prima con la sua famiglia e poi da solo,
aveva battuto un sentiero del tutto originale. Innocente e infantile
com’era, era anche un uomo complicato. Era difficile capirlo
perché non si era mai visto uno come lui e, con tutta probabilità,
non lo si vedrà mai più.
La vita di Michael si è conclusa all’improvviso e
inaspettatamente. E quando è successo, il mondo non lo aveva
ancora capito. Michael Jackson la superstar, il Re del Pop, sarà
ricordato a lungo, molto a lungo. La sua opera rimarrà viva, a
testimonianza del profondo e potente legame con milioni di
persone, ma in qualche modo l’uomo è stato oscurato e perso
dietro la leggenda.

Questo libro è su Michael Jackson uomo. Il mentore che mi ha


insegnato a costruire il «quaderno dei desideri». L’amico che
amava viziare gli animali. Il burlone che si travestiva
meticolosamente e si fingeva un prete disabile sulla sedia a
rotelle. Il filantropo che cercava di essere magnanimo e
generoso nella vita privata come in quella pubblica. Il vero
essere umano. Voglio che Michael sia visto come lo vedevo io,
compreso in tutta la sua bellezza: sciocca, amabile, provocatoria
e imperfetta.

La mia più grande speranza è che, leggendo questo libro,


possiate dimenticare tutti gli scandali, i pettegolezzi, gli scherzi
crudeli che hanno caratterizzato gli ultimi anni della sua vita e
possiate conoscerlo attraverso i miei occhi. Questa è la nostra
storia.

La storia di un ragazzo cresciuto con una persona a cui è


successo di avere uno dei volti più conosciuti al mondo. È la
storia di un’amicizia ordinaria con un uomo straordinario. È
iniziata con semplicità, si è trasformata e si è evoluta mentre noi
crescevamo e cambiavamo; ha lottato per rimanere salda
quando la gente e le circostanze ci venivano contro … e
soprattutto ha resistito. Michael era un essere raro. Voleva
offrire generosità al mondo.
Voglio condividerlo con voi.

PARTE PRIMA

IL CLUB DELLE
TESTE DI MELA
CAPITOLO UNO - UN NUOVO AMICO
Era una fredda giornata d’autunno, ed io avevo cinque
anni. Ero seduto nel soggiorno di casa con una limousine
giocattolo; ero ossessionato da quella macchinina come
soltanto un bimbo di cinque anni sa esserlo, e quando mio
padre mi annunciò che quel giorno sarei andato al lavoro con
lui per incontrare un suo amico, la mia prima preoccupazione
fu quella di poter portare con me il mio giocattolo, che tenevo
ben stretto nella mano.
Non avevo mai sentito parlare di Michael Jackson, perciò quando
mi fu detto il nome della persona che dovevamo vedere non me
ne interessai affatto. Ero solo felice di uscire di casa e fiero di
accompagnarlo al lavoro. Mi bastava avere con me la mia
piccola limousine.

Di sicuro all’epoca non avevo idea di quanto sarebbe stato


importante quell’incontro: un punto di svolta nella mia vita.
Eppure, per qualche ragione, ricordo perfettamente quella
giornata, compreso ciò che indossavo: pantaloni blu scuri, un
maglione blu, un papillon e mocassini marroni con piccoli buchi
sulla punta. Non si può dire che fosse il tipico abbigliamento di
un bambino di cinque anni, per lo meno a quell’epoca. Un bimbo
elegante, alla moda e innamorato delle limousine.

A quel tempo mio padre lavorava all’Helmsley Palace Hotel di


Manhattan, un esclusivo cinque stelle con clientela d’élite. Era il
direttore delle torri e delle suite, l’ala extralusso riservata ai VIP.
Per me l’albergo era sempre stato un posto magico.

Sentivo vibrare nell’aria un’energia particolare sprigionata dalle


persone che passavano di lì, ciascuna con il proprio scopo, unico
e grandioso. A quel tempo non potevo capire tutto quello che
accadeva ma comunque riuscivo a percepire l’eccitazione che
pervadeva l’aria. Ancora oggi ricordo l’odore della hall e
l’entusiasmo che mi provocava. Adoro gli alberghi.

Mio padre ed io prendemmo l’ascensore e ci dirigemmo verso


una stanza. Davanti alla porta venne a salutarci un uomo che poi
scoprii essere Bill Bray, il manager e capo della sicurezza di
Michael Jackson in quel periodo. Bill Bray rappresentava per
così dire un secondo padre: aveva lavorato con lui dai tempi
della Motown e continuò a essere il suo fidato consigliere per
molti anni. Era un afroamericano con la barba, alto quasi un
metro e novanta, e quel giorno sul capo portava un Borsalino.
Aveva il collo massiccio e un certo fascino «rustico». Negli anni a
venire avrei visto spesso Michael camminare dietro di lui
imitandone l’andatura rilassata. Salutò mio padre con calore. Mi
parve di capire che fossero amici.

Bill ci condusse nella camera. Era intatta, come se non ci fosse


stato nessuno. Infatti, conoscendo in seguito le abitudini di
Michael, era chiaro che non era la sua suite: aveva preso quella
stanza appositamente per il nostro appuntamento, perché non ci
conosceva abbastanza bene da invitarci nella sua vera camera.
Anche se entrava spesso in contatto con persone, creava
sempre livelli di protezione tra se stesso e coloro che incontrava.
Michael si alzò e venne a salutarci. Non mi sembrò una persona
eccezionale. A cinque anni, l’unica distinzione che facevo era tra
grandi, bambini grandi e bambini piccoli come me.

«Ehi Joker», disse Bill, «sono arrivati Dominic e suo figlio.»


Avrei poi capito che Bill chiamava Michael «Joker» per l’ovvia
ragione che faceva sempre scherzi. Michael mi fece un gran
sorriso, si tolse gli occhiali da sole e mi strinse la mano. Aveva
ventisette anni ed era una star di fama mondiale; il suo ultimo
album, Thriller, era il disco più venduto di tutti i tempi, record che
detiene tuttora, al momento della stesura di questo libro.

Bill Bray ci lasciò soli a chiacchierare, in quella stanza piuttosto


vuota.
«Hai un padre meraviglioso», mi disse Michael. Lo avrebbe
ripetuto molte volte nel corso degli anni, e oggi so che è proprio
grazie all’impressione positiva suscitata da mio padre che volle
incontrare il resto della famiglia. Le persone si sentono subito a
proprio agio quando sono con mio padre. Irradia onestà e
sincerità d’animo.
Cominciammo a parlare di cartoni animati. Gli dissi che mi
piaceva Braccio di Ferro ed ebbi l’onore, se così si può dire, di
presentargli gli Sgorbions, di cui mio fratello ed io
collezionavamo le figurine. Michael sapeva come parlare ai
bambini, era realmente interessato al mio piccolo mondo e deve
avermi conquistato poiché ricordo che giocavo con la mia
macchinina sulla sua testa, sulle spalle e la facevo scendere
sulle sue braccia. Lui la prese e la fece volare sulla mia testa,
imitando il rumore dell’aeroplano.
«Cosa vuoi fare da grande?» mi chiese.
«Voglio essere come Donald Trump», dissi, «ma con più soldi.»
Mio padre si mise a ridere. «Ci credi?» chiese.
«Donald Trump non ha così tanti soldi», rispose Michael.
Poi mio padre volle fare una fotografia a me e a Michael. Gli salii
in braccio cingendogli il collo. Sorrisi e scattammo. E questa è
stata la prima volta che ho incontrato Michael. Anni dopo,
avrebbe mostrato in giro quella foto: «Ci crederesti che è
Frank?» A ripensarci oggi, la spontaneità rilassata dell’immagine,
con i nostri sorrisi e un ricciolo scuro sulla fronte di Michael,
prediceva l’importanza che quell’incontro rivestì per me.

Quel giorno trascorremmo quasi un’ora assieme. Congedandoci,


disse che al suo ritorno a New York ci avrebbe chiamato e che
gli avrebbe fatto molto piacere rivederci. Sulla via del rientro, mio
padre mi lanciò un’occhiata dal sedile anteriore e disse: «Non
immagini neanche chi hai appena conosciuto».

Questo primo incontro ebbe luogo grazie alla simpatia che


Michael nutriva per mio padre: tutte le volte che soggiornava al
Palace Hotel mio padre si occupava di lui. Era il suo lavoro, e lo
faceva bene. Si assicurava che fosse disponibile la sua suite
preferita. Se Michael voleva una pista da ballo in camera, si
preoccupava di fargliela trovare; quando chiese di conoscere
Gregory Peck, ospite dell’albergo, mio padre riuscì ad
accontentarlo. Supervisionava la sicurezza ed era attento anche
alle più piccole richieste, come quelle alimentari. Si faceva in
quattro per far sì che Michael avesse tutto ciò che voleva o che
gli serviva.

Michael sapeva che mio padre provvedeva a tutte queste cose e


alla fine disse a Bill Bray che voleva incontrare Dominic. Bill fece
sì che potessero passare un po’ di tempo insieme. Conoscendosi
meglio, mio padre trovò Michael estremamente affettuoso,
simpatico e alla mano. Allo stesso tempo sono certo che lo fece
sentire a suo agio dimostrandogli di non essere attratto dalla sua
celebrità, non era il tipo. La sincerità di mio padre ha sempre
colpito, il suo modo di agire ne riflette il pensiero: considera le
persone come tali, ascolta senza giudicare e aiuta senza
chiedere niente in cambio.
Un atteggiamento raro nel mondo di Michael, che cominciò a
considerare mio padre come un amico. Non aveva la solita lista
di richieste tipica degli ospiti celebri. Voleva parlare con lui,
conoscerlo come persona, anche se mio padre di solito non
cercava questa confidenza con le star che frequentavano
l’albergo. Fu Michael a iniziare, e certamente mio padre ne fu
lusingato. Poi l’amicizia crebbe e si rafforzò in un duraturo
rapporto di complicità, lealtà e fiducia.
Ovviamente, a cinque anni, il mio primo incontro con Michael non
fu molto significativo. Non avevo idea di chi fosse, non sapevo
niente di Thriller, del moonwalk o dei Jackson Five, e non me ne
sarebbe importato nulla se qualcuno me ne avesse parlato. Non
mi interessava molto la TV né la musica, salvo quella che mia
madre metteva in macchina.

Ero un bambino normale che andava all’asilo, a parte il fatto che


ogni tanto indossavo il papillon. Con il mio amico Mark
Delvecchio costruii un fortino vicino alla strada, e schizzavamo le
macchine che passavano con le pistole ad acqua. Mi piaceva
giocare a calcio, andare nei boschi, salire sugli alberi e
sporcarmi. Adoravo stare all’aria aperta. Ero semplicemente
libero e felice. Preferivo le persone che si dimostravano
interessate alle cose che facevo. Non avevo preconcetti né
esprimevo giudizi. Michael era un amico di mio padre, più grande
di me di molti anni, ma quando mi parlava non era come un
adulto che parla a un bambino. Era un amico che conversa con
un amico. Giocavamo, e per molto tempo questa fu la base su
cui si fondava la nostra amicizia.

Due o tre settimane dopo il nostro primo incontro mio padre portò
di nuovo tutti quanti noi in albergo a trovare Michael: io, mio
fratello Eddie e mia madre, che era incinta. Queste furono le
uniche due volte che lo vidi prima di quella notte a casa nostra a
Hawthorne, nel New Jersey; quando suonò il campanello io ero a
letto da un bel pezzo. Hawthorne è una cittadina modesta e la
nostra casa era piccola. Nella cameretta che dividevo con mio
fratello c’erano due lettini separati da un armadio minuscolo. Mi
ricordo che mi chiesi chi poteva suonare alla porta nel bel mezzo
della notte. Sentii aprire la porta di casa e poco dopo i miei
genitori vennero a svegliarci. C’erano due uomini con loro. Uno
era Bill Bray, l’altro Michael Jackson.
Un visitatore notturno era un evento raro ed eccitante. Io e mio
fratello ci precipitammo giù dal letto a salutarlo e gli facemmo
vedere la nostra bellissima collezione di Cabbage Patch Kids e di
figurine degli Sgorbions. I miei genitori ci dissero poi di mostrargli
cosa avevamo imparato alle lezioni di pianoforte. Non ero
particolarmente bravo, ma strimpellai il tema di Guerre stellari e
Per Elisa. Mio fratello Eddie, che aveva solo tre anni ma era già
più bravo di me, suonò il tema di Momenti di gloria. Michael fu
entusiasta dell’esibizione. Forse è esagerato dire che già
all’epoca riconobbi in lui qualcosa di diverso, qualcosa che lo
distingueva dagli altri adulti che conoscevo, ma quando tornò la
volta successiva gli regalai una delle cose a me più care: la mia
collezione di Sgorbions. All’inizio rifiutò: «Non posso prendere le
tue figurine!» tuttavia io avevo visto quanto gli piacevano e
insistetti. Quello fu il primo regalo che feci a Michael e lui lo
tenne per tutta la vita (tra il disordine di un armadio a Neverland).
Le visite di Michael divennero sempre più frequenti. All’epoca
era in tournée con i Jackson per l’album Victory; veniva perciò
spesso a New York, e non mancò mai di farci visita. Perché?
Perché una persona così presa dal mondo dello spettacolo iniziò
a dedicare parte del suo tempo alla nostra famiglia, una famiglia
così ordinaria? Penso che rappresentassimo ai suoi occhi
qualcosa che, nonostante il successo, lui non aveva e che in un
certo senso avrebbe voluto. Inoltre, l’amicizia con noi gli
consentiva di scappare nella verde tranquillità della periferia del
New Jersey e di vivere, almeno per un po’, una vita normale con
una famiglia normale.
Divertirsi con i bambini e interessarsi a giocattoli e cartoni, non
aveva alcuna implicazione sessuale. Quando Michael stava con
loro, si sentiva bambino anche lui. Era sotto la luce dei riflettori
da tutta la vita, e la gente lo guardava in modo diverso. Ma ai
bambini non importava sapere chi fosse. A me certamente no.

In quella tournée i Jackson tennero tre concerti al Giant Stadium,


e i miei ci portarono a tutti e tre. All’inizio del primo, quando
Michael cominciò a cantare, guardai mio padre e gli chiesi: «È lo
stesso Michael che viene a casa nostra?» Per la prima volta mi
resi conto che c’era qualcosa di davvero singolare in quella
persona simpatica che condivideva la mia passione per i cartoni
animati, per i Cabbage Patch Kids e per i giocattoli in generale.
Sul palco si trasformava, non sembrava più il nostro amico
Michael: era la superstar.

Le notti dei concerti erano lunghe per bambini come noi e i miei
genitori, soprattutto mia madre, lo sapevano; inoltre ottenere dei
posti numerati per un concerto di Michael Jackson non era da
poco, ma i nostri genitori ci tenevano a offrirci la possibilità di
vivere eventi così memorabili. Forse Michael era la popstar più
famosa del mondo, e forse il rapporto con lui li faceva sentire
speciali, ma questi pensieri non influenzavano sicuramente le
loro scelte come genitori. Non erano impressionati da lui. Certo,
era fantastico conoscerlo e trascorrere del tempo insieme,
questo era importante. Ma andare ai concerti e stare con Michael
era quel genere di cose che i miei facevano con le persone cui
volevano bene. Michael per mio padre era speciale, ma non per
la fama e il successo bensì per il suo sorriso, la sua sincerità, la
sua umanità. Era colpito dal fatto che una superstar come lui
avesse stretto amicizia con tutta la nostra famiglia. Mia madre è
una persona schietta e leale, e quando imparò a conoscere
Michael divenne materna e protettiva come avrebbe fatto per
qualsiasi amico caro. Lei era lì per lui; soprattutto, con il passare
del tempo, quando sentì che aveva bisogno in modo particolare
del suo sostegno. I miei genitori erano sempre attivi, la porta di
casa nostra era aperta al mondo e chiunque entrasse trovava
calore e affetto. Erano fatti così. Dominic Cascio, mio padre, era
cresciuto in Italia, tra Palermo e Castelbuono, il Paesello di cui
ho parlato prima, un luogo piccolo e speciale dove le persone
non hanno bisogno di avere tanti soldi per godersi la bellezza
della vita. Amore, famiglia, cibo e religione: ecco ciò che conta a
Castelbuono. So che sembra un po’ uno stereotipo, come quelli
che si trovano in quei film romantici ambientati in Toscana, con il
sole e i bei paesaggi, ma tutto questo esiste davvero. Mio padre
è cresciuto là e, anche se mia madre è nata a Staten Island, la
sua famiglia veniva da Castelbuono.

Alle cene domenicali della mia infanzia partecipavano molte più


persone dei componenti della famiglia, che pure era in rapida
espansione. Anche prima di avere i suoi cinque figli, non era raro
che mia madre cucinasse per venti persone. La nostra casa nel
New Jersey era una specie di albergo: c’erano sempre amici che
venivano a trovarci, stavano a cena, si fermavano giorni,
settimane, anche mesi. Non c’era da stupirsi che mio padre
fosse tanto bravo nel suo lavoro all’Helmsley Palace: erano anni
che Gestiva l’hotel Cascio! I miei genitori erano il cuore della
famiglia, coloro che si preoccupavano di radunare tutti, ciò che di
solito si traduceva in pranzi e cene da consumare allegramente
insieme. La famiglia era la loro priorità ed educarono i figli a
pensarla nello stesso modo.
Penso che Michael riconobbe i nostri valori fin dall’inizio. Capì
che eravamo gente onesta e di cuore, senza particolari desideri
se non vivere tranquilli ed essere felici. Credo che si sia
innamorato della mia famiglia perché noi non lo vedevamo come
una superstar. I miei non ci avevano educato a considerare le
persone in questi termini ; conoscevamo e rispettavamo il talento
di Michael e il suo successo, sapevamo che la fama gli imponeva
un determinato comportamento e per questo ci adattavamo ai
suoi spostamenti inconsueti, pronti a programmi di compromesso
ma senza mutare ciò che eravamo né la nostra opinione su di lui.
Voglio dire che per me, francamente, la cosa più importante era
che fosse un adulto cui piacevano i Cabbage Patch Kids e i
cartoni animati. Chi se ne importa della celebrità.
Per qualche anno fu quello il nostro rapporto. Il campanello
suonava la notte e Eddie ed io sapevo che era Michael. Ci
svegliavamo, correvamo ad abbracciarlo e a mostrargli i
giocattoli nuovi e le cose che avevamo imparato, parlavamo tutti
insieme e lo salutavamo come un parente arrivato da lontano.
Non sono mai stato un dormiglione. Molte volte di notte vagavo
per casa e spiavo i miei genitori alla scoperta del misterioso
mondo dei grandi. Ma ogni tanto crollavo per il sonno.
Dev’essere stata una di quelle notti che non sentii il campanello.
Mi svegliai di soprassalto con davanti uno scimpanzé che faceva
un gran baccano. Pensai – con una lucidità e una calma
sorprendente – di stare ancora sognando mentre guardavo la
scimmia che saltava sul letto di Eddie per svegliare anche lui. Poi
mi resi conto che la stanzetta era affollatissima: c’erano Michael,
Bill Bray, i miei genitori e un altro uomo che conobbi poi come
Bob Dunn, l’addestratore dell’animale. Era mezzanotte passata e
la scimmia che stava terrorizzando mio fratello era il leggendario
Bubbles, l’amato animale da compagnia di Michael.
Con il passare del tempo Michael divenne una presenza sempre
più famigliare ed ebbi così modo di conoscere meglio lui e la sua
musica. Poco dopo averlo incontrato, una volta dissi alla mia
maestra d’asilo, la signora Whise: «So suonare il pianoforte e ora
vi faccio sentire Thriller». Cominciai a pestare sui tasti, sicuro di
impressionare la classe, ma la reazione della signora Whise fu
secca: «Lascia stare il pianoforte o finirai per romperlo!»
Circa un anno più tardi, in prima o seconda elementare, mi
diedero per compito di scegliere qualcosa di significativo a casa
e descriverlo alla classe. Non sapevo cosa portare e mia madre
mi suggerì una foto con Michael. Per me era solo un amico, ma
avevo iniziato a capire che la gente lo considerava in modo
diverso, come la persona che avevo visto sull’enorme palco del
Giants Stadium, con le luci e gli applausi. Così portai a scuola la
foto che era stata scattata durante il nostro primo incontro.
Prima di me un bambino aveva portato in giro per l’aula un
orsacchiotto, lo aveva presentato alla classe e ci aveva
raccontato cos’aveva di speciale per lui. Poi fu il mio turno:
«Questa è una foto di Michael, è un mio amico, è un cantante e
un artista». La maestra, che aveva circa sessant’anni, mi chiamò
alla cattedra e mi chiese di farle vedere la foto. Sembrava un po’
sbalordita.
«È vera?»
«Sì, è vera», risposi.
Allora disse: «Bambini, questo è Michael Jackson, è un cantante
molto, molto famoso». E senza capire bene perché, provai un
moto d’orgoglio.
Una delle attività preferite da Michael quando stava con noi era
aiutare mia madre a pulire la casa. Gli piaceva molto passare
l’aspirapolvere. Ci raccontava che quando era bambino lui e i
suoi fratelli pulivano cantando. Un fratello cantava la prima
strofa, un altro la seconda e il terzo il ritornello («il gancio», come
lo chiamava). Poi qualcuno ripeteva la seconda strofa e qualcun
altro l’inciso. Veniva sempre fuori qualcosa di buono, così
almeno sosteneva … Ho sempre avuto il sospetto che la storia
fosse un modo intelligente per invogliarci a dare una mano.
Mia madre rifaceva i letti e puliva la nostra camera; eravamo un
po’ viziati, e Michael ci esortava sempre ad aiutarla. «Non
immaginate neanche quanto sia speciale vostra madre. Un
giorno capirete.» Ci raccontava che nostra madre, Connie, gli
ricordava la sua, Katherine. Non dimenticherò mai quella volta
che mi arrabbiai con mia madre e le urlai contro. Michael mi
rimproverò duramente: «Non parlare mai a tua madre in questo
modo, mai. Ti ha fatto nascere. Non saresti qui se non fosse per
lei. E darebbe la vita per te. Devi rispettarla». Da italiano, sapevo
cos’era il rispetto filiale, ma sentirlo dire da lui dette
un’importanza nuova al concetto, e presi le sue parole molto sul
serio.
Michael amava la cucina di mia madre. Tutte le volte che veniva
a casa nostra le chiedeva di preparargli il tacchino ripieno con il
purè di patate e la salsa ai mirtilli, che gli piaceva molto. Come
dolce voleva sempre la crostata di pesche: avreste dovuto
sentire come ne parlava, per lui era la fine del mondo.
Mio zio Aldo e mio padre avevano un ristorante che si chiamava
Da Aldo. Quando ci portavamo Michael, mangiavamo in una
saletta privata in modo che potesse stare tranquillo e godersi il
pasto senza avere addosso gli occhi di tutti. Ma sia che
mangiassimo a casa nostra sia da Aldo, stare con lui era un fatto
del tutto naturale. Il buffo era che nessuno di noi ne parlava con
gli altri. Lo amavamo e, allo stesso tempo, lo proteggevamo.
Era uno di noi.
CAPITOLO DUE - IL RANCH
Durante i miei primi anni di scuola Michael faceva visite regolari
(anche se spesso non annunciate) alla nostra casa di
Hawthorne. Nel 1987, quando avevo sette anni, uscì il suo
settimo album, Bad. Michael ce ne aveva inviata una copia in
anticipo: andammo al concerto e guardammo il video Man in the
Mirror su MTV non appena fu lanciato (ed io l’ho rivisto un
milione di volte in seguito, nei tempi gloriosi in cui MTV
trasmetteva video musicali non-stop).
Bad vendette oltre trenta milioni di copie e fu un successo
planetario. Michael era al top del mondo.

Negli anni successivi, ogni volta che ci vedevamo, ci faceva


ascoltare le canzoni su cui stava lavorando, chiedeva la nostra
opinione e si confrontava con noi sui nuovi percorsi musicali che
stava intraprendendo. Quando ricevemmo Dangerous, quattro
anni dopo Bad, notai con sorpresa che alcune delle canzoni che
ci aveva fatto ascoltare non erano state inserite nell’album, come
per esempio un pezzo intitolato «Turning Me Off» e un altro,
«Superfly Sister» (che in seguito fu incluso nell’album Blood on
the Dance Floor ). Dangerous vendette persino più di Bad.
Mentre Michael consolidava il suo successo in tutto il mondo,
imparavo a conoscere sempre meglio la sua musica, mentre tra i
miei amici non era ancora così popolare. Eravamo nella fase in
cui i bambini adottano per lo più i gusti musicali dei genitori, e
quelli dei miei amici non erano appassionati di questo genere di
musica. Per i miei il discorso era diverso: Michael faceva parte
della famiglia, e io ero orgoglioso di ogni suo successo.
Il mio rapporto con lui raggiunse un nuovo «livello» nel 1993
quando, per la prima volta, invitò la mia famiglia a casa sua, nel
ranch di Neverland. Da anni sapevamo che Michael stava
costruendo una villa in California. Spesso, mentre
supervisionava l’andamento dei lavori, ci diceva: «Dovreste
venire. Ci sono un cinema, uno zoo, alcune giostre. Lì non ci
sono regole. Potete fare quello che volete, rilassarvi ed essere
liberi».
Non avevo idea di cosa mi attendesse. Nessuna idea. La realtà
fu qualcosa che non avrei mai potuto immaginare. Avevo dodici
anni quando ci andammo per la prima volta, durante le vacanze
di primavera. A quell’epoca erano già nati tutti i miei fratelli; papà
e mamma portarono me, Eddie, mio fratello Dominic, mia sorella
Marie Nicole, il nostro fratellino Aldo, di pochi mesi, e i miei due
cugini, Danielle e Aldo. La nostra famiglia era abituata a
viaggiare (anche con tutti quei bambini) perché i miei ci tenevano
a visitare i parenti in Italia, ma questa era la nostra prima volta in
California. Non avevo un’idea chiara di quello che in realtà avrei
trovato. Michael aveva detto di avere «una ruota panoramica»,
così mentre l’aereo si apprestava ad atterrare io, nella mia
innocenza, guardavo fuori dal finestrino aspettandomi di vederla
sulla pista. Non sapevo che in realtà il ranch era ancora a due
ore di viaggio, nel nord, vicino a Santa Barbara.
Arrivati a Los Angeles, trascorremmo una giornata presso gli
Universal Studios, ma l’itinerario turistico si fermò qui. Nella tarda
mattinata del giorno seguente la lunghissima limousine nera di
Michael venne a prenderci all’albergo per portarci a destinazione.
Da adulto mi è capitato spesso di viaggiare su auto simili, ma da
bambino mi sembrò un vero spasso. Noi ragazzi (escluso il
piccolo Aldo) saltavamo da una parte all’altra di quella fantastica
limousine come tante lucciole in un bicchiere.
Quando finalmente giungemmo alle porte di Neverland,
incontrammo lo staff della sorveglianza. «C’è la famiglia Cascio»,
annunciò l’autista, e la guardia aprì il cancello.
Come se il viaggio da Los Angeles non avesse già rappresentato
una sfida per sei bambini come noi, una volta oltrepassato il
cancello ci attendeva ancora un lungo tragitto per raggiungere la
casa. Ma almeno eravamo arrivati a Neverland, ed era davvero
un altro mondo. In tutta la proprietà veniva diffusa musica
classica alternata a brani di colonne sonore tratte da film di Walt
Disney, come Peter Pan e La Bella e la Bestia. Sfilavano alberi di
sicomoro, fiori, fontane, ettari ed ettari di alcuni dei più bei
paesaggi d’America. La strada si incurvava tra una stazione
ferroviaria a destra e un lago a sinistra. C’erano statue in bronzo
di bambini che giocavano ed eravamo circondati da montagne su
tutti i lati … Era sbalorditivo. Neverland era di gran lunga il posto
più magico che avessi mai visto. E lo è ancora.
L’ingresso del palazzo in stile Tudor era stracolmo di statue e
quadri; grandi tappeti rossi rivestivano il pavimento di legno
lucido e scuro. Il maggiordomo, Gail, ci condusse, passando da
una lucida scala di legno e un vestibolo, nell’ala abitata da
Michael e poi, attraverso un corridoio, fino al suo soggiorno.
«Mr. Jackson verrà a ricevervi tra poco», disse.
Dopo qualche minuto eccolo arrivare. «Benvenuti a Neverland»,
disse semplicemente. Poi aggiunse: «Sentitevi liberi». In un
modo o nell’altro, a tutti gli ospiti veniva dato lo stesso
suggerimento.
Ci spostammo nella sala da pranzo dove gli inservienti ci
portarono il pranzo e mangiammo tutti insieme, riprendendoci un
po’ dall’eccitazione. Dopo aver mangiato, Michael ci guidò per la
proprietà. Visitammo gli animali nello zoo, prendemmo il treno e
facemmo un giro sulla ruota. Nel ranch tutto era in perfetto ordine
e ben controllato: i guardiani degli animali e gli assistenti per gli
ospiti sembravano apparire, come per magia, nel momento
esatto in cui c’era bisogno di loro.
Scorrazzare era divertente, ma quello che più mi impressionava
era lo zoo. È straordinario visitare uno zoo privato. Michael
aveva molti addetti: c’era il responsabile dei serpenti, quello degli
orsi, dei leoni e degli scimpanzé; un’altra persona si occupava
delle giraffe, degli elefanti e così via. Gli animali uscivano per noi,
e potevamo nutrirli mentre gli addetti ci descrivevano le loro
abitudini. Nel rettilario c’erano anaconda, tarantole, un cobra
reale, serpenti a sonagli, piraña e coccodrilli che mangiavano
polli interi uno dopo l’altro, e quattro o cinque giraffe. Michael era
allergico sia a loro sia ai cavalli, se voleva toccarli era costretto a
prendere medicine; io invece adoravo carezzare le giraffe: da
vicino, non so perché, il loro fiato profumava di menta.
Lo scimpanzé e l’orangotango erano i miei preferiti. Andavano in
giro sempre completamente vestiti, con pannolini, camicie e
completini di marca. Gli scimpanzé erano per natura attratti dai
piccoli dettagli. Se, per esempio, avevo una pellicina intorno alle
unghie, la notavano subito, la studiavano e ci giocherellavano.
Bevevano il succo di frutta direttamente dai cartoni con la
cannuccia, e le loro caramelle preferite erano le gelatine di frutta.
Le tenevano in mano e le esaminavano attentamente prima di
mangiarle. Non credo che fossero l’alimento più sano per loro,
ma posso dirvi che l’orsetto adorava le caramelline colorate a
forma di pallina: leccava la gabbia per averne delle altre! E poi gli
elefanti, che amavano bere bibite gassate e mangiare caramelle
di frutta …
Si dice che gli animali domestici assomiglino al loro padrone …
Be’, sembrava che gli animali di Neverland avessero sviluppato
dei gusti molto simili a quelli di Michael.
L’ingresso del cinema di Neverland era incredibilmente
accattivante. I visitatori percorrevano un viale lastricato,
oltrepassavano i giochi d’acqua di una bellissima fontana
illuminata mentre una musica suggestiva risuonava in
sottofondo. Due sistemi di doppie porte consentivano l’ingresso
al teatro: sulla sinistra Michael si era fatto costruire dai tecnici
della Disney una serie di personaggi animatronici tratti da
Pinocchio. C’era anche la sua figura animatronica a grandezza
naturale, vestito come nel video di «Smooth Criminal». Nella
scenetta che accompagnava l’animazione una voce diceva
«Guarda, c’è Michael», e il robot prendeva vita, danzando in
circolo col passo di moonwalk.
A destra, tra Pinocchio e Michael, c’era una versione animata
del Lupo Cattivo. Andando diritto si arrivava a un incredibile
banco di dolciumi, con tutti i tipi di caramelle possibili e
immaginabili. Qui si trovava anche il distributore del gelato, la
macchina dei popcorn e qualsiasi bevanda si potesse
desiderare. A casa, nel New Jersey, quando il sabato pomeriggio
io e i miei fratelli potevamo usare per un paio d’ore la gelatiera
era una grande festa. Qui, invece, scompariva di fronte a un
grande sogno divenuto realtà.
Un tappeto rosso introduceva nel cinema, dove c’erano circa un
centinaio di poltroncine anch’esse rosse. Nelle nostre future
visite avremmo portato con noi anche Graveyard, l’orangotango,
vestito di tutto punto, a vedere i film. Si sedeva tra me e Michael,
sgranocchiando popcorn e sorseggiando la sua bibita. Due
camere da letto, una su ogni lato della sala, permettevano di
godersi eventualmente lo spettacolo con il confort di un letto
regolabile. Negli anni a venire mi è accaduto spesso di andare a
vedere un film la sera tardi, e a volte finiva che mi addormentavo
trascorrendo tutta la notte nel cinema.
Pur essendo un posto davvero magico, Neverland non mutò i
miei sentimenti per Michael. Era modesto in casa sua come lo
era da noi. Non identificavo lo splendore del posto con ricchezza
o potere: avevo già visto Michael in concerto, e quella sì era una
trasformazione.
Forse è stato durante quel viaggio (o in uno degli altri, ce ne
furono molti) che, mentre mi scarrozzava sulla golf cart, Michael
disse che la sua Neverland sarebbe diventata come la Graceland
di Elvis. Con voce nasale e il tono di una guida turistica iniziò a
descrivere: «Alla vostra destra potete vedere il Forte dei
Palloncini d’Acqua. Michael ha vinto molte battaglie su quel
campo …»
«Quando credi che succederà?» chiesi.
«Me ne sto occupando proprio ora», rispose, «ma non sarà
prima della mia morte.»
Quella volta trascorremmo tre o quattro giorni abitando in quelli
che erano chiamati «bungalow per gli ospiti» (era una casa stile
ranch divisa in quattro unità separate): semplici ma eleganti, con
pavimenti e mobili di legno scuro e lenzuola bianche. Nei bagni
c’erano saponette con il logo di Neverland: un ragazzo sulla luna.
(Lo studio cinematografico DreamWorks ha un logo simile, ma
Michael aveva disegnato il suo diversi anni prima. Steven
Spielberg deve essersi ispirato durante la sua visita al ranch.) La
suite Elizabeth Taylor aveva un enorme letto a due piazze. Se
ricordo bene, in quel primo viaggio mio fratello e io dormimmo
nel Bungalow Due, che aveva due letti doppi. Fu quella una delle
rare volte che soggiornai nei bungalow; nelle visite successive
rimasi nella casa principale. Al mattino i cuochi (che erano a
nostra disposizione ventiquattrore su ventiquattro) ci
preparavano qualunque cosa volessimo per colazione, che ci
veniva portata in camera o servita in cucina.
Era tutto meraviglioso: l’acqua dei ruscelli gorgogliava in
un’atmosfera rilassata, la musica risuonava dappertutto … Di
solito, per spostarci da un posto all’altro all’interno della tenuta,
usavamo le golf cart.
I miei genitori adoravano il ranch. Mio padre diceva che era
come «oltrepassare le porte del paradiso», e che aveva il potere
di far tornare bambino chiunque lo visitasse. Passeggiava per la
tenuta fumando beato il suo sigaro. Anche mia madre, una di
quelle donne che dall’alba al tramonto non si fermano mai, qui
poteva finalmente rallentare il ritmo. Neverland era l’unico posto
al mondo dove poteva rilassarsi e divertirsi, specialmente al
cinema. A volte i miei genitori partecipavano persino alle nostre
battaglie con i Palloncini d’acqua.
Durante il giorno ognuno vagabondava per conto proprio, e la
sera ci si riuniva per la grande cena di famiglia. Michael aveva
ricostruito anche un piccolo villaggio indiano con le tende e un
grande falò, e una volta mangiammo lì. Sedemmo per terra e,
avvolti nelle coperte, chiacchierammo guardando il fuoco. Fu
così divertente che tutte le volte che tornammo a Neverland
ritenemmo doveroso cenare almeno una volta così.
Un’altra abitudine piacevole erano i voli mattutini in mongolfiera.
Non so perché, forse a causa delle condizioni atmosferiche,
dovevamo svegliarci allo spuntare dell’alba. Assonnati ed
eccitati, ci ritrovavamo in un punto preciso della proprietà,
salivamo a bordo del pallone e, all’improvviso, ci ritrovavamo a
fluttuare in aria, osservando i favolosi panorami ai nostri piedi.
Eddie e io trascorrevamo la maggior parte del tempo insieme con
Michael. A Neverland ogni visitatore poteva vivere nella più totale
libertà e starsene per i fatti suoi, ma non c’era paragone con la
possibilità di scoprire quel luogo assieme al suo ideatore: dietro a
lui e attraverso i suoi occhi si creava la magia. Noi volevamo
stare con lui. Era lo spirito di quel luogo.
Nella favola di Peter Pan Neverland è il luogo dove i bambini non
devono mai crescere. Nell’infanzia, Michael aveva vissuto in un
mondo adulto, lavorando già dall’età di cinque anni. Era sempre
in tournée e non aveva mai tempo libero. Quando sentiva i
bambini giocare, avrebbe dato qualsiasi cosa per unirsi a loro,
ma non ne aveva mai la possibilità. Perciò da adulto, come
diceva, si sentiva attratto dall’infanzia che non aveva avuto. «Ho
dieci anni, non voglio più crescere», ripeteva. Certo, crescere fa
parte della vita, ma lui era determinato a riscoprire gli aspetti
migliori dell’infanzia perduta e a mantenerli vivi. Amava l’idea che
tutti potessero ritrovare l’innocenza, la gioia e la libertà.
Neverland era un mondo a sé stante, dove i bambini potevano
essere liberi e gli altri ospiti potevano abbandonare le proprie
preoccupazioni per sentirsi nuovamente bambini. Una volta
superato il portale magico, il mondo esterno non contava più.
Michael aveva progettato ogni aspetto di Neverland e c’era
sempre qualcosa da aggiungere. Era un uomo lungimirante, un
visionario a volte folle, e quando aveva un’idea voleva realizzarla
a tutti i costi. Se desiderava case sugli alberi, progettava le case
sugli alberi. Se gli veniva in mente che serviva un’isola piena di
fenicotteri per la gioia dei suoi ospiti, costruiva un’isola e la
riempiva di fenicotteri.
Negli anni successivi, quando rimanevamo soli al ranch,
eravamo soliti passeggiare e controllare ogni dettaglio. Qualche
volta sbirciavamo nelle casette per gli ospiti, e se il pot-pourri non
era di suo gradimento lo faceva cambiare. Spostava una sveglia
di qualche centimetro a sinistra per metterla nella posizione
giusta. Spostava i mobili. Voleva che i fiori fossero sempre
freschi, appena colti. Il giardino doveva essere potato con cura.
Passeggiando, chiamava al walkie-talkie e diceva: «C’è bisogno
di altri fiori qui», «Alzate la musica», o avvertiva la direzione se
non udiva bene la melodia registrata del cinguettio degli uccellini.
Queste erano le fantasie che diventavano realtà. Sapeva
esattamente cosa voleva e come curare ogni dettaglio. Era un
artista e un perfezionista in qualunque cosa si cimentasse.
Michael aveva costruito il ranch di Neverland per condividerlo
con le persone, specialmente con i bambini, e quando divenne
un posto maggiormente aperto al pubblico, visitato da scuole e
orfanotrofi, ideò accorgimenti magici per i suoi ospiti. C’erano
coreografie particolari per ogni momento della visita, dall’istante
in cui gli ospiti oltrepassavano il primo cancello. Faceva allineare
tutti gli inservienti della casa sulla scala d’ingresso per accogliere
i nuovi arrivati e dar loro il benvenuto. Veniva offerta la colazione
e, all’improvviso, si vedevano gli elefanti – compreso Gipsy, dono
di Elizabeth Taylor – passeggiare fuori dalla finestra, o un lama
che gironzolava sul prato.
Il primo viaggio a Neverland ci avvicinò ancora di più. Fino ad
allora era stato l’amico di famiglia le cui visite a sorpresa erano
sempre una festa. Qui, nel suo ambiente, conoscemmo il vero
Michael. Neverland incarnava il suo cuore e la sua anima, e ci
sentivamo onorati e privilegiati di stare in sua compagnia.
Quando ci ammassammo nuovamente nella limousine per
tornare all’aeroporto, era veramente impensabile immaginare
che un giorno un’ombra minacciosa avrebbe avvolto di una
cappa scura tutta quella bellezza.
Ovviamente, dopo averne avuto un assaggio, tutto ciò che
desideravo era di essere di nuovo a Neverland. Ma avevo cose
importanti da fare, come finire la seconda media. Solo quando si
avvicinarono le vacanze estive i miei genitori dissero che Eddie e
io potevamo ritornarci, questa volta da soli, per una settimana o
due. Quando scendemmo all’aeroporto di Los Angeles, un
autista di nome Gary ci aspettava con il cartello «I CASCIO».
«Mr. Jackson vi attende», disse, e chiese se avevamo fame e se
volevamo fermarci a mangiare qualcosa lungo la strada. Forse
avevamo fame, o forse no, ma rispondemmo di no. Volevamo
solo vedere Michael.
Proprio quella sera era in programma l’American Music Award
1993, e Michael doveva ricevere il premio come migliore artista
internazionale. Così, invece di portarci direttamente al ranch,
Gary ci condusse in un appartamento segreto che Michael
teneva a Century City chiamato «The Hideway».
Il «nascondiglio» era una specie di Neverland in miniatura, su tre
piani. Uno era dedicato ai videogiochi. Alle pareti c’erano i ritratti
di alcuni personaggi della Disney e gli idoli di Michael: i Tre
Marmittoni, Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio. Naturalmente la
musica era presente dappertutto. Michael adorava ascoltarla, in
qualunque momento e ovunque si trovasse.
Quando Michael ci venne incontro sembrava dispiaciuto di dover
ricevere un premio proprio la sera del nostro arrivo, e disse che
invece di lasciarci in compagnia dei soli addetti alla sicurezza
aveva invitato un cugino per stare con noi. (Chiamava cugini o
secondi cugini tutti quelli che gli erano vicini, come se volesse
essere circondato da una grande famiglia allargata.) Questo
«cugino» si rivelò essere un ragazzino di nome Jordy Chandler,
e aveva circa la mia età.
Mi feci avanti e gli diedi la mano: sembrava simpatico. Non era la
prima volta che Michael mi faceva conoscere altri bambini. Come
la mia, la famiglia di Jordy era una delle tante di cui Michael era
amico, anche se i Cascio erano gli unici che chiamava la sua
«seconda famiglia». Noi Cascio eravamo già numerosi ed
eravamo felici di accogliere gli amici di Michael. C’era sempre
posto per tutti. Jordy e i suoi sembravano alla mano.
Quella sera, prima di uscire, Michael mi chiese: «Testa di Mela,
cosa mi metto per lo spettacolo?» Avevamo visto un episodio dei
Tre Marmittoni dove Curly o Mo chiamava gli altri «Testa di
Mela» [Applehead, N.d.T.]. Da allora in poi cominciammo a
chiamarci a vicenda «Testa di Mela», e coinvolgemmo anche gli
altri. Erano tutti Teste di Mela, e noi eravamo il club delle Teste
di Mela.
Guardai nel suo armadio e tirai fuori una t-shirt bianca, pantaloni
neri, stivali e una giacca che aveva indossato durante una posa
per il video Remember the Time. Quando varcò la porta
indossando il completo che avevo scelto per lui, mi sentii
orgogliosissimo: non lo aveva cambiato di una virgola.
Dopo la partenza di Michael, Eddie, Jordy e io fummo lasciati a
divertirci, cosa assai facile data la quantità di giochi a nostra
disposizione. Mi trovavo bene con Jordy, gli piacevano la scienza
e i puzzle e pensai che era fantastico. Alla fine facemmo una
pausa dai videogiochi e uscimmo sul balcone a gettare Palloncini
d’acqua tentando di colpire le auto parcheggiate di sotto. Poi
Jordy cominciò a giocare con una fionda. Non so cosa mise
nell’elastico, ma non era affatto un palloncino d’acqua dato che,
prima di capire cosa stesse succedendo, colpì il vetro di una
macchina e lo mandò in frantumi.
A testa china per non farci vedere, rientrammo furtivamente
nell’appartamento. Non dicemmo nulla alla sicurezza. Povero
Jordy, era distrutto. Anche lui, come Eddie e me, amava
l’avventura e il divertimento, non era un teppistello. Camminava
avanti e indietro, terrorizzato che potesse arrivare la polizia,
preoccupato che Michael si arrabbiasse. Tremava di paura.
Cercai di calmarlo. «Rilassati, non ti preoccupare, non è un gran
danno, nessuno si arrabbierà.» Infine andò in bagno a lavarsi la
faccia. Quando tornò, giocammo ancora ai videogiochi, la miglior
cura per un ragazzino spaventato. Più tardi quella notte, quando
Michael tornò a casa, gli raccontammo l’accaduto. Pensai che
fosse la cosa giusta da fare.
«Voi ragazzi state bene? Qualcuno si è fatto male?» chiese. Gli
dicemmo che noi eravamo a posto, ma non eravamo sicuri che lo
fosse anche la macchina. Non si arrabbiò. «Andiamo a vedere se
c’è ancora qualcuno là sotto», si limitò a dire. «Se troviamo il
proprietario, gli diremo quello che è successo e troveremo il
modo per sostituire il vetro.» Uscimmo sul balcone, ma la
macchina se ne era andata da un pezzo e nessuno di noi ci
penso più. Subito dopo mio fratello, Jordy e io aprimmo i sacchi a
pelo sul pavimento, guardammo dei video e ci addormentammo.
Fionde a parte, Jordy era un ragazzo simpatico, molto simile a
me. Nel suo rapporto con Michael non notai niente di insolito o di
inquietante.
Il giorno dopo Michael ci condusse a Disneyland con Jordy, sua
madre June, e sua sorella. Non ero mai stato a Disneyland, ma
mi resi subito conto che ci veniva riservato un trattamento da
VIP. Potevamo salire su qualunque attrazione senza dover fare
la fila. Michael, naturalmente, veniva riconosciuto ovunque. Non
fece alcun tentativo per nascondersi. Indossava infatti la sua
solita tenuta: occhiali da sole, cappello, camicia rossa di velluto a
coste, pantaloni neri e mocassini. Vestiva così quasi ogni giorno.
In seguito, conoscendolo meglio, lo presi in giro per il suo
abbigliamento. Era solito stare davanti all’armadio, zeppo di
camicie rosse e pantaloni neri, dicendo: «Uhm, cosa potrei
mettermi oggi? Uhm, forse pantaloni neri e una camicia rossa.
Forse un Borsalino, giusto per cambiare un po’».
E io dicevo: «Ehi, ho un’idea! Perché non fai il pazzo oggi, e
indossi qualcosa di veramente diverso?» E tiravo fuori … un’altra
camicia rossa e un altro paio di pantaloni neri.
Mentre passeggiavamo per il parco, gli addetti alla sicurezza di
Disneyland formarono un cordone protettivo intorno a noi perché
i visitatori, a caccia di un autografo o di una foto, stavano
letteralmente impazzendo. Un paio di volte dovemmo prendere
un’auto per attraversare alcune zone ed entrare nelle attrazioni
da porte secondarie in modo da evitare i fans in delirio.
Cominciavo a conoscere in prima persona l’attenzione che
Michael doveva subire ogni giorno. A me non importava molto,
era parte del suo lavoro. Era semplicemente quello che faceva
quando era in pubblico.
Alla fine della giornata ripartimmo con una limousine bianca, ma
il divertimento non era ancora finito. Sulla strada verso casa
ingaggiammo una selvaggia battaglia a colpi di bombolette di
stelle filanti spray. Alla fine dovemmo aprire i finestrini perché le
esalazioni appestavano l’abitacolo. All’epoca non mi rendevo
conto che il comportamento di Michael non era quello che la
gente si aspettava da un adulto. Lui era sempre stato così, fin
dalla prima volta, e forse anche per questo non riuscivo a
distinguere bene tra il comportamento di un adulto e quello di un
bambino. Anche ora ho i miei momenti infantili. Li abbiamo tutti, o
almeno dovremmo.
Quella sera Michael riportò me, Eddie, Jordy, sua madre e sua
sorella al ranch. Nella limousine venivano sempre proiettati dei
film, ma noi eravamo ancora troppo eccitati e occupati a parlare
della giornata per guardarli. Avevamo legato bene. Avevo capito
che Jordy e i suoi amavano Michael quanto noi. Avvertii che,
come noi, per lui erano un’altra famiglia. Non ero geloso di quella
relazione. E inoltre, non sono geloso per natura. Anzi, era bello
avere attorno un altro ragazzino, specialmente uno che non
sembrava impressionato o perplesso in merito alla nostra
amicizia.
Ricordando la visita precedente, mi aspettavo un lungo viaggio in
auto, invece giungemmo abbastanza presto al ranch. Questa
volta arrivammo di notte, ed ebbi così modo di ammirare la
bellissima illuminazione degli alberi e delle fontane. La musica
continuava a suonare, il treno, sicuramente vuoto, correva
sbuffando allegramente. E la cena era pronta.
Dato che non c’erano i nostri genitori, mio fratello e io
chiedemmo a Michael se potevamo stare con lui in camera sua.
È quello che avremmo fatto se fossimo stati con ragazzini della
nostra età, e consideravamo Michael uno di noi: un bambino,
anche se con potere e ricchezze straordinari. Aveva persino un
parco divertimenti in giardino! Volevamo stare con lui, e Michael
non poteva dire di no. Non a noi, né a nessun altro che gli fosse
caro.
Michael, Eddie e io quella notte rimanemmo alzati a parlare fino
a tardi. Sdraiati sul pavimento davanti al caminetto, sfogliavamo
riviste mentre Michael ci riferiva pettegolezzi del mondo dello
spettacolo, raccontandoci di quando era andato a cena da Eddie
Murphy, o di come Madonna avesse tentato di sedurlo.
Consapevole della nostra età, cercò di spiegarci in modo delicato
l’invito di Madonna ad accompagnarla nella sua stanza
d’albergo, senza ricorrere a parole come «sedurre».
«Lei … lei mi chiese di raggiungerla nella sua camera.» Si coprì
il viso con le mani. «Ero così imbarazzato … non sapevo cosa
fare», confesso.
«Avresti dovuto andarci. Darei qualunque cosa per una notte con
Madonna», gli dissi. Ero giovane, ma impazzivo già per le donne.
Michael invece era l’opposto. Non era abituato alle situazioni
romantiche, e non era gay. Gli piacevano senza dubbio le donne,
e vedendolo danzare non si poteva fare a meno di riconoscere la
sua potente carica sessuale. Ma era inibito.
Questa inibizione era, in parte, il risultato di un percorso di vita
che aveva dovuto affrontare da ragazzo. Quella notte ci raccontò
di come, a partire dall’età di cinque anni, era stato continuamente
in tournée con i Jackson. A volte, prima di loro andava in scena
uno spettacolino comico. Michael, sbirciando da dietro le quinte,
vedeva che le attrici venivano spesso maltrattate dai maschi.
Dopo lo spettacolo, lui e Randy si nascondevano sotto il letto
mentre i fratelli più grandi portavano in camera delle ragazze.
Quando cominciavano a ridacchiare, Jermaine li faceva uscire da
sotto il letto e li buttava fuori dalla stanza. Ma non prima che
Michael avesse visto o udito più di quanto un bambino della sua
età avrebbe dovuto.
Lui ci raccontava sempre storie sui suoi fratelli. Alcune nelle sue
parole sembravano episodi divertenti, ma ora mi è chiaro che
non lo erano affatto: Michael si era trovato troppo presto a
confronto con la sessualità, e ne era rimasto segnato. Di
conseguenza, quando si avvicinava alle donne, era come se
diventasse di ghiaccio.
Col passare del tempo, dopo che i fratelli si erano sposati, i
legami della famiglia si allentarono, e pian piano i Jackson Five si
divisero. Oltre alla paura di entrare in intimità con le persone,
Michael non voleva che niente o nessuno potesse distrarlo dalla
sua musica.
A partire dalla più tenera età, il lavoro era sempre stato la sua
vera priorità. Era molto preparato e professionale, forse perché
solo quando lavorava sentiva di essere a suo agio e di avere
tutto sotto controllo. Anche quando i fratelli più grandi giocavano
a basket o praticavano altri sport, lui era solito sedersi a guardarli
canticchiando. Non si univa mai a loro (e posso comunque
supporre che sarebbe stato ben accetto, anche se ciò avrebbe
significato giocare due contro tre). D’altra parte, persino il padre
era contrario a farlo partecipare. Era più protettivo verso Michael
che verso gli altri figli. Certo, era anche possibile che fosse
perché Michael era – l’ho constatato più volte – ben poco portato
nello sport. Non ho mai capito perché: aveva il più straordinario
senso del ritmo al mondo … e non sapeva dribblare
decentemente una palla. Nel baseball, se possibile, andava
anche peggio. Il punto è che Michael non voleva che niente – né
sport, né donne – condizionasse il suo lavoro. Man mano che
cresceva, stava sempre più spesso in casa a provare e
perfezionare coreografie. Al rientro dei fratelli, insegnava loro i
nuovi numeri. Era il più giovane dei Jackson Five, ma anche il
più serio.
Più tardi, quella notte, il discorso cadde su Jordy, che stava nel
bungalow degli ospiti con sua madre e sua sorella. «È veramente
simpatico. La prossima volta che vieni a New York, dovresti
portarlo a casa nostra», dissi.
«Sì, dovremmo portarlo a New York, non c’è mai stato», rispose
Michael.
«Perché Jordy non è con noi ora?» chiesi.
«Non lo so, Jordy non si ferma mai nella mia stanza», rispose.
«Sono contento che siamo solo noi, così possiamo
chiacchierare.»
Quella notte parlammo davanti al fuoco fino alle quattro del
mattino, e a quel punto decidemmo di razziare il frigorifero.
Andammo in cucina e scaldammo del pudding alla vaniglia nel
microonde (uno degli spuntini preferiti di Michael), prendemmo
delle patatine, sorbetti all’arancia, wafer alla vaniglia e succhi di
frutta, portammo tutto davanti al fuoco e rimanemmo alzati a
parlare e ascoltare le affascinanti storie del nostro amico.
Come nelle visite successive, Michael offrì il letto a Eddie e a
me, dicendo che lui avrebbe dormito sul pavimento; finì che
dormimmo tutti per terra. Mi piaceva addormentarmi ascoltando il
crepitio del fuoco che si spegne. Da quella visita, e fino a che
non fui abbastanza grande da desiderare un po’ di privacy, ogni
volta che tornavo a Neverland mi facevo il letto accanto al
caminetto. Voglio chiarire una volta per tutte che, per quanto
possa apparire strano che un adulto passi la notte con un paio di
bambini, non c’era niente di «sessuale»: niente che mi fosse
sembrato palese allora, niente che possa individuare oggi, da
adulto che analizza il passato. Michael era innocuo, era
veramente un bambino fino al midollo.
La mattina dopo dormimmo fino a mezzogiorno. Il cuoco,
Buckey, era famoso per i suoi hamburger. Per pranzo li
mangiammo con le patatine fritte. Poi Michael disse: «Avete a
disposizione mille ettari. Divertitevi. Fate quello che volete». Ci
spinse a esplorare la tenuta per conto nostro, ma noi volevamo
stare con lui e farci dire cosa dovevamo fare. Lui era sempre
pronto a tutto, e fu così che trascorremmo la giornata nella sala-
giochi e scorrazzando per Neverland insieme.
Quella sera ci suggerì di andare tutti al negozio di giocattoli Toys
«R» Us. Pensavo che sarebbe venuto a prenderci l’autista, ma
Michael preferì guidare.
Ci infilammo in una sgangherata Dodge Caravan marrone. Io
sedevo davanti, mio fratello, June, Jordy e sua sorella dietro.
Michael, con il suo inconfondibile cappello in testa, ci portava in
auto al supermarket. «Non posso credere che tu stia guidando!»
Non lo avevo mai visto prima. Era uno spettacolo.
Quando arrivammo al negozio, le luci erano accese ma le porte
chiuse. Ebbi un tuffo al cuore, poi numerosi inservienti si
precipitarono all’ingresso e ci aprirono la porta: «Salve Mr.
Jackson, entri!» Evidentemente, stavano aspettando il nostro
arrivo.
Nel magazzino non c’erano altri clienti. Michael afferrò un
carrello vuoto e ci esortò: «Avanti, prendete tutto quello che
volete». Sapevamo di avere campo libero. Non c’erano limiti a
quello che potevamo comprare. Tuttavia, mio fratello e io ci
sentivamo un po’ a disagio a riempire un carrello di giochi. Jordy
pure. Sfrecciavamo lungo i corridoi, gustando la sensazione di
avere il magazzino tutto per noi. Era nostro. Ma quando
facemmo i veri acquisti, ci limitammo a una manciata di piccoli
oggetti, niente di pazzesco. Eravamo molto rispettosi. Inoltre,
sapevamo che al rientro avremmo trovato di che divertirci.
Michael, nel frattempo, aveva riempito al volo tre carrelli di
giocattoli.
Amava collezionarli. Non doveva necessariamente giocarci e
neppure toglierli dalla confezione. Ma adorava comprarli. A
Neverland ne aveva una stanza piena che teneva come oggetti
da collezione. Stava molto attento alle proposte di nuovi giochi
sul mercato. Era interessato a ciò che diventava popolare, con
che cosa giocavano i ragazzi e perché erano attratti da alcuni
articoli in particolare.
Michael si avvicinava alla cultura con la stessa intensa curiosità
con cui seguiva le tendenze nei giochi. Analizzava la Top Ten
delle canzoni, ma seguiva anche la classifica dei libri più venduti
sul New York Times. Tutto questo faceva parte della sua ricerca,
molto ampia, oserei dire universale, di quello che la gente voleva
vedere, ascoltare e sperimentare.
Stavo imparando molto da lui. Mi insegnava a seguire la
conoscenza. Mi incoraggiava a studiare. Mi diceva di essere
umile e di rispettare i miei genitori, specialmente la mamma. Mi
metteva in guardia contro festini, droghe e sigarette, dicendo:
«Fatti una bevuta e divertiti, ma se dopo non puoi andartene
sulle tue gambe sei un incosciente». Mi incitava a dare il meglio
di me. Dato che era così legato a me, io a mia volta ero molto
ricettivo. A scuola non ero uno studente modello. Fin dall’asilo
ero stato un sognatore, sempre perso nel mio mondo. Michael mi
fece capire che la scuola non era la sola strada per imparare.
Raccontava che alcuni dei personaggi più grandi del mondo,
come Thomas Edison e Albert Einstein, a scuola non riuscivano
bene. Potevo imparare da solo tutto quello di cui avevo bisogno
per diventare un maestro nella mia specialità. Non importava
cosa facessi, lui credeva in me. Potevo diventare un leader e un
creatore. I miei genitori osservavano l’influenza che esercitava su
di me, e incoraggiavano la nostra amicizia.
Alla fine dell’estate, Eddie e io tornammo nel New Jersey. Io
dovevo iniziare la terza media, mio fratello la prima. I nostri
genitori durante l’estate si erano trasferiti, e ora abitavamo in una
nuova casa in un’altra città. Nel frattempo Michael era partito per
Bangkok: nell’ultimo anno aveva girato il mondo in tournée con il
suo album Dangerous e ora, dopo una breve pausa, era tempo
di rimettersi in viaggio. Eddie e io lo salutammo, ma non
avevamo idea di quanto tempo sarebbe passato prima di
rivederlo, quanto tempo sarebbe rimasto lontano da casa e quali
infelici circostanze avrebbe incontrato sul suo cammino.

CAPITOLO TRE - ADDIO


NORMALITA’
Nella nostra nuova casa a Franklin Lakes, nel New Jersey,
l'influenza di Michael divenne sempre più evidente. A mio
padre piacevano le statue di pietra che adornavano
Neverland, perciò andò a comprarne di simili per abbellire il
nostro giardino. Adorava anche la musica classica che laggiù
risuonava costantemente, e così fece installare un sistema di
filodiffusione in giardino, completo di altoparlanti a forma di
pietre. Michael ci fece un CD di musica di Neverland e ben
presto la nostra vita iniziò a scorrere con una colonna sonora
di musica classica in sottofondo. Sarebbe stato bello se mio
padre avesse portato a casa una scimmia da compagnia, ma
non arrivò mai a tanto.
Secondo i miei genitori c'eravamo trasferiti a Franklin Lakes
per le buone opportunità scolastiche, ma io pensavo che
fosse soltanto per la squadra di calcio. Crescendo ero
diventato uno dei migliori calciatori di Hawthorne. Un altro
ragazzo, Michael Piccoli, era il giocatore più bravo di Franklin
Lakes. Per tutta la mia infanzia la mia squadra e quella di
Mike Piccoli avevano alimentato la rivalità tra noi due: non ci
conoscevamo, ma sapevamo di non piacerci. Ora mi ero
trasferito nella sua città e anche se stavo solo per iniziare la
terza media l'allenatore mi aveva già reclutato
nella squadra del liceo, così come Mike, che era mio
coetaneo. Avremmo giocato nella stessa squadra. Era lo
scoop del mondo calcistico, o perlomeno quello del New
Jersey del nord.
In quel momento erano questi i problemi più importanti della
mia vita. E invece, subito prima che cominciasse la scuola,
arrivò una notizia che azzerò tutte le mie preoccupazioni
calcistiche. Un pomeriggio mi affacciai in lavanderia in cerca
di una camicia; mia madre, che era lì, abbozzò una frase,
esitò, poi finalmente parlò.
«Conosci un ragazzo che si chiama Jordy?» mi chiese.
«Sì, è davvero in gamba. Ci siamo visti a Neverland».
risposi.
Lei rimase un attimo incerta sul da farsi, percepivo la sua
indecisione. Alla fine disse d'un fiato; «Beh, sta accusando
Michael di molestie su minori».
Le parole suonarono imbarazzate, come se non le avesse
mai pronunciate prima. E’ in effetti è probabile che non
l'avesse mai fatto. Vedevo che era sconvolta, ma io non
sapevo nemmeno cosa significasse «molestie». Quando
glielo domandai si girò dall'altra parte e, evitando di
rispondermi, domandò in fretta; «Che tu sappia, Michael ha
mai fatto, a te o a qualcun altro, qualcosa di inappropriato?»
«Ma di che parli?» chiesi, e all'improvviso mi resi conto che
stava piangendo.
«Sto così male per Michael», disse.
Guardandola negli occhi capii che il mio amico era accusato
di aver fatto qualcosa di male a Jordy. Ero più che scioccato:
non riuscivo a farmene una ragione. Avevo passato un sacco
di tempo con loro e durante il mio soggiorno a Neverland,
Jordy non era mai stato nella stanza di Michael con noi. Mai,
neanche una volta. Non avevo mai notato nulla di strano e
non ho mai pensato che fosse successo qualcosa, neanche
per un secondo. Inoltre, Michael non si era mai comportato in
modo neanche
vagamente «inappropriato» nei confronti miei o di Eddie.
Questa storia era totalmente incredibile, non potevo
assolutamente immaginare Michael come un molestatore, né
riuscivo a credere che Jordy facesse certe accuse.
«Michael starà bene?» chiesi.
«Sì, vedrai che andrà tutto bene», rispose mia madre.
Mentre iniziavo a prendere coscienza di questa vicenda
inquietante, non potei fare a meno di ricordare le parole di
Jordy su suo padre, durante il viaggio che facemmo a
Disneyland e poi al ranch. Jordy era aperto e onesto, e non
avevo l'impressione che stesse nascondendo qualcosa. La
notte che andammo al Toys'R'us mi disse che suo padre
Evan, dentista e aspirante sceneggiatore, era molto geloso di
Michael; riteneva assurdo che fosse così intimo con Jordy e
con il resto della famiglia. Disse che la loro amicizia era
diventata un problema per la famiglia Chandler.
Ripensandoci, ricordai che Jordy aveva parlato anche del
brutto carattere di Evan, che quando era arrabbiato urlava e
gettava cose in giro per casa.
A posteriori, si può comprendere che l’attaccamento di Jordy
e di sua madre per Michael potessero rappresentare un
problema all'interno della famiglia. Ma a quell'epoca non
potevo pensare in questi termini . Tutto ciò che sapevo è che
per quanto mi riguardava Michael era stato accusato
ingiustamente, non mi interessava se per colpa di Jordy o di
suo padre.
Nei giorni seguenti i miei genitori contattarono Michael, che
era ancora in giro con la tournée di Dangerous. Gli dissero
che erano assolutamente convinti della sua innocenza e gli
assicurarono che sarebbero rimasti al suo fianco per offrirgli
sostegno qualora ne avesse avuto bisogno. Un'ora più tardi
ricevemmo un fax di risposta. Prese avvio così una
corrispondenza via fax tra la mia famiglia e Michael; un paio
di volte al giorno ci scambiavamo disegnini sciocchi e piccoli
pensieri.

All'inizio Michael raccomandò ai miei di non preoccuparsi per


lui. Disse che si trattava di una forma di estorsione e che non
dovevano dar retta a quello che stampavano i giornali. Non
c'era bisogno che entrasse nei dettagli, i miei conoscevano
la verità, sapevano e si fidavano di lui malgrado il mondo lo
giudicasse con una severità tanto cieca quanto crudele.
Nel frattempo Eddie e io cominciammo a frequentare la
nuova scuola, quella per cui i miei genitori si erano trasferiti.
Tuttavia, dopo un paio di settimane, prima ancora che
potessi incontrare Mike Piccoli e constatare di persona la sua
vantata abilità con il pallone, giunse inaspettata una
chiamata da Bill Bray. Disse ai miei che Michael invitava tutta
la famiglia a raggiungerlo in tournée a Tel Aviv.
Mia madre doveva occuparsi di mio fratello Dominic, che
allora aveva sei anni, di mia sorella Marie Nicole che ne
aveva tre e del piccolo Aldo. Non era proprio possibile che si
allontanasse da casa.
Se fossimo partiti, Eddie e io avremmo perso la scuola, e
questo preoccupava i miei. La cosa più importante però era
che un nostro amico aveva bisogno di noi. Questa non era
una storiella di carattere locale, era una notizia di portata
mondiale e, considerando la fama di Michael Jackson, quelle
false accuse potevano causare enormi danni. I miei
sapevano che lo scandalo poteva avere un effetto
devastante sulla sua carriera e sulla sua stessa vita, e
sapevano anche che se Michael avesse potuto vedere Eddie
e me si sarebbe tirato un po' su di morale.
Perciò, il giorno dopo la telefonata di Bill Bray, mio padre,
Eddie e io partimmo in aereo, in prima classe, diretti in
Israele.
Il nostro arrivo a Tel Aviv era stato accuratamente pianificato.
Una macchina ci portò in città dove, in un punto prestabilito,
l'autista si fermò e disse che avremmo cambiato mezzo.
Scendemmo e fummo condotti all'auto di Michael attraverso
una folla di fans. Non appena saliti in macchina abbracciai
forte il mio amico e gli dissi: "Non ti preoccupare, siamo qui
per te, supereremo questo insieme."
Michael sorrise e disse semplicemente: "Grazie." Più tardi,
mio padre mi riferì che, Michael gli aveva espresso tutta la
sua gratitudine per la nostra visita. Michael gli aveva detto
che non avrebbe mai dimenticato quest’atto di sostegno, e
che la sua amicizia con la nostra famiglia sarebbe stata per
tutta la vita.
Dal momento che Michael aveva il giorno libero, abbiamo
trascorso le ore successive a visitare la città, andammo in
giro con una guida, che era il capo del team di sicurezza di
Elizabeth Taylor.
La giornata era stata ben organizzata, ma dovemmo
comunque affrontare qualche difficoltà. Per esempio, mentre
la guida ci portava in macchina al Muro del Pianto a
Gerusalemme, un vero e proprio mare di circa trecento
persone ha iniziato a seguirci nella vettura. Molti si
accalcavano contro i finestrini cercando di vedere attraverso
il vetro oscurato, altri con le braccia protese agitavano regali
che avevano portato per la loro amata stella. Alcuni elicotteri
volavano sopra le nostre teste. Era una scena che non avevo
mai sperimentato. Queste persone erano tutti lì per Michael.
Purtroppo, c’è capitato di arrivare proprio al momento della
preghiera, causando un'interruzione grave, per non dire altro.
Michael non aveva idea che questo era un momento sacro
della giornata, ma nei giornali del giorno successivo, i media
l’hanno riportato come una sua presunta mancanza di
considerazione.

Di ritorno in hotel, Eddie ed io andammo da Michael nella


sua stanza, cercavamo di distrarlo, dandogli supporto,
guardando vecchi film su laser disc. Mio padre andava e
veniva, ci controllava, contava su di noi, poi passava il tempo
con il suo amico Bill Bray. Mentre guardavamo il film di Bruce
Lee I tre dell’operazione drago Michael si alzò e cominciò a
imitare le mosse del karate di Bruce Lee. Lui ci ha descritto
ogni dettaglio del film, commentando i dettagli tecnici sui
colpi specifici e spiegandoci cosa c’era esattamente in Bruce
Lee che lui adorava. Nel corso degli anni avrei visto Michael
studiare diversi grandi personaggi dello spettacolo: da Bruce
Lee e Charlie Chaplin a James Brown, Frank Sinatra, Jackie
Wilson, i Three Stooges, e Sammy Davis Jr. Michael aveva
un dono speciale per fare sue le tecniche e i trucchi dei suoi
eroi, inserendole nelle coreografie delle sue canzoni, come
aveva fatto per quel film di Bruce Lee. Il cappello, il guanto,
la passeggiata, li aveva presi tutti studiando Charlie Chaplin.
C'era un movimento che usava in "Billie Jean", quando
faceva scivolare il collo in avanti e di lato, poi si piegava
assumeva un modo strano di camminare: l’aveva ripreso dai
movimenti del Tyrannosaurus rex nel film Jurassic Park.
"Bruce Lee era un maestro. Non ci sarà mai nessuno come
lui. Qualunque cosa facciate, dovrete essere maestri della
vostra arte ed essere i migliori.
Anche in questo momento difficile, Michael stava aprendo la
mia mente sul mondo senza che me ne rendessi conto. Lui
mi stava insegnando a vedere le cose in un modo più
complesso di quello a cui ero abituato. Invece di limitarsi ad
assorbire passivamente lo spettacolo, cominciai ad
analizzare l’arte. In sua compagnia studiavano solo le
sottigliezze della cultura pop.
La tappa successiva del tour fu Istanbul, in Turchia, dove
abbiamo alloggiato in un enorme, bellissima suite dell'hotel.
Ogni volta che Eddie ed io eravamo stati con Michael,
giocavamo molto, ci tiravamo cuscini e cose del genere, ma
in questo particolare giorno Michael improvvisamente ha
avuto un barlume malizioso nei suoi occhi e ha annunciato,
quasi in un sussurro ", cerchiamo di distruggere la stanza
dell’hotel ".
C’è sembrata un'ottima idea, così insieme a Michael, prima
di lasciare Istanbul, Eddie ed io abbiamo raso al suolo la
camera d'albergo. Abbiamo spostato i divani attraverso la
stanza, lasciandoli ad angoli dispari. Abbiamo inclinato le
foto in modo che fossero appesi storti alle pareti. Abbiamo
sparso petali di rosa sul pavimento. Come suo ultimo colpo
di grazia, Michael lanciò una forchetta in un dipinto.

Il giorno dopo, prima del concerto, Eddie ed io eravamo


seduti in camerino dietro Michael guardando la sua
truccatrice, Karen, mentre lo preparava per lo show. Michael
ci avviso che Bill Bray era arrabbiato.
«Bill vi deve parlare, ragazzi», ci avvertì. «Non avremmo
dovuto distruggere la camera. Gli ho detto che e stata colpa
mia e che doveva lasciarvi stare, ma vuole parlare lo stesso
con voi.»
Mentre Michael era sul palco. Bill Bray ci strigliò duramente
per quello che avevamo fatto.
«Forse non avete capito che dobbiamo pagare i danni»,
disse Bill che, all'improvviso, dimostrava ogni centimetro
della sua notevole statura. «Non possiamo lasciare gli
alberghi in quello stato, è una pessima pubblicità per
Michael.» Bill minacciò di rispedirci a casa e noi
cominciammo a piangere. Mi sentivo malissimo, e anche
Eddie era sconvolto. Eppure Michael lo aveva
soprannominato «angelo»perché cercava sempre di essere
buono e rispettoso. Ci scusammo con lui, non volevamo
creare problemi. Sapevamo tutti che era stato Michael a
cominciare, ma Bill voleva che ci prendessimo comunque la
responsabilità delle nostre azioni.
Non so se la cosa fosse voluta, ma la sua ramanzina portò
un cambiamento: da quel momento in poi iniziai a sentire
l’impulso di proteggere la reputazione di Michael, perfino
dalle sue stesse azioni, se necessario. Eravamo dei bambini,
e’ vero, ma a volte, quando Michael agiva d'impulso,
avremmo dovuto fare la parte degli adulti. Dovevamo sempre
pensare alle conseguenze che potevano esserci per lui e la
sua immagine.

Di Jordy discutemmo solo quando fu Michael a entrare in


argomento. Parlandone, assumeva spesso un tono
malinconico e cercava di capire come fosse potuto accadere.
«Ho fatto tanto per la sua famiglia», diceva.
Di solito io rispondevo con rabbia: «Non capisco come abbia
potuto farti questo».
«Vedi», rispondeva lui, «io non ce l'ho con Jordy, non è colpa
sua, è colpa di suo padre.»
Michael aveva perdonato Jordy. Sapeva che un bambino
non poteva essere responsabile di un attacco tanto spietato.
Riteneva che fosse tutta opera del padre. Anni dopo venni a
sapere che il padre di Jordy gli aveva chiesto un
finanziamento per un film; Michael all'inizio aveva approvato
il progetto, ma i suoi consulenti erano contrari e lo avevano
congedato piuttosto bruscamente. Michael, che non amava
le discussioni, si era adeguato. (Il film, scritto da Evan
Chandler, Robin Hood. Un uomo in calzamaglia, fu poi
prodotto e diretto da Mey Brooks e uscì quello stesso anno.)
Ovviamente era sconvolto per la situazione in cui era venuto a
trovarsi, ma quando era con noi manteneva sempre il controllo,
ricordandosi che eravamo bambini. Era preoccupato di come
questa esperienza avrebbe potuto influenzarci e degli effetti che
avrebbe potuto avere sulle nostre vite, oltre che sulla sua.
A un certo punto mio padre disse che era arrivato il momento
di tornare a casa. Michael accettò la decisione, ma quando
arrivò il momento di separarci andò da mio padre e scoppiò a
piangere.
«So che devi tornare al lavoro», aggiunse tra le lacrime, «ma
ti chiedo di far rimanere Eddie e Frank qui con me. Ci terrei
tantissimo. Non hai idea di quanto mi abbia aiutato avervi qui
anche solo per pochi giorni. Ti prometto, Dominic. che avrò
cura di loro e me ne occuperò come se fossero figli miei.»
Avevamo già perso una settimana di scuola. Se fossimo
rimasti con Michael avremmo viaggiato con lui di Paese in
Paese per concludere la sezione europea del tour e poi
andare nel Nord e nel Sud America. Non saremmo tornati
prima di dicembre.
Farci perdere la scuola per seguire la tournée di un cantante
rock per i miei genitori non era una decisione facile, ma mio
padre aveva visto quanto Michael fosse solo. Non aveva
accanto né famiglia nè amici, solo la troupe, e si trovava ad
affrontare accuse terribili, il peggiore degli incubi di
qualunque uomo innocente, famoso o non famoso.
Quelle che pesavano su Michael non influenzarono
minimamente i miei. Si può optare sulla loro scelta di
mandare due ragazzini, soli, a far compagnia a un uomo
accusato di molestie su un altro bambino. Ma per noi tali
accuse erano ridicole, non ci sfiorava neppure l'idea di
essere in pericolo. I miei genitori sapevano che Michael era
innocente. Lo conoscevano bene, da anni era parte della
nostra famiglia.
Sicuramente, agli occhi della gente, Michael appariva un po'
bizzarro, ma guardando dalla sua prospettiva quelle stranezze
apparivano chiare e sensate. Quando indossava la mascherina
da chirurgo, la gente riteneva che fosse per nascondere uno dei
suoi interventi di chirurgia estetica; in realtà all'inizio lo faceva per
evitare di ammalarsi prima dei concerti. Poi scoprì che portare la
maschera lo faceva sentire in incognito (in realtà attirava ancora
di più l'attenzione); alla fine diventò un tratto distintivo del suo
abbigliamento tanto da farsi confezionare le mascherine in seta.
Quando fu fotografato nella camera iperbarica si diffusero subito
voci secondo le quali ci dormiva ogni notte; in realtà l'aveva
donata a un ospedale per le terapie dei grandi ustionati. Di sicuro
Michael a volte giocava con il suo personaggio, ma il suo
comportamento non era mai così bizzarro come veniva
sommariamente interpretato dalla gente.
Per noi era l'amico più divertente, simpatico e giocoso che si
potesse immaginare. Con i miei genitori il suo
comportamento era quello di un adulto umile, gentile e
maturo, un uomo brillante e colto con opinioni interessanti e
profonde; passavano serate intere a parlare con lui e a
imparare da lui. Ritenevano che avesse una buona influenza
sui loro figli: vedevano soprattutto il suo cuore sincero.

Erano consapevoli di quanto fosse affettuoso e responsabile


e avevano totale fiducia in lui, nel suo staff nelle sue guardie
del corpo. Mio padre aveva già trascorso un periodo piuttosto
lungo in tournèe con noi, aveva conosciuto la troupe e
sapeva quali erano i programmi della giornata. Inoltre, aveva
un rapporto molto stretto con il capo della sicurezza Bill Bray.
C'era grande fiducia, consolidata nel tempo. Saremmo stati
al sicuro. Mio padre e sempre stato molto protettivo nei
confronti della famiglia. Noi siamo tutto per lui, e non ci
avrebbe mai messo in una condizione di pericolo. Riteneva
che i pedofili dovevano essere gettati in pasto ai lupi, altro
che prigione (d'altra parte è siciliano). Se i miei genitori
avessero avuto il benché minimo dubbio sull'innocenza di
Michael, credetemi, mio fratello e io non saremmo certo
andati da lui, e meno che mai ci saremmo rimasti.
In questo libro voglio essere assolutamente chiaro, in modo
che chi lo legga possa comprendere: l'amore di Michael per i
bambini era innocente e fu profondamente frainteso. Le
persone pareva facessero fatica ad accettare tutte le buone
qualità di quest'uomo incredibile e si chiedevano quindi
com'era possibile che il cantante più famoso del mondo, il
ballerino più bravo, si divertisse a passare il tempo con dei
bambini. Come poteva scrivere e portare in scena canzoni
con una carica sessuale così forte e poi avere solo rapporti
innocenti con quei bambini di cui si circondava? Come
poteva avere tante fobie, assurde agli occhi di un
osservatore esterno (la chirurgia plastica, gli acquisti bizzarri,
la segretezza), e non essere altrettanto «assurdo» in altri
modi, più ripugnanti?
E’ vero, Michael aveva diverse personalità, allo stesso modo
in cui io diventavo una persona diversa a seconda di dove mi
trovavo, se a casa con la famiglia, in giro con il mio celebre
amico o a scuola nel New Jersey, allo stesso modo in cui
tutti noi assumiamo maschere differenti a seconda della
situazione in cui ci troviamo. Se le varie immagini che
Michael offriva di sé erano così estreme, ciò era dovuto al
fatto che la sua stessa vita era estrema, molto più di quella di
chiunque altro.
Per tutto il duro lavoro che aveva dovuto fare nell'infanzia,
per tutto il perfezionismo che contraddistingueva la sua
musica, Michael bramava la semplicità e l'innocenza della
giovinezza che non aveva mai davvero vissuto. Le venerava,
le custodiva e attraverso Neverland cercò di offrirle agli altri.
Per le persone è difficile comprendere tutto questo, e in tanti
pensarono il peggio. Questo fraintendimento fu il più grande
dolore nella vita di Michael, e lo portò con sé fino alla fine.
Sono qui per affermare che io ho conosciuto il vero Michael
Jackson. L'ho frequentato per tutta l'infanzia. Durante tutto
quel tempo è stato un amico perfetto. Non ha mai fatto
proposte strane o commenti a sfondo sessuale. I miei
genitori erano più saggi di me e di mio fratello. La loro
prospettiva era più ampia della nostra e si fidarono di
Michael in maniera assoluta.

