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UN’AMICIZIA ORDINARIA
PARTE PRIMA
IL CLUB DELLE
TESTE DI MELA
CAPITOLO UNO - UN NUOVO AMICO
Era una fredda giornata d’autunno, ed io avevo cinque
anni. Ero seduto nel soggiorno di casa con una limousine
giocattolo; ero ossessionato da quella macchinina come
soltanto un bimbo di cinque anni sa esserlo, e quando mio
padre mi annunciò che quel giorno sarei andato al lavoro con
lui per incontrare un suo amico, la mia prima preoccupazione
fu quella di poter portare con me il mio giocattolo, che tenevo
ben stretto nella mano.
Non avevo mai sentito parlare di Michael Jackson, perciò quando
mi fu detto il nome della persona che dovevamo vedere non me
ne interessai affatto. Ero solo felice di uscire di casa e fiero di
accompagnarlo al lavoro. Mi bastava avere con me la mia
piccola limousine.
Due o tre settimane dopo il nostro primo incontro mio padre portò
di nuovo tutti quanti noi in albergo a trovare Michael: io, mio
fratello Eddie e mia madre, che era incinta. Queste furono le
uniche due volte che lo vidi prima di quella notte a casa nostra a
Hawthorne, nel New Jersey; quando suonò il campanello io ero a
letto da un bel pezzo. Hawthorne è una cittadina modesta e la
nostra casa era piccola. Nella cameretta che dividevo con mio
fratello c’erano due lettini separati da un armadio minuscolo. Mi
ricordo che mi chiesi chi poteva suonare alla porta nel bel mezzo
della notte. Sentii aprire la porta di casa e poco dopo i miei
genitori vennero a svegliarci. C’erano due uomini con loro. Uno
era Bill Bray, l’altro Michael Jackson.
Un visitatore notturno era un evento raro ed eccitante. Io e mio
fratello ci precipitammo giù dal letto a salutarlo e gli facemmo
vedere la nostra bellissima collezione di Cabbage Patch Kids e di
figurine degli Sgorbions. I miei genitori ci dissero poi di mostrargli
cosa avevamo imparato alle lezioni di pianoforte. Non ero
particolarmente bravo, ma strimpellai il tema di Guerre stellari e
Per Elisa. Mio fratello Eddie, che aveva solo tre anni ma era già
più bravo di me, suonò il tema di Momenti di gloria. Michael fu
entusiasta dell’esibizione. Forse è esagerato dire che già
all’epoca riconobbi in lui qualcosa di diverso, qualcosa che lo
distingueva dagli altri adulti che conoscevo, ma quando tornò la
volta successiva gli regalai una delle cose a me più care: la mia
collezione di Sgorbions. All’inizio rifiutò: «Non posso prendere le
tue figurine!» tuttavia io avevo visto quanto gli piacevano e
insistetti. Quello fu il primo regalo che feci a Michael e lui lo
tenne per tutta la vita (tra il disordine di un armadio a Neverland).
Le visite di Michael divennero sempre più frequenti. All’epoca
era in tournée con i Jackson per l’album Victory; veniva perciò
spesso a New York, e non mancò mai di farci visita. Perché?
Perché una persona così presa dal mondo dello spettacolo iniziò
a dedicare parte del suo tempo alla nostra famiglia, una famiglia
così ordinaria? Penso che rappresentassimo ai suoi occhi
qualcosa che, nonostante il successo, lui non aveva e che in un
certo senso avrebbe voluto. Inoltre, l’amicizia con noi gli
consentiva di scappare nella verde tranquillità della periferia del
New Jersey e di vivere, almeno per un po’, una vita normale con
una famiglia normale.
Divertirsi con i bambini e interessarsi a giocattoli e cartoni, non
aveva alcuna implicazione sessuale. Quando Michael stava con
loro, si sentiva bambino anche lui. Era sotto la luce dei riflettori
da tutta la vita, e la gente lo guardava in modo diverso. Ma ai
bambini non importava sapere chi fosse. A me certamente no.
Le notti dei concerti erano lunghe per bambini come noi e i miei
genitori, soprattutto mia madre, lo sapevano; inoltre ottenere dei
posti numerati per un concerto di Michael Jackson non era da
poco, ma i nostri genitori ci tenevano a offrirci la possibilità di
vivere eventi così memorabili. Forse Michael era la popstar più
famosa del mondo, e forse il rapporto con lui li faceva sentire
speciali, ma questi pensieri non influenzavano sicuramente le
loro scelte come genitori. Non erano impressionati da lui. Certo,
era fantastico conoscerlo e trascorrere del tempo insieme,
questo era importante. Ma andare ai concerti e stare con Michael
era quel genere di cose che i miei facevano con le persone cui
volevano bene. Michael per mio padre era speciale, ma non per
la fama e il successo bensì per il suo sorriso, la sua sincerità, la
sua umanità. Era colpito dal fatto che una superstar come lui
avesse stretto amicizia con tutta la nostra famiglia. Mia madre è
una persona schietta e leale, e quando imparò a conoscere
Michael divenne materna e protettiva come avrebbe fatto per
qualsiasi amico caro. Lei era lì per lui; soprattutto, con il passare
del tempo, quando sentì che aveva bisogno in modo particolare
del suo sostegno. I miei genitori erano sempre attivi, la porta di
casa nostra era aperta al mondo e chiunque entrasse trovava
calore e affetto. Erano fatti così. Dominic Cascio, mio padre, era
cresciuto in Italia, tra Palermo e Castelbuono, il Paesello di cui
ho parlato prima, un luogo piccolo e speciale dove le persone
non hanno bisogno di avere tanti soldi per godersi la bellezza
della vita. Amore, famiglia, cibo e religione: ecco ciò che conta a
Castelbuono. So che sembra un po’ uno stereotipo, come quelli
che si trovano in quei film romantici ambientati in Toscana, con il
sole e i bei paesaggi, ma tutto questo esiste davvero. Mio padre
è cresciuto là e, anche se mia madre è nata a Staten Island, la
sua famiglia veniva da Castelbuono.
Quando mio padre parlò con Bill Bray della possibilità che io
e mio fratello rimanessimo in tournée, Bill disse: «Sì, Michael
è giù di corda. Quei bambini lo aiutano ad andare avanti». I
miei genitori sapevano che saremmo stati di conforto.
Chiesero alla nostra scuola se potevamo tenerci in pari con
l'aiuto di un tutor. Alla fine, mio padre pronunciò le parole
magiche: «Potete rimanere».
CAPITOLO QUATTRO -
STRAORDINARIO MONDO
E’così, mio fratello e io eravamo in tour con Michael
Jackson. I nostri genitori vennero a trovarci in alcune città
lungo l'itinerario, ma per il resto abbiamo viaggiato,
partecipato ai concerti e trascorso tutto il tempo con Michael.
Lo consideravo ormai una figura paterna e un amico. Prima
della fine della tournée l'avrei conosciuto anche come artista.
Avrei pure assistito, con profonda compassione, agli attacchi
che iniziarono contro Michael il giorno in cui fu accusato di
molestie e che continuarono per il resto della sua vita.
Prima di proseguire per il Sud America, la tournèe fece una
pausa di una settimana in Svizzera. Papà ci lasciò a Gstaad,
dove l'amica di Michael, Elizabeth Taylor, gli aveva offerto di
soggiornare nel suo chalet. Gstaad è una bellissima cittadina
di montagna dove puoi vedere le mucche passeggiare in
mezzo alla gente, scuotendo le grosse teste e facendo
suonare i campanacci.
La prima sera che trascorremmo allo chalet ordinammo una
zuppa di pollo all'albergo Palate in fondo alla strada. Era così
gustosa che la richiedemmo ogni sera. Allo chalet c'era una
specie di nonna, molto dolce, che si occupava di noi. Era
piccola e un po' traballante, e noi ci divertivamo a rispondere
alle sue attenzioni con un entusiasmo esagerato. La
ricoprivamo di baci e abbracci mentre lei ridacchiava
imbarazzata. Comunque, che si trattasse di zuppe o di
vecchiette, era bello esagerare.
Gstaad era l'evasione perfetta dai ritmi del tour. Era così
piccola e così lontana dal resto del mondo che, almeno
all'inizio, Michael poteva passeggiare liberamente per le
strade senza essere riconosciuto né infastidito. Per lui era
una gioia rara. Il primo giorno girammo tra i negozietti,
ammirando e commentando tutto quello che la cittadina
aveva da offrire. A un certo punto decisi di iniziare una
collezione di coltellini tascabili e accendini artigianali.
Immagino che avessi già sentito parlare dei coltelli svizzeri,
ma non ho idea del perché sentissi il bisogno di averne più di
uno. Comunque, una volta presa la decisione, ci dedicammo
completamente alla nuova causa e così, nel corso della
nostra permanenza, individuammo tutti i tipi di coltelli da
tasca della cittadina (e Michael li comprò per la mia
collezione). Con gli accendini, invece, mi piaceva bruciare
pezzi di carta (no, non ero un piromane, ma solo un
adolescente). Più tardi, nel lasciare la Svizzera, Bill Bray mi
chiese di consegnargli gli accendini: non voleva che li
portassi in aereo per ragioni di sicurezza, e disse che li
avrebbe tenuti per me. In realtà, non li rividi mai più. Bill Bray
è morto diversi anni fa e dove siano finiti i miei accendini è
un mistero che si è portato nella tomba.
Un particolare che ricorderò sempre del soggiorno a Gstaad
è che Michael mi fece conoscere musica nuova. Spesso
ascoltavamo qualcosa insieme e ad ogni nostra visita nel
negozio di dischi gli stavo sempre accanto per vedere quali
album catturavano il suo interesse. Seguiva anche le canzoni
più popolari alla radio e si teneva aggiornato sulle classifiche.
Aveva un impiegato il cui unico incarico era quello di
preparare dei nastri con le hit della settimana da tutto il
mondo e spedirglieli immediatamente.
Allo chalet sedevamo per ore ad ascoltare Michael che
faceva il dj e diceva: «Dovete ascoltare questa canzone. Ora
dovete sentire questo gruppo». Ascoltammo Stevie Wonder
e tutte le star della Motown. Ci fece conoscere la canzone di
James Brown «Papa Don't Take No Mess», nella versione
integrale di quattordici minuti. Ascoltammo il pezzo dei Bec
Gces «How Deep Is Your Love?» (ancora oggi penso che sia
una delle più importanti canzoni di tutti i tempi). Michael ci
parlò di Aaron Copland, che considerava il più grande
compositore del ventesimo secolo. Mi fece conoscere tutti i
tipi di musica: country, folk, classica, funk, rock; lì è nata la
mia passione per Barbra Stecisand. Mi innamorai della sua
canzone «People». A Michael comunque piaceva
addormentarsi con la musica classica, specialmente quella di
Claude Debussy.
