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Armando Mei

36.400 a.C.
Il Segreto
degli Dèi
La Teoria del Progetto Unitario di Giza
P
Copyright @ 2015 by Armando Mei
Casa Editrice Amazon
Edizione Terza @ 2018
Progetto condiviso da: Ass. For Afterlife Foundation APS
ISBN-13: 978-1505317282
ISBN- 10: 1505317282
“(…) E’ così che ognuno ha agito, da addormentato,
nel tempo della sua ignoranza,
ed è così che conosce, come se si ridestasse.
Felice l'uomo che torna in sé e si ridesta,
e beato chi ha aperto gli occhi dei ciechi! (…)”

“Vangelo della Verità”


Nag Hammadi
Introduzione

Nel XIX° secolo e per metà del XX°, si è registrata una corsa spasmodica
verso l’Egitto, quasi come se dalle sue sabbie potesse emergere – da un
momento all’altro - la Verità assoluta sul passato remoto delle Civiltà. La
Campagna militare di Napoleone Bonaparte, tra il 1798 ed il 1801 – seppur
ispirata da bellici presupposti - ha avviato un processo virtuoso, sfociato
nella gemmazione di una nuova scienza: l’Egittologia. Ed è bizzarro notare
come, l’unità carbonio che infesta questo pianeta, debba partire sempre da
una guerra per iniziare proficui percorsi di conoscenza. Una pratica
moderna che affonda le proprie origini nell’antichità, quasi come se fosse
una peculiarità genetica ben impressa nel nostro DNA.
La corsa verso l’Egitto ha consacrato veri e propri monumenti della novella
scienza, quali Jean François Champollion, Bernardino Drovetti, William
Flinders Petrie, Howard Carter, per citarne alcuni; ma – al tempo stesso – ha
prodotto una sterminata scia di mercenari che ha depredato e devastato un
territorio fertile di Sapere.
L’attenzione per i misteri dell’antica civiltà del Nilo, raggiunge il suo apice
verso la fine degli anni quaranta, quando un’immaginaria curva sugli assi
cartesiani, comincia inesorabilmente a tendere verso il basso, raggiungendo
il baratro nei nostri tempi. Se non fosse stato per Robert Bauval e la sua
Teoria della Correlazione, infatti, oggi, l’Egittologia presenterebbe un
encefalogramma, pressoché, piatto.
Perché questa battuta d’arresto? Le ragioni sono molteplici, ma le più
concrete possono riassumersi nella sensazione che, sull’Antico Egitto,
debba calare un velo conservativo. Quanto è stato narrato fino ad ora è più
che sufficiente. In Egitto non “deve” esserci più nulla da scoprire!
Così, come d’incanto, sull’Egittologia imperversano le inoppugnabili
conseguenze dell’evoluzione delle società umane che si manifestano come
virus impossibili da sconfiggere: il fondamentalismo islamico e la crisi
economica. Due piaghe che hanno ridotto ai minimi termini l’attenzione per
le antiche vestigia dei Faraoni.
Oggi, l’Egittologia è una questione per pochi intimi che ancora vivono per
la ricerca, nonostante il 70% dell’antica civiltà sia ancora sepolta sotto la
sabbia del deserto. Restituire le antiche vestigia all’umanità dovrebbe essere
un dovere, poiché esse sono parte integrante della propria evoluzione, ciò
nonostante si avverte la sensazione che si lavori per troncare le radici della
nostra specie, quasi come se la Verità sul nostro Passato fosse un pericolo
per gli equilibri dei potentati dei nostri tempi. Meglio se l’Egitto sia
considerato come mera destinazione turistica ed i monumenti utilizzati
come fonte di speculazione imprenditoriale, seppur celata dalla retorica
passione per le meraviglie di questo splendido e bistrattato Paese.
«Tutti corsero incontro alle catene convinti di assicurarsi la libertà»[1],
sosteneva Jean Jacques Rousseau e mai verità fu meglio sintetizzata.
