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Thomas Calculus 13th Edition Thomas Test Bank
MULTIPLE CHOICE. Choose the one alternative that best completes the statement or answers the question.
Find the average rate of change of the function over the given interval.
1) y = x2 + 8x, [4, 9] 1)
153 35
A) B) C) 21 D) 17
5 3
3) y = 2x, [2, 8] 3)
3 1
A) - B) 7 C) D) 2
10 3
3
4) y = , [4, 7] 4)
x-2
1 3
A) 2 B) 7 C) D) -
3 10
7
5) y = 4x2 , 0, 5)
4
1 3
A) 2 B) C) - D) 7
3 10
6) y = -3x2 - x, [5, 6] 6)
1 1
A) -2 B) -34 C) D) -
2 6
π
7) h(t) = sin (5t), 0, 7)
10
10 10 5 π
A) B) - C) D)
π π π 10
π π
8) g(t) = 4 + tan t, - , 8)
4 4
4 3 4
A) - B) - C) 0 D)
π 2 π
Find the slope of the curve at the given point P and an equation of the tangent line at P.
9) y = x2 + 5x, P(4, 36) 9)
4 4x 8
A) slope is - ;y=- + B) slope is -39; y = -39x - 80
25 25 5
1 x 1
C) slope is ;y= + D) slope is 13; y = 13x - 16
20 20 5
Use the slopes of UQ, UR, US, and UT to estimate the rate of change of y at the specified value of x.
14) x = 5 14)
5 U
T
3
2
S
1
R
Q
1 2 3 4 5 6 x
A) 0 B) 2 C) 5 D) 1
2
15) x = 3 15)
y
6 U
4 T
3
S
2
R
1
Q
1 2 3 x
A) 4 B) 2 C) 6 D) 0
16) x = 5 16)
7
U
6
4 T
3
S
2
1 R
Q
1 2 3 4 5 6 x
5 5 25
A) B) C) 0 D)
2 4 4
3
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— Dove?
— Lassù, verso quella punta.
— Dei Tupy?
— Certo, — rispose l’indiano.
— Potremo passarvi dinanzi senza destare l’attenzione degli abitanti? A
quest’ora devono dormire come i sucuriù durante la stagione secca.
— Se gli Eimuri non sono stati completamente scacciati dal territorio,
nell’aldèe si veglierà.
— Già, è vero. Che cosa ci consigli di fare?
— Lasciare la canoa e gettarci nella foresta. Marcieremo con maggior
sicurezza e potremo avvicinarci, senza venire facilmente scoperti, alla
grande aldèe dei Tupy.
Tuo figlio deve trovarsi colà, ne sono sicuro.
— Mi spiace abbandonare la canoa.
— L’affonderemo, così potremo ritrovarla nel ritorno e rifugiarci ancora
nella savana sommersa.
— Che cos’ha dunque l’indiano? — chiese Alvaro che s’impazientiva.
— Vi è un aldèe dinanzi a noi, ossia un villaggio di Tupy, — rispose
Diaz. — Rospo Enfiato non osa passarvi dinanzi e ci consiglia di gettarci
nella grande foresta.
— Possiamo fidarci di lui?
— Interamente.
— Allora andiamo alla riva. —
Attraversarono il fiume approdando sulla riva destra e sbarcarono.
L’indiano legò la canoa al tronco d’un albero, servendosi d’una liana
molto lunga, mise a terra le sue provviste, la sua amaca ed un paio di
pentole, poi riempì d’acqua la scialuppa, facendola affondare in mezzo
ad un gruppo di enormi foglie di victoria regia onde nessuno potesse
scorgerla.
Stavano per salire la riva e coricarsi sotto i palmizi, quando l’indiano
tese un braccio verso l’alto corso del fiume, dicendo al marinaio.
— Vede il gran pyaie? —
Una forma allungata e nera si era staccata dalla penisoletta sulla quale
sorgeva il villaggio e scendeva rapidamente il fiume.
— Una canoa, — disse Diaz.
— Vegliavano nei carbet, — rispose l’indiano. — Vengono ad
assicurarsi se noi siamo sbarcati.
— Sì, ci avevano già scoperti.
Presto, nel bosco e marciamo con lena. —
Si cacciarono sotto le palme che s’intrecciavano con rigogliose felci
arborescenti, con liane, con piante di vaniglia selvatica e con gruppi
d’orchidee, che cadevano dai rami in festoni olezzanti di soave profumo
e partirono con passo veloce, temendo di venire inseguiti dai canottieri
della piroga.