Ricordo che una volta mise il disco di un gruppo chiamato
«Bread». Non feci molta attenzione alla musica, ero troppo
occupato a prendere in giro il nome. «Pane? Che genere di
nome è questo? Ci vuoi un po' di burro?» e così via con
queste sciocchezze. Ma quando mi calmai un attimo e,
invece di fare dello stupido sarcasmo ascoltai veramente, mi
piacquero così tanto che divennero uno dei miei gruppi
preferiti. Volevo sapere tutto sui Bread: erano proprio il mio
«pane».
Per la verità, lui era molto impegnato. E’ anche vero che non
seguivamo esattamente un orario scolastico: le lezioni
avvenivano a volte nel bel mezzo della notte. Ma Michael
sedeva regolarmente con noi e ci aiutava a fare i compiti.
Quando dovevamo leggere libri, lui leggeva dei capitoli a
voce alta, poi ci chiedeva di riassumere quello che avevamo
ascoltato. «Allora, quali sono i personaggi principali? Che
cosa vogliono? Cosa significa?» chiedeva. Allo stesso modo
ci faceva ragionare sui film che ci mostrava. Ci incoraggiava
anche a riflettere sui nostri compiti in maniera diversa da
come eravamo abituati, e a prenderli con serietà.
Voleva inoltre che tenessimo un diario del nostro viaggio.
«Scrivete quello che succede», ripeteva spesso, «perchè un
giorno sarà bello riviverlo.» In ogni Paese voleva che
scattassimo le foto, ci faceva fare ricerche sugli usi e costumi
del posto e poi annotare quanto avevamo fatto e visto. Ci
confrontammo con diverse culture. Visitammo scuole e
orfansotrofi. Eddie e io iniziammo ad avere maggiore
consapevolezza del mondo intorno a noi. Solo molto più tardi
ho capito di dover ringraziare i miei genitori per avermi
consentito di vivere questa esperienza. Ebbero il merito di
riconoscere che l'istruzione non era soltanto leggere,
scrivere e fare di conto. Avevano capito che si poteva
imparare «vivendo».
«E funziona?» chiesi.
«Beh, la fa smettere. Poi le chiedo se ha finito di litigare.»
Non è esattamente il tipo di dialogo che raccomanderebbe
un consulente coniugale... Sentivo che le cose non
andavano molto bene. Si erano sposati per capriccio, senza
riflettere sui problemi che sarebbero potuti sorgere dalla loro
convivenza; inoltre, avevano aspettative del tutto diverse
dalla loro relazione. Michael, con tutti i suoi studi sulle
persone e sui loro gusti, con tutta la sua conoscenza delle
parole e dei suoni in grado di toccare nel profondo l'animo
delle persone... beh, sembrava non aver portato niente di
tutto questo nel suo matrimonio.
Era anche una star, una persona molto attaccata alla sua
routine. Era abituato a essere solo e a fare ciò che voleva
quando voleva. Immagino che nelle sue relazioni precedenti
Lisa fosse stata, giustamente, coccolata e vezzeggiata. Lisa
e Michael avevano in comune il fatto che il mondo girava
intorno a loro, ma questo rendeva difficile far sì che si
occupassero l'uno dell'altra. Lisa cercava di capire e di
adattarsi alla personalità di Michael, ma credo che l'onere del
buon funzionamento del rapporto gravasse interamente su di
lei.
PARTE SECONDA
FRANK TAYSON
&
IL SIGNOR JACKSON
***
Nell'agosto del 1999 Michael cominciò a lavorare al suo
nuovo album, che si sarebbe intitolato Invincible, a New
York. Affittò un appartamento nella Upper East Side, sulla
Settantaquattresima. Come aveva fatto con il suo
«nascondiglio» a Culver City, trasformò anche questo in una
Neverland in miniatura. Voleva creare un ambiente in cui
sentirsi a suo agio e lui stava benissimo quando si
comportava come un bambino. Perciò, al quinto piano, c'era
una sala giochi con videogame, un tavolo da biliardo, un
videoproiettore, una macchina per i popcorn e un banco
pieno di caramelle. Michael chiese anche di avere dei
manichini, che scelsi io da un'esposizione. Ci vennero
consegnati, montati e vestiti con abiti sportivi. Li sistemammo
in giro per il primo piano. A tener loro compagnia, in mezzo
alla stanza, c'era un Batman a grandezza naturale del
marchio The Sharper Image.
I manichini erano un elemento strano, soprattutto al primo
impatto, ma Michael ci parlava e ci scherzava come se
avessero potuto sentirlo, nello stesso modo in cui di solito le
persone parlano al proprio cane. Io lo prendevo in giro: «Ti
vuole dire una cosa. Mi ha detto di dirti che ti puzza l'alito e
che dovresti farti una doccia». E un'idea che può sembrare
insolita: non è che tutti abbiano dei manichini in soggiorno.
Tuttavia devo ammettere che una volta installati, l'effetto
aveva un che di artistico.
In casa non c'erano solo giocattoli. Un piano era pieno di
opere d'arte e di porcellane. A Michael piacevano i quadri di
William Bouguereau, un pittore realista francese del
diciannovesimo secolo, perciò mandò un mercante d'arte ad
acquistare alcune tele che Sylvester Stallone aveva messo
all'asta. Ne comprò due: una per sei milioni di dollari, l'altra
per tredici. Nella prima vi erano raffigurati un angelo e una
fata con un bambino nel mezzo.
L'altra rappresentava una bellissima donna circondata da
angeli. Le tele erano alte circa tre metri.
Prince, Paris e la loro tata, Grace, si spostavano sempre con
noi. Pia, la seconda tata, aveva lavorato solo durante il primo
anno. Quando Grace aveva bisogno di una pausa Michael in
genere si rivolgeva allo staff di Neverland. Durante i viaggi,
Michael divideva il tempo tra gli incontri di affari e le gite con i
figli. Di notte, a seconda dei suoi programmi, i bambini
dormivano nella sua camera oppure con la tata se lui doveva
alzarsi presto.
Per quanto riguardava la loro educazione, Michael era molto
più severo di quanto ci si potesse aspettare considerando le
sue stravaganze. C'erano Neverland, i giochi e i giocattoli
che amava, c'era l'onnipresente banco di dolciumi che lo
seguiva ovunque alloggiasse; a Neverland c'era persino la
«stanza dei treni», con due bellissimi trenini elettrici (che
Prince adorava). Malgrado tutto, Michael non voleva che i
suoi figli crescessero viziati. Potevano andare nel parco
divertimenti di Neverland solo in occasioni speciali, due o tre
volte la settimana, e sapevano che, se volevano salire sulle
giostre, dovevano comportarsi bene. Non avevano il
permesso di guardare la TV, né a casa né in viaggio. Michael
passava molto tempo a leggere loro libri (amavano quelli con
i personaggi di Disney, come Topolino e Biancaneve), ma
comprò anche delle enciclopedie per bambini. Voleva che
fossero ben educati; vedeva un'opportunità di apprendimento
in ogni situazione: se si rompeva qualcosa, ne spiegava il
funzionamento; se pioveva, parlava del cielo dell'acqua. Gli
piaceva dar loro piccole lezioni.
Ovviamente c'erano moltissimi giocattoli, e Prince e Paris
dovevano trattarli con rispetto. Le cose erano lì per loro, ma
per ottenerle dovevano comportarsi bene. Furono educati a
essere grati e riconoscenti. Michael voleva che capissero il
valore del duro lavoro.
«Se non fosse per mio padre», diceva spesso, «non sarei
qui. Ci svegliava alle cinque del mattino per le prove. E,
tornati da scuola, la prima cosa da fare erano altre prove.
Spinse la famiglia a dare il massimo.»
Non voleva che i figli seguissero così precocemente le sue
orme nel mondo dello spettacolo, ma spesso dava a Prince
dei compiti per la giornata, per esempio gli suggeriva di
andare in giro con una videocamera a osservare il mondo dal
suo punto di vista. Quando Michael tornava a casa la sera,
gli chiedeva: «Hai lavorato oggi, Prince? Hai fatto un film per
me?» Mentre assecondava il suo desiderio di giocare, era
riflessivo e attento allo sviluppo di ogni aspetto conoscitivo.
Per quanto volesse stare con i suoi figli, c'erano periodi in cui
non era possibile. Grace, tata a tempo pieno, svolgeva
egregiamente il suo lavoro prendendosi cura dei bambini.
Quando nacque Prince, lavorava come assistente
all'organizzazione della famiglia Jackson, e fu Katherine, la
madre di Michael, a suggerire il suo nome come babysitter.
«Sarà bravissima con i bambini, è una persona davvero
meravigliosa.»
Era vero. Era (ed è tuttora) una persona fidata, dolce e
amorevole. E queste erano le qualità che Michael cercava.
Grace si calò nel ruolo senza alcuna difficoltà. Allevava i
bambini, li amava come una madre e avrebbe fatto
qualunque cosa per loro. I rapporti con Michael di solito
erano ottimi: per lui niente era più importante dei suoi figli, ed
essi erano nelle mani di Grace.
Comunque per lui era difficile - ed e così per molti genitori -
vedere l'amore materno che la tata nutriva per i suoi bambini:
non voleva che crescessero considerando Grace la loro
mamma.
«Lei lavora per voi», diceva loro quando Grace non era nei
paraggi. Erano troppo piccoli per comprendere, e lui non si
aspettava che lo facessero, ma era il modo con cui
esternava il suo disagio per la situazione. Ogni volta che
sentiva inconsciamente che il rapporto si stava facendo
sempre troppo stretto, sembrava voler creare una distanza
tra di loro. Scattava in modo imprevedibile la sua paranoia, la
stessa che gettava un'ombra su molte sue relazioni
interpersonali, e alla quale nemmeno Grace poté sottrarsi.
A un certo punto, quando abitavamo sulla Settantaquattre-sima
Strada, Michael decise di non avere più bisogno di una tata che
si occupasse dei suoi figli. Ma, ovviamente, era troppo
impegnato per prendersi cura di loro a tempo pieno. Tra le altre
cose, doveva terminare la lavorazione di lnvincible. Senza gli
incassi che si aspettava dalle vendite dall'album, rischiava di
perdere il controllo del suo catalogo musicale a vantaggio della
Sony. Ma lui desiderava stare con i suoi bambini. Non era la
cosa più importante del mondo? Era molto combattuto, ma alla
fine vinse il desiderio di sentirsi genitore a lutto tondo; e così
decise di provare a fare da solo: occuparsi dei figli e nello stesso
tempo lavorare all'album. Congedò Grace e nell'appartamento
rimanemmo solo noi e i bambini.