La cappa che è calata sulla cultura - in generale - e sulle origini del nostro
passato - in particolare - sono terrificanti. Sembra essere ritornati
all’oscurantismo spagnolo che ha toccato il suo apice con Cortes e Pizarro,
quando, con estrema perizia e diligenza, spazzarono via dalla Storia le
meraviglie delle civiltà Mesoamericane. Naturalmente, le modalità sono
cambiate, il sospetto è che l’instabilità politica internazionale sia lo
strumento - meramente speculativo - per allontanarci dal cammino verso la
Conoscenza delle origini dell’uomo.
C’è una regia in tutto questo?
La verità è sempre nel mezzo, poiché se da un certo punto di vista è
evidente – ma oserei dire, quasi tangibile – che ci sia una regia occulta che
determina i nostri destini quotidiani, dall’altra c’è una forza invisibile che
oscura la mente, restituendoci una realtà alterata.
Ciò che gli occhi vedono non corrisponde a quanto il nostro Spirito
dovrebbe sentire.
«E’ così che ognuno ha agito, da addormentato, nel tempo della sua
ignoranza, ed è così che conosce, come se si ridestasse», recita un passo del
Vangelo della Verità, tratto dai Codici di Nag Hammadi.
Ridestare le coscienze e comprendere quanto sta accadendo è un obbligo,
seppur l’invito possa essere interpretato con sardonica ironia dalla
collettività. A questo proposito, mi ritorna alla mente, un vecchio libro di
George Mosse, dal titolo “La Nazionalizzazione delle Masse”, una chiara e
precisa analisi di quanto sia stato opprimente e condizionante la politica di
circonvenzione del partito nazista, al punto che la stragrande maggioranza
del popolo tedesco, non si è mai reso realmente conto della deriva
intrapresa.
Si tratta di un’esperienza da tenere sempre ben impressa nella mente.
Oggi, non possiamo parlare di nazionalizzazione, ma certamente di un
processo caotico che, prima o poi, sfocerà, per sua natura, in una forma di
totale controllo. Questo è uno dei motivi per cui la ricerca sulle origini è
fondamentale, poiché è dal passato che si ricevono gli insegnamenti per
affrontare il futuro. Ed è proprio il lavoro di ricerca sulle civiltà antiche che
favorisce la comprensione dell’evoluzione delle società umane nel corso dei
tempi.
L’Antico Egitto è una dispensa alla quale attingere, per intraprendere questo
articolato percorso di Conoscenza.
La Piana di Giza è l’Università per eccellenza, poiché si caratterizza per dei
monumenti, le cui dimensioni, si sviluppano in armonia con il linguaggio
dell’Universo, il quale si manifesta nella materia attraverso il numero. Il
Ciclo della Precessione degli Equinozi, ad esempio, è un fenomeno che la
Civiltà delle Piramidi avevano già osservato, poiché la disposizione dei
monumenti di Giza rappresenta l’immagine del cielo nell’Era del Leone,
noto agli Egizi dinastici come il Tempo degli dei ovvero, lo Zep Tepi.
Fig. 1. Esempio grafico del fenomeno del Ciclo
della Precessione degli Equinozi

Pertanto, se i costruttori avevano integrato nel Progetto elementi di


astronomia molto complessi, è inevitabile ipotizzare che lo Zep Tepi ha
storicamente ospitato una civiltà avanzata e non, estremizzando le tesi
accademiche, agglomerati di esseri bipedi allo stato brado.
Nel 2008, nel corso di una campagna di ricerca in Egitto, ho scoperto che le
dimensioni della Seconda Piramide di Giza, nota come piramide di Chefren,
si sviluppano sulla proiezione del numero 137[2]. Nel 2018, al termine di un
lungo percorso di studi, ho sviluppato un modello scientifico che potesse
restituire una possibile funzione della Grande Piramide basato proprio sul
numero 137 e, i risultati sono estremamente sorprendenti; è ormai chiaro
che quando tra i valori proporzionali delle Piramidi si scopre il numero
dell’equilibrio tra Fisica Elettromagnetica, Teoria della Relatività e Fisica
Quantistica, significa che degli insegnamenti provenienti dall’antichità,
abbiamo compreso molto poco. In particolare, quando ostinatamente, si
considera quei monumenti come artefatti prodotti in un periodo in cui,
neppure un miracolo divino, sarebbe stato sufficiente alla loro realizzazione
manuale.