Quando mio padre parlò con Bill Bray della possibilità che io
e mio fratello rimanessimo in tournée, Bill disse: «Sì, Michael
è giù di corda. Quei bambini lo aiutano ad andare avanti». I
miei genitori sapevano che saremmo stati di conforto.
Chiesero alla nostra scuola se potevamo tenerci in pari con
l'aiuto di un tutor. Alla fine, mio padre pronunciò le parole
magiche: «Potete rimanere».

CAPITOLO QUATTRO -
STRAORDINARIO MONDO
E’così, mio fratello e io eravamo in tour con Michael
Jackson. I nostri genitori vennero a trovarci in alcune città
lungo l'itinerario, ma per il resto abbiamo viaggiato,
partecipato ai concerti e trascorso tutto il tempo con Michael.
Lo consideravo ormai una figura paterna e un amico. Prima
della fine della tournée l'avrei conosciuto anche come artista.
Avrei pure assistito, con profonda compassione, agli attacchi
che iniziarono contro Michael il giorno in cui fu accusato di
molestie e che continuarono per il resto della sua vita.
Prima di proseguire per il Sud America, la tournèe fece una
pausa di una settimana in Svizzera. Papà ci lasciò a Gstaad,
dove l'amica di Michael, Elizabeth Taylor, gli aveva offerto di
soggiornare nel suo chalet. Gstaad è una bellissima cittadina
di montagna dove puoi vedere le mucche passeggiare in
mezzo alla gente, scuotendo le grosse teste e facendo
suonare i campanacci.
La prima sera che trascorremmo allo chalet ordinammo una
zuppa di pollo all'albergo Palate in fondo alla strada. Era così
gustosa che la richiedemmo ogni sera. Allo chalet c'era una
specie di nonna, molto dolce, che si occupava di noi. Era
piccola e un po' traballante, e noi ci divertivamo a rispondere
alle sue attenzioni con un entusiasmo esagerato. La
ricoprivamo di baci e abbracci mentre lei ridacchiava
imbarazzata. Comunque, che si trattasse di zuppe o di
vecchiette, era bello esagerare.
Gstaad era l'evasione perfetta dai ritmi del tour. Era così
piccola e così lontana dal resto del mondo che, almeno
all'inizio, Michael poteva passeggiare liberamente per le
strade senza essere riconosciuto né infastidito. Per lui era
una gioia rara. Il primo giorno girammo tra i negozietti,
ammirando e commentando tutto quello che la cittadina
aveva da offrire. A un certo punto decisi di iniziare una
collezione di coltellini tascabili e accendini artigianali.
Immagino che avessi già sentito parlare dei coltelli svizzeri,
ma non ho idea del perché sentissi il bisogno di averne più di
uno. Comunque, una volta presa la decisione, ci dedicammo
completamente alla nuova causa e così, nel corso della
nostra permanenza, individuammo tutti i tipi di coltelli da
tasca della cittadina (e Michael li comprò per la mia
collezione). Con gli accendini, invece, mi piaceva bruciare
pezzi di carta (no, non ero un piromane, ma solo un
adolescente). Più tardi, nel lasciare la Svizzera, Bill Bray mi
chiese di consegnargli gli accendini: non voleva che li
portassi in aereo per ragioni di sicurezza, e disse che li
avrebbe tenuti per me. In realtà, non li rividi mai più. Bill Bray
è morto diversi anni fa e dove siano finiti i miei accendini è
un mistero che si è portato nella tomba.
Un particolare che ricorderò sempre del soggiorno a Gstaad
è che Michael mi fece conoscere musica nuova. Spesso
ascoltavamo qualcosa insieme e ad ogni nostra visita nel
negozio di dischi gli stavo sempre accanto per vedere quali
album catturavano il suo interesse. Seguiva anche le canzoni
più popolari alla radio e si teneva aggiornato sulle classifiche.
Aveva un impiegato il cui unico incarico era quello di
preparare dei nastri con le hit della settimana da tutto il
mondo e spedirglieli immediatamente.
Allo chalet sedevamo per ore ad ascoltare Michael che
faceva il dj e diceva: «Dovete ascoltare questa canzone. Ora
dovete sentire questo gruppo». Ascoltammo Stevie Wonder
e tutte le star della Motown. Ci fece conoscere la canzone di
James Brown «Papa Don't Take No Mess», nella versione
integrale di quattordici minuti. Ascoltammo il pezzo dei Bec
Gces «How Deep Is Your Love?» (ancora oggi penso che sia
una delle più importanti canzoni di tutti i tempi). Michael ci
parlò di Aaron Copland, che considerava il più grande
compositore del ventesimo secolo. Mi fece conoscere tutti i
tipi di musica: country, folk, classica, funk, rock; lì è nata la
mia passione per Barbra Stecisand. Mi innamorai della sua
canzone «People». A Michael comunque piaceva
addormentarsi con la musica classica, specialmente quella di
Claude Debussy.
Ricordo che una volta mise il disco di un gruppo chiamato
«Bread». Non feci molta attenzione alla musica, ero troppo
occupato a prendere in giro il nome. «Pane? Che genere di
nome è questo? Ci vuoi un po' di burro?» e così via con
queste sciocchezze. Ma quando mi calmai un attimo e,
invece di fare dello stupido sarcasmo ascoltai veramente, mi
piacquero così tanto che divennero uno dei miei gruppi
preferiti. Volevo sapere tutto sui Bread: erano proprio il mio
«pane».

Michael parlava spesso dell'universalità della musica. Voleva


scrivere pezzi che chiunque, e in qualunque Paese, potesse
cantare. E infatti, nel corso dei miei viaggi, avrei sentito
persone che non parlavano inglese cantare «Man in the
Mirror», «Heal the World», e poi «Stranger in Moscow».
Diceva sempre che i testi delle sue canzoni si scrivevano da
soli, tutto era incentrato sulla melodia. A Brad Buxer, un
musicista che ci accompagnava in tournée. Michael diceva
sempre mentre componevano insieme: «Suona il pianoforte
come un bambino di cinque anni. Brad, in questo modo,
durerà per sempre».
Il secondo giorno a Gstaad nevicò, ma all'imbrunire il cielo si
schiarì. «Andiamo a esprimere desideri guardando le stelle»,
ci esortò Michael. Uscimmo nel cortile e ci sdraiammo per
terra, guardando in alto l'incredibile cielo stellalo. Poi lui ci
disse, con una punta di misticismo nella voce: «State attenti
a cosa desiderate... si avvererà».

All'improvviso lì accanto sentimmo un fruscio: su un lato del


cortile c'era un uomo. Non c'era nessuno in casa con noi, e
questa apparizione inaspettata non era certo un nostro
desiderio che si avverava. Michael saltò in piedi all'istante,
gridando per spaventare l'intruso; gli gettò persino un
guanto. (Se quel tizio aveva un buon intuito, lo avrà
conservato per i suoi nipoti.)
L'intruso alzò le mani e si difese: «No, no, va tutto bene». Si
rivelò un innocuo operaio venuto a controllare qualcosa, ma
in quel momento ci accorgemmo che, con tutto il suo amore
verso i bambini, Michael si sentiva totalmente responsabile
per noi. Era il nostro protettore, e in quella veste non aveva
paura di niente e di nessuno.
Il giorno seguente si sparse la voce della sua presenza e
cominciarono a sbucare alcuni fans. Più tardi, quella notte, si
radunarono davanti allo chalet e iniziarono a cantare le sue
canzoni. Andammo alla finestra e trascorremmo un po' di
tempo parlando con loro. Non era la prima volta: dovunque
andassimo, Michael attaccava discorso con i suoi fans.
Voleva sapere da dove venivano, che cosa facevano. Li
amava, e non importava quanti fossero, continuava a vedere
e rispettare ognuno di loro come un individuo. Chiunque
amasse la solitudine come lui sarebbe rimasto sconvolto
dagli sciami di fans che lo scovavano ovunque, invece
Michael trovava sempre il modo di mostrare loro la sua
gratitudine e una disponibilità ancora maggiore.
Era aperto nei confronti delle persone come lo era alle nuove
esperienze, e anche questa è una lezione che ho imparato
da lui.
Uno degli addetti alla sicurezza della squadra di Bill Bray,
Wayne Nagin, raggiungeva con un giorno di anticipo ogni
tappa successiva del tour per coordinare trasporti, alberghi e,
in modo particolare, la sicurezza. Dangerous fu un tour molto
importante per Michael. I fans sapevano sempre quando
stava per arrivare in città. Non potevamo viaggiare senza la
scorta della polizia. Al nostro arrivo, la strada tra il jet privato
e l'albergo era sempre invasa, come se l'intera città avesse
chiuso i battenti per dare il benvenuto a Michael Jackson.

A Buenos Aires la folla sembrava più fitta che mai. Durante il


tragitto dall'aeroporto centinaia di persone assediarono l'auto
battendo sui finestrini, desiderosi di vederlo per due secondi
e di toccarlo. Ci salutarono lungo tutto il percorso ai lati della
strada fino all'albergo, neanche fosse stato il Papa. La
macchina si muoveva lentamente e quando Michael metteva
una mano fuori dal finestrino la gente impazziva, urlava e
sveniva per l'emozione di essergli così vicino.
«Queste persone non svengono per te, lo sai», lo provocavo.
«Sono tutti qui per me. Svengono perché ci sono io. Non
senti che gridano 'Fraaaank, Fraaaank!*»
«Scusa, ma non sai chi sono io?» scherzava lui di rimando.
Michael voleva fare shopping, ma gli era impossibile apparire
in pubblico senza essere assalito. Amava i suoi ammiratori,
però naturalmente non poteva stare sempre in mezzo a loro.
Per ironia della sorte, l'amore e il desiderio di avvicinarlo
servivano solo a rendere più profondo il suo isolamento. Era
questa la realtà, e da così tanto tempo che Michael non
sembrava nemmeno più infastidito, e io seguivo il suo
esempio. Ci divertivamo a cercare scappatoie. Spesso ci
travestivamo, ma non esistevano occhiali da sole che
potessero camuffare la sua identità. In una di queste
occasioni, a Buenos Aires, mio fratello e io ci vestimmo da
«nerd», indossando cappelli buffi, occhiali e zainetti. Michael,
per non essere da meno, si travestì da prete su una sedia a
rotelle.
Durante la nostra scorribanda di shopping si innamorò senza
motivo di una statua di Napoleone a cavallo e si addentrò in
una trattativa estenuante con il negoziante d'arte per
spuntare il prezzo migliore. Per quanto spendesse in
maniera stravagante, ne ricavava sempre molta
soddisfazione. Guardarlo nel ruolo di «prete» mentre
acquistava un'enorme statua per una cifra a cinque zeri fu un
vero spettacolo!

Ritornati in albergo, Eddie e io facevamo i compiti che ci


mandavano: dovevamo finirli tutti e rispedirli alla scuola. Gli
insegnanti erano convinti che avessimo un tutor, e infatti ne
avevamo uno... ma la sua identità era ben nascosta.
Eravamo quasi certi che la scuola non avrebbe accettato
l'idea di un Michael Jackson come maestro itinerante.

Per la verità, lui era molto impegnato. E’ anche vero che non
seguivamo esattamente un orario scolastico: le lezioni
avvenivano a volte nel bel mezzo della notte. Ma Michael
sedeva regolarmente con noi e ci aiutava a fare i compiti.
Quando dovevamo leggere libri, lui leggeva dei capitoli a
voce alta, poi ci chiedeva di riassumere quello che avevamo
ascoltato. «Allora, quali sono i personaggi principali? Che
cosa vogliono? Cosa significa?» chiedeva. Allo stesso modo
ci faceva ragionare sui film che ci mostrava. Ci incoraggiava
anche a riflettere sui nostri compiti in maniera diversa da
come eravamo abituati, e a prenderli con serietà.
Voleva inoltre che tenessimo un diario del nostro viaggio.
«Scrivete quello che succede», ripeteva spesso, «perchè un
giorno sarà bello riviverlo.» In ogni Paese voleva che
scattassimo le foto, ci faceva fare ricerche sugli usi e costumi
del posto e poi annotare quanto avevamo fatto e visto. Ci
confrontammo con diverse culture. Visitammo scuole e
orfansotrofi. Eddie e io iniziammo ad avere maggiore
consapevolezza del mondo intorno a noi. Solo molto più tardi
ho capito di dover ringraziare i miei genitori per avermi
consentito di vivere questa esperienza. Ebbero il merito di
riconoscere che l'istruzione non era soltanto leggere,
scrivere e fare di conto. Avevano capito che si poteva
imparare «vivendo».

Sul palcoscenico Michael diventava un'altra persona.


Andammo a tutti i suoi concerti in ogni città. A volte
indossavo il pigiama (ero in una fase in cui mi piaceva
portarlo ovunque). Mentre Michael riscaldava la voce - e a
volte ci volevano anche due ore - Eddie e io giocavamo,
guardavamo cartoni animati e mangiavamo caramelle nel
camerino, sempre pieno di piacevoli distrazioni. Quando
iniziava lo spettacolo di solito rimanevamo seduti tra le
quinte. Qualche volta andavamo a vederlo sul monitor,
oppure chiacchieravamo con la truccatrice, Karen, e il
costumista, Michael Bush, ma in genere assistevamo
attentamente allo spettacolo.
Tutte le sere c'era qualcosa di nuovo. Studiavo Michael,
guardavo i ballerini, che lo temevano, e le reazioni del
pubblico, che mi affascinava sempre. In ogni città lo
spettacolo suscitava un entusiasmo incredibile. Avere intorno
tanta energia era un'esperienza nuova per un ragazzo del
New Jersey. Avevo la sensazione che la gente riuscisse a
scambiarsi pensieri ed emozioni senza nemmeno parlare.
C'era una potenza in Michael e nella sua musica in grado di
muovere e mettere in sintonia degli sconosciuti. Durante i
concerti riusciva a far sentire il mondo un posto più piccolo,
più caldo e più armonioso.

Mi piaceva guardare i fans da dietro le quinte, un sacco di


gente che gridava, piangeva, sveniva, adorava il proprio
idolo. «Questa specie di divinità che tutti venerano è il tipo
che mi aiuta a fare i compiti», pensavo. Spesso mi
domandavo come fosse possibile trovare le stesse persone
in prima fila a ogni spettacolo, in ogni città. Come possono
permettersi di lasciare il proprio lavoro, gli impegni di una vita
per seguire un artista da un posto all'altro? Noi privilegiati
che facevamo parte della tournée volavamo su jet privati, ma
come potevano questi fans arrivare in tempo per lo
spettacolo in tutte le città? C'era un ammiratore di nome
Justin; noi lo chiamavamo Wako, come il personaggio di
Dov'è Wako? perché aguzzando la vista potevamo sempre
scorgerlo tra il pubblico.

Come ultima canzone Michael cantava «Heal the World», e


ogni volta un gruppo di bambini lo accompagnava sul palco
con i costumi di tutti i Paesi del mondo. Mio fratello e io
riuscivamo sempre a scovare qualche abito, lo infilavamo
sopra i nostri e poi entravamo sul palco insieme con tutti gli
altri. Facevamo una buffa danza che noi chiamavamo «The
House» perché ispirata dal fattorino di Michael, Scott
Schaffer, il cui soprannome era appunto «House». Ci
piaceva scherzare con lui; bussavamo alla porta della sua
camera d'albergo dicendo: «House, abbiamo qualcosa per
te». Quando apriva la porta, lo colpivamo con dei cuscini.
Credetemi, a tredici anni è molto divertente.

Dopo aver visto ballare House, inventammo una danza


assolutamente originale ispirata alla sua tecnica. Prima dello
spettacolo dicevamo: «House, stasera faremo 'The House'
sul palcoscenico per te». E subito dopo eccoci lì, Michael,
Eddie e io, a ballare «The House», che consisteva all'incirca
in un dondolio da un piede all'altro in un modo abbastanza
buffo. Vedere due ragazzi sul palco che ballano goffamente
era una cosa, ma quello che mi faceva impazzire era che
Michael, il più grande ballerino del mondo, metteva da parte
tutte le ore di esercizio e coreografia per eseguire un
movimento così stupido davanti a una platea di decine di
migliaia di persone. E tutto solo per far ridere una persona.

Per quanto divertenti e memorabili potessero essere questi


giochetti, niente nello spettacolo poteva essere paragonabile
al momento di «Billie Jean». Michael era mio amico, mi
aiutava nei compiti di scuola, facevamo a cuscinate. Ma
quando cantava «Billie Jean», la sua trasformazione era
impressionante. Appena sentivo l'inizio della batteria, andavo
praticamente in trance, con gli occhi inchiodati a ogni suo
movimento.
Parte di quella splendida performance era dovuta al fatto
che, in qualche modo, appariva semplice e naturale.
Tuttavia, dietro quella semplicità, si poteva intuire la
profondità della composizione e della storia che Michael
voleva raccontare. Per ogni canzone che eseguiva, sapeva
esattamente cosa voleva far capire alle persone, cosa far
arrivare, cosa intendeva dare. Mentre cantava, questa
ambizione filtrava da ogni fibra del suo essere: Michael
«diventava» la canzone. Lo si poteva vedere soprattutto in
«Billie Jean», ma anche in «Thriller». Oltre la musica, la
danza, il coro, lo stadio stesso, c'era una sensazione di forza
e di magia che trascendeva i singoli elementi dell'esibizione.
Il risultato era qualcosa di assolutamente intenso e unico,
molto più grandioso di quanto ci si potesse aspettare. Il
pubblico avvertiva la grande intensità dell'esecuzione. Il
processo creativo di «Billie Jean» portava a quell'unico
momento, come se ogni volta che aveva cantato la canzone
in precedenza non fosse stata che la prova prima del debutto
in quella sera particolare. Michael era un tutt'uno con la sua
arte.
Questa trasformazione era un'arte che esercitava e in cui era
maestro. Mi diceva: «Pensa intensamente a ciò che vuoi far
vedere al mondo, e accadrà». Michael predicava la
canalizzazione della forza dell'universo molto prima della
pubblicazione di libri come The Secret di Rhonda Byrne. Mi
diceva che potevo realizzare qualunque cosa in cui avessi
creduto. Cerco di applicare quella filosofia a tutti gli aspetti
della mia vita: quando so cosa voglio, penso intensamente al
risultato finale. In questo modo tutta la mia energia viene
indirizzata nella giusta direzione, verso l'obiettivo finale.
La canzone in origine si intitolava «Not My Lover». Quincy
Jones, il coproduttore di «Thriller», in realtà non la voleva
nemmeno nell'album, ma Michael insistette ed ebbe ragione.
Qualunque cosa facesse era incredibile, ma «Billie Jean» sul
palcoscenico rappresenta per me la quintessenza del suo
intero repertorio. Ogni volta che lo osservavo nella sua
esibizione era impeccabile e avvincente. Mi veniva la pelle
d'oca.

Durante la tournée conobbi altri amici e collaboratori di


Michael. A Santiago del Cile ricevette la visita del suo
dermatologo. Aveva una malattia della pelle chiamata
vitiligine. Me ne aveva già parlato anni prima, a Neverland,
spiegandomi che gli causava delle chiazze dovute alla
perdita di pigmentazione. Mi mostrò anche foto di persone in
uno stadio avanzato della malattia; quelle di pelle scura
avevano macchie bianche evidenti e deturpanti su tutto il
corpo. Michael odiava quella malattia, ma si sentiva fortunato
perché poteva permettersi il trattamento, che consisteva
nello schiarire il resto della pelle uniformando il colore.
Sosteneva che il suo dermatologo, il dottor Arnold Klein, era
il miglior specialista; tanti si rivolgevano a lui, persino
Elizabeth Taylor.

L'infermiera Debbie Rowe, che lavorava con il dottor Klein


aveva accompagnato a Santiago anche per assistere a un
paio di concerti. Mi piacquero subito entrambi. Klein era una
specie di grande orso, un tipo molto carismatico, mentre
Debbie era una donna ardita e coraggiosa che diceva
sempre quello che pensava. Nel corso della tournée
assistetti al lavoro di Michael con il musicista Brad Buxer per
scrivere la canzone «Stranger in Moscow». Mosca era stata
una delle tappe iniziali della tournée, prima che arrivassimo
Eddie e io. Durante la permanenza, Michael si era sentito
molto triste e solo a causa delle accuse che stava
affrontando. Era seduto sul pavimento della cabina-armadio
della sua camera d'albergo e piangeva, quando gli venne la
canzone.

Brad a quel tempo era il suo direttore musicale e produttore


personale e tra loro c'era una collaborazione davvero unica.
Michael gli parlò del pezzo, intonandogli la melodia. Brad,
che aveva allestito uno studio di registrazione nella sua
camera d'albergo, partendo dalla melodia creò la canzone.
Vi lavorarono senza interruzione: Michael cantava le parole e
dava dei suggerimenti a Brad, che li trasformava in musica.
Guardandoli lavorare vidi come una canzone inizia da
un'idea, con semplici accordi, e si perfeziona nel tempo.
Michael sosteneva che una canzone doveva scriversi da
sola. Era lei che suggeriva il proprio sviluppo. Lui cominciava
spontaneamente a cantare e a ballare, mentre la canzone si
evolveva nel suo cuore e nella sua mente.

La canzone «Stranger in Moscow» sarebbe uscita sull'album


HiStory . Rimarrà sempre una delle mie preferite perché ho
visto Michael crearla e produrla dall'inizio alla fine. Ero
addirittura sul set quando, tre anni dopo, fu girato il video. Fu
la canzone che mi fece amare l'arte di fare musica.
Michael mi introduceva in un mondo straordinario. Oltre alle
esperienze dei concerti, viaggiavo, visitavo posti nuovi,
incontravo i fans e le autorità. Il mio orizzonte si allargò in
maniera enorme e permanente. Capii che il mondo era una
realtà ben più grande della mia piccola scuola media.
Imparai ad apprezzare e a rispettare le culture diverse, ma la
rivelazione maggiore fu scoprire l'emozione di fare arte e
vedere come la gente reagiva positivamente di fronte ad
essa. Michael, come mio mentore, riconobbe quell'impulso e
lo coltivò.

Comprese anche che il talento e gli interessi di Eddie erano


differenti, e lo indirizzò diversamente. Eddie è sempre stato
un musicista eccezionale. Crescendo, avrebbe migliorato la
sua abilità studiando gli aspetti tecnici della produzione
discografica. Michael gli diceva sempre: «Impara bene. Verrà
il tuo momento. Sii paziente. Continua a scrivere.
Concentrati». Io capivo in modo vago che sotto la sua tutela
Eddie e io stavamo vivendo in parallelo esperienze diverse.
Pur essendo molto vicini, parlavamo poco di quello che
accadeva durante la tournée, con Michael, o dentro di noi.
Eravamo troppo occupati a viverlo.

Per noi era quasi impossibile capirlo, ma mentre Michael ci


aiutava a cambiare la nostra vita, lui stava attraversando uno
dei periodi più duri della sua.

CAPITOLO CINQUE - IL SACRIFICIO


Anno 1993. Pensate a tutte le cose orribili che sono state dette
in quel periodo su Michael Jackson. Pensate a tutte le battute
durante i talk-show notturni, a tutte le accuse, a tutti gli epiteti.
Adesso immaginate di essere quella persona, quella persona
innocente contro cui sono state scagliate tutte queste cattiverie,
questo odio, questa energia negativa. Immaginate il danno che
avrebbero provocato anche nel più forte degli uomini. Michael
era un professionista, e sebbene dalle sue esibizioni non
trasparisse nulla, come uomo in quel periodo soffrì moltissimo.
Era solito dire: «Ho la pelle di un rinoceronte, sono più forte di
tutti loro», ma dietro quell'aria spavalda Eddie e io potevamo
scorgere la verità.

Le accuse mosse dal padre di Jordy contro di lui erano per


Michael fonte di continua ansia. A volte la notte si sfogava:
«Voi non capite (e in effetti era così), il mondo intero pensa
che sia un pedofilo. Non potete immaginare come ci si sente
a essere accusati ingiustamente, a essere chiamati 'Wacko
Jacko*.* Giorno dopo giorno, devo salire su quel
palcoscenico ed esibirmi fingendo che sia tutto perfetto. Do
tutto quello che posso, faccio lo spettacolo che vogliono
vedere. Nel frattempo il mio personaggio e la mia
reputazione sono costantemente sotto attacco. Quando
scendo dal palco, la gente mi guarda come fossi un
criminale».

* Letteralmente: «Jacko il pazzoide». (N.d.T.)

Penso che inconsapevolmente, il nostro sostegno lo abbia


aiutato a proseguire la tournée finché fu in grado di farcela.
Soprattutto per Eddie, che aveva solo undici anni. Michael era
responsabile per noi. Non poteva crollare di fronte a dei bambini,
doveva essere forte, e in qualche modo questo lo aiutò ad
andare avanti.
Quando arrivammo a Città del Messico nessuno, nemmeno
lui, immaginava che sarebbe stata l'ultima tappa. Di notte
stava malissimo, non so se per lo stress psicologico causato
dalle accuse o per la mera fatica fisica dovuta ai tanti
concerti. Durante lo spettacolo traspirava così tanto che
rischiava di disidratarsi, e chiamava uno o talvolta anche due
medici per aiutarlo a riprendersi. Lo curavano durante il
giorno, somministrandogli ricostituenti e flebo reidratanti. Per
recuperare beveva l'Ensure, un integratore di proteine e
vitamine.
Poi però, la notte, poco prima che andasse a letto, veniva
sempre un medico che gli dava una «medicina». Ero un
bambino. Tutto quello che sapevo era che questa medicina
doveva aiutarlo a dormire. Solo più tardi scoprii che si
trattava del Demerol.

Michael aveva iniziato ad assumere farmaci, in particolare il


Demerol, prima ancora che lo conoscessi. Nel 1984 i suoi
capelli presero fuoco durante le riprese di una pubblicità
della Pepsi. Riportò ustioni di secondo e terzo grado: erano
terribilmente dolorose, e i medici gli prescrissero degli
antidolorifici. Ora, in tournée, trovandosi di nuovo ad
affrontare un intenso dolore fisico fece ancora ricorso a
queste droghe. Forse seguiva solo le indicazioni dei medici:
con l'adrenalina accumulata durante i concerti era l’unico
modo per dormire. Per quanto ne so, le terapie potevano
anche essere una sua idea. Fatto sta che, in conclusione,
Michael cominciò a dipendere dal Demerol per scaricarsi
dopo i concerti e più verosimilmente per sfuggire allo stress,
alla pressione e alle responsabilità che gli derivavano dalla
sua vita straordinaria. Chi può davvero mettersi nei suoi
panni? Di giorno era circondato da fans sfegatati che
strillavano togliendogli il respiro, di notte si esibiva per
diverse ore in veste di Re del Pop. Tornato a casa doveva
invece cercare di riposare per ripetere tutto da capo
l’indomani. Era sicuramente impossibile passare dal ritmo
indiavolato dello spettacolo alla calma completa del sonno. È
un modo di vivere innaturale per un essere umano, solo una
macchina avrebbe potuto farcela.

Questa era la sua vita, giorno dopo giorno. E in più, adesso


c'era il peso devastante delle false accuse di molestie su
minori.

Non potrei dire che fosse sconvolto, esausto o oppresso, ma


mio padre, durante le visite periodiche che ci faceva durante
la tournée, notò il pesante stress cui era sottoposto Michael
e come questo lo stesse debilitando fisicamente. A ripensarci
oggi, quando era sfinito e sopraffatto, Michael aveva solo
due possibilità. La prima era ammettere che non ce la faceva
più. Ma era un perfezionista, non voleva mostrare la sua
debolezza. Voleva provare al mondo che era innocente e
che era tanto forte da combattere le accuse contro di lui. In
realtà, non prese mai in considerazione l'ipotesi di mollare.
L'unica altra opzione che gli si prospettava era usare ogni
mezzo possibile per resistere. Non lo faceva per stordirsi,
doveva andare avanti con la sua vita malgrado pressioni
insopportabili, e lo fece nell'unico modo in cui poteva.

All'epoca, la «medicina» che assumeva per dormire non


aveva ripercussioni nel mio rapporto con lui. I dottori
arrivavano e dopo Michael andava subito a letto. Avevo
dedotto che prendeva dei farmaci che lo aiutavano a
riposare, non sapevo nulla di prescrizioni di antidolorifici. Il
medico era lì per assicurarsi che lui stesse bene. Per un
ragazzino come me il mondo era ancora semplice.
Bianco o nero, e i medici prescrivevano i farmaci per curare i
loro pazienti. Supponevo che il mio amico fosse in buone
mani.

Oggi, guardando al passato con gli occhi di un adulto, mi


vengono in mente un paio di episodi in cui fu evidente la
devastazione provocata in lui dallo stress accumulato. Una
volta fu quando io, Eddie e Michael stavamo facendo i
compiti. Michael sembrava tranquillo. Poi, all'improvviso,
disse qualcosa di molto strano: «Mamma, voglio andare a
Disneyland a vedere Topolino».
Rimasi sconcertato e confuso.
«Testa di Mela, tutto bene?» Al suono della mia voce
Michael tornò alla realtà; sembrava non avesse coscienza di
ciò che aveva appena detto. Quando gli ripetei le sue parole
ribatté: «Deve essere la medicina, qualche volta mi porta a
fare queste cose». Per la prima volta avvertii che c'era
qualcosa che non andava. Ero preoccupato, e più tardi chiesi
spiegazioni al dottore. Disse che il lapsus di Michael era un
normale effetto collaterale della medicina che prendeva, e
non c'era niente di cui preoccuparsi. Avevo tredici anni e mi
fidavo dei medici. Perché non avrei dovuto? Solo oggi mi
colpisce il fatto che forse, in quel momento di confusione
mentale, Michael stava rivelando i suoi desideri più reconditi:
il sogno di essere un bambino che voleva andare a
Disneyland con i suoi genitori.

Un'altra volta, a Santiago, capitò qualcosa di strano nella


piscina idromassaggio dell'albergo. Stavamo facendo il
bagno (non so perché, ma Michael indossava sempre i
pantaloni del pigiama e una maglietta, mai il costume). Forse
stavamo giocando a chi tratteneva di più il respiro sott'acqua.
All'improvviso Michael disse: «Ora trattengo il respiro» e si
immerse sott'acqua. Il tempo passava. Eddie e io ci
guardavamo nervosamente. All'inizio vedevo le bolle
sollevarsi dal naso, poi neppure quelle. Alla fine non ce la
feci più e mi tuffai per riportarlo in superficie. «Testa di Mela,
stai bene?» chiesi. Era cosciente, ma un po' frastornato. «Sì,
non so cos'è successo», disse, «devo essermi
addormentato.»

Può sembrare strano, ma nonostante tutto sono quasi certo


che non fosse drogato. Con il passare degli anni sono
diventato piuttosto bravo a distinguere quando era sotto
l'effetto di qualcosa e quando no, e a posteriori credo
davvero che in quell'occasione non avesse preso niente. Era
un po' intontito e sembrava non riuscire a credere a ciò che
era appena successo. Cominciò a scusarsi, dicendo che non
voleva spaventarci. Sapeva che noi facevamo affidamento
su di lui, e non voleva mostrarci la sua vulnerabilità.
Comunque pensavo che Michael stesse bene finché, prima
di uno dei concerti di Città del Messico, non comparve
all'improvviso Elizabeth Taylor. Michael adorava alcune
icone del cinema: Elizabeth era una delle sue preferite. Si
immedesimava soprattutto nei bambini prodigio
contemporanei e del passato (anche lei lo era stata) perché
sentiva che avevano condiviso le stesse esperienze.

Fu proprio mio padre a organizzare il primo incontro tra


Michael ed Elizabeth Taylor. Lei era ospite del Palace Hotel
in occasione del matrimonio di una delle sue figlie. Michael,
che stava per ripartire dall'albergo quello stesso giorno,
chiamò mio padre: «Dominic, per favore, puoi far avere
questo messaggio a Elizabeth Taylor? Vorrei tanto
incontrarla». Mio padre consegnò l'appunto alla diva al suo
rientro in camera dopo il matrimonio. Quando Michael tornò
in quell'albergo, due o tre mesi più tardi, chiese più volte a
mio padre: «Hai dato la lettera a Elizabeth? Sei sicuro che
l'abbia ricevuta?» Non poteva credere che non si fosse
messa in contatto con lui.

Finalmente dopo un mese arrivò la chiamata di Elizabeth, e


la volta successiva che incontrò mio padre Michael gli
raccontò felice che avevano cenato insieme. Il resto è storia.
Era una donna dal cuore grande, e si comportò in modo
molto materno. Cenavano insieme tutte le volte che i loro
impegni li portavano a essere vicini, e si scambiarono anche
qualche favore: lei gli lasciò il suo chalet a Gstaad, lui ospitò
a Neverland l'ottavo e ultimo matrimonio di Elizabeth, quello
con Larry Fortensky. All'epoca dei concerti di Città del
Messico Michael la considerava ormai un'amica fidata, e
perciò all'inizio era entusiasta della sua visita. Ma prima dello
spettacolo, dietro le quinte, Elizabeth prese da parte Eddie e
me.
«Michael deve andare via per un po'», ci confidò. «Non si
sente bene e gli daremo una mano. Dopo lo spettacolo
prenderà un aereo e lo porteremo in un posto sicuro.»

E così Michael entrava in cura. Eravamo stati insieme per


quasi due mesi quando, di colpo, la nostra avventura si
interruppe. Per Michael non c'eravamo solo io e Eddie:
c'erano anche i nostri genitori, i nostri fratelli e sorelle. Gli
eravamo stati vicini durante il periodo più difficile della sua
vita. Con noi aveva trovato persone che lo sostenevano e lo
amavano per quello che era, senza badare a ciò che la gente
diceva di lui. Spesso mi chiedo cosa vedeva in me, e penso
che la risposta sia semplice: dai miei occhi si sentiva
riconosciuto per quello che realmente era. Mi piaceva per le
stesse cose per cui lui si piaceva. Era uno dei miei migliori
amici, e basta. Quella sera Eddie e io guardammo l'ultimo
spettacolo, ma sapevamo che tutto sarebbe cambiato. Il
resto della tournée sarebbe stato cancellato, e noi ci
sentivamo terribilmente tristi.

Dopo lo show andammo all'aeroporto con Michael. Ci


salutammo in macchina, piangendo come bambini tutti e tre.
Lui salì sul jet privato che lo attendeva e che lo avrebbe
portalo a Londra, per iniziare la terapia di riabilitazione.
Nessuno, a parte noi, sapeva della sua partenza. Tornati in
albergo, una guardia del corpo si coprì il volto con un
asciugamano scuro e salutò i fans fingendo di essere
Michael. Quella notte Eddie e io rimanemmo a parlare per
ore seduti sul suo letto. Senza di lui, la stanza era
stranamente vuota. I miei genitori erano in viaggio per
raggiungerci: avevano già programmato di venire a trovarci a
Città del Messico. Al loro arrivo Bill Bray spiegò l'improvviso
cambiamento di programma, la cancellazione dei concerti
successivi e le terapie di Michael. Per i miei l'unica notizia
certa era che Michael non stava bene e che aveva bisogno
di una pausa dalle incessanti fatiche del tour. Non pensarono
assolutamente che entrava in cura perché dipendente dalle
droghe, né che avevano lasciato i loro figli in mano a
qualcuno che usava stupefacenti, idea che farebbe inorridire
qualunque genitore. All'epoca non videro nessun rapporto tra
Michael e le droghe (ciò che invece un giorno sarebbe
diventato più complicato ed evidente), e avevano ragione a
fidarsi di lui: mentre si prendeva cura di noi non avrebbe mai
permesso che qualcosa di negativo interferisse.
Negli anni a venire, Michael ci spiegò che la cancellazione
della tournée non aveva nulla a che fare con la dipendenza
da droghe. La tappa successiva sarebbe stata Puerto Rico,
su suolo americano, e se fosse entrato negli Stati Uniti
probabilmente lo avrebbero arrestato con l'accusa di
molestie sessuali. Per evitare ciò i suoi agenti avevano
dovuto trovare una scappatoia. L'unico modo in cui
l'assicurazione avrebbe coperto i danni provocati dalla
cancellazione di parte della tournée era nel caso ci fossero
stati problemi di salute. Perciò Michael annunciò al mondo
che aveva un problema con gli antidolorifici. Fu umiliante, un
altro duro colpo alla sua reputazione, ma non aveva altra
scelta.

Abbandonare il tour in quelle circostanze deve essere stato


devastante per lui. Per quanto mi riguarda, nel mio piccolo,
dopo aver viaggiato per mezzo mondo e aver preso parte al
tour di concerti di uno dei più famosi personaggi dello
spettacolo, mi accingevo a riprendere la terza media, nel
New Jersey: davvero un brusco risveglio.

CAPITOLO SEI - DUE MONDI

Eddie e io lasciammo il Messico il 13 novembre 1993


terminando anzitempo il nostro fantastico viaggio. Ritornare
alla vita normale fu molto difficile. Prima della tournée ero
eccitato all'idea di frequentare una nuova scuola in una
nuova città. La mamma mi aveva portato a comprare abiti e
tutto l'occorrente per l'anno scolastico, ma con il mio arrivo
così teatrale avevo tutti i riflettori puntati addosso e le
giustificazioni per il ritardo non fecero che aumentare la
curiosità. Ero già famoso tra i miei compagni di terza media
prima ancora di incontrarli.

Michael era accusato di molestie su minori, ed ecco qui un


ragazzino che aveva viaggiato con lui. Devo ammettere che
dall'esterno questo doveva sembrare piuttosto curioso. Non tutti
lo conoscevano abbastanza bene per fidarsi di lui come avevano
fatto i miei genitori. Persino il procuratore distrettuale mandò un
fax a mio padre esprimendo preoccupazione all'idea che mio
fratello e io trascorressimo del tempo con Michael Jackson. Mio
padre lo ignorò. La stampa ovviamente si accanì su di noi.
Piantarono le tende davanti a casa nostra. Diane Dimond, una
corrispondente della trasmissione Hard Copy, si presentò alla
porta e puntò un microfono in faccia a mio padre. La gente mi
inseguiva quando uscivo di casa, i giornalisti arrivarono
addirittura fuori dalla scuola chiedendo informazioni su di me a
tutti i ragazzi. I nostri vicini, che all'epoca per noi erano degli
sconosciuti, rivelarono in seguito a mio padre che ai loro ragazzi
erano state offerte centinaia di dollari in cambio di foto e notizie
su di noi. La scuola emise una circolare che ordinava agli
studenti di non parlare con la stampa. Vista la confusione,
Michael mandò il capo della sua security, Wayne Nagin, a stare
con la nostra famiglia finché la situazione non si fosse
normalizzata. I miei genitori non ne fecero un dramma.
Continuavano semplicemente a dire a me e a Eddie: «State
attenti a cosa dite. Andate avanti e vivete la vostra vita».

Ma la mia vita era cambiata. Camminando nell'atrio della scuola,


sentivo bisbigliare: «Quello e il ragazzo che stava con Michael
Jackson». Alcune persone pensavano che fossi strano, bizzarro,
altre mi trovavano intrigante. La ragazza più carina della scuola
voleva uscire con me. Era fantastico. Io ero contento di andare
alle feste con lei, ma sapevo che non era veramente interessata
a me. Feci amicizia con un certo Brad Roberts, che capì il modo
in cui venivo giudicato e divenne piuttosto protettivo nei miei
confronti; sapevo di avere il suo sostegno. Normalmente un po'
di attenzione non mi preoccupava: ero uno di quei ragazzi che,
per esempio, si divertono a puntare di nascosto un raggio laser
sulle persone e a guardarle mentre cercano di scoprire da dove
proviene la luce. Tuttavia, allora anch'io avrei voluto puntare i
riflettori da un'altra parte.

Quell'anno, l'esperienza di frequentare la nuova scuola mi


cambiò. Non ero uno stupido. Sapevo che tutta l'attenzione su di
me derivava dal mio legame con Michael. Divenni molto cauto
nella scelta di nuovi amici, in quello che dicevo e a chi lo dicevo.
In genere ero molto riservato e tenevo la bocca chiusa su quanto
avevo appena vissuto. Non mi interessava ottenere notorietà in
questo modo. Per qualche ragione, molto probabilmente per
l'esempio dei miei genitori, mi sentivo obbligato a essere leale.
Volevo proteggere Michael e non sapevo di chi fidarmi. Non
capivo quali fossero le intenzioni e i fini ultimi delle persone che
mi stavano intorno, specialmente dopo le accuse di Jordy. Fu
duro lasciare da parte le mie esperienze con Michael, ma la
discrezione mi costrinse a farlo.

In quel periodo imparai a dividere la mia vita in compartimenti


stagni. In uno c'era la famiglia e la scuola, nell'altro la mia vita
con Michael. Anche la maggior parte degli adulti prima o poi si
adatta a questa regola: avviene una divisione naturale tra
l'ambito lavorativo e quello domestico, e la separazione tra
pubblico e privato che caratterizzava la mia vita non era diversa.
Non menzionavo mai Michael, che tuttavia era parte integrante
della mia esistenza. I viaggi con lui, le vacanze, le telefonate, le
risate, le preoccupazioni, le lezioni di vita... Tenevo tutto per me.
Diventai una persona che pensava attentamente prima di
parlare, e questa cautela non mi ha più abbandonato.

All'inizio Michael fu ricoverato in una casa di cura a Londra.


La mia famiglia e io gli parlavamo al telefono ogni giorno per
ore, passandoci il ricevitore l'un l'altro per fargli compagnia.
Arrivammo al punto di installare quello che noi chiamavamo il
«bad- telefono»: una linea solo per lui. La linea 1 era il
telefono di casa, la linea 2 era il fax e la linea 3 era quella
riservata a Michael. Si lamentava di come veniva trattato dal
personale della clinica. Quel posto era molto simile a un
ospedale psichiatrico, diceva, e lui sapeva bene di non
essere pazzo.

Un giorno non ce la fece più e riuscì a scappare in strada. Alcuni


inservienti lo inseguirono e lo riportarono indietro. Alla fine si fece
avanti Elton John e predispose che fosse portato in un altro
luogo di riabilitazione, una residenza privata fuori Londra molto
più adatta a lui.
Subito dopo il trasferimento Michael ci chiese di andare a
fargli visita. Per fortuna stavano per iniziare le vacanze del
Ringraziamento e così, con il permesso dei miei genitori,
Wayne portò Eddie e me a Londra per quattro o cinque
giorni.
La clinica era situata in una casa di campagna: un posto
accogliente, confortevole e casalingo, con tanto di caminetti.
Michael fu veramente felice di vedere dei volti familiari. Ci
fece fare un giro, presentandoci i suoi nuovi amici e
descrivendoci la sua routine quotidiana, eccitato come un
bambino che mostra la sua scuola.
Ripensandoci oggi, quella fu probabilmente l'esperienza più
vicina alla scuola che abbia mai avuto. Le giornate dei
pazienti erano riempite da varie attività e questi passavano il
tempo giocando, leggendo, guardando film e facendo lavori
manuali. Michael era piuttosto orgoglioso dei suoi: ci mostrò
raggiante un dinosauro che aveva fatto con la carta.
Durante la nostra visita ricevette diverse telefonate
dall'avvocato Johnnie Coehran. Parlavano di sistemare la
faccenda pagando un importo sostanzioso alla famiglia di
Jordy affinché ritirasse le accuse. Michael però non voleva
un simile accordo. Era innocente e non vedeva la ragione di
pagare le persone solo per farle smettere di raccontare bugie
su di lui. Voleva combattere, ma le cose non erano così
semplici. Il fatto è che Michael era una macchina da soldi, e
nessuno voleva che smettesse di esserlo. Se avesse
sottratto tempo alla carriera per un processo di due o tre
anni, non avrebbe prodotto i miliardi di dollari che facevano
di lui un'industria di livello mondiale. Dato che le spese legali
sarebbero state di gran lunga superiori a qualsiasi
compromesso, la sua compagnia di assicurazione era
determinata a conciliare.
Johnnie gli chiese se intendeva veramente subire un
processo. Se voleva che la sua vita privata fosse data in
pasto al pubblico. Se Michael avesse accettato la
conciliazione, in breve avrebbe invece potuto riprendere la
sua vita e ritornare a occuparsi di ciò che sapeva fare
meglio. E fu così che accettò un accordo per una cifra che mi
pare oscillasse intorno ai trenta milioni di dollari. Come ebbi
modo di capire in seguito, non aveva avuto molta scelta. Alla
fine, la decisione se battersi in tribunale o concludere una
transazione amichevole era in mano alla compagnia di
assicurazione.
L'accordo era in preparazione quando arrivammo in
Inghilterra e fu concluso mentre ci trovavamo lì. Michael era
finalmente libero di tornare negli Stati Uniti e ansioso di
rivedere la sua casa. Così, dopo appena due giorni a Londra,
Eddie e io salimmo con lui sul suo jet privato per rientrare a
Neverland.
Per Michael fu duro tornare sapendo che la sua casa era
stata perquisita dalla polizia in cerca di indizi contro di lui. Il
suo staff aveva ovviamente risistemato tutto, ma alcuni effetti
personali, i libri per esempio, sarebbero stati restituiti in
seguito. Michael sentiva che la sua privacy era stata violala,
ma Neverland era la sua casa e per lui rappresentava ancora
il posto più sicuro in cui stare.
Anche se faceva di tutto per non scaricare su di noi il peso
delle sue preoccupazioni, c'erano momenti in cui vedevo che
la sua mente era altrove, e lui si allontanava scusandosi con
il pretesto di una telefonata. Non voleva che Eddie e io
risentissimo in qualche modo dei suoi problemi di adulto, e
così noi restavamo beatamente ignoranti, e sottolineo
«beatamente».
Mentre eravamo in tournée, Michael aveva progettato e fatto
costruire delle golf cari personalizzate per me e Eddie da
usare a Neverland. Avevo una golf cari tutta mia! Era
grandioso, praticamente come avere la prima automobile,
oltre a significare un invito sempre aperto per Neverland.
Macaulay Culkin, che avevo incontrato un paio di volle a
New York a causa di Michael, era, con i suoi fratelli, un
ospite frequente a Neverland. Erano amici da quando Mac
aveva interpretalo Mamma ho perso l'aereo. Lui aveva già la
sua golf cart privata, era viola e nera. La mia, nera e verde
chiaro. Quella di Eddie era nera con la figura di Peter Pan sul
davanti. Erano tutte dotate di lettore CD con un eccezionale
impianto stereo. Saltavamo su quelle macchine e
scorrazzavamo per tutta la tenuta a grande velocità. Allora
ero molto spericolato e correvo come un pazzo per i ripidi,
stretti e difficili sentieri che si allungavano dal ranch fino alle
montagne, con precipizi spaventosi su entrambi i lati.
La notte, come al solito, Michael, Eddie e io ci facevamo il
letto con coperte e cuscini sul pavimento della camera di
Michael. Come risultato delle accuse e delle azioni legali, agli
occhi del mondo la sua innocenza infantile si era deformata
in qualcosa di patologico e raccapricciante, ma nessuna
chiacchiera aveva influenzato il nostro modo di dormire, e
nessuno di noi ha mai avuto la minima esitazione su questo.
Sapevano tutti che non dovevano azzardarsi a prendere il
posto vicino al camino: quello era mio. Chiamavamo questi
letti sul pavimento le nostre «gabbie», e se qualcuno si
avvicinava alla mia, dicevo: «Ehi, e la mia gabbia. Non
toccarla». Mettevo della musica classica e mi addormentavo
cullato dalle dolci melodie e dall'intimo calore del fuoco.
Comunque, dato che spesso avevo difficoltà a dormire,
aspettavo che la casa fosse buia e silenziosa per
sgattaiolare nel bagno di Michael ad ascoltare musica. Può
sembrare strano, ma il bagno aveva un impianto audio
eccezionale, con altoparlanti Tannoy e tutto il resto. L'aveva
fatto installare perché gli piaceva sparare musica a tutto
volume mentre si vestiva e si preparava per la giornata e lo
utilizzava molto, considerando quanto tempo gli ci voleva
prima di essere pronto. Michael trovava divertente che io
dormissi così poco. Scherzando mi consigliava di spostare il
letto nel bagno e qualche volta si trascinava lì dentro ad
ascoltare qualcosa con me.
In quel bagno Michael teneva molta della sua musica: demo
di pezzi che voleva registrare o canzoni su cui stava
lavorando ma non ancora terminate. Così di notte, da solo,
ascoltavo quel tipo di musica. Talvolta rimanevo in quella
stanza per ore, ascoltando e riascoltando le stesse canzoni.
Era come avere un concerto solo per me.
Una delle canzoni non ancora pubblicate che preferivo era
«Saturday Woman», su una ragazza che cerca di attirare
l'attenzione e frequenta tante feste invece di concentrarsi
sulla sua relazione. Il primo verso diceva: «Non voglio dire
che non ti amo. Non voglio dire che non approvo...» poi
Michael biascicava il resto delle parole perché non le aveva
ancora scelte bene. Il coro continuava: «È la donna del
sabato. Non voglio vivere da solo tutta la vita. È la donna del
sabato». Mi piaceva anche «Turning Me Off», una canzone
ritmica che non aveva inserito nell'album Dangerous:
un'altra, «Chicago 1945», su una ragazza scomparsa; un
pezzo delizioso, «Michael McKellar», e una canzone che alla
fine fu inserita in Blood on the Dance Floor intitolata
«Superfly Sister». L'ho ascoltata e riascoltata per anni prima
che uscisse.
Registrando la canzone «Monkey Business» Michael
spruzzò d'acqua il suo scimpanzé Bubbles e incise sul nastro
il suo grido di risposta: si sente all'inizio della canzone.
Questo pezzo si trova solo su un'edizione speciale dell'album
Dangerous. Un'altra canzone che adoravo era «Scared of
the Moon», che sarebbe uscita in Michael Jackson: The
Ultimate Collection. Michael mi disse di averla scritta dopo
una cena con Brooke Shields, durante la quale lei gli aveva
raccontato che una delle sue sorelle aveva paura della luna.
Disse: «Aver paura della luna... Ti immagini?»

Alcuni dei pezzi che ascoltavo erano appena abbozzi di


accordi con accenni di melodia, ma malgrado tutto credo che
sarebbero stati dei successi. Conoscevo così bene quelle
canzoni inedite che iniziai a suonarle sul piano. Michael mi
prendeva in giro: «Ecco, ora mi rubi le canzoni. Non sei più
autorizzato ad ascoltarle». Lo diceva in modo scherzoso, e in
effetti le mie esecuzioni erano così scadenti da oscurare
completamente il valore dei pezzi, ma mi disse chiaramente
che non voleva che suonassi la sua musica al di fuori della
famiglia. Andava in paranoia pensando che qualcuno
potesse rubargli le idee, una fissazione innocua che a quel
tempo sembrava la tipica mania di possesso che un artista
ha per le proprie creazioni.

Tuttavia, alla fine vedemmo con i nostri occhi la crescente


espansione di questa paranoia ben oltre la sua musica, fino
a diventare parte dominante della sua personalità.
Una volta al Beverly Milton, presso gli Universal Studios,
stavo suonando al piano qualcosa che avevo scritto e mi
soffermai su alcuni accordi. Li suonai per un po' e subito
dopo giuro di aver sentito Michael suonare gli stessi accordi
nella canzone «The Way You Love Me». (gli chiesi: «Dov'è
la mia metà dei diritti?» Ovviamente scherzando, ma lui la
prese sul serio e affermò che quegli accordi erano diversi.
Michael e io litigavamo sempre su chi dei due rubava
all'altro.
A Neverland, stare in quel bagno era diventato uno dei miei
passatempi preferiti. Ci andavo quasi ogni notte. Quando
suonavo, preferivo la musica melodiosa: ancora oggi
preferisco le sonorità tristi e deprimenti. Eppure, a stare
seduto da solo, con gli incredibili altoparlanti Tannoy e le
canzoni inedite di Michael, ero veramente felice.

Ancora una volta mi piace pensare che la spensieratezza


della nostra giovane età lo abbia aiutalo a sopportare lo
stress della sua esistenza. O gli facevo compagnia, lo
aiutavo a rimanere positivo. Eppure c'erano delle crepe su
quella facciata, momenti in cui i suoi occhi si oscuravano
all'improvviso e la sua mente vagava lontano. So che le
argomentazioni a favore dell'accordo legale con la famiglia
Chandler avevano senso, ma ritengo che, per quanto
incredibilmente bravo fosse l'avvocato Coehran abbia fatto
male a concludere l'affare in quel modo. Dopo quel fatto,
Michael non fu più lo stesso. Non potersi battere per la verità
fu per lui un enorme sacrificio. Era la più grande star del
mondo, e le accuse irrisolte gettarono un'ombra sul suo
personaggio. Danneggiarono la sua reputazione,
minacciarono la sua eredità e ferirono il suo animo. Da allora
in poi la gente non seppe più cosa pensare di Michael
Jackson. Fu messo in discussione il suo amore per i
bambini, elemento fondamentale nella sua vita, e questo lo
ferì molto più del circo mediatico scaturito dalle accuse.

Durante il tour Dangerous, Michael volle visitare orfanatrofi e


ospedali pediatrici. In ogni città andammo a portare giocattoli
a quei piccoli, e si vedeva chiaramente che lui avrebbe
voluto adottarli tutti. Non riusciva a sopportare la sofferenza
di un bambino. A volte, nel corso delle visite, alla vista di un
bambino sofferente Michael scoppiava in un pianto dirotto. Si
sentiva commosso e ispirato dall'innocenza dell'infanzia e
diceva sempre che, tra tutte le creature del mondo, i bambini
sono quelli più vicini a Dio.
Dopodiché la purezza e la ingenuità del suo amore per i
bambini furono oscurate dal dubbio, divenne un uomo
diverso. Il suo rapporto con loro cambiò per sempre. Il tempo
in cui poter giocare innocentemente era ormai finito. Ora
vedeva quale bersaglio era diventato per coloro che
cercavano di sfruttare le sue eccentricità a fini egoistici e
crudeli. A esclusione della famiglia, smise di stare con i
bambini come aveva fatto fino ad allora. Non valeva la pena
rischiare.
Se dovessi riassumere i cambiamenti che notai, direi che
Michael aveva perso la fiducia. Non solo in se stesso (il modo,
audace e impulsivo, in cui faceva quello che sentiva di fare,
senza badare se poteva sembrare stravagante o immaturo), ma
anche negli altri. Aveva perso la fede nella correttezza di fondo
degli esseri umani. Mentre prima nelle persone vedeva solo il
bene, ora si preoccupava delle intenzioni di coloro che gli
stavano intorno. Si interrogava sulle loro ragioni. Pensava che
tutti coloro che lo circondavano volessero approfittarsi di lui,
manipolarlo. Quella specie di paranoia che si manifestava al
pensiero che potessero rubargli le idee musicali iniziò a
coinvolgere altri aspetti della sua vita. Talvolta, anche se
incontrava qualcuno le cui intenzioni erano oneste e sincere,
cercava motivi per dubitarne. Creava scenari mentali inesistenti
in modo da non farsi trovare di nuovo con la guardia abbassata.
La mia famiglia, comunque, era immune da questa paranoia in
crescita. Eddie e io eravamo ragazzi ingenui e la sua fiducia nei
nostri genitori non vacillò mai. Per quanto riguarda la sua
famiglia, erano tutti con lui, a eccezione di sua sorella La Toya
che rilasciò una dichiarazione con la quale affermava che le
accuse potevano essere vere. In seguito rivelò di essere stata
costretta a farlo sotto minaccia del marito, che la maltrattava.
Michael alla fine la perdonò, ma dopo quell'episodio il suo
rapporto con lei si raffreddò notevolmente. Non ho mai visto
Michael avere contatti reali e sinceri con gli altri componenti della
sua famiglia, ma erano solidali in pubblico e lui ha sempre
sostenuto di amarli e di sapere che stavano dalla sua parte. La
mia sensazione era che loro avrebbero voluto fare di più per
dimostrarglielo, ma Michael li teneva a distanza, come faceva
con tante altre persone. Non ha mai voluto spiegare perché i
membri della sua famiglia fossero esclusi dalla piccola sfera dei
suoi intimi, ma col tempo l'ho visto fare qualsiasi cosa per
proteggersi dai nemici, veri o immaginari che fossero.
Ciò che non avrei mai immaginato era che un giorno anch'io
sarei finito tra gli «esclusi».
Eddie e io tornammo a scuola, ma molto presto fummo di
nuovo a Neverland. Il Natale 1993 fu il primo che la mia
famiglia trascorse al ranch.
Michael era cresciuto nella tradizione dei testimoni di Geova
e quindi la sua famiglia non aveva mai festeggiato
compleanni né eventi simili. Aveva già celebrato almeno una
volta il Natale con Elizabeth Taylor, ma sempre come ospite
di un'altra famiglia, mai con la propria. Avere una grande
famiglia con cui condividere la tradizione natalizia era uno
dei suoi desideri.
Così questa volta tutta la mia famiglia volò a Neverland,
luogo che stava velocemente diventando la mia seconda
casa. Era tutta meravigliosamente addobbata di luci natalizie
all'esterno, corone alla porta e ghirlande lungo le scale.
All'ingresso c'era un cappello da Babbo Natale sulla statua
del maggiordomo. E infine, uno splendido albero dominava il
soggiorno.
La vigilia di Natale, una donna vestita da Mamma Oca si
aggirava per la casa. Ci sedemmo tutti intorno al fuoco,
compresi i miei genitori, bevendo tè e mangiando biscotti
mentre Mamma Oca leggeva filastrocche e cantava per noi.
Lo so. Mamma Oca non è esattamente un'istituzione
natalizia, ma si adattava a Neverland alla perfezione.
Il mattino successivo ci fu la classica corsa ad aprire i regali.
Michael si comportava da vero professionista, prendeva i regali
da sotto l'albero e li distribuiva. Condivideva anche il mio bizzarro
senso dell'umorismo: come ho già detto, ci facevamo sempre
degli scherzi. Così per Natale quell'anno egli mi presentò dieci
pacchetti. Dieci! Cosa potevano essere? Da qualcuno che ti ha
regalato una golf cart senza un motivo, cosa potevi mai aspettarti
da dieci regali? Aprii il primo. Era... un coltellino tascabile. Okay,
era uno scherzo simpatico, dopotutto in sua compagnia avevo
già comprato tutti i coltellini possibili a Gstaad. Ci facemmo tutti
una bella risata, poi Michael, che a questo punto non riusciva più
a trattenere un sorriso malizioso mi invitò ad andare avanti.
Allora aprii il secondo pacchetto: un altro coltellino da tasca. E un
altro. Quando ebbi finito avevo dieci coltellini da tasca identici.
Ridemmo a crepapelle. Per non essere da meno, anch'io avevo
preparato un regalo speciale per Michael. Cosa puoi offrire a chi
può comprarsi il mondo intero? Io avevo preso un mucchio di
spazzatura: rotoli di carta igienica, sacchetti di plastica e carte di
caramelle; avevo incartato gli oggetti con cura uno per uno e li
avevo messi in una scatola. Sì, il mio regalo di Natale per
Michael era una scatola di immondizia. Quando l'aprì, simulando
sorpresa come un attore navigato, disse: «Oh, grazie infinite.
Non avresti dovuto. Veramente non avresti dovuto».
Da allora Michael trascorse sempre il Natale con la mia
famiglia, a Neverland o nel New Jersey. Quando veniva a
casa nostra si presentava sempre con un barattolo gigante di
gomme da masticare Bazooka. Michael ne masticava
continuamente enormi quantità, facendo grandi bolle. Far
schioccare la gomma era perfettamente regolare per lui. ma
quando lo facevo io diceva: «Puoi chiudere la bocca, per
favore? Sembri una mucca».
Bazooka era la sua gomma preferita. Diceva sempre: «E’ la
migliore gomma del mondo, ma devi infilarne continuamente
in bocca».
Alla vigilia di Natale facevamo una grande cena a base di
tacchino. Se eravamo a Neverland potevamo aspettarci
l'apparizione della vecchia Mamma Oca, o qualche volta di
un mago e, come regali, gli scherzi più assurdi che si
potessero immaginare: la fornitura per un anno di assorbenti,
un sacchetto di avanzi della cena della vigilia, una serie di
collutori e dentifrici (con allusione ai nostri annosi scherzi
sull'alito cattivo).
Era isterico. Era strano. Era tradizionale. In breve, era
Michael.

CAPITOLO SETTE - LAVORANDO SU


HYSTORY

Il 1993, l’anno delle accuse della famiglia Chandler, fu il più


difficile della vita di Michael, ma una volta sistemata la
vertenza poté dedicarsi al suo nuovo album: HiStory .
Lavorava nello studio di registrazione Hit Factory di New
York e soggiornava alla Trump Tower, a Midtown.
Io frequentavo ancora la terza media; ero uno studente mediocre
ma un buon calciatore. Mi ero fatto qualche amico e la mia vita si
era assestata nella tranquilla routine di periferia. Quando
arrivava Michael, però, era tutta un'altra cosa. Dopo la scuola
raggiungevo New York con Eddie e, a volte, con il più piccolo dei
miei fratelli. Dominic; trascorrevamo la notte con Michael, poi la
mattina ci svegliavamo presto per tornare nel New Jersey con la
sua macchina. Nei fine settimana andavamo da lui, oppure era
lui che veniva da noi a visitare tutta la famiglia. Stavamo il più
possibile insieme. So che può sembrare strano che un bambino
molli tutto per precipitarsi dal suo amico adulto, famoso in tutto il
mondo, ma per me era assolutamente normale, e anche
divertente.

Il suo appartamento era proprio in cima alla Truinp Tower, con


vedute mozzafiato e rubinetti d'oro nei bagni. Al secondo piano
c'erano tre camere da letto, e una l'aveva trasformata in sala da
ballo: aveva tolto tutti i mobili e aveva fatto installare una pista da
ballo. Lo faceva quasi ovunque andasse. Nella sala c'erano le
casse audio più grandi che avessi mai visto in vita mia: dovevano
essere alte un metro e mezzo. C'era anche una videocamera,
che usava quando lavorava sulla coreografia dei video o degli
spettacoli. Mentre ballava si lasciava guidare dalla musica e non
sempre riusciva a ricordare la sequenza di passi, perciò usava
quei nastri per vedere cosa gli piacesse e cosa voleva inserire
nei suoi numeri.

Nei fine settimana a New York andavamo spesso al cinema o nei


negozi di fumetti, ma ciò che ricordo con maggior affetto di quelle
visite è la passione per la lettura che mi istillò Michael. Ero
dislessico, e leggere per me era sempre stato faticoso, ma
quando mi lamentavo che non mi piaceva lui mi diceva: «Beh,
allora resterai ignorante per sempre. Frank, puoi fare tutto nella
vita, ma se non hai un'istruzione non sei niente. Se ora ti dessi
un milione di dollari lo accetteresti? 0 preferiresti avere la
conoscenza per capire come guadagnando da solo?»
Sapevo qual era la risposta: «Preferirei la conoscenza».
«Bene. Perché con l'istruzione il milione può raddoppiare.»

Il primo libro che mi dette da leggere fu Come acquistare


fiducia e avere successo di N.V. Peale. Vi trovai alcuni concetti
affini alle idee di cui mi aveva parlato Michael. Ne rimasi
affascinato, e fu semplicemente così che cadde la barriera tra
me e la lettura. Nello stesso modo in cui seguivo Michael nei
negozi di dischi, curioso di scoprire cosa gli interessava
ascoltare, cominciai a leggere i libri che mi consigliava e a
sbirciare quelli che sceglieva lui.

In quel periodo incontrai per la prima volta i suoi nipoti, figli di


Tito: Taj. Tj e Taryll: i 3T, come si chiamava il gruppo che
avevano formato; dovevano ancora realizzare il loro primo
album, ma io avevo già sentito le loro canzoni ed ero un grande
fans. I tre fratelli, che avevano solo pochi anni più di me, mi
piacquero subito. Dicevamo sempre che sarei diventato il quarto
membro dei 3T, e che il gruppo si sarebbe poi chiamato 4T.
Erano tutti e tre appassionati di libri, e per me rappresentarono
un'ulteriore spinta alla lettura. Michael ci portava in libreria e
diceva: «Prendete tutto quello che volete, è un investimento».

E così compravamo una pila di volumi ciascuno, poi


tornavamo all'appartamento dove ognuno cercava un posto
per sdraiarsi con libri, penne e quaderni. Lo chiamavamo il
nostro «addestramento». Ci dicevamo: «E ora di allenarci»,
poi cercavamo un angolino comodo e leggevamo per ore.

Michael ci diceva anche di accudire i nostri libri: ci fece prendere


l'abitudine di baciare gli angoli di ogni nuovo acquisto, proprio
come faceva lui. Quando leggeva qualcosa di incredibile,
cominciava ad applaudire, a ridere e a baciare il testo.
«Che cosa hai letto?» gli chiedevamo tutti. «Cosa hai
imparato?»
«Non preoccupatevi», diceva, «ormai è passata. Fate bene a
stare in guardia, conquisterò il mondo.» Cercavamo di
strappargli il libro dalle mani ma lo teneva fuori dalla nostra
portata e ci rimproverava: «No, no, non potete ancora
leggerlo».

Credo che nessuno immaginerebbe mai una scena come questa


pensando a una notte trascorsa in albergo con Michael Jackson,
i suoi tre nipoti musicisti e qualche amico.

Per quanto ne sapevamo, in quel periodo Michael divideva il suo


tempo lavorando al nuovo album e uscendo con noi ragazzi.
Eravamo sempre con lui. Non avevamo idea che fosse
innamorato. Per lo meno a modo suo.

Poi un giorno, nella primavera del 1994, in un periodo in cui


Eddie e io eravamo gli unici a trascorrere la notte con lui, il
telefono ci svegliò alle quattro del mattino. Era Wayne Nagin. e
una volta conclusa la telefonata Michael ci disse che il giorno
dopo sarebbe stata pubblicata la notizia del suo matrimonio con
Lisa Marie Presley.

Non potevo crederci. «Cosa? Ti sei sposato?» gli chiesi. «Non


sapevamo neanche che ti vedessi con qualcuno!»

Conoscevo Lisa di nome perché me ne aveva parlato Michael. Ci


aveva raccontato che quando si esibiva con i Jackson Five a
volte passava a trovarli Elvis con la figlia Lisa. Malgrado fossero
solo bambini, pare avessero avuto una storiella e Lisa da allora
era sempre rimasta nel cuore di Michael. Ma nessuno di noi si
era mai accorto di niente. Però era vero. Quella volta, prima di
venire a New York, aveva sposato Lisa Marie. Neanche i miei
genitori ne sapevano niente. Ho il sospetto che Michael non
gliene avesse parlato pensando che, all'inevitabile domanda
«Perché?» non avrebbe saputo che rispondere. Non sapeva
come. Era fatto così. Teneva separale le diverse parti della sua
vita e solo lui conosceva le ragioni di questo suo comportamento.

Una volta appresa la notizia, avremmo accettato con gioia quel


matrimonio senza bisogno di spiegazione alcuna, ma lui ci disse
di aver preso la decisione per motivi di lavoro. A quell'epoca
stava facendo affari con il principe Al-Waleed bin Talal,
conosciuto come «il Warren Buffett d'Arabia». Erano soci di una
compagnia appena costituita chiamata Kingdoin Entertainment.
Michael ci disse che il principe e il suo seguito preferivano avere
a che fare con padri di famiglia, e perciò lo avevano convinto a
sposarsi, soprattutto in considerazione delle accuse del 1993.
L'emiro stava investendo molto denaro nella Kirmdom
Entertainment e riteneva che con il matrimonio Michael avrebbe
riscattato la sua immagine compromessa. Ecco perché aveva
sposato Lisa Marie Presley. O almeno fu così che ce lo raccontò.
Mio padre, che aveva una prospettiva più ampia e matura della
faccenda, vedeva la faccenda in modo più semplice e razionale.
Secondo lui Michael voleva diventare padre e sperava di avere
dei bambini con Lisa Marie. Era un corteggiamento non
convenzionale, per essere sinceri, ma Michael ha condotto una
vita non convenzionale.

Amava Lisa? All'epoca non mi ero posto la domanda. A posteriori


devo dire che, dovendo sposare una donna, sarebbe stata lei per
forza. Prima di tutto per lui era una storia grandiosa: il Re del
Pop che sposa la figlia di The King, «il Re». Inoltre, se c'era una
persona in grado di capire lo stile di vita di Michael, quella era
proprio Lisa. Ma c'era anche una ragione più personale: Michael
si fidava di lei. Dopo quello che aveva appena passato con i
Chandler, quel sentimento di fiducia era di estrema importanza,
senza dimenticare che la loro relazione era precedente a tutte le
follie dell'ultimo decennio. Lui adorava Lisa e i suoi due bambini,
Benji e Danielle. Avevano viaggiato e visitato orfanatrofi insieme.
Sono certo che con lei aprì il suo cuore. Rimane da capire
quanto in realtà volesse una relazione seria, e se fosse in grado
di averne una.

Mi disse che l'istituzione del matrimonio non l'aveva mai


convinto. Guardando i ripetuti divorzi dei suoi fratelli, aveva
deciso che non si sarebbe mai messo in una situazione del
genere: lo preoccupava l'idea di dover affrontare un divorzio e
perdere tutto il suo denaro. Diceva: «Non posso uscire e
frequentare la prima che capita. Nella mia situazione, di chi
posso fidarmi?» Da questo punto di vista era facile capire perché
Lisa fosse stata una scelta saggia.

Ma i suoi problemi con le donne avevano radici più profonde


della paura di una perdita finanziaria causata da un eventuale
divorzio. Proprio come me, si infatuava come un adolescente di
alcune icone femminili e le venerava da lontano, appendendo al
muro la loro foto. Io però avevo tredici anni, Michael
trentacinque. Grazie alla sua notorietà ebbe occasione di
conoscere alcune di queste (Taluni O'Neal, Brooke Shields e
Lisa Marie), per lui erano accessibili, ma non sono sicuro se
preferisse la realtà o l'immagine che di loro si era costruito.

Comunque stava facendo un tentativo a modo suo, e la notizia


sarebbe stata presto diffusa. Wayne Nagin telefonò dicendo che
aspettava me e mio fratello in macchina: dovevamo lasciare
l'albergo prima che arrivasse l'orda di giornalisti. Michael faceva
sempre il possibile per proteggere la mia famiglia dagli attacchi
mediatici, proprio come avrebbe fatto in seguito con i suoi figli.
Mezz'ora più tardi ci infilammo veloci in auto con delle coperte
sulla testa e rimanemmo nascosti tra i sedili finché Wayne non fu
certo che nessuno ci stava seguendo e che la strada sulla costa
era libera. Ci portò a casa nel New Jersey e quasi certamente
nel giro di un paio d'ore la notizia del matrimonio venne diffusa in
tutto il mondo.

Un mese o due più tardi, in agosto, la nuova coppia tornò a New


York. Michael voleva farci incontrare Lisa e così, con il clan al
completo (i miei genitori con tutti e cinque i figli), raggiungemmo
in macchina la Trump Tower; da lì seguimmo il furgone di
Michael fino alla Hit Factory. Ci ritrovammo nella sala privata
messa a sua disposizione dallo studio di registrazione: era piena
di caramelle, bibite e giocattoli.

«Lisa», disse Michael, «ti presento i Cascio, la mia famiglia del


New Jersey. Ragazzi, questa è mia moglie Lisa.» Era strano
sentirlo rivolgersi a lei come a sua moglie, ma a essere sinceri la
trovai molto attraente.
Lisa fu molto gentile, anche se un po' silenziosa. Chi poteva
biasimare la sua reticenza nei nostri confronti? Eravamo un
gruppo di sette chiassosi italoamericani, ognuno con la
propria personalità. Penso che stesse cercando di trovare il
suo posto. Alla fine, con uno sforzo piuttosto evidente, si
inserì nei nostri discorsi e fu così che la accogliemmo in
famiglia.

Durante la loro permanenza a New York li incontrammo


spesso, ma ben presto Lisa ritornò a Los Angeles e non la
vedemmo più fino a Capodanno, nel dicembre 1994 a
Neverland. Quell'anno per Natale Michael e Lisa mi
regalarono un registratore DAT e un mixer, un regalo ben più
utile di dieci coltelli da tasca. Forse fu Lisa a dire basta ai
nostri doni scherzosi: dopotutto, fu lei a consegnarmi il mio
stupendo regalo. La sera dell'ultimo dell'anno andammo nel
cinema di Neverland a guardare la palla luminosa scendere
su Times Square. A Michael piaceva moltissimo guardare
Dick Clark che presentava i festeggiamenti di New York.

Da quel momento cominciai a conoscere meglio Lisa. Ora


era più a suo agio con tutti noi. La sua presenza aveva
modificato leggermente il mio rapporto con Michael (e come
avrebbe potuto essere altrimenti?). A Neverland non
trascorrevo più la notte in camera sua, ma mi stava bene.

Mi piaceva dormire nei bungalow e accettavo qualunque


cosa Michael desiderasse. Non avevo per niente la
sensazione di perderlo. Infatti, nonostante il matrimonio, il
suo comportamento con noi non era cambiato molto, e
immagino che Lisa si trovasse a scoprire un altro aspetto di
lui, e non si trattava solo del fatto che a suo marito piacesse
giocare con i Palloncini d'acqua. A quel tempo non ci
pensavo molto, ma adesso che non sono più un bambino mi
colpisce quanto poteva sembrare strano a una donna
appena sposata scoprire che il marito amava già e sembrava
far parte di un'altra famiglia. Lisa Marie sapeva sicuramente
che sposando Michael non avrebbe avuto una vita normale,
ma non poteva immaginare quanto tempo trascorresse con
noi. E se anche lo avesse saputo, avrebbe pensato che,
dopo le nozze, le priorità di suo marito sarebbero cambiate.
Comunque, non era difficile notare i problemi che Michael
aveva portato nel matrimonio e la sua difficoltà a comportarsi
da marito. Oltre al fatto che a lui non piacevano le
discussioni. Ricordo quando cominciò a parlarmi della sua
vita a Los Angeles in casa di Lisa e dei suoi figli.

«Le piace discutere», disse. «Quando inizia a lamentarsi io batto


le mani e sorrido.» Non c'era ombra di autocoscienza nel suo
tono, non immaginava assolutamente di poter affrontare la
situazione in modo più maturo. Anzi, sembrava compiaciuto della
sua reazione.

«E funziona?» chiesi.
«Beh, la fa smettere. Poi le chiedo se ha finito di litigare.»
Non è esattamente il tipo di dialogo che raccomanderebbe
un consulente coniugale... Sentivo che le cose non
andavano molto bene. Si erano sposati per capriccio, senza
riflettere sui problemi che sarebbero potuti sorgere dalla loro
convivenza; inoltre, avevano aspettative del tutto diverse
dalla loro relazione. Michael, con tutti i suoi studi sulle
persone e sui loro gusti, con tutta la sua conoscenza delle
parole e dei suoni in grado di toccare nel profondo l'animo
delle persone... beh, sembrava non aver portato niente di
tutto questo nel suo matrimonio.

Era anche una star, una persona molto attaccata alla sua
routine. Era abituato a essere solo e a fare ciò che voleva
quando voleva. Immagino che nelle sue relazioni precedenti
Lisa fosse stata, giustamente, coccolata e vezzeggiata. Lisa
e Michael avevano in comune il fatto che il mondo girava
intorno a loro, ma questo rendeva difficile far sì che si
occupassero l'uno dell'altra. Lisa cercava di capire e di
adattarsi alla personalità di Michael, ma credo che l'onere del
buon funzionamento del rapporto gravasse interamente su di
lei.

Per quanto ne so, Michael non era mai emotivamente


presente per Lisa. Lei tentava davvero di far funzionare il
matrimonio, ma doveva essere difficile individuare il suo
ruolo nella complicata esistenza del marito.
HiStory venne pubblicato nel giugno 1995. Michael non voleva
fare un doppio album perché inevitabilmente il prezzo sarebbe
salito, mentre lui desiderava che la sua musica fosse accessibile
a tutti i suoi fans. La Sony volle però realizzare un disco di grandi
successi e uno di canzoni inedite; così l'album uscì, ben accolto
dalla critica e nominato per cinque Grammy Awards. Ancora oggi
è l'album doppio di un solista più venduto di tutti i tempi.

Dopo la sua realizzazione Michael si concesse una pausa prima


di partire per una importante tournée di concerti. E fu in questo
periodo che il suo matrimonio andò in fumo.

In conclusione la loro unione era durata circa un anno e


mezzo. Quando si separarono, alla fine del 1995, Michael
disse che una delle cause principali della rottura era stata la
gelosia di Lisa nei nostri confronti (ci chiamava «la famiglia
del Jersey») e del rapporto che aveva con noi. Lui preferiva
passare il tempo con noi piuttosto che con lei.
Personalmente non ne ho mai avuto la prova, e non credo
che la mia famiglia abbia contribuito al fallimento del loro
matrimonio, ma sono certo che Lisa sperava di costruirsi una
vita con Michael e posso immaginare che questa non
prevedesse la mia famiglia. Michael scaricò alcune
responsabilità su di noi, forse per comunicarci quanto
eravamo importanti per lui o per convincersi che Lisa gli
avesse chiesto sacrifici impossibili. Ma suppongo che noi
non fossimo altro che una delle numerose abitudini cui non
voleva rinunciare.

Inoltre c'era il discorso dei figli. Pur nella sua incertezza


sull'avere una relazione seria con una donna, di una cosa era
sicuro: desiderava diventare padre. A un certo punto voleva
adottare con Lisa un bambino romeno, ma lei non era d'accordo.
Poi voleva avere un bambino da lei, che però non si sentiva
pronta.
Nell'insieme, sebbene si volessero bene e avessero un grande
rispetto l'uno per l'altra, ritengo che non fossero abbastanza
coinvolti emotivamente da portare avanti un matrimonio duraturo.

Michael viveva nel suo mondo e aveva scarso interesse a


lasciarlo o a cercare compromessi. Non sapeva come
comportarsi in una relazione e non aveva voglia di imparare.
Sapeva solo che il matrimonio, con la condivisione, i conflitti e i
compromessi che richiedeva non faceva per lui. Quando si
separò da Lisa mi sembrò un po' triste, ma non aveva certo il
cuore infranto. Fu questo, più di tutto, che mi fece pensare che
stessero meglio da soli.

