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Kodiak o dell’istantanea glaciazione.

Come un nunatak il tuo corpo


Nudo senza ghiaccio
Scabro di roccia, fermo in mezzo
Al letto come ai ghiacciai
Qualcosa si vuole in cambio questa notte
Una fioca lampadina da svitare
Una finestra su cui alitare il tuo nome
Sei facile a vedersi, più del comodino laccato comunque
Refugium d’altri palpiti
I miei sono a scongelare fuori
E la sigaretta accesa poco m’assiste

Epididimi e canzoncine per bambini


Sapere degli effetti. Ora a breve. Ora in mezzo. Ora a lungo.
Uno schiaffo. Il rosso della guancia. Il nero della rabbia. Il bianco del voluto perdono.
C’è chi ci fa i suoi quadri.
Deve solo aspettare scatenarsi la tua mano. Il tuo braccio. Il tuo fastidio.
Picasso mi chiamerò fra cent’anni. Se solo tu sapessi aspettare!
Ma mi troverai già morto quando tiri la rete, pesce ago capitato male,
fra gamberetti e calamari volanti ( a quelli miravi ma a me tocca mangiarmi)
coperto da un osso lacrimale, maccarello indiano o
solo pastura per vendette millesimali.
Quello schiaffo. Sapido di zigomo forte. Venuto fuori prima di Heidi.
E dei miei slip fatti scendere sulle gambe. Nonchalance uguale a zero.
Il mondo come un film polacco in bianco e nero (popcorn alla fine del primo
tempo)
Akinetopsia. Non è lo studio dei cadaveri di CSI. Ma la mia malattia. Vedo il mondo
congelato in un istante infinito. Un’unica immagine. Fotogramma di un evento ancora
in corso e poi forse morto. Una lesione all’area corticale, chiamata come una nuova
tattica di Zeman, V5. Come? Chi lo sa. Ma un indizio lo conosco. Ricordi Kantor?
Non quello delle diagonali (arì Zeman!), quello del Teatro Zero! Che usava i
manichini al posto degli attori? (che poi non è la stessa cosa?). Bene, quello che vedo
è una sedia vuota. È lì di fronte ai miei occhi da ormai 20 anni. Ferma. Ottusamente
ferma. Spazio conquistato per sempre. E i centimetri quadrati rosicano sotto ad un
culo che non c’è. Dimmi, ti prego se mai ritornasti a sederti su questa sedia. O te la
portasti via insieme alle valigie? O comunque ricordami, che cosa mai ci faccia un
cartoccio vuoto di popcorn sopra?

The World as a black and with polish movie (popcorn at the end of the first half)
Akinetopsia. No, no the corpse examination a la CSI. But my disease. I see the world
frozen in a infinite istant. A unique image. Frame of an event still in progress and
then maybe dead. A cortical area injury, called as a new Zeman Tactics, V5. How? I
Don’t know. A clue I spot. Do you remember Kantor? No one’s of the diagonals! The
guy of Zero Theatre! He that used dummies instead of actors. Well, what I see is a
empty chair. It’s been there in front of my gaze. 20 years. Stalled. Dully stalled.
Space vanquished forever. And the square centimeters nibble under a butt isn’t there.
Say me, I pray you, if you ever came back to sit on this chair. Or did you take it away
with the suitcase? Or remember me anyway, why there is a blank tube of popcorn
over the chair?

Heart Attack
Quando si dice la fortuna? Mi sono salvato da un infarto grazie ad un morso di una
vipera! Vero. Il veleno ha permesso di sciogliere i coaguli nel cuore! Ed io mi sono
ritrovato steso a terra con le mani sul petto e due buchi profondi sulla gamba. Ma
stavo bene. Sto bene. E tu innamorata mia? Ti fanno ancora male i denti?

Banach-Stone
Sono disteso. Su una di quelle tue ipotenuse fatte di mele sciroppate.
Le tue torte quadrate o rettilinee o pressappoco triangoli.
Che i cerchi servono per tenerti i capelli ben stretti sulla testa.
Che i cerchi e non li trovi (ih ih ih) quando liberi fluttuano nella notte.
Ma io dormo, algebricamente dormo, schiuso in uova di ascisse e semiaperto
Insieme di noi. I nostri rintocchi di pelle sarabande stonate. Le stesse
Lenzuola fanno onde che si elidono, ritornando il letto ben fatto. Viviamo la notte
In rettangoli di sonno ed incognite di costole. Ma il teorema di Banach-Stone ci è
Amico. Domani mattina ci ritroveremo a colazione.