In aggiunta alle altre responsabilità, adesso aiutavo Michael
giorno e nolte a curare i piccoli. Può sembrare un cambiamento
radicale (e lo era), ma non mi sono mai imposto come factotum.
Voglio dire che non ho mai aspirato a diventare una «tata», ma
se Michael aveva bisogno del mio aiuto, perché rifiutare? Pochi
mesi prima, quando lui si era dovuto assentare un paio di giorni,
a Neverland mi ero occupato di Prince. Gli leggevo libri - all'ora
della nanna voleva Goodnight Moott di Margaret Wise Brown. E
non appena finivo, ripeteva: «Ancora!» Alla fine concludevo: «È
ora di dire: 'Buonanotte Prince'». Sono il maggiore di cinque figli,
perciò sono sempre stato a contatto con bambini, me la so
cavare anche con i pannolini. Il legame famigliare che sentivo di
avere con Michael si era esteso in modo del tutto naturale anche
a Prince e Paris. Ero abituato ad essere un fratello maggiore, e
fin dalla loro nascita li ho sempre considerati miei fratellini.
Stavolta, a New York, mi occupavo principalmente di Paris, che
aveva due anni, mentre Michael guardava Prince che ne aveva
tre. Durante il giorno, se Michael non era in studio, li portavamo a
fare qualche giro nei negozi di giocattoli o in libreria. Noi
indossavamo cappelli e occhiali scuri, i bambini invece avevano
sempre qualcosa che copriva il volto, una sciarpa leggera o una
maschera. Ormai erano abituati a queste coperture: facevano
parte della loro vita.
«Possiamo toglierci le maschere quando saliamo in macchina?»
domandavano, nello stesso modo in cui gli altri bambini chiedono
se possono togliersi gli scarponcini.
«Certo, in macchina potete toglierle», rispondeva Michael Per il
mondo esterno poteva sembrare un'eccentricità, ma all'interno
della famiglia era una cosa banale e innocua, normale anche per
me. Michael aveva le sue ragioni, e anche se a volte queste
coperture erano scomode, né i bambini ne io le avevamo mai
messe in discussione.
Alcune scene ricordavano un po' Tre scapoli e un bebé: il
telefono che squillava continuamente e noi due alle prese con i
pannolini, che spargevamo borotalco a destra e a manca e ci
lanciavamo i pannolini per far ridere Prince. A volte, quando
cambiavo uno dei piccoli, prendevo il pannolino sporco e lo
sventolavo davanti alla faccia di Michael.
«Annusa», lo canzonavo. «Senti qua cosa fanno i tuoi figli!» Lui
scappava coprendosi il volto e io lo inseguivo tendendogli il
pannolino.
Quando Michael era nello studio di registrazione trascorrevo
molto tempo al telefono, esausto dopo le notti trascorse in
bianco, magari cercando di cambiare il pannolino di Paris
durante una chiamata di lavoro. Non era facile, ma era
divertente.
All'ora di cena ci ritrovavamo tutti attorno al tavolo di cucina;
Paris stava sul seggiolone. Facevamo a pezzettini le
pietanze per i bambini, li imboccavamo, facevamo loro il
bagnetto, li pettinavamo, cambiavamo i pannolini e
mettevamo loro il pigiamino. Prima di metterli a letto Michael
si sedeva per terra con il primogenito a fare qualche puzzle,
mentre la bimba si divertiva ad arrampicarglisi addosso.
Prince dormiva nel letto di Michael, mentre Paris aveva il
lettino accanto al mio. Le piaceva addormentarsi in braccio a
me, come una volta piaceva a suo fratello. Insomma, tutti i
bambini alla fine si addormentano, ma se prendevo in
braccio Paris, camminavo e le cantavo qualcosa, lei si
addormentava subito. Non appena la mettevo giù
ricominciava a piangere. Credetemi, non era una bambina
facile, soprattutto la notte. Era caparbia. Dolce, certo, ma
quando si svegliava nel cuore della notte per farsi cambiare il
pannolino non la convincevi facilmente a rimettersi a dormire.
C'erano notti in cui dormivo davvero poco. Per fortuna ci ero
abituato.
I bambini erano adorabili: Paris seguiva il fratello come
un'ombra e tutti e due erano contenti di stare con noi. Ho dei
ricordi bellissimi. Detto questo, era tempo che Grace
tornasse. Già, avevamo retto per un mese circa. La chiamai
e due giorni dopo Grace tornò e, per quanto mi riguarda, tirai
un sospiro di sollievo.
La sera del suo ritorno, Michael e io andammo da soli a
rilassarci in un ristorante.
«Quei bimbi possono essere tremendi, eh?» disse Michael.
Annuii e chiesi del vino. Avevamo appena ordinato quando
Michael mi afferrò il braccio all'improvviso.
«Dobbiamo andare», disse.
«Cosa?» chiesi. «Siamo appena arrivati!»
«Guarda alla tua sinistra», sussurrò. Gettai un'occhiata
pensando di scorgere un fans fuori di testa o una schiera di
paparazzi alla finestra. Invece, sul muro, accanto alla mia
testa, c'era uno scarafaggio. Chiesi il conto, biascicai una
scusa e pagai la cameriera. Mentre uscivamo, la vedemmo
afferrare lo scarafaggio a mani nude.
«Hai visto?» chiese Michael quando eravamo di nuovo in
strada. «Hai visto come l'ha preso con le mani? Non poteva
assolutamente essere un ristorante kasher.»
Anche se tecnicamente era sposato con Debbie, Michael si
sentiva sia padre sia madre per i suoi figli. Questo doppio
ruolo si consolidò nell'ottobre 1999, il mese in cui Debbie
Rowe presentò istanza di divorzio dopo tre anni di
matrimonio. Essere la moglie di Michael Jackson era
diventato insostenibile per la sua vita privata. Non poteva
neanche fare un giro sui suoi cavalli senza essere assalita
dai paparazzi. Sperava che con il divorzio i media
perdessero interesse nei suoi confronti, e di fatto fu così. Per
il resto non cambiò niente. Sebbene Debbie e Michael
avessero mantenuto un buon rapporto di amicizia, lei
difficilmente veniva a Neverland. I bambini non l'avevano mai
vista molto, quindi non ci furono sconvolgimenti nelle loro
vite.
Tutto sommato non ci fu niente di scioccante nella sua
decisione: era la conclusione inevitabile di un accordo che,
diceva, stava in piedi solo per volere del principe Al-Waleed
bin Talal. Dato che Michael non sembrava dispiaciuto, non lo
ero neanche io.
Sul finire dell'autunno del 1999 divenne sempre più evidente
che la mia intera esistenza ruotava intorno a Michael. Può
sembrare difficile vivere all'ombra e al servizio di una simile
star planetaria, ma non ho mai pensato la cosa in questi
termini. Non sarei mai potuto essere come Michael, né mi
interessava diventarlo. Non volevo essere il protagonista.
Non ero e non sarò mai una primadonna. Ogni giorno
sapevo cosa dovevo fare e credevo in ciò che facevo.
Andavo sempre nella direzione che lui mi aveva indicalo.
Imparavo da lui e assorbivo la sua visione del mondo,
facendo mio il suo carattere gentile, rispettoso e riflessivo.
Imparai anche a gestire i suoi comportamenti più difficili:
poteva essere paranoico ed eccessivamente sensibile,
soggetto a emozioni estreme e pronto a saltare alle
conclusioni. Per far fronte a queste situazioni, prestavo molta
attenzione quando ascoltavo e cercavo di osservare tutto.
Pensavo prima di parlare. Non gli piaceva che gli si dicesse
cosa fare, perciò se avevo un'idea cercavo di portarcelo in
modo che pensasse (o fingesse) di esserci arrivato da solo.
Quanto più riuscivo a capirlo tanto più forte e stabile
diventava il nostro rapporto.
Michael non aveva nessun riguardo per gli orari o gli impegni
delle persone. Chiamava chiunque (me, i miei genitori.
Karen) a qualsiasi ora, e non aveva neanche il senso delle
priorità. Magari telefonava a Karen alle tre del mattino per
dirle: «Karen, lo sai che è morto un fenicottero? È arrivato un
animale e l'ha ucciso.
Puoi chiamare per dire che ne voglio un altro? E assicurati
che nessun animale possa raggiungere l'isola dei
fenicotteri». Giorno e notte, Karen aveva sempre carta e
penna a portata di mano e si occupava delle sue richieste
senza lamentarsi. Poteva coordinare qualunque cosa. E’ il
mistero su questa donna incredibile era reso ancora più fitto
poiché nessuno l'aveva mai vista di persona. Era sempre e
soltanto una voce al telefono.
Una voce allo stesso tempo simpatica e professionale. A
volte, in chiusura di una giornata difficile, se avevo bisogno di
sfogarmi chiamavo Karen. Tutto il mio lavoro era di natura
strettamente confidenziale, e non potevo certo chiamare il
mio migliore amico per lamentarmi del capo o chiedere
consiglio. Tra i dipendenti di Michael. Karen era la persona
più leale, aveva visto e vissuto ogni cosa prima di me, era
l'unica al mondo con cui potessi confidarmi per questioni di
lavoro.
Lei e il mio istinto mi insegnarono che il sistema migliore per
aiutare Michael a prendere decisioni era raccogliere tutte le
informazioni di una determinata situazione ed esporgliele
direttamente, in modo che lui esprimesse la sua volontà e io
mi occupassi poi dell'aspetto pratico. Poteva sembrare un
metodo ovvio e scontato ma con il passare del tempo capii
che non tutti erano animati dalle migliori intenzioni: non
sempre Michael otteneva un quadro reale e completo della
situazione, e questo accadeva per colpa sua, perché
preferiva sentirsi dire solo determinate cose. I suoi
commercialisti e i suoi legali sembravano onesti, ma alcuni
soci in affari, avidi di guadagno, esaltavano i benefici
minimizzando i rischi.
Io non ero un esperto, ma almeno avevo un punto di vista
oggettivo. Non avevo secondi fini e la mia sola intenzione era
quella di aiutare Michael. Prendendo confidenza con il mio
ruolo divenni qualcosa di più che il semplice portavoce dei
suoi desideri; nel bene e nel male, le mie opinioni iniziarono
ad avere un certo peso.
«Lascia stare, bello. Sarà meglio che tu faccia giocare mio figlio,
bello», e riagganciò.
