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STORIA PER IL TURISMO

L’idea della crociata in una corte del Seicento:


da Torquato Tasso a Paolo Finoglio
di Vito Bianchi

Quel maledetto venerdì, chi lo ricordava più? La cosiddetta prima crociata era nata come
un pellegrinaggio: in armi, ma pur sempre un pellegrinaggio. Via via che le decine di
migliaia di uomini, donne e fanciulli si erano però spostati dall’Europa fino alla Siria, al
Libano e alla Palestina, l’arroganza dei comandanti, l’avidità, la brama di terre e popoli da
dominare avevano trasformato il pellegrinaggio in guerra di conquista. Nel Vicino Oriente
era stata esportata violenza allo stato puro, primordiale. Il continente europeo si era così
sgravato di cavalieri predoni e turbolenti: il che aveva finito per rafforzare i poteri di
sovrani senza più concorrenti, senza più scocciature. Oltremare, nuove terre sarebbero
state trovate, per chi ne avesse desiderato. E al culmine dell’impresa, quel venerdì 15 luglio
1099, con la conquista cristiana di Gerusalemme, il fervore religioso s’era trasformato in
ferocia.
Non che fossero mancate sin dall’inizio le violenze insensate, gratuite, brutali: alla
partenza dalle contrade tedesche della Lorena, i contingenti infervorati dei crociati
avevano infierito crudelmente contro gli ebrei di Colonia, di Neuss, di Magonza e di altre
località, facendone strage, giacché quello era il modo giusto di cominciare la spedizione,
quello era ciò che i nemici della fede meritavano: “… e gli ebrei – ci racconta il cronista
Alberto d’Aquisgrana nella Historia Hierosolymitana – vedendo che i cristiani non
risparmiavano nemmeno i piccoli e non avevano pietà per nessuno, si gettarono essi stessi
sui fratelli, sulle donne, sulle madri, sulle sorelle e si uccisero vicendevolmente. E la cosa
più straziante fu che le stesse madri tagliavano la gola ai figli lattanti oppure li
trapassavano, preferendo che essi morissero per loro propria mano piuttosto che uccisi
dalle armi degli incirconcisi”. Così era cominciata la cosiddetta prima crociata. Così era,
appunto, culminata: un’orda di guerrieri armati e di pellegrini originariamente semi-
inermi, esasperati dall’aria bruciata, e dalla sete, e dalla polvere, e dagli alberi che non
c’erano a rendere un minimo d’ombra, e dall’attesa di settimane in quell’inferno, dal senso
di colpa per gli atti di cannibalismo, ebbene, quella massa di corpi che trasudavano rabbia,
odio e disperazione era riuscita a superare dal lato settentrionale la cinta muraria di
Gerusalemme, dopo avervi appoggiato un enorme torrione in legno, gemello dell’altra torre
che, sul versante meridionale, dalla parte del Monte Sion, aveva invece stentato a imporre
l’impeto delle milizie cristiano-occidentali.
La furia s’era fatta cieca: dilagando fra strade, moschee, locande, case e botteghe, i cruce
signati, sentendosi legittimati dalla loro croce in stoffa rossa ricamata o cucita addosso,
avevano massacrato quasi tutti gli abitanti musulmani ed ebrei: e se il governatore locale,
Iftikhar ad-Dawla, alla vigilia dell’assedio, non avesse espulso dalla città i cristiano-
orientali, di cui non si fidava, anch’essi avrebbero fatto la stessa fine, dal momento che gli
Europei non li avrebbero riconosciuti, e di sicuro non sarebbero andati per il sottile. I
conquistatori erano debordati dalla Porta di Erode e avevano travolto tutto e tutti sino alla
Spianata delle Moschee, dove si trovava la Cupola della Roccia, dove si era raccolta la gente
in fuga, e dove la tragedia, concentrandosi, addensandosi, s’era fatta ancor più spaventosa:
per incedere nell’area sacra era stato necessario aprirsi la strada fra i cadaveri mutilati e il
sangue che arrivava fino alle ginocchia. Era stata tradita l’anima di Gerusalemme, il cui
etimo discenderebbe, secondo alcuni, da jireh, che vuol dire “egli vede”, e shalem, che vuol
dire “pace”: “che possa vedere la pace”, sarebbe il significato. Ma la pace era sfuggita di
nuovo, liquida, scivolando fra le mani senza che la si potesse afferrare.