Ai miei occhi Lisa Marie scomparve bruscamente così come era


arrivata. Sembra che fossero rimasti amici, ma io praticamente
non la incontrai più. Sebbene non ne fossi geloso, quando
Michael mi disse che si sarebbero separati devo ammettere che
mi sentii sollevato. Ero un adolescente e lui era mio amico. Per
certi versi era come se fossimo compagni di scuola: giocavamo
insieme, ci divertivamo, parlavamo di ragazze. Quando un amico
del liceo trova una ragazza, la situazione inevitabilmente cambia.
Sapevo che, sposandosi, avrei avuto meno opportunità di vedere
Michael, ma ciò nonostante avevo accettato e amato Lisa,
proprio come fanno gli amici. Dopotutto speravo di avere anch'io
una ragazza prima o poi, e avrei voluto che in quel caso Michael
facesse per me quello che io avevo fatto per lui. Quando si
lasciarono fu come se mi fosse stato restituito il mio amico.
CAPITOLO OTTO - IL QUADERNO
DEI DESIDERI

Sei mesi dopo il divorzio da Lisa Marie, Michael e io ci


imbarcammo nella più classica delle avventure tra amici: un
lungo viaggio. Durante l'estate del 1996, dopo il mio secondo
anno di superiori e prima che lui iniziasse la tournée di due
anni per l’ album HiStory , andammo insieme in Europa. I
miei fratelli avevano dei problemi a scuola, perciò partimmo
solo noi due.
Prima della partenza per l'Europa Michael venne nel New
Jersey a trovare la mia famiglia. Un pomeriggio stavamo
giocando con i videogiochi quando improvvisamente
esclamò: «Frank, devo dirti qualcosa, ma non farne cenno
con nessuno».
«Naturalmente. Cosa c'è?» chiesi.
«Sto per diventare padre.»
«Cosa? Come?» Ero molto sorpreso.
«Debbie mi darà il più grande regalo del mondo.» La donna
a cui si riferiva era Debbie Rowe. Nel corso degli anni
Michael aveva confidato al dottor Klein e alla sua infermiera,
Debbie appunto, quanto desiderasse diventare padre e come
fosse difficile per lui, che non poteva fidarsi di nessuno.
Secondo Michael, un giorno Debbie gli disse: «Meriti di
essere padre e voglio che il tuo desiderio diventi realtà.
Partorirò il tuo bambino, ti renderò padre».
Quando me lo disse era all'apice della gioia, come non l'avevo
mai visto prima, e io ero emozionalo per lui. Non ero scioccato.
Sapevo che Michael poteva far accadere di tutto. Mentre
spiegava cosa era successo con Debbic, disse: «Andiamo.
Voglio farti sentire una cosa».
Mi fece ascoltare un nastro con una voce di donna. Pronunciava
frasi come: «Michael, voglio renderti padre. E il mio regalo per te.
Non voglio niente in cambio. Se un giorno i bambini dovessero
chiedere dov'è la loro mamma, di' loro che sono morta in un
incidente stradale». Michael si fidava di lei e capisco il motivo.
Debbie lavorava ogni giorno in mezzo alle celebrità, non ne era
abbagliata. Non era né volubile né impulsiva. Era invece una
persona ragionevole e misurata, con una laurea in psicologia. Se
aveva fatto questa proposta, l'aveva fatta coscientemente, anche
perché credeva davvero che Michael sarebbe stato un grande
genitore. Le intenzioni di Debbie erano sincere, sapeva quello
che diceva.
Quindi Michael stava per diventare padre. In effetti aveva senso.
Come avrebbe detto mio padre in seguito, aveva fatto tanta
pratica girando intorno a noi Cascio.

La nostra prima tappa fu Londra, dove Michael aveva in


programma degli incontri. Conclusi questi impegni, aveva un po'
di tempo libero prima di registrare due canzoni presso uno studio
in Svizzera, e decise di approfittarne. In albergo, venne da me
con questa idea: «Ehi, attraversiamo la campagna in macchina
fino in Scozia». Lui viaggiava sempre in aereo: faceva il concerto
e volava subito via. Raramente aveva la possibilità di trascorrere
del tempo visitando o esplorando le città in cui si trovava. Ma
ora, preparandosi a diventare padre, immaginò che potesse
essere l'ultima occasione per intraprendere un viaggio da solo.
«Assolutamente», dissi. «Facciamolo.»

Prima di salire sul pullman che Michael aveva noleggiato per


il viaggio (pensavate forse che avremmo preso un
Maggiolino?) andammo a fare provviste. Disse: «Faremo un
quaderno dei desideri». Crescere sotto l'influenza di Michael
significava assorbire la sua filosofia molto particolare. Non
sono mai stato uno studente con ottimi voti, ma ognuno ha
un modo diverso di imparare e io avevo un insegnante raro e
brillante. Un «quaderno dei desideri», come appresi quel
giorno, consisteva per lui in un quaderno in cui dovevamo
incollare le foto delle cose che ci ispiravano: luoghi, persone,
immagini di ciò che ci piaceva e che volevamo ottenere.
Materiale necessario: pile di riviste piene di foto, bloc-notes
bianchi, forbici e colla. Fatti gli acquisti, salimmo a bordo di
un enorme, lussuoso pullman da turismo, dotato di divani e
comodi letti e partimmo subito da Londra diretti a Loch
Lomond.

Ci accompagnavano un autista e due guardie del corpo.


Michael e io avevamo la camera in fondo al pullman. Quando
non eravamo interessati al panorama, stavamo nel vano
posteriore, facendo il nostro quaderno. Era un compito nuovo
per me, ma non era la prima volta che Michael mi assegnava
un esercizio sul modo di concepire e pianificare il mio futuro.
Mi aveva già dato alcuni suoi libri riguardanti il successo: Il
più grande venditore del mondo di Og Mandino, il potere del
subconscio di Joseph Murphy, Visualizzazione creativa di
Shakli Gawain e molti, molti altri che li richiamavano. E ora,
lavorando al nostro quaderno, mi aiutava a capire che le
opportunità erano infinite. Non c'è limite a quello che si può
ottenere. Mi parlava del fatto che il suo album Off the Wall
aveva venduto eccezionalmente bene e che nessuno si
aspettava che lui riuscisse a superarne il successo.

Questa convinzione lo rese solo più determinato a far sì che


l'album successivo. Thriller, fosse il più venduto di tutti i
tempi. Il suo obiettivo divenne allora la vendita di cento
milioni di copie in tutto il mondo, e lo raggiunse. Solo il
talento che Dio ti dona porta tanto lontano in questo mondo,
mi diceva. Aveva ottenuto il successo perché credeva nella
sua capacità di raggiungerlo.

Mentre un paesaggio splendido scorreva fuori dai finestrini,


Michael sdraiato sul letto e io seduto per terra sfogliavamo
riviste, ritagliavamo immagini, parole e frasi stimolanti,
parlavamo di quali castelli voleva comprare, con quali donne
sarebbe voluto uscire ( la principessa Diana era la prima
della lista), io gli dicevo quali alberghi e villaggi turistici avrei
voluto possedere, gli Academy Awards e i Grammy Awards
che speravo di vincere... Stavo per compiere sedici anni, e il
mondo mi appariva sconfinato. Era facile per me sentire
Michael che voleva un castello e rispondere: «Anch'io ne
voglio uno!» Era il momento e il posto giusto per nutrire
fantasie smisurate e riflettere sul significato della vita.
In quel periodo Michael mi aveva da poco introdotto anche
alla meditazione. Durante le vacanze di primavera, prima del
nostro viaggio in Europa, avevo trascorso due settimane con
lui in un bungalow al Beverly Hills Hotel. Sapevo che spesso
si dedicava alla meditazione e in quell'occasione gli dissi che
volevo provare anch'io. Mi incoraggiò subito.

«Dovresti proprio farlo. E un momento che dedichi a te


stesso, nel quale liberi la mente e scopri quello che ti piace.
Quando mediti è come piantare un seme. Pianti un seme
nella tua mente, ed essa scopre la realtà.»

Durante il soggiorno al Beverly Hills Hotel l'autista di Michael,


Gary, divenne la mia guida spirituale. Diciamo che Gary non
era esattamente il candidato ideale a fare da guru,
considerando quanto tempo avevamo dedicato a farne il
bersaglio dei nostri stupidi scherzi. Lo conoscevo da
parecchio ormai: era l'autista che venne a prendere me e
Eddie all'aeroporto la prima volta che andammo a Neverland.
Veniva dal Texas e gli piaceva scrivere musica. Era molto
realista circa le sue canzoni, che erano tanto brutte da
essere grandiose. Una volta disse: «Signor Jackson, vorrei
farle ascoltare una canzone che ho scritto ieri sera. Parla di
un falco rosso».
«Cosa ti ha ispirato la canzone?» chiese Michael.
Gary ci disse che stava alla finestra quando aveva visto un
uccello (non un falco) volare emettendo un suono simile alle
parole «red hawak» (falco rosso). Il racconto di questa
ispirazione ci fece scoppiare dalle risate. Aveva scritto anche
un'altra canzone intitolata «Powder Blue», di cui
conoscevamo ogni singola parola.
«Gary, dovresti andare in tour», diceva Michael. «Le ragazze
impazzirebbero per te.»
«Eh, signor Jackson, non credo proprio», era solito
rispondere.
Nel 1996 Michael diede un concerto per il cinquantesimo
compleanno del sultano del Brunei e portò anche Eddie,
Dominic e me. Soggiornammo in una delle residenze per gli
ospiti del sultano (ne aveva una ventina, tutte complete di
personale, dalla governante ai cuochi; negli Stati Uniti
sarebbero considerate case di gran lusso). Prima di partire
per il Brunei, Gary ci dette una cassetta con la registrazione
dei suoi «Greatest Hits». C'è una scena che non
dimenticherò mai: noi quattro eravamo in giro a bordo di una
golf cart nella proprietà del sultano, eravamo partiti da cinque
minuti quando Michael si accorse di una cosa.
«Oh, no!» esclamò. «Abbiamo dimenticato i Greatest Hits di
Gary!» Tornammo indietro immediatamente a prendere la
cassetta e girammo per quella terra straniera sparando a
tutto volume la musica di Gary e cantando a squarciagola
tutti e quattro. Conoscevamo a memoria le parole di tutte le
canzoni. Eravamo i suoi più grandi (e forse unici) ammiratori.
Lo prendevamo in giro, ma solo perché gli eravamo
affezionati. Era con Michael da tanto tempo e gli era fedele
fino al midollo.
E invece, al momento della meditazione, l'ingenuo e caro
autista si dimostrò un istruttore nato. Mi insegnò la tecnica al
Beverly Hills Hotel. Nella sua camera aveva preparato una
specie di piccolo santuario con candele e un fazzoletto sul
pavimento. Mi disse di chiudere gli occhi e di respirare
profondamente. Gary prendeva sul serio quello che stavamo
facendo, e anch'io. Dopo alcuni giorni di questo esercizio mi
dette il mio mantra, un suono che uso ancora oggi per
isolarmi nello stato meditativo, quello in cui non penso ma
nello stesso tempo tengo sotto controllo i miei pensieri.

Ora, durante il viaggio in pullman attraverso la Scozia, io e


Michael iniziammo a meditare insieme. Lui teneva il tempo e
meditavamo per venticinque minuti, con cinque minuti di
riposo alla fine. Da allora in poi, quando stavamo insieme,
divenne per noi un rituale meditare almeno una volta al
giorno.
Ci tenevamo concentrati a vicenda. Era come avere un
compagno di palestra.
Così facevamo il nostro quaderno, meditavamo e
pensavamo a come funzionavano le nostre menti e qual era
il nostro posto nell'universo. Conservo ancora il quaderno dei
desideri che feci allora, e riguardandolo vedo che le fanstasie
di allora si sono trasformate nei risultati di oggi. Desideravo
avere un appartamento a Los Angeles, uno a New York e
uno in Italia, e in effetti, prima o dopo, li ho avuti tutti. Volevo
possedere un albergo e una squadra di calcio, e tutti e due
questi sogni sono quasi diventati realtà. Volevo produrre
musica e film, e ora questo è il mio lavoro. E volevo anche
fare il modello (avevo sedici anni, cercate di capire...). Senza
che allora me ne rendessi conto, una delle prime lezioni
imparate da Michael aveva a che fare con la presa di
coscienza delle opportunità che scaturiscono dalla
responsabilizzazione, dall'ambizione e
dall’autoconsapevolezza. Pensare in quei termini è
sufficiente a far crescere un ragazzo con l'idea di cambiare il
mondo.

Ogni tanto chiedevamo all'autista di fermare il pullman.


Scendevamo, ci guardavamo intorno e Michael spiegava
dove eravamo, cosa stavamo ammirando e perché quel
luogo era importante. Ricordo che facemmo una sosta per
assistere a un eccezionale tramonto. A incorniciare la nostra
visuale c'era una distesa di erba verde e alcuni alberi
meravigliosi.
«Guarda!» disse. «Quando vedi un paesaggio come questo,
capisci che c'è un Dio. Siamo fortunati ad avere l'opportunità
di viaggiare in questo modo. Se la gente vedesse questo tutti
i giorni, probabilmente si prenderebbe più cura della nostra
Terra.» Mi insegnò a capire la natura. Se non avessi avuto
lui come guida, non avrei mai imparato a fermarmi sul ciglio
della strada per lasciare che il paesaggio si impadronisse di
me. Non mi importa quanto possa sembrare sdolcinato.
Michael era pieno d'amore per la nostra Terra, adorava la
natura con tutto se stesso. Voleva dare una mano per
conservarla in eterno. Lo avevo già sentito dire queste cose,
sia di persona sia con la sua musica, ma ora, soffermandoci
ad apprezzare la bellezza del creato, le percepivo in modo
diverso.

Uno dei libri che Michael mi aveva dato da leggere durante il


viaggio era II gabbiano Jonathan Livingston. Jonathan,
diversamente da tutti gli altri gabbiani, vedeva che c'era
molto di più nella vita che essere solo un uccello, molto di più
di quello che aveva davanti a sé. Michael voleva vivere in
quel modo: volare oltre ogni aspettativa e vivere una vita
straordinaria. Instillo in me quell'ambizione chiedendomi
spesso: «Vuoi essere Jonathan, oppure uno degli altri
gabbiani?»
Quel viaggio in pullman fu uno dei periodi più memorabili che
abbia trascorso con lui. Non ci annoiammo mai. Non
discutemmo né litigammo. Viaggiammo attraverso la Scozia
parlando di vita, di impiego e come le miglia correvano sul
contachilometri, il nostro scambio è diventato non quello di
un insegnante con il suo allievo ma più quello di due
coetanei. Non importava che ero di vent'anni più giovane.
Per la prima volta, Michael e io abbiamo cominciato ad avere
un dialogo reale.
"Tutto quello che dovete fare," diceva, "è lo studio di queste
immagini e di queste parole. Guardarsi allo specchio e dire a
te stesso che cosa si vuole che accada. Che facciamo ogni
giorno, e che accadrà".
"Che è?" Ho chiesto. "È tutto quello che dovete fare?"
"Non è solo di pensieri e parole. È un'emozione che spinge
attraverso il sangue. Devi sentire e vivere ogni giorno fino a
crederci."
"Wow", dissi. Sono stato spazzato via. "Che fa un sacco di
senso. Ecco cosa fare con la musica."
"Sì, Frank, è esatto. E presto voglio prendere la stessa
formula e farlo con un film." I nostri scambi erano sinceri e
significativi per entrambi . Ero ancora giovane, naturalmente,
ma Michael ha visto che ero curioso e ambizioso, e, come il
mio maestro di vita, ha abbracciato l'opportunità.
Il viaggio era più importante della destinazione. Ma alla fine il
nostro autobus arrivò in una strada di ghiaia per un hotel
castello su Loch Lomond.
Era già buio quando siamo arrivati. Siamo stati accolti da un
receptionist con occhiali tondi. Penso che il suo nome era
Herron. Sembrava un calmo uomo d'affari, ma come ci ha
condotti nella nostra stanza ha detto, "A proposito, c'è un
fantasma nella vostra camera."
Io e Michael ci guardarono.
"Grande, un fantasma. Qual è il suo nome?" Michael ha
chiesto.
"Il suo nome è «Katherine», rispose Herron. Proprio come la
madre di Michael... Tremendo!
Entrammo e ci sistemammo. Era già passata la mezzanotte. Gli
agenti della sicurezza andarono a letto, ma noi due eravamo
animali notturni. Ci sembrava di essere ingabbiati in quel pullman
da una vita. E c'era pure un fantasma nella nostra stanza. Non
c'era modo di addormentarsi. Senza tergiversare, Michael disse:
«Andiamo a esplorare».
Passeggiammo lungo i corridoi vuoti: era un albergo molto
grande. Dov'erano tutti gli altri ospiti? ci domandammo.
Dormivano tutti? Uscimmo sul lago per vedere se riuscivamo a
incontrare il mostro di Loch Ness. Che importa se era il lago
sbagliato! Nessie era il mostro del mistero, chi poteva sapere
dove sarebbe apparso? Inoltre il lago era incantevole. L'aria era
fresca e frizzante, anche se non c'era traccia di Nessie. Michael
disse: «Questo posto è strano. Perché non ci sono macchine nel
parcheggio?»
All'improvviso Herron, vestito di nero, si materializzò proprio
accanto a noi. Un riflesso della luna baluginò nei suoi occhiali
rotondi. Ce la facemmo addosso dalla paura.
«Posso aiutarvi?» chiese con tono sinistro. «Non voglio che
andiate troppo lontano, potreste perdervi.»
Il castello infestato dai fantasmi, il lago, il portiere inquietante.
Era come trovarsi in un episodio di Scooby-Doo. Ero sicuro che
se inai avessi visto il fantasma Katherine, le avrei tolto la
maschera e avrei scoperto che altri non era se non Herron
stesso, che aveva messo in piedi quella messinscena per
arricchirsi.
«Oh. mi dispiace», disse Michael, facendo del suo meglio per
dissimulare il nostro stupore. «Volevamo solo vedere la
proprietà. È così bella...» Lui amava esagerare con la gente, in
modo caloroso, così iniziò a blaterare su quanto fossimo
incantati dall'albergo, quanto fosse unico e quanto Herron stava
facendo un ottimo lavoro avendo cura di esso, con quanto
amore. Anch'io mi unii alle lodi. Poi gli chiedemmo del mostro di
Loch Ness e se l'avesse mai visto. «Non l'ho mai visto», disse
Herron. probabilmente trattenendosi dall'aggiungendo: «Stupidi
turisti. Questo e il Loch Lomond».
Seguì un silenzio imbarazzato. Poi Michael disse: «Fa freddo
qui fuori. Sarà meglio andare a riposare». Il posto era
silenzioso come una tomba. Solo allora capimmo che
eravamo gli unici ospiti. Dopo che Herron ci ebbe scortato
fino in camera, lo ringraziammo, gli augurammo la
buonanotte e ci chiudemmo la porta alle spalle. Ma non
eravamo neppure lontanamente stanchi. Non c'era altro da
fare se non continuare la nostra ispezione del grande
albergo vuoto.
Ritornammo nella hall e scorgemmo una donna che
camminava lungo il corridoio, vestita con un bellissimo abito
bianco da sposa. Aveva i capelli raccolti sulla testa e lunghi
riccioli che le ricadevano sulle spalle. Ci guardò senza
rallentare. Poi sparì, io e Michael rimanemmo in un silenzio
attonito. Se quello non era il nostro fantasma, allora chi
diavolo era?
La visione avrebbe dovuto farci fuggire terrorizzati, e invece
continuammo ad avanzare, naturalmente nella direzione
opposta, sbirciando negli angoli e provando ad aprire le polle
chiuse. Poi vedemmo l'indicazione di una piscina coperta.
Aprimmo la porta... ed eccolo di nuovo: Herron. Era
mezzanotte passata, ma lui era lì, coi suoi occhialetti tondi,
che puliva la piscina. Questo individuo era ovunque!
Ci scusammo di nuovo dicendo che volevamo solo visitare
quel bellissimo albergo e ritornammo, questa volta per
davvero, nella nostra stanza.
Ci sedemmo sul letto parlando di quello strano hotel. Perché
mai ci avevano detto che c'era un fantasma nella nostra
camera? Come potevamo dormire? All'improvviso le tende si
mossero. Stavo per balzare in piedi, ma Michael mi fermò
con le mani. «Aspetta un secondo», disse. «Non devi mai
aver paura dei fanstasmi. Se non li sfidi, non ti fanno niente.
Basta dire una preghiera e scappano via.»
Non era spaventato. E se non lo era lui. non lo ero nemmeno
io.
Fantasmi o non fantasmi, ora avevamo fame. C'era qualcosa
da mangiare in quel posto? il menu diceva che il servizio in
camera era attivo ventiquattr'ore su ventiquattro e così
ordinammo omelette di chiare d'uovo e tabasco. Ci
piacevano da matti. Ne ordinammo quattro o cinque. Quando
arrivò il cibo e aprimmo la porta, vedemmo Herron che
reggeva il vassoio (perlomeno non era il fantasma
Katherine). Era impossibile aver paura mangiando omelette
di chiare d'uovo e tabasco. Finimmo alla cinque del mattino.
La tappa successiva del nostro suggestivo itinerario verso la
Svizzera era Parigi; là Michael mi presentò una persona che
in seguito divenne una figura familiare nella nostra vita.
Arrivai a Parigi con il raffreddore. Michael doveva registrare
quelle due canzoni in Svizzera, e ogni volta che aveva in
programma una registrazione o un concerto si preoccupava
dei germi e aveva paura di ammalarsi. Quando tossivo usava
un ventaglio o una salvietta per scacciare i germi. Non
sopportava che qualcuno starnutisse vicino a lui: usciva dalla
stanza.
E così a Parigi ebbi una camera solo per me e non lo vidi per
un giorno intero. L'indomani mi chiamò nella sua stanza.
«Voglio presentarti una persona», mi disse. «Puoi chiamarlo
'Little Michael'.»
Entrò un ragazzetto di circa tredici anni con i capelli lunghi,
vestito esattamente come la star: pantaloni neri, mocassini,
un Borsalino, camicia rossa e eyelmer. Era proprio un
Michael Jackson in miniatura, che trovai piuttosto
divertente... anche se un po' inquietante. Cenammo insieme.
Little Michael (il cui vero nome, scoprii in seguito, era Omer
Bhatti) non parlava bene l'inglese. Era silenzioso, e quando
parlava lo faceva così in fretta che non
capivo una parola di quel che diceva. Tuttavia, come
sempre, mi comportai in modo educato.
Quella sera, Michael a un certo punto mi prese da parte e mi
rivelò che Little Michael era suo figlio.
Come? Suo figlio? Non avevo mai visto né sentito parlare di
questo bambino, né ricordo un singolo accenno a lui in dieci
anni che frequentavo Michael. Ma nel suo mondo ci si poteva
aspettare anche l'impossibile. E questa era soltanto un'altra
delle sue svolte imprevedibili. Cominciai a ridere dicendo:
«Sei serio?»
Mi raccontò che una volta, durante una delle sue prime
tournée, aveva incontrato una bionda ragazza norvegese e
aveva avuto una storia con lei. La ragazza rimase incinta, e
quando ebbe il bambino impazzì letteralmente, sopraffatta
dall'idea di avere un figlio di Michael Jackson. (So cosa state
pensando: credetemi, anch'io avevo i miei dubbi.) Ora.
continuava la storia, la madre era ricoverata in un istituto per
malati di mente. Pare che il bambino fosse stato adottato da
una donna norvegese di nome Pia, infermiera o qualcosa del
genere all'ospedale psichiatrico. Era stato cresciuto da
questa donna e da suo marito Riz Bhalli.
Michael continuò a raccontarmi che, in seguito, era andato in
Tunisia con la tournée HiStory . Quando e in tournée, i suoi
fans si radunano spesso davanti all'albergo, cantando e
ballando per lui. E l'ho visto più volte invitare nella sua
stanza dei fans scelti a caso per conoscerli e fare fotografie.
Qualche volta gli ammiratori tentavano di ballare come
Michael: era così buffo da vedere che dovevo coprirmi la
faccia e scappare via per non dare spettacolo a mia volta.
Era dunque in Tunisia quando sentì parlare di un ragazzino
che aveva vinto una competizione del tipo «i sosia di Michael
Jackson», e che era in mezzo alla folla davanti all'albergo.
Michael voleva conoscerlo e chiese che il piccolo vincitore,
Omer, venisse condotto nella sua stanza. Quando lo vide,
notò la grande somiglianza nel loro aspetto e si chiese se
questo potrebbe essere suo figlio dalla vicenda nel 1984.
Infatti, come il destino ha voluto che lui era quel bambino, o
almeno così disse Michael.
Come facevo a rispondere a questo?
E’ stata una grande storia, tuttavia inverosimile, e Michael ha
davvero cercato di convincermi che era vero. Era
assolutamente certo che aveva finalmente trovato il suo figlio
da tempo perduto. Aveva sempre saputo di lui. Michael
voleva credere alla sua storia, e continuava a spingermi a
crederci, anche se entrambi sapevamo che non c'era un
briciolo di verità in tutta la faccenda. Infine, dopo aver
trascorso alcuni minuti andando avanti e indietro
sull'argomento, non ho visto niente di male, così ho ceduto e
ho detto, "Okay, questo è tuo figlio."
In definitiva, era innocuo, ma era anche indicativo di
qualcosa che non era Omer è stato l'inizio di una tendenza
che si stava sviluppando nella vita di Michael. Aveva
cominciato a circondarsi di persone che lo hanno messo su
un piedistallo, che dicevano quello che lui voleva sentire, e
facevano quello che voleva che facessero. Queste persone
gli hanno reso la vita più facile, e forse essendo circondato
da queste persone gli ha dato il senso di sicurezza di cui
aveva bisogno, ma ho sempre sentito che essere sinceri era
più importante di essere ipocriti pur di guadagnarsi il suo
favore. Essere un vero amico voleva dire essere sinceri, e
volevo stare in tale principio, non importa quello che mi è
costato.
Dopo Parigi, Omer tornò dalla sua famiglia adottiva «
cosiddetta » in Norvegia, mentre Michael e io abbiamo
continuato il nostro viaggio in Svizzera, dove era previsto che
doveva registrare due brani: "Blood on the Dance Floor " e
"Elizabeth, I Love You. "Quest'ultimo era un omaggio a
Elizabeth Taylor, che Michael presenterà ad una festa per
suo sessantacinquesimo compleanno, quasi un anno dopo,
nel febbraio 1997.
In Svizzera, ci siamo fermati a casa di Charlie Chaplin nei
pressi di Vevey e visitato la sua tomba in modo che Michael
potesse porgere i suoi rispetti. Abbiamo cenato con la sua
famiglia, compresa la sua bellissima nipote, su cui ho avuto
una grande cotta. (Sì, ho avuto un sacco di cotte.) Charlie
Chaplin era stato a lungo uno degli eroi di Michael, una delle
persone che pensava di come grandi artisti, innovatori e / o
visionari, la cui vita e le realizzazioni ha studiato in modo
approfondito: Walt Disney, Bruce Lee, Fred Astaire, James
Brown, e Charlie Chaplin. Da Disney ha imparato che poteva
creare un mondo dalle sue fantasie. Da Charlie Chaplin,
Bruce Lee, e Fred Astaire, ha imparato atteggiamenti,
posizioni, posture e modi di muoversi, che ha incorporato
nelle storie delle coreografie che voleva raccontare e fatte
sue.
La maggior parte del tempo mentre eravamo in Svizzera,
Michael l’ha trascorso a lavorare in studio, ma abbiamo
anche trovato un paio di ore libere per visitare un museo di
Zurigo. In giovane età, Michael mi aveva introdotto all'arte, e
abbiamo cercato di visitare i musei ogni volta che abbiamo
viaggiato. Appena siamo entrati in questo particolare museo,
abbiamo incontrato la direttrice, che era una bella donna di
mezza età con gli occhiali e capelli a caschetto. Quando si
trattava di umorismo, Michael ed io abbiamo sempre avuto
una connessione univoca, e ci sembrava di capire
intuitivamente le idee folli casuali che sempre saltavano fuori
nella mia mente. Ora, non appena il direttore del museo è
venuto a salutarci, ho visto un luccichio familiare negli occhi
e il pensiero di Michael, questo sta per essere divertente.
Michael ed io abbiamo avuto un shtick preferito. Ci è piaciuto
molto di agire come se fossimo profondamente sul serio un
ambiente completamente in piano o un argomento banale,
solo per vedere quali reazioni avremmo potuto ottenere dalla
gente. Una volta avevamo affittato una casa in Isleworth,
Florida Michael era sempre stato interessato nel settore
immobiliare nella zona e un agente immobiliare ci portava
alla casa di Shaquille O'Nealche a quel tempo giocava con
gli Orlando Magic. Shaq era un grande ammiratore di
Michael e così fu facile per l'agente fissare un incontro.

Mentre andavamo all'appuntamento, Michael esclamò: «Ehi,


che meravigliosi alberi di thesasis. Sono straordinari».
Naturalmente non esistono alberi di thesasis, ma chi avrebbe
contraddetto Michael Jackson? «Sì, sono splendidi, vero?»
disse l'agente, e iniziarono una lunga conversazione su
questi fantomatici alberi. Fu esilarante. Ripensando a quel
momento e ad altri simili, dissi alla direttrice del museo:
«Quale profumo usa? E’ delizioso. Michael devi sentire
questo profumo, è incredibile».
Annusai un polso mentre Michael annusava l'altro e affermò:
«Ha un buon profumo».
Lei rispose: «Oh, vi darò il nome. Ve lo scriverò».
Ora l'avevamo in pugno. Mi avvicinai ai suoi capelli. «I suoi
capelli. Sono bellissimi. Come li cura?» Lei ribatté: «Niente di
speciale, li lavo e basta». Poi aggiunse: «A dire il vero, uso
uno spray che dà volume». Le feci scrivere anche il nome
dello spray oltre a quello del profumo.

Ora, sebbene Michael fosse un appassionato di arte, questo


museo era veramente orrendo. Ma non ci importava, ormai
eravamo lanciati. Si avvicinò al quadro più brutto della sala
ed esclamò: «Oh mio Dio. dobbiamo fermarci qui!» Finse di
essere sopraffatto dalla bellezza di quella tela. «Mi scusi, per
caso ha un fazzolettino?»
«Va tutto bene?» gli chiesi.
Scosse appena la testa. «Guarda», esclamò come se fosse
profondamente commosso, «questo capolavoro è
straordinario.»
«Sì, anch'io sento la sua bellezza», dissi, mantenendo la
faccia seria come Michael.
La direttrice rimase visibilmente colpita: «Voi due avete un
incredibile rapporto con l'arte». Adesso Michael faceva
addirittura finta di piangere. La direttrice si voltò verso di me
e osservò: «Accidenti, è molto sensibile».
«Sì, molto sensibile», risposi. «Mi ha insegnato tutto quello
che so sull'estetica. Capisco quello che prova, ma riesco a
contenere un po' di più i miei sentimenti.»
«Siete...» disse interrompendosi teatralmente per un attimo,
«...così speciali!»
Continuammo il percorso divenendoci ad alternare domande
a caso su quelle opere orrende a vaneggiamenti sul suo
abbigliamento, con esclamazioni tipo: «Cos'è questa stoffa?
Devi sentire com'è questa stoffa!»
Le guardie del corpo scuotevano la testa fingendo
disapprovazione. Il nostro comportamento era terribile, è
vero, ma così divertente!
Talvolta le nostre burle non erano così elaborate. Ci fu quella
volta nel sud della Francia, per esempio, dove andammo a
far visita al principe Al-Waleed bin Talal e giocammo a ping
pong su un tavolo d'oro. Stavamo in un albergo fantastico.
Laggiù la vita notturna non finiva mai. Una notte eravamo al
balcone della sua camera, osservando la gente che cenava
alle tre del mattino, quando Michael disse: «Dovremmo fare
uno scherzo». Riempimmo un secchio d'acqua e... splash! lo
rovesciammo di sotto sugli ignari commensali. Abbassammo
la testa e sgattaiolammo furtivamente in camera prima che
qualcuno ci notasse. Nessuno immaginò mai che fossimo noi
i colpevoli.
Appena Michael ebbe terminato la registrazione nello studio
svizzero, dovetti ritornare a scuola. Sul Concorde che mi
riportava verso casa ero solo, accanto a un uomo in giacca e
cravatta. Mentre l'aereo volava a velocità supersonica, iniziai
con il mio vicino una conversazione sulla spiritualità, sugli
affari e sulla vita in generale. Dopo alcuni minuti, l'uomo mi
chiese: «Di cosa ti occupi»
Sorpreso dalla domanda, data la mia età. risposi: «Signore,
quanti anni mi dà?»
Disse: «Venti? Trenta?»
Risposi: «Ho sedici anni».
Con la faccia sbigottita, replicò: «Sedici? Come fai a sapere
tutte queste cose a sedici anni?»
Ero lusingato, e in parte offeso dal fatto che lui mi ritenesse
molto più vecchio. Mi piaceva l'idea di essere considerato
saggio al di là dei miei anni, non di apparire vecchio. Eppure
mi rendevo conto che nel corso di quel viaggio ero cresciuto
sotto molti aspetti. L'amicizia iniziata con la tournée
Dangerous si era evoluta in qualcosa di diverso. Per la prima
volta sentivo chiaramente che stavo crescendo, che ero più
sintonizzato con il mondo e che le esperienze condivise con
Michael mi mettevano in grado di sostenere una
conversazione con chiunque, su qualunque argomento, in
qualsiasi posto. Anche lui aveva notato il cambiamento, e
aveva iniziato a parlarmi in modo diverso da prima. Sebbene
non mi avesse mai trattato come un bambino, anche quando
lo ero, ora discuteva con me di tutto quello che succedeva
nel suo mondo. Era evidente che apprezzava il mio punto di
vista, per quanto fossi giovane e inesperto.
Eppure, malgrado questo suo nuovo atteggiamento e a
dispetto della mia precoce maturità, credo che nessuno di
noi due avesse il minimo sentore di che cosa c'era in serbo
per noi, o dove la nostra amicizia ci avrebbe infine portato.

CAPITOLO NOVE - UN NEO PADRE

Con l'evolversi della nostra amicizia anche Michael


affrontava dei cambiamenti: ora si stava preparando a
diventare padre, un ruolo che prendeva con grande serietà.
Immaginarlo come genitore aveva molto più senso, per me,
che vederlo come marito. Forse era grazie al fatto che aveva
vissuto con Lisa, aveva amato i suoi figli e aveva desiderato
averne uno con lei, che ora si sentiva pronto a crescere dei
figli propri. Anche se sovente si comportava in maniera
infantile, la verità è che era un uomo adulto e si preoccupava
sempre dei bambini come avrebbe fatto un padre
responsabile. Aveva anni di esperienza maturati con me, i
miei fratelli e mia sorella, e durante la nostra lunga amicizia
lo vidi spesso accudire tutti noi per qualche tempo. Aveva un
eccellente istinto: sapeva ascoltare i bambini e aveva una
pazienza infinita. Inoltre, studiava come fare il genitore nello
stesso modo in cui si dedicava a tutte le altre passioni: sui
libri. Nelle nostre frequenti visite in libreria acquistava
sempre qualche volume su come educare i bambini. Era
determinato a diventare il migliore dei padri, si impegnava a
capire la psicologia infantile e studiava la loro maniera di
interagire con i genitori.
La sua attenzione per ogni dettaglio della vita di suo figlio
iniziò dal momento del concepimento. Prima che nascesse
sapeva che lo avrebbe chiamato Prince. Diceva che quel
nome aveva una lunga tradizione nella sua famiglia. Michael
registrava dei nastri con frasi tipo: «Prince, sono tuo padre.
Ti voglio bene. Prince. Ti voglio bene Prince. sei
meraviglioso. Ti voglio bene». Si registrava anche mentre
leggeva dei libri per bambini e romanzi classici come Moby
Dick e Storia di due città. La notte Debbie metteva gli
auricolari sul pancione e riproduceva i nastri in modo che la
voce di Michael diventasse familiare al bambino.
Ero eccitato per lui ed ero certo che la paternità avrebbe
rafforzato la nostra amicizia. In passato mi preoccupavo al
pensiero di come la nostra relazione sarebbe cambiata se
Michael avesse realizzato il sogno di avere una famiglia tutta
sua. Una volta era andato molto vicino ad adottare un
bambino, e a quell'epoca gli chiesi: «Se avrai una famiglia, ti
dimenticherai di noi?»
«Siete voi la mia famiglia», mi rispose. «Non devi mai
preoccuparti per questo.» Ma colse anche l'occasione per
ricordarmi quanto fossi fortunato a stare in buona salute, ad
avere una madre, un padre e dei fratelli meravigliosi che mi
avevano donato un'infanzia felice. Mentre lo ascoltavo capii
quanto Michael fosse parte di tutte le cose che dovevo
apprezzare. Per me era un terzo genitore. Diventando
grande e prendendo le mie decisioni, i suoi consigli mi sono
rimasti impressi quanto quelli dei miei genitori, se non di più.
Ecco perché posso affermare con sicurezza che Michael
Jackson era come un padre.
In seguito alle sue rassicurazioni, le mie insicurezze
svanirono e smisi di preoccuparmi dell'impatto che la sua
nuova famiglia avrebbe avuto sul nostro rapporto. Il fatto che
stesse per avere un figlio mi sembrava la cosa più naturale
del mondo, ma rimasi invece un po' scioccato quando, nel
novembre del 1996. qualche mese dopo la nascita di Prince,
Michael e Debbie si sposarono.
«Perché sposarsi?» gli chiesi. Dopo l'esperienza che aveva
avuto con Lisa Marie, era difficile capire perché volesse
ripetere il grande passo. Ancora una volta mi disse che la
sua scelta era stata influenzata da Al-Waleed bin Talal il
quale, dopo aver saputo della sua imminente paternità,
desiderava che si sposasse. Non volendo mettere in pericolo
i suoi affari con il principe saudita, decise di prendere Debbie
in moglie. Così mi raccontò.
E proprio come aveva fatto con Lisa, minimizzò l'importanza
del matrimonio, insistendo sul fatto che era una mera
formalità.
«Debbie non vuole niente da me», insisteva. «Le importa
solo dei suoi cavalli. E poi è la madre di Prince.» Penso che,
nella sua logica, questo avesse senso. Debbie era una
persona piacevole, il loro rapporto era cordiale e lei
sembrava avere a cuore gli interessi del marito. Forse una
famiglia tradizionale avrebbe giovato al nascituro.
Prince nacque il 13 febbraio 1997. Ero nel New Jersey
quando squillò il telefono. Michael ci stava chiamando dalla
macchina mentre portava suo figlio dall'ospedale a
Neverland. Parlò prima con mia madre, poi ci passammo il
ricevitore per congratularci con lui. Disse che tenere in
braccio il bambino era la sensazione più incredibile del
mondo, che la vita era fatta per quello. Ripensai a tutte le
fotografie di bambini che aveva incollato alle pareti delle
varie camere di albergo un po' in tutto il mondo. Malgrado
tutto il suo talento, quello che aveva da dare al mondo, la
cosa che aveva agognato più di ogni altra era un bambino da
crescere e amare. La sua gioia era quasi palpabile.
Mentre stavamo conversando al telefono notai che alla
televisione venivano trasmesse in diretta le immagini
dell'auto di Michael sulla via verso il ranch.
«Ti vedo in TV», gli dissi. Era buffo sapere che quello che
vedevo sullo schermo era Michael che mi stava parlando al
telefono, in una sorta di video-chat primitiva.
Per gran parte del primo anno di vita di Prince, Michael fu
impegnato negli ottantadue concerti in cinquantotto città del
tour di HiStory . Il nome gli si addiceva proprio: era il piccolo
principe di Michael, tutti i suoi programmi giravano intorno al
bambino. Non riteneva giusto che un neonato venisse
trasportato di città in città, in giro per il mondo, così lo lasciò
a Parigi, un luogo piuttosto centrale nell'itinerario della
tournée, insieme con due tate che lo accudivano giorno e
notte. Terminato il concerto, Michael prendeva il suo jet
privato e tornava nell'appartamento sugli Champs-Elysees.
Quando non si esibiva, stava con Prince. Era un programma
pesante, ma lui cercava di essere per suo figlio sia un padre
sia una madre. Mia madre, i miei fratelli Aldo e Dominic e
mia sorella Marie Nicole lo accompagnarono per gran parte
del tour con Prince e le tate. Eddie e io non potevamo
lasciare il liceo, ma riuscimmo a incontrare il bambino a
Disneyland Paris.
Nell'albergo, Michael si assicurò di creare un ambiente
rilassante e stimolante per il bambino. Se ne preoccupava in
ogni posto dove andavano. Mia madre ricorda che in
sottofondo c'era sempre la musica melodiosa di un'arpa e
che lei, Michael e le tate leggevano dei libri a Prince dal
giorno in cui era nato. Anch'io ero felice di accudire il
piccolino, che si addormentava tra le mie braccia come fanno
sempre i bimbi.
Le tate si chiamavano Pia e Grace, ed ebbi modo di
conoscerle bene entrambe. Pia, che inizialmente era la tata
principale, si rivelò essere la madre di Omer Bhatti, il «figlio»
di Michael.
Non molto tempo dopo avermi presentato Omer. Michael mi
disse la verità, e cioè che quel ragazzino non era veramente
suo figlio. I suoi genitori erano Pia e Riz, la coppia che aveva
spacciato per genitori adottivi. Non finsi nemmeno di essere
stupito. Omer somigliava tantissimo a Pia e Riz. Michael
cercò di giustificarsi adducendo la stessa scusa che mi
aveva fornito per i suoi matrimoni con Lisa Marie e con
Debbie Rowe. Doveva dimostrare al principe saudita e agli
altri soci arabi che aveva una famiglia. Non ero sicuro che
l'esistenza di un figlio illegittimo scomparso
da tempo giovasse alla sua immagine con il mondo arabo,
ma lui mi disse così. Pur essendo una scusa discutibile, la
accettai come avevo già fatto per Lisa e per Debbie;
perlomeno era coerente.
Dato che Pia lavorava come tata di Prince, logicamente
Omer e la sua famiglia cominciarono a trascorrere le
vacanze con noi. Riz era sempre lontano per lavoro, faceva
commissioni e si occupava delle automobili di Michael in
California. Omer era il primo bambino che trascorreva tanto
tempo con Michael dopo le accuse del 1993. Michael dal
canto suo aveva preso in simpatia l'intera famiglia e trattava
Omer come un figlio. A me piaceva, era un bravo ragazzino;
l'unica pecca è che continuava a parlare troppo veloce e
dovevo chiedergli continuamente di rallentare. Lo avevo
soprannominato «scimmietta».
In questo periodo Michael e Debbie sembravano andare
d'amore e d'accordo. Ogni tanto si parlavano al telefono; tra
loro non c'era romanticismo o intimità, ma Michael le voleva
davvero bene come amica. Le era infinitamente grato per
averlo reso padre. E da parte sua Debbie credeva in lui
come genitore. Come sapevo fin dall'età di cinque anni.
Michael non aveva problemi a legare con i bambini. Aveva la
capacità innata di guardare il mondo con gli occhi di un
bambino, e non doveva cambiare di una virgola per diventare
il tipo di padre che voleva essere. Il suo cuore e la sua mente
erano sempre votati alla sfida. Dopo la nascita di Prince,
avrebbe voluto un altro figlio quasi subito, in modo che i
bambini potessero crescere insieme. Cinque mesi dopo la
nascita del primogenito, organizzò con Debbie un'altra
gravidanza.

Nell'autunno del 1997 iniziai l'ultimo anno di liceo. A scuola


ero una sorta di fantasma, non eccellevo né vi partecipavo
attivamente, ma avevo ottimi amici. Giocavo a calcio e per
divertirmi facevo la stessa cosa da quando avevo quattordici
anni: chiamavo Mike Piccoli e a volte qualche altro ragazzo -
il mio antico rivale
era diventato uno dei pochi amici con cui riuscivo davvero a
parlare - ci vestivamo di tutto punto e andavamo a cena al
ristorante di mio padre. I camerieri ci portavano di nascosto dei
bicchieri di vino e trascorrevamo il tempo chiacchierando
tranquilli. Erano le mie serate ideali.
Qualche volta Mike e io saltavamo le lezioni, correvamo al
ristorante per il pranzo e tornavamo a scuola più tardi. Una
volta stavamo mangiando degli enormi piatti di pasta quando
entrò il nostro allenatore. Beccati in flagrante!
«So che dovremmo essere a scuola», gli dissi, «ma
volevamo essere sicuri di fare il pieno di carboidrati prima
della partita.»
«Siete pazzi?» esclamò. «Non potete mangiare spaghetti
alla vodka!» Questo era il genere di guai che al massimo
potevo combinare. Quell'anno toccava a me portare Eddie a
scuola ogni mattina in macchina, e immancabilmente
arrivavamo in ritardo. Il suo insegnante cominciò a trattenerlo
a lezione il sabato per punizione, mentre io in qualche modo
mi salvavo grazie alla mia parlantina. Non ho mai ricevuto
una punizione.
Non mi preoccupavo molto di quel che sarebbe successo
dopo il liceo. Sapevo cucinare ed ero bravo con i clienti,
perciò avevo sempre la possibilità di lavorare con mio padre,
che oltretutto stava progettando di aprire un altro ristorante, Il
Michelangelo, e il mio aiuto non gli sarebbe dispiaciuto.
Oppure, pensavo, potrei entrare nel mondo dello spettacolo,
come attore o qualcos'altro.
Quel Natale andai al ranch con la mia famiglia al completo.
Quando arrivammo. Michael era di ottimo umore: il tour di
HiStory era finito a ottobre ed era felice di essere tornato a
Neverland con Prince. Ricordo che eravamo tutti nella sala
da pranzo a parlare (la mia famiglia e quella di Omer)
quando si affacciò Debbie per salutarci e augurarci buone
feste. Michael e Debbie erano sposati, ma era evidente che il
matrimonio non era in alcun modo né reale né tradizionale.
Lei era già visibilmente incinta e Michael diceva a tutti che la
bambina si sarebbe chiamata Paris, dal nome della città in
cui era stata concepita. Voleva che la gente credesse che
aveva avuto rapporti intimi con Debbie, sebbene mi avesse
detto che non era vero. Per quanto il pubblico sembrasse
interessato a simili argomenti, per Michael era un dettaglio
insignificante. Debbie gli aveva già offerto il dono più grande
del mondo, e stava per farlo di nuovo. Questo era tutto ciò
che gli importava.
Prima della nascita di Paris, chiese a mia madre di
raggiungerlo a Neverland. Immagino volesse avere la
famiglia con sé: non voleva che i suoi figli stessero sempre
con le tate, e sapeva quanto mia madre amasse i bambini. Il
giorno in cui nacque Paris, il 3 aprile 1998, lei era a
Neverland con Prince ad aspettare l'arrivo di Michael con la
piccola.
Michael era un grande padre. Si può dire quello che si vuole
della sua vita e delle sue scelte, ma nessuno può negare il
suo valore di genitore. Amava profondamente i figli. Dava
loro da mangiare, cambiava i pannolini, parlava con loro. E
non credeva nel «bambimese».
«Rivolgiti con loro come se fossero adulti», diceva. «Credimi,
capiscono. Ed è meglio abituarli a parlare bene fin
dall'inizio.»
Michael cresceva i suoi figli come ogni genitore dovrebbe
fare, ma dall'esterno il suo comportamento appariva strano. I
bambini non uscivano mai in pubblico senza indossare
maschere o coperte per nascondere il volto. La gente non
sapeva cosa pensare, per i più indulgenti era una delle sue
eccentricità, per altri era una crudeltà: perché un padre deve
costringere i suoi figli a nascondersi al mondo? Ma il mondo
di Michael era un luogo diverso da quello dove viviamo noi.
Si sentiva in dovere di proteggere i bambini dai media, dal
pubblico, dall'attenzione maniacale cui era stato sottoposto
lui stesso per tutta la vita. Sapeva troppo bene cosa significa
crescere sotto i riflettori e per i suoi figli desiderava
un'infanzia diversa. Oltre a volerli mettere al riparo dai
fotografi, temeva che se il mondo li avesse identificati
sarebbero stati molto più soggetti ai rapimenti. È l'incubo di
ogni genitore, ma in lui questa paura era portata all'eccesso
grazie alla sua unicità in fatto di ricchezza, fama e paranoia.
A parte le misure eccezionali che si sentiva in dovere di
prendere, era un genitore riflessivo, attento e amorevole, e i
suoi figli crescevano come i bambini più intelligenti e
beneducati che avessi mai conosciuto. In Peter Pan i
pensieri felici fanno volare i bambini. Ed erano i figli a far
volare Michael.
La gioia sincera che dimostrava stando con i suoi piccoli
rendeva evidente il fatto che non era felice da tanto tempo.
Non so da quando esattamente (secondo me cominciò tutto
con le accuse del 1993), ma mi sembrava chiaro che Michael
vivesse in un costante stato di depressione. Quando era
solo, spesso dimenticava anche di mangiare. A volte dormiva
tutto il pomeriggio. Teneva la sua stanza costantemente in
penombra. Certamente ci divertivamo ancora tanto insieme,
ma nei momenti calmi era evidente che qualcosa non
quadrava.
Dotato di uno straordinario talento, aveva vissuto un'infanzia
frenetica nel mondo dello spettacolo. Tutti i bambini scontano
a caro prezzo una vita del genere, mentre il mondo sta a
guardare - incantato ma pronto a dare giudizi - come si
distruggono e si bruciano uno dopo l'altro. Michael aveva
lottato a modo suo contro questo lato oscuro, senza
dedicarsi a feste sfrenate né sballarsi con le droghe. Non
mise mai sulla pubblica piazza il suo dolore, ma ciò non
significa che non stesse soffrendo.
Tutto questo però parve cambiare quando divenne padre.
C'era una nuova vitalità in lui, un'energia che gli mancava da
anni. Tutta la mia famiglia notò il suo entusiasmo. Aveva
fatto molti tentativi, meditando, trasformando Neverland in un
santuario di felicità, liberandosi dai suoi demoni, ma il
rimedio migliore si rivelarono i suoi figli: lo resero la persona
più felice del mondo.

Il suo desiderio di una famiglia mi fece sentire più tranquillo


sul fatto che avrebbe continuato a combattere l'oscurità
nascosta nel profondo della sua esistenza.

Mi diplomai nella primavera del 1998, dopo la nascita di


Paris. Ero finalmente libero, ma indeciso come ogni
diciassettenne. Il mio allenatore disse che avrebbe potuto
aiutarmi a ottenere un'offerta per giocare nella squadra della
Pennsylvania State University, ma non ero sicuro di voler
prendere quella strada. Valutai l'ipotesi di andare al college a
Santa Barbara, con la segreta speranza di poter vivere a
Neverland e fare il pendolare.
Poi, a mia insaputa, un talent scout mi vide giocare a calcio
nel New Jersey. Durante le partite davo spettacolo, facendo
tunnel tra le gambe degli avversari o giochetti come la
bicicletta, alzando la palla di tacco e facendola passare
sopra la testa. L'allenatore a volte mi rimproverava perché
non passavo mai la palla. Pensavo di poter giocare da solo
contro tutti. Non che fossi il giocatore più bravo del mondo,
ma segnavo e sapevo come attirare l'attenzione del pubblico.
Un giorno, dopo la partita, un paio di osservatori vennero a
chiedermi se volevo sostenere un provino a Manhattan, per
una pubblicità della Powerade. Mi ci portò mio padre e
ricordo che, per qualche motivo, arrivammo in ritardo. Per
fortuna ero uno degli ultimi candidati. C'era un sacco di
gente, tre o quattrocento persone, credo si trattasse di
un'audizione aperta. Però subito dopo mi chiamarono
annunciandomi che volevano me per Io spot.
Finite le riprese per la pubblicità, a New York andai a
tagliarmi i capelli nel negozio di Tony Rossi. Il cliente accanto
a me era Danny Aiello III. figlio dell'attore Danny Aiello,
nostro amico di famiglia, che mi disse che stava dirigendo un
film, con suo padre nel cast, intitolato 18 Shades ofDust.

«Saresti veramente perfetto nel mio film. Ti va di


partecipare?» mi chiese.
Dopo lo spot della Powerade. mi sembrava doveroso fare un
altro tentativo. Lessi alcune righe del copione e finii per
accettare il ruolo. Era una particina. Facevo il personaggio di
Danny Aiello da bambino. Anche mio fratello minore, Aldo,
che mi somigliava moltissimo, partecipò.
Erano piccole cose, certo, ma erano piovute dal cielo. In tutti
e due i casi avevo ottenuto il lavoro senza il minimo sforzo.
Cosa sarebbe successo se mi fossi anche impegnato? Il
cinema mi era sempre piaciuto, ma non avevo mai fatto
niente per entrare in quel mondo. Ora pensai: Ok, devo fare
qualcosa. Preparai un book fotografico e trovai un agente a
New York che cominciò a mandarmi alle audizioni. Ero
pronto a compiere gli sforzi necessari per intraprendere la
carriera di attore... ma, come i fatti hanno dimostrato, non ho
mai avuto nemmeno una chance.
Una notte, a circa un anno dal diploma, stavo giocando a
Beer Pong con i miei amici Mike Piccoli, Frank Barbagallo e
Vinnie Amen nel giardino di casa quando squillò il telefono.
Era Michael. Mi chiese cosa stessi facendo.
«Stiamo giocando a Beer Pong e siamo tre a tre», risposi.
«Senti, vorrei che tu venissi in Corea domani», disse. «Ho
bisogno di aiuto qui.»
Non esitai. Non mi aveva specificato il tipo di lavoro, ma non
mi interessava, non lo reputavo neanche un lavoro, la
ritenevo un'opportunità. Avevo conosciuto il mondo di
Michael e ne ero affascinato. Con tutti i libri, la meditazione, i
«quaderni dei desideri», era come se lui mi avesse preparato
per questo compito, qualunque fosse. Tra tutte le persone
che avrebbe potuto chiamare in aiuto, aveva scelto proprio
me.
«Certo, mi piacerebbe molto venire», risposi.
Presi da parte i miei genitori e scambiai due parole in privato:
spiegai loro che Michael mi aveva invitato a viaggiare per il
mondo e che era quello che volevo fare. Mi dettero la loro
benedizione.
Tornai a giocare a Beer Pong e naturalmente vinsi. Ma il mio
pensiero era già rivolto all'indomani. Sarei partito per Seul.
Ignoravo del tutto quanto sarei stato lontano da casa, ma
avevo quasi diciannove anni ed ero pronto a cogliere l'attimo
fuggente.
La mattina seguente preparai una valigia e partii.
Era un volo diretto di quindici ore. dall'aeroporto JEK a Seul.
La prima classe era praticamente vuota, c'eravamo solo io e
un altro signore, e le hostess erano molto carine. Era stato
Michael a insegnarmi a flirtare con loro: avevano sempre
storie interessanti da raccontare. Io e Michael di solito
chiedevamo quali erano le loro mete di viaggio preferite, se
erano sposate o avevano il ragazzo e cose simili. Durante
quel viaggio una giovane hostess mi chiese perché stessi
andando in Corea. Le raccontai che ero coinvolto in un
progetto legato al mondo dello spettacolo. Avevo tenuto
segreta la mia relazione con Michael per anni, ormai era
un'abitudine, ma solo pronunciando quelle parole mi resi
conto che stavolta non stavo viaggiando solo in nome
dell'amicizia: ora era anche per lavoro.
Un uomo della sicurezza di Michael mi aspettava
all'aeroporto. Erano circa le nove di sera e attraversammo la
città in macchina. Seul era magica: c'erano luci ovunque,
sembrava una versione futuristica di New York. Ero eccitato
all'idea di essere dall'altra parte del mondo.
Andai direttamente nella mia camera d'albergo e prima
ancora che avessi finito di disfare la valigia mi chiamò
Michael. Disse: «Oh. bene, sei arrivato! Come è andato il
volo?»
«Grandioso. Sono entusiasta di essere qui. E’un Paese
incredibile.»
«Già, è meraviglioso. Hai mangiato?»
«No. Tu?»
«Vieni in camera mia, ordiniamo qualcosa. Vedi di lavarli i
denti e il tuo culo sporco. Non venire qui puzzolente come
una capra.» Ecco come parlavamo tra noi.
Andai verso la sua camera e bussai alla porta al ritmo del
nostro codice segreto. Lui aprì e disse:
«Frankfrankfrankfrank», l'assurdo nomignolo con cui mi
chiamava sempre.
Indossava i pantaloni del pigiama, una t-shirt con lo scollo a
V, il Borsalino e i mocassini neri: il suo classico
abbigliamento da notte. Portava il pigiama ovunque, si
presentò così persino in tribunale. E aveva una quantità
industriale di quei copri capi fatti su misura. Quando era in
tournée o viaggiava gli piaceva lanciarne uno ai fans dalla
finestra dell'albergo, che se lo contendevano a tal punto che
lui allora ne lanciava un altro, e poi un altro ancora. In quel
modo consumava un sacco di cappelli.
Lo abbracciai forte, poi lui mi mostrò la sua bellissima suite.
Nel frattempo lo ringraziai per l'opportunità che mi stava
offrendo e gli dissi che ero onorato di essere lì con lui.
«Frank», esclamò, «potevo dare questo lavoro a chiunque,
ma ho scelto te perché mi fido e ti voglio bene come a un
figlio. Ricordati, ti ho allevato. So quale pulsante premere per
metterti in moto. Hai un enorme potenziale e voglio vederti
crescere.»
Davanti a un piatto di kimchi e di bibimbap ci aggiornammo
sulle nostre situazioni. Lui mi chiese della famiglia e mi
spiegò che stava facendo due concerti per beneficenza, uno
in Corea e l'altro subito dopo in Germania. Lo show si
chiamava Michael Jackson & Friends. Vi partecipavano
Mariah Carey, Andrea Bocelli e altri grandi nomi della
musica, il tutto per aiutare alcune associazioni umanitarie per
l'infanzia.
Per spiegarmi quale sarebbe stato il mio ruolo, Michael
disse: «Frank, io non posso uscire quando voglio. Ci sono
delle cose che dovrai procurarmi tu». Sapevo che era vero. I
fans rendevano difficili le sue uscite in pubblico, e per questo
in passato aveva un assistente che gli prendeva magliette,
film o qualunque altro oggetto gli servisse. Adesso io sarei
stato quel l'assistente, sebbene ancora non avessimo dato
un nome a quel ruolo né parlato di stipendio. All'inizio non
volevo essere pagato, ma solo partecipare a quello che lui
faceva, ma Michael non ne volle sapere.
«Questo è un lavoro», preciso. «Un giorno avrai una
famiglia, da qualche parte devi cominciare.» Mi informò che
avrei avuto un autista e degli uomini della sicurezza. Non
sapevo cosa aspettarmi, ma ero molto ottimista.
Così iniziò il mio rapporto professionale con Michael, e una volta
iniziato non ho mai guardato indietro. Non mi pento di aver
abbandonato l'idea dell'università: sapevo già che per me gli
insegnamenti di Michael sarebbero stati più validi di un'educazione
tradizionale. Sarebbe stata una esperienza sui generis e questo per
me aveva un valore inestimabile.

PARTE SECONDA

FRANK TAYSON
&
IL SIGNOR JACKSON

CAPITOLO DIECI - IN CRESCENDO


I l giorno dopo il mio arrivo a Seul si tenne il primo dei due
concerti di beneficenza Michael Jackson & Friends per i bambini
del Kosovo, con artisti di fama quali Slash, i Boyz II Men, Andrea
Bocelli e Luciano Pavarotti. Come avevo fatto tante volte in
passato, seguii l'esibizione di Michael dietro le quinte. Sapevo
che il mio ruolo sarebbe stato diverso ora che non ero più uno
studente, ma il cambiamento fu più improvviso di quanto
credessi.
Dopo il concerto, mi trovavo nel backstage con Michael
quando arrivò Mariah Carey, che aveva appena finito di
cantare, accompagnata dal suo fidanzato del momento, il
cantante messicano Luis Miguel. Mentre Michael parlava con
Mariah, Luis e io chiacchierammo di calcio; all'inizio pensava
che fossi spagnolo, dato che il colore arancione dei miei
capelli richiamava quello della squadra iberica (In realtà
l'arancione è il colore della nazionale olandese. La nazionale
spagnola ha il rosso. )
(non so spiegare perché li avessi tinti in quel modo). Michael
e Mariah stavano discutendo su chi tra loro due aveva
cantato meglio la canzone «I’ll Be There», dato che sia la
versione del 1970 dei Jackson Five sia quella di Mariah con
Trey Lorenz di ventidue anni dopo erano state al primo posto
nella classifica dei singoli.
«Nessuno potrebbe mai cantare quella canzone meglio di
te», insisteva Mariah con un gran sorriso e facendo
vistosamente arrossire Michael.
«No, no», ribatteva lui, «tu hai fatto molto meglio.»
Mariah sembrava onorata di essere in presenza di Michael,
pareva affascinata come una giovane ammiratrice; mentre le
due star chiacchieravano notai che Luis aveva smesso di
sorridere ed ebbi l’impressione che fosse un po' irritato dalle
attenzioni che la sua ragazza rivolgeva all'altro. Anch'io
rimasi un po' sorpreso nel vedere Mariah, una cantante di
enorme successo, così impressionata da Michael, anche se
negli anni a venire osservai molte altre star comportarsi nello
stesso modo davanti a lui.
Curvandosi verso di me, chiese a Michael: «Chi è il tuo
amico? È così carino!» e cominciò a stropicciare i miei capelli
(inspiegabilmente) arancioni.
«Per favore non si fermi», dissi, piegando la testa verso di lei
come un cucciolo.
«Frank, smettila», intervenne Michael. «Mariah non vuole
accarezzarti la testa. Dio solo sa cosa ti passa per la
mente.»
Luis Miguel, nel suo completo aderentissimo, se ne stava lì
in piedi, alquanto imbarazzato e perplesso. Non seppi
trattenermi. Tirai fuori il mio vecchio ritornello... «Bello il tuo
vestito», gli dissi.
Michael borbottò: «Basta», ma ormai ero preso da un
impulso irrefrenabile.
«Di che stilista è?» chiesi, mentre con la coda dell'occhio vidi
che Michael cercava di non ridere. Luis farfugliò un nome e
sembrava piuttosto nervoso. Non gli erano piaciute le
carezze ai miei capelli e l'approccio amichevole tra Mariah e
Michael.
Mentre si salutavano, Michael colse l'occasione per una
piccola vendetta. Disse a Mariah: «Frank è un tuo grande
fans e ha una bella colta per te». Diventai tutto rosso. Avevo
una cotta per lei? mi chiedo ora. In verità non lo so, ma
ricordo di aver pensato che era molto sexy. Dopo la loro
partenza ci prendemmo in giro a vicenda riguardo a Mariah.
Michael disse che non avrei saputo cosa fare se fosse
venuta nel mio letto e io, di rimando, che se lui avesse avuto
un'opportunità con lei, probabilmente le avrebbe chiesto di
giocare ai videogame o di guardare i cartoni. «Chiudi la
bocca, Frank», mi disse scherzando, e scoppiammo
entrambi in una fragorosa risata. Ecco cosa succedeva
quando parlavamo di donne: eravamo come adolescenti che
litigano per le stesse ragazze, ipoteticamente tutte
disponibili. Io ero ancora giovane, e quello era un
comportamento che avrei presto superato (per lo meno in
gran parte), mentre Michael rimase a suo agio in quella
dimensione fantastica.
Per il secondo spettacolo di beneficenza volammo da Seul a
Monaco con un charter occupato per intero dal nostro
gruppo. Io ero seduto accanto a Michael nelle prime file,
assieme a un ristretto numero di artisti con le relative guardie
del corpo. Subito dopo il decollo mi disse: «Ascolta, quando
voli con me non devi temere che l'aereo precipiti. Non morirò
in un incidente aereo. No, non può succedere. Mi verrà un
colpo». Non ho mai dimenticato queste parole, anche perché
nelle nostre conversazioni Michael ha sempre parlato assai
poco della morte. Era troppo eccitato dal desiderio di far
crescere la sua famiglia.
Arrivammo in Germania nel tardo pomeriggio e ci dirigemmo
direttamente all'albergo, il Bayerìscher Hof. Avvicinandoci
all'edificio, trovammo centinaia di fans tra i quali ne riconobbi
alcuni: li avevamo appena visti tra il pubblico in Corea.
Davanti all'albergo di ogni città in cui si esibiva, i fans
aspettavano l'arrivo di Michael portando cartelloni con
immagini e citazioni. I suoi ammiratori sapevano esattamente
cosa gli piaceva, e si impegnavano al massimo per i regali
che volevano fargli. Michael amava le figure di Topolino,
Peter Pan, Charlie Chaplin, dei Tre Marmittoni e di bambini:
erano soggetti a cui si ispirava o che semplicemente lo
divertivano. I bambini, per esempio, li vedeva puri e
innocenti, e quando si sentiva triste le loro immagini lo
rallegravano sempre. I fan componevano queste figure nei
loro collage in modo creativo, per esempio mettendo una foto
di Michael vestito da Peter Pan accanto a una di Charlie
Chaplin. Oppure ritagliavano alcuni ritratti di teneri bambini e
li usavano per incorniciare un poster di Michael.
Naturalmente non tutti i cartelli erano così elaborati, alcuni
dicevano semplicemente: «Michael ti amo».
E lui contraccambiava tutto quell'amore. Molte volte, mentre
tentavamo di spostarci in mezzo alla folla esultante, si fermava a
salutare un ammiratore, fare una domanda e avere con lui, o lei,
un contatto vero, per quanto fugace. Questo accadeva ovunque
andassimo. In ogni città, in qualsiasi nazione, i fan si
accalcavano intorno all'albergo portando i loro doni. Al suo
ingresso nell'albergo o più tardi dalla finestra, Michael indicava i
regali che voleva e mandava un membro dello staff a raccoglierli
per decorare la camera. Dopo ogni tappa della tournée faceva
spedire questi souvenir a Neverland, dove sognava di creare un
museo con tutto quello che aveva ricevuto.
A Monaco, non appena mi fui sistemato, mi telefonò
chiedendomi di raggiungerlo nella sua stanza: era pronto per
mettermi al lavoro.
«Frank, vedi quei poster laggiù...» e iniziò a indicare quelli che
voleva che gli portassi. Scortato dagli uomini della sicurezza
scesi davanti all'albergo e cominciai a raccoglierli. Vedendomi
con Michael da tanti anni, tutti i fan conoscevano il mio nome.
Mentre mi facevo strada tra la folla, la gente mi chiamava:
«Frank. per favore, di' a Michael che gli vogliamo bene?. Oppure:
Frank, per favore, chiedi a Michael di affacciarsi alla finestra?.
Avevo già visto queste scene, ovunque andassimo, fin da
bambino. Ma ora con i suoi fans ero io a rappresentarlo.
A Monaco non avevo un programma particolare da seguire,
né sapevo cosa avrei fatto in seguito. In quei primi giorni
cercavo solo di imparare più che potevo. Volevo osservare
da adulto tutto il lavoro che ruotava intorno alla figura di
Michael, e capire come funzionava. Dopo l'esibizione,
Michael si sarebbe dedicato ai suoi impegni negli studi di
registrazione e io avrei lavorato al suo fianco.
Era pronto a immergersi nella preparazione dell'album
successivo. Quando terminò la tournée di HiStory nell'ottobre
1997, Prince aveva otto mesi e Debbie era incinta di Paris.
Quell'anno Michael lanciò anche Blood on the Dance Floor ,
un remix con cinque canzoni inedite. Si era tenuto libero per
la maggior parte del 1998 per trascorrere un po' di tempo
con i suoi figli. L'album successivo era attesissimo, in
particolare dalla Sony, la sua casa discografica.
La sera del secondo concerto di beneficenza salimmo su un
furgone nero e ci dirigemmo verso lo stadio con la scorta
della polizia. Era un'esperienza che avevo già sperimentato
molte volte, ma ero ancora affascinato dalla folla che si
divideva per lasciarci passare.
Quando arrivammo all'Olympic Stadium lo spettacolo era già
iniziato. C'era un pubblico di oltre sessantamila persone e
artisti provenienti da tutte le parti del mondo. Mentre
assistevamo alle altre esibizioni, salutai alcune facce note.
C'era Karen Faye, truccatrice e acconciatrice di Michael.
L'avevo incontrata durante la tournée Dangerous, le riprese
dei video e prima di alcune apparizioni in pubblico; da
bambino avevo una cotta per lei. La chiamai con il
soprannome che le aveva dato Michael, Turkle. Lui le voleva
molto bene, e tra loro scherzavano sempre. Se lei indossava
una giacca con la zip, lui cercava di aprirla. Se portava la
gonna, gliela alzava. Quando mi vide, l'abbracciai e le detti
un bacio. Turkle si occupava del make-up di Michael mentre
Michael Bush, il costumista, lo vestiva.
Avevo già visto lo spettacolo in Corea. Sapevo cosa doveva
(e cosa non doveva) succedere. Michael si sarebbe esibito
per una trentina di minuti alla fine dello show, dopo tutti gli
altri artisti. Quando il trucco e i costumi furono completati, lui
sedette di lato al palco, godendosi lo spettacolo. Tutto filava
liscio. Poi uscì e cantò «Earth Song», un pezzo che gli stava
particolarmente a cuore. È una canzone che parla della
bellezza del pianeta Terra e di come noi stiamo distruggendo
tutto ciò che ci è stato donato con l'egoismo e con le guerre.
Questa canzone, ascoltata dal vivo, evocava sempre lo
strazio della guerra. Durante la performance di Monaco,
proprio come in Corea, Michael salì su un grande ponte che
attraversava il palco e che lo sollevava in aria fino a
un'altezza di oltre quindici metri. II ponte sarebbe poi dovuto
scendere gradualmente durante la canzone. Ma questa
volta, invece di venire giù lentamente, il ponte cadde e si
schiantò sul palcoscenico con un fracasso tremendo. Questo
in Congo non era successo. Ma che cazzo... ?
Eppure non smise di cantare, nemmeno mentre cadeva.
Quando il ponte atterrò, lui era ancora in piedi. Più tardi ci
disse che aveva fatto un salto al momento dell'impatto,
evitando in tal modo di incorrere in danni più gravi, ma
comunque non ne uscì molto in forma.
Immediatamente, senza riflettere, mi precipitai sul palco
insieme alla squadra della sicurezza. Alla fine dalle canzone
le luci si spensero e Michael collasso tra le nostre braccia.
Con gli agenti. Lo aiutai a scendere dal ponteggio. Il
pubblico, che all'inizio doveva aver pensato che la caduta del
ponte facesse parte dello spettacolo, vedendoci accorrere si
rese conto di quello che era successo. Un mormorio
preoccupato attraverso la folla.
A quel punto, lo spettacolo proseguiva con un carro armato
vero sul palcoscenico da cui usciva un soldato con il fucile in
mano. Un bambino gli offriva un fiore e il soldato si gettava in
ginocchio piangendo. Michael terminò l'esibizione,
piegandosi dal dolore. Subito dopo, nel backstage,
visibilmente sofferente, disse che avrebbe ugualmente
continuato.
«Mio padre ha sempre detto che qualunque cosa succeda,
'the show must go on\ lo spettacolo deve continuare.»
Così tornò sulla scena, sedette in un angolo del palcoscenico
e cantò l'ultima canzone, «You Are Not Alone». Poi gli
addetti alla sicurezza lo aiutarono a scendere dal palco.
Non so perché non chiamammo un'ambulanza per andare
all'ospedale, posso solo supporre che fosse per evitare i
giornalisti. Prendemmo invece il furgone nero con cui
eravamo arrivati e cominciammo a girare in cerca di una
clinica ancora aperta a quell'ora di notte. L'autista impiegò
quarantacinque minuti per riuscire a trovarne una.
Mentre giravamo nella città sconosciuta, sentivo crescere la
frustrazione. Non potevo credere a quello che stava
succedendo. Il nostro autista era tedesco, ma si perdeva in
continuazione. Perché non avevamo chiamato
un'ambulanza? In genere sono abbastanza paziente e
rispettoso, ma quando le persone non sono all'altezza della
situazione vado fuori di testa. Persi la pazienza e cominciai a
urlare all'autista. Nel frattempo Michael era sul sedile
posteriore, a malapena cosciente. Il medico della tournée gli
misurava le pulsazioni e io gli dicevo che sarebbe andato
tutto bene. Fino a pochi istanti prima ero lì che cercavo di
assorbire distrattamente i ritmi del mondo di Michael, ora di
colpo dovevo cominciare ad agire d'istinto. La sua salute era
sotto la mia responsabilità. Finalmente raggiungemmo una
clinica e compilai i documenti per il check-in di Michael Poco
dopo, quando tornai a vederlo, giaceva in un letto. Per
miracolo, o forse grazie al suo salto istintivo al momento
dell'impatto, non aveva niente di rotto, ma la zona lombare
gli faceva così male che faticava a respirare. Con un filo di
voce mi disse di scoprire chi fosse il responsabile
dell'incidente. Voleva che qualcuno venisse licenziato. Esitai
quando mi chiese di chiamargli Kenny Ortenga, il produttore
dello spettacolo, per andare a fondo della questione; erano le
tre del mattino e Ortega era un pezzo grosso, ma se Michael
lo voleva, io dovevo farlo. Trovai il suo numero e lo svegliai.
Michael era troppo dolorante per parlargli, così lo feci io per
lui.
Kenny si scuso e ci assicurò che sarebbe riuscito a scoprire
cosa era andato storto e perché.
Quando finalmente rientrammo in albergo erano le cinque
del mattino. Michael e io restammo soli nella sua suite per
pochi minuti prima che un medico, venuto con noi da New
York, entrasse nella stanza seguito da altre due persone.
Cominciarono a preparare delle attrezzature mediche
accanto al letto.
«Chi sono queste persone?» chiesi.
«Sono medici», rispose. «Aiuteranno Michael ad
addormentarsi.» Fece una pausa, poi continuò: «Ora devono
concentrarsi sul loro lavoro. Sarebbe meglio che tu tornassi
nella tua stanza. Michael starà bene».
«Sì», intervenne lui con voce flebile. «Tra poco mi sentirò
meglio. Mi danno delle medicine per lenire il dolore e
aiutarmi a dormire.» Soddisfatto di questa risposta lo lasciai
e ritornai nella mia stanza.
Solo più tardi compresi chiaramente a cosa avevo assistito
quella notte. Era la prima volta che vedevo Michael in
procinto di ricevere il Propofol, un potente anestetico.
Soltanto un anestesista può somministrarlo e, data la
potenza del trattamento, erano presenti due dottori perché
chi lo riceve richiede un attento e costante monitoraggio.
All'epoca non lo sapevo e non avevo nessuna esperienza in
merito. Per me Michael era sotto le cure di un medico che
sicuramente conosceva e di cui si fidava. Sembrava giusto e
appropriato alle circostanze. Cos'altro avrei potuto pensare?
Il pericolo che quei farmaci rappresentavano per Michael mi
era sconosciuto e totalmente inimmaginabile.
In seguito alla caduta di Monaco, Michael, i bambini con la
tata Grace e io riprendemmo l'aereo, prima diretti a Parigi,
che era stata la città base durante la tournée HiStory , poi
per Sun City in Sudafrica. I miei genitori vennero a trovarci a
Johannesburg, dove Michael era trattato come un re.
Facemmo un safari straordinario e fummo ospiti a casa di
Nelson Mandela per la sua festa di compleanno.
Alloggiammo all'albergo il Michelangelo che ispirò il nome
del ristorante che i miei aprirono in seguito nel New Jersey.
Mentre aiutavo Michael a rimettersi dall'incidente e lo
assistevo durante questi viaggi, il mio lavoro cominciò a
prendere una connotazione più chiara. All'inizio il mio ruolo
era molto semplice: Io aiutavo a decorare le sue stanze e
uscivo nel mondo esterno per procurargli magliette, cibo,
libri, riviste e quant'altro. Ero entusiasta di viaggiare con lui e
felice di aiutarlo. Vivevo in una situazione particolare e
privilegiata. «Non hai idea di quanto sei fortunato», mi disse.
«Quante persone vorrebbero avere il tuo posto, eppure per
qualche ragione ho scelto proprio te!»
«Credimi, so quanto sono fortunato e ti ringrazio di nuovo per
tutto», rispondevo sempre.
E stare insieme al più grande cantante del mondo era
davvero speciale, ero pienamente consapevole di
quell'avventura e la apprezzavo. I miei amici non sapevano
molto delle mie esperienze, ma ogni tanto mi vedevano
apparire nei notiziari TV o nelle foto sulle riviste, accanto a
Michael. Sapevo che loro erano affascinati da tutto ciò, ma
per me erano cose del tutto normali. Così, pur essendo grato
ed eccitato all'idea di vivere in quel mondo, non mi
soffermavo troppo a riflettere sulla mia buona sorte. Non nel
modo in cui avrei fatto se non fossi cresciuto con Michael.
Amavo l'avventura che mi trovavo a vivere, ma il resto, cioè
tutto il tempo che trascorrevo con Michael, lo davo per
scontato. Non mi rendevo conto di quanto fosse speciale.
Non mi importava cosa succedesse, nel bene o nel male;
stare con Michael mi dava la sensazione di avere uno scopo
nella vita. Dal momento in cui iniziai a lavorare per lui,
spesso parlavamo del mio futuro, nel breve e nel lungo
termine. In una di quelle prime conversazioni sul mio nuovo
ruolo, Michael mi disse qualcosa di importante, qualcosa cui
avrei spesso ripensato negli anni a venire.
«Frank, tu sei in una posizione di potere. Molte persone
saranno gelose di te e cercheranno di metterci l'uno contro
l'altro. Ma ti prometto che non permetterò che questo
accada.»
Quelle parole si incisero nella mia mente. Non le ho mai
dimenticale.
Ma non avevo idea di quanta verità e quale immenso dolore
potessero nascondere.