Quando si scopre che la Piana di Giza nasconde un “Progetto Unitario” che
non comprende solo le Piramidi e la Sfinge, bensì altri monumenti –
ciascuno di essi correlato alla Volta Celeste - si comprende che la visione
del tutto, propria dei costruttori di Giza, non è un assioma, ma un’evidenza
procedurale ampiamente dimostrata e dimostrabile.
Quando si scopre che la funzione della Grande Piramide è incentrata su un
modello scientifico basato sul numero 137, e si origina attraverso un
processo noto alle Scuole Alchemiche del ‘500, vuol dire che ci si trova in
presenza di una Civiltà che dominava la Natura utilizzandola – e non
sfruttandola – per i propri fini.
Quando nella lettura dei valori numerici di ciascuna piramide, si rilevano
dei principi in intima correlazione con i significati più reconditi degli
Archetipi, significa che gran parte di quanto destinato alla Mitologia dalle
teorie ufficiali è, in realtà, pura Storia.
Questi sono alcuni dei risultati che ho conseguito in questi ultimi quindici
anni trascorsi sul campo, nel tentativo di trovare una logica comune ai tanti
misteri che caratterizzano la Piana di Giza.
In Egitto c’è ancora molto da scoprire.
Parafrasando Rousseau, dobbiamo imparare a correre nella direzione
opposta a quella intrapresa, per liberarci dalle catene della schiavitù e
ascoltare il nostro sé interiore. E’ l’unico modo per rispondere alle classiche
domande sulle nostre radici.
Le risposte sono già scritte nella pietra, dobbiamo solo liberare la mente e
leggerle nella loro corretta sequenza, a cominciare dal Progetto Unitario di
Giza.
Parte I
I Misteri della Piana di Giza
e la storicizzazione dello Zep Tepi
“Io non sono di nessuna epoca e di nessun luogo:
al di fuori del tempo e dello spazio,
il mio essere spirituale vive la sua eterna esistenza”

Cagliostro
1. Lo Zep Tepi
La Piana di Giza

Descrivere la Piana di Giza è uno degli esercizi più complicati in assoluto.


Chi non ha avuto la possibilità di visitare questo meraviglioso angolo del
mondo, non potrà mai rendersi effettivamente conto della quantità di
vestigia che sorgono, in ogni dove. Una miscellanea di monumenti,
abitazioni, magazzini, anfratti e pozzi si integrano in un'unica, affascinante,
poesia d’altri tempi. Giza è l’apoteosi del caos, dominata da due tipologie di
costruzioni assolutamente diverse nelle fattezze e nelle funzioni: da un lato
le Piramidi con i propri mastodontici recinti; dall’altro la Sfinge con i suoi
monumentali templi. Da secoli, questi misteriosi edifici attirano l’attenzione
e la curiosità dell’uomo che, nel corso del tempo, ha cercato di dare un
senso compiuto al significato di tanta imponenza architettonica.
Sulle meraviglie dell’Antico Egitto ed, in particolare sull’area di Giza, sono
stati prodotti numerosi trattati e voluminosi libri che hanno spinto i
ricercatori fino ai confini della fantasia, pur di proporre un teorema sui
misteri che avvolgono la più famosa area archeologica del mondo.
Nonostante ciò, è forte la convinzione che le tante ipotesi, teorie, intuizioni
e supposizioni, siano alimentate da fattori che non sempre si allineano con
le evidenze archeologiche acquisite nel tempo. Ed è proprio la mancanza di
uniformità di analisi – probabilmente dovuta in larga parte alla carenza di
specifici ed omogenei modelli multidisciplinari - che rende sempre meno
plausibili le ipotesi formulate sia in campo accademico che, in alcuni casi,
in quello cosiddetto “indipendente o alternativo”.