La Città Santa, che gli Arabi avevano conquistato nel 638, resterà cattolica per meno di
novant’anni: dal 1187, con la battaglia di Hattin, il curdo Salah ad-Din, il Saladino delle
fonti occidentali, vi ripristinerà il controllo musulmano. Un controllo che, pur
nell’alternarsi delle dinastie dei Fatimidi, degli Ayyubidi, dei Mamelucchi e degli Ottomani,
di fatto lascerà Gerusalemme sotto l’egida islamica fino al XX secolo e alla dissoluzione
dell’impero turco: l’11 dicembre 1917, insieme agli Inglesi, entreranno nella città,
abbandonata dalle truppe ottomane, 300 bersaglieri dalla Libia italiana e 100 carabinieri
dall’Italia. Sino ad allora, Gerusalemme sarà sempre gestita da autorità di fede islamica, se
si eccettua un decennio di pertinenza cristiano-occidentale, susseguente agli accordi
diplomatici del 1229 fra l’imperatore Federico II di Svevia e il sultano al-Kamil.

Nella valle di Giosafat


Ad ogni buon conto, la riconquista islamica della Terrasanta non impedirà né che
continuino i commerci né che perseverino i pellegrinaggi: anche con la dominazione
musulmana si sarebbero riversate in Palestina frotte di pellegrini che avrebbero visitato
liberamente i Luoghi di Cristo, e magari si sarebbero prenotati un posto nella Valle di
Giosafat, quella dove si riteneva che sarebbe stato celebrato il Giudizio Universale. Chi vi
perveniva, di solito contrassegnava la propria postazione con un’incisione su una roccia,
con un segnacolo in pietra, con un mucchietto di sassi: servivano a occupare un punto
specifico, preventivamente, per paura di non trovarne nel giorno ultimo, nell’ossessione di
assicurarsi un personalissimo spazio nel luogo in cui sarebbero confluite tutte le genti
vissute sulla Terra dalla notte dei tempi, migliaia e migliaia d’anni d’umanità, milioni e
milioni di individui ad affollare una vallecola che, agli occhi dei fedeli, in previsione della
calca che si sarebbe creata alla fine del mondo, di sicuro non appariva troppo ampia.
Peraltro c’era chi lasciava dei “segna-posto” molto originali: messer Dolcibene de’ Tori, un
giullare, musicista e poeta fiorentino, incoronato re dei buffoni e degli istrioni d’Italia
dall’imperatore Carlo IV di Boemia, aveva raggiunto la Valle di Josaphat intorno al 1349 in
compagnia di Galeotto Malatesta e Malatesta Unghero, signori di Rimini. Alla vista della
vallata “… messer Dolcibene scese da cavallo e corre nel mezzo d’un campo della detta
valle e, calatisi i pantaloni di gamba, lasciò andare il mestiere del corpo dicendo: - Io
voglio pigliare il luogo, acciò che quando serà quel tempo, io truovi il segno e non affoghi
nella calca - …”.
Insomma, nel XIV secolo il possesso cristiano di Gerusalemme non era più così
fondamentale. La stessa direzione che avevano preso le crociate era sintomatica: nel 1202-
1204 la spedizione era stata ad esempio deviata al saccheggio di Costantinopoli, che pure
era capitale dell’impero romano d’Oriente: una città greco-ortodossa, ma comunque
cristiana, che dei sedicenti cristiani non avevano esitato a devastare. E un serio colpo
all’ideale della “liberazione” di Gerusalemme era stato inferto da papa Bonifacio VIII con
l’istituzione nel 1300 del primo Giubileo, che aveva concesso a tutti i fedeli che si fossero
recati a Roma la stessa indulgenza plenaria fino ad allora riservata ai crociati.