Ciò che quel medico faceva sembrava una cosa positiva: dopo il
trattamento Michael era lucido e riposato. Ma ancora una volta
assistevo ignaro ai fatti: a Michael veniva somministrato infatti un
potente anestetico, il Propofol, usato negli ospedali per
addormentare i pazienti durante le operazioni chirurgiche.
Questo dà un'idea dell'intensità dei dolori di Michael e della
gravità dell'insonnia che ne conseguiva. Quando i suoi impegni lo
costringevano a iniziare il lavoro di primo mattino, aveva difficoltà
ad addormentarsi abbastanza presto da essere efficiente il
giorno dopo. In quelle notti non riusciva a dormire se non gli
veniva somministrato questo farmaco pericoloso, lo stesso che lo
avrebbe portato alla morte. A lungo pensai che fosse tutto
normale, non credevo assolutamente che avesse problemi di
dipendenza. Con gli anni mi ero abituato a vedere medici che
entravano e uscivano, specialmente durante le tournée, quando
Michael era maggiormente sotto stress e gli occorreva aiuto per
addormentarsi. Credevo solo che avesse seri problemi di salute
e usasse dei farmaci per curarli.
Tuttavia, mentre la preparazione di Invincible proseguiva, mi
preoccupai sempre di più. Sapevo che Michael aveva
bisogno di medicinali per sopportare il dolore provocato dai
trattamenti alla pelle, e questo aveva un senso. Ma la
necessità di alcuni altri farmaci mi sembrava più discutibile:
quello per il dolore cronico, quello per dormire...
Naturalmente non volevo che Michael soffrisse inutilmente o
che passasse le notti in bianco, ma era evidente che ne
stava scontando l'uso continuo a caro prezzo. Stava
imboccando una strada pericolosa.
Parlò della sua grande perdita, che andava di pari passo con il
suo successo, e di quanto fosse importante per lui che i bambini
non venissero costretti a crescere troppo in fretta. Esprimeva il
rimpianto per ciò che non aveva avuto da piccolo, ma al tempo
stesso parlava del bisogno di perdono, nel suo caso perdono per
suo padre. Non voleva essere giudicato con severità dai suoi figli
e guardava al passato e nel suo cuore alla ricerca dell'amore che
suo padre doveva aver provato per lui. Quel bellissimo discorso
gli meritò una standing ovation, e per lui fu un momento speciale:
era evidentemente commosso dall'esperienza di condividere in
pubblico i suoi ricordi dolorosi; tutto questo lo fece sentire
maggiormente in sintonia con le persone, riconosciuto e capito
per quello che era. Inoltre, vedeva questa sintonia in un contesto
più ampio, come un modo per dare speranza a tutti i bambini.
Prima di partire per Miami feci una chiacchierata con lui. Gli
raccomandai di essere forte, concentrato e lucido.
«Anche se non è un problema, le cose devono cambiare», gli
dissi. «Devi partecipare a tanti incontri e le persone si
accorgono quando sei un po' di fuori. La gente comincerà a
parlare. Non vuoi che succeda, vero?»
«Frank, apprezzo la tua preoccupazione», rispose, «ma sto
ancora cercando di far guarire il mio piede.»
Cambiai tattica: «Non aggiustare le cose per me. A questo
punto non tento nemmeno di dirti di farlo per te stesso. Ma
hai dei figli! Devi essere responsabile per loro. Non dico di
smettere tutto di colpo domani. Non lo puoi fare. Ma troviamo
una soluzione, un piano che ti permetta di tornare in salute».
«Va bene», esclamò stringendomi la mano. Aveva capito, ne
ero certo.
«Ti aiuterò, lo faremo insieme», gli dissi abbracciandolo.
Quando arrivammo a Miami misi in allerta le guardie del
corpo: dato che non potevo trascorrere il cento percento del
mio tempo accanto a Michael, spettava a loro avvertirmi
immediatamente se qualche medico andava a fargli visita.
Ero deciso a mettermi in mezzo tra lui e chiunque volesse
somministrargli medicine. Ero stato io ad assumere cinque
guardie del corpo: con tutto ciò che era successo tra Michael
e me, sia per affari sia personalmente, mi sentivo più
responsabile di ogni particolare, sentivo di essere diventato
una voce più autorevole nel suo mondo.
Alloggiammo allo Sheraton Bai Harbour di Miami. Appena
arrivati, scesi al ristorante per incontrare il promoter di
concerti David Guest. Nel bel mezzo dell'incontro, una delle
guardie del corpo. Henry, venne da me. Scusandosi mi prese
da parte e disse che il medico dell'albergo proprio in quel
momento era nella stanza di Michael.
David sentì. Conosceva Michael da anni e sapeva qualcosa
delle sue battaglie contro i farmaci. Cominciò ad agitarsi, e
così gli dissi: «David, calmali. Rimani qui».
Avevo una chiave della camera ma invece di aprire bussai
alla porta. Nessuna risposta. Bussai allora più forte dicendo:
«Michael, sono Frank. Apri la porta». Ero stufo marcio di
questi medici d'albergo che perdevano la testa per avere a
che fare con una celebrità e irresponsabilmente lo rifornivano
di qualunque droga volesse.
«Aspetta, sono in riunione», rispose.
«Apri questa porta!» ordinai, e senza attendere la risposta
iniziai a usare la mia key card. Mentre la inserivo, Michael
aprì.
«Frank, calmati», disse facendomi entrare. Senza che aprissi
bocca, sapeva con esattezza ciò che pensavo e come ero
sconvolto.
Il medico mi dette l'impressione di essere un ciarlatano. Con
le palpebre cascanti e gli occhiali spessi aveva l'aria di una
persona losca. Ovviamente, ormai diffidavo di qualunque
membro dell'ordine medico. Ero in uno stato di totale
agitazione: ero convinto che Michael si stesse facendo del
male e volevo disperatamente proteggerlo. Così mi scatenai
contro quel malcapitato. Non appena entrai nella stanza
esplosi e gli urlai: «Cosa sta facendo qui? Cosa gli sta
dando? Questo non deve succedere!»
Il medico rimase sconcertato. «Si rilassi, signore», cominciò.
«Non sono qui per dare chissà quali droghe al suo amico.
Stiamo solo parlando.»
«Frank», si intromise Michael, «sei proprio fuori luogo. Non
hai idea di cosa stai dicendo. Questo signore mi sta aiutando
per il mio piede.» Mi spiegò che quel medico, il dottor
Parshchian, era uno specialista nel campo della medicina
rigenerativa. Ma non la bevvi.
«Ho detto la mia», risposi a entrambi. «Ora me ne vado.
Faccia quello che deve fare, ma veda di non somministrargli
niente.» Ero furioso che Michael avesse convocato un
medico alle mie spalle persino dopo averne parlato e aver
raggiunto un accordo. E io che pensavo di averlo convinto.
Il giorno successivo mi chiamò nella sua stanza. C'era anche
il dottore, e Michael mi chiese di scusarmi per avere urlato e
tentalo di cacciarlo fuori. Allora spiegai al medico perché mi
ero comportato così.
«Forse ho esagerato», mi difesi, «ma deve capire che molti
medici continuano a dare a Michael farmaci che non
dovrebbe prendere.» Il dottor Parshchian disse che capiva e
pensava che fosse molto nobile da parte mia cercare di
proteggere Michael.
Tutti e tre ci sedemmo più rilassati.
«Dopo che io e te abbiamo parlato a New York», mi disse
Michael, «nella mia mente è scattato qualcosa. Ecco perché
ho chiamato il dottor Parshchian, perché voglio stare
meglio.» Il medico era effettivamente uno specialista in
medicina rigenerativa. Michael, che portava ancora un tutore
alla caviglia, aveva bisogno che il piede gli guarisse il più
presto possibile ma era determinato anche a mettere in atto
un programma per disintossicarsi dai farmaci.
«E’ un procedimento», intervenne il dottor Parshchian, «che
Michael non può affrontare dall'oggi al domani. Ma ho
intenzione di iniziare una cura che lo aiuti per il piede e lo
disabitui ai farmaci.»
Non sapevo quanta fiducia riporre in questa novità, tuttavia
commentai: «Sono contento di sentirglielo dire, e spero con
tutto il cuore che possa aiutarlo».
Ironicamente, considerando il mio intervento
melodrammatico, il dottor Parshchian si rivelò l'unico medico
che fece sinceramente del suo meglio per interrompere le
cattive abitudini di Michael. Gli applicò un cerotto sulla
pancia che doveva aiutarlo a combattere il bisogno dei
farmaci. E a Miami, sotto le sue cure, Michael iniziò a
impegnarsi seriamente perseguire il programma. Presto il
dottore cominciò a viaggiare con noi, trascorrendo del tempo
anche a Neverland, dato che Michael desiderava veramente
cambiare e lo voleva con se.
Ne fui enormemente sollevato. Per la prima volta Michael
aveva ammesso senza mezzi termini di avere un problema e
tentava di migliorare per i suoi figli. Avevo cercato di farglielo
capire da tempo, ma finché non se ne convinse
personalmente le mie parole rimasero vane.
Doveva arrivarci da solo, e sembrava che alla fine ce
l'avesse fatta. Sentivo il peso della responsabilità alleggerirsi
un po'. Michael stava ricevendo aiuto da un medico che di
sicuro sapeva quel che faceva.
Finalmente stavamo per riavere un Michael in buona forma,
giusto in tempo per altre buone notizie. Mentre eravamo in
Florida, nel maggio del 2001, mi chiamò nella sua stanza
d'albergo. Quando entrai aveva un sorriso raggiante.
«Sto per diventare nuovamente padre!» esclamò
abbracciandomi.
«Accidenti! Sono così felice per le», mi congratulai. «Te lo
meriti.»
Anche se riversava tutto il suo impegno nell'album, metter su
famiglia era sempre rimasta la sua massima priorità. Era un
dato di fatto, Michael si sentiva un padre nato e aveva
sempre dichiarato di volere dieci figli. Dato che Debbie aveva
avuto problemi durante la gravidanza di Paris, Michael aveva
cercato una donatrice di ovuli per il suo prossimo bambino.
Ora che non c'era più la presenza famigliare di Debbie,
decise che ogni rapporto con una futura madre sarebbe
rimasto nell'anonimato. Ricordo il giorno in cui, nella sua
suite al Four Seasons. esaminavamo un voluminoso
fascicolo di foto di potenziali donatrici.
Era un po' come fare un «quaderno dei desideri», scorrendo
le figure e immaginando il futuro. La differenza consisteva
nel fatto che stavolta si trattava di una scelta reale,
immediata e seria. Continuai a sfogliare le pagine finché non
mi colpì la foto di una giovane donna.