Non sono un mago ai tuoi occhi


Non leggo nei tuoi pensieri. Insensibile ad encefalogramma. Forse scritto male?
I conigli mi escono dai coni.
E il mio sguardo magnetico? Coercitiva resisti, insatura, polarizzata, piccola mia!
D’isteresi si nutrono i tuoi giri intorno a me. Mi fai le boccacce. Ti alzi un poco la
gonna.
I miei cenni telecinetici s’infrangono sulle calze troppo di seta.
Dalle carte manca sempre quella di cuori. Non la divino. E tu me la nascondi nelle
anse della notte.
Ma ora i tuoi tre pezzi tagliati non riesco a ricomporli. Puzzle di carne troppo
semplice. Forse non hai urlato?

I cannot read in your thoughts. Insensitive to encephalogram. Maybe wrong written?


The rabbits come out from the cones.
My magnetic gazes? Coercive you resist, unsatured, polarized, my honey.
By hysteresis your laps around me nourished. You mock me laugh! Lifting a little the
skirt.
But my telecinetic hints crash on the silkest stockings.
From the deck miss the ace of hearts. I cannot guess. You hide it in the bight of the
night.
However, your three cut pieces I cannot put back together. Flesh puzzle too easy.
Probably you didn’t yell.

Gemmazione di un ricordo bello


Ho letto. Ti chiamavo gemma nelle mie poesie di cento anni fa.
Ai poeti giovani mancano le basi.
Semplice cristallografia.
Si chiamano gemme, tutto ciò che splende davanti agli occhi.
Splendore, pertanto. Giusto per nascondere una rima che mi faceva battere il cuore.
Ma gemma usai e gemma rimase.
Poi la storia la conosci. La luce dei tuoi occhi deviata mille volte dai prismi delle
decisioni. Mai ritornata. Mai un indice di rifrazione amico.
Ti avevo immaginato ortorombica, monoclina o triclina. E il colore dei tuoi occhi.
Che sembravano mille. Esplosa. Raggiante. Festosa. Sgargiante. Struffolosa.
Ai poeti mancano le parole. Quelli veri le inventano. Quelli giovani le copiano.
Ma le gemme amorfe non possono mostrare il pleocroismo. Non potevi avere tutti
quei colori. Difetto di traduzione o solo di cuore che batte.
Restituiscimi le cuspidi se mai ritornerai da queste parti.
Ti prego.

Smeraldi o piscio di cane?


Come sempre sei tu a decidere! Ma ti regalo anche un indizio! Certo al tuo dito brilla
verde!
Ma.
Ricordati che mia madre era patita di malaria.
Che al mio cane piace pasteggiare a cortecce di Cinchona.
E che il suo territorio è il mare davanti a casa tua.
Decidi tu.
Fitofagi
Una miniera abbandonata di visceri di terra e frass.
Tunnel metacarpali di uomini scavati.
L’ora delle digestioni saprofite è come una pendola
Che scambia i secondi con i minuti.
Basta al cammino spedito il rosso nel serbatoio per ultimare una curva e scorgere
lontano una curva più grande: fermarsi.
“Alt” un poliziotto vuole fermarmi ancora, raddoppiarmi nel verbo, m’intima di
scendere come fossimo amici.
Il giorno è fatto di ipotesi ed indizi, tra questi il sole splende di assioma e la
detritivora nube ne succhia i teoremi.
Amiamo i centravanti perché si mangiano i goal e il ciclo nutritivo non si ferma al
primo fischio.
A casa finalmente spostati di lato concediamo alla sedia il peso della nostra breve
fuga. A cosa servirebbe il loro scrocchio di gioia?
Il letto vuoto è una stampa in bianco e nero, non ci sono pugni alzati, sicuro. Ma il
capo chino è lo stesso.