Certo, si sarebbero fatte ancora molte crociate, continuando a proclamare che il loro fine
ultimo e più autentico fosse la riconquista della Terrasanta. Ma in realtà esse avrebbero
avuto altre mete e altri scopi. Altri fattori politici e altri attori, cangianti di volta in volta,
dal Medioevo all’età moderna, in un caleidoscopio di personaggi, guerre, tradimenti,
alleanze, armistizi, spionaggi, abiure, vendette, egoismi. Il senso del pellegrinaggio armato,
insito nella prima e ultima conquista cristiana di Gerusalemme del 1099, s’era insomma
sempre più smarrito. E il filo non era stato ritrovato nemmeno quando i rappresentanti
dell’universo musulmano si erano portati al contrattacco: la caduta di Bisanzio in mani
turche nel 1453 aveva legittimato l’aspirazione all’egemonia euro-mediterranea del sultano
Maometto II detto il Conquistatore, che s’era insediato sul trono dell’imperatore romano
d’Oriente e s’era messo in testa di poter riunificare i domini dell’antica Roma
riappropriandosi della Città Eterna, della città del papa, come un Cesare che agiva
all’incontrario rispetto a quanto era avvenuto in passato, muovendo cioè da Levante a
Occidente. Il papato, in quei momenti, aveva continuato a predicare con forza le crociate.
Ma a Quattrocento inoltrato la crociata aveva perso – se mai ne avesse davvero posseduto
– ogni valore storico-escatologico, essendo sempre più sorretta da valutazioni di realismo
politico e militare. L’unico pathos le era provenuto dal tema della difesa della cristianità
rispetto alla minaccia turca, propagandata come potenzialmente mortale. E la salvezza
della comune “casa cristiana” era stato il collante che i papi avevano tentato di utilizzare
per smuovere le coscienze dei regnanti occidentali, per unificarne le forze ed esorcizzare le
angosce che in Occidente montavano ogni qualvolta i Turchi si appropriavano di un’altra
porzione d’Europa.
Per la verità, alcuni condottieri balcanici, che si battevano animati comunque da
ambizioni personali, come Giovanni Hunyadi, Stefano di Moldavia, Giorgio Castriota
Scanderbeg o lo stesso Vlad III, detto Ţepes, l’Impalatore, meglio conosciuto come
Dracula, avevano innalzato la croce in battaglia e, con tattiche di guerriglia, avevano per
qualche tempo frenato lo slancio turco. Ma dopo che questi capitani d’oltre Adriatico erano
stati spazzati via, il terrore: nel 1480, con la conquista turca di Otranto, i giannizzeri
avevano messo piede in Italia, nel “giardino di casa” del papa, pronti a dirigere su Roma: e
nel conflitto aveva trovato la morte anche Giulio Antonio Acquaviva, antenato dei conti di
Conversano, un capitano coraggioso fino all’imprudenza, che s’era lasciato attirare dai
Turchi in un’imboscata per lui fatale. L’avanzata turca sarà arrestata in quella circostanza
dal dilagare della peste, che prostrerà gli eserciti, e dall’improvvisa morte del sultano
Maometto il Conquistatore, che priverà gli Ottomani di una guida. Ma la pausa risulterà
abbastanza breve.

Carlo V e Solimano il Magnifico


Col XVI secolo, fra Balcani e Mediterraneo proseguirà la lotta per l’egemonia che
coinvolgerà due distinti blocchi politici: da una parte ci sarà il sultanato turco, coi suoi
obiettivi di dominio universale, orientato a contemperare una società multietnica,
multireligiosa e multiculturale, abbattendo i muri dei nazionalismi; dall’altra un’Europa
cristiana dove i confini invece tendevano a soprelevarsi, tanto nella dimensione statuale
quanto in quella religiosa, con le inesauste trame dei prìncipi europei, vogliosi di ricavarsi
spazi di autonomia sempre più ampi a scapito dei concorrenti, e con la riforma luterana,
che stava portando all’emancipazione di un cristianesimo protestante, certamente più
“mitteleuropeo”, da un cattolicesimo romano, più “mediterraneo”.
In queste fasi, nella prima metà del Cinquecento, la sovranità dell’imperatore Carlo V
(1520-1556) – che si nutriva del fresco colonialismo d’oltre Oceano e che dalla Spagna si
spingeva a controllare corpose porzioni delle aree centro-europee – per lunghi tratti
avrebbe rappresentato il punto di equilibrio fra le molteplici istanze che frammentavano
l’Occidente cristiano dinanzi all’universalismo perseguito dagli Ottomani e dal suo più
famoso rappresentante, Solimano il Magnifico.