«Ecco quella giusta», dissi. Mi piacevano i suoi occhi e il
colore della pelle. Aveva dei bellissimi capelli neri. Le note
dicevano che era in parte italiana e in parte spagnola.
«Ti piace solo perché è italiana», commentò Michael e
sembrò scartare la mia scelta. Ma c'era qualcosa di più delle
sue radici italiane. Aveva l’aria di una che sarebbe piaciuta a
Michael. Descrivendosi, diceva: «Sono una persona
ottimista. Vedo il buono nelle persone. Non critico gli altri.
Sono molto spirituale, lavoro sulla consapevolezza
dell'essere e leggo un sacco di libri». Sono bravo a creare le
coppie e alla fine fu proprio quella che scelse Michael. Disse:
«Andata». Così chiamai il dottore per dargli gli estremi della
giovane donatrice.
Finalmente, in quella stanza d'albergo in Florida, Michael mi
disse che tutto era andato a gonfie vele. Una madre
surrogata era incinta del bambino di Michael grazie alla
donatrice di ovuli.
«Con questo fanno tre su dieci, Frank, tre su dieci!»
esclamò. Poi mi dette una gomitata e aggiunse: «Forza,
Frank, tu rimani indietro. Quando hai intenzione di avere dei
figli? Non vedo l'ora di raccontare storielle su di te ai tuoi
bambini. Ti farò morire dall'imbarazzo».
Più tardi Michael annunciò ai suoi figli che stavano per avere
un fratellino. Non ero presente quando comunicò la notizia,
ma in seguito notai quanto Prince e Paris fossero eccitati.
Erano impazienti di prendersi cura del neonato.
Dopo anni di trepidazione, sforzi, dolore, frustrazioni e
sospetti, il 12 giugno Michael portò finalmente l'album
Invincible ai dirigenti della Sony.
La collaborazione di un musicista con una casa discografica
è come un matrimonio. Ci sono un sacco di discussioni e
compromessi su come i bambini dovrebbero essere allevati.
La Sony era molto felice per l'album, e durante quell'incontro
hanno contribuito a restringere l'elenco delle canzoni che
sarebbero state incise su di esso. Un conflitto sorse quando
Tommy Mottola, il capo della Sony Music, non voleva "Lost
Children" sull'album, perché era dell'opinione che Michael
potesse essere associato con i bambini, e questo servirebbe
solo a suscitare ricordi spiacevoli delle accuse del 1993.
Michael pensava che questo era assurdo ed era fermamente
convinto che "Lost Children" dovesse essere inclusa
sull'album. Era una battaglia, ma alla fine ha vinto Michael.
Michael e la Sony erano anche in disaccordo circa l'ordine in
cui i singoli sarebbe stati rilasciati. Michael voleva lanciare la
canzone "Unbreakable" come primo singolo ed era ansioso
di fare un video per esso. (Mai, a proposito, uso la parola
"video" quando si parlava di una delle sue canzoni filmata.
Se qualcuno ha usato questa parola, lui diceva,
"cortometraggio. È un cortometraggio. Non faccio video."
Michael non sapeva nemmeno come esattamente voleva
aprire il cortometraggio "Unbreakable". Lui immaginava che
sarebbe salito sul tetto di un edificio molto alto, che era in
costruzione, ed che sarebbe stato tenuto sopra il bordo da
alcuni teppisti, e poi si sarebbe lasciato andare. Lui sarebbe
precipitato a terra, apparentemente morto, ma lentamente,
parti del suo corpo si sarebbe ricomposti e lui si trasformava
in fuoco —Michael aveva previsto la creazione di una danza
per "Unbreakable" che la gente avrebbe ricordato per
sempre.
Ha lottato per questa visione, ma purtroppo non si è potuta
realizzare. La Sony ha voluto che il primo singolo fosse "You
Rock My World". Non fraintendetemi: Michael amava "You
Rock My World" ma lui voleva che fosse il secondo singolo
estratto dall'album. Come compromesso, ha pensato che
"Unbreakable" doveva seguire come secondo singolo, ma la
Sony ha voluto "Butterflis". In definitiva, ci sono stati tre
singoli: "You Rock My World», «Butterflies» e «Cry», ma
l'unico che sarebbe stato anche un video musicale fu You
Rock My World.
Nell'estate del 2001 eravamo sul set per dare inizio al video
quando John McClain, un consulente da lunga data dei
Jackson, mi chiamò. Mi disse che si era incontrato con il
regista e riferì: «Vogliono usare del make-up per scurire la
pelle di Michael. Vogliono anche rimodellargli un po' il naso».
E mi chiese di suggerire queste correzioni estetiche a
Michael. Evidentemente, non lo conosceva per niente.
Rimasi sbalordito. E mi rifiutai.
«John, non posso fare questi discorsi a Michael. Non c'è
nessun modo per fargli accettare simili consigli. Se vuoi, vai
pure avanti. Io non ti seguo.» Non volevo essere coinvolto.
Un po' più tardi, mentre ero di nuovo nella mia camera
d'albergo, squillò il telefono. Era Karen Eaye, l'addetta al
trucco, che chiamava dalla stanza di Michael. Doveva
prepararlo per le riprese ma lui si era chiuso in bagno e lei
non aveva idea del perché. Mi chiese di correre subito da lui.
Quando arrivai, sentii Michael in bagno che dava i numeri e
spaccava tutto. Di sicuro John McClain gli aveva parlato dei
cambiamenti alla pelle e al naso e lui era tremendamente
arrabbiato. Cercai di attirare la sua attenzione, ma il caos
all'interno del bagno continuava senza interruzioni. A un
certo punto lo sentii colpire qualcosa con una forza tale che
mi spaventai. Allora tentai di abbattere la porta.
Alla fine mi fece entrare. Era seduto sul pavimento. Gli
avevano dato la notizia mentre aveva cominciato a farsi
tagliare i capelli, così adesso erano mezzi lunghi e mezzi
corti. Si teneva la testa tra le mani singhiozzando.
«Lo crederesti?» disse. «Pensano che sia brutto? Vogliono
rimodellarmi il naso? Che cazzo ho che non va? Io non gli
dico come dovrebbero essere loro. Vadano a farsi fottere!»
Parlando tra le lacrime ripeteva: «Pensano che sia un
mostro, pensano che sia un mostro, pensano che sia un
mostro».
Vederlo accucciato sul pavimento, con i capelli mezzi tagliati
e sconvolto dai singhiozzi, era a dir poco uno spettacolo
devastante. Era la seconda volta in pochi giorni che lo
vedevo così distrutto. Da anni i media deridevano e
criticavano il suo aspetto, ma Michael non reagiva mai così
violentemente a ciò che si diceva di lui. Dipendeva dalle
giornate. Qualche volta non gli importava nulla di quello che
pensava la gente. Era un uomo forte. Poi cerano giorni in cui
ne aveva abbastanza, e allora crollava. Il fatto che i suoi
presunti alleati stessero criticando il suo aspetto, e in un
momento così delicato della sua vita, per lui era troppo.
Sempre più spesso quest'uomo, che una volta
rappresentava per me una figura paterna, sembrava
diventare come un figlio. Questo non era il Michael Jackson
che esisteva per il resto del mondo. Questo non era l'icona
Michael Jackson. Era il Michael Jackson nel suo aspetto più
umano, più vulnerabile, sull'orlo del baratro. Da anni lo
costringevo ad affrontare le verità più dolorose, ma questa
volta non c'erano verità in gioco. Non si può oggettivamente
stabilire se l'aspetto di una persona è giusto o sbagliato.
Michael aveva ignorato per anni i titoli dei tabloid che
riguardavano il suo look, e ora il mio consiglio era
semplicemente di non ascoltare.
«Ne usciremo», dissi. «Hanno bisogno di te, tu non hai
bisogno di loro.»
Cancellai le riprese previste per quel giorno e informai tutti
che avremmo iniziato più riposati l'indomani. Michael e io
tornammo nelle nostre stanze e vi rimanemmo per il resto
della giornata. Prima di lasciare il set parlai con John
McClain e con il regista del video. Paul Hunter.
«John», dissi, «non posso credere che tu abbia detto quelle
cose a Michael. Porteremo a termine il progetto, ma non ci
devono più essere discorsi sul suo aspetto nel video. Se
questo è un problema, usciamo dal set una volta per tutte e
paghiamone le conseguenze.»
M’infuriavo sempre quando veniva criticato il suo aspetto o il
suo comportamento, o quando dicevano che era strano,
stravagante, o un mostro. Pensavo che la gente avrebbe
dovuto mettersi nei suoi panni, a cominciare dalla sua
infanzia difficile. Per quanto mi ha raccontato, e per quanto io
stesso ho visto e compreso, la sua vita sarebbe stata dura
per chiunque. Certo, aveva avuto un enorme successo, ma
proprio la sua fama lo metteva in una posizione di estrema
vulnerabilità. Le persone approfittavano di lui. Non poteva
fidarsi di nessuno. Il suo denaro e la sua celebrità erano tra Ì
motivi per cui la gente gli affibbiava così velocemente colpe e
difetti.
Intendiamoci: Michael ne aveva, ma ai miei occhi erano di
gran lunga più banali di tutte le stranezze che affascinavano
la gente. Nei momenti più difficili, essendo la persona che gli
era più vicina, diventavo il suo capro espiatorio. Raramente
perdeva le staffe in mia presenza, ma talvolta mi chiamava
nel bel mezzo della notte per questioni di poca importanza,
chiedendomi: «Frank,perché non è stata fatta quella
chiamata? Frank,perché non e stata ancora fatta?» Se ci
mettevo un attimo a svegliarmi e lui era partito a raffica con
la lista delle incombenze, mi incalzava: «Vedi? Te l'ho detto
che devi avere sempre penna e taccuino a portata di mano.
Karen è sempre pronta, tu no».
Quando arrivavano quelle chiamate sapevo che era sotto un
tremendo stress: era semplicemente travolto dagli eventi
della sua vita. Come dovevo reagire? Di solito cercavo di
mantenere la dignità. Quando pensavo che fossero cazzate
ero il primo a dirglielo, e lo stesso faceva lui con me. Per un
po' ha funzionato.
Avevo molte teorie per spiegare come mai le persone
sentissero il bisogno di criticare Michael, ma il vederlo
frainteso come spesso avveniva mi rendeva triste e
arrabbiato. I tradimenti e i giudizi crudeli lo colpivano
profondamente. La sua sofferenza era enorme e, pur
essendo responsabile di alcuni dei suoi problemi, molti erano
dovuti a circostanze al di fuori del suo controllo.