Aspirazioni
Arriva il tempo delle ascese noetheriane, finitezza di paradiso, discesa subitanea.
Sugli schemi si mangiano le “r” come marzianetti in cerca di astronavi, le crocette a
penna rossa sulla mappa sgualcita della via.
È il tempo di rilassare le curve, di appoggiare le mani al muro, farsi rovistare nelle
tasche, i treni cercano relazioni binarie sbuffando immobili nelle vecchie stazioni.
E ancora non abbiamo finito che stiamo già ricominciando. Ci si strofina troppe volte
la mano sulla fronte. Non crediamo al sudore. Non sogniamo mai troppo.
Una allegoria conserva appena la struttura dei treni e dei suoi passeggeri: fumo di
carbone e fumo di parole. Abbiamo viaggiato per nutrire l’inutile di frettolose risate e
sguardi magnetici.
Ci accorre in aiuto la definizione di Topos, che ci incolla senza tanti di giri di parole
nel luogo esatto dove mi trovo. Non sono mai salito né sceso.
Ci fanno vincere solo per questo. Per sottrarci alla nostra durata. D’uomo.
Siamo campioni a cui il nulla importa il sudore, il crampo, la mano stesa.
E anche il gioco stesso sembra poco convincente. Regole non scritte. Qualche volta
Suffragate da un colpo vincente, altre sottintese, gialle d’ammonizione, ci si può
Sorvolare sopra ma non proprio così alla buona. Oggi però farò ancora meglio.
Iscriverò il record sulla cera. Più calda che scende tumida di luce e odore di cantina.
E del suono che fanno le ombre quando istantanee scompaiono, ne farò inno e
Sconsiderato tripudio di stadio. Getterò la mia carta vincente senza seme dritta al
Centro del bersaglio. Non potrà che colpirmi. Non potrà sottrarsi al verdetto. I giudici
Sono già stati comprati. Dovrà accorgersi del lato rimasto sgombro. Del pedone
Ormai morto sul campo. E il traguardo è troppo vicino che si taglia col fiatone.
Mi congratulerò come fanno i veri sconfitti. Una mano sulla spalla. E magari ti offro
Da bere.

Otto esche per un solo pesce-gatto! Che ci mangio poi? Le fusa d’acqua?
E all’invertebrata luna. Moscia ingobbita, usata d’altri poeti, quante esche posso
Lanciarle? Che inghiottendo sbuffi come balena indispettita? Che ci mangio poi?
Bandiere americane? Proviamo con le uova. O con le mele maturate sessualmente.
Proviamo a raccoglierle e farle godere di torta. Magari messe sul davanzale. Che gli
Orsi, che gli orsi polari scoordinati, marsicani in pelo bianco, fottuti di riscaldamento
Globale, di marea di luna senza scheletro nell’armadio di Newton, che in mutande di
Corda a fare il bagnetto sulle rive di un mare, di un fiume, di una pozza, l’importante
È che l’acqua sia bassa. Che ci faccio poi? Sazio spazzatura?
Ma facciamoci due conti (e così che piace al duca ricchione), ci sediamo ed
Aspettiamo come ragnatele di puttane. Prendiamo una calcolatrice. Togliamo tutti i
Tasti e facciamo i nostri calcoli, infettati di larva di coseno, che premono sotto
L’uretra, che predicano in pizzicotti di andarli a pisciare in giardino. Facciamoceli
Questi pensieri. Non li lasciamo libellule per un solo minuto sullo stagno con i
Piranha. Dobbiamo venirne a capo.
Dunque abbiamo ingerito il veleno qualche anno fa. L’effetto lento schifosamente
Calibrato, ci ha dato il tempo per la poligamia e giocare nello stesso tempo a scopa
E a hockey (batti il cinque fratellino), e ora d’oocita germina nel cuore stesso del
Mio urlo. Bene. Ora le tossine incassate negli anni dovrebbero rendere gli interessi.
E le pupille ingrossare. C’è una lobby in fondo alla strada. A destra che aspetta in
Nero becchime. Scansa quegli attivisti sociali che sono i semafori. Il cuore dovresti
Sentirlo asfissiato. Ma è tutto motoriamente ponderato. Persino i pistoni. E l’odore
Degli ottani che il fiume sniffa al tuo passaggio. La vedrai un ultima volta.
Con la sua canna in mano e farti ciao da lontano.

Il film drammatico proiettato da sghembi squarci di luce


Di tanto in tanto il killer fugace appare
Tra le nebbie e le severe inquadrature
Tramezzi e trepestìo d’ombre
Coltelli affilati sistole fumanti
Appari anche tu cameo di mano tremante
Quando il treno si ferma e i sottotitoli graffiano la notte
Il killer guarda da dietro il mare in tempesta
un ciclista in fuga dal buio
Scollinate fendendo lo stramazzato locomotore
Titoli di coda improvvisi prima dell’ispettore
La sua sigaretta non ancora accesa
Tu comparsa come della mia storia
Al capostazione attendendo l’ultimo ciak
Mi giro e della signora di fianco finalmente accetto il panino.