A tal proposito, sento il dovere di esprimere un parere di merito sulla
perniciosa questione della distinzione tra “scuole di pensiero”. Si tratta
dell’ennesimo artifizio, la cui unica finalità è quella di alimentare la
confusione in un contesto sempre più esposto a continue revisioni, nella
maggior parte dei casi, prive di attendibilità scientifica. Essa sembra ispirata
esclusivamente da contrapposizioni personali più che da un puro senso di
dovere professionale.
Fig. 2. La Piana di Giza

Un tipico esempio è il contrasto sorto in occasione della presentazione, nel


1993, della Teoria della Correlazione a firma di Robert Bauval. Senza
entrare nel merito, è opportuno rilevare come il dibattito si sia sviluppato
non certo sui contenuti della proposta dell’ingegnere alessandrino, quanto
sulla sua appartenenza ad un settore professionale non accademico. Un
segnale particolarmente inquietante, dal quale si riceve chiaro il messaggio
che nessuno può misurarsi con la Storia, se non è parte integrante di una
Casta.
L’archeologia e l’egittologia in particolare, è diventato un club ad esclusivo
consumo di un manipolo di burattinai, i quali si arrogano il diritto di voler
promuovere teorie sulle origini della Piana di Giza, prescindendo dalle
evidenze scientifiche. Alla Grande Piramide, ad esempio, gli egittologi
attribuiscono una funzione di tomba, manifestando – come vedremo
inseguito - una sostanziale ignoranza storico-religiosa, ancor prima che
archeologica, sulle usanze funebri dell’Antico Regno.
Alle soglie del 2019, l’Egittologia produce ancora testi accademici dai quali
si deducono stucchevoli considerazioni sui metodi di costruzione delle
Piramidi, ad esempio, annichilendo le facoltà analitiche anche dei più
sprovveduti, i quali non possono non alimentare dubbi in presenza di tanto
coacervo di incongruenze archeologiche, storiche e, finanche, tecniche.
La nobile scienza partorita dalla spedizione napoleonica, quindi, si è ridotta
ad un concentrato di bizantinismi, allorquando la discussione sul sesso degli
angeli è diventata prioritaria rispetto alle delicate questioni che emergono
dalle sabbie d’Egitto e che attendono una soluzione scientificamente
apprezzabile.
Il 1993 rappresenta un momento storico fondamentale per lo studio dei
misteri di Giza, allorquando Robert Bauval pubblica la sua Teoria della
Correlazione. Per la prima volta nella storia dell’archeologia, una ricerca
“indipendente”, scientificamente rilevante, stravolge i canoni precostituiti,
rilanciando la possibilità che il passato remoto dell’umanità abbia vissuto
ben altre evoluzioni. È proprio in questo periodo che nasce l’ipotesi della
correlazione tra le Piramidi e la Cintura di Orione. Essa rappresenta il
culmine di un processo di rinnovamento delle metodologie d’indagine
applicate fino a quel momento, con l’obbiettivo di comprendere l’esegesi
che ha portato alla nascita delle civiltà post-diluviane. La Teoria si presenta
come uno strumento di esplorazione fondamentale per riscoprire le
memorie che la Civiltà delle Piramidi ha tramandato, influenzando il
passato delle civiltà note. I risultati hanno messo in seria discussione tutta
l’impalcatura accademica, con argomentazioni che propongono un’origine,
un uso ed una funzione dei monumenti di Giza, totalmente differente da
quanto sostenuto ufficialmente.