Era arrivato all'età adulta con dei pezzi mancanti, con deficit
di sviluppo, come vengono chiamati, ma aveva cercato di
compensarli per mezzo della casa che si era costruito, del
suo aspetto, della sua musica e dei suoi interessi. Che
cos'era Neverland se non un tentativo esagerato, addirittura
disperato, di trovare la felicità? La bellezza e la pace di quel
posto se le era sudate. Ogni aspetto del ranch era segno
evidente di quanto Michael cercasse di godere ciò che aveva
raggiunto.
La malattia della pelle, l'infanzia difficile e le accuse di
molestie erano state condizioni o circostanze contro le quali
aveva aspramente lottato per sopravvivere; anche le
operazioni di chirurgia plastica al naso, come molte sue
eccentricità, erano tentativi di esercitare una sorta di
controllo sul suo destino e sulla sua felicità. Quegli interventi
non lo avevano reso normale, e agli occhi di molte persone
non lo avevano reso nemmeno bello. Ma lo avevano fatto
diventare Michael.
«Lo so, ma sei tu che li hai riportati, e guarda ora cosa hanno
fatto.»
In quel momento mi sentivo malissimo. Non potevo credere
che le mie fatiche e le mie buone intenzioni mi avessero
trascinato in un tale pasticcio. Ero veramente triste e a un
certo punto mi misi anche a piangere. Michael aveva già
abbastanza guai, non volevo aggiungerne altri. Decisi che
avrei fatto di tutto per ristabilire la pace tra lui e i miei amici.
Me ne andai con la coda tra le gambe, ma pochi giorni dopo
mi resi conto che - pur essendo profondamente amareggiato
per la situazione in cui ci eravamo trovati - io non avevo
alcun motivo per scusarmi. Non avevo fatto niente di
sbagliato, e nemmeno Court e Derek. In realtà, le nostre
previsioni (cioè che se avesse continuato in quel modo,
senza modificare l'organizzazione, Michael sarebbe caduto
in disgrazia) si avverarono completamente. No: era successo
semplicemente che Michael aveva deciso di non pagare il
loro ottimo lavoro. Era lui stesso la causa della querela,
eppure volevo ancora aggiustare le cose.
La storia di Court e Derek non fu l'unico problema a
interferire nel mio rapporto con Michael. Prima dello Special
per il Trentesimo, le persone che si erano adoperate per far
fuori i miei due amici avevano iniziato a rivolgere le loro
attenzioni anche su di me. Per loro pure io rappresentavo un
problema, e cercavano di screditarmi.
In realtà, era già da un po' che mi puntavano. Le tensioni
erano iniziate quando John McClain, che era cresciuto con la
famiglia Jackson, era diventato uno dei manager di Michael,
soprattutto per Invicible. John, ricorderete, era quello che
voleva che dicessi a Michael di rimodellargli il naso e di
scurire la pelle per il video You Rock My World. Aveva
assunto il controllo, e in quello che mi parve un tentativo
maldestro di ripulire l'organizzazione, cercò immediatamente
di eliminare due persone che, in realtà, erano tra i più leali
sostenitori di Michael.
Prima dello Special, mentre lavoravamo ancora su Invincible,
John aveva cercato di licenziare Brad Buxer, che stava con
Michael dai tempi di Dangerous. Brad amava Michael e
avrebbe fatto qualunque cosa per lui. Teneva una tastiera
vicino al letto, e così se Michael lo chiamava alle tre del
mattino era pronto a soddisfare qualsiasi sua richiesta o a
rispondere a qualsiasi domanda. Quando John tentò di
silurarlo. Brad mi chiamò piangendo.
«Non lascerò che succeda», gli promisi.
Andai subito da Michael e gli dissi: «Non puoi farlo». Brad
non si era mai approfittato di lui; molte persone lo facevano,
ma lui non era tra quelli. Per fortuna Michael ascoltò il mio
appello e fu d'accordo con me.
Come se non bastasse, John peggiorò la situazione quando
manifestò l'intenzione di eliminare Karen Smith e sembrò
accingersi a selezionare un'altra assistente. Rimasi allibito.
Andai di nuovo da Michael. «Non puoi far fuori Karen solo
perché John McClain vuole mettere qualcun altro al suo
posto», gli dissi. Ancora una volta mi dette retta e Karen
rimase.
Comunque, non posso biasimare John. Può darsi che
cercasse davvero di far risparmiare soldi a Michael. Senza
dubbio c'erano persone che dovevano andarsene. Ma
mentre Court e Derek facevano ciò che ritenevo giusto per
rimettere in carreggiata l'organizzazione, John puntava il dito
contro le persone sbagliate. Anche se queste venivano
ovviamente pagate per il lavoro che svolgevano, il loro
rapporto con Michael si spingeva ben oltre il denaro. E lo
stesso era per me.
Nel tentativo di salvare il posto a Brad e a Karen, mi trovai a
intralciare per ben due volte il cammino di John e per questo,
lo sapevo, ci sarebbe stato un prezzo da pagare. Quando si
rese conto che rappresentavo un problema, rivolse la scure
contro di me. Seppi dai miei genitori che aveva detto a
Michael che io ero il demonio, e che avrebbe dovuto
sbarazzarsi di me. Evidentemente la denuncia non arrivò
soltanto alle orecchie dei miei, perché cominciò a girare la
voce che John McClain mi chiamasse «il demonio». Anziché
credere ai suoi avvertimenti contro di me, dopo i concerti del
trentesimo anniversario Michael mi offrì l'opportunità di
licenziarlo. Gli aveva infatti dato fastidio il fatto che John,
sebbene non avesse partecipato ai preparativi dello Special,
fosse stato ben contento di incassare una parte dei proventi,
ma che non si fosse poi nemmeno degnato di farsi vedere
agli spettacoli.
Tuttavia il licenziamento non fu portato in fondo e, dopo aver
parlato con Michael. John fu reintegrato nelle sue mansioni.
Essendo il diretto responsabile del suo licenziamento mi
sentivo un facile bersaglio; e il fatto che Michael fosse
coinvolto in una lite con due persone che avevo introdotto io
mi induceva a pensare che, ora più che mai, dovessi
guardarmi alle spalle.
Non sapevo con precisione quando i guai avrebbero
nuovamente bussato alla mia porta, ma ero certo che
sarebbe successo, e così fu.
Nel febbraio del 2002 i miei genitori andarono a Neverland
per la nascita di Blanket e il quinto compleanno di Prince.
Mia madre aveva accompagnato Michael a prendere in
consegna il bambino dal rappresentante della madre
surrogata in un albergo e insieme portarono il neonato,
Prince Michael Jackson II, a Neverland con un lussuoso
pullman privato.
«Guarda, guarda! Quanto è bello», ripeteva Michael
emozionato.
Il piccolo era avvolto in soffici coperte e mia madre disse
all'orgoglioso papà: «È così tenero e morbido, è come una
co perta». E il soprannome gli rimase. Da quel momento il
bimbo fu chiamato «Blanket».
Una volta rientrati a Neverland, malgrado l'entusiasmo e la
felicità del momento. Michael prese da parte i mici genitori c
disse loro: «Non crederete a quello che ha fatto Frank», sbottò, e
sembrava furioso.
«Cosa ha fatto?» chiese mio padre.
«Frank ha chiesto ad alcuni esponenti di un gruppo immobiliare
un milione di dollari solo per presentarli a me. Non è
incredibile?» Era tremendamente sconvolto. E avrebbe avuto
ragione di esserlo, se le accuse fossero state vere.
Mio padre mi conosce, non sono spinto dall'avidità. Non ho mai
preso denaro o bustarelle di alcun genere (e credetemi, dopo la
volta che ho rifiutato la prima valigia piena di soldi, ho avuto
molte opportunità).
«Mi dispiace», disse mio padre, «ma metterei la mano sul fuoco.
Conosco mio figlio. Lo conosci anche tu. Non farebbe mai. dico
mai. una cosa del genere.»
Quel giorno stesso mio padre mi chiamò e mi raccontò i fatti.
Quelle accuse mi oltraggiavano. Non avevo mai preteso del
denaro. Non potevo credere a quelle accuse.
Da tempo avevo dei sospetti, ma adesso era evidente che
qualcuno stava cercando apertamente di distruggere il mio
rapporto con Michael. Avevo ventun anni, e nel mio lavoro ero
sempre stato coraggioso c leale perche la sola persona che mi
stava a cuore era lo stesso Michael. Così, quando vedevo
qualcosa che non mi sembrava giusto, ero il primo a sottoporlo
alla sua attenzione. Non mi importava se il problema coinvolgeva
qualcuno che lavorava per lui da vent'anni. Andavo avanti
ugualmente. Ora però la posta si era drasticamente alzata. In
questo caso veniva preso di mira ciò a cui tenevo di più:
l'opinione di Michael sulla mia persona.
Lo chiamai immediatamente al ranch, offeso che avesse
potuto essere anche solo sfiorato dall'idea che l'accusa fosse
vera. La mania di persecuzione da cui era afflitto, e che nel
corso degli anni aveva avuto alti e bassi, in questo periodo
sembrava al culmine. Dubitava di me, e non lo aveva mai
fatto prima. Non gliene avevo mai dato motivo.
«Non prenderei mai del denaro», ribattei, «e tu lo sai.»
«Ho ricevuto una lettera.» Mi rispose. Una persona del suo
team manageriale gli aveva scritto una lettera ufficiale
sostenendo che io avevo detto: «Se vuoi ottenere qualcosa,
tratta con me. Non hai bisogno di quel tizio in Florida, Al
Malnik».
Quest'ultimo era un rispettabile uomo d'affari, consulente di
Michael, e del quale avevo una grande stima. Ero sicuro che
Al volesse aiutare Michael come un amico, e non perseguire
i propri interessi.
«Ammiro e mi fido di Al. Non ho mai pronunciato una parola
contro di lui!» protestai.
Alla fine del colloquio non ero certo che Michael mi avesse
creduto, ma tornai subito a Neverland per aiutare Marc
Schaffel nella preparazione del video What More Con I Give.
A marzo ci recammo tutti al matrimonio di Liza Minnelli con
David Guest, ma per tutto il tempo non feci altro che
rimuginare sulle accuse che mi erano state rivolle, sulla
mancanza di fiducia di Michael nella mia integrità e sul vicolo
cieco in cui era finita la nostra amicizia, che avevo sempre
ritenuta preziosa. Più cercavo di uscirne, più sentivo acuto il
disgusto per gli ultimi eventi. Dopo il problema di Court e
Derek e le recenti accuse infondate contro di me, ero
costretto a credere che persone senza scrupoli mi volessero
fuori dal mondo di Michael, e la pressione e lo stress
cominciavano a farsi sentire.