C’era questo poeta che sparava alle parole. E dai fogli abbrustoliti cavava il senso.
Una parola rimasta viva sperava di trovare. Una la scorse circondata dal fumo.
“Orfanotrofio” che era un miracolo, così lunga, rimasta incolume. Sillabandola
Prova a ballarci. Poi la piega in due “Orfano” e “Trofio”. Trovato il centro la strappa.
Non è da lui sceglierne la prima parte. Ma di “Trofio” non sa che proprio che farsene.

All’arte basta il solo vento per alzare il mantello


Dove nascosto armeggia un pittore
In cerca della luce imperfetta che inganni le tele ed i colori
Anche solo un colpetto di frizione che bruci un poco nell’aria
Come avessimo scaldato i metri cubi per sentirne il lacero odore
Si, la meccanica vuole sorprendere il poeta dietro la sua rima tenuta in vita
Come fosse più anima che lettere
E il fotografo, questo moltiplicatore di noia, questo contrabbandiere di statica
Che congela gl’istanti immaginandoli commestibili anche fra cento anni
Abbagliatelo di luce, bruciatelo senza fuoco,
E voi, personaggi annoiati dal bianco foglio, illustri abitatori di spazi ancora
Da costruire, per voi in coordinata ancora escissa, in volumi piatti, senza voce
E senza luce, distanze da aggiornare, mondi da mettere in relazione, geodetiche
Del futuro senso, non cedete all’universo che si apre a pagina 1 e muore senza
Un colpo di calore a pagina 232, non ci credete neanche un secondo. È brutto sapere
Che i vostri affanni nutriranno uno schermo piatto e gli sbadigli di un vecchio rimasto
Senza pop-corn.

Se guardo a destra cosa rimarrà sulla sinistra? E se poi subito mi volto, ora, la destra
esiste? Siamo sicuri che domani il numero 7 è ancora inseguito dal numero 6? E
perché il tempo è così incollato allo spazio? Invece di cambiare a suo piacimento
l’ordine del mondo, dribblare gli assi, scambiare i flussi e le figurine dei calciatori?
Siamo proprio così sicuri che il caldo va verso il freddo, che proprio gioisca
nell’unirsi in media, in entropia, in entalpia di giubilo e stretta di mano? E i geni,
questi 4 a due a due, usciti per sfregamento di scimmia sulla linea evolutiva, tracciata
a fumetti, pesce d’uccello ad anfibia rettile in ameba protozombie, macchina
polilogaritmica, a Turing gemellare, a cui fosforilazione zuccherosa, toglie i capelli
dalla testa e dalle mie mani il biglietto del tram? Che non sia stato il vento o la mia
psiche o forse, meglio, della psiche del tram, perché pensano anche loro a furia di
fare lo stesso tragitto, a venire premiati di grasse signore, s’impara a connettersi, a
mettersi in rete, a costruire associazioni di pendolari e vecchi punk che puzzano di
vinile. Si formano pensieri anche così? Davvero?

A John Ellis
Desiderio di luna: ruotare attorno illuminata.
Equilibristi sempre caduti e sempre ritornati in piedi. Ma ancora non siamo vivi.
Persino una candela che brucia è più viva di noi.
AND, OR, NOT, NOR la bussola delle nostre decisioni, logica conclusione, genetica
assuefazione, vivi e lascia vivere, morale definizione.
Nessuno danza se non c’è da mangiare.
La felicità non è che un’equazione di banane e sorbetti al limone.
Desiderio di scoglio: sentire frangersi l’onda addosso.
Viaggiatori di treni alla ricerca di una stazione.
Aspettiamo una somma d’uomini per uscir fuori a gridare la nostra euforia.
Nello spazio platonico dei possibili sguardi, abbiamo visto riflessa la storia ulteriore,
quella che non abbiamo preso sul serio e quell’altra perché troppo a noi simile.
Scelta per stacco o solo cambio di prospettiva. E il mondo è lì sotto la pioggia delle
leggi universali.
Catene ripiegate, prigionieri arrotolati, per meglio farci conoscere al tocco dal cieco
gioco del Destino, siamo il sangue che scorre per nutrire la Storia, fatta a nostra
somiglianza e piacimento.
Desiderio di mare: godere dello spacco liquido d’una coda di balena.
Ripetizione continua senza rimorso del creare per dadi, più facile che immaginare,
meno faticoso che calcolare. Proviamo a giungere le mani tutti quanti, fratelli!
Un Dio appare. Con la testa fra le nuvole.
E vorrei vederlo!
Aspetto il lancio buono. Un paio di occhi (magari azzurri).

2000-2017

La statua, un vecchio guerriero trasformato dal bronzo della sua pelle.