In agosto eravamo di nuovo a Neverland. Da quando


avevamo lasciato Monaco i dolori alla schiena, che non lo
avevano mai abbandonato, divennero un problema cronico.
Ciononostante Michael aveva molti impegni di lavoro. Mi misi
a riorganizzare la sua enorme videoteca: un compito
abbastanza semplice in apparenza, ma Michael, come al
solito, aveva un progetto più grande.
«Frank», esordì, prendendomi da parte, «so che non è
niente di trascendentale, ma ho bisogno che tu faccia
contemporaneamente qualcos'altro. Vorrei capire con te
come si potrebbe ristrutturare il ranch.» La riorganizzazione
della videoteca, mi spiegò, era solo una copertura. Da un po'
di tempo non era soddisfatto di come Neverland veniva
gestita e voleva che io diventassi i suoi occhi e le sue
orecchie per capire cosa succedeva quando lui non c'era.
Michael trascorreva poco tempo a Neverland, tuttavia mantenere
il ranch e pagare la cinquantina di persone che vi lavoravano a
tempo pieno gli costava sei milioni di dollari Tanno. Malgrado le
spese e l'entità dello staff, quando tornava a casa da una tournee
o da un viaggio non era soddisfatto di come trovava le cose.
C'era una giostra che non funzionava perfettamente, si vedevano
chiazze di secco nell'erba o i fiori di stagione non erano ancora
stati piantati. Sebbene al suo rientro tutti iniziassero a lavorare
come matti per riportare la tenuta agli standard che Michael
esigeva, la situazione era molto frustrante.
«Cosa fanno tutto il giorno?» mi chiese esasperato. «Tutto quello
che chiedo è che si occupino della proprietà. È il lavoro più facile
del mondo!» Non lavorava nessuno quando lui non era
presente? Voleva che lo scoprissi.
Non avevo mai considerato Neverland, o la vita di Michael, in
termini di chi faceva cosa e se lo faceva bene, ma questa sua
valutazione mi sembrava sensata. Michael era il capo in
contumacia e desiderava accertarsi delle prestazioni dei suoi
impiegati, specialmente ora che aveva due figli che a Neverland
trascorrevano molto tempo. Voleva essere sicuro che Prince e
Paris fossero circondati da persone di suo gradimento e di cui si
fidava, ma mi stavo accorgendo che in generale era diffidente nei
confronti di chi stava intorno a lui e i suoi dubbi rasentavano la
paranoia.
Dopo avermi affidato questo compito se ne tornò a Sun City per
ritirare un premio, lasciandomi a Neverland per tenere sotto
controllo la situazione e studiare come poter risolvere i problemi.
Nel ranch mi conoscevano tutti fin da bambino, quindi Michael
immaginava che se io fossi andato in giro, con la scusa di
lavorare alla videoteca, mi sarei fatto un'idea di cosa facevano i
topi quando il gatto non c'era. Iniziai così il mio compito, mentre
trascorrevo del tempo con i componenti dello staff, che mi fecero
tutti una buona impressione. Avevo però notato che dopo la
partenza di Michael, l'energia di Neverland era diminuita.
Lui rappresentava lo spirito di quel posto e quando non c'era
la magia si affievoliva. Mi resi anche conto che in assenza
del capo il ritmo di lavoro calava notevolmente. Lo staff era a
dir poco rilassato. Pur sapendo che ero molto vicino a
Michael, non tutti mi evitavano. Come lui aveva sperato,
infatti, alcuni di loro iniziarono a chiacchierare. Eccome!
Venne fuori che avevano un sacco di cose da dire su
qualche loro collega. Mentalmente registravo tutto.
Alla fine mi fu chiaro che uno dei problemi era la direttrice del
ranch. Lavorava per Michael da anni, era una persona
simpatica e gentile, ma non era al massimo delle sue
capacità come una volta. Forse era troppo soddisfatta di sé,
oppure un po' esaurita. Inoltre mandava i giardinieri a fare
dei lavori a casa sua, a spese di Michael. Decisamente, la
manager del ranch era parte del problema.
Quando Michael tornò, la licenziammo e la sostituimmo. E’
quello fu solo l'inizio della riorganizzazione di Neverland. In
ogni settore - sicurezza, manutenzione, giardinaggio,
squadra antincendi, domestici, stazione ferroviaria, zoo,
parco divertimenti e cinema - identificai le persone che
potevano suggerirmi i cambiamenti necessari.

Avevo solo diciannove anni, e quindi ero molto cauto


nell'approccio. L'ultima cosa che desideravo era di essere o
sembrare una specie di odioso ragazzo so-tutto-io.
Ascoltavo, cercavo di accontentare tutti, e alla fine creavo un
sistema per responsabilizzare i dipendenti.

Questo primo lavoro si rivelò perfetto per me: mise a suo


agio lo staff di Neverland con il mio nuovo ruolo e mi
consentì contemporaneamente di tranquillizzare Michael
sulla gestione della sua casa. Quell'esperienza mi fece
capire che il mio lavoro poteva essere molto vario e delicato.
Michael sapeva che ero leale fino al midollo, e che non
avevo altri obiettivi se non quello di essergli utile.
Riorganizzare il ranch fu un ottimo allenamento per quanto
mi attendeva.
CAPITOLO UNDICI - SCARPE
NUOVE

Michael aveva sempre fatto affidamento su un membro del


suo staff, uno che considerava anche un alleato, una sorta di
cuscinetto tra lui e il resto del mondo. Mi sembrò del tutto
naturale occupare quello spazio che aveva creato per me; mi
ci volle un po' di tempo, tuttavia divenni non solo l'alleato tra i
suoi collaboratori, ma anche il suo protettore.
Inizialmente la nostra relazione professionale incontrò
qualche difficoltà. Michael si era dedicato da molto tempo a
quella sorta di progetto che consisteva nel plasmare il mio
personaggio, e il processo continuò anche dopo l'assunzione
del nuovo incarico. Quando si parlava di lavoro mi imponeva
regole rigide. Per cominciare mi disse che dovevamo tenere
separata la nostra amicizia dal rapporto professionale. Non
voleva che il resto dello staff ci vedesse stare insieme come
una volta mentre ero al lavoro e mi chiese persino di
chiamarlo «Signor Jackson» quando dovevo fissargli un
appuntamento. Mi sembrò una richiesta ragionevole: capivo
la sua logica, anche se mi suonava strano, abituato com'ero
a chiamarlo «Testa di Mela» o con il primo soprannome che
mi veniva in mente. Avevo così tanti nomignoli per lui...
Adesso però dovevamo creare tra noi una distanza artificiale.
Michael si credeva una sorta di Peter Pan, ma il suo
incessante lavoro per la mia crescita intellettuale, spirituale e
adesso professionale era la prova che si era sempre
aspettato che alla fine diventassi grande, specialmente ora
che aveva bisogno del mio aiuto.
A volte era molto severo. Non era un cambiamento radicale,
era sempre stato rigido in determinate circostanze:
sull'educazione, sul rispetto per i propri genitori, sull'uso delle
droghe e così via. Ma adesso lo era anche in altri ambiti.

Quell'autunno la mia famiglia venne a trovarci a Disneyland


Paris, uno dei posti preferiti da Michael quando voleva
staccare la spina. Appena un anno prima che iniziassi a
lavorare per lui ci eravamo andati con Eddie e avevamo
vissuto una delle nostre incredibili avventure notturne. All'ora
di chiusura eravamo sgattaiolati fuori dall'albergo per fare un
giro nel parco; è una cosa che abbiamo fatto spesso,
sapendo ovviamente che, anche se ci avessero scoperto,
Michael avrebbe goduto di una sorta di immunità
diplomatica. Ci piaceva tantissimo l'emozione di fare
qualcosa che non avremmo dovuto.
Naturalmente tutte le attrazioni erano chiuse, ma durante la
notte molte giostre venivano fatte girare per la
manutenzione. Vedemmo che «I Pirati dei Caraibi» era in
funzione, così scivolammo dietro agli addetti e balzammo su
una delle barche che galleggiavano in fila nella laguna
infestata di pirati ammattonavi. Saltammo da una barca
all'altra e raggiungemmo il centro della rappresentazione per
rubare qualche doblone.
A un certo punto la fila di barchette ripartì all'improvviso.
Eddie e io riuscimmo in qualche modo a salire sull'ultima,
mentre Michael, che era dietro di noi, saltò, ma... non ce la
fece del tutto. Per un attimo rimase appeso alla barca con le
gambe penzoloni, poi gli sfuggì la presa e scivolò nell'acqua,
profonda poco meno di un metro. Quando si rialzò, i
pantaloni del pigiama erano fradici. Teneva in mano il
Borsalino, che era caduto in acqua: lo rovesciò lentamente,
ci saranno stati tre litri d'acqua! Non mi sono mai divertito
tanto.

Da allora era passato solo un anno, ma durante questo


viaggio a Disneyland Paris io stavo ormai lavorando per
Michael. Per la prima volta da quando viaggiavamo insieme
avevo una camera solo per me. Era normale che non
dividessimo più una suite: non solo era più professionale, ma
io ero cresciuto e volevo la mia privacy e la mia
indipendenza. Ma non fu l’unico cambiamento imposto dalla
nuova posizione.
La prima sera la mia famiglia si riunì in camera di Michael.
Gli chiesi: «Posso venire anch'io?»
«No, non ora», disse, «stai lavorando.»
«Ma sono tutti lì!» protestai. Michael non mi aveva mai
negato una cosa simile ed ero sconcertato. Il lavoro poteva
aspettare. Mi sembrava ovvio che dovessi stare di là con lui
e la mia famiglia e non riuscivo a capire perché non volesse.
«Che penseresti se gli uomini della sicurezza entrassero qui
e si mettessero comodi?» disse lui. «Credimi, ho i miei buoni
motivi per farlo. È per il tuo bene.»

Mi ci volle un po' per entrare nello spirito delle cose, ma alla


fine capii. Era il suo modo per dimostrare che per me era
giunto il momento di abbandonare l'infanzia e assumermi le
mie responsabilità. Il lavoro implica disciplina, non si ferma
solo perché c'è qualcosa di divertente da fare. E’ un concetto
che di solito si impara con il primo impiego, e Michael voleva
che sperimentassi questo aspetto del mondo del lavoro. Si
prese il compito di aiutarmi a diventare adulto, cosa che
apprezzo molto di più ora di quanto abbia fatto allora.

Non ero il solo a dovermi abituare a un nuovo ruolo. Wayne


Nagin, la guardia del corpo che mi aspettava sempre
all'aeroporto e che mi aveva seguito e controllato in molti
modi durante la mia infanzia, adesso era il business
manager di Michael, gli volevo molto bene, anche lui era
praticamente uno di famiglia.

Ma adesso che ero il portavoce di Michael spesso dovevo


chiamare Wayne per seguire lo svolgimento del suo lavoro.
Michael voleva sapere se il suo manager finanziario aveva
concluso un certo accordo o perché ci volesse tanto per la firma
di un contratto; potevano non essere richieste importanti, ma
fossero pure le tre di notte, se aveva una domanda per Wayne
esigeva subito la risposta. Così, quello che una volta era solo un
ragazzino, ora si era trasformato in una continua fonte di stress.
Ovviamente ero educato, ma Wayne non era entusiasta delle
mie continue interferenze; chiamò Michael e gli disse che non
voleva ricevere ordini da me, ma voleva essere contattato
direttamente da lui. La richiesta non venne accolta.
«Non sempre trovo il tempo di chiamarti», spiegò a Wayne.
«Parlare con Frank è come parlare con me.» Michael difendeva
me e il mio lavoro, ma per un po' tra me e Wayne ci fu una certa
tensione, malgrado nutrissi per lui profonda stima e rispetto.
Non ci fu mai una «definizione» ufficiale del mio lavoro, ma a
Michael piaceva che fossi io a rappresentarlo. Dato che in parte
mi aveva cresciuto, il mio modo di trattare con le persone
rispecchiava la cortesia che aveva sempre dimostrato ai suoi
dipendenti e soci; inoltre, sapeva che mi sarei dedicato
completamente a soddisfare le sue richieste. Ma soprattutto, in
tanti anni di amicizia gli avevo dimostrato la mia discrezione e la
mia lealtà, e lui sapeva che il nostro rapporto era un punto fermo
della mia vita.
Ero giovane per il mio ruolo, e lo sapevano in troppi. I fan e i
media mi conoscevano come Frank Cascio, il ragazzino amico di
Michael Jackson. Adesso che lavoravo per lui non volevo più
essere considerato in quel modo. Inoltre, volevo sottolineare la
linea di separazione tra la mia vita con Michael e quella con i
miei amici e la mia famiglia. Una sera, mentre guardavamo la TV
a Neverland, mi venne un'idea per meglio delineare i contorni
della mia posizione. Fin da quando ero un bambino, Michael e io
ci presentavamo agli sconosciuti con nomi inventati, in pane
perché era più facile per lui mantenere l'anonimato, in parte per
gioco. Così gli dissi: «Non credi che dovrei cambiare nome per
differenziare famiglia e lavoro?» Lui mi guardò, annuì
leggermente e disse: «Fai quello che vuoi. E una buona idea».
Proprio in quel momento alla TV trasmettevano la pubblicità del
pollo Tyson.
«Frank Tyson. Perfetto!» esclamai. Da quel momento cominciai
a presentarmi come Frank Tyson o solo Tyson. Era il mio alter
ego professionale. Ero entrato in un nuovo mondo, non ero più il
bambino del New Jersey che aveva avuto la fortuna di avere una
star per amico. Adesso ero un adulto con delle responsabilità.
Lavoravo per Michael Jackson. Ero un suo fedele alleato, pronto
ad aiutarlo a svolgere quel business giornaliero che era la sua
vita. Nessuno mi chiamò più Frank C'ascio.
Con la mia nuova identità, rappresentare Michael nel mondo
divenne il mio compito. Qualcuno rimase stupito al nostro primo
incontro. Uno dei primi incarichi che ebbi riguardava un contralto
con la Mercedes per la produzione di una linea speciale di SLR
Michael Jackson. Trattavo con Ferdinand Froning. responsabile
delle pubbliche relazioni della Mercedes, e nelle nostre
telefonate usavo un tono molto duro. Lo incontrai poi di persona
al Four Seasons Hotel di New York; venne nella suite e mentre
parlavamo di affari all'improvviso mi interruppe dicendo: «Aspetta
un animo!» esclamò. «E tu saresti Frank Tyson?»
«Sì», risposi.
«Allora sei tu che mi rendi la vita impossibile al telefono?»
Scoppiammo lutti a ridere e Michael gli disse di non farsi
ingannare dalle apparenze.
La mia nuova posizione di potere cominciò a diventare evidente
anche per coloro che volevano Michael Jackson come socio in
affari. Dopo un altro incontro al Four Seasons, un imprenditore
senza scrupoli che voleva assolutamente concludere una
transazione con Michael mi allungò una valigetta piena di soldi.
«Questa è per te. Abbiamo davvero bisogno che Michael entri a
far patte della nostra compagnia.»
«Ascolti», risposi, «non voglio il suo denaro. Se l'accordo si
trova, bene, ma io non posso fare niente perché accada.»
Più tardi raccontai a Michael l'accaduto.
«Non possiamo entrare in affari con questa gente», dissi
senza esitazioni. «Mi hanno appena offerto del denaro.
Ovviamente ho rifiutato.»
«Grazie», rispose lui. «Se c'era qualcun altro al posto tuo
avrebbe accettato. Vedi con chi ho a che fare? Succede
sempre così. Tutti prendono bustarelle. Apprezzo la tua
onestà.»
Mi spiegò che era una cosa all'ordine del giorno, e mi fece i
nomi di alcuni tra i suoi più stretti collaboratori che avevano
accettato tangenti per anni. Ero scioccato di scoprire un fatto
simile, era un reato.
Malgrado la nostra reciproca sincerità e la nostra
professionalità, Michael e io mantenevamo lo stesso
rapporto scherzoso che avevamo sempre avuto. Sviluppai
rapidamente la capacità di distinguere quando era opportuno
essere seri e quando invece potevamo divertirci un po'.
Avevo una tendenza naturale a tirare fuori il massimo da
scherzi di tutti i generi. Ci fu un periodo in cui salutavo
sempre Michael con una assurda stretta di mano, che poi
non era una vera e propria stretta - è piuttosto difficile da
spiegare - che coinvolgeva anche i gomiti. Poi a Michael
prese una fissa: si metteva dietro alla persona con cui stavo
parlando e faceva finta di tirargli un calcio nel sedere. A
Disneyland fingevamo di colpire Topolino!
E, ovviamente, ci piaceva ancora moltissimo prendere in giro
gli sconosciuti. Una volta a New York stavamo visitando
alcuni negozi di antiquariato. Indossavo giacca e cravatta.
Con un accento straniero inventato dissi a un venditore:
«Devo andare, per mia religione. Devo buttare pollo dal tetto.
Molta buona fortuna. Devo buttare alle sette e mezza, sennò
arriva grande sfortuna».
Michael come sempre si unì allo scherzo dicendo: «Sì, è
molto religioso. È molto importante per la sua cultura. Devo
aiutarlo a buttare il pollo dal tetto». La gente ci credeva e noi
adoravamo essere gli unici a sapere che si trattava di uno
scherzo.
Ogni tanto Michael permetteva alle fans di entrare nella sua
camera d'albergo. Le chiamavamo pesci (perché il mare era
pieno di pesci) e le più aggressive barracuda. Ce le
contendevamo e scherzavamo su quale ragazza era per lui e
quale per me. «Siamo realisti», dicevo, «sei solo un'esca».
Ecco perché nei ringraziamenti dell'album Invincible ha
scritto, citando il mio nome, «Stop fishing» («basta
pescare»). Con gli anni Michael strinse amicizia con alcune
fans ed ebbe qualche ragazza occasionale, ma era un uomo
sposato, quindi non succedeva niente di sconveniente.
Cercavamo sempre di metterci in imbarazzo a vicenda di
fronte alle donne. Io ero timido (e lo sono ancora per molti
aspetti), e sapendolo Michael mi faceva lo sgambetto con
frasi come: «Frank pensa che tu sia molto carina. Vuole
baciarti». Oppure una volta, per esempio nell'ascensore
dell'albergo, mentre eravamo dietro a un'avvenente
cameriera, Michael mi spinse la mano verso il sedere della
ragazza. Io strattonai via il braccio prima che lei se ne
accorgesse. Con i nostri giochetti infantili tenevamo le
ragazze a distanza.
Erano cose sciocche, inutili e divertenti, ma quando non era
impegnato a insegnarmi i limiti del mio nuovo ruolo Michael
continuava a comportarsi come un bambino di dieci anni.
Voleva solo essere se stesso. Il mio compito era di stare al
suo fianco come cassa di risonanza, aiutante, consigliere ma
anche come amico.

***
Nell'agosto del 1999 Michael cominciò a lavorare al suo
nuovo album, che si sarebbe intitolato Invincible, a New
York. Affittò un appartamento nella Upper East Side, sulla
Settantaquattresima. Come aveva fatto con il suo
«nascondiglio» a Culver City, trasformò anche questo in una
Neverland in miniatura. Voleva creare un ambiente in cui
sentirsi a suo agio e lui stava benissimo quando si
comportava come un bambino. Perciò, al quinto piano, c'era
una sala giochi con videogame, un tavolo da biliardo, un
videoproiettore, una macchina per i popcorn e un banco
pieno di caramelle. Michael chiese anche di avere dei
manichini, che scelsi io da un'esposizione. Ci vennero
consegnati, montati e vestiti con abiti sportivi. Li sistemammo
in giro per il primo piano. A tener loro compagnia, in mezzo
alla stanza, c'era un Batman a grandezza naturale del
marchio The Sharper Image.
I manichini erano un elemento strano, soprattutto al primo
impatto, ma Michael ci parlava e ci scherzava come se
avessero potuto sentirlo, nello stesso modo in cui di solito le
persone parlano al proprio cane. Io lo prendevo in giro: «Ti
vuole dire una cosa. Mi ha detto di dirti che ti puzza l'alito e
che dovresti farti una doccia». E un'idea che può sembrare
insolita: non è che tutti abbiano dei manichini in soggiorno.
Tuttavia devo ammettere che una volta installati, l'effetto
aveva un che di artistico.
In casa non c'erano solo giocattoli. Un piano era pieno di
opere d'arte e di porcellane. A Michael piacevano i quadri di
William Bouguereau, un pittore realista francese del
diciannovesimo secolo, perciò mandò un mercante d'arte ad
acquistare alcune tele che Sylvester Stallone aveva messo
all'asta. Ne comprò due: una per sei milioni di dollari, l'altra
per tredici. Nella prima vi erano raffigurati un angelo e una
fata con un bambino nel mezzo.
L'altra rappresentava una bellissima donna circondata da
angeli. Le tele erano alte circa tre metri.
Prince, Paris e la loro tata, Grace, si spostavano sempre con
noi. Pia, la seconda tata, aveva lavorato solo durante il primo
anno. Quando Grace aveva bisogno di una pausa Michael in
genere si rivolgeva allo staff di Neverland. Durante i viaggi,
Michael divideva il tempo tra gli incontri di affari e le gite con i
figli. Di notte, a seconda dei suoi programmi, i bambini
dormivano nella sua camera oppure con la tata se lui doveva
alzarsi presto.
Per quanto riguardava la loro educazione, Michael era molto
più severo di quanto ci si potesse aspettare considerando le
sue stravaganze. C'erano Neverland, i giochi e i giocattoli
che amava, c'era l'onnipresente banco di dolciumi che lo
seguiva ovunque alloggiasse; a Neverland c'era persino la
«stanza dei treni», con due bellissimi trenini elettrici (che
Prince adorava). Malgrado tutto, Michael non voleva che i
suoi figli crescessero viziati. Potevano andare nel parco
divertimenti di Neverland solo in occasioni speciali, due o tre
volte la settimana, e sapevano che, se volevano salire sulle
giostre, dovevano comportarsi bene. Non avevano il
permesso di guardare la TV, né a casa né in viaggio. Michael
passava molto tempo a leggere loro libri (amavano quelli con
i personaggi di Disney, come Topolino e Biancaneve), ma
comprò anche delle enciclopedie per bambini. Voleva che
fossero ben educati; vedeva un'opportunità di apprendimento
in ogni situazione: se si rompeva qualcosa, ne spiegava il
funzionamento; se pioveva, parlava del cielo dell'acqua. Gli
piaceva dar loro piccole lezioni.
Ovviamente c'erano moltissimi giocattoli, e Prince e Paris
dovevano trattarli con rispetto. Le cose erano lì per loro, ma
per ottenerle dovevano comportarsi bene. Furono educati a
essere grati e riconoscenti. Michael voleva che capissero il
valore del duro lavoro.

«Se non fosse per mio padre», diceva spesso, «non sarei
qui. Ci svegliava alle cinque del mattino per le prove. E,
tornati da scuola, la prima cosa da fare erano altre prove.
Spinse la famiglia a dare il massimo.»
Non voleva che i figli seguissero così precocemente le sue
orme nel mondo dello spettacolo, ma spesso dava a Prince
dei compiti per la giornata, per esempio gli suggeriva di
andare in giro con una videocamera a osservare il mondo dal
suo punto di vista. Quando Michael tornava a casa la sera,
gli chiedeva: «Hai lavorato oggi, Prince? Hai fatto un film per
me?» Mentre assecondava il suo desiderio di giocare, era
riflessivo e attento allo sviluppo di ogni aspetto conoscitivo.
Per quanto volesse stare con i suoi figli, c'erano periodi in cui
non era possibile. Grace, tata a tempo pieno, svolgeva
egregiamente il suo lavoro prendendosi cura dei bambini.
Quando nacque Prince, lavorava come assistente
all'organizzazione della famiglia Jackson, e fu Katherine, la
madre di Michael, a suggerire il suo nome come babysitter.
«Sarà bravissima con i bambini, è una persona davvero
meravigliosa.»
Era vero. Era (ed è tuttora) una persona fidata, dolce e
amorevole. E queste erano le qualità che Michael cercava.
Grace si calò nel ruolo senza alcuna difficoltà. Allevava i
bambini, li amava come una madre e avrebbe fatto
qualunque cosa per loro. I rapporti con Michael di solito
erano ottimi: per lui niente era più importante dei suoi figli, ed
essi erano nelle mani di Grace.
Comunque per lui era difficile - ed e così per molti genitori -
vedere l'amore materno che la tata nutriva per i suoi bambini:
non voleva che crescessero considerando Grace la loro
mamma.
«Lei lavora per voi», diceva loro quando Grace non era nei
paraggi. Erano troppo piccoli per comprendere, e lui non si
aspettava che lo facessero, ma era il modo con cui
esternava il suo disagio per la situazione. Ogni volta che
sentiva inconsciamente che il rapporto si stava facendo
sempre troppo stretto, sembrava voler creare una distanza
tra di loro. Scattava in modo imprevedibile la sua paranoia, la
stessa che gettava un'ombra su molte sue relazioni
interpersonali, e alla quale nemmeno Grace poté sottrarsi.
A un certo punto, quando abitavamo sulla Settantaquattre-sima
Strada, Michael decise di non avere più bisogno di una tata che
si occupasse dei suoi figli. Ma, ovviamente, era troppo
impegnato per prendersi cura di loro a tempo pieno. Tra le altre
cose, doveva terminare la lavorazione di lnvincible. Senza gli
incassi che si aspettava dalle vendite dall'album, rischiava di
perdere il controllo del suo catalogo musicale a vantaggio della
Sony. Ma lui desiderava stare con i suoi bambini. Non era la
cosa più importante del mondo? Era molto combattuto, ma alla
fine vinse il desiderio di sentirsi genitore a lutto tondo; e così
decise di provare a fare da solo: occuparsi dei figli e nello stesso
tempo lavorare all'album. Congedò Grace e nell'appartamento
rimanemmo solo noi e i bambini.
In aggiunta alle altre responsabilità, adesso aiutavo Michael
giorno e nolte a curare i piccoli. Può sembrare un cambiamento
radicale (e lo era), ma non mi sono mai imposto come factotum.
Voglio dire che non ho mai aspirato a diventare una «tata», ma
se Michael aveva bisogno del mio aiuto, perché rifiutare? Pochi
mesi prima, quando lui si era dovuto assentare un paio di giorni,
a Neverland mi ero occupato di Prince. Gli leggevo libri - all'ora
della nanna voleva Goodnight Moott di Margaret Wise Brown. E
non appena finivo, ripeteva: «Ancora!» Alla fine concludevo: «È
ora di dire: 'Buonanotte Prince'». Sono il maggiore di cinque figli,
perciò sono sempre stato a contatto con bambini, me la so
cavare anche con i pannolini. Il legame famigliare che sentivo di
avere con Michael si era esteso in modo del tutto naturale anche
a Prince e Paris. Ero abituato ad essere un fratello maggiore, e
fin dalla loro nascita li ho sempre considerati miei fratellini.
Stavolta, a New York, mi occupavo principalmente di Paris, che
aveva due anni, mentre Michael guardava Prince che ne aveva
tre. Durante il giorno, se Michael non era in studio, li portavamo a
fare qualche giro nei negozi di giocattoli o in libreria. Noi
indossavamo cappelli e occhiali scuri, i bambini invece avevano
sempre qualcosa che copriva il volto, una sciarpa leggera o una
maschera. Ormai erano abituati a queste coperture: facevano
parte della loro vita.
«Possiamo toglierci le maschere quando saliamo in macchina?»
domandavano, nello stesso modo in cui gli altri bambini chiedono
se possono togliersi gli scarponcini.
«Certo, in macchina potete toglierle», rispondeva Michael Per il
mondo esterno poteva sembrare un'eccentricità, ma all'interno
della famiglia era una cosa banale e innocua, normale anche per
me. Michael aveva le sue ragioni, e anche se a volte queste
coperture erano scomode, né i bambini ne io le avevamo mai
messe in discussione.
Alcune scene ricordavano un po' Tre scapoli e un bebé: il
telefono che squillava continuamente e noi due alle prese con i
pannolini, che spargevamo borotalco a destra e a manca e ci
lanciavamo i pannolini per far ridere Prince. A volte, quando
cambiavo uno dei piccoli, prendevo il pannolino sporco e lo
sventolavo davanti alla faccia di Michael.
«Annusa», lo canzonavo. «Senti qua cosa fanno i tuoi figli!» Lui
scappava coprendosi il volto e io lo inseguivo tendendogli il
pannolino.
Quando Michael era nello studio di registrazione trascorrevo
molto tempo al telefono, esausto dopo le notti trascorse in
bianco, magari cercando di cambiare il pannolino di Paris
durante una chiamata di lavoro. Non era facile, ma era
divertente.
All'ora di cena ci ritrovavamo tutti attorno al tavolo di cucina;
Paris stava sul seggiolone. Facevamo a pezzettini le
pietanze per i bambini, li imboccavamo, facevamo loro il
bagnetto, li pettinavamo, cambiavamo i pannolini e
mettevamo loro il pigiamino. Prima di metterli a letto Michael
si sedeva per terra con il primogenito a fare qualche puzzle,
mentre la bimba si divertiva ad arrampicarglisi addosso.
Prince dormiva nel letto di Michael, mentre Paris aveva il
lettino accanto al mio. Le piaceva addormentarsi in braccio a
me, come una volta piaceva a suo fratello. Insomma, tutti i
bambini alla fine si addormentano, ma se prendevo in
braccio Paris, camminavo e le cantavo qualcosa, lei si
addormentava subito. Non appena la mettevo giù
ricominciava a piangere. Credetemi, non era una bambina
facile, soprattutto la notte. Era caparbia. Dolce, certo, ma
quando si svegliava nel cuore della notte per farsi cambiare il
pannolino non la convincevi facilmente a rimettersi a dormire.
C'erano notti in cui dormivo davvero poco. Per fortuna ci ero
abituato.
I bambini erano adorabili: Paris seguiva il fratello come
un'ombra e tutti e due erano contenti di stare con noi. Ho dei
ricordi bellissimi. Detto questo, era tempo che Grace
tornasse. Già, avevamo retto per un mese circa. La chiamai
e due giorni dopo Grace tornò e, per quanto mi riguarda, tirai
un sospiro di sollievo.
La sera del suo ritorno, Michael e io andammo da soli a
rilassarci in un ristorante.
«Quei bimbi possono essere tremendi, eh?» disse Michael.
Annuii e chiesi del vino. Avevamo appena ordinato quando
Michael mi afferrò il braccio all'improvviso.
«Dobbiamo andare», disse.
«Cosa?» chiesi. «Siamo appena arrivati!»
«Guarda alla tua sinistra», sussurrò. Gettai un'occhiata
pensando di scorgere un fans fuori di testa o una schiera di
paparazzi alla finestra. Invece, sul muro, accanto alla mia
testa, c'era uno scarafaggio. Chiesi il conto, biascicai una
scusa e pagai la cameriera. Mentre uscivamo, la vedemmo
afferrare lo scarafaggio a mani nude.
«Hai visto?» chiese Michael quando eravamo di nuovo in
strada. «Hai visto come l'ha preso con le mani? Non poteva
assolutamente essere un ristorante kasher.»
Anche se tecnicamente era sposato con Debbie, Michael si
sentiva sia padre sia madre per i suoi figli. Questo doppio
ruolo si consolidò nell'ottobre 1999, il mese in cui Debbie
Rowe presentò istanza di divorzio dopo tre anni di
matrimonio. Essere la moglie di Michael Jackson era
diventato insostenibile per la sua vita privata. Non poteva
neanche fare un giro sui suoi cavalli senza essere assalita
dai paparazzi. Sperava che con il divorzio i media
perdessero interesse nei suoi confronti, e di fatto fu così. Per
il resto non cambiò niente. Sebbene Debbie e Michael
avessero mantenuto un buon rapporto di amicizia, lei
difficilmente veniva a Neverland. I bambini non l'avevano mai
vista molto, quindi non ci furono sconvolgimenti nelle loro
vite.
Tutto sommato non ci fu niente di scioccante nella sua
decisione: era la conclusione inevitabile di un accordo che,
diceva, stava in piedi solo per volere del principe Al-Waleed
bin Talal. Dato che Michael non sembrava dispiaciuto, non lo
ero neanche io.
Sul finire dell'autunno del 1999 divenne sempre più evidente
che la mia intera esistenza ruotava intorno a Michael. Può
sembrare difficile vivere all'ombra e al servizio di una simile
star planetaria, ma non ho mai pensato la cosa in questi
termini. Non sarei mai potuto essere come Michael, né mi
interessava diventarlo. Non volevo essere il protagonista.
Non ero e non sarò mai una primadonna. Ogni giorno
sapevo cosa dovevo fare e credevo in ciò che facevo.
Andavo sempre nella direzione che lui mi aveva indicalo.
Imparavo da lui e assorbivo la sua visione del mondo,
facendo mio il suo carattere gentile, rispettoso e riflessivo.
Imparai anche a gestire i suoi comportamenti più difficili:
poteva essere paranoico ed eccessivamente sensibile,
soggetto a emozioni estreme e pronto a saltare alle
conclusioni. Per far fronte a queste situazioni, prestavo molta
attenzione quando ascoltavo e cercavo di osservare tutto.
Pensavo prima di parlare. Non gli piaceva che gli si dicesse
cosa fare, perciò se avevo un'idea cercavo di portarcelo in
modo che pensasse (o fingesse) di esserci arrivato da solo.
Quanto più riuscivo a capirlo tanto più forte e stabile
diventava il nostro rapporto.

Per tanto tempo avevo avuto un forte interesse per il mondo


dello spettacolo. Ora quello era anche il mio ambiente, con
tutte le difficoltà che comportava. Michael stava cominciando
a lavorare su Inivicible. ma le sue ambizioni imprenditoriali e
creative si estendevano ben oltre la musica. Valutava
costantemente nuove opportunità: casinò, proprietà
immobiliari, nuove società, produzioni cinematografiche e
opere umanitarie. Oltre a tutti questi progetti, che di solito si
trovavano a vari stadi di avanzamento, c'era la conduzione
già avviata di Neverland e la gestione del suo impero
musicale in società con la Sony. Inoltre, ovviamente, c'era
l'agenda delle apparizioni in pubblico, le consegne dei
riconoscimenti e tutti gli altri impegni. Davvero un'enormità di
cose. Michael aveva un'intera squadra di consulenti e uno
staff che si occupavano di queste iniziative e delle
responsabilità che ne derivavano.

Quando ero piccolo le persone alle sue dipendenze che


avevo conosciuto erano quelle che lo aiutavano nell'ambito
della vita quotidiana: la sicurezza, gli autisti, gli addetti al
trucco e al guardaroba e così via. I meccanismi che
gestivano il grande business di Michael Jackson erano
perlopiù invisibili ai miei occhi. Adesso cominciavo a
comprenderne la complessità. Sebbene non avessi fatto
alcun corso di economia, mi trovai ad avere a che fare con
l'infrastruttura dell'organizzazione.

C'erano avvocati, manager, commercialisti e agenti


pubblicitari. E non si parlava di un avvocato o di un manager:
c'era un'equipe di avvocati e un'equipe di manager, tutti
coinvolti nei progetti ma con compiti differenti. Per esempio,
se Michael voleva investire in una società, i manager si
accertavano che il progetto non lo allontanasse dagli impegni
con la casa discografica, gli addetti alle pubbliche relazioni
cercavano il modo di sfruttarlo per la sua immagine e gli
avvocati si assicuravano che il progetto non entrasse in
conflitto con gli altri obblighi legali della star.
Eppure, nonostante tutti questi interessi, Michael voleva
concentrare le sue energie nella composizione del suo
prossimo album, e mi chiese perciò di rappresentarlo quando
gli impegni musicali glielo impedivano.
«Questa gente lavora per te», mi disse.
Tecnicamente, quando parlavo per conto di Michael io ero il
loro capo, ma - consapevole del mio status di ultimo arrivato
-cercavo di essere cauto ed educato il più possibile.
Tuttavia, se non ci fosse stata Karen Smith nei primi mesi
non mi sarebbe bastata tutta la diplomazia di questo mondo.
Lavorava in un ufficio di Los Angeles ed era non solo
l'assistente esecutivo di Michael, ma molto di più. Per quel
che ricordavo, Karen lavorava per lui da sempre. Era a
conoscenza di tutto quello che succedeva nella vita di
Michael e teneva ogni cosa bene organizzata. Se non
sapevo a chi rivolgermi, chiamavo Karen.

Michael non aveva nessun riguardo per gli orari o gli impegni
delle persone. Chiamava chiunque (me, i miei genitori.
Karen) a qualsiasi ora, e non aveva neanche il senso delle
priorità. Magari telefonava a Karen alle tre del mattino per
dirle: «Karen, lo sai che è morto un fenicottero? È arrivato un
animale e l'ha ucciso.
Puoi chiamare per dire che ne voglio un altro? E assicurati
che nessun animale possa raggiungere l'isola dei
fenicotteri». Giorno e notte, Karen aveva sempre carta e
penna a portata di mano e si occupava delle sue richieste
senza lamentarsi. Poteva coordinare qualunque cosa. E’ il
mistero su questa donna incredibile era reso ancora più fitto
poiché nessuno l'aveva mai vista di persona. Era sempre e
soltanto una voce al telefono.
Una voce allo stesso tempo simpatica e professionale. A
volte, in chiusura di una giornata difficile, se avevo bisogno di
sfogarmi chiamavo Karen. Tutto il mio lavoro era di natura
strettamente confidenziale, e non potevo certo chiamare il
mio migliore amico per lamentarmi del capo o chiedere
consiglio. Tra i dipendenti di Michael. Karen era la persona
più leale, aveva visto e vissuto ogni cosa prima di me, era
l'unica al mondo con cui potessi confidarmi per questioni di
lavoro.
Lei e il mio istinto mi insegnarono che il sistema migliore per
aiutare Michael a prendere decisioni era raccogliere tutte le
informazioni di una determinata situazione ed esporgliele
direttamente, in modo che lui esprimesse la sua volontà e io
mi occupassi poi dell'aspetto pratico. Poteva sembrare un
metodo ovvio e scontato ma con il passare del tempo capii
che non tutti erano animati dalle migliori intenzioni: non
sempre Michael otteneva un quadro reale e completo della
situazione, e questo accadeva per colpa sua, perché
preferiva sentirsi dire solo determinate cose. I suoi
commercialisti e i suoi legali sembravano onesti, ma alcuni
soci in affari, avidi di guadagno, esaltavano i benefici
minimizzando i rischi.
Io non ero un esperto, ma almeno avevo un punto di vista
oggettivo. Non avevo secondi fini e la mia sola intenzione era
quella di aiutare Michael. Prendendo confidenza con il mio
ruolo divenni qualcosa di più che il semplice portavoce dei
suoi desideri; nel bene e nel male, le mie opinioni iniziarono
ad avere un certo peso.

Durante la mia infanzia e adolescenza, Michael aveva


coltivato in me l'idea che non potevo fidare di nessuno. In un
primo momento avevo respinto questo come paranoia, ma
entro la fine del 1999, ho capito che la sua mancanza di
fiducia era come un meccanismo di sopravvivenza
essenziale. Più era il tempo che trascorrevo con lui, più ho
potuto vedere che nel suo mondo, lo scetticismo era una
difesa necessaria. I problemi andavano ben oltre la
negligenza che avevo scoperto nel suo staff di Neverland.
Ha vissuto in un mondo dove tutti volevano qualcosa da lui.
Hanno reagito alla sua fama e successo con invidia e avidità.
Questo era vero anche tra i suoi più stretti collaboratori. Era il
nido di una vipere.

La mia trasformazione era sorta come quella di Michael


Corleone nel Padrino. Prima quando Michael è stato
coinvolto nell'azienda di famiglia, era bello e ingenuo. Ma
quando suo padre viene colpito, lui fa quello che deve essere
fatto. Durante la notte si trasforma in un killer. Ero stato
Frank amico, Frank il confidente, Frank l'assistente. Ora
Michael voleva che tutto fosse eseguito davanti a me, ed ero
ferocemente determinato a usare i miei poteri per bene.
Sapevo che c'erano dei rischi coinvolti: Michael mi aveva
avvertito che ad alcune persone non piaceva prendere ordini
da me, e sospettavo che se ho ottenuto che qualcuno
eseguisse le mie direttive, qualcuno, avrebbe potuto reagire
aggressivamente, ma non m'importava.
C'erano volte quando Michael non voleva vedere o sentire
tutto quello che dovevo dirgli sulla corruzione che sospettavo
nei membri della sua organizzazione. Egli diceva, "Frank, hai
appena iniziato qui. Non sai di cosa stai parlando. Questo è
un mondo diverso", ma io gli ho sempre detto le cose come
l'ho viste. Quello era il mio lavoro — gli fornivo una
prospettiva imparziale che Michael poteva prendere o
lasciare come meglio credeva.

Anche se alcune volte le giornate erano molto impegnative,


io non ho mai smesso sentire ed esprimere la mia gratitudine
a Michael. Non c'era una giornata che passasse senza che
io non gli abbia detto, "Grazie per tutto. Ti voglio bene." Gli e
l’ho detto ogni singola sera, e ci scambiavamo un reciproco
abbraccio. Lui aveva riconosciuto e apprezzato. Ma la vita
nel prossimo anno sarebbe divenuta più complicata, e come
ho visto, il comportamento di Michael tirava la mia lealtà in
due direzioni, e la santità della nostra relazione duratura
sarebbe stata minacciata per la prima, ma non l'ultima, volta.
CAPITOLO DODICI - VITA A
NEVERLAND

Il millennio iniziò sotto una cattiva stella. Michael avrebbe


dovuto volare in Australia per tenere un concerto di
Capodanno, e subito dopo alle Hawaii per festeggiare l’anno
nuovo con un altro spettacolo sfruttando le venti ore di fuso
orario. I due concerti erano stati organizzali da Marcel
Avram, un promoter di eventi, insieme con Myung-Ho Lee e
Wayne Nagin, i consulenti in affari di Michael.
Eravamo a Neverland quando Myung-Ho Lee telefonò per
annunciare che i concerti erano stati annullati. Non ho mai capito
se era stato Michael o Avram a cancellarli (successivamente, in
tribunale, si accusarono reciprocamente di averlo fatto), ma dopo
la telefonata Michael sembrò felice di poter trascorrere il Natale
con i suoi bambini e la famiglia, benché dispiaciuto di
abbandonare i suoi fans. Avram aveva già collaborato al tour di
Dangerous, interrotto sul finale quando Michael dovette lasciare
Città del Messico per entrare in riabilitazione, e una parte
dell'accordo prevedeva che i due sarebbero stati partner anche
dei concerti di inizio millennio. Ma Avram era di nuovo a corto di
soldi, e non c'è perciò da meravigliarsi se per quella
cancellazione e per le gravi perdite subite intentò una causa di
milioni di dollari contro Michael. Quando la notizia venne
divulgata, la considerai solo un'altra seccatura legale, ma non
avevo idea di quante altre ce ne avrebbe riservate l'immediato
futuro.
Mentre la causa si inaspriva nelle mani degli avvocati. Michael
decise di trasferire a Los Angeles la produzione del suo nuovo
album. Lasciammo l'abitazione di Manhattan, ci sistemammo a
Neverland e Michael cominciò a lavorare in uno studio in città.
Da adolescente ero già stato con lui negli studi di registrazione,
sia quando preparava HiStory , sia durante la registrazione di
una parte di Blood on the Dance Floor.
Ma ora, seguendo i procedimenti di produzione da una diversa
prospettiva, mi rendevo conto di quanto impegno Michael
mettesse nel preparare il nuovo disco. Era una gara contro se
stesso: ogni album doveva essere innovativo e unico come lo era
stato il precedente. Michael voleva che Invincible fosse un
«potpourri di canzoni» (sue testuali parole), ognuna della quali
doveva essere una hit e un singolo.

La sua giornata di lavoro era sempre diversa. Talvolta


andava allo studio nel tardo pomeriggio e lavorava fino al
mattino successivo, altre volte iniziava di primo mattino in
modo da poter tornare a casa la sera e trascorrere un po' di
tempo con i figli. Molto spesso i bambini e Grace ci
accompagnavano in studio, dove avevamo attrezzato una
stanza giochi con libri e giocattoli, in modo che ogni volta che
Michael faceva una pausa poteva stare con loro. Erano felici
e ci stavano volentieri: avevano sempre viaggiato, fin dalla
nascita, e quindi crescevano considerando «casa» ovunque
stesse il loro papà. Giocavano tranquilli, sapendo che lui era
lì vicino.
Oltre al suo lavoro allo studio di registrazione, Michael si
dedicava a comporre canzoni anche nella sala di danza di
Neverland. Lavorava con Brad Buxer, il musicista che conoscevo
dai tempi del tour Dangerous e che era stato anche il direttore
musicale di HiStory . La prima volta che si incontrarono, Brad era
l'unico bianco nella band di Stevie Wonder, e per questo Michael
immaginò che dovesse essere una persona speciale, tanto che
alla fine glielo «rubò». Brad possedeva un istinto sorprendente
nel capire cosa voleva Michael, e in questo modo svilupparono
un'ottima collaborazione musicale. Quando aveva un'idea per
una canzone, Brad era l'unico che sapesse esattamente come
realizzarla: lo chiamava al telefono, gli indicava ogni singola nota
che aveva in mente, e subito dopo Brad gli faceva sentire la
melodia. Con questo particolare sistema di collaborare hanno
creato intere canzoni.

Quando Michael scrisse «Specchless», traccia inserita


nell'album Invincible, lo sentii prima canticchiare la melodia
in giro per casa. Disse alla rivista Vibe che la canzone era
nata in Germania, dopo una battaglia di Palloncini d'acqua
con alcuni bambini. Ricordo che a me invece raccontò che
aveva trovato l'ispirazione durante una passeggiata sulle
montagne di quel Paese con alcuni nostri amici,
profondamente commosso dalla bellezza del paesaggio.
Conoscendolo - c'era probabilmente un po' di verità in
entrambe le versioni, la bellezza della natura e l'eccitazione
di una battaglia con i Palloncini. Comunque fosse, cominciò
a registrarla all'inizio del 2000 nella sala da ballo di
Neverland. Ricordo che stavo dietro la porta ad ascoltarlo
cantare, pensando che era la canzone più bella che avessi
sentito da tanto tempo a quella parte.
Sia che fossimo al ranch o negli studi, durante la registrazione
faceva molte pause. Nel ranch c'erano tutte le ultime uscite dei
giochi di simulazione: il basket, la boxe e lo sci. Michael nel gioco
dello sci cadeva in continuazione, e questo lo faceva ridere a
crepapelle.
Facevamo anche frequenti interruzioni per una tra le sue attività
preferite: la battaglia con i Palloncini d'acqua. Trovava sempre un
numero sufficiente di persone da coinvolgere in questo gioco dal
sapore tradizionale, e molte battaglie si tenevano all'interno del
suo tecnologico fortino. Anche se ora aveva dei figli, a Michael
piaceva invitare anche altri bambini perché si divertissero nel
magico posto che aveva creato.
Tutti coloro che si trovavano a Neverland (Michael, bambini,
inservienti, famiglie del posto) venivano suddivisi in squadre di
tre o quattro elementi, mentre alcuni membri dello staff
rifornivano il forte di «munizioni». L'obiettivo era di evitare i
Palloncini mentre si cercava di colpire un pulsante dalla parte
opposta del fortino. Quando una squadra riusciva a colpire tre
volte il bersaglio si alzava una bandierina, suonavano le sirene e
degli irrigatori automatici infradiciavano tutti i partecipanti. Il
capitano della squadra che perdeva doveva appollaiarsi su un
trespolo sospeso su una vasca piena d'acqua fredda. Una volta
la squadra di Michael perse, e lui si arrampicò sulla postazione
come da regolamento: la squadra avversaria lo centrò con una
poltrona sacco, facendolo affondare nell'acqua gelida.
Neverland era un paradiso per bambini, e anche quando Michael
non era presente accoglieva migliaia di ragazzi: famiglie locali,
piccoli pazienti degli ospedali pediatrici, scolari, orfani e bambini
dei quartieri poveri. Creare un posto gioioso per l'infanzia era
stata una delle ragioni principali per cui aveva costruito il ranch.
Ogni volta che era in viaggio o in tournée non mancava di
visitare ospedali pediatrici e orfanotrofi per portare regali, parlare
con i bambini e ascoltare le loro storie. Non si vedono spesso
delle superstar che agiscono in questo modo, a meno che non
sia per scopi promozionali. Michael lo faceva solo per amore. Il
rapporto con i bambini che aiutava era spesso, anche se non
sempre, personale. Li teneva nel suo cuore. Ad attirare la sua
attenzione erano tutti quei piccoli che in un modo o nell'altro
vedeva soffrire. Cercava di aiutarli il più possibile, per esempio
trascorrendo del tempo con i bambini malati che chiedevano di
incontrarlo. La storia delle sue iniziative filantropiche potrebbe
riempire un libro.

Tuttavia, da quando era stato accusato di molestie nel 1993,


aveva cercato di contenere il suo amore sincero per i
bambini, usando maggiore cautela. I suoi giovani ospiti erano
accompagnati da un adulto, e Michael stava molto attento a
non rimanere solo con loro: si assicurava sempre che nelle
vicinanze ci fosse una persona adulta. Non ebbe da mettere
in atto grandi cambiamenti: passare del tempo da solo con i
bambini non era mai stato particolarmente importante. Era
molto diffusa la convinzione secondo cui Michael radunava i
piccoli ospiti affinché trascorressero la notte nella sua
camera a Neverland. Questo non è mai accaduto. Al ranch
arrivavano intere famiglie e, se avevano affrontato un lungo
viaggio, potevano fermarsi per la notte. Ma si trattava
sempre di amici intimi e di persone che lui conosceva da
anni; inoltre, alloggiavano nelle casette per gli ospiti.

La suite di Michael, come pure la cucina, era un punto di


incontro per stare in gruppo. Tutta la casa era accogliente
ma, come sempre succede, c'erano angoli dove le persone
preferivano ritrovarsi. Al primo piano della suite di Michael
c'era un soggiorno con un grande camino, un pianoforte, due
bagni e una stanza-armadio. Al piano di sopra c'era una
cameretta. Chiunque poteva accomodarsi al primo piano e
considerare lo spazio come una sala ricreativa. I bambini
spesso non volevano smettere di giocare, così a volte
dormivano lì, come facevo io da piccolo, stendendo delle
coperte sul tappeto intorno al camino di questa specie di
grande soggiorno. Anche Michael il più delle volte dormiva lì:
offriva sempre il suo letto agli ospiti. Talvolta invitava a
Neverland i membri dei suoi fans club, e occasionalmente
ebbe una relazione con qualche ragazza. Una volta stavo
portando Michael in centro. C'era qualcuno seduto accanto a
me sulla Bentley e Michael era sul sedile posteriore che
baciava una fans.
«Andateci piano là dietro», dissi. «state calmi.»
"Tu pensa a guidare," rispose Michael, in modo scherzoso.
"Non ti preoccupare, e pensa solo a guidare."
Le schermaglie amorose di Michael con i fans erano rari e
riservati, ma non passavano certo inosservati.. A lui piacevano le
donne alte, slanciate, che definirei nerd in modo sexy. Una volta,
a Londra, ero nella sua suite quando ha portato un’amica che
conosceva da anni nella sua camera da letto. Erano lì da circa
un'ora, e quando ne uscì, i pantaloni erano sbottonati.
Ammiccando abbozzai un sorrisetto.
"Zitto, Frank," disse, Sorridendo timidamente. La donna,
altrettanto imbarazzata, accennò un saluto e se ne andò.

Intorno a questo periodo, Michael aveva un altra amica — la


chiamerò Emily — che ha visitato regolarmente il ranch. Lei
era una ragazza bella, carina, snella, con capelli castani..
Emily non voleva né pretendeva niente da Michael. Soltanto
gli piaceva trascorrere del tempo insieme, parlare,
passeggiare, o restare nella sua camera da letto. Era stata
una relazione romantica, ma per quanto ne so, egli non detto
a nessuno di Emily, ma l’ha detto soltanto a me. Michael l’ha
tenuto segreto — lei non dormiva nella sua stanza, perché lui
non voleva che lei venisse vista venire fuori di mattina — ma
non ho visto prove reali del romanzo. Ecco come facevo a
sapere che stava dicendo la verità. Non sarebbe stato così
riservato se non avesse avuto qualcosa che voleva
nascondere. Questa è stata la relazione più lunga ho visto
Emily ha frequentato regolarmente il ranch per circa un
anno.

La domanda sul fatto se Michael era intimo con Debbie


Rowe si avvicinò spesso. La gente sembrava pensare che si
potrebbe fare un’idea più precisa di Michael se essi potevano
solo svelare il mistero delle sue relazioni con le donne, ma
Michael aveva il suo carattere e non c’erano risposte
semplici. So che era sessualmente intimo con Lisa Marie
quando erano insieme , almeno così mi ha detto lui. Con
Emily, onestamente, non ne sono certo. Ma so che in lei
trovò una compagna e un'amica.

Di notte, quando tutti gli ospiti se ne erano andati, Michael


portava i figli a passeggio per Neverland al chiaro di luna. Era
commovente vedere Prince e Paris camminare al suo fianco,
tenendolo per mano. Michael indicava un uccello o un'anatra, e
mentre Prince ogni tanto si scapicollava in avanti come un
cagnolino, Paris se ne stava calma accanto al suo papà
comportandosi da vera signorina. Michael coglieva ogni
occasione per dare lezioni di vita ai suoi bambini. Se scorgevano
un capriolo o qualsiasi altra bestiola, spiegava loro la vita e le
abitudini di quell'animale mentre si fermavano a osservarlo. Il
cielo, l'erba, un albero: Michael percepiva il valore di ogni
dettaglio della natura e lo faceva conoscere ai suoi figli. Voleva
che loro amassero ciò che li circondava senza dare per scontato
tutte le meraviglie del creato. Non ha mai smesso di stupirmi la
facilità con cui si trasformava da accanito lottatore di palloncini
d'acqua a popstar, a padre attento e premuroso. Ancora oggi ini
è difficile da spiegare, ma lui attuava questa trasformazione ogni
giorno con estrema naturalezza.

I miei impegni giornalieri mi facevano andare avanti e indietro


con Michael dagli studi di registrazione. La maggior parte del
tempo però trascorreva in incontri in cui dovevo rappresentarlo.
Più mi avvicinavo al cuore del vasto impero di Michael Jackson,
più avevo motivi per preoccuparmi. Fin dall'inizio avevo notato i
giochi di potere che lo caratterizzavano, e ora mi rendevo conto
che i problemi erano in crescita costante. Vi erano coinvolte
molte società e impiegati, ma non c'era nessuno che coordinasse
i lavori. Capitava per esempio che i manager che si occupavano
della gestione delle risorse umane lavorassero su un contratto,
mentre i manager del settore commerciale portavano avanti un
altro accordo, in conflitto con il primo. Oppure un manager
faceva a Michael grandi promesse sugli affari di cui si stava
occupando, e poi spariva per un mese. L'organizzazione era nel
caos più totale.

Tutta questa confusione si ripercuoteva sulle sue finanze. Le


persone approfittavano di lui. La sua organizzazione
disponeva di una miriade di uffici con spese esorbitanti.
Molte persone sul suo libro paga giravano per il mondo
volando in prima classe, e non avevamo la benché minima
idea di chi stesse viaggiando, dove stesse andando e
nemmeno se quei viaggi fossero davvero necessari. Michael
pagava le fatture di cinquecento telefoni cellulari al mese!
Era un'emorragia di denaro. Non era più sostenibile.
Qualcosa doveva cambiare, ma quando attirai la sua
attenzione su questi problemi mi chiese di risolverli caso per
caso. Sapevo che sarebbe stato necessario un approccio più
sistematico.

Poi, all'inizio del 2000, a Neverland arrivarono due


imprenditori: Court Coursey e Derek Rundell. Avevano
conosciuto Michael alcuni mesi prima grazie a uno dei suoi
procuratori ad Atlanta e lo avevano già incontrato in diverse
occasioni, ma quella era la prima volta che mettevano piede
a Neverland. Erano venuti per promuovere un programma
TV simile al reality American làoi (che sarebbe stato
trasmesso negli Stati Uniti dal 2002), chiamato Hollywood
Ticket, in cui Michael avrebbe dovuto scoprire la prossima
grande superstar, con una componente di voto via internet.
L'incontro andò molto bene e Michael decise di investire
nella compagnia; subito dopo fu chiamato all'improvviso fuori
città e toccò quindi a me seguire Court e Derek per il resto
della visita. Non immaginavo che quella circostanza avrebbe
segnato l'inizio di una lunga amicizia tra noi tre.

Come molti altri progetti, Hollywood Ticket non andò avanti;


l'interesse di Michael svanì e, mancando il suo
coinvolgimento, non ci fu l'accordo. Court e Derek rimasero
delusi ma ci tenemmo in contatto. Il compito di gestire gli
impegni quotidiani di Michael ricadeva su di me, e ora che
volevo «raddrizzare» la sua organizzazione ritenni che i miei
due nuovi amici avessero l'esperienza necessaria per
valutare la situazione.

Chiesi loro un nuovo appuntamento con Michael. Prima


dell'incontro, con il suo permesso, raccolsi la
documentazione finanziaria di cui avrebbero avuto bisogno
per un'analisi oggettiva del problema. In quell'incontro Court
e Derek furono estremamente espliciti, cosa rara nel mondo
di Michael. Indicarono chiaramente le disfunzioni che
vedevano nell'organizzazione. Somme significative di denaro
sparivano in progetti discutibili. E probabile che fino ad allora
nessuno avesse mai dato a Michael simili giudizi in modo
così franco. Court e Derek mostrarono comprensione per lui
e rispetto per il suo grande talento, ma ribadirono la
necessità di un drastico cambiamento. Se avesse continuato
a spendere al ritmo attuale, nell'arco di cinque anni si
sarebbe trovato in grosse difficoltà finanziarie.
Dopo quell'incontro Michael mi dette gradualmente sempre
maggiori responsabilità nel sorvegliare l'organizzazione.
Quando il compito diventò troppo gravoso per le mie forze,
gli dissi che avevo bisogno di aiuto e così decidemmo di
coinvolgere Court e Derek nell'opera di riordino. Finalmente
avevamo a disposizione uomini ed esperienza per risolvere
alcuni dei problemi che mi ossessionavano.
Quando raggiungemmo l'accordo noi quattro stavamo in un
albergo a Miami. Alle due del mattino avevamo appena finito
di lavorare - e avevamo in programma di lasciare la città il
giorno successivo - quando improvvisamente ebbi la pazza
idea di giocare a Beer Pong nella nostra camera d'albergo.
Non ho mai vissuto la vita da universitario, ma avevo
imparato il Beer Pong ai tempi del liceo, prima di lavorare per
Michael.
«Chiamiamo la portineria e facciamoci portare un tavolo da
ping-pong», suggerii.
«Sei fuori di testa», disse Court.
«Qual è il problema?» chiesi. Ero così abituato alle bizzarre
richieste di Michael che pensavo fosse perfettamente
normale chiedere un tavolo da ping-pong in una stanza
d'albergo.
«Niente», disse Court, «fai pure.»

Arrivò il tavolo da gioco e sistemammo sei grandi boccali di


plastica su entrambi i lati. Dovevano essere riempiti di birra
ma noi la sostituimmo con Asti Spumante. Il gioco funziona
così: se uno riesce a lanciare una pallina da ping-pong
dentro un boccale, l'avversario deve scolarselo fino all'ultima
goccia. Lo spumante non si rivelò affatto una buona idea! La
mattina successiva ci svegliammo stravaccati nella suite, chi
sul divano, chi sul letto. Perdemmo il volo. Era stata una
grande notte, ma avevamo davanti tanto lavoro.

Rientrati a Neverland, Court, Derek e io controllammo tutta


l'organizzazione e iniziammo a snellire l'operatività. Oltre a
ciò ci occupavamo anche di supervisionare le operazioni
giornaliere. Saltavano fuori sempre nuovi problemi: dai cigni
neri da aggiungere in fretta allo stanno, decimato da un
coyote (sapevamo che Michael sarebbe rimasto sconvolto
se, tornando a casa, fosse venuto a conoscenza del danno),
alla scoperta delle doppie fatture per gli alpaca, c'era sempre
qualcosa che richiedeva attenzione. Lavoravamo con i
contabili per capire chi non era stato pagato, firmavamo per
controllo ogni biglietto aereo, non ci sfuggiva niente. Era un
impegno a tempo pieno, ventiquattrore su ventiquattro, ed
era un lavoro duro.
All' inizio cercavo di far passare tutto attraverso Michael per
tenerlo informato, ma più si immergeva nel suo lavoro per
Invincible, meno aveva voglia di essere coinvolto negli affari
che stavo trattando. Nel periodo in cui aveva preparato gli
album precedenti. Thriller, Bad e Dangerous, la sua vita
scorreva liscia e tranquilla, e questa serenità si rifletteva
nella qualità dei risultati.

Ma a partire dal 1993 le accuse di Jordy avevano alimentato


i problemi finanziari e legali, e le cose si erano complicate.
Un altro motivo di preoccupazione era il fatto che Michael
non aveva più registrato un album completo dalla nascita dei
figli. Desiderava trascorrere il suo tempo dedicandosi
completamente a loro, e non si rendeva conto che anche la
sua musica aveva bisogno di costante attenzione.
Registrare un album richiedeva una grande concentrazione.
Erano trascorsi cinque anni dall'uscita di HiStory un periodo
piuttosto lungo nell'industria musicale. Invincible doveva
essere l'album del ritorno. Questo fatto creava di per sé una
forte pressione, ma lo stress maggiore derivava dal
perfezionismo che Michael infondeva in tutte le sue
composizioni. Non era mai soddisfatto. Il risultato non lo
convinceva mai appieno.

Il lavoro nello studio di registrazione lo sfiniva, e si arrivò al


punto in cui non volle più ascoltare i miei resoconti di quello
che stava succedendo nella sua organizzazione. Diceva:
«Devo essere creativo. Ecco perché ho bisogno di te.
Pensaci tu. Io non ne voglio sapere». In poche parole, aveva
troppi grattacapi. Doveva per forza lasciare indietro
qualcosa, e fu così che venne a mancare il suo
coinvolgimento negli affari. La musica e i figli venivano
sempre per primi e il compito di risolvere tutti gli altri
problema era solo nostro.
Court, Derek e io trascorremmo l'estate del 2000 a
Neverland e in quel periodo lavorammo veramente sodo per
riassestare tutto. Ma non c'era solo il lavoro. Nel corso di
quei mesi in cui il tempo era perfetto e le montagne si
ravvivavano di splendidi colori, mi piaceva organizzare delle
feste eccezionali. I miei party erano sempre di buongusto e
contenuti. C'era una regola che avevo adottato fin dall'inizio,
e senza pensarci troppo: niente idioti a
Neverland. Non erano grandi riunioni, mai più di dieci
persone, solo pochi amici che potevano venire per un
weekend da Los Angeles o da New York. Michael mi
incoraggiava a invitare degli amici, aveva costruito Neverland
per la gioia di tutti, ma preferiva che accadesse quando lui
non c'era. Non amava socializzare in modo casuale, ed è per
questo che la maggior parte dei miei amici non ha mai
incontrato Michael.
I miei ospiti arrivavano al ranch generalmente nel tardo
pomeriggio, al calar del sole. Dopo averli sistemati nei
bungalow, la prima tappa era sempre la cantina. Ah, la
cantina! Era senza dubbio il luogo che preferivo a Neverland.
Era una stanza semplice, rivestita di pietra e legno con
alcune giacche delle tournée di Michael esposte nelle alte
vetrine. Le pareti erano completamente ricoperte di bottiglie
di vino... e io avevo la mia chiave personale.
Ci preparavamo dei drink o aprivamo qualche bottiglia.
Un'abitudine che avevo preso da Michael era quella di far
decantare il nostro cocktail in lattine di soda o in bottiglie di
succo di frutta. Come Testimone di Geova, Michael era
cresciuto in una cultura dove non esisteva il Natale, né feste
di compleanno, né tantomeno il vino. Era un bambino
devoto, faceva proseliti con il porta a porta e quando diventò
famoso arrivò persino a travestirsi per predicare. Ma ancora
prima che Thriller uscisse, la chiesa condannò l'album come
opera demoniaca. Michael penso allora di annullare l'intero
progetto, ma sua madre lo fermò: «Figliolo, fai quello che
devi fare. Non preoccuparli di ciò che dice la Chiesa. Ti
voglio bene. Lasciala e vai per la tua strada».
Sebbene Katherine fosse profondamente religiosa, incoraggiò il
figlio a seguire la sua arte. E così, quando la Chiesa denunciò la
sua musica, lui non ebbe altra scelta che abbandonarla.

Dopo la rottura con i Testimoni di Geova, Michael poté


finalmente gustare il suo vino, che chiamava «il succo di Gesù»
come un modo per giustificarne il consumo: Gesù aveva bevuto il
vino, quindi potevamo farlo anche noi.
Tuttavia non beveva spesso. Aveva delle remore al riguardo, non
voleva che l'uso del vino si diffondesse tra chi gli stava intorno e
odiava l'immagine stereotipata della rockstar che si dà all'alcol in
maniera smodata: non era il suo genere e non voleva essere
considerato così. Perciò, nelle rare occasioni in cui beveva,
nascondeva il vino nelle bottiglie di succo di frutta, una pratica
che divenne un'abitudine. Sugli aerei privati, quando nessuno lo
vedeva, lo travasava persino nei brick dei succhi e nelle lattine.
Nonostante io sia cresciuto con un atteggiamento molto diverso
(sono italiano!) nei confronti del vino e del bere in generale,
avevo le mie buone ragioni per seguire l'esempio di Michael.
Innanzitutto le bottiglie di succo di frutta sono più grandi dei
bicchieri da vino, e così ci si può servire por/ioni più generose.
Inoltre, come Michael, volevo essere discreto, anche se per
ragioni diverse. Sebbene Michael mi avesse detto di considerare
il ranch come casa mia, tecnicamente ci soggiornavo per lavoro.
Quando invitavo i miei amici, impartivo ordini allo staff di
Neverland; chiedevo di tener aperto il parco divertimenti, di
proiettare film, di cucinare per i miei ospiti e di riordinare le loro
stanze dopo la loro partenza. E anche se ero più giovane della
maggior parte dei dipendenti, essi erano tenuti a seguire le mie
istruzioni; ero consapevole che questo fatto poteva dar fastidio a
qualcuno, e non volevo si pensasse che approfittavo della mia
posizione.

Naturalmente il personale di Neverland sapeva che io e i miei


amici eravamo soliti bere, e non cercavo di nasconderlo, ma mi
sembrava brutto andare in giro per il ranch con bottiglie del vino
di Michael. Non volevo ostentare la libertà che mi era stata
concessa e, a patte la chiave della cantina, non ho mai voluto
dare l'idea di essere un privilegiato.
Così, bottiglie di succhi di frutta alla mano, io e i miei amici
passavamo il tempo nella stanza giochi, ascoltando il Jukebox a
tutto volume mentre veniva preparata la cena. Dopo il pasto, c
un'altra opportuna visita alla cantina per i rifornimenti, correvamo
con le golf cari fino al parco divertimenti. Anche il treno andava
dall'abitazione principale al parco o al teatro, ma di solito non lo
usavamo.
(Una volta, all'incirca in questo periodo. Michael aveva invitato
alcuni vicini. Prince, che aveva circa tre anni, giocava a fare gli
onori di casa portandoli in giro per la tenuta e, indicando il treno
disse: «Ecco, là c'è il mio treno». Mi sbellicai dalle risate. Quale
bambino ha un treno tutto suo? Michael lo prese in giro dicendo:
«Quello non è il tuo treno, è il mio!» In effetti pensai che
nemmeno gli adulti di solito possiedono un treno.)
Il parco divertimenti piaceva sempre a lutti. C'erano le
autoscontro, la ruota panoramica, la giostra del Drago Marino, lo
Zipper e lo Spider. Il Drago Marino era un'enorme giostra
oscillante. Quando la testa del drago raggiungeva l'altezza
massima, chi ci era seduto sopra, guardando in basso, vedeva le
persone sedute sulla coda. Prima di salire, ci riempivamo le
tasche di dolciumi. Al momento dell'impennata più alta,
gettavamo caramelle ai nostri amici di sotto. Era straordinario.
Amici, colleghi di lavoro, famiglie intere: Neverland risvegliava in
tutti il bambino che c'è in noi. Potenti uomini d'affari, appena
arrivavano a Neverland, si fiondavano sul Drago Marino,
mangiavano zucchero filato, si tiravano torte in faccia o facevano
i pazzi nel fortino dell'acqua. (Eppure, dopo poche ore da una
battaglia di palloncini, stipulavano contratti con Michael. Lui
diceva sempre che portare qualcuno a Neverland era il modo più
sicuro per concludere un affare.)
Dopo il parco divertimenti andavamo a vedere un film (a
Neverland c'erano tutte le nuove uscite) oppure, se era troppo
tardi andavamo nella sala giochi ad ascoltare musica e a ballare,
sentendoci liberi e felici. È sempre stato un divertimento sano e
pulito. Tutti si comportavano al meglio. Le persone arrivavano a
Neverland immaginando magari di fare chissà quali pazzie, ma
una volta visitata la proprietà rimanevano immancabilmente
incantati dalla sua bellezza e assumevano un atteggiamento
molto rispettoso nei confronti del proprietario.

Vivere a Neverland è sempre stato meraviglioso (e io vi ho


dato anche feste indimenticabili), ma alla fine dell'estate
decisi che era ora di cercarmi un appartamento. Scelsi un
posto sul litorale di Santa Barbara, a circa quarantacinque
minuti dal ranch: un bellissimo tragitto giù per le strade di
montagna. Amavo il mare, e quando Michael era fuori città
potevo svolgere il mio lavoro dalla spiaggia. Andai a
comprare dei mobili e, anche se sapevo di dover viaggiare
spesso, ero felice di avere per la prima volta una casa tutta
mia.
Quando giunse l'autunno Court, Derek e io avevamo fatto
buoni progressi, ma c'era ancora tanto da sistemare. Abitavo
nel nuovo appartamento da circa un mese quando Michael
mi mandò a New York per seguire alcuni affari. Era un
viaggio di un giorno solo, e non portai nemmeno il bagaglio.
Ma la sera, poco prima di prendere un taxi dal Four Seasons
all'aeroporto. Squillò il telefono. Era Michael. Mi disse che la
registrazione di Invincible veniva nuovamente trasferita a
New York.
Ancora a New York, e dopo così poco tempo dal trasferimento di
tutta l'operazione a Los Angeles, dove tra l'altro mi ero appena
sistemato! La casa discografica di Michael, la Sony, lo voleva a
New York per tenerlo d'occhio e assicurarsi che l'album
procedesse regolarmente. Court e Derek avrebbero continuato il
lavoro di riorganizzazione delle finanze, e io sarei rimasto in
contatto con loro da Manhattan. I bambini, Grace e io ci
saremmo trasferiti al Four Seasons con Michael.

Va bene, ce ne andiamo per un pò mi dissi. Non significa che


debba rinunciare all'appartamento di Santa Barbara, no?
Torneremo presto, pensavo convinto. E così lo tenni. Ma fu
un errore, perché finimmo per rimanere sulla costa orientale
per un periodo davvero molto lungo.
CAPITOLO TREDICI - CENTO CANZONI
Nel novembre del 2000 Michael mi raggiunse a New York e
affidammo un intero piano del Four Seasons. Lui, come
sempre, aveva una suite, Grace una camera e io pure. I
bambini di solito stavano nelle stanze di Michael, a meno che
lui non dovesse alzarsi molto presto la mattina dopo: in quel
caso dormivano con Grace.
In un'altra stanza aveva allestito lo studio di registrazione,
dove lavorava con Brad Buxer. Una delle canzoni che
stavano arrangiando era «Lost Children», in cui Michael
esprimeva la speranza che tutti i bambini scomparsi
potessero tornare a casa dai propri genitori. Per chi ancora
pensa che Michael avesse il complesso di Peter Pan, questa
e la prova che, a differenza del personaggio di James Barrie,
Michael non ha mai sognato di abitare in un mondo in cui i
«bimbi smarriti» vivono in un rifugio sotterraneo. Michael
voleva che i bambini fossero sani e salvi nelle loro case. Alla
fine dalla canzone mio fratello Aldo, che aveva sette anni, e
Prince, che ne aveva tre, si scambiano un paio di battute.
Michael aveva suggerito le parole e Brad li registrò.
«Com'è silenziosa la foresta, guarda tutti questi alberi»,
diceva Aldo.
«E tutti questi bellissimi fiori», aggiungeva Prince.
«Si fa buio. Penso sia meglio andare a casa adesso»,
concludeva Aldo.
La fonte di ispirazione della canzone era la sua esperienza
come genitore: sentiva in prima persona quanto fosse
importante per i suoi figli stare con lui. Ma l'istinto protettivo
nei confronti dei bambini lo aveva sempre avuto, anche
prima di diventare padre. Il loro benessere era sempre stato
una sua preoccupazione; la paternità non lo aveva
trasformato, lo aveva completato. Nella sua arte si
consolidarono quei valori che erano già il fulcro della sua
vita. Aveva detto spesso che la musica si scriveva da sola,
ma ora mi rendevo conto dell'enorme sforzo che richiedeva.
Come sua abitudine. Michael ascoltava le ultime canzoni uscite
seguendo scrupolosamente le top ten. Suonava all'infinito le sue
preferite. All'epoca era fissato con «It Wasn't Me» di Shaggy e
«My Love Is Your Love» di Whitney Houston. Il processo creativo
era diverso per ogni canzone, ma di solito cominciava con un
accenno di melodia, cui poi si adattavano le parole.
Brad e Michael lavoravano in privato, ma il loro rapporto non
era che una parte della produzione di Invincible. C'erano
anche due famosi produttori che lavoravano sulle canzoni
con Michael. Rodney Jerkins, uno dei più quotati, aveva la
sua base operativa negli studi della Hit Factory. Teddy Riley
- che oltre che produttore era anche un artista a tutti gli effetti
(membro di un gruppo chiamato Guy ed ex membro dei
Blackstreet) - lavorava in uno studio allestito in un pullman,
opportunamente parcheggiato davanti alla Hit Factory. Di
conseguenza Michael aveva praticamente tre studi per
operare in simultanea, e tutti lavoravano ventiquattrore al
giorno. Se qualcuno aveva bisogno di sfogare il suo
nervosismo, chiamavano me.
Mi piaceva guardare Michael all'opera. Era un regista nato.
Camminava nello studio, abbracciava tutti e ascoltava il
resoconto del lavoro che ognuno aveva svolto dal giorno
prima. Sentiva ogni nota di una canzone e se qualcosa era
sbagliato esprimeva sempre il suo commento in modo
costruttivo, mai offensivo. Qualche volta si innervosiva e
usciva dallo studio, ma non alzava mai la voce, ne si
alterava: era deciso e rispettoso.
Teddy Riley e Michael si conoscevano già: avevano
collaborato per l'album Dangerous. Rodney Jerkins, invece,
aveva lavorato per Teddy da ragazzino. Michael riuscì a
stimolare un sano spirito di competizione tra i due. A volte li
metteva al lavoro contemporaneamente su una canzone, per
poi scegliere quella che gli sembrava migliore. Teddy
realizzò dei grandi pezzi: «Heaven Can Wait». «Don't Walk
Away», «Whatever Happens» (duetto con Carlos Santana) e
una canzone intitolata «Shout», che non fu inserita
nell'album ma che era molto adatta per l'apertura di un
concerto.
All'inizio della loro collaborazione Rodney gli portò venti
canzoni. Un altro artista le avrebbe considerate tutte delle hit,
ma per Michael non erano abbastanza buone: gli disse di
buttarle. Tutte e venti! A quel tempo Rodney Jerkins infilava
un successo dietro l'altro: «Say My Name» per le Destiny's
Child, «If You Had My Love» per Jennifer Lopez, «Angel of
Mme» per Monica, avevano raggiunto tutte la prima
posizione nelle classifiche pop. Era considerato il miglior
produttore sulla piazza, e non era certo abituato a vedersi
cestinare venti nuove canzoni.

«Devi uscire e trovare nuovi suoni», gli disse Michael.


«Colpisci a caso sassi e giocattoli. Metti una manciata di vetri
in un sacchetto, aggiungici un microfono e scuotilo un po'.»

Io avevo visto Michael in azione per creare questi suoni.


Registrò per esempio il «boing» di un fermaporta e poi giocò
con questo rumore, mixandolo con una batteria per creare un
campionamento unico e originale. Una volta mettemmo un
microfono in una borsa con sassi, giocattoli e pezzetti di
metallo, lo fissammo a un registratore DAT avvolto con
materiale da imballaggio e gettammo il tutto giù dalle scale.
Poi Michael campionava tutti i suoni, li dispose in una
tastiera, lì mixò e li accordò. In Invincible li uso nei brani
«Invincible», «Heartbreaker», «Unbreakable» e
«Threatened».

Rodney doveva essere rimasto a dir poco sconcertato di


dover ricominciare da capo. Le canzoni che gli aveva
presentato erano del genere che lo avevano reso famoso,
ma per lavorare con Michael Jackson sapeva che avrebbe
dovuto escogitare qualcosa di nuovo, Michael lo pretendeva:
faceva impazzire i suoi produttori, ma sapeva come tirare
fuori il meglio da ognuno.
Perciò Rodney si rimise al lavoro. Alla fine produsse per l'album
le canzoni «Unbreakable», «Invincible», «Heartbreaker» e «Rock
My World».
Il tempo trascorso negli studi non era dedicato
esclusivamente al lavoro. Michael ci teneva alcuni dei suoi
amati giochi e videogame. Non solo gli piaceva giocare, ma
gli piaceva anche guardare quello che facevano gli altri,
soprattutto al gioco della boxe Knockout Kings.

Malgrado tutto il tempo che dedicava ad esercitarsi, non era per


niente bravo. Era incredibile vedere come una persona così
coordinata nella danza fosse incapace di riuscire nei videogiochi,
come del resto negli sport; ma gli mancava del tutto la tecnica
nell'uso dei comandi. Era sempre molto autoironico sulle sue
scarse capacità, e lo prendevano in giro un po' tutti.
Anche al rientro in albergo, Michael non si concentrava
soltanto sul lavoro e sui bambini. Quando mio fratello
Dominic e mio cugino Aldo andarono a trovarlo, si
lamentarono che il loro allenatore di calcio, che era stato
anche il mio, non li faceva giocare abbastanza. Allora
Michael prese il telefono - erano le tre del mattino - e gli fece
uno scherzo telefonico.

«Lascia stare, bello. Sarà meglio che tu faccia giocare mio figlio,
bello», e riagganciò.

Noi quattro stavamo morendo dalle risate. L'allenatore digitò *69


per scoprire chi lo aveva chiamalo e scoprì che la telefonata era
partita dal Four Seasons. Fece due più due e chiamò i miei
genitori per informarli dell'accaduto, ma immagino che fosse un
po' lusingato all'idea che l'autore della telefonata fosse
nientemeno che Michael Jackson.

A Michael non dispiaceva prendersi qualche piccola pausa


durante il lavoro, ma l'impegno che profuse in quell'album fu
straordinario. Rodney mi disse che in studio era sempre
concentrato, la sua voce era eccellente ed era altamente
professionale in ogni situazione. Alla fine aveva cento canzoni tra
cui scegliere. Sedici di queste furono inserite nell'album.

Dato che Michael voleva continuare a lavorare anche durante le


vacanze, decidemmo di rimanere in città e di trascorrere il Natale
del 2000 in New Jersey, a casa dei miei. Ora che i figli
rappresentavano una priorità assoluta nella sua vita, prese più
seriamente queste festività. Era deciso a trovare un regalo
speciale per mia madre.
«Che possiamo regalarle?» mi chiese. «Qualcosa che le piaccia
tantissimo.»
Mio padre non amava gli animali in casa, e quindi mi sembrò
l'occasione giusta.
«Un cane», risposi. «Sei l'unico che può regalarle un cane senza
che mio padre si opponga.»
«Ok. fantastico», disse. Feci portare in albergo alcuni cani tra cui
scegliere, e alla fine trovai un cucciolo femmina di golden
retriever all'American Kennels, un negozio di animali che
lavorava con i migliori allevatori. Acquistai anche l'occorrente per
tenerlo fino a Natale: una cuccia, un cappottino e cibo sufficiente.

Quando ero piccolo avevamo avuto solo due animali: all'ini/io un


merlo indiano che diceva «Grazie» e «Dominio, ma quando uno
dei miei fratellini cominciò a imitare l'uccello (anziché il contrario),
mio padre decise che se ne doveva andare. Poi mio zio ci regalò
un pesce, ma mia sorella Marie Nicole inciampò nella boccia e
rovesciò tutto.

«D'ora in poi gli unici animali in questa casa saranno impagliati»,


sentenziò mio padre. Quando Michael regalò il cucciolo a mia
madre, esagerò un po' la cosa con mio padre.
«Dominic, ho esaminalo un sacco di animali», raccontò. (Per la
verità ero stato io a occuparmene, ma perché sottilizzare quando
sapevamo entrambi che mio padre non avrebbe potuto dire di no
a Michael?) «Quando ho visto questa cucciolina, l'ho guardata
negli occhi e ho capito che era quella giusta. Le ho parlato e le
ho detto che doveva essere il cane più bravo del mondo per
stare con la vostra famiglia.»