Il mio posto, o il mio ruolo, o comunque chiamassi il mio rapporto
di lavoro con Michael, non era una situazione comune. Non era
un impiego come tutti gli altri, lo sapevo e lo accettavo con tutte
le sue anomalie. Avevo ancora molto da imparare: era una
partita per giocatori impegnati. Michael era stato una guida
geniale e complessa, ma i suoi punti deboli riguardavano
soprattutto il controllo della paranoia e il discernimento delle
intenzioni, spesso non esattamente nobili, di chi gli stava intorno.
Senza la sua guida, non riuscivo a immaginare come muovermi
in quel sordido mondo. Gli interessi di Michael erano sempre
stati la mia priorità, su questo non avevo dubbi, e ritenevo fosse
sufficiente, invece non lo era. Non avrei mai potuto immaginare
l'indecenza di quell'ambiente, e se anche l'avessi fatto non avrei
mai pensato che potesse influenzare i rapporti tra di noi. Sapevo
che Michael stava attraversando un periodo molto difficile, dal
punto di vista sia finanziario sia emotivo, e faceva fatica a fidarsi
delle persone. Ma la mia vita professionale al suo fianco stava
mettendo alla prova il nostro rapporto personale. Non volevo
perdere la nostra amicizia. Pensai seriamente e a lungo che
cosa avrei dovuto fare. Dopo il rientro a Neverland, dissi a
Michael che dovevamo parlare. Ci sedemmo nella sua stanza, e
con la morte nel cuore gli comunicai che avevo bisogno di una
pausa. «Mi hai cresciuto», dissi al colmo dell'emozione, con gli
occhi lucidi. «Tu sai tutto di me e non voglio che queste persone
si mettano tra noi. Qui non ho impegni particolari. Tutto ciò che
ho da fare è accertarmi che questa gente non voglia fregarti. Ma
mi sento attaccato e accusato, e ciò influenza la nostra amicizia
e la nostra famiglia. Credo di aver bisogno di una pausa.» «Sei
sicuro di volerlo?» mi rispose. In verità non avevo le idee chiare.
Sapevo solo che avevo bisogno di pensare e di stare lontano da
quella brulla situazione. Da tanto tempo vivevo per Michael e per
il suo lavoro. Mi mettevo sempre al secondo posto. Ora non ne
valeva più la pena. Volevo solo andarmene.
«La gente che ti sta intorno non mi sopporta e tu credi a quello
che ti dicono.»
«Io combatto sempre per te», disse Michael, «sto dalla tua
parte. Non credo a quella gente.»
«Ma lo hai fatto», dissi. Mi uccideva il fatto che la mia
integrità fosse messa in dubbio, e sapevo che poteva
accadere di nuovo.
«Bene, ma sei ancora qui. Non è cambiato niente», replicò
Michael.
«Lo so, ma ora ho proprio bisogno di andarmene.»
«Ascolta, devi fare ciò che e meglio pene, ciò che ti può
rendere felice.» Sebbene parlasse con calma, mi accorsi che
era turbato. Lo eravamo entrambi. Ma capiva e rispettava la
mia decisione, per quanto difficile fosse. Dopo quella
discussione passammo del tempo insieme, cenammo e
guardammo dei film. Un paio di giorni più tardi tornai a New
York.
Era il marzo del 2002. Lavoravo per Michael da soli tre anni,
ma sembrava un secolo. Per la prima volta nella mia vita di
adulto mi prendevo una pausa.
MICHAEL E ME
Gavin era solo uno dei tanti bambini che Michael cercò di aiutare
e mentre la maggior parte dei genitori erano gentili e molto grati
per il suo impegno, quelli di Gavin mi fecero venire la pelle d'oca
fin dal primo giorno. Inizialmente non potevo addurre nessun
motivo, era solo una sensazione. Poi però, durante una delle loro
prime visite, David, il padre, mi chiese del denaro per comprare
una macchina. Erano stati a Neverland solo un paio di volte, ma
Michael aveva già fatto molto per la famiglia e sapevo che
distribuire soldi era un discorso molto delicato.
«Non vi daremo denaro», dissi, «ma posso chiedere a Michael
se c'è una macchina che possiamo prestarvi.» E in effetti ne
trovammo una: Michael dette loro un furgone scassato che non
veniva più utilizzato. Ma il fatto stesso di aver avuto quella
conversazione con David fece suonare un campanello d'allarme.
Dopo l'esperienza con la famiglia Chandler, avevo sempre paura
che altre famiglie volessero sfruttare la situazione.
L"anno seguente, il 2001, Michael era stato molto occupato con
Invincible e aveva preso le distanze dagli Arvizo. Mentre
lavoravamo all'album a New York, Gavin fece di tutto per
raggiungere Michael: chiamò me, la securìty... insistette finché
alla fine Michael non prese la telefonata. Messo in vivavoce, si
sentiva la madre bisbigliare in sottofondo.
«Digli che vogliamo vederlo», sussurrava. «Digli: 'Sei la nostra
famiglia, ci manca il nostro papà'», e Gavin ripeteva a pappagallo
quelle frasi.
In quell'occasione feci presente a Michael le mie preoccupazioni,
dicendogli senza mezzi termini: «Non voglio avere niente a che
fare con questa famiglia». Michael era d'accordo, ma gli
dispiaceva per Gavin e i suoi fratelli.
«Sii gentile», mi raccomandò con il tono di voler porre fine alla
questione. «E così triste. I genitori rovinano tutto. Povero Gavin,
è un bambino innocente.»
Vista l'esperienza con Jordy Chandler. eravamo entrambi
consapevoli dei pericoli che correva se avesse continualo a
frequentare una famiglia come questa. Ma allo stesso tempo
Gavin era a distanza di sicurezza, e Michael si era trovato in
difficoltà a rifiutare la telefonata di un ragazzino che affermava di
volergli bene e di aver bisogno di lui. Non vedeva cosa ci fosse di
male.
Per tutto il 2001 e il 2002 non sentii più nominare Gavin e, per
quanto ne so, Michael non aveva più incontrato la sua famiglia,
almeno fino a quel momento. Quando sentii che il ragazzino,
adesso tredicenne, era appena stato lì, la mia diffidenza si
risvegliò.
«Allora non mi sono perso molto», commentai.
«Dai, Frank», disse Michael, ripetendo le parole di due anni
prima, «è un ragazzo dolce. Non te la prendere con lui per le
colpe dei suoi genitori.»
«Sì, hai ragione», conclusi riluttante. In linea di massima ero
d'accordo, ma anche Jordy era stato vittima dei secondi fini dei
suoi genitori. Per me la similitudine c'era eccome. Cercando di
convincermi delle buone intenzioni di Gavin, Michael mi disse
che il ragazzino aveva persino partecipato all'intervista di Bashir,
esprimendo di fronte alla telecamera tutta la sua riconoscenza
per l'aiuto ricevuto.
«Bene», affermai, contento di sentire una cosa del genere. «E
giusto che si sappia quanta gente aiuti in tutto il mondo.»
Diffidente com'ero degli Arvizo, la loro presenza nella
registrazione mi sembrava positiva, anche considerando che
Michael aveva l'ultima parola sul prodotto finale. Visto che Gavin
e la sua famiglia avevano ricevuto tanto aiuto, non sembrava ci
fosse niente di male nel fatto che il ragazzino lo avesse
dichiarato davanti alla telecamera. Se quelle parole erano
piaciute a Michael, cosa poteva esserci di pericoloso? Mi
sbagliavo!
«Sì», risposi, «si può fare.» In quel momento mi resi conto che la
maggior parte delle persone dell'organizzazione con cui avevo
avuto problemi non erano più sulla scena: Michael e Al Malnik se
ne erano liberati.
Non prendemmo alcuna decisione, ma la verità era che da
quando stavo con lui a Neverland ero tornato nella mia «zona
benessere», e non parlo solo della cantina, anche se ovviamente
ci stavo particolarmente bene. Sapevo tutto del mio lavoro:
sapevo cosa voleva Michael e come voleva che fosse fatto.
Fu un bel momento. Entrambi ci trovavamo di fronte a una
svolta. Io mi ero allontanato, ma infine avevo trovato la via del
ritorno. Lui aveva finito un album e affrontava la dura realtà della
sua situazione finanziaria, pieno di voglia di ricominciare.
Rimanemmo seduti nella tranquilla intimità della cantina,
riflettendo sulle nostre vite, su come eravamo arrivati lì e su dove
ci saremmo diretti una volta ripartiti.
In quel periodo lui non stava più facendo uso di farmaci e il dottor
Parshchian gli aveva prescritto una cura a base di vitamine e
integratori che sembrava funzionare. Al Malnik seguiva
l'organizzazione e cercava di appianare tutte le controversie
legali: lo stava riportando in carreggiata per consentirgli di
riprendere a guadagnare. Michael, che non avrebbe potuto
incontrare una persona migliore, andava avanti e indietro da
Miami per parlare con lui e farsi visitare dal dottor Farshchain.
Stava lavorando ad un nuovo album, Number Ones, una raccolta
di successi. Nello studio provava alcuni pezzi nuovi, uno dei
quali, «One More Chance», avrebbe fatto parte nell'album.
Trascorreva anche del tempo con i figli. Blanket, che quell'estate
compiva un anno e mezzo, stava sviluppando un carattere
simpatico. Adorava Spider-Man. (Michael amava Spider-Man e
tutti i fumetti della Marvel, e naturalmente i figli facevano
altrettanto. Quell'anno, per il sesto compleanno di Prince, aveva
organizzato uno Spider-Man party.)
«Sono Spider-Man», dicevo a Blanket.
«No, sono io Spider-Man», rispondeva con la sua vocina buffa.
«Ma io sono Spider-Man», insistevo. Dopo aver portato avanti
per un po' il battibecco, Blanket faceva finta di catturarmi con la
ragnatela.
«Frank, devi cadere», diceva. «Ti ho preso.»
«No, mi hai mancato!» esclamavo. Tirava di nuovo e questa
volta mi accasciavo a terra, lottando contro quella tela invisibile.
In quel periodo la stampa raffigurava Michael come un uomo
intrappolato in una spirale che lo trascinava sempre più in basso.
La protesta contro la Sony sul tello dell'autobus, il bambino
sospeso dal balcone, il documentario di Bashir, i cambiamenti
del suo aspetto... Per il mondo esterno questi clementi avevano
gettato un'ombra sulla vita, il talento e la carriera di Michael.