L’indiano i cui sensi e specialmente l’udito erano acutissimi, di quando
in quando si fermava ad ascoltare, poi riprendeva la marcia con maggior
velocità, addentrandosi sempre più nella tenebrosa foresta.
Il marinaio, abituato alle rapidissime marce degl’indiani, i quali in una
sola notte attraversavano delle distanze incredibili, non aveva difficoltà a
seguirlo, ma Alvaro invece doveva fare degli sforzi disperati per non
rimanere indietro.
E, poi da quando era sbarcato aveva cominciato a provare dei dolori
acuti alle dita dei piedi, come se delle spine vi si fossero confitte.
Dopo due ore di corsa indemoniata fu costretto a confessarsi vinto.
— Arrestiamoci, Diaz, — disse. — Non posso più seguirvi e mi sembra
d’altronde che nessun pericolo ci minacci.
— Sì, fermiamoci, — rispose il marinaio. — Voi non siete abituato alle
lunghe corse dei selvaggi brasiliani.
— E poi non so che cosa abbia, mi pare che le dita dei piedi siano in
cattivo stato.
— Ah! — disse Diaz, ridendo. — So che cosa avete. La bestia maligna
vi mangia.
Bisogna sbarazzarvene subito o vi rovinerà i piedi.
— Una bestia!
— Veramente è una specie di pulce: la chique [12]. Rospo Enfiato ve la
leverà. Aspettate fino all’alba perchè se il sacco non viene levato intero e
si rompe si svilupperà un’ulcera maligna che vi rovinerà i piedi per
parecchie settimane.
— Una pulce avete detto?
— Che è comunissima qui e che non risparmia nemmeno i piedi
degl’indiani. Non si sa il perchè si caccia di preferenza nelle dita e se è
una femmina vi si annida, formando entro la carne un minuscolo
sacchetto che raggiunge le dimensioni d’un pisello entro cui deposita le
uova.
Guai se non si leva a tempo; come vi dissi il piede corre il pericolo di
venire rovinato.
Accampiamoci sotto questa pianta e aspettiamo che il sole si alzi.
— Che i battellieri della piroga ci abbiano inseguiti?
— Se Rospo Enfiato è tranquillo, vuol dire che nessuno ci minaccia. —
Infatti l’indiano non dava alcun segno di essere inquieto. Appoggiato al
tronco d’una palma aspirava beatamente un pizzico di paricà, guardando
distrattamente le splendide vaga lume, quelle superbe lucciole dei boschi
brasiliani, che volavano a ondate fosforescenti, ora abbassandosi verso il
suolo ed ora innalzandosi fino alla impenetrabile vôlta di verzura.
Quando l’aurora spuntò, diffondendo sotto gli alberi una dolcissima luce
rosea, Rospo Enfiato che era già stato avvertito dal pyaie bianco
dell’inconveniente che aveva colpito Alvaro, andò a levare alcune spine
da una palma carà scegliendo con cura quelle che avevano la punta più
sottile.
Il marinaio fece cenno al portoghese di levarsi le scarpe e di denudare i
piedi.
— L’operazione sarà rapida e niente dolorosa, — disse poi. — Levato il
nido della chique potrete riprendere la marcia senza provare disturbo
alcuno. —
L’indiano esaminò i piedi d’Alvaro e mostrò su entrambi due
piccolissime rigonfiature.
Prese una delle spine e con destrezza meravigliosa e senza che il
portoghese provasse quasi dolore, strappò una dietro l’altro tre granelli
grossi come piselli che gettò via.
— Le pulci avevano trovati i vostri piedi più adatti per deporre le loro
uova, — disse Diaz, sorridendo. — Il sangue bianco conviene forse
meglio ai piccini. Eccovi sbarazzato da quei pericolosi ospiti. —
L’indiano mise sulle punture fatte un pizzico di paricà, poi disse al
marinaio:
— Andiamo.
— Che siamo inseguiti? — chiese Diaz.
— Rospo Enfiato non ha ancora udito alcun rumore sospetto, ma è
meglio allontanarsi presto dal fiume.
— Quando giungeremo all’aldèe dei Tupy?
— Questa sera, se cammineremo bene. —
Si orientò col sole, poi si mise in cammino, seguendo un sentiero che
pareva fosse stato aperto da qualche grosso animale a giudicarlo dal gran
numero di cespugli calpestati.
— La strada d’un anta (tapiro) — disse il marinaio ad Alvaro.
— D’uno di quegli animali che somigliano un po’ ai porci e che hanno
una specie di tromba mobile all’estremità del muso? — chiese il
portoghese.