Come prevedevo, mio padre permise alla mamma di prenderla.


Era eccitatissima. La chiamarono Versace e sono ormai undici
anni che vive con loro.
CAPITOLO QUATTORDICI -
FRAINTESO
Il Natale fu solo una breve tregua nel complesso processo
creativo di Invincible. Tante difficoltà nascevano in parte dal
perfezionismo di Michael, altre dal suo profondo desiderio di
stare sempre con i figli; la maggior parte, però, era dovuta a
un problema in costante crescita nella sua vita: la
dipendenza dai farmaci. E mentre il 2000 volgeva al termine,
cominciai a essere davvero preoccupato.
Non era sempre stato così. Quando avevo iniziato a lavorare
per lui, chiamavo dei medici perché lo curassero quando era
affetto da forti dolori. Nel 1999, a Monaco, avevo assistito
alla terribile caduta dal ponte che gli aveva causato problemi
cronici alla spina dorsale. Era evidente che soffriva. Diversi
dottori gli prescrissero una serie di antidolorifici: Vicodin,
Percocet, Xa-nax e così via. In quel periodo, con il suo
dermatologo, il dottor Klein, Michael continuava anche i
trattamenti per la vitiligine, che erano estremamente dolorosi;
gli venivano infilati nel volto cinquanta aghi e per anni, da
che mi ricordo, il dottor Klein gli ha prescritto il Demerol per
rendergli tollerabile la terapia: lo stesso farmaco che gli
venne somministrato dopo l’incidente avvenuto durante la
pubblicità della Pepsi e quello che - senza saperlo -vidi usare
dai medici per aiutarlo a dormire durante la tournée di
Dangerous. Era un espediente pratico e ragionevole per
curare il dolore a breve termine. O almeno così era sembrato
all'inizio.

Quando ci trasferimmo nella casa sull'Upper East Side,


nell'estate del 1999, mi ero reso conto che Michael ricorreva
sempre più spesso a questi farmaci. A volte mi chiedeva di
chiamargli un medico, e qualche ora più tardi di chiamarne
un altro che gli somministrasse una dose ulteriore della
medicina appena assunta. Michael mi aveva sempre ripetuto
di stare alla larga da cocaina, eroina e marijuana, come del
resto faceva lui stesso. Ma i farmaci tradizionali, sostanze
approvate dalla Food and Drug Admmistration, per lui erano
altro dalle droghe illegali: non li vedeva nello stesso modo.
Era alla ricerca di sollievo da un dolore ormai cronico, voleva
solo stare meglio: metteva in pratica regole diverse.

La situazione si fece ancora più confusa quando cominciò a


frequentare la casa di un anestesista, che due o tre volte la
settimana lo aiutava a dormire. Lo pagavo in contanti, poiché
tutte le prestazioni mediche per Michael dovevano essere
tenute segrete e il loro costo fuori dai libri contabili. Quel
medico fu molto sincero con me.

«Quello che faccio», spiegò, «e far dormire Michael per un paio


d'ore. Poi lo aiuto a uscire dal sonno.» Era lo stesso trattamento
a cui avevo assistito dopo l'incidente di Monaco. Il medico
sistemava la sua attrezzatura e una flebo nella stanza di Michael
e stava con lui, a porte chiuse, per circa quattro ore. Mi disse che
il trattamento era rischioso, ma che sapeva quello che stava
facendo. Mi promise che non avrebbe mai messo in pericolo la
vita di Michael. La sua schiettezza e la sua esperienza mi
ispirarono fiducia.

Ciò che quel medico faceva sembrava una cosa positiva: dopo il
trattamento Michael era lucido e riposato. Ma ancora una volta
assistevo ignaro ai fatti: a Michael veniva somministrato infatti un
potente anestetico, il Propofol, usato negli ospedali per
addormentare i pazienti durante le operazioni chirurgiche.
Questo dà un'idea dell'intensità dei dolori di Michael e della
gravità dell'insonnia che ne conseguiva. Quando i suoi impegni lo
costringevano a iniziare il lavoro di primo mattino, aveva difficoltà
ad addormentarsi abbastanza presto da essere efficiente il
giorno dopo. In quelle notti non riusciva a dormire se non gli
veniva somministrato questo farmaco pericoloso, lo stesso che lo
avrebbe portato alla morte. A lungo pensai che fosse tutto
normale, non credevo assolutamente che avesse problemi di
dipendenza. Con gli anni mi ero abituato a vedere medici che
entravano e uscivano, specialmente durante le tournée, quando
Michael era maggiormente sotto stress e gli occorreva aiuto per
addormentarsi. Credevo solo che avesse seri problemi di salute
e usasse dei farmaci per curarli.
Tuttavia, mentre la preparazione di Invincible proseguiva, mi
preoccupai sempre di più. Sapevo che Michael aveva
bisogno di medicinali per sopportare il dolore provocato dai
trattamenti alla pelle, e questo aveva un senso. Ma la
necessità di alcuni altri farmaci mi sembrava più discutibile:
quello per il dolore cronico, quello per dormire...
Naturalmente non volevo che Michael soffrisse inutilmente o
che passasse le notti in bianco, ma era evidente che ne
stava scontando l'uso continuo a caro prezzo. Stava
imboccando una strada pericolosa.

Persino il medico che gli somministrava il Propofol mi disse:


«Non possiamo continuare in questo modo». Queste parole mi
suggerirono che si stava passando il segno.
Michael non era un drogato. Non si era mai comportato da
pazzo, né si era mai sballato. Ma tutte quelle medicine non
mi convincevano, specialmente il Demerol, su cui Michael
aveva anche scritto la canzone «Morphine» nell'album Blood
on the Dance Floor : Non mi piaceva l'effetto che quelle
sostanze avevano su di lui. Lo rendevano spento. Sfogliava
le riviste, guardava i film apatico c annebbiato; poi, quando
l'effetto svaniva, diventava lunatico, scorbutico e irritabile.
Non era il Michael che conoscevo e che amavo. Inoltre,
sembrava che le medicine aggravassero la sua paranoia.
Mentre assistevo agli effetti che i farmaci avevano su di lui, ebbi
anch'io la mia esperienza con il Demerol. Agli inizi del 2000,
mentre a Los Angeles lavoravamo su Invincible, andammo allo
Universa] CityWalk con Prince, che aveva tre anni, Paris, che ne
aveva due, e la tata Grace.

Michael si era travestito da sceicco e io indossavo un completo


elegante. Quel giorno il posto era molto affollato; piovigginava, e
noi passavamo da un negozio all'altro facendo shopping.
All'improvviso ci accorgemmo che Prince era sparito. Non fu che
un attimo, e credevo di sapere dove fosse potuto andare (verso
qualche giocattolo o personaggio che avesse catturato il suo
interesse). Mi precipitai in quella direzione, ma i marciapiedi
erano scivolosi e caddi malamente slogandomi la caviglia
sinistra. Avevo l'adrenalina a mille, e perciò mi rialzai senza
badare al dolore alla gamba.
Un attimo dopo notai una donna che si avvicinava, tenendo
per mano Prince. Disse: «Vi ho visto con questo bambino nel
negozio...» e in un attimo eravamo tutti attorno a lui. Era di
nuovo tutto a posto. Prince non si era allontanato troppo e
non aveva corso pericoli,ma mi ero spaventato.

Mentre calava la tensione, mi resi conto di avere un dolore


fortissimo. Riuscii a stento a camminare fino alla macchina.
Quando arrivammo in albergo la gamba si era gonfiata. Michael
mi mise a letto, mi sistemò dei cuscini sotto la gamba e chiamò
un medico. Era uno strano capovolgimento: lui che chiamava il
medico per me. In effetti era curioso vederlo prendere il telefono
e compone il numero: di solito ero io che facevo le chiamate per
lui. Eppure era sempre stato un ottimo infermiere. Ogni volta che
avevo (io o chiunque altro) un raffreddore o la febbre, lui
mandava subito qualcuno a prendere medicine, tè, vitamine e
quant'altro necessario. Poi ogni ora controllava se serviva altro.
Un Natale, a Neverland, uno scimpanzé morse un dito al mio
fratellino Aldo. Sebbene i medici gli avessero pulito e medicato la
ferita. Michael convinse il suo medico (che era in vacanza con la
famiglia) a fare un viaggio di due ore per esaminare mio fratello.

Tornando a noi, per il medico che venne a guardarmi la gamba si


trattava di una brutta distorsione e mi prescrisse il Demerol come
antidolorifico. Fu la prima e ultima volta che feci uso di quel
farmaco. Quando Michael sentì quello che mi era stato prescritto,
mi dette delle riviste da leggere, mise un bicchiere d'acqua sul
comodino e fece portare un vaso di fiori, perché, come mi disse:
«Avrai bisogno dell'energia e del colore dei fiori». Poi mi
descrisse come mi sarei sentito dopo l'iniezione.
«Ti sembrerà tutto bellissimo. Sentirai un formicolio che parte
dagli alluci e sale lungo tutto il corpo.» E avvenne proprio come
me lo aveva descritto. Il Demerol si portò via il dolore e mi fece
sentire calmo, rilassato e contento.
Non soffro di malesseri cronici, ma la gamba, che impiegò un
mese a guarire, mi fece capire cosa fosse una sofferenza
incessante. Non riuscivo a dormire, volevo solo che il dolore
se ne andasse, e cominciavo a capire perché alcune
persone, in una simile situazione, si gettassero alla
spasmodica ricerca di un qualche conforto. Scoprii anche
che il sollievo dal dolore fisico aveva un piacevole effetto
collaterale: se non sei contento della vita, quelle sostanze
hanno il potere di farti dimenticare l'infelicità. Iniziai a credere
che Michael stesse confondendo il male fisico con quello
emotivo, cercando disperatamente di alleviare entrambi.
Poi, durante la mia convalescenza, Michael mi fornì un
ulteriore indizio riguardo al suo rapporto con i farmaci. Con
uno sguardo strano, come se non fosse certo di quanto stava
rivelando, osservò:
«Una cosa che i medici non possono misurare né diagnosticare
è il dolore: devono curarti sulla base di quello che tu dici di
sentire».
Era quasi come se mi rendesse partecipe di un piccolo segreto
oscuro, la scusa che legittimava l'abuso di medicine. Nessuno
poteva quantificare l'intensità della sua sofferenza, e quindi
nessuno poteva dubitare della necessità dei farmaci per
alleviarla.
Quando, nel novembre del 2000, ritornammo al Four Seasons le
visite dell'anestesista cessarono. Tuttavia una sera, rientrando,
scoprii che Michael aveva chiamato il medico dell'albergo. Stava
lavorando, parlò con Karen e fece altre telefonate, ma mi resi
conto che era un po' disorientato. La mattina successiva insistetti
per chiarire la situazione.
«Non vorrai finire come Elvis. Pensa ai bambini. Guarda Lisa
Marie e ricordati quello che ha passato.»
Non finse di ignorare il mio avvertimento, cosa che mi avrebbe
convinto di avere ragione. Al contrario, mi guardò dritto negli
occhi e disse con tono sincero: «Frank, io non ho alcun
problema, non mi credi? Non sai di cosa stai parlando».
«Non è che non ti credo...» cominciai, ma poi, davanti ai miei
occhi, compose il numero del suo dermatologo, il dottor Klein.
Mise il telefono in vivavoce e gli chiese di confermare se la
quantità di Demerol che stava assumendo era appropriata. Chi
ero io per contraddire il suo medico curante da oltre quindici
anni? Michael aveva ragione: non sapevo proprio di cosa stavo
parlando. Ognuno di noi ha un corpo diverso. Probabilmente lui
era tanto forte mentalmente che nemmeno una droga poteva
stenderlo. Ed era anche vero che da giorni non si vedeva più in
giro un medico. Se fosse stato davvero dipendente, mi chiedevo,
non avrebbe avuto bisogno di assumere quei farmaci tutti i
giorni? Ero preoccupato, ma non essendo in grado di giudicare la
situazione non capivo più come dovevo comportarmi. Per il
momento quelle parole misero fine alla discussione, ma non
riuscirono a tranquillizzarmi. Temevo per la salute di Michael, ma
ero anche preoccupato per il mio ruolo in tutta questa faccenda.
Quando eravamo in albergo chiamava spesso il medico della
struttura, e questi inevitabilmente gli prescriveva un farmaco. Io
dovevo poi spiegargli che le quantità che gli aveva ordinato non
erano sufficienti, e che Michael aveva bisogno di dosi più
massicce. E ai fini della riservatezza, alcuni farmaci venivano
prescritti a mio nome. All'inizio lo facevo pensando che Michael
avesse tutto sotto controllo. Ero abituato al suo modo di vivere al
di fuori delle regole: i centri commerciali aprivano per lui nel bel
mezzo della notte, le strade venivano chiuse per farlo passare...
E quindi aveva senso che i dottori venissero pagati sono banco.
Aveva senso che le ricette non fossero a suo nome. Aveva
senso il suo bisogno di dosi più forti rispetto a chiunque altro. Lui
era Michael Jackson!
Benché non mi piacessero, consideravo queste cose come parte
della lunga lista di comportamenti che rendevano la sua vita
diversa da quella di chiunque altro. Forse aveva davvero bisogno
di farmaci, e forse agivano su di lui in modo diverso che sulla
gente comune. Altrimenti perché i medici sarebbero stati così
ben disposti a prescriverli?
Invece, se essere Michael Jackson lo poteva esonerare dal
seguire le regole, non gli risparmiava gli effetti delle droghe. A
volte partecipava a un incontro subito dopo aver ricevuto la visita
di un medico: aveva gli occhi spenti, era assonnato, biascicava le
parole. Questi erano comunque gli effetti peggiori, non si andava
oltre. Se ero presente, cancellavo gli appuntamenti, perché non
volevo che Michael si presentasse in quello stato; se invece ero
impegnato altrove, lui procedeva normalmente con tutti i suoi
impegni. Dopo una di queste riunioni, il rabbino Shmuley
Boteach, amico e socio di Michael, mi rivelò che era rimasto
turbato dal suo comportamento, tanto che gli aveva chiesto se
andava tutto bene.

«Sì, »era stata la risposta, «ho dovuto prendere delle medicine


che mi mandano un po' fuori.»
Dopo alcuni di questi incontri mi convinsi che dovevo
intervenire, ma non avevo mai impedito a Michael di fare
qualcosa, non funzionava così tra di noi. Gli dicevo
sinceramente quando non avrebbe dovuto fare qualcosa, ma
non gli dicevo mai che non poteva.
Il mio primo approccio fu semplice e diretto.
«Stai prendendo troppo Demerol.»
«Tu pensi che abbia dei problemi», mi rispose, «ma non è
vero. Hai visto cosa mi è capitato a Monaco. Non riesco a
respirare. Non riesco a dormire. Non hai idea di cosa
significhi stare così male. Domani devo lavorare, se non
dormo come faccio ad andare allo studio?»
Come lui stesso mi aveva detto, è difficile discutere con
qualcuno sull'intensità del suo dolore e, sebbene a
malincuore, fui costretto a rassegnarmi. Accettai la sua
risposta, in parte perché c'erano dei medici che lo seguivano,
in parteperché Michael era un'eccezione a qualsiasi regola;
ma soprattutto la accettai perché era stata pronunciata dalla
persona che mi aveva guidato per tutta la vita, e guidato
bene, da un uomo che mi aveva detto e ripetuto di non usare
stupefacenti e di non diventare dipendente da alcun tipo di
droga. Pensare che a questo punto potesse indirizzarmi sulla
strada sbagliata era semplicemente assurdo.

I miei genitori ovviamente non stavano con Michael tutto il


giorno come facevo io, e non avevano mai assistito a questo
suo comportamento. Una volta, quando mia madre si trovava
in Sudafrica con Michael, si presentò un dottore.
«gli ho somministrato dei farmaci per aiutarlo a dormire», le
disse il medico. «Lo controlli all'incirca ogni ora.» Per mia
madre era una novità. Michael non aveva mai mostrato alla
mia famiglia questo lato della sua vita perché non voleva fare
brutta
impressione sui miei genitori o sui miei fratelli più piccoli. Un
po' come quando metteva il vino nelle lattine, non pensava di
fare qualcosa di sbagliato, ma comunque non voleva che le
persone avessero di lui una cattiva opinione. Perciò mia
madre sapeva poco sul rapporto di Michael con i dottori (mi
viene in mente solo questo episodio) e non immaginava che
facesse parte di uno schema più complesso. Quando arrivò il
medico, lei, come me, doveva aver pensato che i due
sapessero cosa stavano facendo.

Quando Michael venne a casa nostra per il Natale del 2000


portò, come ho già detto, una cagnolina, ma portò anche i
suoi problemi. In casa mia non comparve nessun dottore, ma
una sera mio padre tornò dal lavoro e notò che Michael era
sotto l'effetto di qualche farmaco. Si sedette accanto a lui e
disse: «Michael, non ti fa bene».
«No, Dominic, è tutto okay», balbettò. «Sto bene. Devo
prenderla solo per dormire, ma sto bene.» Ma mio padre non
si dette per vinto.
«Non voglio dirti quello che devi fare, ma per favore stai
attento. Ti voglio bene, ma forse questa volta hai esagerato.»
Ci fu un attimo di silenzio carico di imbarazzo, poi Michael
rispose: «Hai ragione, Dominic. Hai ragione. Forse ho
esagerato».
Dopo quella notte, Michael non prese altre medicine a casa
nostra: si era accorto per lo meno che quello che stava
facendo non andava bene ai miei genitori. Per loro non era
difficile tenerlo a freno, ma potevano fare ben poco quando
lui non era nel raggio della loro influenza.
Essendo lontani non avevano la possibilità di assistere agli
aspetti peggiori della sua dipendenza e io, sebbene ci avessi
pensato spesso, non ero sicuro di volerli informare. In poche
parole non volevo farli preoccupare più di quanto già non
fossero. Con tristezza devo ammettere che erano
probabilmente le uniche persone alle quali avrei potuto
confidare i miei timori. Non potevo cercare l'aiuto di esperti.
Non potevo chiedere consiglio agli amici su come affrontare un
problema che andava oltre le mie capacità. Volevo risolverlo, ma
non potevo rischiare di renderlo noto al mondo. Una parte di me
si sentiva responsabile, mentre un'altra si sentiva profondamente
delusa dal fatto che Michael si lasciasse coinvolgere in una cosa
simile. L'unica persona con cui potevo parlare della «medicina»
era Karen, la sua assistente esecutiva. Lei sapeva più o meno
cosa stava succedendo, e da anni si occupava di prendere gli
appuntamenti con il dermatologo. Ogni tanto la chiamavo e,
piangendo, le dicevo: «Karen, non so cosa fare». Anche lei,
purtroppo, non aveva più risposte di me, ma era comprensiva,
affidabile e onesta, e il suo atteggiamento era sempre da
professionista esperta. Alla fine Michael aveva il suo carattere e
nessuno poteva dargli ordini: probabilmente Karen si sentiva
impotente come me, ma il sostegno che mi ha dato in quel
periodo mi ha aiutato a superarlo.

Per chi lo circondava non era un segreto che Michael


facesse uso della «medicina», ma le persone che potevano
essersene accorte erano consulenti d'affari, sempre pronti a
dargli ragione e la cui priorità era rimanere nelle sue grazie,
non certo amici che avrebbero rischiato la sua collera in
nome della verità. Il loro obiettivo era essenzialmente di
proteggere la sua immagine, non di cambiare il suo
comportamento dietro le scene. Detto questo, anche se
alcuni di loro avessero tentato di parlargli, per genuino
interessamento o per vantaggio personale, avrebbero
probabilmente avuto la mia stessa esperienza: le
giustificazioni di Michael erano estremamente convincenti.

Durante i primi mesi del 2001 mi rifiutai di chiamare dei


medici per Michael.
La sua risposta fu: «Okay, allora lo farò da solo», minaccia che
mi metteva in ansia poiché non volevo perdere di vista quanto
spesso li chiamasse. Se non lo avessi fatto io non ci sarebbe più
stato un intermediario tra lui e i medici, ed io avevo paura di cosa
avrebbe fatto se non sapeva che stavo controllando la sua
assunzione come un falco.
Cominciai a tenere i medicinali nella mia stanza (Xanax, Pe-rocct
e Valium) in modo che non avesse accesso diretto al loro
utilizzo. Non volevo che si svegliasse nel mezzo della notte e
prendesse in automatico qualche pillola. Se dovevo dargli
qualcosa, lo facevo, ma almeno sapevo cosa diavolo stava
ingerendo. Come potevo tentare di discutere con lui se non
avevo le prove certe sulla frequenza e sulla quantità delle
sostanze che assumeva? Avrebbe chiamato altri medici e
assunto altre medicine? Se non stavo sempre all'erta temevo di
perderlo. A Michael non piaceva l'idea che monitorassi il suo uso
di farmaci, ma me lo consentiva per rendermi più accettabile la
situazione. Era un compromesso. Oscillavo tra il tentativo di
intervenire con maggiore decisione e il timore di perdere il
contatto e la capacità di aiutarlo.
Una sera, durante i preparativi per un viaggio all' Università di
Oxford, mentre stavamo bevendo vino nella sua suite in albergo,
mi sembrò che fosse nello stato d'animo giusto per iniziare la
conversazione che da tempo desideravo avere con luì.

«Mi dispiace di essere così fastidioso riguardo alle tue


medicine», esordii. «Il fatto è che ti voglio bene e temo possa
succederti qualcosa.»
Michael sorseggiò il suo vino.
«Non sai cosa vuol dire», ribatté. «Cerco di addormentarmi,
sapendo che l'indomani mattina tutti si aspettano che sia
creativo, ma ho dei dolori atroci. È la peggiore sensazione del
mondo.»
«Non penso di poter immaginare tutta la tua sofferenza.»
«Credimi», disse, «non è quello che vorrei fare. Ma canto e ballo
dall'età di cinque anni. E ora il mio corpo ne risente.»

Infelice com'ero, non avevo di che rispondere a questa sua


dichiarazione. Come potevo io - e chi mai avrebbe potuto -
sapere cosa significava aver vissuto la vita di Michael Jackson?

CAPITOLO QUINDICI - QUALCOSA


D’INATTESO
Tornando al 1993, Michael aveva imparato a proprie spese
che le sue amicizie con i bambini e le loro famiglie potevano
rappresentare un problema, ma ciò non fece diminuire il suo
desiderio di aiutare le persone, specialmente i piccoli, e non
rovinò la sincerità con cui voleva trasformare le parole in fatti.
Basta ascoltare «Heal the World», «Keep the Faith», «Man
in the Mirror», «Lost Children», «Will You Be There», «Gone
Too Soon» e «Earth Song» per capire che usava la sua
musica per dare speranza e percepire la sua ferma volontà
di fare del bene.
Poi, mentre lavorava a Invincible, fece amicizia con il rabbino
Shmuley Boteach. Era un ometto dagli occhi azzurri, la
barba, la kippah, gli occhiali, una pancia prominente e una
lunghissima cravatta. Michael decise di creare con lui una
fondazione per aiutare i bambini bisognosi. Volevano tenere
unite le famiglie: tra gli scopi della fondazione Heal the Kids
c'era quello di fare in modo che i genitori stabilissero giorni
precisi in cui cenare a casa con i propri figli, perché questi
ultimi potessero sentirsi presi in considerazione. Parte
dell'iniziativa delle «cene in famiglia» mirava a fornire ai
genitori le capacità per intraprendere e mantenere un dialogo
con i propri figli, comunicare con loro, ascoltarli ed esprimere
a parole l'amore che provavano.

Nel marzo 2001, in occasione della campagna di promozione di


Heal Ihe Kids, il rabbino ottenne un invito per Michael
all'Università di Oxford per presentarvi le iniziative benefiche
dell'associazione, volte ad aiutare i bambini in tutto il mondo.
Michael voleva fare un discorso profondo, che dimostrasse la
serietà della sua dedizione alla causa. Ci pensò a lungo: era una
questione che gli stava molto a cuore, e certo non uno
stratagemma pubblicitario di una grande star in cerca di
soddisfazioni per il suo ego smisurato. A Oxford il rabbino lo
chiamò sul palco, dove Michael salì zoppicando. Aveva le
stampelle a causa di una frattura a un piede che si era procurato
qualche mese prima a Neverland. Ero con lui quando successe
l'incidente, e la mia prima reazione fu una gran risata.
«Altro che moonwalk, non sai neanche scendere le scale.»
«Sta' zitto, mi fa male», ribalte. Riuscii a tirarlo su e lo misi su
una sedia. Borbottò qualcosa su Prince che aveva lasciato i
giocattoli sulle scale, poi cercò di camminare. Qualche secondo
dopo affermò che stava bene, e pensai che la cosa fosse finita lì
ma, proseguendo nella nostra missione (razziare la cucina), fece
qualche altro passo e alla fine esclamò: «Merda. Non penso sia
a posto».
Cominciando il suo discorso a Oxford, Michael scherzò sulla sua
camminata che sembrava quella di un ottantenne. Poi passò agli
argomenti seri.
«Tutti noi siamo il risultato della nostra infanzia», dichiarò. «Io
invece sono il risultato della mancanza di un'infanzia,
dell'assenza di quell'età preziosa e meravigliosa in cui si può
giocare lieti e senza preoccupazioni, godendo dell'amore di
genitori e parenti, l'età in cui il pensiero più grande può essere il
compito di grammatica di lunedì mattina.»

Parlò della sua grande perdita, che andava di pari passo con il
suo successo, e di quanto fosse importante per lui che i bambini
non venissero costretti a crescere troppo in fretta. Esprimeva il
rimpianto per ciò che non aveva avuto da piccolo, ma al tempo
stesso parlava del bisogno di perdono, nel suo caso perdono per
suo padre. Non voleva essere giudicato con severità dai suoi figli
e guardava al passato e nel suo cuore alla ricerca dell'amore che
suo padre doveva aver provato per lui. Quel bellissimo discorso
gli meritò una standing ovation, e per lui fu un momento speciale:
era evidentemente commosso dall'esperienza di condividere in
pubblico i suoi ricordi dolorosi; tutto questo lo fece sentire
maggiormente in sintonia con le persone, riconosciuto e capito
per quello che era. Inoltre, vedeva questa sintonia in un contesto
più ampio, come un modo per dare speranza a tutti i bambini.

Quel giorno parve a tutti una grande opportunità. Michael voleva


aiutare i piccoli e aveva sempre cercato di farlo in prima persona,
visitando ospedali, stringendo amicizia con bimbi malati e così
via, ma ora aveva la possibilità di ottenere un risultato più ampio
e più importante. Attraverso la fondazione poteva raggiungere
bambini che, per questioni di tempo, non avrebbe mai potuto
incontrare personalmente e aiutarne molti di più di quanti avesse
sognato.

Heal the Kids era una bella iniziativa, ma in Europa avevamo


anche altri affari da seguire. Il giorno prima del discorso eravamo
a Londra quando mi chiamò il consulente di Michael, Myung-Ho
Lee, che voleva farci incontrare sulle Alpi italiane un magnate
televisivo, tale Jùrgen Todenhoefer. Prince e Paris non erano
venuti con noi e Michael non vedeva l'ora di tornare a New York
per riabbracciarli. Tuttavia quell'incontro sembrava molto
importante e così, invece di avviarci verso casa, ci ritrovammo
tra le montagne, su strade dove la primavera torna trasformata in
inverno e i sempre più remoti villaggi sembravano essere
congelati nel tempo. La notte prima, ero, insolitamente, stato in
un locale notturno con l’illusionista David Blame fino a cinque del
mattino.

Accusavo la stanchezza e i postumi di una sbornia e la


strada lunga e tortuosa non mi aiutava a star meglio, ma
finalmente ci fermammo davanti a una casa.
Non appena scendemmo dall'auto alcune persone si
affacciarono alla porta principale, e tra queste c'era una
ragazza incredibilmente bella.
«Guarda, c'è del pesce per te», disse Michael. Non avevamo
perso l'abitudine di chiamare «pesci» le belle donne, e non
so se l'avremmo persa mai.
«No, no, quel pesce è tuo», risposi.
Ci fu un batti e ribatti, ma alla fine Michael concluse: «È
perfetta per te. Il mare è pieno di pesci per me».
Si chiamava Valerie ed era la figlia del signor Todenhoefer.
Michael aveva ancora il piede ingessato e l'altitudine glielo
aveva fatto gonfiare. Non appena in casa, una baita molto
accogliente, chiesi di cercargli un medico. Valerie e sua
madre, Francoise, ci spiegarono che a Solda, paesino
italiano di quattrocento anime, ce n'era uno solo: Maria.

Francoise la chiamò e le disse che c'era bisogno di lei.


Indaffarata come tutti i medici delle località sciistiche. Maria
disse: «Portate qui il paziente, ma dovrà aspettare perché ho
altre persone da visitare prima».
Francoise spiegò che quella persona non poteva davvero
restare in una sala d'aspetto. Non rivelò il nome del paziente,
ma sottolineò il fatto che non poteva recarsi all'ambulatorio.
Ci volle un po' prima che Maria si convincesse a venire alla
baita senza sapere chi fosse il misterioso paziente. Quando
arrivò, Michael era sdraiato sul divano, nulla più che la
caricatura di se stesso. L'espressione di Maria quando lo
riconobbe fu impareggiabile.

Dopo le cure scendemmo nel seminterrato ad ascoltare la


presentazione dell'accordo con Jiirgen. che pareva
promettere bene. Poi Michael e io salimmo in camera mia a
prepararci per la cena. Non so come, mi ero trovato tra le
mani due bottiglie di vino bianco. Volevo riepilogare quanto
era stato discusso durante l'incontro, ma Michael disse:
«Fans culo, divertiamoci!» e così facemmo. Parlammo della
bellissima casa in cui ci trovavamo, della meravigliosa
ragazza che ci aveva accolto e di come avremmo
conquistato il mondo. Eravamo davvero di ottimo umore, e
alla fine bevemmo un'intera bottiglia di vino. O forse eravamo
di ottimo umore perché avevamo finito la bottiglia.

Prima di scendere per la cena ci cambiammo di abito. Io misi


un completo nero. Michael una camicia giallo-verde,
pantaloni neri e un giubbotto sportivo nero. E occhiali da
sole, che poi tolse.
Fu una cena lunga e piacevole e Michael era particolarmente
in forma, come raramente accadeva. Di solito era molto
timido, ma quella sera a quel tavolo converso di tutto e con
tutti. Parlammo di meditazione, di calcio e di musica. Durante
la cena comparve una famiglia di artisti locali che ci deliziò
con la musica tradizionale. Sembravano usciti da una fiaba
dei fratelli Grimm, personaggi fanstastici che vivevano nella
loro casetta di marzapane.

E poi c'era quella bellissima ragazza. Valerie. Sedeva


proprio di fronte a me. con i suoi lunghi capelli dorati, i
lineamenti perfetti e gli splendidi occhi grigio-blu. Durante la
cena non parlammo molto, ma ci scambiammo sguardi e
flirtammo in silenzio tutta la sera.
Michael si accorse che c'era qualcosa nell'aria. Alla fine della
cena, quando tutti si alzarono dal tavolo, Valerie e io ci
trovammo sotto un rametto di vischio. All'improvviso sentii
dietro di me la voce di Michael.

«Frank, devi baciarla!» disse. «Porta sfortuna se non lo fai.»


E detto questo afferrò le nostre teste e le spinse l'una verso
l'altra. Quella sera Michael doveva sentirsi davvero sicuro di
se. Sciolsi l'imbarazzo baciando Valerie sulla guancia.

Era mezzanotte passata e Michael e io ci congedammo per


tornare al piano di sopra, dove ci attendeva una seconda
bottiglia di vino. Tutti gli altri erano andati all'unica discoteca
del Paese, un posto chiamato Après Club. Noi due invece
parlammo e bevemmo finché finimmo il vino, accorgendoci a
quel punto di avere un buco nello stomaco. Immaginando
che fossero tutti a letto, sgattaiolammo di sotto alla ricerca di
viveri, con Michael che saltellava sul piede sano. In cucina
trovammo Valerie.
Ci disse che ci eravamo persi una serata movimentata.
Andando verso la discoteca sua madre era scivolata sul
ghiaccio, aveva battuto la fronte ed era dovuta andare
all'ospedale. Valerie era tornata a casa per vedere come
stava, ma evidentemente era ancora in clinica con il nostro
staff della sicurezza. Dopo aver telefonato per accertarci che
le condizioni di Francoise fossero buone, io, Valerie e
Michael facemmo incetta di snack e altro vino e portammo
tutto al piano di sopra.
Valerie e io sedemmo vicini in cima alle scale, mentre
Michael si mise su una sedia nell'ampio corridoio. Stavamo
parlando e ridendo tranquilli quando lui disse di punto in
bianco: «Dai. Frank, lo sai che la vuoi baciare. Dovresti farlo
e basta».

Diventai rosso. Michael mi faceva spesso scherzi di quel


genere e ci ero abituato, ma stavolta era diverso perché
volevo davvero baciare Valerie. Cercando di nascondere
l'imbarazzo, gli lanciai un cuscino, mi alzai in piedi e
annunciai: «Per stasera ne hai avuto abbastanza, vai a
letto». Cominciai a spingerlo verso la sua camera,
continuando a dire: «Hai bevuto troppo. Devi dormire».

Stavo scherzando, ma Michael ci salutò dicendo: «Credo che


vi lascerò soli». Mi raccomandò di controllarmi bene e avvertì
Valerie di stare attenta. Sapevo che lui voleva la mia felicità,
ma percepii nel suo tono scherzoso un po' di gelosia. Era
contento che io avessi trovato una ragazza, a patto che
questo non significasse essere meno disponibile per lui. Lo
capivo, ma non me ne preoccupai. Era il mio momento e
volevo viverlo e divertirmi.

Ora Valerie e io eravamo soli. Mi portò fuori, dove l'aria era


incredibilmente fredda e pura. Un famoso scalatore viveva lì
accanto e teneva una coppia di yak nei campi dietro casa.
Valerie mi mostrò gli animali, ma non mi impressionarono:
sembravano solo delle mucche fuori misura. Però mi
ricordavano che New York, il suo tran-tran giornaliero, le
chiamale al cellulare e tutte le scadenze, tutto il mio mondo
senza yak insomma, era lontanissimo da lì. Ci
rannicchiammo accanto agli animali, avvolti in una coperta,
per guardar sorgere il sole. Alla fine, soli in quel meraviglioso
scenario, ci baciammo.
CAPITOLO SEDICI - TOCCARE IL
FONDO
II problema delle favole è che esistono solo in
contrapposizione con il mondo reale, e il mondo reale non
sempre è bello. Dopo la parentesi magica trascorsa sulle Alpi
italiane, il mio ritorno a New York segnò l'inizio di uno dei
periodi più difficili che abbia mai avuto con Michael.
Durante la preparazione di Invincible e i nostri continui
spostamenti tra Neverland e Manhattan, Court e Derek
avevano continuato la loro analisi dell'organizzazione di
Michael. Nell'approfondire lo studio della sua situazione
finanziaria, avevano scoperto una brutta storia su un
contratto che Michael considerava cosa fatta: l'acquisizione
della Marvel Comics. Come per il catalogo dei Beatles, che
aveva brillantemente acquistato nel 1985, Michael aveva
fiutato l'affare con la Marvel; in particolare aveva intuito il
potenziale del fumetto di Spider-Man prima ancora che
uscissero i film. L'affare in realtà era sfumato, ma Michael
era stato indotto a credere che la società fosse sua.
Lui mi aveva affidato i suoi figli, e questo significava che si
fidava ciecamente di me, ma i momenti più difficili tra noi si
presentavano quando svolgevo l'oneroso compito di portargli
brutte notizie. Sapevo che non avrebbe voluto sentire niente
sulla questione Marvel, ma non potevo fare a meno di
riferirgli la cruda verità. Lo affrontai con Court e Derek, e lo
informai che in realtà la Marvel Comics non era sua e non gli
era mai appartenuta. Michael rifiutò di crederci e si arrabbiò
con me, anzi con noi, per avergli portato questa notizia, poi si
coprì il viso con le mani e cominciò a piangere.
«Perché la gente mi usa e mi mente in questo modo?»
continuava a ripetere. «Perché?» Fu un momento straziante,
che rivelò una verità ancora più crudele: per quanto
esagerata fosse la sua paranoia, talvolta poteva essere una
reazione legittima e giustificata. Michael ripeteva molto
spesso che esistevano forze che gli lavoravano contro,
persone prezzolate che cercavano di approfittare di lui e che
non si sarebbero fermate di fronte a niente pur di sfruttare le
sue buone intenzioni per i loro fini spregiudicati. Ogni volta
che sopraggiungeva una delusione come quella della Marvel
Comics, aumentava la sua sfiducia nei confronti dei
collaboratori più stretti. Il suo unico meccanismo di difesa
diventava sempre più quello della diffidenza, e se a volte
c'era un fondo di verità, molte altre volte non era che
paranoia.
Non mi piaceva assistere allo sconvolgimento causato
dall'affare Marvel Comics e odiavo assistere alla paranoia di
Michael, ma non volevo addolcire o distorcere la realtà solo
per compiacerlo. Se la lealtà e la verità avessero complicato
o compromesso il nostro rapporto, pazienza. Proteggere
Michael dagli altri era difficile, ma proteggerlo da se stesso lo
era anche di più; tuttavia, nel bene o nel male, ero guidato
dalla convinzione che avesse veramente bisogno di essere
difeso.

Nell'aprile del 2001 Michael cercava con tutte le sue forze di


terminare Invincible, ma c'erano un sacco di ritardi
esasperanti. Il suo perfezionismo impediva il completamento
del progetto. Era sempre più frustrato dall'atteggiamento
della Sony, che non aveva sviluppato il piano di marketing
che secondo lui l'album meritava. Nello stesso tempo i suoi
impulsi filantropici lo portavano a dedicarsi di più alla
fondazione Heal the Kids con il rabbino Boteach. E
naturalmente c'erano i figli, e il suo cuore era sempre con
loro.
Michael non aveva mai registrato in simili circostanze e,
considerando anche l'effetto dei farmaci, era chiaro che non
aveva la mente lucida come in passato, Invincible andava
avanti, è vero, ma troppo lentamente.
Uno dei produttori, Teddy Rilcy, durante quella primavera del
2001 espresse l'intenzione di tornare al suo studio di
registrazione in Virginia, senza dubbio perché era stanco di
lavorare dentro quel pullman parcheggiato davanti alla Hit
Factory. A Michael piacque l'idea di un viaggio, forse un
cambiamento d'aria gli avrebbe fatto bene, e così partì per un
soggiorno di due settimane con i figli, la tata Grace e
l'onnipresente staff della sicurezza. Io rimasi a New York a
lavorare. Dal viaggio a Oxford e poi sulle Alpi era passato un
mese, Valerie e io eravamo rimasti in contatto e pensai che fosse
l'occasione buona per farle visitare la Grande Mela: con Michael
in Virginia, avrei avuto tutte le sere libere per cenare con lei.
(Quando Michael era in città di solito trascorrevo le serate con lui
e se anche non ero fisicamente presente ero sempre reperibile.)
Con Valerie trascorsi una settimana straordinaria. Non appena
ritornò in Europa, volai in Virginia per aggiornare Michael sui
diversi progetti in corso.
Fui molto contento di rivederlo e lui mi accolse con un caloroso
abbraccio. Per la prima volta da tanto tempo sembrava reattivo e
concentrato, e vederlo in quel modo mi fece sentire
enormemente sollevato. Grace disse: «Sono così felice che tu
sia qui. Penso che senza di te Michael si sentisse un po' perso».
Eravamo separati da una settimana, che può sembrare un'inezia,
per noi era un lasso di tempo notevole. Era stato un sollievo
prendermi una piccola pausa, non fosse che per il fallo che
quando c'era lui dovevo sempre assicurarmi che tutto fosse
perfetto. In sua assenza avevo avuto la possibilità di rilassarmi,
cosa che non mi succedeva da quasi due anni.
Michael, Grace e i bambini alloggiavano in un appartamento
di due stanze appartenente a Teddy, quindi mi sistemai nella
camera di Michael. Rimanemmo svegli fino a tardi,
chiacchierando e ascoltando musica.
Fu contento di sapere che avevo trascorso un po' di tempo
con Valerie. ma aveva qualche riserva. L'aveva incontrata e
aveva conosciuto la sua famiglia, aveva visto con i suoi occhi
che erano persone affabili e accoglienti, e Valerie gli piaceva.
Ma non poteva fare a meno di essere paranoico, persino nei
confronti della mia ragazza.
«Stai attento a cosa le dici», mi avviso. «Fai quello che vuoi,
ma tieni le situazioni separate.»
Percepivo il timore che la mia relazione potesse distrarmi dal
lavoro, anche se in realtà non ne avevo la benché minima
intenzione. Di sicuro c'era anche una punta di gelosia. Mi
aveva avuto tutto per se per tanto, tantissimo tempo. Capivo
bene come doveva sentirsi, e decisi che era meglio fare
come diceva lui: tenere separato il nostro rapporto di lavoro
dalla mia vita privata. Avevo appena iniziato una relazione, la
prima seria della mia vita, e già si delineavano situazioni non
esattamente gradevoli.
Fin dall'inizio con Valerie ci furono difficoltà. La prima
riguardava la segretezza. Michael si aspettava non solo che
tenessi separato il mio lavoro, ma anche che lo tenessi
segreto. Pur amando Valerie e fidandomi di lei, non potevo
tornare a casa e dirle quello che avevo fatto. Cosa potevo
raccontarle? «Michael allo studio non era soddisfatto del
lavoro di ieri. Ho dovuto litigare con il medico che voleva
dargli altre pillole. Ecco come è stata la mia giornata, e tu
cosa hai fatto? Come vanno le cose al tuo club del libro?»
A causa di queste limitazioni, mi era impossibile essere
completamente sincero con gli altri. In effetti, chi non mi
conosceva bene poteva scambiare la mia reticenza per
scontrosità, e purtroppo quello ormai era il mio carattere;
persino Valerie mi sentiva distante. Non posso dire che sia
tutta colpa di Michael. Certamente tutto era cominciato per la
paranoia e le restrizioni del suo mondo, ma in fin dei conti
dovevo assumermene la responsabilità. Ora sono molto
migliorato, ma allora ero veramente chiuso.
Un altro problema era rappresentato dal mio stravagante
stile di vita. Ero abituato a viaggiare in prima classe o su jet
privati, e avevo un autista personale. Dopo aver tenuto vuoto
per mesi l'appartamento di Santa Barbara, continuando a
pagare l'affitto, finalmente mi decisi a lasciarlo per prenderne
un altro a Manhattan... finché mi accorsi che non aveva
senso avere nemmeno quello. Ero a disposizione di Michael
ventiquattro ore al giorno, quindi era meglio stare negli
alberghi cinque stelle dove soggiornava lui. Se il telefono
squillava alle quattro del mattino e lui diceva: «Non riesco a
dormire. Cosa stai facendo? Puoi venire qui?» io partivo
subito. Sia chiaro: non obbedivo perché il mio capo mi
schiavizzava, partivo subito perché volevo essere lì per lui.
Non c'erano limiti tra noi due: i limiti erano esclusi dalla
nostra piccola cerchia, e a noi andava bene così.
Rimasi in Virginia solo un paio di giorni, ma furono davvero
positivi: ci comportammo da buoni amici, parlammo del più e
del meno e cercammo di dimenticare per un po' gli assilli del
lavoro. Non immaginavo che le cose sarebbero presto
cambiate.
Poco dopo il mio ritorno a New York era previsto che
rientrassero anche Michael, Grace e i bambini. Erano andati
in treno e tornavano con lo stesso mezzo che Michael amava
(lo considerava il modo migliore per viaggiare e rilassarsi), e
quindi noleggiò un'intera carrozza della Amtrak con tanto di
camere da letto, bagni, sala da gioco e così via.
Tre o quattro giorni dopo il mio arrivo l'autista Andy sarebbe
dovuto andare a prendere Michael e gli altri alla stazione. Ma
prima del loro arrivo ricevetti una telefonata da Skip, una
delle guardie del corpo che viaggiava con loro.
«Il capo non sta bene», mi disse.
«Cosa vuol dire che non sta bene?» chiesi.
«Preparati», rispose Skip, cosa che mi fece venire un senso
di angoscia.
In quel periodo, nella primavera del 2001, ci eravamo
trasferiti dal FourSeasons al Plaza Athénée nell'Upper East
Side. (Ci spostavamo spesso: saremmo rimasti in
quest'ultimo albergo solo per una settimana.) Mentre Michael
e gli altri venivano verso l'hotel, chiesi una sedia a rotelle.
La macchina arrivò mentre aspettavo sul marciapiede.
Michael era in evidenti gravi difficoltà. Non sapevo quanto
alcool avesse bevuto o quali pillole avesse ingerito, ma
qualunque cosa fosse lo aveva reso incapace persino di
camminare.
Non lo avevo mai visto in quello stato, mai. Appena due
giorni prima era reattivo e concentrato, gli avevo parlato
pochi istanti prima che salisse sul treno con i figli e adesso,
dopo appena sei ore di viaggio, era distrutto. Ero arrabbiato
con tutti. Con Michael perché si faceva del male a quel modo
e con gli addetti alla sicurezza e la tata per non averglielo
impedito, anche se sapevo che non era colpa loro.
Soprattutto non di Grace. Ma ero soprattutto incazzato con
me stesso per non essere stato lì per fermarlo. Gli coprii la
testa con la mia giacca, lo caricai sulla sedia e andammo tutti
al piano di sopra: io, Michael, Grace, Prince, Paris e le due
guardie del colpo. La stanza era sempre più affollata, e
all'improvviso mi resi conto che non ce la facevo più e
ordinai: «Grace, prendi i bambini!» e li feci uscire.
Le guardie del corpo volevano spiegarmi cosa era successo
ma non li feci nemmeno iniziare. «Come avete potuto
lasciare che accadesse?» esplosi. «Non riesce nemmeno a
parlare, cazzo! I suoi figli erano lì sul treno con lui, lo hanno
visto in questo stato! Fuori dal cazzo, tutti quanti!» Non mi
avevano mai sentito alzare i toni in questo modo. Uscirono in
fila dalla camera e appena chiusi la porta concentrai la mia
attenzione su Michael.
Ordinai una bottiglia di Gatorade in modo da iniziare a
reidratarlo. Poi gli dissi; «Ma che cazzo hai fatto? Cosa hai
preso?»
Michael fu sincero con me: «Stavo bevendo della vodka... e
poi ho preso una pillola di Xanax».
«Sei un fottuto idiota a farlo davanti ai tuoi figli», sbottai, nero
di rabbia.
«Non ero davanti a loro», mormorò, e forse era vero. Lo
rassettai, lo calmai e lo idratai. Poi Michael commentò:
«Cercano di fregarmi».
«Chi cerca di fregarti?»
«La Finn.» Si riferiva ai suoi manager. Mi chiese di
chiamarne uno al telefono.
«Non puoi parlare con loro adesso», lo avvertii. Era ubriaco
ma oltremodo insistente. Alla fine mi arresi e cominciai a
comporre il numero dicendo: «Non dovresti parlare con
nessuno in queste condizioni, dimmi cosa vuoi dire e parlo io
al posto tuo». Ma lui mi strappò di mano il telefono e
cominciò a inveire contro quel povero disgraziato all'altro
capo della linea.
«Sono il più grande artista del mondo», iniziò. «E voi mi
trattate in questo modo? In teoria dovreste lavorare per me e
lottare per quello che voglio e quello che è meglio per questo
album. Non mi avete fatto vedere nemmeno uno straccio di
piano marketing. Ve lo chiedo da sei mesi e non ho ancora
visto niente. Dov'è questo piano? State deliberatamente
cercando di sabotare il mio album.

Siete dei dannati traditori!» Tentavo di capire cosa


intendesse con esattezza, ma si mangiava le parole e non
era molto coerente.
Non lo avevo mai sentito sbraitare in quel modo contro
qualcuno, poi cominciò addirittura a gridare: «Fottiti, fans
culo, sei licenziato! Esci dalla mia vita. Se non credi in me, ci
sono altre persone che lo fanno».
Poco dopo, quando divenne più lucido, mi spiegò cosa
pensava stesse accadendo. Aveva la sensazione che la
Sony, la sua etichetta, non stesse facendo nulla per
promuovere o pubblicizzare Invincible, e la Finn, la sua
organizzazione manageriale, non si batteva a sufficienza
contro la Sony. Pensava anzi che la casa discografica e la
Finn si fossero accordate per sottrargli il controllo del suo
catalogo dei Beatles. La Sony, che possedeva il cinquanta
per cento delle quote del catalogo, voleva acquistare il resto
da Michael. Se l'album fosse stato un flop, Michael,
trovandosi in ristrettezze finanziarie, sarebbe stato costretto
a vendere la sua metà. Pensava quindi a un grande
complotto contro di lui.
L'angoscia per questa situazione era evidentemente la causa
del suo comportamento sul treno. L'album era quasi
terminato, Michael aveva lavorato sodo e desiderava che
Invincible avesse il migliore piano di marketing e la pubblicità
più efficace. Per facilitare il compito alla Sony, i suoi
manager avrebbero dovuto proporre qualcosa di
rivoluzionario. Dato che non lo facevano, immaginava che
non avessero a cuore i suoi interessi. Ritengo che avesse
ragione... ma non del tutto. Non credo che la casa di
produzione e la Finn cercassero di ingannarlo. Per me la
verità era che i membri della Finn non sapevano proprio cosa
proporre. Erano manager, non esperti di marketing. Non
erano capaci di escogitare un progetto commerciale tanto
innovativo da proporne la realizzazione alla Sony. Da parte
sua, la casa discografica aveva già investito nel progetto
enormi capitali. Alberghi, viaggi, produzione: stavano
pagando tutto loro, e Michael aveva speso milioni dei loro
dollari. Da qualche parte dovevano tagliare queste spese
paurose, e probabilmente la Finn l'aveva capito.
Dopo essersi sfogato con il povero manager, Michael si sentì
un po' meglio. A volte la gente va al bar e beve per
dimenticare i suoi guai. Michael aveva fatto qualcosa di
simile, platealmente a modo suo. D'altra parte, i suoi
problemi erano seri: il destino del catalogo dei Beatles era
nelle sue mani. Quando si fu tranquillizzato cercai di parlargli
con più calma.
«Capisco che hai bisogno di sfogarti, sarei il primo a bere
qualcosa con te. Possiamo prendere anche due bottiglie se
vuoi. Ma devi essere cauto. Ti ricordi quando mi dicesti 'Fatti
una bevuta e divertiti, ma se dopo non puoi uscire da solo
sulle tue gambe, sei un incosciente?»
Dapprima Michael cercò di scusarsi.
«Frank, non puoi sapere quello che sto attraversando. Lo
stress. L'album. La gente che cerca di togliermi il catalogo.
La fondazione Heal the Kids...» Mi elencò questi e molti altri
impegni, la lista delle cose da fare che lo teneva sveglio la
notte, quella per cui chiamava me e gli altri membri dello staff
a tutte le ore, quando lo stress superava il livello di guardia.
«Passerà», dissi. «Andiamo avanti. Andrà tutto bene. Se
vuoi essere il migliore, hai bisogno di rimanere concentrato.
Devi ritrovare te stesso.» Cercai di calmarlo e motivarlo
ricordandogli ciò che era importante. «I tuoi Figli. Non puoi
lasciare che ti vedano in quello stato.»
Sussultò e fece un respiro profondo. «Lo so, hai ragione»,
rispose. Ci fu un attimo di silenzio in cui sembrò riprendersi.
Mi abbracciò. «Mi dispiace. Frank. Grazie di esserci, grazie
per tutto quello che fai.» Mi staccai dalle sue braccia per
guardarlo. I suoi occhi erano pieni di lacrime.
Fu un momento eccezionale. Avevamo l'abitudine di dire
«grazie» e «ti voglio bene» ogni notte prima di separarci, ma
raramente manifestavamo il nostro affetto in maniera più
esplicita. Sapevo di essere riuscito a comunicare con lui e
speravo che questo, il punto più basso che gli avevo visto
raggiungere, fosse anche un punto di svolta.
Quella notte dormii nella stanza di Michael, come se avessi
bisogno di stargli vicino per vegliarlo. La settimana trascorsa
con Valerie sembrava lontana cent'anni. Qualcuno, con un
«cablaggio» differente, avrebbe potuto innamorarsi e
rendersi conto che non poteva lasciare che la vita gli
scorresse accanto, che non voleva fare un lavoro che
richiedesse la sua completa attenzione, ventiquattro ore al
giorno. Ma se avevo imparato qualcosa da questa breve
pausa che Michael e io ci eravamo presi (e che era
miseramente finita) era che non potevo avere una vita mia.
Non potevo stare lontano da Michael, non per Valerie, né per
altri progetti o altre ragioni. Non potevo lasciarlo andare. Era
tutto sulle mie spalle. La mia vita, la mia carriera, la mia
relazione, venivano tutte al secondo posto poiché io stesso
venivo per secondo, talvolta addirittura terzo o quarto.
Dedicare del tempo a me stesso era un lusso che in quel
momento non potevo permettermi.

Avevamo programmato di portare il progetto di Invicibile a


Miami, dove avremmo terminato il lavoro con i produttori
Rodney e Teddy. Sarebbe stato un altro cambiamento di
scenario, c Michael sperava che lo aiutasse a finire l'album
una volta per tutte. Nei pochi giorni trascorsi a New York
prima del trasferimento sembrava che avesse ritrovato se
stesso. E aveva anche delle buone notizie. In quel breve e
fragile interludio tra la Virginia e Miami, avevano finalmente
trovato la donatrice di ovuli che cercava da tempo. Ora
doveva essere trovata una madre «ospite». Michael era
eccitato ma io, segnato dagli ultimi eventi, mi sentivo ancora
un fascio di nervi.

Prima di partire per Miami feci una chiacchierata con lui. Gli
raccomandai di essere forte, concentrato e lucido.
«Anche se non è un problema, le cose devono cambiare», gli
dissi. «Devi partecipare a tanti incontri e le persone si
accorgono quando sei un po' di fuori. La gente comincerà a
parlare. Non vuoi che succeda, vero?»
«Frank, apprezzo la tua preoccupazione», rispose, «ma sto
ancora cercando di far guarire il mio piede.»
Cambiai tattica: «Non aggiustare le cose per me. A questo
punto non tento nemmeno di dirti di farlo per te stesso. Ma
hai dei figli! Devi essere responsabile per loro. Non dico di
smettere tutto di colpo domani. Non lo puoi fare. Ma troviamo
una soluzione, un piano che ti permetta di tornare in salute».
«Va bene», esclamò stringendomi la mano. Aveva capito, ne
ero certo.
«Ti aiuterò, lo faremo insieme», gli dissi abbracciandolo.
Quando arrivammo a Miami misi in allerta le guardie del
corpo: dato che non potevo trascorrere il cento percento del
mio tempo accanto a Michael, spettava a loro avvertirmi
immediatamente se qualche medico andava a fargli visita.
Ero deciso a mettermi in mezzo tra lui e chiunque volesse
somministrargli medicine. Ero stato io ad assumere cinque
guardie del corpo: con tutto ciò che era successo tra Michael
e me, sia per affari sia personalmente, mi sentivo più
responsabile di ogni particolare, sentivo di essere diventato
una voce più autorevole nel suo mondo.
Alloggiammo allo Sheraton Bai Harbour di Miami. Appena
arrivati, scesi al ristorante per incontrare il promoter di
concerti David Guest. Nel bel mezzo dell'incontro, una delle
guardie del corpo. Henry, venne da me. Scusandosi mi prese
da parte e disse che il medico dell'albergo proprio in quel
momento era nella stanza di Michael.
David sentì. Conosceva Michael da anni e sapeva qualcosa
delle sue battaglie contro i farmaci. Cominciò ad agitarsi, e
così gli dissi: «David, calmali. Rimani qui».
Avevo una chiave della camera ma invece di aprire bussai
alla porta. Nessuna risposta. Bussai allora più forte dicendo:
«Michael, sono Frank. Apri la porta». Ero stufo marcio di
questi medici d'albergo che perdevano la testa per avere a
che fare con una celebrità e irresponsabilmente lo rifornivano
di qualunque droga volesse.
«Aspetta, sono in riunione», rispose.
«Apri questa porta!» ordinai, e senza attendere la risposta
iniziai a usare la mia key card. Mentre la inserivo, Michael
aprì.
«Frank, calmati», disse facendomi entrare. Senza che aprissi
bocca, sapeva con esattezza ciò che pensavo e come ero
sconvolto.
Il medico mi dette l'impressione di essere un ciarlatano. Con
le palpebre cascanti e gli occhiali spessi aveva l'aria di una
persona losca. Ovviamente, ormai diffidavo di qualunque
membro dell'ordine medico. Ero in uno stato di totale
agitazione: ero convinto che Michael si stesse facendo del
male e volevo disperatamente proteggerlo. Così mi scatenai
contro quel malcapitato. Non appena entrai nella stanza
esplosi e gli urlai: «Cosa sta facendo qui? Cosa gli sta
dando? Questo non deve succedere!»
Il medico rimase sconcertato. «Si rilassi, signore», cominciò.
«Non sono qui per dare chissà quali droghe al suo amico.
Stiamo solo parlando.»
«Frank», si intromise Michael, «sei proprio fuori luogo. Non
hai idea di cosa stai dicendo. Questo signore mi sta aiutando
per il mio piede.» Mi spiegò che quel medico, il dottor
Parshchian, era uno specialista nel campo della medicina
rigenerativa. Ma non la bevvi.
«Ho detto la mia», risposi a entrambi. «Ora me ne vado.
Faccia quello che deve fare, ma veda di non somministrargli
niente.» Ero furioso che Michael avesse convocato un
medico alle mie spalle persino dopo averne parlato e aver
raggiunto un accordo. E io che pensavo di averlo convinto.
Il giorno successivo mi chiamò nella sua stanza. C'era anche
il dottore, e Michael mi chiese di scusarmi per avere urlato e
tentalo di cacciarlo fuori. Allora spiegai al medico perché mi
ero comportato così.
«Forse ho esagerato», mi difesi, «ma deve capire che molti
medici continuano a dare a Michael farmaci che non
dovrebbe prendere.» Il dottor Parshchian disse che capiva e
pensava che fosse molto nobile da parte mia cercare di
proteggere Michael.
Tutti e tre ci sedemmo più rilassati.
«Dopo che io e te abbiamo parlato a New York», mi disse
Michael, «nella mia mente è scattato qualcosa. Ecco perché
ho chiamato il dottor Parshchian, perché voglio stare
meglio.» Il medico era effettivamente uno specialista in
medicina rigenerativa. Michael, che portava ancora un tutore
alla caviglia, aveva bisogno che il piede gli guarisse il più
presto possibile ma era determinato anche a mettere in atto
un programma per disintossicarsi dai farmaci.
«E’ un procedimento», intervenne il dottor Parshchian, «che
Michael non può affrontare dall'oggi al domani. Ma ho
intenzione di iniziare una cura che lo aiuti per il piede e lo
disabitui ai farmaci.»
Non sapevo quanta fiducia riporre in questa novità, tuttavia
commentai: «Sono contento di sentirglielo dire, e spero con
tutto il cuore che possa aiutarlo».
Ironicamente, considerando il mio intervento
melodrammatico, il dottor Parshchian si rivelò l'unico medico
che fece sinceramente del suo meglio per interrompere le
cattive abitudini di Michael. Gli applicò un cerotto sulla
pancia che doveva aiutarlo a combattere il bisogno dei
farmaci. E a Miami, sotto le sue cure, Michael iniziò a
impegnarsi seriamente perseguire il programma. Presto il
dottore cominciò a viaggiare con noi, trascorrendo del tempo
anche a Neverland, dato che Michael desiderava veramente
cambiare e lo voleva con se.
Ne fui enormemente sollevato. Per la prima volta Michael
aveva ammesso senza mezzi termini di avere un problema e
tentava di migliorare per i suoi figli. Avevo cercato di farglielo
capire da tempo, ma finché non se ne convinse
personalmente le mie parole rimasero vane.
Doveva arrivarci da solo, e sembrava che alla fine ce
l'avesse fatta. Sentivo il peso della responsabilità alleggerirsi
un po'. Michael stava ricevendo aiuto da un medico che di
sicuro sapeva quel che faceva.
Finalmente stavamo per riavere un Michael in buona forma,
giusto in tempo per altre buone notizie. Mentre eravamo in
Florida, nel maggio del 2001, mi chiamò nella sua stanza
d'albergo. Quando entrai aveva un sorriso raggiante.
«Sto per diventare nuovamente padre!» esclamò
abbracciandomi.
«Accidenti! Sono così felice per le», mi congratulai. «Te lo
meriti.»
Anche se riversava tutto il suo impegno nell'album, metter su
famiglia era sempre rimasta la sua massima priorità. Era un
dato di fatto, Michael si sentiva un padre nato e aveva
sempre dichiarato di volere dieci figli. Dato che Debbie aveva
avuto problemi durante la gravidanza di Paris, Michael aveva
cercato una donatrice di ovuli per il suo prossimo bambino.
Ora che non c'era più la presenza famigliare di Debbie,
decise che ogni rapporto con una futura madre sarebbe
rimasto nell'anonimato. Ricordo il giorno in cui, nella sua
suite al Four Seasons. esaminavamo un voluminoso
fascicolo di foto di potenziali donatrici.
Era un po' come fare un «quaderno dei desideri», scorrendo
le figure e immaginando il futuro. La differenza consisteva
nel fatto che stavolta si trattava di una scelta reale,
immediata e seria. Continuai a sfogliare le pagine finché non
mi colpì la foto di una giovane donna.
«Ecco quella giusta», dissi. Mi piacevano i suoi occhi e il
colore della pelle. Aveva dei bellissimi capelli neri. Le note
dicevano che era in parte italiana e in parte spagnola.
«Ti piace solo perché è italiana», commentò Michael e
sembrò scartare la mia scelta. Ma c'era qualcosa di più delle
sue radici italiane. Aveva l’aria di una che sarebbe piaciuta a
Michael. Descrivendosi, diceva: «Sono una persona
ottimista. Vedo il buono nelle persone. Non critico gli altri.
Sono molto spirituale, lavoro sulla consapevolezza
dell'essere e leggo un sacco di libri». Sono bravo a creare le
coppie e alla fine fu proprio quella che scelse Michael. Disse:
«Andata». Così chiamai il dottore per dargli gli estremi della
giovane donatrice.
Finalmente, in quella stanza d'albergo in Florida, Michael mi
disse che tutto era andato a gonfie vele. Una madre
surrogata era incinta del bambino di Michael grazie alla
donatrice di ovuli.
«Con questo fanno tre su dieci, Frank, tre su dieci!»
esclamò. Poi mi dette una gomitata e aggiunse: «Forza,
Frank, tu rimani indietro. Quando hai intenzione di avere dei
figli? Non vedo l'ora di raccontare storielle su di te ai tuoi
bambini. Ti farò morire dall'imbarazzo».
Più tardi Michael annunciò ai suoi figli che stavano per avere
un fratellino. Non ero presente quando comunicò la notizia,
ma in seguito notai quanto Prince e Paris fossero eccitati.
Erano impazienti di prendersi cura del neonato.
Dopo anni di trepidazione, sforzi, dolore, frustrazioni e
sospetti, il 12 giugno Michael portò finalmente l'album
Invincible ai dirigenti della Sony.
La collaborazione di un musicista con una casa discografica
è come un matrimonio. Ci sono un sacco di discussioni e
compromessi su come i bambini dovrebbero essere allevati.
La Sony era molto felice per l'album, e durante quell'incontro
hanno contribuito a restringere l'elenco delle canzoni che
sarebbero state incise su di esso. Un conflitto sorse quando
Tommy Mottola, il capo della Sony Music, non voleva "Lost
Children" sull'album, perché era dell'opinione che Michael
potesse essere associato con i bambini, e questo servirebbe
solo a suscitare ricordi spiacevoli delle accuse del 1993.
Michael pensava che questo era assurdo ed era fermamente
convinto che "Lost Children" dovesse essere inclusa
sull'album. Era una battaglia, ma alla fine ha vinto Michael.
Michael e la Sony erano anche in disaccordo circa l'ordine in
cui i singoli sarebbe stati rilasciati. Michael voleva lanciare la
canzone "Unbreakable" come primo singolo ed era ansioso
di fare un video per esso. (Mai, a proposito, uso la parola
"video" quando si parlava di una delle sue canzoni filmata.
Se qualcuno ha usato questa parola, lui diceva,
"cortometraggio. È un cortometraggio. Non faccio video."
Michael non sapeva nemmeno come esattamente voleva
aprire il cortometraggio "Unbreakable". Lui immaginava che
sarebbe salito sul tetto di un edificio molto alto, che era in
costruzione, ed che sarebbe stato tenuto sopra il bordo da
alcuni teppisti, e poi si sarebbe lasciato andare. Lui sarebbe
precipitato a terra, apparentemente morto, ma lentamente,
parti del suo corpo si sarebbe ricomposti e lui si trasformava
in fuoco —Michael aveva previsto la creazione di una danza
per "Unbreakable" che la gente avrebbe ricordato per
sempre.
Ha lottato per questa visione, ma purtroppo non si è potuta
realizzare. La Sony ha voluto che il primo singolo fosse "You
Rock My World". Non fraintendetemi: Michael amava "You
Rock My World" ma lui voleva che fosse il secondo singolo
estratto dall'album. Come compromesso, ha pensato che
"Unbreakable" doveva seguire come secondo singolo, ma la
Sony ha voluto "Butterflis". In definitiva, ci sono stati tre
singoli: "You Rock My World», «Butterflies» e «Cry», ma
l'unico che sarebbe stato anche un video musicale fu You
Rock My World.
Nell'estate del 2001 eravamo sul set per dare inizio al video
quando John McClain, un consulente da lunga data dei
Jackson, mi chiamò. Mi disse che si era incontrato con il
regista e riferì: «Vogliono usare del make-up per scurire la
pelle di Michael. Vogliono anche rimodellargli un po' il naso».
E mi chiese di suggerire queste correzioni estetiche a
Michael. Evidentemente, non lo conosceva per niente.
Rimasi sbalordito. E mi rifiutai.
«John, non posso fare questi discorsi a Michael. Non c'è
nessun modo per fargli accettare simili consigli. Se vuoi, vai
pure avanti. Io non ti seguo.» Non volevo essere coinvolto.
Un po' più tardi, mentre ero di nuovo nella mia camera
d'albergo, squillò il telefono. Era Karen Eaye, l'addetta al
trucco, che chiamava dalla stanza di Michael. Doveva
prepararlo per le riprese ma lui si era chiuso in bagno e lei
non aveva idea del perché. Mi chiese di correre subito da lui.
Quando arrivai, sentii Michael in bagno che dava i numeri e
spaccava tutto. Di sicuro John McClain gli aveva parlato dei
cambiamenti alla pelle e al naso e lui era tremendamente
arrabbiato. Cercai di attirare la sua attenzione, ma il caos
all'interno del bagno continuava senza interruzioni. A un
certo punto lo sentii colpire qualcosa con una forza tale che
mi spaventai. Allora tentai di abbattere la porta.
Alla fine mi fece entrare. Era seduto sul pavimento. Gli
avevano dato la notizia mentre aveva cominciato a farsi
tagliare i capelli, così adesso erano mezzi lunghi e mezzi
corti. Si teneva la testa tra le mani singhiozzando.
«Lo crederesti?» disse. «Pensano che sia brutto? Vogliono
rimodellarmi il naso? Che cazzo ho che non va? Io non gli
dico come dovrebbero essere loro. Vadano a farsi fottere!»
Parlando tra le lacrime ripeteva: «Pensano che sia un
mostro, pensano che sia un mostro, pensano che sia un
mostro».
Vederlo accucciato sul pavimento, con i capelli mezzi tagliati
e sconvolto dai singhiozzi, era a dir poco uno spettacolo
devastante. Era la seconda volta in pochi giorni che lo
vedevo così distrutto. Da anni i media deridevano e
criticavano il suo aspetto, ma Michael non reagiva mai così
violentemente a ciò che si diceva di lui. Dipendeva dalle
giornate. Qualche volta non gli importava nulla di quello che
pensava la gente. Era un uomo forte. Poi cerano giorni in cui
ne aveva abbastanza, e allora crollava. Il fatto che i suoi
presunti alleati stessero criticando il suo aspetto, e in un
momento così delicato della sua vita, per lui era troppo.
Sempre più spesso quest'uomo, che una volta
rappresentava per me una figura paterna, sembrava
diventare come un figlio. Questo non era il Michael Jackson
che esisteva per il resto del mondo. Questo non era l'icona
Michael Jackson. Era il Michael Jackson nel suo aspetto più
umano, più vulnerabile, sull'orlo del baratro. Da anni lo
costringevo ad affrontare le verità più dolorose, ma questa
volta non c'erano verità in gioco. Non si può oggettivamente
stabilire se l'aspetto di una persona è giusto o sbagliato.
Michael aveva ignorato per anni i titoli dei tabloid che
riguardavano il suo look, e ora il mio consiglio era
semplicemente di non ascoltare.
«Ne usciremo», dissi. «Hanno bisogno di te, tu non hai
bisogno di loro.»
Cancellai le riprese previste per quel giorno e informai tutti
che avremmo iniziato più riposati l'indomani. Michael e io
tornammo nelle nostre stanze e vi rimanemmo per il resto
della giornata. Prima di lasciare il set parlai con John
McClain e con il regista del video. Paul Hunter.
«John», dissi, «non posso credere che tu abbia detto quelle
cose a Michael. Porteremo a termine il progetto, ma non ci
devono più essere discorsi sul suo aspetto nel video. Se
questo è un problema, usciamo dal set una volta per tutte e
paghiamone le conseguenze.»
M’infuriavo sempre quando veniva criticato il suo aspetto o il
suo comportamento, o quando dicevano che era strano,
stravagante, o un mostro. Pensavo che la gente avrebbe
dovuto mettersi nei suoi panni, a cominciare dalla sua
infanzia difficile. Per quanto mi ha raccontato, e per quanto io
stesso ho visto e compreso, la sua vita sarebbe stata dura
per chiunque. Certo, aveva avuto un enorme successo, ma
proprio la sua fama lo metteva in una posizione di estrema
vulnerabilità. Le persone approfittavano di lui. Non poteva
fidarsi di nessuno. Il suo denaro e la sua celebrità erano tra Ì
motivi per cui la gente gli affibbiava così velocemente colpe e
difetti.
Intendiamoci: Michael ne aveva, ma ai miei occhi erano di
gran lunga più banali di tutte le stranezze che affascinavano
la gente. Nei momenti più difficili, essendo la persona che gli
era più vicina, diventavo il suo capro espiatorio. Raramente
perdeva le staffe in mia presenza, ma talvolta mi chiamava
nel bel mezzo della notte per questioni di poca importanza,
chiedendomi: «Frank,perché non è stata fatta quella
chiamata? Frank,perché non e stata ancora fatta?» Se ci
mettevo un attimo a svegliarmi e lui era partito a raffica con
la lista delle incombenze, mi incalzava: «Vedi? Te l'ho detto
che devi avere sempre penna e taccuino a portata di mano.
Karen è sempre pronta, tu no».
Quando arrivavano quelle chiamate sapevo che era sotto un
tremendo stress: era semplicemente travolto dagli eventi
della sua vita. Come dovevo reagire? Di solito cercavo di
mantenere la dignità. Quando pensavo che fossero cazzate
ero il primo a dirglielo, e lo stesso faceva lui con me. Per un
po' ha funzionato.
Avevo molte teorie per spiegare come mai le persone
sentissero il bisogno di criticare Michael, ma il vederlo
frainteso come spesso avveniva mi rendeva triste e
arrabbiato. I tradimenti e i giudizi crudeli lo colpivano
profondamente. La sua sofferenza era enorme e, pur
essendo responsabile di alcuni dei suoi problemi, molti erano
dovuti a circostanze al di fuori del suo controllo.
Era arrivato all'età adulta con dei pezzi mancanti, con deficit
di sviluppo, come vengono chiamati, ma aveva cercato di
compensarli per mezzo della casa che si era costruito, del
suo aspetto, della sua musica e dei suoi interessi. Che
cos'era Neverland se non un tentativo esagerato, addirittura
disperato, di trovare la felicità? La bellezza e la pace di quel
posto se le era sudate. Ogni aspetto del ranch era segno
evidente di quanto Michael cercasse di godere ciò che aveva
raggiunto.
La malattia della pelle, l'infanzia difficile e le accuse di
molestie erano state condizioni o circostanze contro le quali
aveva aspramente lottato per sopravvivere; anche le
operazioni di chirurgia plastica al naso, come molte sue
eccentricità, erano tentativi di esercitare una sorta di
controllo sul suo destino e sulla sua felicità. Quegli interventi
non lo avevano reso normale, e agli occhi di molte persone
non lo avevano reso nemmeno bello. Ma lo avevano fatto
diventare Michael.

Il mondo sottoponeva a giudizio ogni aspetto della sua vita:


tutti amavano la sua musica, ma consideravano pazzia, o
peggio, tutto il resto. Il trauma delle accuse del 1993
continuava a perseguitarlo e il fatto che la gente lo reputasse
un motestatore di bambini era devastante. La combinazione
di tutte queste forze (il danno fisico e psicologico dovuto alla
sua infanzia, la condanna pubblica del suo personaggio e del
suo aspetto, e soprattutto l'urgenza e il desiderio di comporre
musica straordinaria) era sicuramente eccessiva per una
sola persona; ma a causa della sua paranoia e della sua
natura particolare, si sentiva costretto ad affrontarla da solo.
Non meravigli quindi l'insonnia e la ricerca di un rifugio nella
"medicina" che gli concedeva alcune ore di Benedetto riposo.
Durante la serata di quel giorno abbiamo annullato le riprese
del video, Michael mi ha chiamato nella sua stanza. Ha
aperto una bottiglia di vino. Abbiamo trascorso tutta la notte
con la nostra solita routine: parlare, ascoltare musica e bere
vino. Si ricordò, il passato, il divertimento che avevamo
avuto, gli scherzi che noi avevamo giocato alle persone. E
abbiamo parlato anche del futuro, i nostri obiettivi immediati
e quello che volevamo ottenere.