Le crociate, ormai, si combattevano lontano da Gerusalemme. La loro stessa
rappresentazione non contemplava più la Terrasanta. I fastosi arazzi distesi a decorare le
pareti dell’alcazar di Siviglia ripropongono la presa spagnola di Tunisi del 1535, che, nella
propaganda dell’epoca, era stata assimilata a una vera e propria crociata, nel solco della
gloriosa Reconquista, la cristianizzazione imposta sin dal Medioevo nelle regioni
islamizzate di Spagna e, in seguito, nelle Americhe. Tunisi, al pari di Algeri, era la
formidabile sede dei pirati barbareschi alleati degli Ottomani, il cui capo, Khair ad-Din,
detto il Barbarossa, aveva a lungo terrorizzato tanto la Penisola Iberica (tramite le
postazioni algerine) quanto i traffici lungo il Canale di Sicilia (tramite i possessi tunisini),
controllando il transito fra i due semi-bacini mediterranei e, quindi, pregiudicando
l’economia spagnola. Carlo V non aveva potuto restare inerte, e s’era affrettato a preparare
una controffensiva per riprendersi Tunisi, spacciandola appunto per crociata. Faccenda
estremamente costosa: vi erano stati impegnati enormi quantitativi d’oro e argento
sottratti dall’altra parte del mondo agli Inca di Atahualpa, l’equivalente di due milioni di
ducati, a cui s’erano aggiunti i nutriti prestiti dei Fugger di Augsburg e di altri banchieri di
Anversa.
Naturalmente l’impresa di Tunisi era risultata tutt’altro che risolutiva. Il conflitto fra
Ottomani e Spagnoli s’era protratto per tutto il XVI secolo, attraverso la rotta di Carlo V ad
Algeri nel 1541, l’assedio dei Turchi a Malta del 1565, la presa ottomana di Cipro, fino alla
vittoria cristiana di Lepanto del 1571 e oltre…

Confini mobili
E tuttavia, pur in uno stato di conflittualità permanente, nelle acque ribollenti del
Mediterraneo gli argini politici, religiosi e sociali si erano fatti porosi, permeabili,
fluttuanti. Sul piano internazionale, l’alleanza fra il cristianissimo re di Francia, Francesco
I, e il sultano musulmano di Istanbul, Solimano, era un dato di fatto del Cinquecento, che
aveva aggiornato i patti stretti secoli prima, nell’alto Medioevo, fra il cristianissimo
Carlomagno e Harun ar-Rashid, il califfo musulmano delle Mille e una Notte; ma
soprattutto, nella pratica quotidiana, non pochi cristiani erano entrati a pieno titolo
nell’establishment degli Ottomani, in ruoli di primissimo piano, grazie talvolta al caso,
senz’altro alla mobilità sociale e, spesso, a forme di proto-meritocrazia vigenti nel
sultanato.
Un caso esemplare è quello del pirata Uluç Ali, divenuto governatore di Algeri: si chiamava
in origine Giovanni (o Luca) Galieni, era nato povero, in Calabria, ed era stato rapito nel
1536 dai pirati del Barbarossa, in seguito a un’incursione a Le Castella, presso Isola Capo
Rizzuto. Tutt’altro che dotato di un gran fisico, afflitto finanche dalla tigna che gli
chiazzava il cranio, era stato venduto per pochi soldi come schiavo. Ma ben presto aveva
saputo dimostrare le sue doti d’intelligenza e coraggio: convertitosi all’islam,
destreggiandosi abilmente nella vivace comunità del sultanato e cogliendone
immediatamente tutte le opportunità, si era prepotentemente imposto nella marina da
guerra ottomana, e scalando le gerarchie militari era riuscito infine a diventare kapudan
pascià, grande ammiraglio della flotta sultanale, riverito e temuto col nome di Kiliç Ali,
“Alì la Spada”: al punto che, ancor oggi, il nome di un quartiere di Istanbul ne tramanda il
ricordo.