— Sì, signor Viana e questo sentiero indica che noi siamo presso a
qualche palude. Quegli animali non possono vivere senza l’acqua
nutrendosi delle radici delle piante palustri.
— E perchè aprono questi sentieri che sembrano fatti dalla mano
dell’uomo?
— Perchè hanno l’abitudine di percorrere sempre la medesima via che
mette dal loro rifugio alla palude. Così a poco a poco aprono delle vere
stradicciuole anche in mezzo alle più folte foreste.
— Uhao! — esclamò in quel momento Rospo Enfiato, fermandosi di
colpo.
— Cos’hai? — chiese Diaz facendosi innanzi.
— Tupy passati per di qua, — rispose il selvaggio. — Correvano.
In quel luogo si vedevano cespugli strappati, felci arborescenti
rovesciate, liane spezzate, orchidee calpestate come se un torrente umano
fosse passato attraverso la foresta a guisa di un uragano.
Sul suolo umido della foresta si vedevano numerose orme di piedi nudi,
mentre sui tronchi degli alberi si scorgevano delle freccie infisse nelle
corteccie.
L’indiano ne prese una e la guardò attentamente.
— Freccia dei Tupy, — disse.
— Come la riconosci? — chiese Diaz.
— Dalla punta uncinata.
— E questa è degli Eimuri, — proseguì, staccandone un’altra. — La
punta è spina di palmizio.
— Che i Tupy battuti sulle rive della savana sommersa siano passati per
di qui?
— Sì, — rispose Rospo Enfiato.
Ad un tratto alzò la testa fiutando a più riprese l’aria.
— Cammina gran pyaie, — disse.
— Che cosa c’è ancora?
— Morti... laggiù....
— Che i Tupy siano stati raggiunti dagli Eimuri e distrutti fino
all’ultimo? — si chiese il marinaio con angoscia. — Allora Garcia non
avrebbe potuto sfuggire alla morte. —
Seguì l’indiano, col cuore stretto da una profonda ansietà, senza nulla
dire ad Alvaro e dopo tre o quattrocento passi giungevano sulle rive di
un ampio stagno, le cui rive erano quasi sgombre d’alberi.
Un terribile combattimento doveva essere avvenuto anche in quel luogo.
Parecchie centinaia di cadaveri, già in via di putrefarsi, giacevano
intorno allo stagno fra una confusione indicibile di archi, di gravatane e
di mazze.
Pozze di sangue già coagulato si scorgevano dovunque nelle depressioni
del suolo.
— Eimuri, — disse Rospo Enfiato, con un sorriso di crudele
soddisfazione. — I Tupinambi sono stati vendicati.
— Che siano stati vinti a loro volta dai Tupy? — chiese Diaz.
— Sì, e sono caduti tutti o quasi tutti. Guarda la testa del loro capo. —
In mezzo ad un mucchio di cadaveri, infissa in una pertica, una testa
umana semi-sfracellata da un terribile colpo di mazza, adorna ancora
d’una corona di penne lorde di sangue e priva d’occhi, si ergeva.
Scorgendola Alvaro aveva mandato un grido.
— Il capo degli Eimuri, — disse. — Lo riconosco anche se così
atrocemente conciato.
— Meglio per noi, — rispose Diaz. — Almeno quello non ci darà più
alcun fastidio. —
L’indiano che percorreva il campo di battaglia rimovendo i cadaveri
come se cercasse qualche cosa, ad un tratto si curvò e raccolse qualche
cosa.
— Il figlio del gran pyaie bianco è passato pure per di qua, — disse,
volgendosi verso Diaz. — Ora siamo sicuri che si trova nelle mani dei
Tupy.
— Che cos’hai trovato?
— La polvere che tuona. —
Rospo Enfiato così dicendo mostrava una borsa di pelle dalla quale
aveva fatto uscire alcuni granelli neri, raccogliendoli nel palmo della
destra.
— Me ne ricordo ancora, — disse. — Il gran pyaie con questa provocava
il lampo ed il tuono. —
Diaz si era slanciato verso di lui, strappandogli la borsa dalle mani.
— La riconoscete? — chiese, mostrandola ad Alvaro.
— La provvista di polvere da sparo di Garcia! — esclamò il portoghese
con viva commozione.
— Sì, la sua, — disse Diaz.
— Sicchè voi credete?
— Questa è una prova che Garcia è stato rapito dai Tupy.
— Che sia ancora vivo?
— Non ne dubito.
— Ah! Povero ragazzo!