Avevano già fissato la data del processo. La verità per loro era
irrilevante; gli importava solo di costruire il caso e vincerlo. Non
riuscivo a credere che Vinnie avesse potuto fare una cosa simile.
Mi sentivo tradito. Pensavo che avremmo affrontato le cose
insieme, ma per il resto del processo, e anche dopo, non parlai
più con lui. Alla fine compresi che non aveva vissuto le stesse
esperienze che avevo vissuto io con Michael, e quindi non
poteva avere la stessa lealtà. Mentre io ero pronto a sacrificare
tutto, Vinnie voleva soltanto assicurarsi di non finire in galera, e
se parlare con il Procuratore Distrettuale serviva a questo, allora
l'avrebbe fatto. Ero così arrabbiato con lui che non gli rivolsi la
parola per anni. Alla fine ne discutemmo e lo perdonai. Aveva
fatto ciò che riteneva meglio per sé. In fin dei conti, era ancora il
mio vecchio amico di terza media. Le nostre famiglie avevano un
lungo passato comune. Non valeva la pena di perderlo. Insieme
ce la facemmo.
CAPITOLO VENTITRE’ -
RICONCILIAZIONE
Tutte le domande che avevo tenuto dentro per quasi tre anni
si rovesciarono fuori, accavallandosi l'una sull'altra. E in
mezzo a questo torrente in piena dissi anche: «Per la
cronaca, io ho la coscienza a posto. Non ho fatto niente di
sbagliato. Non ho fatto niente di cui essere pentito. Ero lì per
te al cento per cento, in tutti i modi possibili. Mi hai detto di
come sei stato tradito da tante persone. Mi hai insegnato a
essere leale e lo ero, lo sono sempre stato e sempre lo sarò.
Ma dov'era la tua lealtà?»
Michael era calmo. «Beh, mi dissero che non volevi
testimoniare. Che non avresti testimoniato in un momento in
cui avevo estremo bisogno. Ne fui ferito, dopo tutto quello
che avevo fatto per te», rispose.
«Chi te l'ha detto?» chiesi con rabbia. «Non è vero. Il tuo
avvocato, Tom, comunicò al mio, Joe, che la mia
testimonianza non serviva.»
«Non ricordo chi, ma me lo dissero.»
«Ma chi?» insistevo.
«Non ricordo. E venuto fuori.» Mentre parlava era sdraiato
sul letto con i piedi alzati, in posa rilassata, e mi lasciava
sfogare.
«Da chi?» ripetei con rabbia. Mi faceva uscire di testa.
Cercai di calmarmi e di trattenere le emozioni, ma non era
facile.
«Lo dicevi che sarebbe successo», riuscii a dire infine con
voce più calma. «Lo dicevi da quando ho cominciato a
lavorare per te. E adesso sostieni che ti ho tradito, che non ti
ho aiutato.» Camminavo avanti e indietro davanti al letto,
come faccio di solito. «Non è vero. E non mi hai nemmeno
chiamato per sapere la verità, perché in realtà tu volevi
credere che ti avessi tradito. Volevi essere la vittima, volevi
poter affermare che tu mi avevi aiutato e io ti avevo fottuto,
ma non l'ho mai fatto. Cosa ho fatto per meritarmi tutto
questo odio da parte tua? Non hai idea di quanto mi fai
soffrire. So come sei arrivato a queste conclusioni, ma
perché non mi hai chiamato e non mi hai chiesto un
chiarimento di persona invece di lasciarti andare
all'immaginazione?»
A questo punto sembrò che le mie accorate parole
cominciassero a fare effetto. Michael aveva gli occhi lucidi, si
alzò in piedi e mi abbracciò.
«Mi dispiace», affermò. «Lo sai che ti voglio bene come a un
figlio. Mi dispiace di averti fatto stare così male. Cerchiamo di
voltare pagina. Avrei potuto essere in qualunque altro posto
al mondo, ma sono qui, con te e la tua famiglia. Voglio
andare avanti.» Si scuso anche per l'assurda telefonata con
cui ero stato minacciato di arresto se fossi andato in Irlanda.
Le spiegazioni sono una cosa che non mi sarei mai aspettato
di sentire da Michael. Ero abituato alla sua paranoia, ci
avevo avuto a che fare per anni; ciò che non potevo
accettare era di esserne rimasto vittima anch'io.
Non ho mai capito se lui si rendesse conto del modo in cui
affrontava e si difendeva dalle sue paure. Aveva avuto una
vita intensa, e mi ripetevo come sempre che non potevo
mettermi nei suoi panni. Perciò decisi che poteva bastare.
Avevo visto che era davvero dispiaciuto. Le sue scuse, il suo
pentimento e la pace tra noi erano tutto ciò che volevo.
«Non voglio avere un rapporto di lavoro con te», dichiarai.
«Voglio solo essere tuo amico, ho bisogno della tua amicizia.
Ho bisogno di averti nella mia vita.»
«Anch'io», rispose Michael.
Eravamo amici da più di vent'anni, eppure sembrava che
avessimo dimenticato tutte le esperienze che ci avevano
legato. Conoscevo i difetti di Michael, ma continuavo a
ritenere responsabile dei suoi eccessi le persone che aveva
intorno. Non
riuscivo a smettere di preoccuparmi per lui. Le vecchie abitudini
sono dure a morire.
«Ti sei di nuovo circondato di idioti», gli dissi. «Devi liberarti
di tutti questi malati di mente. Fammi un favore: comincia a
lavorare. Torna a fare quello che sai fare meglio.» Annuì con
un lieve sorriso sulle labbra. (gli piaceva sentirselo dire.
Continuai: «Guarda, c'è uno studio di registrazione a casa
dei miei. Comincia a lavorare, comincia a scrivere, comincia
a essere produttivo».
«E buffo che tu mi dica queste cose», commentò Michael,
«perché sono le stesse parole che mi ha appena detto tuo
fratello.»
Alla fine parlammo per ben due ore. All'inizio Eddie ci
interrompeva ogni dieci minuti pensando che Michael fosse
costretto a stare lì contro la sua volontà. Ma lui continuava a
ripetere che era tutto a posto, e alla fine Eddie la smise di
cercare di controllare la situazione. Non parlammo del
processo. Mi sembrava che Michael non volesse affrontare il
discorso. Restammo invece su un territorio neutro,
chiacchierando della sua villa nel Bahrein, di una nuova casa
discografica che voleva fondare con il principe del Bahrein e
di quanto stessero bene i suoi figli. Capii dall'incertezza e
dalla prudenza che mostrava sui suoi progetti a breve
termme che stava ancora cercando di ristabilirsi. I segni
lasciati dal processo erano evidenti. Ma voleva riprendersi:
Michael aveva nove vite come i gatti.
Quando concludemmo la nostra conversazione, aprii la porta
e dissi: «Adesso puoi entrare, Eddie», con il tono di quando
avevamo dieci anni. Da quel momento io e Michael fummo di
nuovo amici. La sua famiglia trascorse i quattro mesi
successivi nel New Jersey, e durante quel periodo
cominciammo a ricostruire il nostro rapporto. Passavamo il
tempo a discorrere di musica e a ricordare assieme, come
avevamo sempre fatto.
Io lavoravo a Manhattan, ma tornavo spesso nel New Jersey
per vedere Michael e i bambini. Festeggiammo il
quarantunesimo compleanno di Michael, che cadeva dieci
giorni dopo il cinquantesimo di mia madre, con una grande
cena in famiglia. Cucinò mia madre e ordinammo anche
qualche pizza, che a Michael piaceva tanto.
Il periodo di riposo trascorso nel Bahrain dopo il processo gli
aveva fatto bene. Aveva bisogno di staccare, di avere del
tempo da dedicare a se stesso, e ora sembrava ringiovanito.
Era vivace ed eccitato di tornare a essere libero e creativo.
Durante il giorno lavorava con Eddie allo studio, e aveva
delle idee per un cartone animato che sperava di poter
realizzare. Era felice di avere intorno la mia famiglia perché
con noi poteva essere se stesso. Nella sua vita non c'era
l'ombra di farmaci. Era tornalo a essere Michael.
Una delle camere al piano di sopra era stata trasformata in
aula e ogni giorno veniva un insegnante privato. Anche se
andava a letto tardi, Michael si alzava sempre presto la
mattina per aiutare i figli a prepararsi per la scuola. Mia
madre serviva loro la colazione, ma poi era Michael a vestirli,
tutti eleganti come se dovessero uscire davvero per andare a
scuola, e a controllare che si lavassero i denti.
Durante la nostra lunga conversazione avevamo detto di
voler lavorare sulla nostra amicizia (non affari, solo amicizia)
e tenemmo fede alle nostre parole. Tutti i problemi irrisolti
furono accantonati. Scherzavamo e ricordavamo i bei tempi
passati: il vecchio Gary e le assurde canzoni che scriveva, e
quella volta che io e Michael eravamo a Disneyland Paris
sulla giostra di Peter Pan e ci fermammo proprio davanti al
personaggio animatronico di Wendy.
«È così bella», aveva sospirato Michael, poi ci eravamo
scambiali uno sguardo d'intesa, capendo subito cosa
dovevamo fare. Non ne vado fiero, era una cosa sbagliata,
ma andava fatta. Per esprimere la nostra ammirazione,
sollevammo la gonna di Wendy e lasciammo la nostra firma
sulla sua... «persona animatronica».
EPILOGO
Nel primo anniversario della morte di Michael è stata tenuta
una cerimonia commemorativa nel luogo della sepoltura. La
famiglia, gli amici, i fans, si sono ritrovati al suo mausoleo nel
cimitero di Forest Lawn. La folla è rimasta fuori, dentro c'erano
solo poche persone: Randy, Janet, Jermaine, Marion e alcuni
cugini di Michael. Prima ha parlato un sacerdote, poi il nipote di
Michael, Auggie. ha fatto un piccolo discorso in memoria dello
zio, vigoroso e appropriato, che ci ha lasciati colpiti e commossi.
Conclusa la cerimonia, mi sono avvicinato. La tomba si
ergeva davanti a me e sopra c'era una grande corona
dorata. L'ho sollevata, come avevo visto fare ad altri, e ho
scoperto che sotto c'era una scatola piena di gomme da
masticare Bazooka. Mio malgrado, ho sorriso. Era un gesto
simpatico, a Michael sarebbe piaciuto molto. Ho recitato una
preghiera e mi sono preso un momento per parlare con lui.
L'ho ringraziato per tutto ciò che aveva fatto per la mia
famiglia e per tutto quello che mi aveva dato. Gli ho
promesso che avrei fatto il possibile per preservare la sua
eredità come lui avrebbe voluto.