Allo stesso modo diverse donne cristiane, rapite dalle flotte turco-barbaresche,
diventavano potentissime spose dei sultani, e si ergevano a protagoniste attive della
politica ottomana, dando vita a un vero e proprio “sultanato delle donne” che almeno fino
al 1651 annovererà mogli, madri e persino nonne. Sappiamo così di Nur Banu, una
bellissima fanciulla cristiana, che il solito Barbarossa aveva rapito a Corfù (allora isola
veneziana) e che era diventata moglie di Selim, il successore di Solimano: e a tal punto il
sultano era stato ammaliato dalla ragazza, da scegliere la monogamia, del tutto eccezionale
nei costumi sultanali. A sua volta Kösem, figlia di un sacerdote ortodosso dell’isola greca di
Tinos, si imporrà ai tempi del marito, Ahmed I, e dei figli, Murad IV e Ibrahim I, tutti
sultani, tutti gravitanti attorno alla figura centrale e imponente di questa donna. E poi
s’erano moltiplicati i Siciliani, Napoletani, Sardi o Corsi che volontariamente si “facevano
turchi” emigrando nel sultanato, per spirito d’avventura, o per emanciparsi dal
feudalesimo che irrigidiva la società europea in vecchi e immutabili schemi sociali: era
un’umanità, forse revanscista, sicuramente determinata a non tornare indietro.
E allora in una tale magmaticità e promiscuità, dove degli umili cristiani erano assurti a
personalità ottomane, dove il confine fra giusto e sbagliato, conveniente e sconveniente, fra
ciò che è bene e ciò che è male era diventato man mano sempre più labile, sfuggente,
perfino opinabile nell’esperienza tutta terrena e soggettiva degli uomini, in tutto ciò, quale
senso poteva avere ancora la prima crociata? Quali ne erano stati i presupposti? Nessuno
lo intuiva più. Al passaggio fra il Cinque e il Seicento, la conquista cristiana di
Gerusalemme poteva esistere e resistere appena nella letteratura: e infatti il nostro
immaginario relativo alle crociate deve molto di più a Torquato Tasso che ai cronisti
medievali.
In un’età di relazioni serrate fra Croce e Mezzaluna, il poeta aveva lavorato all’opera che
in un primo tempo s’era chiamata “Goffredo”, quindi “Gerusalemme liberata” e infine
“Gerusalemme conquistata”. Ma in essa Torquato Tasso, pur ispirandosi alla prima
crociata, non pensava affatto a quella lontana epopea: aveva presenti i suoi tempi, gli attori
contemporanei, e al personaggio che era il suo anti-eroe musulmano più intenso e
affascinante egli aveva imposto, non a caso, il nome del grande sultano Solimano. Non era
la Gerusalemme dell’XI secolo a ispirare Torquato Tasso: erano la battaglia di Lepanto e gli
altri non meno straordinari avvenimenti ai quali aveva assistito.

Da Tasso a Finoglio
La trasposizione pittorica che Paolo Finoglio fa della Gerusalemme liberata risente
perciò della perdita di senso del concetto di guerra santa e della vacuità delle barriere
religiose. Nei suoi dipinti, i personaggi che incarnano gli intensi rapporti fra genti di
diverso schieramento, gli intrecci amorosi fra cristiani e islamiche, le passioni fra
occidentali e orientali, Rinaldo e Armida, Erminia e Tancredi, Tancredi e la clamorosa
Clorinda, una musulmana che però era figlia di un re cristiano e che salva dalla pena
capitale i cristiani Sofronia e Olindo, tutti costoro riverberano la coeva fluidità degli schiavi
cristiani divenuti visir ottomani, delle fanciulle cristiane diventate sultane capacissime, con
gli sconfinamenti, con le frontiere che nella pratica quotidiana s’erano diluite in una
mescolanza di vite che ormai era stata assorbita, digerita dalla società primo-secentesca.
Incerti, umanamente incerti erano diventati i confini fra cristiani e musulmani, in un’epoca
già di per sé stessa portatrice di ulteriori incertezze, dal momento in cui Copernico e
Galileo avevano tolto al Pianeta Terra, e quindi all’uomo che l’abitava, la centralità
nell’universo.
E’ in questa scia che l’immagine trasfigurata della prima crociata giunge a Conversano,
al culmine di un settantennio di pace fra Europa e sultanato. Le guerre di religione
vivevano semmai in altri quadranti e di altri attori, tutte all’interno di una stessa
cristianità, a latitudini più settentrionali: la Guerra dei Trent’anni, deflagrata nel 1618,
dopo aver coinvolto cristiani protestanti e cristiani cattolici, stava sconvolgendo il centro e
il nord-Europa. Là era sangue e furore. Qua, a latitudini più mediterranee, nella
spettacolarizzazione pittorica della prima crociata, l’amore poteva ben affiancare la guerra.