— Oh! Noi lo salveremo, dovessimo raccogliere tutte le tribù dei
Tupinambi e piombare sui rapitori.
Signor Viana ecco della polvere che può diventare preziosa.
— E che non lascierò a questi morti, — rispose Alvaro. — La mia
provvista comincia già a scarseggiare.
— Il gran pyaie bianco mi segua, — disse in quel momento Rospo
Enfiato. — Ormai siamo sul sentiero di guerra dei Tupy e lo seguiremo
fino alla grande aldèe dove tuo figlio si trova prigioniero. —
CAPITOLO XXVIII.
L’aldèe dei Tupy.
Alla sera, dopo una marcia lunghissima attraverso foreste quasi vergini, i
due europei e l’indiano giungevano sulle rive d’un altro stagno
amplissimo, un’altra savana sommersa che non aveva però le dimensioni
di quella che avevano attraversata due giorni prima e sulle cui isole
avevano soggiornato tanto tempo.
Agli ultimi raggi del sole morente avevano già scorto, sulla riva opposta,
delle immense costruzioni circondate da palizzate altissime che
formavano dei bastioni tutt’altro che facili da espugnarsi, anche da parte
d’un nemico numerosissimo.
Quasi tutti gl’indiani del Brasile, che vivevano in perpetua guerra onde
procurarsi dei prigionieri da divorare, costruivano i loro villaggi in modo
da rendere impossibile una sorpresa da parte dei loro nemici.
A differenza dei negri dell’Africa, non usavano rizzare delle capanne
appena sufficienti per una famiglia, bensì delle case immense, costruite
con tronchi d’alberi, che chiamavano carbets, lunghe oltre cento metri,
larghe cinque e alte quasi altrettanto, coperte con foglie di bananeire e
con tre porte di cui una metteva sulla piazza destinata al macello dei
prigionieri di guerra.
Ognuna di quelle abitazioni serviva ordinariamente d’asilo a venti
famiglie, ma non avevano alcuna divisione che separasse una famiglia
dall’altra, sicchè vivevano in comune.
Ogni villaggio poi, piccolo o grosso che fosse, come dicemmo aveva la
sua cinta formata da una doppia palizzata sulla quale venivano esposte le
teste dei nemici divorati, prive del cervello ed immerse nell’olio vegetale
dell’andiroba, onde si conservassero lungamente.
In quelle aldèe non vi restavano più di cinque o sei anni, ossia fino a
quando avevano sfruttati gli alberi ed il terreno, poi col fuoco
distruggevano cinte e abitazioni e andavano a fondare in altre località più
ricche di frutta e di selvaggina un nuovo villaggio.
L’aldèe dei Tupy scoperta da Rospo Enfiato, doveva essere una delle più
importanti della tribù, a giudicarla dallo spazio racchiuso dalla doppia
cinta e dal numero considerevole di abitazioni che sorgevano nel suo
interno.
— È là che risiede il gran capo dei Tupy, — disse l’indiano. — È una
vera fortezza che i guerrieri della mia tribù non hanno mai osato assalire.
— E noi? — chiese Diaz.
— Noi?.... Tre uomini possono passare là dove centinaia e centinaia di
guerrieri non riuscirebbero ad aprirsi un passaggio, anche usando la
forza.
— Ma noi non sappiamo dove i Tupy custodiscono mio figlio, il piccolo
pyaie, — disse il marinaio. — Conosci tu la disposizione interna
dell’aldèe?
— No.
— Hai qualche piano nel tuo cervello?
— Sì.
— Parla dunque.
— Abbiamo bisogno d’un prigioniero.
— Per interrogarlo?
— E perchè ci guidi al carbet dei prigionieri destinati ai banchetti dei
guerrieri.
— Dove prenderlo?
— Tutte le mattine i ragazzi e le donne delle tribù lasciano l’aldèe per
recarsi a prendere acqua.
Cerchiamo lo stagno od il ruscello che alimenta la popolazione del
villaggio. Non sarà difficile trovarlo.
— Ed il primo che giunge noi lo assaliamo.
— Il gran pyaie bianco sa leggere i miei pensieri, — disse Rospo
Enfiato.
— Cerchiamo dunque lo stagno od il ruscello ed un posto adatto per
imboscarci.
— I pyaie bianchi mi seguano. —
L’indiano, guidato dal suo istinto meraviglioso, rientrò nella foresta
volgendo le spalle all’aldèe dei Tupy, e mettendosi in cerca della fonte e
del ruscello, poichè i brasiliani hanno l’abitudine di innalzare i loro
villaggi in prossimità d’una palude o d’un corso d’acqua.