Non essere arrivati primi sul quel piedistallo. La battaglia ancora interminata.
Del giorno che ritorna insaturo di noi. Come pioggia che cerca muro dove sbattere.
I nostri ieri che ci bussano sulla pelle. Dita che rastrellano l’erbaccia che fummo.
Discendono a spirale ammonendoci per il giallo sole che contemplammo. Per il fiume
che facemmo spuma. Per le melenzane fritte altrove.
Orpimento precipitato. Dall’oro sublimato. Dalla lava di quando ostentavamo fuoco.
Così ci siamo iscritti al concorso “Abbiamo una storia”.
Bachi e abbracci. Filato di seta che ci riavvolge al magnete primordiale. Ci siamo
registrati così, per curiosità.
L’arazzo sopra al mio gatto, un vecchio duca armato di cazzo di toro. Flagellare
aveva davvero un significato sessuale. Mentre gli altri s’ingozzano, conti, marchesi e
alti ufficiali, un povero cristo, forse il cuoco, del pavone cotto male, messo doggy-
style per la grande gioia della duchessina.
Prenderà fuoco anche questo?
Di cosa ci sazieremo noi? Di un lago innevato? Di un quadro ritrovato? O d’un rudere
di pollo?
Ma il puzzle delle fotografie non riuscirò a risolvere stasera. Insomma chi è quello
con i riccioli biondi?
È questo il trend: somigliare a qualcun altro!
E la xerox gioisce lampeggiando di rosso!
E il mio gatto con un uccello in bocca. Frullato d’ali che sbattono appena, prima che
un ultimo chip rimbomba felino il passaggio. Non me ne ero accorto! Una scena
disgustosa! Ma è questo lo stomaco di cemento del mio ultimo singulto. Una camera
di un gatto di calcestruzzo. E almeno non sono morto. Forse solo in fase di
digestione.
Eppure chi è questo grande condottiero di bronzo? Che avrà vinto contro leghe
fortissime se nessun piccione ci ha cacato sopra.
Metterò queste foto in fila, vagoni trainati dal passato perché il futuro è dei potenti.
Riccioli d’oro! Certo che sono seduto su una sedia. A scrivere proprio a te.
“Aspirazioni”.
Vaffanculo, mi avevi detto che avremmo vinto. Me lo avevi assicurato poco prima di
un disco dei Pere Ubu. Vaffanculo a te e a quando ti ho sentito. Non esiste un Nobel
per la Statistica!
Ma almeno non costruisco case fatte con le parole. Né tetti di verbi. E condutture di
metafore. Non saprei uscire fuori e prendere una boccata d’aria, come un mago dagli
specchi.
E il mio gatto con una fica in bocca. Colla di miele e latte tra le fusa. A che ora parte
il treno? Che riccioli d’oro deve conquistarsi il domani prima che gli coli il bronzo al
collo. Lo immaginiamo potente? Che dite? Come il ragno che struscia sulle mie
poesie, che guadagna inerzia sui “cretti d’ombra e pane”. Come il mio orologio sulla
bilancia. Che perde un minuto contro il cubo di Rubik sull’altro piatto. È così che ci
si guadagna il futuro. Perdere contro lo spazio la battaglia delle permutazioni. E
conservarsi d’energia. Per domani. Domani tutto si farà. Riccioli d’oro.
Un estate troppo corta. Le castagne arrivano prima dal mare. Già fumanti. Che
persino Richard Dreyfuss si stupisce prima della bocca spalancata. E non ci sono
uccelli e fiche nel suo stomaco. Solo tutti gli anni passati ad Agosto.
Cerco l’antidoto. Morirei se fosse già Settembre. Un antidoto di gommone. Anche un
ombrellone senza ombra. O una gelatina di tonno rosso. Dovrebbe fare schifo alle
castagne.
Somigliare a qualcuno. C’è uno che aspetta l’apertura della chiesa che soffia sulla
bibbia aperta. Come si fa per raffreddare il brodo. E’ il primo che mi viene in lista.
Ma ci somiglio? Direi di no. Ci sarebbe Richard Dreyfuss. Troppo impegnato ad
impastare l’argilla. E poi diventerà vecchio oggi. No?
La mia fotocopiatrice flippata del rosso. Un modo per fuggire il blu del cielo che
cerca di inghiottirci. Che solo così si saziano i colori più cattivi. Di noi amanti di
cielo e mare. Non soffiateci sopra. Rosso, più rosso!
Ma che fine ha fatto l’Etica? Presa a pugni dalla Fortuna. Sgambettata prima dell’area
dalla Politica. Doppiata da un underdog, la Simulazione. Ed era a 2 contro uno! Soldi
spesi a cazzo. Tu stai zitta! Tu non devi parlare! “Aspirazioni”!
Il fermacarte. Quello che mi ha lasciato mio padre. Questo ufficio è tuo. Persino
quella segretaria è tua. E le sue cosce. Questo è tutto tuo. Anche quella porta. Fuori
nulla è tuo. Neanche la segretaria di Statistica.
La sua divisa da partigiano. È tua. Se sorridiamo ai nostri clienti, è perché abbiamo il