Naturalmente, i tanti Caifa che assiepano le sedi accademiche non hanno
potuto resistere a tale oltraggio, esibendosi nel classico “strappo delle
vesti”. Ciò nonostante, la diatriba sull’attendibilità di un enunciato tanto
spregiudicato, in aperta contrapposizione con le teorie ufficiali, ha prodotto
una breccia profonda nei settori meno oltranzisti. Negli Stati Uniti, ad
esempio, docenti universitari quali Robert Schoch e Michael Cremo – per
citare i più noti - da tempo, sostengono apertamente che, nel corso dei
millenni, la Terra è stata abitata da una Civiltà sconosciuta che ha realizzato
opere di straordinaria imponenza, disseminate in ogni angolo del pianeta. E,
paradossalmente, il medesimo Zahi Hawass, defenestrato “custode
massimo” del Supremo Consiglio per le Antichità, nonostante i pubblici
reiterati stridii - amplificati dal suo stuolo di giornalisti e operatori tv
compiacenti ed ossequiosi – pur mantenendo posizioni ufficialmente
irremovibili, si è prodigato, in lungo e in largo, ai piedi della Sfinge alla
ricerca della famosa “Sala dei Documenti”, la cui esistenza fu rivelata agli
inizi del ‘900, addirittura, dal veggente Edgard Cayce.
La contrapposizione tra scuole di Pensiero, dunque, sembra essere
alimentata da una subdola “corsa alla scoperta”, dove l’obbiettivo non è più
il reperto archeologico “tout court”, bensì i segreti delle origini della nostra
Specie.
La partita, naturalmente, si sta giocando proprio all’ombra della Grande
Piramide, l’unico monumento che ha rivelato al mondo la propria
complessa struttura interna. È il monumento simbolo della diatriba tra
scuole di pensiero, incentrata sul furioso dibattimento inerente la sua
funzione originaria: tomba o qualcos’altro?
La Grande Piramide non è una tomba, per una quantità indefinita di
motivazioni tecnico-scientifiche, le quali la pongono in totale antitesi con la
civiltà a cui sarebbe attribuita.
Basterebbero alcuni esempi per chiudere la questione. Dall’Egittologia,
infatti, sappiamo che, quando la Grande Piramide fu progettata, Cheope
ordinò che la camera funeraria fosse posta nella parte inferiore dell’edificio,
dove è ubicata la cosiddetta Camera Sotterranea o Camera del Caos. Per
realizzare quest’ambiente, gli operai Egizi avrebbero dovuto compiere una
delle opere più straordinarie dell’antichità, ovvero la costruzione del
cosiddetto Condotto Discendente. Si tratta di un’opera stupefacente,
oggettivamente impossibile da attribuibile agli scalpellini egizi, privi di
requisiti tecnici e di strumenti idonei per svolgere un’impresa del genere.
Altrettanto interessante, è la scoperta effettuata nella seconda metà degli
anni ’50, dall’astronoma Virginia Trimble e dall’archeologo Alexander
Badawy, secondo i quali i condotti costruiti nella Camera del Re e della
Regina, all’interno della Grande Piramide, sono puntati come canne di
fucile verso le stelle circumpolari e verso le costellazioni di Orione e del
Cane Maggiore. Questi esempi restituiscono una sola verità, ovvero lo
sforzo di cancellare dalla Storia l’esistenza di una Civiltà perduta – distrutta
dalle profonde trasformazioni subite dal Pianeta[3] - le cui origini affondano
nella nostra protostoria e, ancor peggio, l’impegno di azzerare, per sempre,
ogni tentativo di scoprire i fondamenti della Conoscenze scientifiche che la
caratterizzavano. Chi ha ideato il complesso monumentale di Giza, infatti,
ha integrato nelle proporzioni dei monumenti alcuni fondamenti della
Scienza a noi noti, come ad esempio alcune costanti di base della
matematica, oppure le nozioni di base del numero adimensionale 137 o,
ancora i fondamenti del moto astronomico attraverso il Ciclo della
Precessione degli Equinozi. Perché tanto sforzo?
L’unica ragione è giustificata dalla volontà di tramandare ai posteri un
Sapere, al fine di non disperdere per sempre i livelli evolutivi raggiunti. La
“società degli dei”, gli artefici dello Zep Tepi, aveva compreso che le future
società umane avrebbero potuto conseguire traguardi proficui, se solo
avessero compreso la dinamica delle Scienze. Essa ha cercato di tramandare
un messaggio attraverso il simbolismo architettonico, il quale per mezzo
dell’osservazione e del calcolo, si trasformato – agli occhi dei moderni
osservatori - nella “rappresentazione fisica” del tempo, inteso come Era
Storica.