Certo, non era la prima volta che qualcuno raffigurava gli amori misti fra cristiani e
infedeli, anche perché l’opera di Torquato Tasso era stato un best-seller che aveva
ingolosito Tintoretto, Ludovico e Annibale Carracci, Domenichino, Guercino, Giovanni
Bilivert, Nicolas Poussin, Cesare Dandini, Ambroise Dubois. E in contemporanea a
Conversano, la Gerusalemme liberata veniva reiterata in sedici grandi tele, commissionate
nel 1639 ad artisti italiani e francesi da François Annibal d'Estrées, ambasciatore di
Francia a Roma, di cui restano due esemplari: Rinaldo abbandona Armida nell'isola
incantata, di Charles Errard (Bouxwiller, Musée Historique), e Clorinda chiede ad Aladino
di liberare dal rogo Olindo e Sofronia, di François Perrier (Reims, Musée Saint Denis).
La rappresentazione poteva farsi musicale, come nel caso del celebre Combattimento di
Tancredi e Clorinda, del 1638, di Claudio Monteverdi; oppure poteva adattarsi agli
allestimenti teatrali frequenti fra XVI e XVII secolo nelle corti e nelle città italiane;
soprattutto, le immagini potevano veicolare metafore, in un Seicento in stato avanzato, in
un secolo impregnato dalla teatralizzazione di atteggiamenti da imbandire in un’iperbole di
allegorie, con figurazioni simboliche, insistite ed enfatizzate.

Lettere compromettenti
Al centro di questa scena c’è il conte di Conversano, Giovan Girolamo II d’Acquaviva,
che intendeva esercitare un potere assoluto, violento e talora crudele nei propri feudi, che
era supportato efficacemente da una moglie della medesima pasta, Isabella Filomarino, e
che, innanzitutto, fra gli anni Trenta e Quaranta del Seicento, odiava, ricambiato, il viceré
spagnolo di Napoli, Ramiro Felipe Nuñez de Guzmán, duca di Medina de Las Torres, con
cui c’erano accesissimi contrasti. Non una novità: la casata degli Acquaviva aveva nei
decenni precedenti sempre oscillato fra una tiepida accondiscendenza che, per forza di
cose, doveva agli Spagnoli, padroni del Meridione, e una più marcata inclinazione filo-
francese: un ramo del casato, rifugiatosi Oltralpe, risiedeva nella stessa corte del re di
Francia. E Giovan Girolamo, mentre era intento a perseguire con ogni mezzo una
personale autonomia e indipendenza, mentre ampliava il recinto del proprio dispotismo
ricorrendo a omicidi plurimi, anche di sacerdoti, oppure a rapimenti, anche di donne, e
mentre disubbidiente, recalcitrante avversava senza sosta il viceré spagnolo per questioni
economiche e politiche, ecco che, in quella determinata fase, commissionava le tele della
Gerusalemme liberata a Paolo Finoglio.
Il conte di Conversano fu arrestato, nell'aprile del 1643, e rinchiuso in Castel S. Elmo a
Napoli. Di lì a poco, la scoperta di alcune lettere compromettenti, inviate dal figlio
Tommaso al re di Francia e all’ambasciatore francese a Roma, in cui si spiegava come
ridurre il viceregno spagnolo alla dominazione dei Francesi, sembrò rivelare il
coinvolgimento di Giovan Girolamo in una congiura filo-francese, avallata dagli atti
ufficiali di un ispettore spagnolo che nel 1644 ne prefigurava la fellonia. E in un carteggio
fra il cardinale Mazarino e il marchese Fontenay-Mareuil, ambasciatore di Francia a Roma,
verrà adombrato il ruolo del conte di Conversano nelle trame anti-spagnole: stando alle
missive, Giovan Girolamo avrebbe raccolto attorno al progetto di ribellione più di
cinquanta fra i principali nobili del viceregno, pronti all’azione. Allo stesso Fontenay-
Mareuil erano pervenute nel 1643 delle lettere che Giovan Girolamo aveva inviato al
cugino, il conte di Chateauvilain, ragionando di possibili mutamenti politici e dell’appoggio
a un papa filo-francese.
Negli stessi giorni in cui il conte andava ammiccando ai Francesi, Paolo Finoglio andava
dipingendo la Gerusalemme liberata.