Ci siamo seduti e abbiamo ascoltato le canzoni che aveva


registrato per Invincible. Dovevamo ancora decidere cosa
renderebbe l'album migliore. Quella notte, avrei voluto
ascoltare "You Rock My World", ma Michael ha detto, "per
favore, ci accingiamo ad ascoltare quella canzone tutto il
giorno domani, non ascoltarla ora."
Abbiamo ascoltato varie tracce quella notte, Michael ha
detto, "le persone non capiranno questo album per ora. È in
anticipo sui tempi. Ma credimi, Frank, dieci anni da adesso
capiranno e l'album continuerà a vivere per sempre. "

Nessuno di noi sospettava che dieci anni più tardi non


sarebbe stato presente per vedere se il suo pronostico si era
avverato. Ma all'atemporalità della sua musica, io ho sempre
creduto in tutti suoi album — Off the Wall, Thriller, Bad,
Dangerous, HiStory , Invincible — avrebbero vissuto per
sempre. Ci ho creduto allora, e ora ci credo ancora.
CAPITOLO DICIASSETTE - LO
SPETTACOLO CONTINUA

Dopo aver registrato il video di «You Rock My World» Michael


iniziò le prove dello speciale per il suo trentesimo anno di
carriera: due concerti al Madison Square Garden di Manhattan
per celebrare con diversi artisti i trent’anni nel mondo dello
spettacolo. Il destino volle che la seconda rappresentazione si
tenesse il giorno prima che i due aerei si abbattessero sul World
Trade Center. L'idea per lo speciale era nata l'anno precedente,
prima di trasferire la produzione di Invincible a New York,
durante un viaggio che facemmo con David Guest da Neverland
a San Francisco, diretti a una fiera di oggettistica da collezione.
Michael collezionava cimeli del mondo dello spettacolo e
della cultura popolare. Aveva le locandine dei film dei Tre
Marmittoni e di Shirley Tempie, un Oscar vinto da qualcuno
per Via col vento, un'enorme collezione di materiale Disney,
tra cui assegni firmati da Walt Disney, una prima edizione di
Spider-Man firmata da Stan Lee, antichi carretti Radio Flyer.
qualunque cosa avesse a che fare con Charlie Chaplin, la
Marvel, Guerre Stellari, Tutankhamon e molto altro. David
condivideva questa passione e la sua collezione non era da
meno.
In quel periodo Michael e io ci stavamo prendendo a
Neverland una pausa dall'album, e organizzammo una gita
alla fiera di cimeli iterante quando sarebbe passata da San
Francisco. David si unì a noi, e sapevamo che con la sua
presenza ci sarebbe stato da divertirsi. Inoltre decidemmo di
viaggiare in pullman, solo noi tre con l'autista, senza guardie
del corpo. Avevamo vino, cibo, riviste, libri e film; cantammo,
ricordammo il nostro viaggio in Scozia, giocammo a «Trova
la canzone» e cose del genere. I passatempi non ci
mancarono.
A San Francisco avevamo prenotato al Four Seasons a
nome mio, ma ci facemmo chiamare signor Potter (io), signor
Armstrong (David) e signor Donald Duck (Michael).
Il giorno seguente mascherammo Michael da indiana:
indosso un sari, mise un turbante e con il rossetto gli
facemmo un hindi in mezzo alla fronte. Devo dire che fu un
lavoro impressionante: era irriconoscibile. Andammo alla
fiera. Al microfono c'era un tizio che elencava le esposizioni
nei diversi reparti. Quando fece una comunicazione per
trovare il proprietario di un portafogli smarrito mi venne
un'idea: «Michael, facciamo uno scherzo a David». Era
tempo di farne uno.
Michael prendeva sempre in giro David perché, malgrado
stesse perdendo i capelli, era molto preciso e li teneva
pettinati con cura. Gli diceva: «David, il capello numero
quarantatre è fuori posto. Te Io sistemo io». David non lo
sopportava, ma sapeva che lo facevamo con affetto. Così
raggiungemmo l'annunciatore e gli chiedemmo di fare la
seguente comunicazione: «Il signor David Guest ha perso il
capello numero cinquantaquattro nel reparto tre. Il signor
David Guest ha perso il capello cinquantaquattro nel reparto
tre». L'annunciatore rifiutò, ma mi lasciò usare il microfono.
Michael era piegato in due dalle risate e David era furibondo,
ma fu molto divertente.
Il giorno dopo andammo a pranzo a casa di Shirley Tempie.
David la conosceva e, sapendo che Michael era un suo
grande fans,combinò l'incontro. Pranzammo assieme. Ora
bello vedere Michael e la signora Tempie parlare della loro
esperienza di bambini prodigio e di come l'avevano vissuta.
Michael si sentiva sempre molto in sintonia con chi aveva
conosciuto la fama da piccolo, ed era per questo motivo che
era così attaccato a Macaulay Culkin.
Prima della nostra partenza Shirley regalò a Michael una sua
foto di quando era bambina. Da allora, Michael la portò
sempre con sé.
Fu tornando a Neverland che ci venne l'idea di uno speciale
per il trentesimo anniversario. Eravamo seduti in fondo al
pullman a bere vino quando David, l'eterno collezionista,
chiese a Michael di scrivere le parole di una canzone su un
foglio di carta e di autografarle per lui.
La richiesta risvegliò lo spirito mercantile che c'era in
Michael: non avrebbe scritto e autografalo niente se David
non gli avesse ceduto in cambio qualcuno dei suoi cimeli
appena acquistati. Portarono avanti le trattative per un bel
po', e alla fine Michael ottenne un certo numero di oggetti.
Sembrava dunque che nello scambio avesse avuto la
meglio, ma David quel giorno portò a casa i testi autografati
di Billie Jean e Thriller, che oggi hanno un discreto valore.
Allora non capivo perché volesse dei testi manoscritti, ma
David era molto astuto... furbo come una volpe.
Durante il viaggio parlava di organizzare un evento speciale
in cui varie star si sarebbero riunite per una cena o una
serata di beneficenza in onore di Michael, lo mi intromisi:
«No, aspetta, facciamogli un tributo show in cui altri artisti
eseguono le sue canzoni». Michael aveva iniziato la sua
carriera come solista nel 1971 quando, a tredici anni, aveva
lasciato i Jackson Five. Mancava un anno: nel 2001 ci
sarebbe stato il trentesimo anniversario dal suo ingresso nel
mondo dello spettacolo.
A David l'idea piacque, e quando prende una decisione
riesce a essere molto convincente.
«Michael, facciamolo. Ti monteremo uno spettacolo
omaggio. Sarà lo show più grande che si sia mai visto.»
Ormai era partito, e non si sarebbe più fermato.
Nel frattempo l'autista, non si sa per quale motivo, aveva
deciso di prendere una strada panoramica: la Statale 1, a
due corsie. Dio solo sa perché: era fin troppo evidente che
quel pullman non era fatto per viaggiare su strade strette e
tortuose, sul bordo di precipizi che finivano dritti nell'Oceano
Pacifico. Noi, lì dietro, eravamo convinti di morire. A un certo
punto il pullman fece una curva e, guardando dal finestrino di
destra, sussultammo: non c'era più il bordo strada. Si vedeva
solo l'oceano, lontano sotto di noi... Il bordo della strada era
sparito! David imprecò contro l'autista, gli disse che era un
incompetente e che lui, David Guest, avrebbe assunto il
controllo del mezzo. Tra me e me pensai: Per quanto
incapace sia l'autista, lo preferisco di gran lunga a David.
Con il dovuto rispetto, non mi ci becchi in macchina con
David Guest alla guida, neanche per tutto l'oro del mondo.
Stava scendendo la sera e la Statale I somigliava sempre di
più a una giostra di Disneyland e sempre meno a una strada
pubblica. Nell'affrontare una curva particolarmente stretta
incrociammo una macchina che veniva in direzione opposta:
non riuscimmo a fare manovra e bloccammo tutto il traffico.
David continuava a inveire e aveva anche cominciato a
sudare copiosamente. Michael invece, seduto in fondo al
pullman, rideva.
Forse fu perché avevamo visto la morte in faccia, ma alla
fine del viaggio David e io eravamo convinti dell'idea di
allestire uno Special per il Trentesimo, e avevamo persuaso
anche Michael. Non era stato poi tanto difficile, visto che lo
avevamo tenuto sotto torchio per ben sei ore. Discutevamo
su quali cantanti avremmo potuto invitare. All'inizio Michael
esitò quando suggerimmo una riunione con i Jackson Five.
Malgrado l'amore per i suoi parenti, voleva mantenere una
certa distanza.
Quando la mia famiglia iniziò a frequentare Michael, qualche
volta ci era capitato di incontrare Janet e La Toya: se si
trovavano in zona a New York, venivano a cena nel nostro
ristorante; quando Janet si esibiva noi andavamo a vederla, e
dopo la raggiungevamo nei camerini con del pane al formaggio
del ristorante, che a lei piaceva tanto. A Neverland ero cresciuto
con i figli di Jermaine, Jeremy e Jordan, quelli di Tito (i 3T) e il
figlio di Rebbie, Austin, soprannominato Auggic: ho sempre
avuto maggiori rapporti con la giovane generazione dei Jackson
che con i fratelli di Michael.
Quando cominciai a lavorare per lui, un giorno gli chiesi se
parlasse mai con Janet.
«Sì», mi rispose. «Possiamo stare mesi senza parlarci, ma ci
siamo sempre l'uno per l'altra.»
E questa era l'idea che mi ero fatto con il passare del tempo:
che non avesse un rapporto costante con la sua famiglia ma
che li amasse, soprattutto la madre Katherine, che era il suo
mito. Il rapporto con il padre era sempre stato più complicato.
La severità con cui Joe costrinse i figli a esibirsi aveva
lasciato dei segni in Michael, che tuttavia gli era riconoscente
per tutto ciò che gli aveva insegnato.
Aveva sempre mostrato rispetto anche nei confronti del
talento di Randy: sapeva suonare qualsiasi strumento, e
quando parlava delle sue abilità musicali Michael lo teneva in
palmo di mano. Diceva: «Randy può fare quello che vuole,
può lavorare con chiunque», il che, detto da lui, era un
grosso complimento. Non aveva niente contro Jackie,
Marlon, Janet, Tito e Rebbie. mentre i rapporti con La Toya e
con Jermaine erano più complessi. Era stato molto vicino a
La Toya, ma dopo il suo tradimento nel periodo delle accuse
del 1993 ne prese le distanze.
La situazione con Jermaine era simile. In alcune occasioni,
secondo Michael, suo fratello aveva stipulalo contratti
coinvolgendolo per delle apparizioni senza consultarlo prima.
Tuttavia, indipendentemente da ciò che era successo
davvero, Michael sentiva che, per quanto gli volesse bene,
era meglio starne alla larga. Jermaine, in un momento di
rabbia, aveva cantato la canzone «Word to the Badd», un
attacco all'aspetto «ricostruito» di Michael e al fatto che
pensasse solo a essere il «numero uno». Dopo questo,
Michael non volle più avere niente a che fare con lui.
Comunque, David e io pensavamo che per lo Special
avremmo dovuto includere tutta la famiglia.
«Michael», dissi, «parli sempre di fare la storia. Questo sarà
un momento storico. Fallo per tua madre. Sarà un enorme
piacere per lei vedervi ancora una volta tutti riuniti sul
palcoscenico.»
«No», replicò. «Non mi riunirò ai miei fratelli. Jermaine
sarebbe una seccatura.»
David conosceva molto bene la famiglia. «Non ti
preoccupare, non te ne devi occupare tu. Lascia che ci pensi
io.» Quando giungemmo a Neverland, Michael era
entusiasta e non vedeva l'ora di cominciare.
Così, con la sua benedizione, David e io lavorammo sodo
per trasformare l'idea in realtà.
Da allora (fine estate del 2000), mentre aiutavo Michael ad
affrontare le difficoltà di Invincible, lavorai costantemente con
David allo spettacolo, contattando gli artisti, organizzando i
contratti e infine portando a termine le trattative per i diritti
televisivi per uno speciale di due ore sulla CBS. I due
concerti si sarebbero tenuti il 7 e il 10 settembre 2001 e
sarebbero stati trasmessi di lì a poco.
David è una persona spassosa, e lavorare con lui fu una
pacchia. Mi insegnò molte cose e Michael, anche se
impazziva a stargli dietro. Lo rispettava e gli voleva molto
bene.
David era estremamente superstizioso dello show, e per
quanto io e Michael siamo stati interessati, questo era un
attributo eccellente: e lui era un bersaglio facile per i nostri
scherzi infantili. Mi piaceva dire: "David, ho un brutto
presentimento per lo spettacolo. Ha qualcosa a che fare con
le luci, non funzionano. Non sono sicuro che questa
sensazione può svanire, ma per essere sicuri bisogna
attraversare la strada e toccare quel segno rosso cinque
volte. Povero David era talmente in preda alle sue paure
ossessive che effettivamente rispetto le mie istruzioni, e
corse dall'altra parte della strada per toccare il segno rosso
per cinque volte, mentre Michael e io scoppiavamo a ridere.
Una volta che noi avevamo escogitato questa particolare
forma di tortura innocua, Michael e io non potevamo lasciarlo
stare. Una notte, dopo cena in una zona privata, al piano
terra di un ristorante di Londra, eravamo a metà strada su
per le scale quando Michael ha annunciato improvvisamente,
"David. David, c’è qualcosa di sbagliato. Lo spettacolo,
David. Vai al piano di sotto a toccare l'immagine tre volte con
il mignolo. Se lo fai, lo spettacolo sarà salvato."

David gemette, "ragazzi dovete smetterla! Questo non è


giusto!" Ci ha rimproverato per tutta la strada andando avanti
e indietro giù per le scale, ha continuato il suo rimprovero
mentre toccava la foto con il suo mignolo tre volte .
Nell'estate del 2001, i preparativi per lo spettacolo sono stati
portati oltre il limite, e ho dovuto destreggiarmi tra questi
doveri con tutto ciò che stavo facendo per Michael. Era
un'enorme mole di lavoro, ma è stato gratificante su ogni
punto di vista. Lavorare sul concerto era un punto di svolta
per me. Ora il mio lavoro non era solo sorvegliare gli affari
personali di Michael. Ero responsabile per preparare un
grande concerto. Non male.
Per quanto riguardava la situazione medica di Michael ero
preoccupato, ma non avrei immaginato che avrebbe potuto
interferire con la sua performance presso lo speciale 30 °.
Egli era, dopo tutto, un professionista consumato, e se non
altro, ha usato le medicine per aiutarsi a prepararsi per
un'apparizione. Ma mentre la notte del primo concerto si
avvicinava, Michael ha iniziato a vedere un nuovo medico.
Anche se la sua salute era migliorata sotto la cura del dottor
Parshchian che era riuscito con successo a rallentare il
consumo progressivo dei medicinali, ma venne il giorno in
cui il buon dottore dovette tornare dalla sua famiglia, in
Florida; non poteva continuare a fare da babysitter a
Michael, e neanche io. Il medico che lo sostituì, che risiedeva
a New York, era un uomo affabile con una bella famiglia.
Purtroppo, malgrado i progressi fatti con il dottor Parshchian,
Michael chiese di riavere i suoi vecchi farmaci. Non aveva
mai mostrato nessuna forma di paura da palcoscenico, ma la
mia unica teoria per spiegare il suo comportamento è che
dovesse essere particolarmente inquieto per gli spettacoli
imminenti. Il nuovo medico, ingenuamente, soddisfece le sue
richieste.
Cercai di parlarne con Michael, ma mi resi subito conto che
non mi stava ad ascoltare e che avevo bisogno di aiuto. La
sua famiglia sarebbe arrivata in città per partecipare allo
Special. Speravo che, grazie al legame che li univa (non
importa quanto tempo o spazio li separasse), loro potessero
intervenire in qualche modo. Di chi altri potevo fidarmi? Se
Michael avesse saputo che ne facevo parola con qualcuno,
fosse anche la sua famiglia, mi avrebbe ucciso. Non voleva
che i suoi parenti fossero al corrente dei suoi affari,
soprattutto quando si trattava di faccende che voleva
assolutamente tenere segrete.
Tuttavia, ero convinto che in quel caso fosse la mossa giusta
da fare, e ne parlai con Tito e Janet. Con Tito passeggiai
intorno al Four Seosons a lungo. Ne discussi in privato
anche con Randy, mentre non dissi nulla alla madre: sapevo
della grande influenza che aveva su Michael, ma mi
sembrava sbaglialo coinvolgere e far preoccupare tanto per il
suo amato figlio una donna che aveva ormai una certa età.
La famiglia mi prese molto sul serio, e un paio di giorni prima
dello spettacolo incontrarono Michael per discutere della
questione, ma ovviamente lui dichiarò che non c'era motivo
alcuno di preoccuparsi. A malapena aveva preso coscienza
di avere un problema. Loro volevano aiutarlo e cercarono di
farlo ma, come temevo, Michael non consentì loro di entrare
nella sua vita, neanche per un istante.
Evitò le discussioni. Dopo l'incontro, tutto quello che disse al
riguardo fu: «La mia famiglia mi ha fatto un discorso sui miei
farmaci. Era completamente fuori luogo».
Dal modo con il quale liquidò l'episodio compresi che non
erano riusciti a smuoverlo più di quanto avessi fatto io. Sono
certo che insistettero: io e Janet ne parlammo diverse volte
dopo lo Special, ma Michael li respinse sempre.
Ero preoccupato per lui, ma non per lo spettacolo. Michael
era uno showman, quando si esibiva era come se premesse
un pulsante nella testa per trasformarsi in un'altra persona.
Sapevo che la storia dei farmaci, qualunque fosse, non
avrebbe interferito con le responsabilità che sentiva nei
confronti del suo pubblico.

La mattina del 7 settembre mi svegliai presto, eccitatissimo.


Quella sera ci sarebbe stato il primo spettacolo. Avevamo
lavorato tanto per arrivare a quel punto e io mi sentivo come
un padre in attesa del primo figlio. Tuttavia, prima del
concerto c'era ancora molto da fare, e non potevo
permettermi di fermarmi a riposare sugli allori.
Karen Smith, la mia cara amica telefonica nonché collega,
era in città per dare una mano con lo spettacolo. Non l'avevo
mai vista prima a un concerto; per quanto ne sapevo, era la
sua prima volta, ed ero felice per lei. Negli ultimi due anni ci
eravamo telefonati anche venti volte al giorno, ma di persona
l'avevo incontrata solo una volta, quando avevo circa tredici
anni. Non avevo idea di come fosse ora.
Quella mattina venne fuori che dovevo portarle qualcosa, e
così andai all'albergo e bussai alla porta della sua camera.
Quando la porta si aprì, quella voce incorporea si trasformò
finalmente in un essere umano! Sarà stata alta un metro e
ottanta, di carnagione chiara, capelli bruni e occhiali; mi dette
l'impressione di una donna rigida, che ha frequentato il
college e che ha sempre svolto tutti i suoi compiti
diligentemente, abituata a seguire le regole. Prendevo
sempre in giro Michael sul fatto che fosse segretamente
innamorato di lei, che aveva un atteggiamento così adorabile
al telefono... In realtà era una bella donna, ma non era la
biondona sexy che mi ero immaginato.
Comunque sia, ci scambiammo un lungo abbraccio. Lei e io
eravamo in trincea insieme, anche se via telefono. Karen
rappresentava le fondamenta della vita di Michael: gli si era
dedicata anima e corpo.
Nella lista delle incombenze prima del concerto c'era anche
una visita agli uffici della Bank of America. Il gioielliere David
Orgell prestava a Michael un orologio di diamanti, da
indossare durante lo spettacolo, del valore di circa due
milioni di dollari. Un agente armato mi scortò fino alla banca,
dove mi fecero firmare una pila di fogli in cui mi impegnavo
solennemente a restituire l'orologio pena il rischio di essere
giustiziato da un plotone d'esecuzione, o qualcosa del
genere. Avrei dovuto riportare il gioiello in banca, che aveva
sede nelle Torri Gemelle, come prima cosa la mattina dopo il
secondo spettacolo: 1'11 settembre.
E non c'era solo l'orologio. Michael aveva invitato Elizabeth
Taylor a partecipare allo Special, ma lei aveva rifiutato, e ora
era intenzionato a farle cambiare idea.
«So esattamente come convincerla a venire», disse. Non
aveva mai dovuto comprare la sua amicizia o il suo
appoggio, ma quando lei non era in vena Michael aveva un
piccolo asso nella manica, niente di trascendentale.
Servivano solo... provate a indovinare... diamanti. Quando
Michael voleva che Elizabeth andasse con lui a una
premiazione, o in questo caso allo Special del Trentesimo, lei
accettava, a patto di ricevere un diamante.
Un paio di settimane prima eravamo andati da David Orgell a
Los Angeles e Michael aveva scelto un bellissimo collier di
diamanti, costato più di 200.000 dollari. Dato che Michael era
un ottimo cliente, poté prendere il girocollo e l'orologio senza
obbligo di acquisto. Se avesse voluto tenere gli oggetti
avrebbe pagato in seguito, sennò li avrebbe semplicemente
restituiti. Spedimmo il collier a Elizabeth e la sua risposta
cambiò in un lampo.
«Il girocollo è assolutamente adorabile. Michael. E
ovviamente verrò al tuo spettacolo.»
Sapevano tutti quanto le piacessero i gioielli.
Così, tornalo in albergo, riposi con cura l'orologio di diamanti
nella mia piccola cassaforte e decisi di schiacciare un sonnellino
prima dello show. Avevo appena chiuso gli occhi quando ricevetti
una telefonata da Henry, il capo della sicurezza.
«Karen deve entrare in camera di Michael per truccarlo»,
avvertì, «ma non risponde né alla porta ne al telefono.»
Non era una novità. «Non preoccuparti», dissi, «ho le
chiavi.» Mi precipitai alla suite di Michael, dove scoprii che la
camera era chiusa con il chiavistello. Non era molto robusto,
così lo ruppi e spalancai a porta. Michael era lì, sdraiato a
letto che dormiva. Andai a svegliarlo.
«Michael! Lo sai che ore sono? Il trucco doveva essere
pronto un'ora fa. Devi prepararti! Che e successo?» Lui si
rigirò gemendo. In un istante l'ingenua convinzione che
Michael non avrebbe permesso ai farmaci di interferire con lo
spettacolo mi si sbriciolò davanti agli occhi. Non posso
descrivere la delusione e il panico che si impossessarono di
me in quel momento.
Scuotendolo gli chiesi: «Il dottore era qui. vero?» ma
conoscevo già la risposta.
Parlando molto lentamente, rispose: «Sì, Frank. Provavo
tanto dolore. Non ce la facevo. Avevo tanto dolore».
«Lo hai fatto per far saltare lo spettacolo», sbottai con rabbia.
«Era una scusa.» Michael non disse niente, ma dal suo
sguardo compresi che sapeva che avevo ragione, e che mi
aveva deluso.

«La schiena mi faceva male da morire, e devo fare lo


spettacolo», disse. «Sto bene.»
Eravamo davvero in ritardo. David Guest ci stava
tempestando di chiamate. Gli dissi che la sveglia di Michael
non aveva funzionato e che lui aveva continuato a dormire.
Non era mai successo. Michael non aveva mai preso
medicinali prima di un concerto. Non aveva mai permesso
che cose del genere influissero sul suo lavoro. Era il segno
che la sua dipendenza non solo era tornata, ma si era anche
aggravata, e questo ora lo spingeva a sconvolgere le sue
priorità.
Dovevo rimetterlo in sesto in qualche modo, così ordinai litri
di Gatorade e integratori di vitamina C. A poco a poco
sembrò tornare alla normalità, e lo portai da Karen per
sistemare capelli e trucco. Rimasi con lui mentre si
preparava: finalmente potevo rilassarmi e scherzare un po'
con Karen. A causa del ritardo lo Special sarebbe iniziato
un'ora dopo, ma nessuno si lamentò. Così va il mondo dello
spettacolo.
Prima di lasciare l'albergo c'era però un altro grattacapo da
risolvere, rappresentato da Britney Spears. Doveva cantare
«The Way You Make Me Feel» con Michael, ma era
terrorizzata all'idea di esibirsi accanto a lui.

Non era la prima volta che vedevo un professionista


consumato andare in crisi in presenza del Re del Pop. Alcuni
si comportavano persino come fans esagitati. Cindy
Crawford era così ansiosa di avvicinarsi a Michael che urtò la
gente intorno e scavalcò delle sedie per raggiungerlo. Justin
Timberlake, e persino Mike Tyson, di fronte a lui diventavano
timidi. Michael, che peraltro si era appena preso una cotta
per Britney, comprendeva la sua agitazione. Nel nostro
mondo possono capitare spiacevoli inconvenienti, come la
paura da palcoscenico. Non era certo una novità.
Raggiungemmo il Madison Square Garden con due
macchine, Michael ed Elizabeth Taylor nella prima, io e
Valerie dietro di loro. Ero orgoglioso di mostrare Valerie.
Quando siamo entrati in giardino, Michael era di buon umore.
Marlon Brando ha dato il via allo show con un discorso
sull'umanitarismo. Era un inizio traballante, non perché
qualcosa è andato storto con il discorso, ma perché la folla
era semplicemente troppo su di giri. Non hanno avuto la
pazienza di ascoltare un discorso, anche se a farlo era
un’artista del calibro di Brando e hanno fischiato l'attore.
Michael, che era seduto davanti a me in pubblico, ha provato
a calmare i fans nelle sue immediate vicinanze, ma era uno
sforzo inutile.
"Perché tu e David lo avete messo all’inizio?", mi sussurrò.
"La gente vuole sentire la musica". Non c'era nulla che
potessimo fare, tranne aspettare. Presto Samuel L. Jackson
ha dato il via allo spettacolo con l'introduzione di Usher,
Whitney Houston, e Mya, che hanno cantato "Wanna Be
Startin 'Something." Il resto della prima ora incluse Liza
Minnelli, Beyoncé come parte di Destiny Child, James
Ingram con Gloria Estefans e Marc Anthony.
Ad un certo punto durante la prima parte dello spettacolo,
siamo andati tutti dietro le quinte in modo che Michael
potesse essere pronto ad apparire con i suoi fratelli nella
seconda parte. Michael non era minimamente nervoso, e
non c'erano tracce di effetti del medicinale. Come al solito, ci
siamo ritrovati in un cerchio e ha detto una piccola preghiera
prima di uscire sul palco. La preghiera era praticamente la
stessa ogni volta: "Dio benedica tutti su quel palco, e ci dia
l'energia per mettere su il miglior spettacolo."
Michael e i suoi fratelli si riunirono per la prima volta dopo
diciassette anni, a cantare un medley delle loro canzoni di
successo. Poi ci fu una breve pausa prima di Chris Tucker
introdusse Michael per cantare "Billie Jean".
Fino a quel momento, ero stato nel backstage tutta la notte,
ma poiché la prestazione di Michael di "Billie Jean" era stata
la mia preferita, sono tornato al mio posto tra il pubblico.
Quella notte, più che mai, sono stato impressionato dal
virtuosismo di Michael. Era straordinario come riusciva ad
essere naturale, e l'energia che era in grado di creare, era
assolutamente incredibile. Riusciva a fare di ogni singola
nota una mossa speciale, era magico anche solo
camminando. Nel corso degli anni, e nonostante tutta
l'angoscia mentale e fisica di cui ha sofferto, il suo talento
non erano sbiadito per nulla. Questo era il cuore per cui
siamo stati qui, per cui abbiamo festeggiato: l’enorme talento
di Michael e i suoi anni di completa dedizione alla sua arte.
L'ho guardato, come rapito, come mi era successo durante il
tour Dangerous. Tanto era cambiato, ma in questo momento,
in questo momento incredibile, tutto era improvvisamente
straordinariamente familiare.
Il secondo spettacolo è stato programmato per tre giorni
dopo, la notte del 10 settembre. Il primo spettacolo era
andato bene, ma durante il secondo spettacolo tutti i soggetti
coinvolti era più preparati, più sicuri, e più rilassati,
soprattutto Michael. Non ci sono stati problemi. Anche così,
non posso dire che sono stato in grado di sedermi e appena
assaporare il momento. Ero troppo coinvolto nei dettagli per
questo.
Quando lo spettacolo era finito, io, la mia famiglia e quella di
Michael siamo andati fino alla sua stanza d'albergo. Sua
madre, Katherine, e la sorella maggiore, Rebbie, erano lì.
Eravamo tutti eccitati. Ho potuto vedere che i miei genitori
erano orgogliosi di me. Era probabilmente lo stesso tipo di
orgoglio che avrebbe avuto se avessi dato un recital di
pianoforte all'età di dieci anni. Questa è una delle cose che
amo di più dei miei genitori. Sono orgogliosi dei loro figli per
chi siamo e come lavoriamo duramente. Il resto è
secondario. Michael stava scherzando, ridendo, chiaramente
felice per l’esibizione. Davanti a tutti ha annunciato: "Non
avete idea di quanto sono orgoglioso di Frank. Ha davvero
lavorato molto duramente in questo show. " Poi si rivolse a
me e disse: "Ottimo lavoro. Sei stato grande, Frank. " Questo
ha significato molto per me. Anche se sono rimasto deluso di
non aver avuto un credito ufficiale di produzione, ma mi
faceva sentir bene avere l’apprezzamento di Michael nel
riconoscere il mio contributo enorme per gli spettacoli e il mio
ruolo .
Ho deciso di godermi il resto della notte a modo mio. Così
Valerie ed io, abbiamo incontrato alcuni amici tedeschi.
Siamo andati in un bistrot francese proprio in fondo alla
strada. A Valerie piaceva il poitletfrit che cucinavano
Arrivammo lì che era l'una e mezza di notte. Eravamo solo
quattro, ma facemmo fuori qualcosa come sei o sette
bottiglie di vino. Fu una notte fantastica in una città che stava
per cambiare per sempre.
La mattina dopo avevo puntato la sveglia alle sette e
quarantacinque perché dovevo restituire l'orologio da due
milioni alla Bank of America, ma continuai a dormire e mi
svegliai solo al suono del telefono. Era Henry, la guardia del
corpo di Michael. Esordì: «Buongiorno signore, volevo solo
informarla che degli aerei hanno colpito le Twin Towers».
La sera prima avevamo scherzato tutti su come sarei riuscito
a scappare con l'orologio. Ancora annebbiato non capii bene
cosa mi stava dicendo Henry, e pensai che avesse a che
fare con il prezioso oggetto.
«Merda», imprecai, «chiedo scusa. Ho dimenticato di
riportare l'orologio. Ci vado subito.» Mi precipitai giù dal letto:
ero in ritardo! Dovevo andare al World Trade Center, alla
Bank of America.
«No, signore», replicò Henry, «credo che non abbia capito
bene. Dobbiamo andare via di qui. Ha un'idea di dove
potremmo andare?» Sentii il panico nella sua voce e accesi
la TV.
Valerie era accanto a me, e continuava a chiedermi: «Che
succede? Che sta succedendo?»
In pochi secondi raccogliemmo le nostre cose e incontrammo
Michael, Paris. Prince, Grace e i miei fratelli Eddie, Dominic
e Aldo alla macchina. Proposi di andare a casa dei miei
genitori, ma ci rendemmo conto che i ponti per il New Jersey
erano chiusi.
Per fortuna uno dei membri della sicurezza era un capo della
polizia in pensione. Chiamò qualcuno in centrale e ci fece
avere un permesso per uscire da New York. Attraversando il
George Washington Bridge guardammo verso la città e
vedemmo salire del fumo: la prima torre era crollata.

«Accidenti», commentò Michael scuotendo la testa.


Cominciò a dire qualcosa, poi guardò gli occhi grandi e
innocenti di Prince e si interruppe. Ma so cosa gli passava
per la testa, perché appena arrivati nel New Jersey cominciò
a parlare di come avrebbe potuto usare la canzone «What
More Can I’ Give» per raccogliere fondi per i sopravvissuti e
le famiglie delle vittime del disastro.

Era stato un giorno tanto tranquillo. Il megaconcerto era stato


uno spettacolo strepitoso. E il giorno dopo l'intero Paese era
cambiato. In un istante, tutto il mio lavoro con Michael
Jackson era diventato qualcosa di insignificante e superfluo.

CAPITOLO DICIOTTO - INTERLUDIO


La risposta di Michael all' 11 settembre fu rapida e
generosa. Organizzò a Washington il concerto di
beneficenza United We Stand: What More Con I Give con la
partecipazione di Beyoncé, Mariah Carey, Al Green, Justin
Timberlake, le Destiny's Child. Reba McCntire e altri
ventisette cantanti famosi. Ebbe luogo il 21 ottobre, appena
cinque settimane dopo l'attacco. Il progetto era di lanciare la
canzone «What More Can I Give» come singolo a sostegno
delle vittime dell’ 11 settembre, ma Tommy Mottola temeva
che questa mossa avrebbe fatto concorrenza a Invincible.
Ciononostante, subito dopo il concerto Michael ingaggiò
Marc Schaffel, un produttore di grande esperienza, per
preparare un video. Sapeva che non sarebbe stato legato
alla Sony per sempre.
Invincible uscì il 30 ottobre. A dispetto delle critiche più
disparate Entertainment Weekly lo presentò più o meno
come «un'antologia dei suoi grandi successi minori» e del
fatto che venisse lancialo a ridosso di una spaventosa
tragedia nazionale, l'album debuttò al numero uno della
classifica Billboard 200. Nei primi tre mesi, con due milioni
di copie vendute, ottenne un doppio disco di platino. «You
Rock My World» raggiunse il decimo posto nella classifica
Billboard Top 100 e fu il singolo più allo in classifica dopo
«You Are Not Alone», che era stato al primo posto nel 1995.
Michael non leggeva le critiche, ma compravamo sempre
Variety perseguire l'andamento dell'album. Thriller aveva
venduto ventinove milioni di copie nei primi nove mesi
dall'uscita, Invincìble era un album che qualunque artista
avrebbe considerato un grande successo, ma agli occhi di
Michael i numeri erano deludenti. L'album era finito e lo
Special del Trentesimo era passato, ma non ci aspettava
nessuna quiete dopo la tempesta, poiché i problemi legali e
finanziari che avevamo tenuto a bada fino ad allora si
ripresentarono con forza inaudita.
Per prima cosa, improvvisamente si interruppe il rapporto di
Michael con il rabbino Boteach e Heal the Kids. Qualunque cosa
sia avvenuta, non ho mai dubitato delle nobili intenzioni del
rabbino. Credo che la rottura fosse in parte dovuta ai consulenti
di Michael, che non avevano mai visto di buon occhio la
fondazione; Michael era stato accusato di molestie su minori e
quindi, indipendentemente da quanto lui tenesse al progetto, loro
non volevano che fosse coinvolto in iniziative che riguardavano i
bambini. Rimasi molto deluso.
Ma Heal the Kids era solo la punta dell'iceberg. I problemi legali
di Michael stavano crescendo di numero e di intensità. La causa
di Marcel Avram per la cancellazione dei concerti del millennio
pendeva ancora sulle nostre teste. Inoltre, ora c'era la questione
dei gioielli prestati da David Orgell per lo Special del Trentesimo.
Dopo l' 11 settembre avevo mandato l'orologio da due milioni di
dollari a Los Angeles con Michael: avrebbe dovuto restituirlo al
gioielliere, ma non lo fece. E non fu pagato nemmeno il girocollo
di diamanti che aveva preso per Elizabeth Taylor.
Con il risultato che Orgell minacciava un'azione legale. Michael
decise di restituire tutto, ma ovviamente Elizabeth aveva tenuto
la collana, che aveva ritenuto un regalo. Uno degli avvocati di
Michael telefonò allo staff dell'attrice chiedendone la restituzione.
Elizabeth non gradì affatto, e non solo perché il collier le piaceva
moltissimo, ma fu anche infastidita dal fatto che Michael non
l'avesse chiamata di persona. Alla fine restituì la collana, ma non
si parlarono per circa un anno. Lui le spedì una lettera
chiedendole scusa, e successivamente addossò la colpa ai suoi
consulenti finanziari, asserendo di non sapere come avessero
gestito l'intera faccenda. Elizabeth lo perdonò.
Erano tutte questioni spinose, ma all'orizzonte si profilavano
problemi personali ancora più minacciosi.
Debbie Rowc aveva divorziato da Michael nel 1999. ma
all'improvviso era tornata in scena reclamando il diritto di vedere i
figli, cosa alla quale aveva espressamente rinunciato fin
dall'inizio. Quando Michael ricevette dal suo avvocato la
telefonata che lo informava dell'azione legale di Debbie per la
custodia dei bambini diventò livido dalla rabbia. La insultò con i
peggiori epiteti del mondo, e non appena riuscì a calmarsi
scoppiò in lacrime.
«Vedi, Frank?» disse. «Non ti puoi fidare di nessuno. Era mia
amica. Confidavo in lei al punto che le ho fatto partorire i miei
figli. E ora guarda cosa sta cercando di l'anni.»
«Debbie sa che sei il miglior padre del mondo», gli risposi.
«Dev'esserci lo zampino dei suoi avvocati per averla fatta agire
in questo modo.» In seguito, scoprii che avevo quasi colpito nel
segno. La verità era che l'accordo di divorzio prevedeva che
Debbie ricevesse gli alimenti, ma quando questi non furono
pagati a causa dei problemi economici di Michael, i suoi legali
decisero di andarci giù pesante. Puntarono a ciò che era più
importante nella vita di Michael: i bambini.
«Vuole portarmi via i figli», si lamentava. «Non li avrà mai, giuro!
Nessuno mi toglierà i bambini!» Pagato il debito, il problema si
risolse, ma Debbie era offesa perché Michael non aveva
mantenuto la promessa di pagarle gli alimenti, mentre Michael
era offeso perché i legali di Debbie avevano esagerato. Ha fatto
uno sforzo serio e i loro rapporti divennero molto tesi. Erano
brutte storie, ma perlomeno non riguardavano il mio rapporto con
Michael. Ci fu invece un'altra faccenda che questa volta mi vide
coinvolto. Da quando li avevo ingaggiati per visionare e
ristrutturare l'organizzazione di Michael, Court e Derek non
avevano fatto altro che il loro dovere. Insieme avevamo dato il
via a drastici cambiamenti nella gestione delle varie attività
aiutando Michael a tagliare le spese e a guadagnare di più. Tra
chiusure di uffici, di conti bancari e revisione del personale in
tutto il Paese, eravamo riusciti a sbarazzarci di un sacco di spese
superflue. C'erano anche diversi contratti appena stipulati che
non si erano dimostrati di grande interesse finanziario per
Michael e che noi avevamo rinegoziato o estinto.
Eravamo soddisfatti di quello che avevamo compiuto fino a
quel momento e molto lavoro rimaneva da fare, ma
l'organizzazione di Michael era enorme e piena di potenti
personaggi che si sentivano minacciati, e persino accusati di
irregolarità, da me, Court e Derek, tre giovani venuti dal
niente che apparentemente avevano il potere di rompere le
uova nel paniere. Alcuni di loro si allearono per costringere
Michael a far fuori Court e Derek e riprendere il potere. Ci
furono lettere minatorie da avvocati e persino intimidazioni
fisiche anonime contro i miei due collaboratori.
In conclusione, prima dello Special i legali di Michael
indissero una riunione al Four Seasons a New York. Gli
dissero che stava facendo un grave errore a mettere nelle
nostre mani il controllo della Finn. Court e Derek non erano
presenti per difendersi, e alla fine Michael cedette alla
pressione e si convinse che non eravamo le persone giuste
per condurre quel tipo di lavoro.
«Continua a fare quello che stai facendo», mi disse Michael.
«E tutto sotto controllo. Non devi immischiarti nelle mie
questioni finanziarie. Restiamo creativi.»
Bene, se era questo che voleva, avrei lasciato perdere tutta
la faccenda. Michael sapeva che eravamo nel giusto. La mia
vita quotidiana non cambiò granché: ero impegnato nella
preparazione dello Special per il Trentesimo.
Il problema sorse quando i legali di Michael rescissero il
contratto con Court e Derek (che, a dire il vero, includeva
anche me) senza pagarli. A questo punto i due si rivolsero a
Michael per le prestazioni non pagate. Erano giovani,
brillanti, competenti e onesti. Court in seguito guidò una
società di investimenti per Eric Schmidt, presidente della
Google, mentre Derek continuò la sua carriera di impresario
di grande successo. Entrambi sono consulenti di numerose
famiglie con grandi patrimoni. Io non dico che a ventuno anni
fossi in grado di risolvere i problemi finanziari di Michael, ma
se c'è un campo in cui sono bravo è nel trovare le persone
giuste: avevo scelto bene i miei partner.
Avevano compiuto egregiamente il lavoro definito dal loro
contratto con Michael e si rifiutavano di andarsene senza
compensi. Quindi citarono in giudizio Michael per danni. Ero
inorridito e sgomento. Si trattava di miei amici che stavano
facendo causa a Michael. I miei sforzi per aiutarlo a uscire da
un casino si erano trasformati in un casino ancora più
grosso. E io ero nel mezzo.
Court e Derek avanzarono la loro istanza legale proprio
durante i concerti per il Trentesimo. Alcuni giorni dopo, nel
New Jersey, Michael, io e i miei genitori ci sedemmo
nell'ufficio di mio padre per discuterne; la tensione era
palpabile, con Michael che avanzava accuse.
«Frank ha portato questa gente», sentenziò senza mezzi
termini .
«Cercavo di proteggerti», sparai di rimando. «Volevo
aiutarti.»
«So che hai sempre avuto le migliori intenzioni», disse
Michael, «ma devi stare attento a chi fai entrare nel nostro
mondo.»
«Ma li hai portati dentro lui» replicai. «Me li hai presentati tu.
Li reputavi persone sveglie e motivate.»

«Lo so, ma sei tu che li hai riportati, e guarda ora cosa hanno
fatto.»
In quel momento mi sentivo malissimo. Non potevo credere
che le mie fatiche e le mie buone intenzioni mi avessero
trascinato in un tale pasticcio. Ero veramente triste e a un
certo punto mi misi anche a piangere. Michael aveva già
abbastanza guai, non volevo aggiungerne altri. Decisi che
avrei fatto di tutto per ristabilire la pace tra lui e i miei amici.
Me ne andai con la coda tra le gambe, ma pochi giorni dopo
mi resi conto che - pur essendo profondamente amareggiato
per la situazione in cui ci eravamo trovati - io non avevo
alcun motivo per scusarmi. Non avevo fatto niente di
sbagliato, e nemmeno Court e Derek. In realtà, le nostre
previsioni (cioè che se avesse continuato in quel modo,
senza modificare l'organizzazione, Michael sarebbe caduto
in disgrazia) si avverarono completamente. No: era successo
semplicemente che Michael aveva deciso di non pagare il
loro ottimo lavoro. Era lui stesso la causa della querela,
eppure volevo ancora aggiustare le cose.
La storia di Court e Derek non fu l'unico problema a
interferire nel mio rapporto con Michael. Prima dello Special
per il Trentesimo, le persone che si erano adoperate per far
fuori i miei due amici avevano iniziato a rivolgere le loro
attenzioni anche su di me. Per loro pure io rappresentavo un
problema, e cercavano di screditarmi.
In realtà, era già da un po' che mi puntavano. Le tensioni
erano iniziate quando John McClain, che era cresciuto con la
famiglia Jackson, era diventato uno dei manager di Michael,
soprattutto per Invicible. John, ricorderete, era quello che
voleva che dicessi a Michael di rimodellargli il naso e di
scurire la pelle per il video You Rock My World. Aveva
assunto il controllo, e in quello che mi parve un tentativo
maldestro di ripulire l'organizzazione, cercò immediatamente
di eliminare due persone che, in realtà, erano tra i più leali
sostenitori di Michael.
Prima dello Special, mentre lavoravamo ancora su Invincible,
John aveva cercato di licenziare Brad Buxer, che stava con
Michael dai tempi di Dangerous. Brad amava Michael e
avrebbe fatto qualunque cosa per lui. Teneva una tastiera
vicino al letto, e così se Michael lo chiamava alle tre del
mattino era pronto a soddisfare qualsiasi sua richiesta o a
rispondere a qualsiasi domanda. Quando John tentò di
silurarlo. Brad mi chiamò piangendo.
«Non lascerò che succeda», gli promisi.
Andai subito da Michael e gli dissi: «Non puoi farlo». Brad
non si era mai approfittato di lui; molte persone lo facevano,
ma lui non era tra quelli. Per fortuna Michael ascoltò il mio
appello e fu d'accordo con me.
Come se non bastasse, John peggiorò la situazione quando
manifestò l'intenzione di eliminare Karen Smith e sembrò
accingersi a selezionare un'altra assistente. Rimasi allibito.
Andai di nuovo da Michael. «Non puoi far fuori Karen solo
perché John McClain vuole mettere qualcun altro al suo
posto», gli dissi. Ancora una volta mi dette retta e Karen
rimase.
Comunque, non posso biasimare John. Può darsi che
cercasse davvero di far risparmiare soldi a Michael. Senza
dubbio c'erano persone che dovevano andarsene. Ma
mentre Court e Derek facevano ciò che ritenevo giusto per
rimettere in carreggiata l'organizzazione, John puntava il dito
contro le persone sbagliate. Anche se queste venivano
ovviamente pagate per il lavoro che svolgevano, il loro
rapporto con Michael si spingeva ben oltre il denaro. E lo
stesso era per me.
Nel tentativo di salvare il posto a Brad e a Karen, mi trovai a
intralciare per ben due volte il cammino di John e per questo,
lo sapevo, ci sarebbe stato un prezzo da pagare. Quando si
rese conto che rappresentavo un problema, rivolse la scure
contro di me. Seppi dai miei genitori che aveva detto a
Michael che io ero il demonio, e che avrebbe dovuto
sbarazzarsi di me. Evidentemente la denuncia non arrivò
soltanto alle orecchie dei miei, perché cominciò a girare la
voce che John McClain mi chiamasse «il demonio». Anziché
credere ai suoi avvertimenti contro di me, dopo i concerti del
trentesimo anniversario Michael mi offrì l'opportunità di
licenziarlo. Gli aveva infatti dato fastidio il fatto che John,
sebbene non avesse partecipato ai preparativi dello Special,
fosse stato ben contento di incassare una parte dei proventi,
ma che non si fosse poi nemmeno degnato di farsi vedere
agli spettacoli.
Tuttavia il licenziamento non fu portato in fondo e, dopo aver
parlato con Michael. John fu reintegrato nelle sue mansioni.
Essendo il diretto responsabile del suo licenziamento mi
sentivo un facile bersaglio; e il fatto che Michael fosse
coinvolto in una lite con due persone che avevo introdotto io
mi induceva a pensare che, ora più che mai, dovessi
guardarmi alle spalle.
Non sapevo con precisione quando i guai avrebbero
nuovamente bussato alla mia porta, ma ero certo che
sarebbe successo, e così fu.
Nel febbraio del 2002 i miei genitori andarono a Neverland
per la nascita di Blanket e il quinto compleanno di Prince.
Mia madre aveva accompagnato Michael a prendere in
consegna il bambino dal rappresentante della madre
surrogata in un albergo e insieme portarono il neonato,
Prince Michael Jackson II, a Neverland con un lussuoso
pullman privato.
«Guarda, guarda! Quanto è bello», ripeteva Michael
emozionato.
Il piccolo era avvolto in soffici coperte e mia madre disse
all'orgoglioso papà: «È così tenero e morbido, è come una
co perta». E il soprannome gli rimase. Da quel momento il
bimbo fu chiamato «Blanket».
Una volta rientrati a Neverland, malgrado l'entusiasmo e la
felicità del momento. Michael prese da parte i mici genitori c
disse loro: «Non crederete a quello che ha fatto Frank», sbottò, e
sembrava furioso.
«Cosa ha fatto?» chiese mio padre.
«Frank ha chiesto ad alcuni esponenti di un gruppo immobiliare
un milione di dollari solo per presentarli a me. Non è
incredibile?» Era tremendamente sconvolto. E avrebbe avuto
ragione di esserlo, se le accuse fossero state vere.
Mio padre mi conosce, non sono spinto dall'avidità. Non ho mai
preso denaro o bustarelle di alcun genere (e credetemi, dopo la
volta che ho rifiutato la prima valigia piena di soldi, ho avuto
molte opportunità).
«Mi dispiace», disse mio padre, «ma metterei la mano sul fuoco.
Conosco mio figlio. Lo conosci anche tu. Non farebbe mai. dico
mai. una cosa del genere.»
Quel giorno stesso mio padre mi chiamò e mi raccontò i fatti.
Quelle accuse mi oltraggiavano. Non avevo mai preteso del
denaro. Non potevo credere a quelle accuse.
Da tempo avevo dei sospetti, ma adesso era evidente che
qualcuno stava cercando apertamente di distruggere il mio
rapporto con Michael. Avevo ventun anni, e nel mio lavoro ero
sempre stato coraggioso c leale perche la sola persona che mi
stava a cuore era lo stesso Michael. Così, quando vedevo
qualcosa che non mi sembrava giusto, ero il primo a sottoporlo
alla sua attenzione. Non mi importava se il problema coinvolgeva
qualcuno che lavorava per lui da vent'anni. Andavo avanti
ugualmente. Ora però la posta si era drasticamente alzata. In
questo caso veniva preso di mira ciò a cui tenevo di più:
l'opinione di Michael sulla mia persona.
Lo chiamai immediatamente al ranch, offeso che avesse
potuto essere anche solo sfiorato dall'idea che l'accusa fosse
vera. La mania di persecuzione da cui era afflitto, e che nel
corso degli anni aveva avuto alti e bassi, in questo periodo
sembrava al culmine. Dubitava di me, e non lo aveva mai
fatto prima. Non gliene avevo mai dato motivo.
«Non prenderei mai del denaro», ribattei, «e tu lo sai.»
«Ho ricevuto una lettera.» Mi rispose. Una persona del suo
team manageriale gli aveva scritto una lettera ufficiale
sostenendo che io avevo detto: «Se vuoi ottenere qualcosa,
tratta con me. Non hai bisogno di quel tizio in Florida, Al
Malnik».
Quest'ultimo era un rispettabile uomo d'affari, consulente di
Michael, e del quale avevo una grande stima. Ero sicuro che
Al volesse aiutare Michael come un amico, e non perseguire
i propri interessi.
«Ammiro e mi fido di Al. Non ho mai pronunciato una parola
contro di lui!» protestai.
Alla fine del colloquio non ero certo che Michael mi avesse
creduto, ma tornai subito a Neverland per aiutare Marc
Schaffel nella preparazione del video What More Con I Give.
A marzo ci recammo tutti al matrimonio di Liza Minnelli con
David Guest, ma per tutto il tempo non feci altro che
rimuginare sulle accuse che mi erano state rivolle, sulla
mancanza di fiducia di Michael nella mia integrità e sul vicolo
cieco in cui era finita la nostra amicizia, che avevo sempre
ritenuta preziosa. Più cercavo di uscirne, più sentivo acuto il
disgusto per gli ultimi eventi. Dopo il problema di Court e
Derek e le recenti accuse infondate contro di me, ero
costretto a credere che persone senza scrupoli mi volessero
fuori dal mondo di Michael, e la pressione e lo stress
cominciavano a farsi sentire.
Il mio posto, o il mio ruolo, o comunque chiamassi il mio rapporto
di lavoro con Michael, non era una situazione comune. Non era
un impiego come tutti gli altri, lo sapevo e lo accettavo con tutte
le sue anomalie. Avevo ancora molto da imparare: era una
partita per giocatori impegnati. Michael era stato una guida
geniale e complessa, ma i suoi punti deboli riguardavano
soprattutto il controllo della paranoia e il discernimento delle
intenzioni, spesso non esattamente nobili, di chi gli stava intorno.
Senza la sua guida, non riuscivo a immaginare come muovermi
in quel sordido mondo. Gli interessi di Michael erano sempre
stati la mia priorità, su questo non avevo dubbi, e ritenevo fosse
sufficiente, invece non lo era. Non avrei mai potuto immaginare
l'indecenza di quell'ambiente, e se anche l'avessi fatto non avrei
mai pensato che potesse influenzare i rapporti tra di noi. Sapevo
che Michael stava attraversando un periodo molto difficile, dal
punto di vista sia finanziario sia emotivo, e faceva fatica a fidarsi
delle persone. Ma la mia vita professionale al suo fianco stava
mettendo alla prova il nostro rapporto personale. Non volevo
perdere la nostra amicizia. Pensai seriamente e a lungo che
cosa avrei dovuto fare. Dopo il rientro a Neverland, dissi a
Michael che dovevamo parlare. Ci sedemmo nella sua stanza, e
con la morte nel cuore gli comunicai che avevo bisogno di una
pausa. «Mi hai cresciuto», dissi al colmo dell'emozione, con gli
occhi lucidi. «Tu sai tutto di me e non voglio che queste persone
si mettano tra noi. Qui non ho impegni particolari. Tutto ciò che
ho da fare è accertarmi che questa gente non voglia fregarti. Ma
mi sento attaccato e accusato, e ciò influenza la nostra amicizia
e la nostra famiglia. Credo di aver bisogno di una pausa.» «Sei
sicuro di volerlo?» mi rispose. In verità non avevo le idee chiare.
Sapevo solo che avevo bisogno di pensare e di stare lontano da
quella brulla situazione. Da tanto tempo vivevo per Michael e per
il suo lavoro. Mi mettevo sempre al secondo posto. Ora non ne
valeva più la pena. Volevo solo andarmene.
«La gente che ti sta intorno non mi sopporta e tu credi a quello
che ti dicono.»
«Io combatto sempre per te», disse Michael, «sto dalla tua
parte. Non credo a quella gente.»
«Ma lo hai fatto», dissi. Mi uccideva il fatto che la mia
integrità fosse messa in dubbio, e sapevo che poteva
accadere di nuovo.
«Bene, ma sei ancora qui. Non è cambiato niente», replicò
Michael.
«Lo so, ma ora ho proprio bisogno di andarmene.»
«Ascolta, devi fare ciò che e meglio pene, ciò che ti può
rendere felice.» Sebbene parlasse con calma, mi accorsi che
era turbato. Lo eravamo entrambi. Ma capiva e rispettava la
mia decisione, per quanto difficile fosse. Dopo quella
discussione passammo del tempo insieme, cenammo e
guardammo dei film. Un paio di giorni più tardi tornai a New
York.
Era il marzo del 2002. Lavoravo per Michael da soli tre anni,
ma sembrava un secolo. Per la prima volta nella mia vita di
adulto mi prendevo una pausa.

Lasciata Neverland e tornato sulla costa orientale, uscii dal


vortice della vita di Michael. Era tempo che mi avventurassi
nel mondo, era tempo di capire cosa volevo fare della mia
vita e iniziare una carriera indipendente. Mi fermai dai miei
genitori, mi rilassai e mi misi in attività presso l'ufficio di un
amico, cercando di escogitare la prossima mossa. Non
avevo questioni urgenti da sbrigare. A tutti gli effetti stavo
bene, ma la verità era che senza una meta mi sentivo perso.
Non avevo progetti. Mi mancava il mio migliore amico. Mi
mancava la mia vita. Lavorare con Michael era più di un
lavoro. Significava di più di quello che facevo. Significava chi
ero.
Incerto su tutto quanto riguardava la mia vita, feci la cosa
migliore che un uomo può fare in una situazione del genere.
Mi concessi una vacanza di tre settimane in Italia con una
donna bellissima: Valerie. Andammo nella casa della sua
famiglia all'isola d'Elba, la meravigliosa isola toscana dove fu
esiliato Napoleone. La fuga dei re! Poi andammo a Firenze,
dove affittammo un appartamento. Cucinammo, bevemmo
vino e seguimmo in TV un programma chiamato Saranno
Famosi che ci prese in modo ossessivo.
Ogni fuga ha sempre un epilogo e dopo tre settimane tornai
a New York. Di nuovo in città, incontrai un vecchio amico,
Vinnie Amen; suo padre e mio zio, quando erano ragazzi,
erano stati lavapiatti insieme in un ristorante. Entrambe le
nostre famiglie possedevano noti ristoranti in città diverse e
io e Vinnie giocavamo a calcio insieme (e uno contro l'altro)
dall'età di tredici anni. Ai tempi del liceo uscivamo per
ballare, ma rientravamo sempre in fretta per stare con le
nostre famiglie a bere vino e a mangiare antipasti, sempre
molto abbondanti in casa nostra. La maggior parte dei
ragazzi usciva per la pizza, noi no.
Sapevo di voler entrare nel mondo dello spettacolo, ma le
mie idee erano senza capo né coda. Vinnie si era laureato
alla Carnegie Mellon. Era intelligente e un gran lavoratore.
Era anche molto ben organizzato, il genere di persona che,
immaginavo, poteva aiutarmi a mettere la testa a posto. Così
mi buttai in affari con lui e lo convinsi a cambiare il nome in
Vinnie Black. Non chiedetemi il perché. Credo di aver
sempre avuto la mania di cambiare i cognomi.
In realtà non mi presi mai una vera pausa. Non sapevo come
rilassarmi. Con Vinnie fantasticavo di progetti straordinari per
conquistare l'universo.
Durante quel periodo Michael aveva iniziato a fare notizia,
protestando con Al Sharpton contro lo sfruttamento suo e di
altri artisti neri da parte della Sony. Visto che Invincible non
aveva ottenuto il successo che Michael si aspettava (dopo
tutto quel duro lavoro), puntò il dito sulla Sony e sui suoi
dirigenti. Riteneva che la casa discografica non stesse
promuovendo l'album. La Sony, in questo caso, aveva
certamente un conflitto di interessi dovuto alla sua
partecipazione al catalogo dei Beatles.
Nell'autunno del 2001, all'uscita dell'album. Michael aveva
presenziato a un evento pubblicitario al Virgin Megastore,
firmando autografi mentre il negozio vendeva gli album, lo gli
stavo seduto accanto da una parte, e mio fratello Eddie
dall'altra. Sapevo che la Sony voleva che Michael facesse
altre promozioni come questa (girando di negozio in negozio
come per gli album precedenti, un metodo infallibile per
incrementare le vendile), ma lui era stanco di tutto ciò. Era
stato in tournée praticamente per tutta la vita. Ora chiedeva
alla Sony di trovare un modo innovativo per promuovere
l'album, senza fare ricorso alla loro arma più potente: lui.
Da sempre Michael aveva il potere di risollevare le sorti nelle
situazioni più disparate ma si sentiva offeso di doversi
impegnare tanto per la Sony e per quel suo piano marketing
mai realizzato. In conclusione, il carattere di Michael e quello
di Tommy Mottola si erano scontrati nella promozione di un
grande album.
Poi, nel giugno del 2002, Michael scelse di agire in modo
piuttosto irrazionale: salì su un autobus a due piani tenendo
un cartello «vai all'inferno, Mottola» percorrendo la strada
intorno al quartier generale della Sony. Anche se non
lavoravo più ufficialmente per lui, volevo comunque
esprimere la mia opinione. Non potevo perdere l'abitudine di
proteggere Michael. Nella speranza di avere ancora qualche
influenza, andai a trovarlo nella sua camera al Palate Hotel.
«Cosa stai facendo?» chiesi. «Tu sei Michael Jackson. Puoi
fare di meglio.»
Era seduto alla scrivania. Aveva appena riattaccato il
telefono con il presidente del suo fans club, facendo piani per
radunare i fans in favore della causa.
«Frank», rispose, «stanno cercando di rubare il mio catalogo,
sono stanco di essere sfruttato. Dobbiamo denunciarli.»
«Posso essere d'accordo con te riguardo alla Sony»,
affermai cercando di essere il più solidale possibile anche se,
nonostante tutto, non riuscivo a capire la parata e i cartelli,
«ma sono contrario alla storia dell'autobus.»
Michael sembrava stanco e arrabbiato. Quel genere di
esibizione in pubblico non faceva parte della sua personalità,
ma ormai non ne poteva più. Sperava e si aspettava che
l'album lo tirasse fuori dai guai finanziari e dalle cause legali
che lo assillavano. Si sentiva profondamente deluso dalla
Sony. Se avessi ancora lavorato con lui avrei fatto qualunque
cosa per calmarlo, dissuaderlo ed evitargli quella brutta
figura. Non so chi fosse il consigliere di Michael in quel
periodo, ma ritenevo che chiunque lo avesse spinto a lottare
in questo modo aveva sicuramente sbagliato. Il piano di
marketing della Sony per Invincible non aveva niente a che
fare con il razzismo, e cercare di farlo apparire come tale era
indegno di Michael.
«Non voglio aver niente a che fare con tutto questo»,
dichiarai. Naturalmente, dato che a quel tempo non lavoravo
più per Michael, non mi sarei dovuto minimamente
preoccupare di una faccenda simile. Ma non mi sentivo a mio
agio. Per forza d'abitudine ero sempre al suo fianco,
qualunque cosa facesse. Questa era la prima volta in cui gli
dicevo che non lo sostenevo.
Un paio di mesi dopo mi feci sentire di nuovo. Era più forte di
me. Non m'importava se non facevo ufficialmente parte del
suo staff. Non potevo tenere la bocca chiusa.
Fino a quel momento Michael e io ci eravamo parlati o visti
ogni volta che i nostri impegni di viaggio lo permettevano.
Trudy Green, all'epoca manager di Michael, gli annunciò che
all'imminente Music Awards di MTV, in programma il 29
agosto 2002, giorno del suo quarantaquattresimo
compleanno, volevano onorarlo con un premio quale «Artista
del Millennio», mai conferito in precedenza. Quando Michael
me lo riferì, mi sembrò grandioso. Lui si sentiva onorato ed
emozionato di ricevere un simile riconoscimento.
In seguito venni a sapere da un mio amico di MTV che quel
premio in realtà non esisteva. MTV non aveva nessun
progetto di offrire a Michael un simile riconoscimento.
Volevano solo coinvolgerlo per festeggiare il suo
compleanno. Quando riferii a Michael ciò che avevo sentito,
chiamò immediatamente Trudy. La mise in vivavoce in modo
che potessi ascoltare la conversazione. Trudy gli disse che io
non sapevo di cosa stavo parlando. E si chiedeva, in primo
luogo, chi ero io per parlare con MTV? (Ero una rottura di
coglioni, ecco cos'era!)
«Sì», convenne Michael, «probabilmente Frank si è
confuso.»
Riattaccò e mi disse che dovevo essere sicuro delle mie
affermazioni prima di sollevare problemi. Così non ebbi altra
scelta se non di credere che le informazioni avute fossero
sbagliate. Ma quando incontrai nuovamente il mio amico di
MTV. confermò la sua storia. Secondo lui, era Trudy a
essere stata male informata... o peggio. Di nuovo riferii a
Michael quello che mi era stato detto. Ma lui ne aveva
abbastanza, e voleva che ne restassi fuori.
«Sei ancora giovane», disse. «Devi ascoltare e imparare da
queste persone e da me. Credimi, Frank, se sentissi
qualcosa di strano in questa faccenda, non andrei; ma è
l'Artista del Millennio. E importante.»
«Va bene, non ci sono problemi», ribattei. Ma non potevo
lasciar perdere.
La sera della premiazione, lo avvertii per la terza volta.
Michael non ne poteva veramente più, e me lo espresse a
chiare lettere. Mi ero davvero spinto troppo oltre, considerato
anche il fatto che non lavoravo più per lui. Era molto eccitato
per il riconoscimento e non voleva sentire le mie remore al
riguardo. Mi auguravo di sbagliarmi, ma ero piuttosto sicuro
che non fosse così. Michael aveva invitato tutta la mia
famiglia ad assistere alla cerimonia, ma io non potevo
sopportare di vederlo naufragare in diretta.
«Penso sia meglio che stasera non venga con voi», dissi.
«Andate, ci incontreremo dopo.» Così Michael portò il resto
della mia famiglia all'auditorium e io uscii per i fatti miei.
Quella sera, quando Britney Spears presentò Michael, lo
chiamò «l'artista del millennio» e gli presentò una torta di
compleanno. Non ci fu alcun premio. Tuttavia Michael
pronunciò ugualmente il discorso di ringraziamento che
aveva preparato. Fu molto imbarazzante e, come al solito, la
stampa ne approfittò ampiamente.
Per il bene di Michael avevo sperato di sbagliarmi, ma nello
stesso tempo mi sentivo vendicato. Il giorno successivo un
portavoce di MTV disse che «c'erano state delle
incomprensioni», e io ero abbastanza sicuro dove fossero
nate: nell'ufficio di Trudy.
Appena rientrato andai a trovare Michael nella sua suite.
Voleva condividere un po' di «succo di Gesù» prima di
andare a letto. Aprì la porta con i suoi pantaloni del pigiama,
la maglietta a V e il Borsalino. Mi accompagnò nel soggiorno
ed esclamò: «Già, già, già», che nel suo gergo voleva dire:
«Avevi ragione». Nel frattempo aveva già ordinato due
bottiglie di bianco.
Come ci sedemmo e iniziammo a bere, dissi: «Lo dico una
volta sola, poi non ne parleremo più... te lo avevo detto!» e
sorrisi.
«Sì, sì», disse Michael, «non ti montare la testa.»
«Troppo tardi», risposi e scoppiammo a ridere entrambi.
Michael era abituato alla mia schiettezza e sembrava che
non lo infastidisse troppo. Perciò rimasi scioccato quando,
poche settimane dopo, di punto in bianco ricevetti una lettera
da Brian Wolf, uno degli avvocati di Michael. Era scritta in
suo nome e mi intimava di non contattare alcun amico o
persona collegata a lui che avessi incontrato durante il
periodo in cui avevo lavorato per suo conto, avvertendomi
inoltre di non presentarmi più come persona al servizio di
Michael. Si trattava di una lettera molto formale, inviata per
conoscenza a Michael, John McClain, Trudy Green, John
Branca (un altro avvocato di Michael) e Berry Siegel (il suo
commercialista). Che cazzo... ?
La mia mente per un istante vacillò, ma poi mi ricordai. Capii
esattamente cosa voleva dire quella lettera, e non aveva
niente a che fare con Michael e me. Era già successo:
questa missiva era proprio come quella con la quale ero
stato accusato di corruzione, ma questa volta, invece di una
lettera piena di bugie diretta a Michael, era stata indirizzata a
me. Non c'erano dubbi: era una lettera intimidatoria. Le
persone a cui era inviata per conoscenza erano ancora
incazzate con me per aver messo in dubbio le loro decisioni
e minacciato i loro posti di lavoro. Ora stavano tentando di
farmi uscire definitivamente dalla vita di Michael.
Dopo tutti gli anni passati insieme, ecco dove eravamo
arrivati.
PARTE TERZA

MICHAEL E ME

CAPITOLO DICIANNOVE - LUCIDA


FOLLIA
Era passato qualche mese da quando avevo ricevuto la lettera
che mi invitava a non contattare Michael. Nel novembre del 2002
andai comunque a Los Angeles per un appuntamento con il
produttore Marc Schaffel al fine di discutere con lui uno dei miei
progetti. In quel periodo infatti, nonostante la lettera, avevo
organizzato per Michael l'assegnazione in Germania del premio
Bambi come «Artista Pop del Millennio» e Marc stava facendo un
montaggio video per il brano «What More Can I Give». Sapevo
che presto Michael sarebbe partito per l'Europa, così lo chiamai
e gli dissi: «Mi trovo a Los Angeles, mi piacerebbe incontrarti».
Mi invitò a Neverland, dove avevo ancora una camera e un
ufficio pieni di vestili, documenti e Dio sa cos'altro. Era già da un
po' che non lo incontravo e avevo molta voglia di vederlo, ma
portai con me anche la lettera di Brian Wolf: volevo liberarmi di
quel peso.
Arrivato a Neverland mi accompagnarono fino alla biblioteca;
quando Michael entrò nella stanza ci scambiammo un forte
abbraccio. Eravamo felici entrambi. Lui era in un periodo di relax,
sembrava tranquillo e sperai che la paranoia e la collera che
avevano caratterizzato l'uscita di Invincible fossero ormai acqua
passata.
Michael mi ringraziò di essermi occupato del premio Bambi e,
dopo esserci aggiornati reciprocamente sulle nostre vite, toccai
la questione che mi stava tanto a cuore e che apparentemente
stavamo evitando.

«Devo essere onesto con te. Sono rimasto davvero sconvolto da


un fatto. Perché mi hai mandato questa lettera?» Gliela porsi. La
lesse. Mentre leggeva spalancò gli occhi.
«Frank, io non le l'ho mandata», affermò con voce piatta.
Se avessi avuto il sospetto che stesse fingendo, quello che fece
subito dopo fugò ogni dubbio. Prese il telefono e chiamò Karen.
«Perché qualcuno ha mandato una lettera a Frank senza il mio
permesso?» chiese. «Fammi chiamare subito da Brian Wolf.»

Karen non era inclusa tra i destinatari per conoscenza. Questa


era la prima volta che ne sentiva parlare, eppure lei era la prima
persona a cui Michael si rivolgeva se voleva che qualcosa
venisse fatto immediatamente. Aveva ancora il telefono in mano
quando mi chiese: «I tuoi genitori lo sanno?»
«Sì, gliel'ho detto.»
Chiamò subito mio padre e dichiarò: «Non avevo idea che fosse
stata spedita questa lettera a Frank. Non l'ho autorizzata, sono
molto dispiaciuto».
Da quando l'avevo ricevuta, non sapevo in che termini sarei
rimasto con Michael. Adesso che avevo visto la sua reazione tirai
un sospiro di sollievo. Eravamo tornati alla normalità. Tuttavia mi
fu più che mai evidente che avevo nemici potenti
nell'organizzazione uniti nell'intento di farmi fuori; sebbene anche
Michael se ne fosse convinto, non prese nessun provvedimento.
Certo, per me la lettera era un ottimo motivo per licenziare
qualcuno, ma nel corso degli anni c'erano state tante cose che
pensavo avrebbe dovuto fare e se l'esperienza mi aveva
insegnato qualcosa era che Michael prendeva le sue decisioni da
solo. Così trassi un profondo respiro e lasciai perdere.

E non fu troppo difficile, perché stavo morendo dalla voglia di


vedere il nuovo arrivato. Blanket: non riuscivo a credere che
avesse già otto mesi. Michael mi portò nella nursery, la stessa
che era stata di Prince e Paris prima che fossero spostati nella
loro camera, sullo stesso piano. Mentre guardavamo il piccolino
che dormiva pensai che era semplicemente adorabile, proprio
come lo erano stati Prince e Paris alla sua età. Detti un'occhiata
a Michael, e dall'espressione sul suo volto era evidente che
l'entusiasmo per la nuova paternità non si era attenuato in quegli
otto mesi.
Tornati nella stanza adibita a biblioteca Michael menzionò
casualmente due persone che - allora non potevamo saperlo -gli
avrebbero presto causato danni incalcolabili. Prima fece il nome
di Martin Bashir, che stava girando un documentario su di lui. Era
stato Uri Geller, il veggente famoso per la capacità di piegare i
cucchiai con la forza del pensiero, a proporre l'idea all'amico
Michael, dicendogli che rilasciare un'intervista a uno stimato
giornalista come Bashir lo avrebbe aiutato a farsi capire dalla
gente e a rivoluzionare la propria immagine. Michael rimase
particolarmente impressionato quando gli riferirono che anche la
principessa Diana era stata intervistata da Bashir.

Negli anni a venire molti, me incluso, si sono chiesti perché


Michael avesse deciso di partecipare a quel documentario. In
verità non so esattamente cosa gli dissero per convincerlo, ma
basandomi su ciò che lui mi raccontò immagino che Uri e Bashir
avessero fatto leva sul suo amor proprio, con frasi come:
«Michael, guarda quali altri personaggi sono stati intervistati. Tu
sei il Re del Pop, il mondo conosce la tua musica, dovrebbe
scoprire qualcosa anche della tua persona. La tua vita è
appassionante e istruttiva». Malgrado il suo scetticismo, un
approccio del genere avrebbe sortito i suoi effetti. Inoltre, non mi
è difficile immaginare un Michael fiducioso che il documentano
ponesse fine agli scoop su «Wacko Jacko» che da tempo lo
tormentavano. Dopotutto, doveva aver pensato, la gente aveva
reagito molto bene al discorso che aveva tenuto all'Università di
Oxford: forse, se avesse potuto di nuovo rivelare se stesso, a un
pubblico più vasto avrebbe visto e capito chi era veramente.
«Ne sei sicuro?» gli chiesi, senza neanche cercare di
nascondere il mio disagio.
Michael era abituato alla mia cautela.
«Sì, Frank», rispose. «Ho tutto sotto controllo. Non può
pubblicare niente senza il mio consenso.» Le sue parole mi
fecero sentire un po' più tranquillo. Aveva lasciato molta libertà a
Bashir, che lo avrebbe accompagnato anche al premio Bambi,
ma almeno si era riservato la facoltà di approvare il prodotto
finale. In fondo, se aveva lui l'ultima parola, come avrebbe potuto
essere male interpretato?
«Frank, sai chi ti sei appena perso?» mi chiese Michael,
distogliendomi dai miei dubbi sulle intenzioni di Bashir. «Un paio
di giorni fa è passato Gavin.»
Si riferiva a una persona alla quale da un po' di tempo non
pensavo, e forse sarebbe stato meglio continuare così. Nel 2000,
quando Gavin Arvizo aveva dieci anni, gli fu diagnosticato un
cancro. Michael venne a conoscenza della sua storia e organizzò
per lui una donazione del sangue. Dopo di ciò Gavin espresse il
desiderio di incontrare Michael, e così quell'anno fu invitato
diverse volte a Neverland. All'epoca camminava con le stampelle
ed era indebolito dalla chemioterapia. Michael cercò di aiutarlo
offrendogli praticamente ogni giorno il suo sostegno morale. Lo
incoraggiava a combattere il cancro e gli prometteva altre visite
al ranch se le sue condizioni gli avessero permesso di affrontare
il viaggio. Inoltre aiutò economicamente la sua famiglia.

Gavin era solo uno dei tanti bambini che Michael cercò di aiutare
e mentre la maggior parte dei genitori erano gentili e molto grati
per il suo impegno, quelli di Gavin mi fecero venire la pelle d'oca
fin dal primo giorno. Inizialmente non potevo addurre nessun
motivo, era solo una sensazione. Poi però, durante una delle loro
prime visite, David, il padre, mi chiese del denaro per comprare
una macchina. Erano stati a Neverland solo un paio di volte, ma
Michael aveva già fatto molto per la famiglia e sapevo che
distribuire soldi era un discorso molto delicato.
«Non vi daremo denaro», dissi, «ma posso chiedere a Michael
se c'è una macchina che possiamo prestarvi.» E in effetti ne
trovammo una: Michael dette loro un furgone scassato che non
veniva più utilizzato. Ma il fatto stesso di aver avuto quella
conversazione con David fece suonare un campanello d'allarme.
Dopo l'esperienza con la famiglia Chandler, avevo sempre paura
che altre famiglie volessero sfruttare la situazione.
L"anno seguente, il 2001, Michael era stato molto occupato con
Invincible e aveva preso le distanze dagli Arvizo. Mentre
lavoravamo all'album a New York, Gavin fece di tutto per
raggiungere Michael: chiamò me, la securìty... insistette finché
alla fine Michael non prese la telefonata. Messo in vivavoce, si
sentiva la madre bisbigliare in sottofondo.
«Digli che vogliamo vederlo», sussurrava. «Digli: 'Sei la nostra
famiglia, ci manca il nostro papà'», e Gavin ripeteva a pappagallo
quelle frasi.
In quell'occasione feci presente a Michael le mie preoccupazioni,
dicendogli senza mezzi termini: «Non voglio avere niente a che
fare con questa famiglia». Michael era d'accordo, ma gli
dispiaceva per Gavin e i suoi fratelli.
«Sii gentile», mi raccomandò con il tono di voler porre fine alla
questione. «E così triste. I genitori rovinano tutto. Povero Gavin,
è un bambino innocente.»
Vista l'esperienza con Jordy Chandler. eravamo entrambi
consapevoli dei pericoli che correva se avesse continualo a
frequentare una famiglia come questa. Ma allo stesso tempo
Gavin era a distanza di sicurezza, e Michael si era trovato in
difficoltà a rifiutare la telefonata di un ragazzino che affermava di
volergli bene e di aver bisogno di lui. Non vedeva cosa ci fosse di
male.
Per tutto il 2001 e il 2002 non sentii più nominare Gavin e, per
quanto ne so, Michael non aveva più incontrato la sua famiglia,
almeno fino a quel momento. Quando sentii che il ragazzino,
adesso tredicenne, era appena stato lì, la mia diffidenza si
risvegliò.
«Allora non mi sono perso molto», commentai.
«Dai, Frank», disse Michael, ripetendo le parole di due anni
prima, «è un ragazzo dolce. Non te la prendere con lui per le
colpe dei suoi genitori.»
«Sì, hai ragione», conclusi riluttante. In linea di massima ero
d'accordo, ma anche Jordy era stato vittima dei secondi fini dei
suoi genitori. Per me la similitudine c'era eccome. Cercando di
convincermi delle buone intenzioni di Gavin, Michael mi disse
che il ragazzino aveva persino partecipato all'intervista di Bashir,
esprimendo di fronte alla telecamera tutta la sua riconoscenza
per l'aiuto ricevuto.
«Bene», affermai, contento di sentire una cosa del genere. «E
giusto che si sappia quanta gente aiuti in tutto il mondo.»
Diffidente com'ero degli Arvizo, la loro presenza nella
registrazione mi sembrava positiva, anche considerando che
Michael aveva l'ultima parola sul prodotto finale. Visto che Gavin
e la sua famiglia avevano ricevuto tanto aiuto, non sembrava ci
fosse niente di male nel fatto che il ragazzino lo avesse
dichiarato davanti alla telecamera. Se quelle parole erano
piaciute a Michael, cosa poteva esserci di pericoloso? Mi
sbagliavo!

Prima di partire per la Germania, Michael dovette presentarsi in


tribunale per rispondere alle accuse mosse da Marcel Avram sui
concerti del millennio. Come troppo spesso accadeva, quella
notte non chiuse occhio. La mattina seguente era un disastro: la
barba non fatta, i capelli scarmigliati... Si presentò in aula con un
cerotto sul naso, uno di quelli che aiutano a respirare, ma non fu
una scelta felice considerando che durante i pochi minuti di
tragitto tra la macchina e la sala delle udienze fu bersagliato dai
fotografi.
Gli articoli che uscirono dopo la sua comparizione si
concentrarono sul suo aspetto fisico. Malgrado Michael non
avesse mai nascosto la sua lotta contro la vitiligine, i giornalisti
ipotizzavano che stesse cercando di diventare bianco e poi, con
congetture anche più offensive, misero in giro la voce ridicola
che gli stesse cascando il naso a causa dei troppi interventi di
chirurgia plastica.
Non era la prima volta che la stampa reagiva in modo
drammatico di fronte all'aspetto di Michael. Forse era perché lo
vedevo tanto spesso, una per quanto strano potesse apparire
alla gente a me sembrava del tutto normale. Lo schiarimento
progressivo della pelle per me non era un mistero, e in teoria non
lo era per nessuno. Era un argomento che aveva trattato molte
volte, ma i media sembravano non afferrare il concetto, o
semplicemente non gli credevano. Per quanto riguarda la
chirurgia estetica, molti interventi erano stati eseguiti prima che
cominciassi a lavorare per lui. e non ho mai badato molto a
quanto è successo dopo. Non ne abbiamo mai parlato, e non
perché l'argomento fosse tabù, ma perché lui non ne ha mai
accennato e io ho sempre accettato il suo aspetto così com'era.
Se voleva fare dei cambiamenti, erano fatti suoi. Immagino che
dietro a tutto questo ci fosse la sua infanzia problematica.
Michael parlava spesso del fatto che suo padre, quando era un
ragazzino, lo prendeva in giro per il suo nasone. A me era
sembrato bello prima che modificasse il suo volto, ma credo che
lui, guardandosi allo specchio, non vedesse quello che gli altri
vedevano. Ora aveva un naso più piccolo, ma per lui era ancora
troppo grosso. Tuttavia il suo aspetto non era importante quando
passavamo del tempo insieme, e la visione distorta che poteva
avere di se stesso non monopolizzava i suoi pensieri e la sua
energia: non rappresentava una frattura grave tra sé e la realtà.

Ad esser sincero, accantonai il discorso della chirurgia come un


vezzo tipicamente hollywoodiano. Se per qualcuno forse aveva
esagerato un po', che dire, per Michael era nella norma.
Probabilmente ero troppo coinvolto ed era difficile essere
obiettivo, ma quando guardavo Michael combattere con la sua
immagine non potevo evitare di provare comprensione per ciò
che stava attraversando. Mi proponevo soprattutto di aiutarlo ad
affrontare i commenti negativi espressi dalla stampa. Odiava le
storie stupide e crudeli che i giornali scandalistici creavano sul
suo personaggio. A lui il suo naso piaceva, ed era assurdo che la
gente, dopo l'episodio del tribunale per il caso Avram, credesse
davvero che stesse cadendo a pezzi.
«Perché mi rendono sempre la vita difficile?» disse. «Lo vedi,
Frank? Vedi quello che mi fanno? Se fossi stato un'altra persona
sarebbe stato del tutto normale. Quei cerotti si trovano in
qualsiasi farmacia. Mi aiutino a respirare. Se fossi stato un altro
la gente non avrebbe detto una parola, ma in me cercano
sempre di trovare qualcosa di sbagliato.» Aveva ragione,
ovviamente, ma questo non avrebbe impedito ai tabloid di fare le
peggiori congetture su quel cerottino nasale esibito in tribunale.
E malgrado lo scalpore sui giornali, continuò a portarli. Non
voleva cambiare il suo comportamento soltanto perché veniva
deriso.
Il giorno dopo, prima di partire per la Germania, Michael mi
presentò Martin Bashir. Lo guardai dritto negli occhi e gli strinsi la
mano con vigore, come faccio sempre. La sua stretta di mano
era debole: non è mai un buon segno. E quando lo guardai negli
occhi, mi parve che volesse distogliere lo sguardo.
«E così sta facendo un'intervista. Mi racconti un po'», dissi.
«Sarà grandioso», rispose Bashir. «Mostreremo Michael nella
luce migliore.» Era estremamente educato, ma per qualche
ragione non mi fidavo. Tuttavia non avrei mai potuto prevedere la
devastazione che avrebbe causato a Michael il suo cosiddetto
documentario, né che avrebbe messo a repentaglio persino la
mia reputazione.
Malgrado la sua assenza, Michael mi invitò a rimanere al ranch
in attesa del suo rientro dalla Germania. L'idea mi piacque.
Dovevo ancora incontrare Marc Schaffel, che risiedeva piuttosto
vicino, a Calabasas, e perciò Neverland era un campo base
perfetto per me.
Poco dopo la partenza, i telegiornali mandarono in onda un video
dalla Germania che mostrava Michael al balcone di una camera
d'albergo mentre teneva il piccolo Blanket sospeso nel vuoto al di
fuori della ringhiera. Rimasi a fissare lo schermo a bocca aperta
per lo sgomento. Già vedevo i titoli dei giornali, e l'unico pensiero
che riuscii a formulare fu: Non sarà una bella storia.
Cercai di immaginare il contesto in cui inserire l'episodio. I fans
volevano vedere Blanket, e Michael aveva soddisfatto il loro
desiderio portando fuori il bimbo. Lo aveva sollevato oltre il
parapetto del balcone per farlo vedere meglio. Appena Blanket
aveva scalciato con il suo piedino Michael lo aveva riportato
dietro la ringhiera, mantenendo, ne ero certo, una presa ferma
come faceva sempre. Non lo avrebbe mai lasciato cadere in
camera, figuriamoci dal balcone. Non avrebbe mai fatto del male
ai suoi bambini, né li avrebbe messi in pericolo. Michael da anni
comunicava con i suoi fans dai balconi degli alberghi. Per lui era
del tutto naturale condividere con loro il suo ultimo amatissimo
figlio.
Allo stesso tempo mi resi conto di quanto fosse stato imprudente
e azzardato il suo comportamento. Era una follia tenere un
bambino a quell'altezza, anche con una presa salda. Se Michael
era sembrato pazzo per la storia dell'autobus intorno all'edificio
della Sony o per un cerotto sul naso, adesso che aveva
sottoposto a un simile rischio la vita di suo figlio doveva apparire
del tutto svitato.