Una volta risolto il mistero, attraverso l’applicazione sistematica delle
scienze, potremmo trovarci al cospetto della Civiltà perduta di Giza. Solo
allora potremmo conoscere la relazione che intercorre tra il mito di Osiride,
lo Zep Tepi e i fondamenti della nostra evoluzione, un’apparente consecutio
temporis che trapela anche dalle pagine di uno dei testi più ermetici
dell’antichità, ovvero il Libro dei Morti Egizio[4].
Lo Zep Tepi rappresenta il Tempo durante il quale le arti e le scienze hanno
raggiunto il massimo livello ed hanno reso immortale la civiltà che
occupava l’attuale Egitto in epoche remote? Rappresenta il momento
conclusivo di una delle civiltà più misteriose dell’antichità, consapevole di
essere prossima alla fine e poi distrutta dagli eventi catastrofici a ridosso
dell’undicesimo millennio a.C.? È la celebrazione della memoria, il ricordo
della comparsa di una nuova specie (quella che l’antropologia definisce
“homo sapiens sapiens”) che ha dominato il Pianeta, soppiantando l’ordine
naturale costituitosi con le linee evolutive scientificamente accettate?
La sottile linea che separa il Mito dalla Storia emerge, in tutta la sua
evidenza, proprio nelle difficoltà di definire in maniera chiara e precisa la
sua essenza. Tuttavia, il libro sacro degli Egizi sembra racchiudere
testimonianze di eventi remoti che destano curiosità, poiché, si
caratterizzano per la narrazione di vere e proprie vicende storiche.
Dal prossimo paragrafo, analizzerò uno dei reperti più discussi della storia
dell’egittologia, il famoso Canone Reale o Papiro di Torino. Il documento
potrebbe rappresentare un’altra testimonianza della storicità dello Zep Tepi,
nonostante sia considerato dagli egittologi un reperto di scarso interesse
storico.
Lo Zep Tepi ed il Canone Reale

Il Libro dei Morti Egizio è tra i documenti più importanti giunti fino a noi.
Le antiche tradizioni religiose si sono dischiuse alla storia, grazie ai
formulari ricavati dalle splendide decorazioni che impreziosiscono la
Piramide di Unas - faraone della V Dinastia – e di altre quattro piramidi
risalenti alla VI dinastia, rinvenute a Saqqara. I suoi testi rappresentano una
sorgente di inestimabile valore, per comprendere gli usi funerari dell’epoca
e, al contempo, propongono importanti indizi per la ricostruzione degli
eventi che hanno caratterizzato il Primo Tempo o Zep Tepi.
Dalle formule dei Testi delle Piramidi, si ricava che, per gli Egizi, la
Creazione è un atto di donazione degli dèi, attraverso il quale si avvia un
processo che si sostanzia in un eterno connubio tra il mondo della materia e
le energie sottili che dimorano nel Cosmo. In principio era l’acqua - infinita
e senza tempo - il Nun, dal quale nacque il dio Atum che dimorò sulla
collina primordiale emersa dalle acque turbolente. Atum generò Shu – il dio
dell’aria - e Tefnut – la dea dell’umidità – che a loro volta generarono Nut –
la dea del cielo – e Geb – il dio della terra. Per gli Egizi, essi rappresentano
i quattro elementi primordiali.
Il mito narra che Nut e Geb erano talmente innamorati l’uno dell’altro che
erano costantemente legati in un abbraccio eterno. Questo forte
attaccamento impediva alla vita di fiorire, per questo motivo, Atum inviò il
dio Shu per separarli. Ciò nonostante, la coppia generò quattro figli, i quali
sono considerati come i primi esseri divini che vissero nel mondo della
materia, ovvero Osiride, Seth, Iside e Nepthis. Quest’ultimo gruppo di dèi
completa la Grande Enneade Eliopolitana, adorata nell’Antico Egitto e alla
base della religione cosmologica dell’era dinastica. Essa è definita
Eliopolitana, poiché il culto originario era praticato ad Heliopolis, la città
del sole, situata a nord di Giza.