L’artista, pittore di fiducia della famiglia Acquaviva, verosimilmente ne conosceva le
aspirazioni politiche, ed era in confidenza con i conti conversanesi: nel novembre del 1642,
al matrimonio di sua figlia Beatrice, testimone di nozze fu Cosimo, primogenito di Giovan
Girolamo. Dunque esisteva un legame che andava oltre il mecenatismo, oltre il semplice
rapporto fra committente e artista. In pochi, meglio di Paolo Finoglio, avrebbero quindi
potuto e saputo interpretare, fra gli anni Trenta e Quaranta del Seicento, le aperture del
conte di Conversano, temporaneamente filo-francesi, derivanti dal duro scontro con il
viceré di Spagna.

Un sogno irrealizzato
E allora dobbiamo domandarci quanto siano casuali le scelte dei soggetti riprodotti nei
grandi quadri. Di sicuro, gli eroi e le gesta da scontornare evocavano molta Francia:
Tancredi d’Altavilla, di stirpe transalpina, che richiamava pure le origini dei primi
feudatari di Conversano; Raimondo di Tolosa, personaggio francesissimo, importante sì,
ma non quanto Goffredo di Buglione, il capo effettivo della prima crociata, che pure,
ricordiamolo, aveva dato il nome alla prima edizione del poema tassiano, e che però era
sostanzialmente fiammingo; e Rinaldo, figura che rimanda sia a un cavaliere crociato della
Champagne (Rinaldo di Châtillon, partecipante alla seconda crociata nel 1147), sia, più
specificamente, ai paladini di Carlomagno, al ciclo carolingio, intrinsecamente francese.
Tancredi compare in 3 tele, Raimondo in una, Rinaldo in 5: se si esclude la scena con
Sofronia e Olindo, nove dipinti su dieci hanno per protagonisti personaggi di ascendenza
transalpina. E’ la Francia che ritorna, insistente, ridondante, eroica, negli stessi anni in cui
Giovan Girolamo II Acquaviva si scontrava col viceré di Spagna e, forse strumentalmente,
coltivava rapporti con i Francesi.
Ora, se la metafora è la madrina onnipresente del Seicento, con la Gerusalemme
liberata, con la prima crociata si approntano storie funzionali all’espressione del casato in
quella che è la dimensione barocca, allegorica e spettacolare del secolo. I maestosi dipinti
diventano il proscenio di una corte che elabora l’esibizione figurata delle proprie ambizioni
politiche, oltre che culturali: giacché i modelli adottati a Conversano non si nutrono
esclusivamente del recupero del passato, di un immaginario cristallizzato nel mito, ma
paiono ispirarsi a un presente in divenire, di cui Giovan Girolamo Acquaviva e Isabella
Filomarino si sentono protagonisti. Nella trilaterazione visuale del potere fra Napoli, Parigi
e le Puglie, in un frangente specifico, i conti occhieggiavano alla Francia per smorzare le
ingerenze della Spagna e raggiungere l’obiettivo di rafforzare un potere del tutto personale,
propenso a perpetuarsi.
Le dieci tele di Paolo Finoglio, nella loro compiutezza e magnificente spettacolarità,
sistemate in una sala destinata ad accogliere feste e invitati, costituiranno l’eredità artistica
e visiva di quel momento e di quel sogno coltivato nel doppiogioco, nel sangue e negli
intrighi. Un sogno provvisorio e irrealizzato: perché Giovan Girolamo Acquaviva, pur
cercando di riabilitarsi con brevi militanze nell’esercito spagnolo, da cui avrebbe tratto
degli indulti ufficiali, tenderà comunque a corroborare anche economicamente il proprio
dispotismo, ricorrendo al contrabbando di olio, mandorle, grano e spezie, in spregio alle
istituzioni spagnole, sempre insofferente verso le autorità superiori, e sempre senza pietà,
servendosi pure di efferati banditi come Antonio Montanaro, detto Capo di Ferro.
Il conte di Conversano troverà la morte a Barcellona, nel maggio del 1665, dopo un
quindicennio di detenzione in Spagna. I suoi figli maschi, Giulio, Tommaso e Cosimo,
moriranno prima della loro stessa madre. E la costruzione di un apparato che tenesse
insieme l’immaginario e il potere si sbriciolerà, ineluttabilmente, dinanzi alla precarietà e
alle imprevedibili giravolte che, spesso, la Storia annette alle cose umane. Quel maledetto
venerdì 15 luglio del 1099 aveva ormai fatto naufragio nella memoria.

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