sangue di qualcuno sulla tua giacca. Ma se vuoi puoi sparare con le gaussiane. E
quella porta è sempre e comunque tua.
Napoli. La città dove i poeti pensano di scoparsi tutte le passanti. Questa città è tua.
Persino quei poeti americani.
Sublima. Aria che diventa cioccolata. Chimica del desiderio di respirare leccandosi le
dita. Sublima. Una foto che diventa un paese. Chimica e desiderio della mappa. Tu
sei qui.
Come il tatuaggio fatto per amore. Che ai passanti fa abbassare gli occhiali da sole.
Su questa terra macchia e crosta. Colpa e cicatrice.
Ci strappiamo i capelli? Come sotto al palco dei Beatles. Mi fanno impazzire le
pappardelle al sugo di lepre. Fammi un autografo col sugo, mama. Lo appizzo come
un poster nella mia stanza da teen-ager, mama. Che ci suono la batteria pensando a
Margherita se mama non mama. Che ci scrivo una poesia pensando a quanti quarti è
meglio battere, mama.
Punta su Fortuna. Lascia stare a comportarti da gentiluomo. È un pompino sicuro.
Come la notte che discende dalle stelle. Come il nero che copre tutti i colori. Persino
il rosso del suo vestito un poco spaccato ai lati.
Fumo e cenere. I resti di una mela toccata per caso. Camorra di frutta. Scambiata per
sesso. Banane ostentate. Pesche sciroppate. E il culo di un albicocca appena sfiorato.
L’anima che ti bussa da dentro. Come gli anni che passano. “C’è nessuno?”. Come
luce d’una stella morta milioni di anni fa. Solo eco di una equazione più complessa.
“C’è qualcuno?”
Cominciare a chiedere qualcosa al mondo. Troppo educato. Gli ficco un dito nel culo.
Esagerato. E l’anima si espande secondo il cubo di Rubik. Fortuna dell’irrisolto. E il
mio cuore a prora, senza un Peppiniello di Capua a battere i colpi. Bisteccone ronfa.
Come Fortuna sul sofà.
Come un cane randagio guidato dalla luna. O un rospo dal rossetto. Si cerca il
principio di tutto. E lo si incontra al primo singulto.
È il pane che si gonfia nella magia d’un lievito. Sicuri scambi aerobici, che l’anima
non conosce. Il suo forno costernato dal timer. Peppiniè, quelle pizze diventano due!
Hai visto come guardano i cani la pappa che si prepara nella loro ciotola? Hai visto le
mosche come orbitano attorno alla bava di quei cani? E come calcolano i gatti i
fuochi delle ellissi? Un primo battuto di ricotta sapida d’abomaso, un bianco ed un
rosso, più un rosso, una pioggia di cannella, pochi canditi ed un tuffo di rugiada al
cioccolato. E quel profumo di rose? Hai visto come orbitano i fratelli? Loro sono a
Copernico. E tu sei appena uscito dall’ascensore di Einstein. Buona fortuna!
Da quando Craxi è uscito dall’inquadratura, i televisori si sono sempre più appiattiti.
Satira politica ai massimi livelli! Era per dire che una volta la pastiera era diversa!
Ah, ecco!
Il problema è: come condurre una vita che diventa alla fine la sua contraddizione?
Esempio: tifare tutta la vita Avellino, e alla fine, come ai migliori atei tocca,
glorificarsi di una maglietta della Juve.
Esempio 2: compiere solo ed esclusivamente il Bene, e alla fine premere il bottone
rosso.
Esempio 3: credere ad una somma di Nulla; alla fine qualcosa si creerà.
Ma se ti rispondo Kubrick, non puoi chiedermi Godard! Se ti butto asso di coppe,
chiudi con una briscola. E poi tutti a Nanni. ‘O fano ‘O fano.
Ci perdemmo nei boschi. A notte fra le cortecce. Fumando dai pini la resina. E sentire
in bocca il trepestio dei lupi. Non era una favola. Non ero il tuo principe azzurro. E al
mattino scoprirci a pochi metri dalla spiaggia. Ancora nudi e mai sopiti. I grilli sotto
la pelle.
I peccatori imitammo. Scolastici e stucchevoli. Senz’anima. E solo una focaccia mal
lievitata in premio.
Il ritorno a casa. Sulle orme disegnate da mio padre. Gli stessi andirivieni. In fondo
anche il cammino è tuo. Missiles dei Sound.
Le falcate che servono ai maratoneti. Materia aria materia. Punto vuoto punto. Questa
è l’unica via possibile. In mezzo non c’è altro. Riportate tranquillamente le tartarughe
al loro brodo. Stasera mangeremo tutti felici e contenti. Orgogliosi della faticosa
sudata.
E se ballando tutta la notte, d’un tratto a Joy Division terminati, dovessimo sentire il
clangore delle serrature chiudersi?
Ehi Mama non siamo le tue cavie! Essenza di canfora nel brasato di polpo? Apri