Questa storia segna l’inizio dello TPJ ZP, ovvero lo Zep Tepi o primo
Tempo, che tanto affascina e stimola gli appassionati dei misteri egizi.
Ma cosa si intende per Primo Tempo?
La maggior parte degli esperti sono concordi nel ritenere questo periodo
come l’epoca in cui gli dèi governarono l’Egitto. Molti testi religiosi,
rinvenuti nelle principali tombe scoperte, lasciano intendere che, in questa
fase, le popolazioni delle Terre del Nilo vivevano una vera e propria Età
dell’Oro.
A queste fonti, si uniscono anche i resoconti degli storici classici, come
Erodoto e Manetone, i quali – grazie alle esperienze vissute direttamente -
sono riusciti perfino ad indicare, seppur in maniera approssimativa e sulla
base di complesse informazioni ricevute – quando ebbe inizio questa
virtuosa epopea. Siamo in presenza, quindi, di elementi molto significativi,
poiché se da un lato i Testi narrano di antichi avvenimenti in maniera molto
articolata, dall’altro, gli storici classici propongono narrazioni di
avvenimenti accaduti in epoche remote, descritte con dovizia di particolari
grazie al supporto degli scribi egizi, ponendosi in una linea temporale,
pressoché, simile.
Tuttavia, non solo Erodoto e Manetone, ma anche altri riconosciuti
esponenti della letteratura classica, quali Sesto Giulio Africano – scrittore
romano vissuto tra il 160 ed il 240 d.C. – Giuseppe Flavio – scrittore di
origini ebraiche vissuto nel I secolo d.C. – Giorgio Sincello – storico
bizantino vissuto tra la seconda metà del 700 e il primo decennio dell’800
d.C. – Eusebio di Cesarea – vescovo e scrittore di lingua greca vissuto tra il
200 ed il 300 d.C. – Diodoro Siculo – storico greco vissuto nel I secolo
d.C., propongono testimonianze che contribuiscono, concretamente, alla
ricostruzione del periodo dinastico e predinastico egizio, aprendo
interessanti scenari del tutto inattesi. Esiste, quindi, una corposa letteratura
sulla quale poter approfondire le latenti convinzioni che, l’Egitto Dinastico,
sia stato influenzato da una Civiltà remota che si è resa protagonista
dell’Età dell’Oro. Eppure, sull’argomento, in ambito accademico, regna il
silenzio più assordante.
I fatti narrati giustificano l’ipotesi storica dello Zep Tepi? L’intrigante
interrogativo fa registrare costanti progressi in tal senso, seppure il percorso
si delinea articolato e ricco di insidie.
Stupisce, invece, notare come gli egittologi nella loro totalità, abbiano
relegato in un angolo, la già scarna letteratura sull’argomento, senza
proporre degni approfondimenti. Sconcerta, l’approssimazione con la quale
sono stati archiviati documenti di notevole importanza che avrebbero aperto
uno squarcio sui misteri delle antiche civiltà.
Scoprire, infatti, degli indizi che potrebbero riconfigurare la storia del
periodo predinastico, sarebbe un successo notevole, soprattutto ai fini della
ricostruzione delle dinamiche che hanno interessato la perduta Civiltà delle
Piramidi, così da poterla riconsegnare alla dignità della storia, anziché ad un
ruolo marginale che non le rende giustizia.
Lo Zep Tepi è Storia e i reperti scoperti in questi ultimi due secoli non sono
altro che una chiara testimonianza di un passato oscuro e tutto da decifrare.