Dall'esterno la situazione era «grigia». Dopo quel grave errore di


valutazione, così a ridosso della storia sul suo aspetto fisico, la
gente cominciò seriamente a porsi dei dubbi sulla sua sanità
mentale. Sapevo meglio di chiunque altro che Michael non era
pazzo; eccentrico sì. ma certo non pazzo. Ma come fosse
realmente non era importante. Ciò che contava era il modo in cui
era stato recepito l'episodio del balcone: quello che era iniziato
come una estemporanea mancanza di giudizio, presto si
trasformò in uno scandalo in piena regola. Come la maggior
parte degli errori di Michael, anche questo venne filmato e
riproposto al pubblico milioni di volte. Ormai, invece che
concentrare l'attenzione solo sul naso si iniziava a dubitare della
sua capacità di padre.
La gente vedeva tutto il bene che indubbiamente Michael aveva
fatto a questo mondo, ma trovava difficile conciliare la sua
generosità e filantropia con il resto del suo personaggio pubblico.
Questa contraddizione fu più evidente che mai la sera
successiva, quando Michael ricevette il premio Bambi e fu
proiettato in anteprima il video di Marc Schaffel What More Can I
Gire. Avrebbe dovuto essere un momento emozionante e intenso
nella lunga carriera di un grande musicista, ma poiché era stato
preceduto dall'episodio di Blanket, non aveva alcun senso. I due
eventi accostavano le contrastanti di Michael che il pubblico
lottava per conciliare: da una parte, l'uomo imprevedibile e
dall'aspetto strano, che copriva i volti dei suoi figli e che
imprudentemente ne aveva tenuto uno sospeso fuori da un
balcone; dall'altra, il genio musicale che cercava di mettere il suo
lavoro a disposizione e a beneficio dell'umanità. La gente amava
questo secondo Michael, ma per qualche ragione si sentiva
costretta a pensare le cose peggiori riguardo al primo.
Quando Michael e i figli tornarono dalla Germania cenammo
insieme, mettemmo a letto i bambini e parlammo del viaggio.
Michael aveva rilasciato una dichiarazione in cui definiva «uno
sbaglio terribile» l'episodio del balcone e aggiungeva di essersi
«lasciato prendere dall'eccitazione del momento», ma che non
avrebbe mai «messo in pericolo volontariamente le vite dei [suoi]
bambini». Mi ripete più o meno le stesse parole, ma con un tono
leggermente di difesa.
«I fans volevano vedere il bambino», spiegò. «Gliel'ho mostrato.
Lo tenevo saldamente. Non metterei mai mio figlio in pericolo.»
Punto. Fine della discussione.
Ma ovviamente, solo perché era chiusa per Michael non
significava che lo fosse per tutti. Per molti, il danno era fatto.

Poco dopo il suo rientro Michael avrebbe dovuto comparire di


nuovo in udienza per la causa di Marcel Avram. L'ultima volta
c'era stato tutto quel circo mediatico sul suo aspetto fisico. Poi si
era verificato l'episodio di Blanket in albergo. Questa volta
Michael non si presentò in tribunale, dichiarando che era stato
morso su una gamba da un ragno. La stampa speculò all'infinito
sulla veridicità di questa affermazione. In realtà Michael, come
faceva ogni tanto, si era ricoverato in ospedale per una flebo di
vitamine e integratori. Nel cuore della notte si era svegliato per
andare in bagno e, dimenticando dov'era e di avere ancora la
flebo attaccata, si era alzato e aveva strappato via gli aghi dalla
gamba. Per giustificare la sua assenza in tribunale aveva
mostrato la gamba ferita al giudice e aveva addotto la scusa del
ragno. Il giudice l'aveva guardata e non aveva detto niente: forse
aveva capito che non si trattava di quello, ma aveva saggiamente
lasciato correre.

Nonostante il fermento mediatico creato dall'episodio di Blanket


in albergo, il Natale 2002 a Neverland fu favoloso. C'erano la mia
famiglia, quella di Omer Bhatti, e persino quella del dottor
Parshchian, una famiglia dalla Germania con cui Michael aveva
fatto amicizia.
A noi tutti piacevano le grandi feste natalizie, con tanto cibo,
regali e bambini chiassosi.
La prassi era la stessa da anni. Nei mesi precedenti la festa
Michael e io andavamo insieme ad acquistare i regali, a volte
incaricando Karen di aiutarci a trovare quello che avevamo in
mente. Mettevamo tutti gli acquisti nella casermetta dei vigili del
fuoco (considerate le dimensioni e l'isolamento di Neverland, le
nonne assicurative e la legge statale della California avevano
imposto la presenza di un dipartimento antincendio in loco, con
un camioncino dei pompieri, personalizzato con il logo di
Neverland, e vigili del fuoco a tempo pieno). Lo staff del ranch
incartava lutti i regali etichettandoli con il loro contenuto. Poi, la
vigilia di Natale, Michael e io scrivevamo il nome dei destinatari
sui pacchetti e li mettevamo sotto l'albero, pronti per la mattina
seguente. Il giorno di Natale dormivamo tutti in casa, ma
sapevamo che non avremmo aperto subito i regali perché mio
padre lavorava sempre durante la vigilia e non potevamo
cominciare prima dell'arrivo del suo volo dalla costa orientale.
Allora ci vestivamo tutti eleganti... e poi aspettavamo. Prince e
Paris erano molto pazienti, non solo perché erano abituati al
rituale, ma anche per il senso di gratitudine e rispetto che il papà
aveva insegnato loro. Quando arrivava mio padre, Michael si
metteva accanto all'albero porgendo i regali, stile Babbo Natale.

Qualche giorno dopo Capodanno se ne andarono tutti e io e


Michael trascorremmo la giornata guardando film e facendo
qualche lavoro nel suo ufficio. Nel tardo pomeriggio decidemmo
di spostarci in cantina, il nostro accogliente ritrovo segreto,
nascosto sotto la sala giochi: la porta per accedervi si
mimetizzava sulla parete e per trovarla bisognava sapere
dov'era.

Una volta scesi, aprimmo una bottiglia di vino bianco. Io adoro il


vino rosso, ma Michael preferiva il bianco. Quel pomeriggio
parlammo del futuro, di quali sarebbero stati gli obiettivi per
l'anno a venire. Fin dall'inizio le sue parole furono audaci e
ambiziose, e sembrava convinto di quanto diceva.
«Voglio tirarmi fuori da quel casino finanziario in cui le persone
hanno trasformato la mia vita», affermò.
Era la prima volta che ammetteva con me, o per quanto ne so,
con chiunque altro, che aveva guai economici. Il fatto che
volesse finalmente affrontare la situazione era sorprendente.
«Sì, è colpa loro», risposi. «Ma è anche colpa tua perché hai
lasciato che accadesse.»
«Dovevo concentrarmi sulla creatività», disse con un leggero
tono difensivo nella voce. «Sai, quando feci Off the Wall e Thriller
ero io che firmavo ogni singolo assegno in uscita. Allora tutto
scorreva liscio.»
«Cos'è cambiato?» chiesi, ed ero davvero interessato a saperlo.
«Perché hai lasciato che altri si occupassero del tuo denaro?»

«Era diventato un affare troppo grande perché riuscissi a


gestirlo», spiegò.
Poteva sembrare ovvio, ma fu l'unica volta che sentii Michael
ammettere di avere delle responsabilità per la situazione in cui
versava e per il malfunzionamento della sua organizzazione.

Anche oggi, a distanza di anni, e difficile capire perché fosse così


riluttante a discutere questi problemi, con me o con chiunque
altro. Ovviamente, in parte era colpa della diffidenza e della
paranoia, ma per me queste erano solo una parte dell'equazione.
Nella sua lotta per accettare la realtà. Michael poteva isolarsi,
poteva stare a Neverland, poteva appagare i suoi capricci, ma
alla base di tutti gli elementi del suo stile di vita c'erano le
finanze. Dichiarare espressamente che erano nel caos lo
rendeva un problema reale, uno di quelli che non poteva più
evitare.
Quando Al Malnik se ne fece carico, assicurò a Michael che lo
avrebbe tirato fuori dalle difficoltà in cui era piombato. Ma
aggiunse anche: «Non ce la faccio se tu non fai la tua parte».

E sembrava che Michael avesse preso sul serio quelle parole.


Doveva farlo, se voleva che le cose cambiassero. Fu soprattutto
per mantenere il benessere dei propri figli che fu costretto ad
affrontare quello che per tanto tempo aveva evitato.
Parlammo un po' dei miei progetti. Stavo ancora cercando di
scoprire cosa volessi fare della mia vita, ma ora Michael disse:
«Sai che posso sempre chiedere il tuo aiuto. Sei tu che te ne sei
andato, ricordi? Possiamo ancora lavorare insieme».

«Sì», risposi, «si può fare.» In quel momento mi resi conto che la
maggior parte delle persone dell'organizzazione con cui avevo
avuto problemi non erano più sulla scena: Michael e Al Malnik se
ne erano liberati.
Non prendemmo alcuna decisione, ma la verità era che da
quando stavo con lui a Neverland ero tornato nella mia «zona
benessere», e non parlo solo della cantina, anche se ovviamente
ci stavo particolarmente bene. Sapevo tutto del mio lavoro:
sapevo cosa voleva Michael e come voleva che fosse fatto.
Fu un bel momento. Entrambi ci trovavamo di fronte a una
svolta. Io mi ero allontanato, ma infine avevo trovato la via del
ritorno. Lui aveva finito un album e affrontava la dura realtà della
sua situazione finanziaria, pieno di voglia di ricominciare.
Rimanemmo seduti nella tranquilla intimità della cantina,
riflettendo sulle nostre vite, su come eravamo arrivati lì e su dove
ci saremmo diretti una volta ripartiti.

Non molto tempo dopo Capodanno, Michael andò a Miami con i


bambini. Mi disse che durante la sua assenza avrei potuto
invitare qualcuno al ranch. Mi era sempre piaciuto portare a
Neverland qualche amico, e questa volta mi venne un'idea
piuttosto audace: decisi di chiamare Court e Dereck.
Sarò apparso presuntuoso (e forse lo ero), ma avevo le mie
ragioni. A quel punto la causa legale che avevano intentato
contro Michael stava per risolversi in tribunale. Sapevo che
Michael aveva la colpa di non aver rispettato i termini del
contratto, ma la sua visione del problema era più semplicistica.
Quando ne parlammo a Natale, mi disse: «Sei stato tu a riportarli
nella mia vita. Ora mi l'anno causa, perciò risolvila».
«Ok», risposi, «parlerò con loro in privato. Farò qualunque
mossa in mio potere per sistemare la faccenda e interrompere
l'azione legale.»
«Porta loro i mici saluti», aggiunse Michael, «e digli che è un
peccato che le cose siano andate così, ma che continuano
comunque a piacermi.»
Le due parti erano ansiose di trovare un accordo: sapevo che
anche Court e Derck ricambiavano la stima e il rispetto che
Michael nutriva per loro e pensavo che gli avvocati, come fanno
sempre, stessero trascinando la causa per le lunghe più del
necessario. Così, mentre i due team legali procedevano con il
loro tira e molla, io proseguivo nel parlare con entrambe le
fazioni. Ripetevo e rassicuravo Court e Derek che i ritardi non
dipendevano da Michael, e continuavo a ricordare a Michael che
aveva firmato un contratto e che doveva loro dei soldi.

Mi sentivo parzialmente responsabile della situazione. Ormai


l'accordo c'era, bastava firmarlo. Michael sosteneva sempre che
il modo migliore per concludere un affare era portare la gente a
Neverland. Pensai che se i miei due amici fossero tornati al
ranch coinè ospiti, come avevano fatto tante volle in passato,
avrebbero compreso che i giorni del rancore erano finiti. Certo,
era un gesto piuttosto estremo invitare in casa di Michael chi gli
aveva fatto causa, e sicuramente per i suoi legali dovevo avere
qualche rotella fuori posto. Ma gli avvocati tendono a non
considerare le negoziazioni come parte della natura umana.

Così, nel bene o nel male, i due ex collaboratori vennero al


ranch. Passammo una bella serata. Court e Derek ci tenevano a
precisare che non volevano veramente perseguire Michael
legalmente, volevano solo essere pagati per il lavoro svolto.
Quando ripartirono avevano capito che Michael li rispettava e
non tollerava il fatto che le cose si fossero spinte così lontano.
Tutti erano d'accordo che dovevamo lasciare da parte i
risentimenti e portare avanti l'accordo.
Quella notte, mentre Court e Derek erano ancora a Neverland,
mi chiamò Michael. Era a Miami con i miei fratelli Aldo e Marie
Nicole, e aveva saputo quello che stava succedendo al ranch.

«Frank, perché cazzo hai invitato quella gente a Neverland?» mi


chiese. Non diceva mai parolacce, a meno che non fosse
particolarmente arrabbiato o stesse scherzando. Purtroppo, ero
abbastanza sicuro che non stesse scherzando.
«Non capisci, lascia che ti spieghi...» cominciai. Credevo che
fosse ovvio anche per lui che stavo facendo quello che gli avevo
promesso: cercare di interrompere l'azione legale. Altrimenti
perché avrei dovuto invitarli al ranch? Come poteva pensare che
l'avessi fatto per i miei interessi personali? «Non capisci che i
tuoi avvocati vogliono tirare per le lunghe questa storia?» gli
dissi. «Più dura e più guadagnano. Puoi risolverla ora e finirla
una volta per tutte.»
Non mi meravigliava affatto che i legali di Michael fossero di
opinione diversa, e per quanto li riguardava il mio invito e la visita
che ne era seguita rafforzavano la loro convinzione che io fossi
un ostacolo.

Così colsero al volo l'opportunità di portare Michael dalla loro


parte convincendolo che stavo facendo una cazzata. Sembrava
che fossi l'unico a ritenere che gli avrei fatto risparmiare milioni di
dollari cercando di placare gli animi e invitando Court e Derek a
trovare un compromesso.

Provai a calmare Michael, ma era infuriato. Mentre parlavo


sentivo la sua voce in sottofondo che commentava ai miei fratelli:
«Non crederete mai a ciò che ha appena fatto Frank». Quando
cominciai a spiegare, lui mi interruppe: «Perché non stai mai ad
ascoltare?»
«Perché non stai mai ad ascoltare tu?» ribattei. Poi rinunciai.
«Fans culo. Ovviamente non afferri quello che cerco di fare per
te. Sono tuo amico, sto cercando di aiutarti perché mi sento
responsabile di questo casino. Ma fai quello che vuoi. Continua a
pagare fior di quattrini ai tuoi avvocati per fare qualcosa di
totalmente inutile. Ci rinuncio.» E riagganciai il telefono.
Sapevo fin dall'inizio che quanto stavo facendo era poco
ortodosso, ma ero certo che avrebbe funzionato. Non mi
importava nulla di quello che i suoi avvocati (o chiunque altro
dell'organizzazione) pensasse di me su questa faccenda. Mi ero
già fatto dei nemici parlando apertamente e facendo ciò che
ritenevo fosse meglio per Michael. Era di lui che mi importava.
Forse sembrerò arrogante, ma onestamente credevo che il mio
operato rispettasse le sue istruzioni. Mi aveva detto di fare il
necessario per raggiungere un accordo, aggiungendo che non
voleva più sentirne parlare, voleva solo che fosse concluso. Uscii
in direzione della piscina e mi imbattei in Macaulay Culkin, che
era in visita a Neverland con i suoi due amici Mila Kunis e Seth
Green.
«Che hai combinato?» mi chiese, e poi aggiunse: «Michael è
davvero incazzato con te». Però! Le notizie corrono. Capii che
Michael aveva appena parlato con Mac.
«Non me ne importa niente», risposi, e gli spiegai cosa stava
succedendo.
Dopo dieci minuti mi telefonò Karen. Con il suo modo di fare
calmo e comprensivo mi disse: «Michael è dell'idea che sia
meglio se tu lasci il ranch».
«Nessun problema. Faccio i bagagli.»
Mi stavano cacciando da Neverland.

Non feci parola con Court e Derek. Quando Michael è arrabbiato


diventa spietato. Avevo la sensazione che si sarebbe calmato.
Come presupponevo, dopo dieci minuti il telefono squillò di
nuovo. Era Michael. Ero arrabbiato e ferito e volevo che lo
sapesse. Prima che potesse aprire bocca, Io anticipai.
«Vuoi che me ne vada? Me ne vado.»
«Non voglio che tu te ne vada», rispose pacato. «Voglio che tu
venga a Miami domani.»
Non so perché, ma quelle parole non mi sorpresero. Litigare con
lui era come litigare con mio padre, c'erano persino i miei fratelli
che si intromettevano all'altro capo del telefono. Nonostante tutta
la mia furia mi era bastato sentire la sua voce per capire che mi
aveva perdonato. Ripensandoci adesso, mi chiedo come fosse
possibile che i nostri sentimenti passassero da un estremo
all'altro in pochi secondi. Qualche minuto prima stavamo
urlandoci a vicenda la nostra ira. Ma nessuno di noi due aveva il
coraggio di rimanere arrabbiato. Semplicemente, non era nella
natura della nostra amicizia. Eravamo sempre pronti a
perdonarci.
Perciò cosa feci? Saltai su un aereo e volai a Miami.

CAPITOLO VENTI - INCOMPRESO

Sull'aereo per Miami scrissi una lunga lettera a Michael nella


quale spiegavo le ragioni per cui avevo portato Court e Derek a
Neverland. Gli ricordavo di avermi invitato a fare tutto ciò che
potevo per risolvere il problema. Gli dicevo di aver seguito il suo
suggerimento su come concludere un affare. Avevo seguito il
mio istinto, come mi aveva sempre consigliato di fare, e per
quanto poco ortodosso fosse stato il mio comportamento, era
animato da buone intenzioni. La lettera non era solo
un'autodifesa, la buttai anche sul sentimentale. Eravamo stati
così bene a chiacchierare nella cantina, e guarda poi cos'era
successo. (Gli espressi chiaramente quanto mi rattristasse
trovarmi nel mezzo di un'azione legale, quanto fossero importanti
per me i sentimenti di entrambe le parti e gli ribadii la mia
determinazione a risolvere il problema. Volevo provare a me
stesso di essere in grado di sistemare il guaio che avevo
involontariamente creato.
L'ultima volta che Michael era stato così arrabbiato con me
risaliva ai giorni in cui gli era stato riferito, falsamente, che avevo
chiesto denaro per organizzare un appuntamento con lui. Ora,
invece, ce l'aveva con me per qualcosa che avevo effettivamente
commesso. Cercando di appianare la questione, mi ero spinto
troppo in là. Avevo oltrepassato i miei limiti, anche perché, a dire
il vero, quei limiti mi stavano un po' stretti.

Ero giovane, e credevo che le mie buone intenzioni mi


garantissero carta bianca.
Quando arrivai a Miami chiesi a una guardia del corpo di
consegnare la lettera a Michael. Mezz'ora più tardi mi chiamò
nella sua stanza, mi abbracciò, mi ringraziò per quello che avevo
scritto e si scuso per avere esagerato: un evento più unico che
raro.
«Dovevi spiegarmi la tua mossa», disse. «Non puoi portare
gente a casa mia in quel modo. Devi avvisarmi prima.»
«Mi dispiace», risposi. «Volevo solo sistemare la faccenda di
Court e Derek. Non volevo giungere a questo. Farti arrabbiare
era l'ultima cosa che avrei desiderato.»
«So che hai sempre buone intenzioni, ma devi stare attento. Se
qualcosa va storto sono io a pagarne le conseguenze», mi disse.
«Ti voglio bene, Frank. Dimentichiamo tutto e andiamo avanti.
Tuo fratello e tua sorella sono nell'altra stanza. Vai a salutarli.»
Da quel momento, riprendemmo da dove eravamo rimasti.
Michael era di buonumore e in un certo senso sembrava che
avessimo riavviato il nostro rapporto. Sfortunatamente, appena
risolto quel problema se ne presentò subito un altro.
L'intervista di Bashir, Living with Michael Jackson, fu mandata in
onda in Europa il 23 febbraio 2003 e negli Stati Uniti tre giorni
dopo. Un paio di giorni prima della trasmissione, Michael chiese
di poter ascoltare un veggente. Credeva abbastanza negli
indovini, ed era curioso di sapere che cosa lo attendesse nel
futuro. Su consiglio del dottor Parshchian telefonammo a una
donna all'estero. Michael, i bambini e io eravamo in ascolto,
mentre la moglie del dottore traduceva le parole della veggente.
Ci furono subito brutte notizie.
«Sarai accusato», pronosticò la donna. «C'è qualcuno che cerca
di sabotarti. Fai attenzione.» Poi continuò: «Ma non hai niente di
cui preoccuparti, alla fine si concluderà tutto bene». Michael
andò fuori di testa. Non sopportava l'idea di essere accusato o
che le sue intenzioni fossero nuovamente messe in discussione.
Si precipitò in bagno, dove cominciò rompendo uno specchio, e
con questo ho detto tutto. Ce l'aveva con la propria immagine, il
riflesso che la gente vedeva. Aveva assunto Bashir per farsi
capire meglio, e invece la veggente aveva predetto che la
situazione, prima di migliorare, sarebbe ancora peggiorata.
Quelle previsioni si avverarono abbastanza presto. Dapprima
venne il sabotaggio.
Da mesi Michael ripeteva di avere l'ultima parola sul contenuto
del documentario. L'accordo era quindi che Martin Bashir
sarebbe venuto a Miami per un'anteprima di Living with Michael
Jackson. Tuttavia Bashir non si presentò all'appuntamento e
continuò a rimandare il viaggio. Quando fu chiaro che si stava
inventando delle scuse, era troppo tardi. Cercammo di bloccare
la trasmissione negli Stati Uniti, ma ormai non era più possibile.
Aldo e Marie Nicole, che erano ancora a Miami, guardarono il
documentario nella suite di Michael, ma lui non volle unirsi a loro:
non gli era mai piaciuto vedersi in TV. Mentre i miei fratelli
seguivano la trasmissione, lui entrava e usciva dalla stanza
chiedendo: «Siete sicuri di volerlo guardare? Perché lo volete
vedere?»
Nel frattempo io seguivo l'intervista dalla mia stanza d'albergo
insieme con il dottor Parshchian, provando un misto di sgomento
e rassegnazione. Il documentario non rendeva per niente il
Michael che conoscevo io, il Michael umile, filantropo, musicista
di talento, che spendeva denaro ed energie a favore dei
bambini... A Bashir non importava niente di tutto questo. Era un
sensazionalista, interessato solo agli aspetti più superficiali della
vita di Michael: lo shopping esagerato e la chirurgia plastica.
Era tutto piuttosto squallido, ma la parte più compromettente
giunse quando Bashir affrontò il rapporto del cantante con i
bambini. Michael aveva voluto inserire Gavin Arvizo nel
documentario con l'intenzione di farsi capire meglio: mostrare
l'impegno profuso in favore di bambini bisognosi Io avrebbe
aiutato a raggiungere il suo scopo. Gavin era un esempio di
prim’ordine.
Nel video di Bashir, Michael teneva la mano di Gavin e diceva al
mondo che i bambini dormivano nel suo letto. Chi lo conosceva
poteva cogliere l'onestà e il candore innocente delle sue parole,
ma Bashir era determinato a presentare i fatti sotto una luce ben
diversa.
Ciò che Michael non si preoccupò di spiegare - e che Bashir si
guardò bene dal chiedere - era che la sua suite a Neverland era
un punto di ritrovo, con una sala ricreativa al piano terra e una
camera al piano di sopra. Michael non chiarì che le persone
trascorrevano lì le giornate, e che qualche volta volevano
fermarsi anche la notte. Non disse che di solito offriva il suo letto
agli ospiti e che spesso lui dormiva nella stanza al piano di sotto,
sul pavimento. E, elemento forse più importante, non specificò
nemmeno che questi ospiti erano sempre amici intimi, come noi
Cascio, o i componenti della sua famiglia allargata.
Una delle maggiori falsità su Michael - che lo ha tormentato per
anni dopo quel documentario - raccontava che c'era sempre uno
stuolo di bambini pronti a passare la notte in camera sua. In
realtà, non è che chiunque potesse venire a Neverland e dormire
nella sua stanza. Proprio come avevamo fatto io e mio fratello
Eddie da piccoli, la famiglia e gli amici che rimanevano la notte
erano lì per loro scelta. E Michael acconsentiva perché sapeva
che volevano stare in sua compagnia.
Quanto Michael dichiarava nel video di Bashir era vero: «Puoi
avere il mio letto e dormirci, se vuoi. È tuo. Io dormirò sul
pavimento. Agli amici do sempre il meglio, lo sai». Non temeva di
raccontare la verità perché non aveva nulla da nascondere:
sapeva che le sue azioni erano sincere, i suoi scopi puri e la sua
coscienza pulita. Michael ammetteva con candore: «Sì,
condivido il mio letto. Non c'è niente di sbagliato in questo». Il
problema è che per «condividere» intendeva dire «offrire» il suo
letto a chiunque volesse dormirci.

Se a volte era rimasto anche lui, in genere dormiva per terra


accanto al letto oppure al piano di sotto, sempre sul pavimento.
Bashir, per ovvie ragioni, continuava a battere sul tasto del letto,
ma se si guarda l'intervista integrale, senza tagli, è impossibile
non capire quello che Michael cercava di spiegare: quando
parlava di condividere il suo letto, intendeva che condivideva la
sua vita con le persone considerate di famiglia.
So bene che solitamente un adulto non divide i propri spazi
privati con dei bambini, e spesso chi lo fa non è animato da
buone intenzioni. Ma non è ciò che mi è successo con Michael.
Avendo dormito innumerevoli volte con lui assieme a mio fratello,
so meglio di chiunque altro cosa accadeva e cosa non accadeva.
È normale trascorrere la notte con dei bambini? No. Ma, allo
stesso modo, non è ritenuto tanto normale che un adulto giochi
con le stelle filanti o con i Palloncini d'acqua, almeno non con
l'entusiasmo di Michael. E non è neanche normale che un adulto
abbia un parco giochi in giardino. Tutte queste particolarità
trasformano un uomo in un pedofilo? Sono certo che la risposta
è no.
Lo ripeto un'altra volta: l'interesse di Michael per i ragazzini non
aveva assolutamente niente a che fare con il sesso. Lo ribadisco
con l'indiscutibile certezza della mia esperienza personale: con la
certezza di un ragazzino che ha dormito nella sua stanza
centinaia di volte, e con l'assoluta convinzione di un uomo che lo
ha visto interagire con migliaia di bambini. In tutti gli anni che «li
sono stato vicino non ho mai notato niente che mi mettesse in Tv
allarme, ne come bambino né come adulto. Michael può essere
stato eccentrico, ma questo non fa di lui un criminale.

La questione era però che questo punto di vista non veniva


presentato nel documentario. Ascoltando le parole di Michael, le
persone che non lo conoscevano rimanevano turbate, e non solo
perché le sue frasi venivano estrapolate dal contesto, ma anche
perché Bashir, il narratore, le costringeva a sentirsi turbate. Il
giornalista suggeriva ripetutamente che le dichiarazioni di
Michael lo mettevano molto a disagio.
Di certo Michael era sufficientemente eccentrico anche senza le
macchinazioni di un avido cacciatore di notizie, ma non c'era
dubbio che Bashir ne approfittasse per manipolare gli spettatori.
Le sue domande erano tendenziose, il montaggio fuorviarne.
Mentre guardavo il filmato mi sembrava che l'intenzione di Bashir
fosse stata di mostrare Michael in qualunque modo pur di fare
audience.

Per fortuna Michael era stato quasi sempre accompagnato da un


altro documentarista, che aveva anche lui registrato l'intervista.
Quei nastri di materiale medito rivelavano un'immagine più
completa e davano un'idea del genere di domande poste da
Bashir, di come le aveva formulate e le opinioni che aveva
espresso allora sulla vita di Michael (che ovviamente erano
sempre positive e lusinghiere). In questo contesto più ampio, si
capisce subito che Bashir, con una buona dose di opportunismo,
aveva montato il materiale dandovi il taglio più sensazionalistico
possibile.
Questo valeva sia per il documentario in sé. sia percome Bashir
lo aveva promosso. Per esempio, in un'intervista al riguardo
disse: «Uno degli aspetti più inquietanti è il fatto che un sacco di
bambini emarginati vadano a Neverland. E un posto pericoloso
per bimbi tanto vulnerabili». Tutt'altro rispetto a ciò che aveva
detto a Michael durante la vera intervista. Parlando dei ragazzi
dei quartieri degradati in visita a Neverland, ciò che aveva detto
a Michael era: «Ero qui (a Neverland] ieri e ho visto, è qualcosa
di estremamente [edificante] per lo spirito».

Persino il New York Times riconobbe che Michael era rimasto


vittima dei «biechi interessi di un giornalista camuffati sotto una
falsa comprensione». Michael rispondeva alle domande di Bashir
con onestà, spiegando la sua strana ma innocua inclinazione a
giocare con i bambini come fosse uno di loro. Ne aveva
già parlato apertamente in precedenti interviste, come quando
aveva dichiarato alla rivista Vibe che l'ispirazione per la canzone
«Speechless» gli era venuta dopo una battaglia con i Palloncini.
Si era espresso così: «Dalla gioia scaturisce la magia, la
meraviglia e la creatività». Allora nessuno lo aveva contestato.
Tuttavia Michael sembrava non afferrare il concetto che le
mutevoli opinioni del pubblico sul suo conto facevano cambiare
di pari passo le intenzioni di gente come Bashir, e lo rendevano
vulnerabile agli attacchi dei media, affamati di scandali come mai
in precedenza. Attraverso l'episodio del bimbo sospeso nel
vuoto, le maschere indossate dai figli, i matrimoni poco chiari,
Michael percorreva la vita come aveva sempre fatto: a modo
suo. Viveva nel suo mondo e si comportava con la stessa
semplicità che da sempre lo caratterizzava. Non aveva
coscienza di come le sue parole e le sue azioni potessero essere
percepite, e nemmeno si era mai curato veramente di capire
come potesse apparire il suo comportamento dall'esterno.
Per anni aveva per lo più evitato la stampa, ma quando passava
vicino a un'edicola e scorgeva una rivista che. riferendosi a lui, lo
chiamava «Wacko Jacko», si sentiva ferito.
«Che cosa mi rende Jacko il pazzoide?» chiedeva. «Sono forse
pazzo secondo te?»
«No, tu non sei pazzoide», rispondevo. «Solo matto da legare. E
ti puzza il fiato.»
Ci ridevamo sopra, ma sapevamo entrambi che Michael si
preoccupava di ciò che la gente pensava di lui. Ne era sconvolto,
ma tutte le chiacchiere sul suo conto per lui erano solo falsità,
non riflettevano chi era veramente. Sono d'accordo con lui. Ho
visto questa dinamica in atto nell'intervista di Bashir, così come
nella maniera in cui fu trattato il famigerato episodio del bimbo
sospeso nel vuoto. Piccoli frammenti di vita, estrapolati dal
contesto, possono facilmente piegarsi a manipolazioni per far
apparire pazza una persona. Nessuno ha mai subito l'esame
spietato cui era sottoposto Michael ogni giorno della sua vita: e
purtroppo tanta attenzione servì soltanto a intensificare le sue
eccentricità.
Forse l'aspetto più triste del video di Bashir era che Michael vi
aveva partecipato con le migliori intenzioni. Era stato molto
disponibile all'intervista credendo ottimisticamente che, nel giusto
contesto e con le giuste spiegazioni, il pubblico lo avrebbe amato
e accettato per quello che era. Voleva rimettere in sesto le
proprie finanze assumendone il controllo diretto, e forse nello
stesso modo, cioè comunicando direttamente con il suo pubblico,
avrebbe voluto correggere le false opinioni che il mondo aveva
su di lui. Aveva sperato che l'intervista di Bashir lo avvicinasse ai
suoi fans e a un più ampio pubblico. Intendeva essere sincero
sulla sua vita ed essere compreso. Riteneva che il documentario
sarebbe stato qualcosa di cui andare orgoglioso, che avrebbe
mostrato un giorno ai suoi figli, una parte della sua eredità.
Invece, per la seconda volta, il mondo uso la più grande
passione di Michael, aiutare i bambini, per accusarlo del
contrario: di far loro del male. Per me ciò cozzava contro ogni
logica. Una atrocità. Conoscevo Michael praticamente da
sempre. Era una persona magica, non ne avevo mai incontrata
una così. E invece il mondo aveva una visione totalmente
distorta sul suo rapporto con i bambini.
Di fronte alle reazioni del pubblico e della stampa al filmato,
Michael rimase profondamente deluso.
«Mi fidavo di Uri», commentò. «Mi fidavo di Martin Bashir. Non
posso credere a quello che sta succedendo. E tutto così
assurdo. Dovevo fare io la revisione finale.»
Michael non rivolse più la parola a Uri Geller, ma era arrabbiato
con se stesso per essersi fidato delle persone sbagliate. Non lo
ha mai ammesso, ma capii dal suo disappunto che si era reso
conto di quanto quel disastro fosse colpa sua.
In passato, il disprezzo di Michael per le opinioni della gente gli
avrebbe impedito di rispondere pubblicamente, ma ora che
aveva dei figli, era deciso a impostare le cose in modo chiaro. Ha
rilasciato una dichiarazione dicendo che pensava che nel video
c’era stato un "travisamento della verità." Allora Michael e io
abbiamo parlato con Marc Schaffel. Michael non solo sapeva che
Marc avrebbe trovato una soluzione per risolvere il problema, ma
Marc gli piaceva anche perché lavorando con lui ci si poteva
scherzare. Marc aggiungeva leggerezza ad ogni sfida. Abbiamo
deciso di fare un video di confutazione, mostrando il vero
Michael ed esponendo i travisamenti viziosi di Bashir.
Il mio obiettivo ora era quello di utilizzare i filmati che l’equipe di
Michael aveva ripreso l’intervista. Il tutto al fine di riabilitare il
nome di Michael. Immediatamente ho cominciato a lavorare con
Marc su The Michael Jackson Video: il filmato che non
avreste mai dovuto vedere. Abbiamo criptato il video,
evidenziando le modifiche che aveva manipolato Bashir,
avevamo quindi la versione reale, così gli spettatori potevano
vedere esattamente come le parole di Michael erano state
palesemente contorte per farlo vedere in una luce negativa.
In questo periodo, Marc Schaffel aveva chiesto Debbie Rowe se
voleva partecipare alla confutazione. Marc conosceva Debbie da
anni. In effetti, è stato attraverso il suo ex datore di lavoro, il
dottor Klein, che Marc e Michael si erano incontrati la prima
volta. Debbie non era felice di avere sempre la stampa addosso,
a causa di Michele, per se stessa e i figli. Alcune storie, come il
bambino penzoloni, chiaramente aveva messo la competenza di
Michael come un padre in discussione. Altri hanno criticato la
loro struttura familiare, accusando la madre dei bambini di
essere stata spietata a vendere la sua prole a Michael. Debbie
era frustrata, diceva che non poteva difendere le sue decisioni e
le capacità genitoriali di Michael a causa della clausola di
riservatezza nella sua sentenza di divorzio. «Non mi piace come
i media dipingono Michael», riferì a Marc. «E se lui è d'accordo
non ho alcun problema a divulgarlo.» Così Michael e Debbie
firmarono un accordo che le dava facoltà di parlare di lui in veste
di padre. Non vi si specificava cosa avrebbe dovuto dire, ma le
dava piena libertà di rendere nota la sua opinione in un'intervista
con Marc. Il divieto assoluto di pronunciare qualsiasi frase
riguardo a Michael e ai bambini era un punto fermo del divorzio,
e lei voleva essere certa che le fosse davvero consentito
esprimersi al riguardo. Debbie e Michael ne discussero diverse
volte prima dell'intervista. I loro colloqui furono amichevoli, e
Michael sembrò contento di essere di nuovo in contatto con lei.
Erano stati amici per tanti anni prima che giornalisti e avvocati
complicassero i rapporti. Nell'intervista Debbie dichiarò: «I miei
figli non mi chiamano mamma perché sono io che non lo voglio.
Sono i bambini di Michael. Non è che non siano anche figli miei,
ma li ho avuti perché volevo che lui diventasse padre. Credo che
ci siano persone nate per essere genitori, e lui è una di quelle».
Durante la preparazione della registrazione, partimmo da Miami
e tornammo a Neverland per meglio affrontare l'assalto mediatico
post-Bashir. C'era talmente tanto da fare che chiamai Vinnie
perché venisse ad aiutarmi. Anche Gavin Arvizo e la sua famiglia
si unirono a noi, cercando di sfuggire ai tentacoli della stampa.
Ripensavo a quando Eddie e io eravamo tornati dalla tournée di
Dangerous, e a come i giornalisti avevano circondato la nostra
casa: la famiglia Arvizo non mi piaceva, ma essendo passato
anch'io da un'esperienza simile, pensai che meritassero riparo.

A Neverland gli Arvizo rilasciarono un'intervista per il video del


riscatto in cui dichiaravano senza mezzi termini che il
comportamento di Michael era sempre stato appropriato. I
ragazzi dissero che quando avevano dormito nel letto di Michael,
lui aveva trascorso la notte sul pavimento. Il 20 febbraio, il
Dipartimento di Los Angeles su istanza di un bambino e della
sua famiglia, gli Arvizo, in risposta ad una denuncia presentata
da un funzionario della scuola che aveva visto il video di Bashir.
L'intera famiglia, uno per uno, aveva nuovamente affermato che
Michael non aveva mai avviato alcun contatto inadeguato, e il
caso venne chiuso.
Tre giorni dopo, il 23 febbraio 2003, la nostra confutazione va in
onda, appena tre settimane dopo la trasmissione televisiva del
documentario di Bashir. E' stato ben accolto, e c'era una marea
di stampa a condannare le tattiche giornalistiche di Bashir.
Noi stavamo tutti facendo del nostro meglio per sistemare la
cosa, ma a parte questi sforzi, devo dire che i Arvizos erano
una scocciatura da avere intorno. Loro erano maleducati e
irrispettosi. I bambini hanno guidato i golf cart
selvaggiamente intorno alla proprietà, li facevano sbattere
contro le cose. (Immagino che scambiarono Neverland per il
padiglione paraurti auto.) Il comportamento della madre di
Gavin, Janet, era irregolare. Lei o chiedeva all’autista di
accompagnarla in qualche posto o stava rinchiusa nella sua
stanza tutto il giorno, ordinando i vari servizi al personale.
Ero come un baby sitter, e poiché stavo lavorando su altri
progetti, Vinnie è stato bloccato con l'ingrato compito di
trattare con loro.
Il comportamento bizzarro di Janet Arvizo divenne ben
presto oggetto di preoccupazione per me e Vinnie. La prima
causa di allarme è venuto quando lei si avvicinò Vinnie e ha
accusato uno dei manager di Michael di molestie sessuali.
"Voleva venire a letto con me", ha detto Vinnie. "Era lei a
cercare me, puoi chiedere a chiunque." Vinnie era venuto da
me, profondamente preoccupato. Era un'accusa scioccante
e sconvolgente, e sia lui che io non l’abbiamo presa molto
sul serio. Quando abbiamo iniziato a indagare, a parlare con
l'accusato e altre persone che Janet sosteneva che avevano
visto il comportamento del maneger, divenne presto evidente
che non fosse successo niente.
Un'altra volta, ero un Outback Steakhouse con Janet e i suoi
tre figli quando i due ragazzi annunciarono che da grandi
volevano entrare nel mondo del cinema.
«Se farete il vostro dovere a scuola», dissi, «un giorno vi
aiuteremo a realizzare i vostri sogni.»
Allora Davelin, la sorella, dichiarò: «Io voglio fare la dentista».
Janet si piegò su di lei, le sussurrò qualcosa all'orecchio e subito
la ragazzina cominciò a piangere. Poi, con un tono non troppo
convinto, annunciò: «Voglio fare l'attrice anch'io». Non
immaginavo quanto presto i ragazzi Arvizo avrebbero dimostrato
la loro abilità di attori. Una volta Vinnie era in un centro
commerciale con Janet, Gavin, Star e Davelin. Videro passare
una celebrità e subito Janet, elettrizzata, entrò in azione.
«Gavin», disse al figlio, «vai da lui e digli chi sei. Raccontagli che
sei il ragazzino del video di Michael Jackson.»
Gavin non era particolarmente ansioso di ubbidire, si girò e disse
a Vinnie: «Non voglio correre da qualcuno che non conosco e
raccontargli che sono amico di Michael Jackson». Riuscì a
indugiare finché la star non entrò in un negozio sparendo dalla
loro vista. Vinnie mi narrò tutta la storia. Evidentemente a Janet
piaceva che i suoi figli intrattenessero rapporti di amicizia con le
celebrità. Posso solo dire che era disgustoso.

Poi venne la sera in cui Gavin e suo fratello Star supplicarono


Michael perché li lasciasse dormire con lui.
«Possiamo dormire nella tua stanza, stanotte? Possiamo dormire
nel tuo letto?» pregavano i ragazzi.
«Mia madre dice che va bene se sei d'accordo anche tu»,
aggiunse Gavin.
Michael, che aveva sempre avuto difficoltà a dire di no ai
bambini, replicò: «Sicuro, non ci sono problemi». Poi venne da
me.
«Quella donna mi spinge addosso i ragazzi», denunciò
visibilmente preoccupato. Aveva una strana, spiacevole
sensazione. «Frank, non possono rimanere.» Era pienamente
consapevole dei rischi che correva nel condividere la sua stanza
con quei ragazzi, soprattutto perché era questo l'elemento che
aveva suscitato tanto scalpore nel video di Bashir.
«No», dissi semplicemente, «non possono rimanere. Quella
famiglia è pazza!»
Michael però non sapeva opporre un rifiuto a Gavin, così mi
chiese di gestire la situazione. Andai dai ragazzi e annunciai:
«Michael deve dormire. Mi dispiace, non potete stare nella sua
stanza».
Gavin e Star continuavano a chiedere con insistenza, io
continuavo a negare e quindi Janet si rivolse a Michael:
«Desiderano veramente stare con te. Per me va bene».
Michael cedette. Non voleva deludere i ragazzi. Il suo cuore si
era messo in mezzo, ma era ben consapevole del rischio. Mi
disse: «Frank, se si fermano nella mia stanza, tu starai con me.
Non mi fido della madre. È fuori di testa».
Ero del tutto contrario, ma replicai: «Va bene, facciamo quel che
dobbiamo fare». Avermi come testimone avrebbe salvaguardato
Michael da qualsiasi idea malsana che gli Arvizo potessero
covare. Per lo meno così pensavamo, ingenuamente.
Quella notte passammo il tempo oziando e guardando film. A un
certo punto Michael e io andammo in cucina per fare incetta di
vivande. Tornammo in camera con patatine, pudding alla
vaniglia, latte al cioccolato e noccioline.
Michael aveva appena regalato a Gavin un computer portatile, e
al nostro ritorno la scena che ci si presentò davanti agli occhi fu
quella di un tredicenne intento a sbirciare un sito porno su
Internet. Non credo che il ragazzino avesse il vizio di fare cose
simili. Era solo un adolescente che esplorava il Web per la prima
volta. Continuava a esclamare: «Frank, guarda questo. Frank,
guarda quello».
Non ci badavo molto, ma quando Gavin e Star fecero vedere
qualcosa sullo schermo a Michael, lui mi disse: «Frank, non
possono farlo. Non voglio che questa storia mi si ritorca contro».
E lasciò la stanza.

A un certo punto li feci smettere di guardare siti porno. Non era


stata un'idea mia, non gliel'avevo suggerito io, né avevo mostrato
loro niente di simile. Dal mio punto di vista erano solo ragazzi...
che facevano quello che facciamo tutti a quella età, quando
hanno libero accesso a Internet. Più tardi Michael ritornò nella
stanza e guardò un cartone animato.
Quella notte, io e lui ci preparammo i letti nella stanza di sotto,
ma i due ragazzi ci vollero nella stessa camera con loro, quindi
presero il letto mentre noi due dormimmo sul pavimento.
Il giorno successivo Michael mi disse che avevo fatto bene a
rimanere in quella stanza.
«Non mi piace la madre», commentò.
«Sono contento che finalmente te ne sei accorto: è malata nel
cervello», risposi.
«L'ho sempre saputo», ribatté; poi ripetendo un concetto che
avevo sentito molte volte, aggiunse: «Questi bambini innocenti
soffrono per colpa dei genitori».
Dato che il clamore suscitato dall'intervista di Bashir non
accennava a calare, pensammo che una vacanza ci avrebbe
fatto bene. Volevamo andare al mare e rilassarci, lasciando che
la situazione tornasse alla normalità. Marc Schaffel mise a nostra
disposizione un appartamento in Brasile, e decidemmo di partire.
Da parte mia non vedevo l'ora di partire. Spiagge... ragazze...
una vacanza di due settimane. Non stavo nella pelle. Ma Gavin
aveva degli appuntamenti con i medici, ed era evidente che gli
Arvizo erano riluttanti: così cancellammo il viaggio.
Finalmente il circo mediatico ci lasciò in pace. Un giorno Janet
chiamò dicendo che il nonno dei ragazzi era ammalato e che
volevano recarsi a fargli visita. Fu così che nel marzo 2003 li
congedammo. Erano al ranch da quasi un mese e tutti
a Neverland, sia i residenti sia lo staff, furono felici di vederli
togliere le tende.

I giornali specularono molto sull'enorme shock emotivo che il


video di Bashir aveva rappresentato per Michael, arrivando a
sostenere che non si fosse più ripreso, ma non era
assolutamente così. Dopo la trasmissione Michael non si era mai
scoraggiato. Nei sei o sette mesi successivi era rimasto a
Neverland. Anche io e Vinnie rimanemmo, facendo la spola tra il
ranch e la casa di Marc Schaffel a Calabasas, e ci divertimmo
tutti molto. L'energia era al massimo.

A Neverland aiutammo il regista Brett Ratner ad assemblare una


versione più lunga del video del riscatto, Michael Jackson's
Private Home Movies, che includeva spezzoni del documentario
di Bashir, video personali di Michael e nuove interviste ad amici e
componenti della famiglia, nella speranza di creare un ritratto
veritiero del cantante, quello che avrebbe voluto divulgare nel
mondo. Ogni tanto Brett arrivava accompagnato da belle donne,
cosa sempre molto interessante. L'attore Chris Tucker, grande
amico di Michael, viveva in un enorme pullman parcheggiato nel
ranch.

Registrammo l'intero video sul posto: non volevamo che uscisse


niente da Neverland, così vi portammo l'intera squadra di
produzione: io, Vinnie. Brett Ratner, Marc Schaffel e altri.
Insieme selezionammo il materiale tra ore e ore di filmati.
Quando si giunse ad assemblare i video privati, Michael
partecipò attivamente. Gli mostravamo gli spezzoni e lui ci dava
le indicazioni. Si era sempre interessato di cinematografia, e
questa collaborazione si dimostrò molto utile per consentirgli
Il controllo del modo in cui veniva rappresentato all'opinione
pubblica e per garantirne l'accuratezza.
II 24 aprile del 2003. quando Home Movies andò in onda su Fox
come special di due ore, il programma fu visto da moltissimi
spettatori e per Michael fu una grande vittoria. Naturalmente le
immagini positive non ottengono l'attenzione della stampa quanto
quelle negative. Dovevamo sperare che la gente cogliesse
l'occasione per farsi una propria opinione.
Subito dopo la trasmissione del video, io e Vinnie iniziammo a
lavorare su un nuovo progetto. Sempre allo scopo di riabilitare
l'immagine di Michael, avevamo intenzione di rilanciare il suo
marchio e il merchandising. Con un'adeguata gestione, la licenza
dell'immagine e del nome sarebbe stata, da sola, un business da
un miliardo di dollari. Mi ero preso una pausa dal lavoro con
Michael e ne avevo approfittato per esplorare nuove opportunità,
ma la verità era che quello era il posto dove volevo essere. Era
esattamente il ruolo che desideravo ricoprire.
Molto del mio entusiasmo veniva dalla consapevolezza di avere
a disposizione una grande squadra. Al Malnik continuava a
gestire le operazioni di Michael da Miami e, lasciatemelo dire,
faceva bene il suo lavoro. Tutto passava da lui. Dovunque ci
trovassimo ognuno faceva del suo meglio. Anche se dormivamo
solo due o tre ore per notte non era un problema, poiché tutti
avevamo l'adrenalina al massimo. Lavoravamo duro e ci
divenivamo. Credevamo in Michael e in quello che stavamo
facendo. Era come se avessimo messo in moto una macchina
per ricostruire l'attività, la carriera e l'immagine del cantante.

In quel periodo lui non stava più facendo uso di farmaci e il dottor
Parshchian gli aveva prescritto una cura a base di vitamine e
integratori che sembrava funzionare. Al Malnik seguiva
l'organizzazione e cercava di appianare tutte le controversie
legali: lo stava riportando in carreggiata per consentirgli di
riprendere a guadagnare. Michael, che non avrebbe potuto
incontrare una persona migliore, andava avanti e indietro da
Miami per parlare con lui e farsi visitare dal dottor Farshchain.
Stava lavorando ad un nuovo album, Number Ones, una raccolta
di successi. Nello studio provava alcuni pezzi nuovi, uno dei
quali, «One More Chance», avrebbe fatto parte nell'album.
Trascorreva anche del tempo con i figli. Blanket, che quell'estate
compiva un anno e mezzo, stava sviluppando un carattere
simpatico. Adorava Spider-Man. (Michael amava Spider-Man e
tutti i fumetti della Marvel, e naturalmente i figli facevano
altrettanto. Quell'anno, per il sesto compleanno di Prince, aveva
organizzato uno Spider-Man party.)
«Sono Spider-Man», dicevo a Blanket.
«No, sono io Spider-Man», rispondeva con la sua vocina buffa.
«Ma io sono Spider-Man», insistevo. Dopo aver portato avanti
per un po' il battibecco, Blanket faceva finta di catturarmi con la
ragnatela.
«Frank, devi cadere», diceva. «Ti ho preso.»
«No, mi hai mancato!» esclamavo. Tirava di nuovo e questa
volta mi accasciavo a terra, lottando contro quella tela invisibile.
In quel periodo la stampa raffigurava Michael come un uomo
intrappolato in una spirale che lo trascinava sempre più in basso.
La protesta contro la Sony sul tello dell'autobus, il bambino
sospeso dal balcone, il documentario di Bashir, i cambiamenti
del suo aspetto... Per il mondo esterno questi clementi avevano
gettato un'ombra sulla vita, il talento e la carriera di Michael.

Ma per quelli come noi che effettivamente lo conoscevano, quel


ritratto non poteva essere più lontano dalla realtà. Non sembrava
affatto che stesse perdendo il controllo, ne che fosse in declino.
In realtà, era più esuberante e impegnalo di quanto non fosse
stato negli anni precedenti. A me dava l'idea che avesse voltato
pagina, e non ero il solo a pensarla così. Tutti quelli che gli
stavano intorno provavano la stessa sensazione.
Se si confrontano le riprese di Michael in Private Home Movies
con quelle del video di Bashir, si comprende ciò che noi
vedevamo: e cioè quanto fosse più felice durante quella
primavera/estate a Neverland. In Home Movies è di nuovo lui.
Scherza e ride. Il suo comportamento è rilassato. Di giorno
lavorava sulla sua musica nella sala prove con Brad, la sera
cenava e socializzava con tutti: con Brett Ratner, Chris Tucker,
me, Vinnie, alcuni cugini e le belle ospiti di Brett. Si univa a noi
nella sala giochi o ci portava tutti nel teatro a vedere dei video
musicali. In passato, quando Neverland era piena di gente, a
volte Michael si rintanava nella sua camera, ma non quell'estate.
Era sempre presente, un ospite orgoglioso.

Il 30 agosto Michael festeggiò il suo quarantacinquesimo


compleanno con i fan. Non si esibì, erano loro a cantare le sue
canzoni, ma quando li ringraziò menzionò alcuni progetti che gli
stavano a cuore: la nuova linea commerciale che Vinnie e io
stavamo sviluppando, club vacanze e una nuova causa
umanitaria. Promise di rendere Neverland più accessibile ai suoi
ammiratori, e l'annuncio suscitò naturalmente l'ovazione più
sentita. Disse che stava anche studiando la tecnologia del 3D
(sapeva che il cinema si muoveva in quella direzione) e che
stava programmando un grandioso evento umanitario a
Neverland.

Il prossimo capitolo della vita di Michael prometteva di dare


spazio a tutti i suoi vari interessi, che andavano ben oltre i
successi discografici che ci si aspettava da lui. Era tornato alla
sua consueta dinamicità. Era al comando della sua esistenza. E
io non avrei potuto essere più eccitato del fatto di fare parte di
tutto questo.
CAPITOLO VENTUNO - FALSE
ACCUSE
I l 18 novembre 2003 uscì Number Ones, ma il debutto
dell'album fu oscurato da una notizia più importante. Il giorno
dopo la pubblicazione io ero già nel New Jersey a lavorare con
Vinnie al progetto del nuovo merchandising. Michael era a Las
Vegas per girare il video della canzone «One More Chance», ma
la produzione era ferma per colpa dell'ennesimo conflitto con
Tommy Mottola. Michael avrebbe infatti voluto che i miei fratelli
Aldo e Marie Nicole, entrambi ballerini, si esibissero nel video ma
Mottola era contrario alla partecipazione di bambini. Marc
Schaffel sentì le parole di Michael durante quella discussione
animata.
«Fottetevi tutti», sbottò Michael contro Mottola usando Marc
come tramite. «Senza i ragazzi non lo faccio. Fermiamo tutto.»
«One More Chance» era una delle canzoni inedite di Number

Ones e la Sony aveva bisogno di un video per sponsorizzare


l'album. Dopo mesi di preparativi era stato allestito lo studio a
Las Vegas.
«E comunque l'idea non mi piace», proseguì Michael. «E troppo
simile a 'Smooth Criminal'. Dobbiamo fare qualcosa di nuovo. Lo
gireremo noi, 'on the road'.»
E così la produzione del video fu cancellata. Con il supporto di
Marc, Michael programmò un viaggio di sei mesi in Europa,
Africa e Brasile, durante il quale egli avrebbe girato il video. Lui e
il suo entourage avevano programmato la partenza per il giorno
successivo, ma i loro piani stavano per cambiare.

Ero ufficialmente senza fissa dimora, come lo sono stato per


la maggior parte della mia vita adulta. Michael mi ha
influenzato ad essere un ragazzo da albergo. Così Vinnie e
io stavamo accampati a casa dei miei genitori, stavamo
lavorando con la TV accesa, quando abbiamo notato un
news ticker in esecuzione attraverso lo schermo. Diceva che
il ranch di Michael era stato perquisito dalla polizia. Una
ripresa aerea di Neverland si avvicinò sullo schermo. Il ticker
diceva che c’erano accuse sul fatto Michael aveva
commesso "atti osceni e lascivi" con un minorenne sotto
dell'età di quattordici anni.
Vinnie e io ci siamo guardati a vicenda con orrore, per poi
tornare alla schermata. Porca troia.
"Chi ha potuto fare questo?" ha chiesto Vinnie. "Chi ha
accusato Michael?" La notizia non ha dato il nome
dell’accusatore, ma non ne avevo bisogno. Sapevo che
questo veniva dalla famiglia Arvizos.

Ho chiamato i miei genitori, e abbiamo cercato di


raggiungere Michael, ma non ci siamo riusciti. Tutti i nostri
telefoni stavano suonando — un mix di amici e colleghi
chiamavano interessati chiedendo cosa stava succedendo.
Qualcuno ha confermato che gli accusatori erano i Arvizos.
Naturalmente; Chi altro avrebbe potuto essere?

Ci eravamo già passati. Ero giovane, in quel periodo, ma


avevo visto negli anni il danno che quelle prime accuse
avevano inflitto sul cuore di Michael, come pure la sua
immagine pubblica. Ancora una volta, egli era stato attaccato
da bugiardi. Noi non ci eravamo mai fidati degli Arvizos, e
ora il peggio era venuto a galla. Perché Michael non aveva
reciso i legami con quella famiglia nel 2000? Perché egli li
invitò ad entrare nella sua vita per il documentario di Bashir?
Perché avevamo chiesto loro d’intervenire in aiuto di Michael
nel video per la confutazione al documentario di Bashir? Ero
arrabbiato con la madre di Gavin, naturalmente, ma ero
anche arrabbiato con Michael per aver scioccamente
permesso a Janet di ottenere delle immagini attraverso delle
manipolazioni dei suoi figli e arrabbiato con me stesso per
non essere riuscito ad essere più deciso. Dopo tutto, fin
dall’inizio avevamo moltissime ragioni per dubitare di
intenzioni di Janet, eppure eravamo rimasti passivi mentre lei
ordiva le sue trame.
Le accuse erano tutte stronzate. Non c'era nulla di ambiguo su
tutta la faccenda. Queste persone miravano ai soldi di Michael.
Ma lui era innocente, e li avremmo distrutti in tribunale. Ne ero
certo. Sul momento non calcolai la portata della battaglia che
avremmo dovuto combattere né le pesanti conseguenze che
avrebbe trascinato con sé. Non avevo idea che avrebbe messo
in crisi il rapporto tra me e Michael fino al punto in cui
difficilmente un’ amicizia può sopravvivere. E la nostra ci riuscì a
stento.
Michael, Aldo e Marie Nicole stavano trascorrendo i loro ultimi
giorni a Las Vegas quando hanno ricevuto la notizia che il ranch
è stato perquisito nuovamente e tornarono immediatamente all’
hotel. Ma l'hotel non vollero farli entrare per paura all'imminente
assalto di media. Si spostarono quindi in un altro albergo, ma
subirono lo stesso trattamento. Uno dopo l’altro, tutti gli alberghi
li rifiutò per paura della tempesta mediatica. I tre girano Las
Vegas, senza trovare rifugio, e Michael era sempre più
angosciato. Infine, Karen riuscì a fissare una stanza d'albergo
per loro.
I miei fratelli mi riferirono poi che, una volta entrato nella
stanza, Michael diede di matto. Non poteva capacitarsi di
quanto stava accadendo. Ancora una volta. Andò su tutte le
furie, rovesciò i tavoli, scaraventò le sedie, distrusse tutto ciò
che gli capitò a tiro. Se Aldo e Marie Nicole, non fossero
stato con lui sarei stato preoccupato per la sua sicurezza. Il
viaggio all'estero è stato annullato, le riprese video per "One
More Chance" non sarebbero mai stata riprogrammati e Aldo
e Marie Nicole fecero ritorno a casa nel New Jersey.
Michael non voleva tornare a Neverland, sentendola violata
ancora una volta dalle perquisizioni della polizia. Affittò una
casa sopra il Coldwater Canyon a Los Angeles. Dopo una
settimana o poco più andai a trovarlo, ma dato che il
Procuratore Distrettuale cercava di citarmi in giudizio e
sembrava ci fosse un mandato di arresto a mio nome, non
volevo farmi vedere in giro. Così volai a Las Vegas, dove un
autista venne a prendermi e mi portò a Los Angeles.
A casa di Michael trovai suo fratello Randy. In tutti gli anni che
avevo trascorso con Michael non avevo mai frequentalo davvero
Randy e fui quindi un po' sorpreso di vederlo lì, anche se era
evidente che voleva offrire supporto al fratello. Cercava di dare
una mano e di capire le cose; Michael, che in condizioni normali
si sarebbe opposto, gli era grato. Ci sedemmo tutti e tre al tavolo
di cucina a parlare. Era gradevole stare con Randy. Mi piaceva,
e Michael era palesemente contento della sua presenza.
Rassicurai entrambi che avrei fatto qualunque cosa per essere
d'aiuto e che sarei rimasto al fianco di Michael fino in fondo.
Per i due giorni successivi non facemmo niente di particolare:
cercavamo di evitare di parlare di quello che in realtà era il nostro
chiodo fisso. In casa c'era una sala da bowling, così giocammo
un po'. Gary, che da anni era l'autista di Michael, ci portò a fare
shopping e comprammo del pollo fritto al Kentucky Fried Chi-
cken. Quando i bambini andarono a letto, aprimmo una bottiglia
di vino e scherzammo un po'. Tutti gli altri affari in cui eravamo
impegnati avevano subito un arresto: ora la nostra priorità era il
processo, ma eravamo ottimisti.

Michael manteneva il controllo, sperando e aspettandosi il


meglio, ma vedevo che non era più lo stesso: dai suoi occhi
traspariva tristezza.

Dopo il mio soggiorno andai a New York pensando di tornare alla


normalità. Ovviamente non potevo lavorare al rilancio del
marchio Michael Jackson. Cominciai allora a organizzare per la
UPN un tributo a Patti LaBelle per celebrare i suoi
quarantacinque anni nel mondo della musica, con uno spettacolo
alle Bahamas e la partecipazione di diverse celebrità. Mi trasferii
in un appartamento a Manhattan.
Poco prima di Natale, il 18 dicembre 2003, Michael venne
ufficialmente incriminato con sette capi d'accusa per molestie su
minori e due per somministrazione di una sostanza intossicante:
in pratica gli Arvizo lo accusavano di aver fatto ubriacare Gavin
per abusare di lui. Stando all'accusa, i crimini erano stati
commessi tra febbraio e marzo 2003, nel periodo in cui eravamo
tutti a Neverland dopo il disastro provocato da Bashir.

Poco dopo che le accuse furono formulate ufficialmente, Vinnie e


io cominciammo a ricevere telefonate dall'ufficio del Procuratore
Distrettuale: volevano interrogarci visto che, nel periodo in
questione, eravamo a Neverland.
«Frank», mi disse Vinnie, «non so come siamo messi, ma credo
sia ora che ci cerchiamo un avvocato.» Chiamai Al Mal-nik, mi
feci dare alcuni nomi e li annotai, non ancora del tutto
consapevole di quello che stava succedendo.

Dopo aver incontrato qualcuno di quei super avvocati, Vinnie e io


ci recammo nello studio di Joe Tacopuna, a Manhattan. La prima
cosa che notai nella sala d'aspetto fu una foto del professionista
con la moglie e i figli. Un uomo di famiglia. La cosa mi piaceva.
Poi vidi che il televisore stava trasmettendo una partita della
Juventus, la mia squadra preferita. Joe mi disse che era anche la
sua. Tutti e tre avevamo la stessa fede calcistica. Era deciso:
sarebbe stato lui il nostro avvocato.
Joe parlò con l'ufficio del Procuratore Distrettuale. Gli fu
annunciato che ci sarebbe stata un'udienza preliminare: questo
significava che ritenevano di avere prove sufficienti per indire un
processo. Secondo la loro ricostruzione, Michael e io facevamo
parte di una cospirazione: io lo avevo aiutato a mettere le mani
su Gavin, poi avevo occultato diverse nefandezze e procurato
falsi testimoni.
Nei nostri vari incontri, Vinnie e io fornimmo a Joe la storia
dettagliata delle nostre interazioni con gli Arvizo. Volevo essere
certo che Joe capisse che secondo me erano dei bugiardi, che
noi non avevamo niente da nascondere e che avrei fatto
qualunque cosa per aiutare Michael. L'avvocato riteneva di avere
prove sufficienti per dimostrare che non c'era stata alcuna
cospirazione, ma era un caso di alto livello e avevamo a che fare
con, cito le sue testuali parole, «procuratori arrivisti che non
avevano nient'altro da fare». Ci avvertì della probabilità che
fossimo trascinati in tribunale anche noi, dato che l'idea di un
complotto conferiva al caso una connotazione ancora più
inquietante. Avrebbe contattato l'avvocato di Michael per fornirgli
la nostra testimonianza e dargli una mano con la difesa se ne
avesse avuto bisogno.

Joe mi consigliò di non vedere Michael quel Natale. Non


sapevamo se ci sarebbero state accuse contro di me, e ogni
ulteriore contatto tra noi due avrebbe potuto essere usato contro
di me. Di conseguenza i miei fratelli Eddie, Aldo e Dommie
andarono a Los Angeles a trascorrere le feste con Michael nella
casa di Coldwater Canyon, mentre io rimasi a casa dei miei
genitori. Michael, in veste di Babbo Natale, pur essendo così
lontano, mi fece avere dei regali: una fotocamera digitale e un
iPod. Ne fui molto contento, soprattutto perché lo ritenni un
segno del fatto che era ancora lo stesso di prima.

A gennaio, una mattina scesi a prendere un caffè e le sigarette al


chiosco all'angolo. In quel periodo avevo i capelli lunghi e, come
sempre, indossavo occhiali da sole e una felpa col cappuccio.
Nel locale c'era un televisore acceso che trasmetteva il
programma Celebrity Justice. Mentre aspettavo di pagare la mia
consumazione, sullo schermo comparve una mia foto. Seguii con
orrore il giornalista che mi dipingeva come un criminale del New
Jersey e mi accusava di aver tentato di rapire la famiglia di Gavin
Arvizo e di averla tenuta in ostaggio a Neverland. Stando alle
parole del cronista, avevo anche cercato di portarli in Brasile,
probabilmente per farli «sparire». Sembrava la trama di un film.
Essere ingiustamente accusato di rapimento non era
esattamente ciò che mi ero immaginato quando Michael mi
suggeriva di vivere una vita straordinaria come il gabbiano
Jonathan Livingston.

Una gentile signora anziana era in coda davanti a me.


«Spero che lo prendano quel bastardo», commentò.
«Lo spero anch'io», dissi.
Pensai a tutte quelle volte che io e Michael eravamo andati in
giro mascherati, lui per necessità, io per divertimento. Adesso
avevo un motivo vero per nascondere la mia identità e la
sensazione era a dir poco terrificante. Spettatori di tutto il mondo
stavano ascoltando quelle terribili accuse formandosi la loro
opinione sul mio conto. Visio che non conoscevano la verità,
perché mai avrebbero dovuto dubitare di quanto sentivano? E
così, ebbi un assaggio di quello che viveva Michael ogni giorno.

L'unica fortuna era che in lutti i telegiornali, e persino nei


documenti legali, venivo citato come Frank Tyson (alias Cascio).
I miei sforzi di separare lavoro e famiglia avevano sortito un
benefico effetto collaterale che mai avrei immaginato. La
reputazione della mia famiglia non fu macchiata: questo
significava non solo che i miei genitori erano in un certo qual
modo protetti, ma che io avevo un posto dove andare. Nella mia
vita professionale tornai a essere Frank Cascio. Era passato del
tempo, ma ero di nuovo me stesso.
Non ero stato accusato di nessun crimine, ma dalle indiscrezioni
di Celebrity Justice e da altre fonti sapevamo che in parte ero
coinvolto. In seguito, nel gennaio 2004, quando Michael fu
chiamato in giudizio, Vinnie e io fummo citati quali co-cospiratori
non imputati. Joe ci spiegò che in pratica non eravamo imputati
di alcun crimine e che l'accusa non aveva prove contro di noi.
Per ora eravamo salvi, ma se Michael fosse stato dichiarato
colpevole probabilmente ci avrebbero incriminati. Il mio destino
era ancora una volta legato a quello di Michael.
Poco tempo dopo l'atto di citazione contattai Michael, che nel
frattempo era tornato a Neverland con i figli. Chiesi di poter
salutare i bambini e parlai al telefono con Prince.
«Frank», mi disse, «papà è triste. Verrai qui'.' Papà starà bene?»
Mi spezzò il cuore.
«Certo che papà starà bene», lo rassicurai. «Va tutto benissimo.
Sarò lì appena posso.»
Il fatto che non fossi stato chiamato all'atto di citazione
significava che non rischiavo un mandato di arresto, ma Joe non
voleva ancora che riprendessi i contatti con Michael. Senza
seguire il consiglio, saltai su un aereo per Los Angeles con Eddie
e mio padre per andare un paio di giorni a Neverland. Io ero
seduto accanto a mio fratello, mio padre invece era da solo.
Dieci anni prima noi tre avevamo preso un aereo per Tel Aviv per
far sapere a Michael che eravamo dalla sua parte nella causa di
Jordy Chandler. Adesso stavamo facendo la stessa cosa. Nel
1993 eravamo ragazzini, beatamente ignari di quanto stava
accadendo a Michael. Oggi, da adulti, eravamo perfettamente
consapevoli della gravità delle accuse e di quanto avrebbero
pesato su di lui.
Entrati nell'edificio principale, mio padre salutò Michael e lo
rassicurò dicendo che eravamo tutti lì per lui; i bambini ci
vennero incontro c ci abbracciarono: malgrado la telefonata di
Prince, sembravano felici e spensierati. Sapevano che il loro
papà era in difficoltà, ma Michael era attento a non rivelare i
dettagli. Quando si trattava di proteggerli dalla sua fama era
sempre scrupoloso, sia dagli aspetti positivi sia negativi. Non
voleva che venissero sommersi dai fans, né che lo vedessero
esibirsi in uno stadio gremito di gente. Non voleva che
navigassero su internet per timore che facendo una ricerca sul
suo nome saltassero fuori tutti quei pettegolezzi poco adatti a dei
bambini. E quindi adesso faceva del suo meglio per proteggerli
da quel delirio. Si accertò che i piccoli non potessero sentire e
parlammo dell'imminente processo; dovevamo farlo, ma poi
cercammo di divenirci un po'.
Nel 1993, durante la tournée di Dangerous, avevamo distratto
Michael visitando città straniere, gettando palloncini d'acqua
dalle finestre dell'albergo e distruggendo una camera (solo una
volta, solo una). Ora che eravamo adulti passammo il tempo a
guardare film e a oziare. Dicevamo sempre: «Mettiamoci comodi
a puzzare», ed era esattamente quello che facevamo. Anche
senza dirlo esplicitamente, tutto quello che facevamo era un
tentativo di dimostrare a Michael che sarebbe andato tutto bene.

Malgrado l'ottimismo che cercavamo di infondergli, era evidente


che il peso di queste nuove accuse lo opprimeva. Michael era
emotivamente e fisicamente affranto. Dormiva moltissimo.
Ripensai a quando mi insegnava a controllare l'esito delle
situazioni. Non sapevo se adesso stava cercando di concentrarsi
su ciò che avrebbe voluto far accadere. Non ne accennavamo.
L'unica mia certezza era che, questa volta più che mai, avrebbe
dovuto mettere alla prova la sua forza di volontà e la sua fiducia
in se stesso.
Arrivando al ranch corsi a controllare se la mia piccola scorta di
erba era ancora nascosta dove l'avevo lasciata, in camera mia.
Ero preoccupato che la polizia durante le perquisizioni l'avesse
trovata, e che venisse usata come prova contro Michael.

Lui era sempre stato contrario all'uso di marijuana o di altre


sostanze illegali. Ma rientrato a Miami, l'anno prima, era stato un
po' di tempo con due ex componenti dei Bee Gees, Maurice
Gibb, che era in punto di morte, e Barry Cìibb. Quest'ultimo
raccontò di aver registrato i suoi più grandi successi mentre
fumava erba, suscitando la curiosità di Michael: era un grande
fan dei Bec Gees, le canzoni «How Deep is Your Love», «Stayin'
Alive» e «More
Than a Woman» erano tra le sue preferite. Così, mentre
eravamo al ranch a lavorare sul documentario Home Videos,
Michael si fece una canna con me, credo per la prima volta in
vita sua. Ricordo che, in quello stato mentale, le luci di Neverland
presero vita.
«Ah, adesso tutto ha un senso», commentò Michael mentre
giravamo per la proprietà. «Questo è esattamente ciò che fanno
gli indiani d'America quando si passano il calumet della pace.»
Gli piaceva l'idea che la marijuana venisse dalla terra: lo aiutava
a giustificare una cosa verso la quale era sempre stato contrario.

Dopo quel giorno ci sballammo un altro paio di volte tra le


montagne. Michael era estremamente riservato: voleva che
nessuno lo sapesse. E la buona notizia era che il suo segreto era
salvo: la polizia non aveva trovato la mia piccola scorta e un
pomeriggio, nel tentativo di tirarci su il morale, rollai una canna.
Trovai Michael nel suo ufficio: una stanza accogliente annessa
alla casa principale, con il parquet scuro, una bella scrivania e un
divano. Su una parete erano allineati sei televisori a schermo
piatto, e ognuno trasmetteva un cartone animato diverso. Sopra
il caminetto c'era una fotografia alta quasi due metri con Prince a
due o tre anni che dormiva e io e Eddie di fianco, uno da una
parte e uno dall'altra, a fargli la guardia.
«Vieni, facciamo una pausa», proposi.
«Va bene», rispose. Uscimmo e prendemmo la golf cart.
Saliti in montagna ci passammo la canna, più silenziosi del solito.
Non e che non sapessimo cosa dire, ma non volevamo discutere
delle incombenti azioni legali e non ci veniva in mente nient'altro
di cui parlare. Volevo dire: «Te l'avevo detto», ma non lo feci. E
Michael voleva chiedere: «Come è potuto succedere?» ma non
lo fece. Rimanemmo per lo più in silenzio, e io ogni tanto
esclamavo: «Che famiglia di stronzi, non è incredibile?»
«E incredibile», rispondeva lui. Ci guardavamo scuotendo la
testa. Sembrava un brutto sogno. In un periodo di normalità
avremmo girato per il ranch nello stesso modo, con o senza
erba, ad assorbire la bellezza del paesaggio e assaporando il
momento. Adesso cercavamo una fuga dalla realtà, senza
trovarla. Che io sappia, quella fu l'ultima volta che Michael fumò
erba; fu una fase breve per tutti e due.
Quando venne il momento di ripartire, andai nella sua stanza a
salutarlo. Anche se era tornato a Neverland, non soggiornava più
nell'edificio principale, sentendolo profanato dalle perquisizioni
della polizia; si era sistemato in uno degli alloggi degli ospiti e
stava lì con tutti e tre i bambini. Era mattina presto, e Michael era
ancora a letto. I figli dormivano nella camera adiacente perciò
parlammo a bassa voce.
«Dobbiamo pregare», dissi a Michael. «Dio sa la verità e la verità
avrà la meglio. Non pensarci due volte. Io sono qui per te. La mia
famiglia è qui per te. Ti voglio bene. Voglio bene ai tuoi figli. Se
hai bisogno di qualcosa, qualunque cosa, basta che me lo fai
sapere. Li faremo sembrare gli idioti che sono.»
«Non preoccuparti», mi incoraggiò Michael, «tu, piuttosto, sii
forte.» Era il suo modo di ammettere che anche io avevo di che
preoccuparmi per il processo. «Prega», disse, «e quando sarà
tutto finito festeggeremo.»
All'atto di citazione del 16 gennaio 2004 Michael si era dichiarato
non colpevole per tutti i capi di accusa. Poi era uscito dal
tribunale e aveva ballato sul tetto del suo SUV per le centinaia di
fans lì radunati, per ringraziarli e per mostrare che avrebbe
combattuto con tutte le sue forze. Ai miei occhi era un'esibizione
che solo un innocente avrebbe potuto fare. Perciò gli annunciai:
«Quando sarà tutto finito, salirò sulla macchina e ballerò con te».
La rabbia mi dava energia. Pensavano di farla franca? Coraggio,
fatevi sotto!
«Ok, Frank», disse Michael ridendo, «ti voglio bene. Fai buon
viaggio.»

«Ricordati di fare una doccia e lavarti i denti prima di andare in


tribunale così non ammazzi nessuno della giuria», ammonii
sogghignando. Baciai sulla fronte i bambini addormentati e
scivolai fuori dalla stanza. Mio padre aveva già salutato Michael
la sera prima, Eddie andò invece dopo di me.
Avrei dovuto fare più lentamente il tragitto fino alla macchina e
concedermi un attimo per guardarmi intorno: la bellissima casa, i
giardini, il lago, i sentieri, le montagne. Non sapevo che sarebbe
stata l'ultima volta che avrei visto Neverland.
Dopo quel viaggio, sia il mio avvocato, Joe Tacopuna, sia quello
di Michael, Tom Mesereau, mi ordinarono di non avere
assolutamente ulteriori contatti con Michael. Se fossi stato
chiamato a testimoniare e il Procuratore Distrettuale avesse
chiesto: «Quando è stata l'ultima volta che ha parlato con
Michael?» volevano potessi rispondere che non avevo più
parlato con lui da quando erano state presentate le accuse.
Anche se non ero stato incriminato, Janel Arvizo mi stava
comunque accusando. Se durante il processo avessero trovato
qualche prova a sostegno della sua assurda denuncia, sarebbe
stato meglio se io non avessi avuto rapporti con Michael.
L'avvocato non voleva che sembrassimo in combutta.
Era un valido motivo, ma la separazione forzata da Michael fu un
duro colpo. Eravamo insieme quando avevamo avuto a che fare
con gli Arvizo, eravamo stati accusati insieme, e adesso non
potevamo farci forza a vicenda per affrontare la causa legale.
Ero certo che i nostri avvocati avrebbero dimostrato la verità, ma
il processo messo in atto dall'opinione pubblica era tutt'altra
cosa. Un giornalista di nome Roger Friedman seguiva l'evolversi
della vicenda in un blog di Fox News sul mondo dello spettacolo,
FOX 411. Aveva cercato di contattarmi attraverso amici comuni,
ma non avevo risposto. Non avevo mai parlato di Michael con la
stampa, ma questo Friedman teneva una rubrica giornaliera sul
caso e le sue informazioni erano sbagliate. Perciò, frustrato da
ciò che leggevo, decisi che se scrivevano di me dovevano
quanto meno avere informazioni attendibili. Volevo che venisse
fuori la verità.
Andai con Vinnie a incontrare Roger in un bar all'angolo tra la
Sessantaseiesima e Broadway. Vinnie poso sul tavolo una
pesante valigetta di metallo, fece scattare la fibbia e la aprì bene;
Roger si piegò per guardare meglio: dentro c'era una pila di
scontrini. Gli spiegammo che erano tutte le ricevute degli acquisti
fatti per gli Arvizo durante la loro permanenza a Neverland:
c'erano conti di alberghi, cinema, ristoranti e centri benessere.

La stampa ci accusava di sequestro ma quelle, come fu subito


evidente anche a Roger, non erano certo spese sostenute da
rapitori per le loro sventurate vittime. Ci eravamo preoccupati del
benessere di Janet e di farle passare il tempo aspettando che si
placasse il fermento mediatico provocato dal video di Bashir.
Dopo questo incontro il tono degli articoli di Roger parve
cambiato. Non ero così impotente come credevo. Potevo dare il
mio sostegno a Michael persino senza parlare direttamente con
lui.
Quella primavera, prima dell'atto di accusa, Joe parlò con Tom
Sneddon, Procuratore Distrettuale della contea di Santa Barbara.
«Ascolti», disse Sneddon, «Frank e su una barca che affonda.
Può salire sulla nostra scialuppa di salvataggio o andare giù con
la nave.» Mi offriva l'immunità se fossi andato nel suo ufficio a
testimoniare contro Michael. So che la gente che guarda telefilm
come Law & Order è abituata a pensare che i procuratori
distrettuali siano i buoni, ma questa volta erano dalla parte
sbagliata. Anche se fossi stato completamente onesto,
avrebbero cercato il modo di usare le mie parole contro Michael.
Joe mi spiegò che era uno stratagemma abituale dell'accusa.
Aveva incontrato quella gente, ed era certo che non avessero
alcuna prova contro di me. Stavano bluffando. Ma comunque Joe
aveva il dovere di ricordarmi che potevo essere accusato di gravi
crimini e che in una situazione del genere molta gente non
avrebbe esitato ad andare dritta dal procuratore. Per me era una
stupidaggine. Gli dissi che sarei rimasto dalla parte di Michael e
che volevo tenere duro.
Per distrarmi andai a Roma a trovare Valerie, che si stava
prendendo una pausa dagli studi universitari. Passai un po' di
tempo con lei, cenammo con i suoi amici... Dopo un paio di giorni
dal mio arrivo, ero ancora a letto con Valerie al mio fianco
quando squillò il telefono. Era Joe Tacopuna. Mi annunciò che
Vinnie aveva assunto un altro avvocato. Non potevo crederci.
Joe mi disse di non preoccuparmi, ma ci ero rimasto male.
Perché l'aveva fatto? Non c'eravamo dentro tutti e due? In parte,
avrei voluto che Vinnie rimanesse con me perché mi sentivo
responsabile per la situazione in cui l'avevo cacciato. Lo
conoscevo da quando avevamo tredici anni. L'avevo portato io
nel mondo di Michael, e per questo adesso si trovava ad
affrontare una situazione assurda.
Chiamai Vinnie. e lui cercò di calmarmi.
«Frank, non hai niente di cui preoccuparti. Lavoreremo ancora
insieme. Legalmente è meglio se abbiamo avvocati diversi.»
L'idea non mi piaceva, ma se era questo che voleva,
acconsentivo. Poi Vinnie però decise di parlare con il Procuratore
Distrettuale. Aveva letto alcuni casi di gente che era stata
accusata ingiustamente, e con il suo avvocato aveva deciso che
era meglio raccontare la sua versione dei fatti. C'erano così
poche prove a sostegno della tesi di cospirazione che Vinnie
penso di poter dimostrare al Procuratore, senza il coinvolgimento
di altre persone, che il caso non sussisteva. Spiegò che non
aveva tenuto Janet Arvizo in ostaggio e che quando la portava in
giro lei avrebbe avuto tutta la libertà di chiedere aiuto o
«scappare». Penso che fosse una buona mossa da parte sua
mostrare pubblicamente di non avere niente da nascondere. Era
comprensibilmente stanco di essere lasciato in quel limbo legale
e di essere attaccato e calunniato da giornalisti rapaci.
Per quanto accettassi la sua logica, ai miei occhi il Procuratore
Distrettuale era il demonio. Stavano montando un caso contro
Michael, contro Vinnie e contro di me.