quella porta Mama. Il mondo è tutto lì fuori. I petali formano la corolla, e Margherita
m’ama tra i carpelli e gli stami. Ma io non so guidare il treruote. Metti in moto
Peppiniè. Verso Ovest.
I miei piedi nudi. Da tanto tempo. Ch’ora saprei che sapore ha la terra ed il fango. Il
pietrisco e la sabbia. Le alghe e le foraminifere.
Ai letti messi in serie. Campionati di moribondi. E la conta dei singhiozzi. E degli
sbadigli, il tabellone dei punti. Di quanto siamo vicini al concetto di morte. E di
stanchezza. Ai funerali qualcuno arriverà sempre prima di te.
Il mio petto nudo. Incrostato di sale. Ch’ora saprei che sapore ha l’aria. Quando
mettesti di lato la tua camicetta. A far da vela al ventilatore. Ch’ora saprei che sapore
ha l’assenza. Quando mettesti di lato il tuo corpo. A far da carne all’insipido mattino.
Sapendo che il mare appiattisce le pietre, è giusto cercare di fare quattro salti con un
masso appeso al collo?
È giusto soffiare all’interno di un osso di mammut, sapendo che i miei antenati ci
succhiavano il midollo e non per intonare una cretacea canzoncina per l’estate?
E così feci il mio primo acquisto. Un paio di sandali. Un paio di infradito. Alla moda
di Capri, signor Turacciolo! Fu il mio primo regalo. L’accettasti. E ora sono ancora ai
piedi del letto. Anche il vuoto ha bisogno di andare in spiaggia. Non un vuoto
qualunque. Un vuoto alla moda! Chic.
Ne seguiva un secondo. Un regalo meno impegnativo e più istruttivo. Sette tazzine
per il caffè. Una per ogni giorno della settimana. Da una potevi leggere il futuro
dell’altra. Se solo potessi bere un buon caffè! Ma un regalo bisogna accettarlo. Sono
tue. Voidods.
Ci mettevo la lingua sui binari. Per deragliare il piccolo trenino elettrico e sentire in
bocca una sequenza di elettroni. Sull’unico tuo, per svaporare la tua pelle e sentirmi
in bocca un riff di miele e ricordi di sabbia.
Un manichino di Kantor. Scena maestra. Deve dire del suo odio verso di lei. Un altro
manichino. Non c’erano i telefonini allora. Ma i colpi di tosse. S’incazzò e mi mandò
a fare in culo. Un manichino. Ebbene, ricordo una poltrona impolverata. Una sedia
forse. Da allora mi domando di chi fossero quelle ceneri. Te ne portai un poco. Terzo
regalo al Nulla. Si passa dal Vuoto al Nulla così. E ancora non sapevamo niente di
niente.
La pioggia, un fiorire di ombrelli. Il vento, un branco d’uomini sotto ai balconi.
Fu l’epoca di eviscerare i sassofoni, frenare la menopausa dei violoncelli,
cauterizzare il tumore della grancassa o semplicemente cercare un “verbo” per il
basso dei Grand Funk Railroad. Ci stavamo costruendo delle costole forti. Non
saremmo mai più diventate donne. Non le avremmo più guardate negli occhi.
Il sole, il serbatoio vuoto della vergogna. Un flipper al tramonto, unico primo
allenamento.
Mama, abbiamo messo le mosche alle parole? Abbiamo pasturato bene il mare del
non-senso? Gli alisei, i venti e le maree? Batimetria amica mia, fa che un concetto
venga a galla e con il trucco della “f” moscia lo tireremo su a riva!
Non abbiamo mai dato al tatto la giusta ricompensa. Solo una cento lire da far girare
tra le dita e sapere come amara è l’altra faccia della medaglia.
Proviamo mama con le molecole dei minuti. Una chimica fatta d’istanti co-ionici.
Abboccheranno? Come citosine ai pioli? Riuscirò, Mama, a catturare un nuovo senso
della vita?
È l’una. Dei dodici cefali messi in cerchio sulla nostra tavola, ne manca uno ad ore
una. Il traditore l’ha già pappato. È l’una. Ed io ho ancora fame.
Un bianco d’uovo. Come ossa di gallina. Un brodo l’ha sbianchite. Natura e Morte.
Sul piatto dipinto di blu. E solo il risucchio con il cucchiaio zittisce i crampi di un
frigorifero. L’estate è finita senza mai cominciare. E tra le mani solo l’odore di un
polpo scappato via. Rosso d’uovo. Rugiada d’olio. Al braccio ingessato servirebbe
una ricetta scritta al posto delle firme.
Oggi non ci sono definizioni, Mama, riempi il tuo cruciverba a tuo piacere, Mama,
inverti, inventa, permuta, sostituisci, cancella, sentirai la notte coricarsi sul tuo corpo
e baciarti per averci provato. Dai, Mama, scacciala via! Non è che una mosca! Non
una casella nera!
Dodici sedie pieghevoli messe in linea. Davanti al mare. Al mattino. Un traditore ne
occupa la quarta. Le altre vuote ci soffia la brezza leggera. Ed io ancora non sono
abbronzato.

Nel buio sottile di luci sfocate,


Dove i confini si confondono,
Si mescolano trame, realtà e sogni,
Un film o la vita, quale sarà?

Ora a breve, la scena si avvolge,


I volti che sfiorano il cuore,
Istanti fugaci, come fotogrammi,
Catturati nell'eternità dell'arte.

Ora in mezzo, il tempo sospeso,


Come attori sul palcoscenico,
Recitiamo i nostri ruoli designati,
In un'opera intricata, senza copione.

Ora a lungo, il climax si avvicina,


Le emozioni danzano nel vuoto,
Ma in questa storia senza fine,
Chi sa dove si annida il punto esatto?

Un film o la realtà, quale dei due?


Le proiezioni si sovrappongono,
E noi spettatori smarriti,
Navighiamo tra il vero e il possibile.

La regia invisibile della vita,


Ci trascina tra alti e bassi,
I colori vividi, le ombre profonde,
Creano il mosaico della nostra esistenza.

Forse siamo attori, forse registi,


Nel dramma della nostra creazione,
Ma tra i fotogrammi e le battute,
Siamo autori di questa visione.
Un film o la realtà, una sola verità,
Forse la linea si dissolve,
Ma mentre il proiettore continua a girare,
Godiamoci lo spettacolo della vita, che evolve.

VUOI AVERE FIGLI?

1) Non leggere Marcel Proust, non ha mai trovato il tempo di farne, o ha perso
tempo e non sa come cercarlo, trovarlo, il Tempo che gli sfugge come un
anguilla o alla francese un anguilette, termine più diminuito e più adatto.
2) Una donna. Si inizia così. Poi le cose si possono anche disporre a tuo favore.
3) Non leggere Oscar Wilde, dalle sue pagine gronda poesia e tante particelle
aspermatiche. Ti si incollano alla gola, alla testa, alle mani.
4) Un’altra donna. La prima è andata via senza dirti nulla. È uscita senza mai
entrare. L’hai persa nel tempo di ricordarla per un attimo. Anche in questo
caso, potresti avere fortuna.
5) Non chiederti perché. Se lo fai, hai fallito come uomo e come padre.
6) Non leggere Katzantzakis. Mai. E’ solo una delle ultime tentazione. Sorvola.
7) Fatti un uovo sbattuto. Scusami. Fatti una donna.
8) Spermidina. Un composto alifatico, quello fatto con tante C attaccate alle H.
Domanda birichina: Chieti è una città alifatica?
9) Oppure trova una ricetta adatta per questi ingredienti: germi di grano,
formaggio cheddar, funghi, piselli, fegatini di pollo, mango e cavolo, che ne so,
“Fegatini di pollo in crosta di pane ai germi di grano, fonduta di funghi, piselli
e cheddar, su una insalatina di cavolo lesso e mango bruciato”.
10) Non leggere Graham Greene.
11) Spermidina comunque. Anche se è un composto che induce le cellule ad
autofagocitarsi.
12) Se non riesci a procreare, infine, automangiati!

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