Avevano già fissato la data del processo. La verità per loro era
irrilevante; gli importava solo di costruire il caso e vincerlo. Non
riuscivo a credere che Vinnie avesse potuto fare una cosa simile.
Mi sentivo tradito. Pensavo che avremmo affrontato le cose
insieme, ma per il resto del processo, e anche dopo, non parlai
più con lui. Alla fine compresi che non aveva vissuto le stesse
esperienze che avevo vissuto io con Michael, e quindi non
poteva avere la stessa lealtà. Mentre io ero pronto a sacrificare
tutto, Vinnie voleva soltanto assicurarsi di non finire in galera, e
se parlare con il Procuratore Distrettuale serviva a questo, allora
l'avrebbe fatto. Ero così arrabbiato con lui che non gli rivolsi la
parola per anni. Alla fine ne discutemmo e lo perdonai. Aveva
fatto ciò che riteneva meglio per sé. In fin dei conti, era ancora il
mio vecchio amico di terza media. Le nostre famiglie avevano un
lungo passato comune. Non valeva la pena di perderlo. Insieme
ce la facemmo.

Tornato negli Stati Uniti continuai a lavorare allo spettacolo per


Patti LaBelle, ma caddi in uno stato di depressione che durò per
gran parte del 2004. Non volevo uscire di casa né avere persone
intorno. Non volevo neanche più parlare al telefono. Tutto
questo, ovviamente, condizionò il mio lavoro. Da poco avevo
preso coscienza del fatto che riuscivo a dare il meglio di me
stesso lavorando al fianco di Michael. Ora era finita, il nostro
rapporto era concluso e la mia vita era in stallo. Mi ero smarrito,
avevo perso le tracce di ciò che mi rendeva me stesso.

Con il passare del tempo la mia depressione si modificò in una


sorta di prudenza calcolata, al limite della paranoia. Pensavo
sempre con dieci mosse di anticipo. Mi sembrava di avere il
controllo di tutto, ma il bisogno continuo di calcoli e congetture
non era una bella sensazione. Era come se ogni mio passo
provocasse una serie di cambiamenti concatenati e io dovessi
prevedere e controllare ogni singolo evento. Tuttavia, questo era
l’unico modo che avevo per combattere nel limbo di quell'attesa
estenuante, prima che il processo fosse superato. Alla fine,
giunsi a comprendere la mania di persecuzione di Michael.
Essere accusati ingiustamente, essere giudicati dal pubblico...
dopo esperienze come queste una persona è pronta a tutto pur
di riacquistare il controllo.

Inutile dire che fu un periodo difficile per me e Valerie. Ci


amavamo e tenevamo molto l'uno all'altra. Lei andava
all'università, viveva la sua vita spensierata di studentessa
mentre io ero depresso e infelice. Eravamo giovani, dovevamo
ancora crescere ed eravamo anche geograficamente lontani. Era
da un po' che i problemi lievitavano. Oltre alla lontananza, tra noi
c'erano sempre state altre questioni irrisolte: la segretezza del
mio lavoro, lo stile di vita inconsueto che richiedeva, il mio
impegno a tempo pieno. Il processo e la mia depressione furono
la goccia che fece traboccare il vaso. In quel periodo sentivo che
tutto il mio mondo stava crollando. E ora ne era rimasta vittima
anche la mia relazione sentimentale.
CAPITOLO VENTIDUE - GIUSTIZIA
Il procedimento giudiziario iniziò finalmente il 31 gennaio del
2005, quando ci fu la selezione della giuria, seguita un mese
dopo dal processo vero e proprio. Com'era prevedibile, fuori dal
tribunale si scatenò il solito circo mediatico, con migliaia di
giornalisti che correvano avanti e indietro ventiquattro ore su
ventiquattro per i loro reportage in onda su tutti i notiziari.
Joe ed io ascoltavamo attentamente ogni testimonianza e intanto
cercavo di ricordare nei minimi dettagli gli eventi citati nel
processo, per essere pronto nel caso fossi stato chiamato in
causa. Contemporaneamente preparammo anche una linea
difensiva cui attenerci se fosse stato necessario. Dopotutto, il
mio caso era legato a quello di Michael: se lui fosse stato
prosciolto dalle accuse, sarei stato prosciolto anch'io. Pertanto
Joe lavorava a stretto contatto con Tom Mesereau, l'avvocato di
Michael. Se un testimone dell'accusa faceva una dichiarazione
che io potevo confutare, Joe informava subito Tom. Facevamo
tutto il possibile per aiutarli a vincere.
Le presunte molestie si sarebbero verificate tra il 20 febbraio e il
12 marzo 2003, quando tutte le parti in causa si trovavano a
Neverland, subito dopo le riprese di Bashir. Anche non si fosse
trattato di Michael, mi sarebbe sembrato assurdo che qualcuno
scegliesse proprio quel particolare momento per molestare un
bambino: subito dopo essere stato messo alla gogna per aver
tenuto la mano di Gavin davanti alla telecamera nel video di
Bashir. Perché mai avrebbe dovuto scegliere un periodo di
estrema vulnerabilità e visibilità per compiere tali misfatti?
Semplicemente non aveva senso.
Inoltre, era fin troppo evidente che già dall' inizio gli Arvizo non
erano stati onesti. Nel periodo in cui frequentavano regolarmente
Neverland erano intervenuti più volte a sostegno di Michael, sia
nei filmati del video del riscatto sia, cosa ancora più importante,
negli interrogatori ufficiali condotti dal Dipartimento dei Servizi
Sociali per l'Infanzia e la Famiglia. Dato che il loro sostegno era
stato ampiamente documentato, il Procuratore Distrettuale
doveva provare che ogni volta che gli Arvizo si erano espressi in
favore di Michael, erano stati costretti a farlo.
Ogni elemento tirato in ballo dall'accusa era una versione distorta
della verità. Dissero che ero stato io a mostrare immagini porno a
Gavin e a suo fratello la notte in cui avevano chiesto di dormire
nella stanza di Michael. La verità naturalmente era l'esatto
contrario: i ragazzi avevano trovato i siti porno da soli e Michael
aveva lasciato la stanza per essere sicuro di non aver niente a
che fare con tutto ciò.
L'accusa affermava anche che Michael aveva offerto ai ragazzi
del «succo di Gesù» nascosto nelle lattine delle bibite; in realtà,
lui usava quell'espediente per consumare alcolici evitando di
dare il cattivo esempio. E sicuramente non ne aveva mai offerto
a loro.
La lista delle menzogne si allungava sempre di più. Come se
l'accanimento della stampa nei confronti di Michael non fosse già
stato abbastanza oltraggioso nel corso degli anni, ora eravamo
costretti a veder mettere a verbale bugie e travisamenti davanti a
una giuria, consapevoli che presto saremmo stati costretti a
difenderci da tutte quelle false accuse, una per una. Era una
farsa.
Una volta conclusa l'arringa del Procuratore Distrettuale, la
parola passo alla difesa di Michael. Per fortuna, non appena Tom
Mesereau iniziò a parlare, il castello di carte degli Arvizo crollò.
Era il tipico caso della «mia parola contro la tua» (Janet Arvizo
contro Michael), e non ci volle molto a screditare tutta la famiglia
di Gavin.
Interrogandola, Mesereau fece emergere l'abitudine non troppo
edificante di Janet di sfruttare i suoi figli e il cancro di Gavin per
avvicinare diverse celebrità, tra cui Jay Leno, Chris Tucker e
George Lopez, tentando di spremerli il più possibile. Fatto ancora
più assurdo, in precedenza e per ben due volte aveva avanzato
accuse di abusi sessuali e sequestro di persona, la prima contro
il suo ex-marito, l'altra contro il grande magazzino JCPenney.
Ascoltando questa sequela di squallide rivelazioni, mi trovai a
ripensare ai miei primi contatti con lei e a chiedermi perché,
avendo capito chi fosse fin dall'inizio, non avevo dato retta al mio
istinto e messo in atto un'azione rapida e decisa. Perché non mi
ero impuntato quando Michael aveva tentato di difendere quella
famiglia? Come avevamo potuto lasciarla entrare nelle nostre
vite?
Il massimo fu raggiunto quando Janet affermò di credere che i
collaboratori di Michael, tra cui io, ci stavano organizzando per
far sparire la sua famiglia.
«E qualcuno le ha parlato di una mongolfiera?» chiese
Mesereau.
«Era uno dei metodi che avevano in mente», confermò Janet.
Nella sala scoppiò una risata fragorosa. Le cose per lei non si
mettevano bene.
I ragazzi, Gavin e Star, benché chiaramente indottrinati dalla
madre, nelle loro testimonianze si contraddicevano l'uno con
l'altro, e il processo si trasformò ben presto nella farsa che
avevamo previsto fin dall'inizio. Non solo tutte le deposizioni che
avevamo udito erano inconsistenti, una buona parte di esse non
avevano alcun senso. Gli Arvizo non erano persone credibili, e
così pure la loro storia. Comunque, durante il processo ci fu un
momento toccante, quando Debbie Rowe fu chiamata al banco
dei testimoni. Lei e Michael avevano risolto i problemi della
custodia dei bambini un paio di anni prima, e ora Debbie si
faceva avanti per sostenerlo, come aveva fatto a suo tempo nel
filmato del riscatto. La sua testimonianza fu sincera: Debbie si
rivelò tanto coraggiosa da ammettere apertamente gli sbagli che
aveva commesso in passato e fece del suo meglio per aiutare
Michael. Fui felice di vedere che il loro rapporto poggiava ancora
su solide basi. Si preoccupavano l'uno dell'altra; avevano avuto
dei figli insieme, e con questo gesto confermavano fiducia e
affetto reciproci.

Non parlavo con Michael dall'ultima volta che ero stato a


Neverland con Eddie e mio padre. Come ho detto, non ci era
permesso perché, se Michael fosse stato condannato, io avrei
dovuto affrontare l'accusa di cospirazione. Nel corso del 2004
Eddie aveva cominciato a trascorrere un sacco di tempo al
telefono con Michael: sembrava che stesse assumendo il ruolo
che io ero stato costretto a rendere vacante. Michael era abituato
ad avere accanto un amico, un alleato di cui fidarsi; in un certo
qual modo Eddie era la scelta ideale: era il primo nella linea di
successione, una specie di erede naturale. Ero felice che
Michael avesse qualcuno di famiglia con cui parlare perché stavo
in pena per lui e ricordavo malinconicamente i bei momenti
trascorsi insieme a Neverland nel 2003, prima che le accuse di
novembre sconvolgessero le nostre esistenze. Sapevo che
questa storia lo avrebbe perseguitato per anni, se non per
sempre, e odiavo non poter essere là per aiutarlo.
Poi, verso la fine del processo, i miei genitori mi rivelarono delle
notizie scioccanti. Mi informarono che Michael era molto
arrabbiato con me. A quanto pare gli era stato raccontato che
non avevo voluto testimoniare a suo favore. Era ridicolo, niente
poteva essere più lontano dalla verità.
Anche suo nipote Auggie mi chiamò per dirmi le stesse cose.
Michael gli aveva riferito che io non avevo intenzione di
testimoniare ed era sconvolto. Diceva: «Non è incredibile che
Frank non sia qui nel momento del bisogno? Era come un figlio
per me. Mi ha tradito».
«Auggie, non lo farei mai», dichiarai.
Durante il processo avevo concesso un'intervista per una
puntata speciale di 20/20 condotta da Catherine Crier, apparsa
anche su Good Morning America. Nell'intervista difendevo
Michael e screditavo la famiglia Arvizo. Fui uno dei pochi a uscire
allo scoperto per difenderlo pubblicamente, a mio rischio e
pericolo: se il verdetto non fosse stato favorevole, avrei dovuto
subire le conseguenze della mia presa di posizione. Ma io
sapevo la verità ed ero convinto che anche il mondo dovesse
conoscerla. Non potevo rimanere passivo.
Per la verità, ero ansioso di testimoniare. Soltanto io, fra tutti,
sapevo esattamente cos'era successo durante le visite degli
Arvizo al ranch, e volevo che fosse fatta giustizia. Non venni mai
interpellato dall'accusa; dopotutto sarei stato un testimone
contrario. Il nostro piano in origine prevedeva che io fossi uno
degli ultimi a essere chiamato al banco dei testimoni per la
difesa, prima della linea delle deposizioni. Ma mentre si
avvicinava la data della mia apparizione, Joe Tacopuna mi
chiamò e mi disse che lui e Tom Mesereau non credevano che la
mia testimonianza sarebbe stata utile alla causa.
«Tom pensa di avere la vittoria in pugno», affermò, «non ha
bisogno di tirarti in ballo.» Mesereau non voleva coinvolgermi per
non aprire al dibattito i vent'anni della mia vita vicino a Michael.
Inoltre, aggiunse Joe, c'erano già prove sufficienti per stabilire il
ragionevole dubbio necessario per vincere la causa.
Il problema era che Michael non l'aveva sentita in quel modo. Gli
era stato detto che io rifiutavo di testimoniare. Quindi, i miei
sospetti che qualcuno nell'organizzazione di Michael volesse
farmi fuori non erano semplice paranoia: questa era una prova
inconfutabile, era il sabotaggio definitivo. Ma chi era staio? Dato
che nessuno seppe darmi una risposta, la ricerca del traditore
divenne un'ossessione. Devo aver chiesto almeno cento volte al
mio avvocato: «Joe, non sei tu che hai detto che non volevo
testimoniare, vero?» L'idea mi faceva impazzire e mi perseguita
tuttora.
Ero furibondo che qualcuno avesse di nuovo mentito a Michael
su di me, ma più che per la menzogna in sé (era già successo),
ero furioso perché lui vi aveva dato credito. Che già una volta mi
avesse ritenuto capace di chiedere una tangente era molto
grave, ma questa era di gran lunga peggio. L'idea che non
volessi dare il mio sostegno a Michael andava contro tutto ciò in
cui credevo, contro me stesso e ciò che era importante per me.
Come poteva Michael, dopo tutto quello che avevamo passato
insieme, tutto quello che avevamo fatto l'uno per l'altro, quello
che eravamo l'uno per l'altro, quello che avevamo condiviso...
come poteva prestar fede a qualcosa che era totalmente
incompatibile con il mio carattere? Mi aveva cresciuto lui, santo
cielo! Sapeva tutto di me. Per tutta la vita non avevo fatto altro
che aiutarlo e proteggerlo. Sapevo di non essere perfetto, di aver
fatto degli errori, ma sapevo anche che le mie intenzioni erano
sempre state buone e le mie priorità sempre trasparenti. E lo
sapeva anche Michael. E nonostante tutto mi aveva voltato le
spalle, e l'aveva fatto con disinvoltura e sicurezza. Andava
dicendo ai suoi famigliari, ai miei e agli amici comuni: «Sapete
cosa ha fatto Frank, questa volta? Ora che ho bisogno di aiuto,
non è dalla mia parte».
Mi tornarono in mente le parole che Michael pronunciò quando
iniziai a lavorare per lui: «Frank, tu sei in una posizione di potere.
Molte persone saranno gelose di te e cercheranno di metterci
l'uno contro l'altro. Ma ti prometto che non permetterò che questo
accada». Parole che si rivelarono profetiche, ma invece di starmi
vicino come aveva promesso sembrava avesse dimenticato la
sua previsione. Alla fine dei conti non ebbe fiducia in me e quel
tradimento fu assolutamente devastante.
Sapevo che Michael dava retta a Eddie e mi aspettavo che mio
fratello dissipasse i suoi dubbi sul mio conto. Invece, a quanto
pare, anche lui aveva l'impressione che io non stessi sostenendo
Michael. Quando andò in onda la mia intervista a 20/20 pensò
che volessi attirare l'attenzione su di me. Non aveva senso. Se
avessi cercato attenzione sarebbe stato mio interesse
presentarmi a testimoniare, non certo rifiutarmi. E fu così che
cominciai a considerare mio fratello parzialmente responsabile
del mio allontanamento da Michael. Che lo avesse provocato o
meno (in seguito sostenne di non averlo fatto), avrebbe almeno
potuto obiettare: «Michael, sai perfettamente che Frank non ha
agito così. Stai sbagliando, lui ti vuole bene». Ma Eddie non lo
fece.
Mio fratello si trovava nel mezzo. Anche lui, come me, era
cresciuto con Michael, ma, diversamente da me, l'immagine
idealizzata che aveva di lui era ancora intatta. Nel corso degli
anni io avevo capito che Michael non era perfetto. Ero il primo a
difenderlo, ma questo significava accettare i suoi difetti e
proteggerlo. Michael non aveva mai mostrato il suo lato debole
alla mia famiglia: Eddie non aveva assistito alle sue paranoie,
che lo portavano a tagliare fuori le persone dalla sua vita senza
fare distinzioni. Non aveva assistito alle sue battaglie con i
farmaci né aveva visto com'era stato difficile per lui affrontare i
problemi finanziari. Come risultato, quando Michael mi ha voltato
le spalle Eddie si è fidato del suo giudizio come avrebbe fatto un
padre. Mio fratello ed io gli eravamo sempre stati vicini, ma il trial
si era smembrato non appena Michael mi aveva messo da parte.
Avevo perso il Vinnie, avevo perso Michael e ora sembrava che
avevo perso anche mio fratello.
Era inevitabile che il conflitto tra Eddie e me e le difficoltà del
processo si sarebbero riversate sul resto della mia famiglia,
una famiglia vivace, divertente con attività di ristorazione e
per quanto mi amassero, non avevano idea di come
relazionarsi con me. Francamente, io non li ho biasimati. Le
cose erano diventate molto più complicate di quanto avrei
mai potuto prevedere. Mia madre amava mantenere la sua
vita semplice: lei voleva sentire che stavo bene, e per la
maggior parte di questa dinamica non sono mai entrato nei
dettagli di un problema con lei fino a quando quel problema
non era stato già risolto. Non sapeva o capiva perché mio
fratello e Michael avevano una tale animosità nei miei
confronti. Avevamo avuto molte conversazioni a riguardo, ma
io stesso non potevo davvero spiegare cosa era andato
terribilmente storto.
Mio padre era l'unico che sembrava davvero capire quello
che stavo passando. Sono andato a lui quando ero sconvolto
o avevo bisogno di parlare. Comunque, senza Michael,
senza New Jersey come il rifugio sicuro, che era sempre
stato, mi sentivo solo e isolato. Se avevo imparato qualcosa
nei miei anni con Michael, era per me che dovevo separarmi
dal mondo al fine di proteggere me stesso, e così in questo
momento istintivamente mi ritirai in me stesso. La
depressione che era iniziata nel corso del 2004 si stabilì per
un lungo soggiorno in me durante gli ultimi mesi della
sperimentazione. Ero diventato un recluso.
IL VERDETTO È STATO CONSEGNATO IL 13 GIUGNO
2005. Ero a casa dei miei genitori, guardando la TV con tutta
la mia famiglia, e per qualche motivo che non riesco a
ricordare, ero in piedi su una sedia. Michael è stato
riconosciuto non colpevole su tutti i fronti, ed era libero.
Le buone notizie di Michael erano le mie buone notizie. Se
lui fosse stato giudicato colpevole, il Procuratore Distrettuale
mi avrebbe accusato di cospirazione e probabilmente avrei
dovuto subire da due a sei anni di reclusione. Ma bastarono
poche parole e tutta quella brutta faccenda divenne storia.
Cominciammo tutti a piangere, saltando come pazzi e
abbracciandoci l'uno con l’altro.
Dopo il verdetto Michael ci telefonò e volle parlare con tutti. La
sua conversazione con me fu abbastanza strana. «Stai bene?»
gli chiesi.
«Sono felice di sentire la tua voce», rispose Michael. «Ce
l'abbiamo fatta, ma non è stato facile. Mi ha logorato, Frank.
Devo andarmene da qui. Voglio lasciare questo Paese. Non mi
meritano. Possono andare tutti a farsi fottere. Non voglio più aver
niente a che fare con gli Sati Uniti. Non tornerò mai più.»
Non parlammo del fatto che lui credeva che mi fossi rifiutato di
testimoniare in suo favore. E sembrava non essersi reso conto
della brutta esperienza che anch’ io avevo vissuto durante il
processo. Ebbi l'impressione che avesse chiamato per
educazione, ma dal suo tono capivo che non era il momento
adatto per sollevare problemi.
Dopo la sentenza di non colpevolezza, Michael andò nel
Bahrein. Una delle ragioni che lo spinsero all'estero era che
sentiva di non avere più una casa negli Stati Uniti. Disse, in
pubblico e in privato, che per lui Neverland era stata violata dalle
perquisizioni della polizia. La sua amata dimora rappresentava il
suo amore per la purezza e l'innocenza: proprio le qualità che
erano state messe in discussione con il processo. Così
abbandonò il ranch e con esso abbandonò anche uno dei suoi
sogni più grandi.
Ari Ali-Star Salme to Patti LaBelle: Live from Atlantis fu mandato
in onda l’8 novembre 2005. Seduto nel backstage a guardare le
Bluebelles riunite fu un piacere per gli occhi e una soddisfazione
per la mia carriera. Alla fine dello spettacolo ebbi un moto di
orgoglio e di felicità. Ma non durò a lungo. Lo show andò bene,
ma il suo successo fu di poco conforto. Avevo perso il contatto
con le mie vere emozioni. Mi sentivo vuoto, insensibile.
Michael invitò la mia famiglia nel Bahrain per trascorrere insieme
il Natale, ma io non andai. Stavo trattando con Russell Simmons,
uno dei fondatori della casa discografica Def Jam. per preparare
un concerto in omaggio al suo contributo all'hip-hop. Usai la
trattativa come scusa per non partire, ma la verità era che ero
arrabbiato. Per quanto volessi dimenticare il passato, per quanto
cercassi di essere magnanimo, di fatto non ci riuscivo. Ancora
non potevo credere che Michael avesse dubitato di me, della mia
lealtà verso di lui, specialmente dopo tutte le paure, le ansie e la
depressione che avevo attraversato a partire dal novembre 2003.
Non avevo voglia di vederlo ne di parlare con lui.
Una parte di me desiderava fare chiarezza, ma gli anni mi
avevano reso testardo. Quando Michael mi aveva chiesto di
lavorare con lui, sapevo che mi stava offrendo un giro su una
giostra sfrenata, e avevo accettato volentieri. In seguito ho
vissuto uno dei periodi più belli della mia vita, e malgrado abbia
sofferto per i dubbi di Michael sul mio conto ho affrontato quelle
montagne russe con tutta la pazienza e la tolleranza di cui ero
dotato. Ma tra le folli corse che abbiamo condiviso nel luna park
della nostra vita, il processo è stato la giostra più dura su cui sia
mai salito. Ho resistito per merito suo, per la nostra complicità e
per la mia lealtà. Dopo aver vissuto due anni nell'angoscia in cui
mi aveva gettato, pensavo di meritarmi una «vera» telefonata, un
chiarimento sincero. Una conversazione tra amici, non una
risposta sbrigativa.
Dopo il processo sembrava che Michael non volesse avere
contatti con me. Non che si fosse volatilizzato: continuava ad
avere rapporti con il resto della mia famiglia. Evitava solo me.
Vista la facilità con cui si era convinto della mia presunta
reticenza a testimoniare, non mi aspettavo una riappacificazione
tranquilla.
Ma mi aspettavo almeno di parlarne. Mi aspettavo di avere la
possibilità di difendermi. E mi aspettavo, a un certo punto, delle
scuse. Forse ero un po' egocentrico o irrispettoso. Certamente lui
aveva passato momenti peggiori e più duri di quelli che avevo
dovuto sopportare io. Michael non si rendeva conto che io ero
stato lì con lui, che anch'io avevo affrontato l'esperienza più
difficile di tutta la mia vita.
Michael rappresentava un sacco di cose per me: capo, mentore,
fratello, padre... ma più di tutto era il mio più caro e vecchio
amico. Quando tagliò i ponti, mi sentii perduto e confuso. Lo
avevo visto comportarsi in quel modo con molti altri amici e
colleghi,ma una avevo sempre pensato che la mia lealtà e il
nostro passato insieme mi rendessero immune. Evidentemente
mi ero sbagliato.
A parte il lavoro con Russell Simmons, non sapevo cosa fare
della mia vita. Era stato difficile trovare lavoro durante il
processo. Non sapevo da dove cominciare, e non avevo
intenzione di andare in giro a caccia di un impiego. Malgrado
tutta l'esperienza fatta sapevo di avere delle grosse lacune nella
mia formazione professionale. Non ero abituato a presentarmi in
un certo posto a una certa ora e non ero abituato ad avere un
capo, un vero capo, che mi dicesse cosa fare. In teoria, pensavo
di continuare a produrre concerti e spettacoli, ma non mi sentivo
me stesso. Ero sempre stato un po' distaccato, ma ora mi sentivo
virtualmente inaccessibile. Mi mostravo arrogante, montato,
persino un po' svitato.
Forse l'effetto peggiore della mia infelicità fu che mi appropriai
della paranoia di Michael. Non mi fidavo più di nessuno. In realtà,
per quanto possa suonare drammatico, avevo perso la fiducia in
me stesso.
Nel giro di qualche mese mi rimisi in sesto e aprii un ufficio sulla
Quinta Strada, il primo che avessi mai avuto. Iniziavo la
ricostruzione. Scoprii di avere talento e di essere conosciuto
come una persona che porta a termine il proprio lavoro. Sapevo
come imbastire relazioni, stipulare contratti e gestire le finanze. I
clienti venivano da me per trattare operazioni di vario genere, e
cominciai a percepire parcelle per le consulenze. Mi resi conto
che il mio allontanamento da Michael era stato necessario per
scoprire che potevo avere successo anche senza di lui. Fu una
lezione fondamentale. La mia identità, che era rimasta celata
nella sua per tanto tempo, iniziava a emergere. Per la prima volta
nella mia vita da adulto, mettevo me stesso al primo posto.

CAPITOLO VENTITRE’ -
RICONCILIAZIONE

Io e Michael sapevamo di essere destinati a una


riconciliazione, ma il confronto diretto non era nel suo stile.
Recuperammo la nostra amicizia lasciando che questa
evolvesse con il tempo. Non era più la stessa di una volta,
ma la tensione iniziò ad allentarsi e durante il 2006 ci capitò
occasionalmente di parlare.
Michael stava a Las Vegas con i bambini e a volte tornava a
Los Angeles per presentarsi in tribunale e difendersi nelle
varie cause minori nelle quali era ancora coinvolto. Quando
telefonava avvertivo sempre una certa distanza. Voleva
parlare, sentire la mia voce, ma non era ancora il momento
giusto per la discussione che volevo affrontare. Entrambi
aggiravamo l'argomento. Lui mi chiedeva su cosa stessi
lavorando, cosa facessi... Io gli raccontavo del mio ufficio a
Manhattan e lo aggiornavo sui progetti che avevo in ballo.
Ogni volta lo ringraziavo: «Non riuscirei a pensare in questo
modo e a fare quello che faccio se non fosse per te».
E ricordo che lui mi diceva: «Frank, fai una cosa per volta.
Portane in fondo una. Non farne trecento insieme. Così non
ne finisci nessuna».
Aveva ragione. Stavo lavorando a trecento cose tutte
insieme. Pensavo fosse normale perché era ciò che
avevamo sempre fatto ma, mentre Michael era una sorta di
enorme ditta ben avviata,io ero solo un novellino.
I nostri dialoghi erano brevi. Non voleva parlare del
processo, del nostro conflitto o di cose simili. Non c'era
niente da fare, ma iniziai a capire che il processo era stato
un momento talmente difficile per lui che non ce la faceva a
riviverlo. Mentre io avevo bisogno di parlare delle cose per
riuscire a superarle, lui era troppo traumatizzato per
discuterne. Affrontarle con me significava rivivere tutto quel
dolore, e non era ancora pronto a farlo.
Ben presto Michael cominciò a dire ad alcuni amici comuni
quanto gli mancassi e come lavorassi bene. Raccontava che
parlava spesso con me e che le cose mi andavano
benissimo. Non era vero, ma lui sapeva che le sue parole mi
sarebbero state riferite. Ben conoscendo la sua reticenza,
compresi che questo era il suo modo per contattarmi... senza
neanche prendere in mano il telefono.
Le sue chiamate arrivavano sempre all'improvviso. Un
giorno, nella primavera del 2007, il telefono squillò: era lui, e
mi chiedeva di raggiungerlo in Irlanda. Erano passati due
anni dalla sentenza e non avevamo ancora affrontato
nessuno dei problemi in sospeso tra noi. Fu una telefonata
brevissima, ma mi sembrò che fosse la prima volta dopo il
processo che avesse davvero cercato di contattarmi,
chiedendo di vedermi di persona. Gli dissi che sarei stato
felice di raggiungerlo. Lui rispose: «Bene, ti faccio chiamare
per organizzare la logistica».
Due giorni più tardi mi telefonò Raymone Bain, agente
pubblicitaria di Michael e suo manager personale, che aveva
(per poco) il controllo del suo mondo. (Alla fine anche lei gli
avrebbe fatto causa.) Le sue parole furono scioccanti e
indimenticabili: «Come da istruzioni del signor Jackson»,
annunciò, «se lei mette piede in Irlanda dovremo farla
arrestare». Mi ci volle un attimo per assimilare quanto aveva
detto. Avevo sentilo bene?
«Attenda un momento», le dissi. Ero nel mio ufficio, e in un
lampo chiamai mio padre e lo misi in teleconferenza. Ero
stufo che fosse sempre la mia parola contro quella di
chiunque altro, volevo un testimone. Anche Raymone Bain
inserì un'altra persona nella telefonata.
«Sono un assistente», si presentò la nuova voce, «se lei va
in Irlanda verrà arrestato.»
«Mi prendete in giro? Di che cosa state parlando?»
«Michael dice che lei lo tormenta chiamandolo in studio»,
replicò Raymone.
Era veramente troppo. Non sapevo neanche dove lavorasse
Michael! Mio padre sbottò.
«Non so chi siate», sbottò, «ma qui è Dominic Cascio che
parla. Esigo una telefonata di Michael nelle prossime
ventiquattro ore. Dopo un'amicizia di vent'anni? È
inaccettabile.»
Michael chiamò mio padre il giorno dopo e si scuso. Disse
che non sapeva niente di quella telefonata. Francamente,
ancora oggi ignoro se Raymone per un qualche motivo
avesse fatto l'opposto di ciò che Michael le aveva chiesto di
fare, o se fosse stato lui. in preda alla paranoia, a cambiare
idea sull'invito a raggiungerlo in Irlanda.
Michael disse a mio padre che mi avrebbe chiamato per
scusarsi, ma la telefonata non arrivò mai. Forse si sentiva in
imbarazzo, o forse aveva deciso che preferiva venire e
parlarmi di persona.

Il 19 agosto 2007 organizzammo una festa a sorpresa per il


cinquantesimo compleanno di mia madre. Quella sera, più
tardi, quando tutti gli ospiti se ne erano ormai andati, Michael
si presentò a casa nostra con i suoi tre figli al seguito, il suo
labrador nero, Kenya, e un gatto. Mio padre mi chiamò in
ufficio e disse: «Credo che dovresti venire a casa stanotte,
ma vieni da solo, mi raccomando. Non appena ha detto che
mi dovevo assicurare di essere solo, ho capito che Michael
era a casa.
Non vedevo il mio vecchio amico da tre anni — non da
quando ero andato a Neverland, ma da quando le accuse
furono annunciate. Andai nel New Jersey, quella notte, ed
era una buona occasione per vedere sia lui che i bambini.
Ma non c'era nessun modo per poter far finta che il passato
era passato e che tutto andava bene. Ho detto a Michael,
"dobbiamo parlare".
"OK", rispose.
Eddie, che a quel punto si è visto come protettore di Michael,
saltò: "Hai cinque minuti", ha annunciato. Mio fratello
credeva veramente che io avevo tradito Michael. Mi sarei
comportato allo stesso modo se avessi pensato la stessa
cosa di chiunque.
"Davvero? Ho cinque minuti con il signor Jackson?" Ho
ribattuto. Ero indignato, e rivolgendosi a Michael, continuai,
"Questo è tutto? Ho cinque minuti con te?"
"Non ho mai detto questo," ha detto Michael, e con questo,
mi ha seguito nella mia vecchia stanza, che era stata
trasformata in uno studio di registrazione per Eddie. Eddie
era giusto dietro di lui. Ho chiesto a mio fratello di lasciarci
soli, ma egli rifiutò.
"No, è meglio che tu vada," ha detto Michael, e a malincuore
Eddie acconsentì.
"Prima di tutto," ho detto a Michael, "se voglio parlare con te
per quattro ore, lo farò."
"Frank, calmati," ha detto. "Sai com'è tuo fratello."
Eddie, che si trovava proprio fuori, busso alla porta, voleva
entrare , ma Michael ha detto: "No, va bene. Abbiamo
bisogno di parlare. Dobbiamo parlare. "

Ho guardato Michael... e semplicemente scoppiai a piangere.


"Come hai potuto permetterlo?" Ho richiesto. "Tu mi conosci
meglio di chiunque altro. Sai dov'è il mio cuore. Come hai
potuto lasciare che questa gente si mettesse in mezzo a noi?
Perché hai voluto credergli? Dici che ti ho tradito. Ma come ti
ho tradito?»

Tutte le domande che avevo tenuto dentro per quasi tre anni
si rovesciarono fuori, accavallandosi l'una sull'altra. E in
mezzo a questo torrente in piena dissi anche: «Per la
cronaca, io ho la coscienza a posto. Non ho fatto niente di
sbagliato. Non ho fatto niente di cui essere pentito. Ero lì per
te al cento per cento, in tutti i modi possibili. Mi hai detto di
come sei stato tradito da tante persone. Mi hai insegnato a
essere leale e lo ero, lo sono sempre stato e sempre lo sarò.
Ma dov'era la tua lealtà?»
Michael era calmo. «Beh, mi dissero che non volevi
testimoniare. Che non avresti testimoniato in un momento in
cui avevo estremo bisogno. Ne fui ferito, dopo tutto quello
che avevo fatto per te», rispose.
«Chi te l'ha detto?» chiesi con rabbia. «Non è vero. Il tuo
avvocato, Tom, comunicò al mio, Joe, che la mia
testimonianza non serviva.»
«Non ricordo chi, ma me lo dissero.»
«Ma chi?» insistevo.
«Non ricordo. E venuto fuori.» Mentre parlava era sdraiato
sul letto con i piedi alzati, in posa rilassata, e mi lasciava
sfogare.
«Da chi?» ripetei con rabbia. Mi faceva uscire di testa.
Cercai di calmarmi e di trattenere le emozioni, ma non era
facile.
«Lo dicevi che sarebbe successo», riuscii a dire infine con
voce più calma. «Lo dicevi da quando ho cominciato a
lavorare per te. E adesso sostieni che ti ho tradito, che non ti
ho aiutato.» Camminavo avanti e indietro davanti al letto,
come faccio di solito. «Non è vero. E non mi hai nemmeno
chiamato per sapere la verità, perché in realtà tu volevi
credere che ti avessi tradito. Volevi essere la vittima, volevi
poter affermare che tu mi avevi aiutato e io ti avevo fottuto,
ma non l'ho mai fatto. Cosa ho fatto per meritarmi tutto
questo odio da parte tua? Non hai idea di quanto mi fai
soffrire. So come sei arrivato a queste conclusioni, ma
perché non mi hai chiamato e non mi hai chiesto un
chiarimento di persona invece di lasciarti andare
all'immaginazione?»
A questo punto sembrò che le mie accorate parole
cominciassero a fare effetto. Michael aveva gli occhi lucidi, si
alzò in piedi e mi abbracciò.
«Mi dispiace», affermò. «Lo sai che ti voglio bene come a un
figlio. Mi dispiace di averti fatto stare così male. Cerchiamo di
voltare pagina. Avrei potuto essere in qualunque altro posto
al mondo, ma sono qui, con te e la tua famiglia. Voglio
andare avanti.» Si scuso anche per l'assurda telefonata con
cui ero stato minacciato di arresto se fossi andato in Irlanda.
Le spiegazioni sono una cosa che non mi sarei mai aspettato
di sentire da Michael. Ero abituato alla sua paranoia, ci
avevo avuto a che fare per anni; ciò che non potevo
accettare era di esserne rimasto vittima anch'io.
Non ho mai capito se lui si rendesse conto del modo in cui
affrontava e si difendeva dalle sue paure. Aveva avuto una
vita intensa, e mi ripetevo come sempre che non potevo
mettermi nei suoi panni. Perciò decisi che poteva bastare.
Avevo visto che era davvero dispiaciuto. Le sue scuse, il suo
pentimento e la pace tra noi erano tutto ciò che volevo.
«Non voglio avere un rapporto di lavoro con te», dichiarai.
«Voglio solo essere tuo amico, ho bisogno della tua amicizia.
Ho bisogno di averti nella mia vita.»
«Anch'io», rispose Michael.
Eravamo amici da più di vent'anni, eppure sembrava che
avessimo dimenticato tutte le esperienze che ci avevano
legato. Conoscevo i difetti di Michael, ma continuavo a
ritenere responsabile dei suoi eccessi le persone che aveva
intorno. Non
riuscivo a smettere di preoccuparmi per lui. Le vecchie abitudini
sono dure a morire.
«Ti sei di nuovo circondato di idioti», gli dissi. «Devi liberarti
di tutti questi malati di mente. Fammi un favore: comincia a
lavorare. Torna a fare quello che sai fare meglio.» Annuì con
un lieve sorriso sulle labbra. (gli piaceva sentirselo dire.
Continuai: «Guarda, c'è uno studio di registrazione a casa
dei miei. Comincia a lavorare, comincia a scrivere, comincia
a essere produttivo».
«E buffo che tu mi dica queste cose», commentò Michael,
«perché sono le stesse parole che mi ha appena detto tuo
fratello.»
Alla fine parlammo per ben due ore. All'inizio Eddie ci
interrompeva ogni dieci minuti pensando che Michael fosse
costretto a stare lì contro la sua volontà. Ma lui continuava a
ripetere che era tutto a posto, e alla fine Eddie la smise di
cercare di controllare la situazione. Non parlammo del
processo. Mi sembrava che Michael non volesse affrontare il
discorso. Restammo invece su un territorio neutro,
chiacchierando della sua villa nel Bahrein, di una nuova casa
discografica che voleva fondare con il principe del Bahrein e
di quanto stessero bene i suoi figli. Capii dall'incertezza e
dalla prudenza che mostrava sui suoi progetti a breve
termme che stava ancora cercando di ristabilirsi. I segni
lasciati dal processo erano evidenti. Ma voleva riprendersi:
Michael aveva nove vite come i gatti.
Quando concludemmo la nostra conversazione, aprii la porta
e dissi: «Adesso puoi entrare, Eddie», con il tono di quando
avevamo dieci anni. Da quel momento io e Michael fummo di
nuovo amici. La sua famiglia trascorse i quattro mesi
successivi nel New Jersey, e durante quel periodo
cominciammo a ricostruire il nostro rapporto. Passavamo il
tempo a discorrere di musica e a ricordare assieme, come
avevamo sempre fatto.
Io lavoravo a Manhattan, ma tornavo spesso nel New Jersey
per vedere Michael e i bambini. Festeggiammo il
quarantunesimo compleanno di Michael, che cadeva dieci
giorni dopo il cinquantesimo di mia madre, con una grande
cena in famiglia. Cucinò mia madre e ordinammo anche
qualche pizza, che a Michael piaceva tanto.
Il periodo di riposo trascorso nel Bahrain dopo il processo gli
aveva fatto bene. Aveva bisogno di staccare, di avere del
tempo da dedicare a se stesso, e ora sembrava ringiovanito.
Era vivace ed eccitato di tornare a essere libero e creativo.
Durante il giorno lavorava con Eddie allo studio, e aveva
delle idee per un cartone animato che sperava di poter
realizzare. Era felice di avere intorno la mia famiglia perché
con noi poteva essere se stesso. Nella sua vita non c'era
l'ombra di farmaci. Era tornalo a essere Michael.
Una delle camere al piano di sopra era stata trasformata in
aula e ogni giorno veniva un insegnante privato. Anche se
andava a letto tardi, Michael si alzava sempre presto la
mattina per aiutare i figli a prepararsi per la scuola. Mia
madre serviva loro la colazione, ma poi era Michael a vestirli,
tutti eleganti come se dovessero uscire davvero per andare a
scuola, e a controllare che si lavassero i denti.
Durante la nostra lunga conversazione avevamo detto di
voler lavorare sulla nostra amicizia (non affari, solo amicizia)
e tenemmo fede alle nostre parole. Tutti i problemi irrisolti
furono accantonati. Scherzavamo e ricordavamo i bei tempi
passati: il vecchio Gary e le assurde canzoni che scriveva, e
quella volta che io e Michael eravamo a Disneyland Paris
sulla giostra di Peter Pan e ci fermammo proprio davanti al
personaggio animatronico di Wendy.
«È così bella», aveva sospirato Michael, poi ci eravamo
scambiali uno sguardo d'intesa, capendo subito cosa
dovevamo fare. Non ne vado fiero, era una cosa sbagliata,
ma andava fatta. Per esprimere la nostra ammirazione,
sollevammo la gonna di Wendy e lasciammo la nostra firma
sulla sua... «persona animatronica».

E sono certo che ancora oggi, se qualcuno salisse sulla


giostra di Peter Pan a Disney land Paris e fosse tanto
audace da alzare la gonna alla povera Wendy, troverebbe la
mia firma e quella di Michael ad attestare la nostra proprietà.
A esser sincero ho mentito quando ho detto che non ne vado
fiero: in realtà lo sono.
Nel frattempo, allo studio le cose stavano andando bene con
Eddie. Così come Michael mi aveva cresciuto e nel corso
degli anni mi fece entrare in affari con lui, allo stesso modo
aveva coltivato il talento musicale di Eddie fin dalla tenera
età, promettendogli che, se si fosse impegnato, un giorno
avrebbe avuto la sua occasione. Ero felice di vederli lavorare
insieme, felice di vedere Michael di nuovo all'opera a fare
musica. Con il nostro amico James Porte scrissero dodici
canzoni, tre delle quali («Breaking News», «Keep Your Head
Up» e «Monster») furono poi pubblicate nell'ultimo album,
Michael.
Tutto sembrava tornato a posto: nella vita di Michael, nella
mia e nella nostra amicizia. Ma tutti quei mesi di rancori e
risentimenti avevano un prezzo da pagare, e malgrado ci
fossero stati notevoli miglioramenti in molti campi, mio
fratello e io non fummo capaci di riconciliarci.
Ognuno di noi covava una specie di rancore nei confronti
dell'altro, e sebbene tenessimo sotto controllo questi
sentimenti per il bene di Michael, era evidente a chiunque
che tra noi i rapporti non erano più gli stessi. Ci
comportavamo da persone civili, ma non avevamo ancora
fatto pace e non sapevamo nemmeno se ci saremmo mai
riusciti.
CAPITOLO VENTIQUATTRO -
L’IMPENSABILE

Durante i due anni successivi Michael e io siamo rimasti in


contatto telefonico, come buoni amici. Stava lavorando su
This Is It, una serie di cinquanta concerti da tenere all'arena
02 di Londra a partire da luglio 2009. Lo show doveva essere
il suo canto del cigno. Persino i suoi bambini, ai quali non era
mai stato permesso di assistere ai suoi concerti, sarebbero
stati presenti, per la prima e ultima volta.
Su mio suggerimento Michael aveva ripreso con sé uno dei
suoi manager storici, Frank DiLeo, che non lavorava con lui
da quando io ero bambino e aveva partecipato alla
realizzazione della tournée Victory. A un certo punto Frank
mi contattò per chiedermi di collaborare all’allestimento dei
concerti: stava invecchiando e aveva bisogno di aiuto.
«Dovrai parlarne con Michael», dissi, «ma se lui è d'accordo,
a me va bene.» Fra il momento giusto. Ero alla ricerca di un
nuovo concerto da produrre e mi sarebbe piaciuto lavorare
con Frank, che era stato un grande maestro per me.
Comunque, lasciai la decisione nelle mani di Michael. Non
volevo forzare il mio ritorno, e non molto tempo dopo mi fece
una breve telefonata. Mi informò che mio fratello Eddie e
James Porte erano in volo per Londra con l’intenzione di
lavorare con lui nei suoi giorni liberi alla produzione
dell'album che avevano iniziato nel New Jersey. A Michael
piaceva la sinergia creativa che si era stabilita tra loro tre ed
era entusiasta di fare di nuovo musica. Stava offrendo a mio
fratello l'occasione che gli aveva sempre promesso. Era il
momento di Eddie.
Disse anche che era contento di avere di nuovo a che fare
con Frank DiLeo, poi arrivò al dunque: voleva che lo
raggiungessi a Londra.
«Frank ti contatterà», disse. «Mettiti d'accordo con lui e sii
riservato. Non dire niente a nessuno.» Nell'udire questa frase
sorrisi. Ci sono cose che non cambiano mai. «Sono
veramente orgoglioso di te», esclamai, «ti voglio bene.»
«Anch'io ti voglio bene», rispose. «Ora devo andare.
Abbiamo le prove.»
Era un piccolo passo sul cammino della nostra
riconciliazione e, nonostante tutta l'amarezza e gli scontri
degli ultimi anni, ero consapevole che questa poteva essere
una grande occasione. Si trattava della sua ultima serie di
concerti e desideravo partecipare. Mi trovavo in Italia ed ero
pronto a partire per Londra quando, il 25 giugno 2009,
Michael morì. Erano trascorsi dieci anni dal concerto Michael
Jackson & Friends a Seul: dieci anni esatti dalla notte in cui
avevo iniziato a lavorare con lui.

A Castelbuono, dopo aver appreso al cellulare la notizia


della morte di Michael, camminai da solo per un po' su e giù
per le strade sassose, mentre un amico riportava a casa la
mia auto e mio cugino Dario aspettava di fianco alla sua.
lasciandomi assimilare lo shock e il dolore. Avevo la mente
annebbiata e mi girava la testa. Frammenti di ricordi
riaffioravano e poi si dileguavano. Alcuni felici e altri tristi,
alcuni piccoli e altri grandi, alcuni strazianti, altri divertenti mi
vorticavano nella mente e poi svanivano. Ero ancora in
quello stato quando salii sulla macchina di Dario. Una parte
di me sperava che fosse una delle trovate di Michael: non
era la prima volta che saltava un concerto; aveva concluso la
tournèe di Dangerous e poi aveva cancellato i concerti di
inizio millennio. Ripensavo soprattutto a un episodio del
1995. quando avevo quindici anni: Michael doveva esibirsi
per uno speciale in onda sul canale HBO e io non vedevo
l'ora di partecipare allo show. Ma una settimana prima
dell'evento mi disse: «Frank, devo dirti una cosa: lo
spettacolo non ci sarà». Glielo aveva detto una guida
spirituale. E infatti, subito prima dello show, svenne durante
le prove e lo spettacolo fu annullato. Adesso, non riuscivo a
smettere di pensare che questo fosse solo un piano per
tirarsi fuori dai concerti.
Quando mio cugino mi ebbe riportato a casa, chiamai la mia
famiglia in America. Piangevano tutti, e nessuno riusciva a
credere che Michael se ne fosse andato. La sua morie era
surreale. Parlai anche con mio fratello Eddie: le nostre
divergenze si erano dissolte nelle lacrime della tragedia.
Nessuno di noi sapeva cosa dire. Ero al telefono con i miei
cercando di dare un senso a tutto ciò. quando uno di loro mi
informò che Michael era morto per un'overdose. Nel periodo
in cui era a casa nostra nel New Jersey sapevo che non
aveva preso niente, non voleva nemmeno toccare il vino, e
quindi la notizia fu una vera sorpresa. E vero che al
momento della morte era sotto stress per lo spettacolo
imminente, e avevo già visto in passato cosa innescava in lui
questa condizione.

Michael mi aveva detto sovente che sarebbe morto di un


colpo. Era questo il vocabolo che usava, e ogni volta che lo
diceva io pensavo a un'arma da fuoco; ma, alla fine, era
stato ucciso da un altro tipo di colpo. Ritenevo che la grande
differenza tra essere colpito da un'arma da fuoco e morire
per un'iniezione era che quest'ultima implicava una scelta,
una decisione consapevole. Michael aveva chiamato
innumerevoli volte i medici per farsi lare delle iniezioni.
Aveva sempre avuto la possibilità di prevenire questo colpo.
Tuttavia, sapevo che era troppo facile biasimarlo perciò che gli
era successo, e anche ingiusto. Il suo dolore era autentico e
profondo. È ben vero che c'erano metodi più sicuri per alleviare
le sue sofferenze, e ne aveva sperimentati diversi. Gli studi, la
meditazione, le canzoni e gli spettacoli, le imprese umanitarie, la
costruzione di Neverland, i bei momenti che vi aveva trascorso e
soprattutto i suoi bambini, erano tutti, in qualche modo, tentativi
per lenire il dolore e, nel caso dei suoi figli, per trascenderlo con
un amore che significava per lui più di tutte le altre cose messe
assieme. Ma alla fine il tormento fisico e morale hanno prevalso,
e Michael è morto nella sua incessante ricerca di pace interiore.
Certamente non aveva pianificato che accadesse così presto.
Amava ogni momento che dedicava ai suoi figli e il suo progetto
di famiglia era ancora in fase di sviluppo. Voleva altri bambini.
Inoltre, Prince, Paris e Blanket erano ancora piccoli e lui già
pregustava tutte le tappe che avrebbero segnato la loro crescita.
«Frank», diceva, «ti immagini quando Prince sarà abbastanza
grande e potremo bere insieme un bicchiere di vino e
chiacchierare con lui?» Parlava anche di quando avrebbe
incontrato il futuro marito di Paris, e di come si sarebbe
assicurato che fosse l'uomo giusto per lei. Scherzava con i suoi
figli dicendo: «Ciascuno di voi dovrà danni almeno dieci nipotini».
Per nessuna ragione al mondo Michael avrebbe deliberatamente
rinunciato ai suoi figli. Arrivava persino a immaginare di poter
conoscere i suoi bisnipoti. Quando si trattava della famiglia,
pensava a lungo termine anche per me. Mi diceva: «Frank, non
vedo l'ora di raccontare ai tuoi figli qualche storiella su di te».
Nei «giorni successivi alla sua morte, la mia collera si indirizzò
verso le persone che gli stavano intorno. Dov'erano tutti? mi
chiedevo. Perché non avevano impedito che succedesse, perché
avevano fatto in modo che potesse succedere? Qualcuno
avrebbe dovuto proteggerlo. Io avrei dovuto proteggerlo! Ma non
avrei mai immaginato che potesse accadere una cosa simile.
Come ho detto e ripeterò sempre, l'ultima volta che avevo visto
Michael era stato nel New Jersey, e anche se da allora erano
passati quasi due anni, in quel periodo lui era completamente
«pulito», non beveva nemmeno alcolici. Il suo unico pensiero era
quello di rimettersi al lavoro.
Ricordavo una conversazione avuta un paio di mesi prima
con Frank DiLeo, nella quale mi aveva detto: «Dobbiamo
assicurarci che mangi di più. E’ troppo magro». Ma aveva
anche aggiunto che Michael si esibiva egregiamente, che
aveva una grande energia e che lo spettacolo sarebbe stato
incredibile: «È sorprendente», aveva esclamato, «quello che
riesce ancora a fare a cinquant’anni. Dobbiamo solo tener
lontani questi medici fuori di testa e andrà tutto bene». E così
mi ero accorto che Frank stava combattendo con i medici
come avevo fatto io.
Naturalmente sospettavo che i farmaci assunti da Michael
fossero pericolosi e dall'anestesista, che si era dimostrato
tanto cordiale con me a New York, avevo saputo che il
Propofol era sicuro, ma a patto che il dosaggio venisse
correttamente monitorato. I medici ai quali Michael si era
rivolto erano sempre degli specialisti, esperti nel loro campo.
Ma Conrad Murray, il dottore che somministrò la dose di
Propofol che per Michael fu letale, non era un anestesista
ma un cardiologo. Avevo sempre pensato che solo un
medico anestesista potesse somministrare quel farmaco, e
questa convinzione dissipava le mie paure sui rischi che
poteva correre. Michael aveva seri disturbi del sonno ed era
stato indirizzato su un percorso medico sbagliato. Il Propofol
non era un modo sano per indurre il sonno, ma era l'unica
soluzione che Michael aveva trovato.
Percome lo conoscevo io, posso dichiarare con sicurezza che la
notte in cui morì voleva solo essere fresco e riposato per le prove
del giorno seguente.
Mio fratello Eddie volò subito a Los Angeles per offrire sostegno
ai bambini e alla famiglia Jackson. Randy, uno dei fratelli più
vicini a Michael che si era sempre tenuto alla larga dagli intrighi
di potere di quel mondo, ora si mise nuovamente alla guida della
sua famiglia curando tutti i dettagli con delicatezza ed efficienza.
Dieci giorni dopo volai anch'io a Los Angeles. La cerimonia
funebre si tenne il 7 luglio allo Staples Center, dove Michael
aveva fatto le prove per i suoi concerti. In un certo qual modo il
funerale non fu che un altro grande show, e ciò non avrebbe
dovuto sorprendermi perché tutta la vita di Michael era stata uno
spettacolo. In un'esistenza come la sua intimità era impossibile.
Molti tra i presenti al funerale piansero sinceramente la
scomparsa di Michael, ma altri parteciparono all'evento come se
si fosse trattato dell'assegnazione degli Academy Awards.
Comunque, so che a lui sarebbe piaciuta la partecipazione di
tutti. Era abituato alle grandi folle, e quelle presenze
testimoniavano il modo in cui lui era sempre stato in grado di
radunare le persone e di toccare i loro cuori. Tutti insieme nello
stesso spazio. Per quanto desiderassi dargli l'ultimo saluto in
solitudine, ero consapevole che Michael apparteneva a tutti.
C'erano molte facce familiari: Rodney Jerkins, Frank DiLeo,
Karen Smith. Michael Bush, e naturalmente i componenti della
sua famiglia. Li abbracciai e notai nei loro occhi lo stesso stupore
e lo stesso smarrimento che provavo io. C'era anche Karen
Faye, «Turkle». la truccatrice di Michael. Quando la vidi la strinsi
tra le braccia, e piangemmo entrambi.

«Michael ti voleva bene, Frank», esclamò tra le lacrime. «Tu


eri come un figlio per lui. Ti amava, ti amava tanto.»
«Amava anche te, Karen», singhiozzai in risposta.
Michael e la sua famiglia erano sempre stati vicini.
Qualunque divergenza potessero aver avuto, erano sempre
stati uniti quando uno di loro aveva avuto bisogno di aiuto, e
ora erano uniti nel dolore. Abbracciai Jackie, poi Janet, Tito e
i suoi figli. Era da un po' che non vedevo i 3T.
«Mi dispiace», dissi loro. «Quando le cose si sistemeranno,
mi piacerebbe veramente riallacciare i contatti con voi.»
Erano persone in gamba. Da bambino li avevo ammirati.
Sembravano tutti un po' confusi. Era duro credere che tutto
ciò stesse accadendo davvero. Katherine, la mamma di
Michael, manteneva il controllo (ci provavamo tutti,
soprattutto per i bambini), ma questo non cambiava il fatto
che lei stava assistendo alla sepoltura di suo figlio. Fino a
oggi non ha ancora trovato il coraggio di visitare la sua
tomba al cimitero di Forest Lawn. Per lei è veramente troppo
duro.
Il servizio funebre ebbe inizio e, con mia grande sorpresa,
quando il reverendo Al Sharpton iniziò a parlare, mi sentii
profondamente commosso dalle sue parole. Parlò di Michael
e della forza di attrazione con cui aveva unito le persone in
questo mondo grigio, parlò del fatto che non avesse mai
accettato limitazioni e di come non si fosse mai arreso. Fu un
discorso edificante. Ascoltando le parole del reverendo mi
sembrava quasi di sentire un messaggio di Michael e
percepii il suo spirito irradiarsi nello stadio. Credo
nell'esistenza di un altro mondo dopo questo, di un paradiso
o come lo si voglia chiamare, e credo che Michael avesse
un'energia e una forza così potenti che si percepiscono
ancora, sia su questa Terra che nell'altro mondo, ovunque si
trovi.
Ricordo una notte d'inverno a Manhattan, subito dopo che
avevo iniziato a lavorare per lui; era circa mezzanotte e
sentimmo il bisogno di andare a fare un giro a Times Squarc.
Senza svegliare la sicurezza, sgattaiolammo fuori
dall'albergo e prendemmo un taxi. A quel tempo esisteva
ancora il Virgin Megastore aperto fino a tardi, e così ci
andammo. Fuori dal negozio notammo un vecchietto. Aveva
il viso coperto da un foglio di alluminio e un Borsalino in
testa, e ballava con grande energia. Doveva avere
un'ottantina d'anni, ma per come si muoveva sembrava
molto più giovane. Michael, che non indossava nessun
ridicolo travestimento ma semplici indumenti invernali, si
avvicinò per dargli un'occhiata. Poi mise venti dollari nella
logora scatola di cartone poggiata sul marciapiede. Il vecchio
si piegò, vide la banconota e cominciò a ballare con ancora
maggior vigore. Fu un momento unico, e non perché fosse
chissà cosa: a renderlo speciale fu il fatto che il tassista non
si accorse minimamente che la persona sul sedile posteriore
era Michael Jackson e il vecchio e vigoroso ballerino non si
rese conto che molti passi della sua danza erano ispirati
dall'uomo che gli aveva lasciato venti dollari. Passeggiammo
da soli nelle strade intorno a Times Square, mentre Michael
assaporava uno dei rari momenti in cui poteva uscire nel
mondo esterno senza l'assillo di una folla scatenata. Era
soltanto un essere umano che passeggiava per la strada con
un amico al fianco. La notte era nostra.
Avevo assistito a così tanti concerti, e ora Michael, lo
showman, se ne era andato; una perdita enorme per
tantissima gente. Mi sarebbe mancato Michael il cantante,
Michael il musicista, Michael l'artista, ma più di ogni altra
cosa mi sarebbe mancato l'uomo, il tutore, l'amico, la
persona di famiglia. Mi mancava, e rimpiangevo quel
momento magico in Times Square, così come infiniti altri
piccoli episodi che volevo conservare per sempre: era quella
la mia vera perdita. Per me il funerale non rappresentò una
«fine», qualunque cosa si voglia intendere per «fine». Quello
che so è che il tempo passa e non abbiamo altra scelta se
non di continuare a vivere. Quando il rito funebre stava per
terminare, Jermaine cantò la canzone di Michael «Smile».
Aveva scelto bene: lui amava quel pezzo.
Finita la celebrazione, lasciammo lo Staples Center e ci
dirigemmo al Beverly Wilshire Hotel per una veglia privata. Paris,
Prince e Blanket si emozionarono nel vedere la mia famiglia.
Stavano in una zona riservata ai VIP e non appena Prince ci vide
esclamò: «Sono arrivati i Cascio». Andammo loro incontro per
abbracciarli, ma gli addetti alla sicurezza ci bloccarono
immediatamente.
«Lasciateli passare!» disse Prince. «Sono di famiglia.»
Non mi stancherò mai di dire che i figli avevano per Michael la
priorità assoluta. Non importava dove fosse o cosa stesse
facendo: i bambini potevano sempre andare da lui e lo
sapevano. Se era in riunione e uno dei piccoli aveva bisogno di
lui, interrompeva ogni cosa, si occupava del bambino e ritornava.
Se facevano storie per andare a letto, stava con loro e gli
spiegava la ragione per cui dovevano andare a dormire, li
informava su cosa stava facendo o dove sarebbe stato. Li
calmava quando erano agitati. Non lasciava mai che fosse Grace
o una babysitter a occuparsi di un bimbo che piangeva. Trovava
sempre il tempo di stare con i figli finché si tranquillizzavano.
Concedeva loro tutto il tempo necessario, non gli importava di
fare tardi a un appuntamento. Non era mai arrabbiato né
scoraggiato. La sua pazienza era infinita, e così i suoi bambini
crescevano motivati, sicuri e aperti al inondo. Ma ora, nel
momento del loro massimo bisogno, quando avrebbe voluto più
di ogni altra cosa calmarli e rassicurarli, lui non c'era, e la mia
famiglia poteva fare ben poco per dar loro conforto. Li
abbracciavamo stretti e condividevamo il dolore. In questo
momento, come sempre nella vita di Michael, i suoi figli avevano
la precedenza.

Scoprii in seguito che anche la loro madre, Debbie, la pensava


così.
Marc Schaffel le aveva procurato il biglietti e si era proposto
di accompagnarla personalmente al funerale, ma la sera
prima, nel West in Hotel, vicino allo Staples Center,
discussero a lungo se lei avesse dovuto o meno partecipare.
Per quanto desiderasse porgere l'estremo saluto a Michael,
Debbie non voleva essere fonte di distrazione. E così,
mettendo da parte il dolore per amore della discrezione, se
ne tornò al suo ranch.
Dopo la veglia, la mia famiglia e io ci dirigemmo verso una
stanza privata. I bambini entrarono in un ascensore che si
riempì velocemente di altre persone che erano davanti a noi.
Noi desideravamo stare con loro, ma non volevamo
sembrare invadenti.
«Vogliamo che i Cascio salgano con noi», urlò Prince. E così
tutti uscirono dall'ascensore e noi salimmo con loro. Erano
ragazzi molto forti, anche se la tristezza nei loro occhi era
straziante.
Più tardi quello stesso giorno la mia famiglia fece ritorno alla
tenuta di Katherine, Hawthorne, per trascorrere un po' di
tempo con la famiglia Jackson. A un certo punto, mentre le
parlavo, Paris mi disse: «Papà mi ha raccontato tutte le
pazzie che facevate insieme». Michael le aveva del nostro
viaggio in Scozia: il fantasma, l'albergo che faceva paura...
Parlando con la bambina capii che non importava cosa fosse
successo tra noi: se ne aveva parlato ai figli, voleva dire che
il nostro passato era prezioso per lui quanto lo era per me.
Non aveva dimenticato quel viaggio, e non lo dimenticherò
mai nemmeno io.

I rapporti di Michael con la sua famiglia erano stati sempre


complicati e alcune lotte di potere che avevano caratterizzato
il suo mondo erano ancora in corso al momento della sua
morte. Per esempio, suo fratello Jermaine disse alla stampa
di essere stato la sua spina dorsale; il giorno dopo la sua
morte, suo padre Joe partecipò a uno spettacolo per ricevere
un premio e promuovere la sua nuova casa discografica; i
fratelli Jackic, Tito, Jermaine e Marion girarono alcune
puntate di un reality show. E vero, le registrazioni erano già
iniziate, ma questi episodi dettero l'impressione, forse
immeritata, che la famiglia stesse sfruttando
indecorosamente i riflettori che la morte di Michael aveva
acceso su di loro.

Il Natale successivo, Prince, Paris e Blanket vennero a casa


nostra. Avevano sempre trascorso le feste natalizie con noi, a
Neverland o nel New Jersey. Per loro era una consuetudine, e
nonna Katherine voleva mantenere intatte le tradizioni in modo
che non si sentissero più sconvolti di quanto già non fossero
dopo la scomparsa del loro papà. Era esattamente ciò che
avrebbe desiderato Michael. Vennero anche suo nipote TJ, la
tata Grace e Omer Bhatti.

Per Natale mia madre preparò la sua tradizionale cena a base di


tacchino, con tutti i piatti preferiti di Michael. Cercammo di
divertirci rilassandoci, leggendo libri, guardando film e giocando
ai videogiochi. Ma fu un Natale difficile per tutti. La persona che
ci aveva riunito non c'era più. Michael aveva sempre svolto il
ruolo di Babbo Natale, e ci metteva tutta la sua energia: era lui
quello che stava sotto l'albero e porgeva i regali. Era lo spirito
delle nostre feste natalizie. Questa volta, come è solita fare, fu
mia madre a prendere in mano la situazione.
Durante quelle notti di vacanza sognai spesso Michael, e nei
sogni gli parlavo. Ci abbandonavamo ai ricordi, dicevo di volergli
bene e lui lo diceva a me. Sentivo la sua presenza, e sapevo di
non essere l'unico. Diverse persone riferirono di aver intravisto
Michael attraversare i corridoi di casa nostra. Mia madre non
crede nei fenomeni paranormali, ma una sera, mentre era in
cucina, vide Michael passarle accanto esclamando: «Ciao,
Connie».
Eddie e io eravamo fratelli e, crescendo, eravamo stati molto
affiatati. Avevo litigato con lui come con Michael: con
quest'ultimo avevo fatto pace da tempo, con Eddie non ancora.
Non potevo certo rimproverare mio fratello per aver cercato di
fare il possibile per difendere e proteggere Michael. Non avevo
fatto la stessa cosa anch'io? Mi ero sempre sentito pronto a
discutere e a risolvere i nostri problemi, ma inspiegabilmente
l'occasione non si era mai presentata. In seguito tuttavia ebbe
un'esperienza significativa, che gli aprì gli occhi su molte cose.
Eddie, come me, avrebbe fatto di tutto per Michael. Era
profondamente leale. Ma dopo la sua morte, John McClain e
alcuni componenti della famiglia Jackson gli voltarono le
spalle e lui si trovò ad affrontare accuse assurde come quelle
che erano state rivolte a me (e alle quali Eddie aveva
creduto). Fu così che mio fratello capì esattamente ciò che
avevo passato io, e con quella consapevolezza giunse infine
il momento dei chiarimenti. Mi riferì che lui e Michael
pensarono che io lo avessi tradito quando sentirono dire che
non avrei testimonialo. Michael aveva dubitato proprio di
quella virtù che pensavo ci avrebbe unito per sempre: la mia
lealtà. Eddie, nella sua estrema fedeltà a Michael, ne aveva
dubitato con lui.
Gli spiegai la falsità delle accuse e gli raccontai per filo e per
segno cos'era successo; e ora che aveva avuto una diretta
esperienza delle creature infide che popolavano
l'organizzazione di Michael mi credette. Gli posi la domanda
che ancora mi assillava: «Chi ha detto a Michael che io non
volevo testimoniare in suo favore?» Ma non seppe
rispondermi. Sembra proprio che non riuscirò mai a sapere
chi è stato, e non mi stupirei se quella persona altri non fosse
che Michael stesso... lui, che con i suoi continui dubbi, alcuni
giustificati e altri totalmente infondati, e con la sua paranoia,
era obbligato a credere che nessuno, nemmeno la persona a
lui più vicina, potesse meritare la sua fiducia.

Parlammo dei problemi nati tra Eddie e la Michael Jackson


Estate. Michael e mio fratello avevano registrato dodici
canzoni, tre delle quali erano state scelte per l'album
postumo dalla Sony e dalla società che gestiva il patrimonio
di Michael. Purtroppo Eddie non capiva la squallida politica e
la slealtà che permeavano quel mondo. C'era persino chi
dubitava che le canzoni che avevano registrato fossero
autentiche. Di punto in bianco si diceva che i Cascio
cercavano di speculare su Michael. Conoscevo i personaggi
coinvolti, e avevo qualche idea su come muovermi in quel
sordido ambiente per aiutare Eddie a risolvere i suoi
problemi. Solo in quel momento mio fratello iniziava a vedere
la complessità del mondo in cui era vissuto Michael e la
rapidità con la quale i suoi abitanti potevano rivoltarsi contro
uno di loro.
Parlammo a lungo. Alla fine capì cosa avevo passato e come
mi ero sentito quando le mie azioni e i miei propositi erano
stati travisati. E anch'io riconobbi i motivi che lo avevano
spinto ad agire così. Avremmo dovuto parlare molto prima, la
vita è troppo breve per lasciare problemi irrisolti con le
persone che ami.

Eddie ebbe una bambina che chiamò Victoria Michael, la


prima nipotina della famiglia. Le voglio molto bene, e non
vedevo l'ora di farle da zio così come Eddie voleva che le
stessi vicino. Ora che era diventalo padre, forse vedeva il
nostro rapporto solo una luce diversa, rendendosi conto che
voleva vedere i suoi figli andare d'accordo tra loro. Entrambi
avevamo amato Michael ed entrambi avevamo avuto un forte
legame con lui. Avevamo condiviso questo sentimento per
tanti anni da bambini e non volevamo che diventasse motivo
di conflitto da adulti. Michael se n'era andato. I nostri cuori
erano affranti. Non c'era rimasto davvero niente per cui
litigare. Oggi mio fratello e io siamo vicini come non mai.
soprattutto dopo aver compreso quante cose abbiamo
condiviso.
Siamo felici di essere di nuovo fratelli.

EPILOGO
Nel primo anniversario della morte di Michael è stata tenuta
una cerimonia commemorativa nel luogo della sepoltura. La
famiglia, gli amici, i fans, si sono ritrovati al suo mausoleo nel
cimitero di Forest Lawn. La folla è rimasta fuori, dentro c'erano
solo poche persone: Randy, Janet, Jermaine, Marion e alcuni
cugini di Michael. Prima ha parlato un sacerdote, poi il nipote di
Michael, Auggie. ha fatto un piccolo discorso in memoria dello
zio, vigoroso e appropriato, che ci ha lasciati colpiti e commossi.
Conclusa la cerimonia, mi sono avvicinato. La tomba si
ergeva davanti a me e sopra c'era una grande corona
dorata. L'ho sollevata, come avevo visto fare ad altri, e ho
scoperto che sotto c'era una scatola piena di gomme da
masticare Bazooka. Mio malgrado, ho sorriso. Era un gesto
simpatico, a Michael sarebbe piaciuto molto. Ho recitato una
preghiera e mi sono preso un momento per parlare con lui.
L'ho ringraziato per tutto ciò che aveva fatto per la mia
famiglia e per tutto quello che mi aveva dato. Gli ho
promesso che avrei fatto il possibile per preservare la sua
eredità come lui avrebbe voluto.

Grazie, ho detto in silenzio, per l'avventura più speciale che


una persona avrebbe mai potuto donare. Grazie per avermi
aperto gli occhi su un mondo che, se non fosse stato per te,
non avrei mai avuto l'opportunità di conoscere. Grazie per ì
ricordi che mi hai lasciato. Sono stato davvero fortunato ad
averti nella mia vita. Ti voglio bene e mi manchi.
In seguito mi hanno detto che quando mi sono allontanato
dalla tomba hanno visto un petalo bianco svolazzare fino a
terra. Non c'era vento, e comunque eravamo al chiuso, non
c'erano nemmeno finestre aperte. Mi piace pensare che
Michael mi abbia sentito e che quel petalo fosse il suo modo
di rispondermi. Chi può saperlo...
Non ho mai vissuto una vita normale. Mentre i miei amici
partecipavano alle feste universitarie, giocavano a Beer
Pong e giravano per locali, io mi costruivo una vita in un
mondo completamente diverso. Eppure ero fortunato. Oltre
alla mia famiglia, calda e piena di amore, avevo un
insegnante, un padre, un fratello e un amico che era nato
con un incredibile talento, e che perciò viveva sotto la luce
abbagliante dei riflettori. Ho visto il mondo dal punto di vista
di una superstar, e l'ho vissuto appieno. Ho provato la luce di
quei riflettori e ho visto le ombre scure che incombevano
dietro di essi. Era una vita da privilegiato, ma che andava
vissuta con il peso della solitudine e della segretezza. Ho
scoperto quel mondo quando ero un ragazzino, ma
crescendo ho ottenuto un ruolo di maggiore responsabilità e
ne ho conosciuto le sfumature e le complessità, quelle buone
e quelle meno buone; ho conosciuto le battaglie e gli ostacoli
che Michael doveva affrontare e superare per coltivare il suo
lavoro e la sua arte. Da Michael ho imparato a esplorare il
mondo attraverso i libri; grazie a lui ho avuto l'opportunità di
apprezzare gente, luoghi, religioni e culture di tutto il mondo.
Mi sono innamorato della musica e del mondo dello
spettacolo. Soprattutto, ho scoperto il valore e la bellezza di
un cuore aperto. C'erano troppo dure lezioni personali, — la
distruttività di avidità ed egoismo spietato, le dolorose ferite
del tradimento, la lotta per l'amore di equilibrio e di
autoconservazione, la sfida di preservare un'amicizia
complicata e amata in un ambiente competitivo e
minaccioso.
Ho trascorso la maggior parte della mia vita finora nella sfera
di Michael, ma a Dio piacendo, ho una lunga vita davanti a
me. Credo che alcune parti della vita sono predeterminate,
che le cose accadono per un motivo, ma allo stesso tempo
spetta a noi fare la maggior parte di ciò che ci è dato. Vedo
la mia amicizia con Michael e la ricchezza di esperienze che
mi ha portato, come importanti lezioni per qualunque cosa io
sono destinato a fare dopo. Ho intenzione di prendere in
mano quello che ho imparato e metterlo a buon uso,
costruendo la mia eredità — tutto ciò che potrebbe dire — da
questo momento in poi. Non prendo qualunque cosa che mi
è stato data per scontato. Per me — per chi è stato
conquistato dalla musica di Michael, il suo essere o entrambi
— il suo messaggio è semplice e lo ha detto spesso: è tutto
per amore. Io vivo di quel principio.
Neverland, per quanto ne so, è deserta. Lo zoo è vuoto. Le
giostre del parco divertimenti sono state portate via. Le
immagini del ranch che ho visto lo mostrano in un triste stato
di abbandono: una volta attentamente curati, il paesaggio ora
trascurato, coperto di erbacce in alcuni luoghi e appassito in
altri; il baldacchino sopra gli autoscontri erano cascanti e
strappati; i teepei erano sprofondati in se stessi. La casa
principale, vuota per così tanto tempo, deve essere piena di
fantasmi e l’aria viziata. Un luogo che è stato fatto per la vita,
risate e bambini è ora un ricordo infestato dall’eccentricità
brillante di Michael.
La verità è che non mi manca il parco di divertimenti di
Neverland, o lo zoo. Mi mancano le piccole cose: il modo in
cui tutta la mia famiglia impacchettava i regali, le passeggiate
con Michael e i bambini, le nostre cene. Il piccolo Prince che
parlava con la testa rivolta verso l’alto e che non stava mai
zitto, Paris, la signorina del suo papà, che si aggrappava a
lui, Blanket tra le braccia di Michael, le tende indiane dove si
cenava. Le immagini sono così vivide. Il gruppo di persone
che camminava lungo i binari del treno. La musica che
suonava. Il rumore delle cascate. Le risate di Michael. Il suo
Borsalino. Se Michael e io avessimo continuato a vivere
come stavamo facendo all'epoca della sua morte - sia che
avessimo preso direzioni diverse o che avessimo lavorato
ancora insieme per i suoi concerti - so che avremmo
ripensato con nostalgia ai nostri anni trascorsi insieme. E so
che se lui fosse vivo, con il passare degli anni ci saremmo
ritrovati innumerevoli volte per rivivere quei ricordi; per
parlare, bere vino e ascoltare musica insieme, fino alla
vecchiaia.
Alcune sere a Neverland Michael e io chiedevamo allo chef di
prepararci dei cestini da picnic per la mattina seguente. All'alba
salivamo con le moto sulle montagne per dieci o quindici minuti
buoni. Poi stendevamo le coperte e facevamo colazione mentre
guardavamo sorgere il sole. Eravamo ancora nella proprietà, ma
così lontani da tutto che non si vedeva neanche la casa. Era un
altro mondo, incredibilmente silenzioso. Mi piaceva salire sulle
montagne, anche senza Michael, e conoscevo tutti i sentieri che
portavano lassù, tutte le scorciatoie e i passaggi nascosti. Quelle
erano le nostre evasioni segrete, insieme o da soli.
I sentieri erano molto stretti, perciò dovevamo stare attenti. Un
passo falso e saremmo caduti in un dirupo. Una volta Michael
propose: «Frank, andiamo sulle montagne». Salimmo sulle
nostre moto e prendemmo un sentiero che non conoscevamo e
che si erpicava su per il ripido pendio. All'improvviso la strada si
fece più stretta, come la coda di un serpente, e finì nel nulla.
Michael, che era davanti, fermò la moto appena in tempo e io
inchiodai dietro di lui. Si voltò a guardarmi: «Testa di Mela, si
mette male», disse. Il sentiero era sparito. Alla nostra sinistra
c'era un precipizio, a destra il fianco della montagna: non c'era
spazio per fare inversione con le moto.
«Non preoccuparti», risposi, «vado indietro pian piano.» Misi la
moto in folle e cominciai a fare marcia indietro. Ero terrorizzato.
Se guardavo giù mi vedevo morto. Malgrado il pericolo devo
ammettere che momenti del genere mi piacevano, e anche a
Michael. Raggiungemmo un punto sicuro, poi ci scambiammo un
grande sorriso, girammo le moto e scendemmo giù a tutta
velocità.
Ogni giorno c'è qualcosa che mi ricorda Michael. Una canzone,
un marchio della Disney, una persona credulona che sembra
perfetta per uno scherzo. Di notte continuo a sognarlo; sogno i
vecchi tempi: siamo in tour, a una cerimonia, camminammo
fianco a fianco, tutto quello che abbiamo fatto per anni e che
avremmo continuato a fare se le cose fossero andate in modo
diverso.
Penso con rammarico al modo in cui la nostra relazione ha
sofferto durante e dopo il processo. Avrei voluto che la vita non
fosse diventata tanto complicata, ma è così che di solito vanno le
cose, soprattutto quando si parla della vita grandiosa e piena di
successi di una persona come Michael. Ma avevamo fatto pace.
Fin da bambino avevo capito che essergli amico voleva dire
stare al suo fianco nella buona e nella cattiva sorte. Non ho mai
smesso di preoccuparmi per lui, di amarlo e di difenderlo. Mi
piace pensare che un giorno saliremo di nuovo insieme sulle
montagne. Ancora una volta.

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