La questione esplosa in tutta la sua evidenza con la teoria di Bauval,
rilancia la possibilità che l’evoluzione della civiltà umana possa essersi
sviluppata secondo direttrici ancora tutte da chiarire, addirittura intorno al
10.500 a.C. Una lettura così emancipata degli eventi che hanno
caratterizzato le origini delle moderne civiltà, ha avviato, quindi, un
conseguente processo di sdoganamento della storia antica, dall’inadeguata
funzione di mito ad una possibile rielaborazione in chiave storica del
passato remoto.
L’idiosincrasia tra Egittologia e Verità Storica si manifesta, ad esempio,
nell’ostracismo verso uno dei documenti più enigmatici scoperti in Egitto, il
cosiddetto Canone Reale o Lista dei Re o, ancora, Papiro di Torino.
Probabilmente, è stato troppo precipitosamente consegnato agli archivi,
penalizzando lo studio non solo delle dinamiche dell’Egitto dinastico, ma
anche e soprattutto dei misteri della Civiltà perduta che ha realizzato le
opere piramidali sparse a tutte le latitudini.
Fig. 3. Canone Reale - frammento

Analizziamone gli aspetti più significativi.


Il Canone Reale è stato scoperto nella necropoli di Tebe, nel 1822,
dall’italiano Bernardino Drovetti e si presenta come un manoscritto redatto
in ieratico, risalente alla XIX Dinastia, ovvero al periodo di regno di
Ramses II, tra il 1.279 ed il 1.212 a.C. circa. La sua particolarità consiste
nell’elencazione delle Dinastie dei Sovrani che si sono succeduti in Egitto,
al di là delle convenzionali Trenta Dinastie ufficialmente riconosciute.
Le cronache raccontano che quando è stato ritrovato, era sostanzialmente
integro ma, le vicissitudini successive lo hanno ridotto in poco più di 160
pezzettini e, la maggior parte, purtroppo, è andata perduta per sempre.
Attualmente, il Canone Reale misura approssimative circa 150 per 40
centimetri.
La sua struttura è molto particolare, poiché presenta un testo con
argomentazioni largamente differenti sul retro e sul fronte. Mentre la parte
posteriore richiama informazioni su persone ed istituzioni di epoca
dinastica, quella anteriore si distingue per la lunga elencazione di regnanti
che si sono succeduti sul trono della Terra del Nilo, fin dalle epoche più
remote.
Una peculiarità del prezioso documento è rappresentata dalla precisione con
la quale sono state trascritte le sequenze dei nomi dei regnanti, un
particolare davvero eccezionale che fa passare, in secondo ordine, le leziose
argomentazioni sulla plausibilità storica del reperto.
Oltremodo interessante, è l’origine temporale della sequenza di dèi, semidèi
e faraoni che si sono avvicendati in Era Predinastica, poiché si riferisce ad
un arco temporale estremamente lungo: circa 33.000 anni prima di
ricongiungersi con l’elencazione classica del periodo dinastico.
I suoi contenuti hanno attirato l’attenzione di molti specialisti, a cominciare
da Jean-François Champollion, l’egittologo francese che - grazie all’ausilio
della famosa Stele di Rosetta - ha rivelato i codici di accesso alla scrittura
geroglifica, rendendo comprensibili gli ermetici simbolismi egizi. Quando
l’egittologo francese si accinse a studiare il Papiro, si rese conto di avere,
tra le proprie mani, un vero e proprio puzzle. Ridotto in una cinquantina di
frammenti, alcuni dei quali incompleti, forniva un elenco di appena
un’ottantina di nomi di Re. Fu grazie allo studio di un tedesco, Gustav
Seyffarth che è stato possibile ricostruire il prezioso manoscritto. Basandosi
sull’analisi delle fibre del papiro e delle posizioni delle righe, ottenne dei
risultati sorprendenti e quasi definitivi. Tuttavia, l’ultima parola nella
sistemazione del testo è stata opera di Sir Alan Gardiner, stimatissimo
egittologo britannico.
Il Papiro è diviso in un numero indefinito di colonne e ognuna di esse è
ripartita in un numero variabile di righe, in media tra le 25 e le 30. In ogni
riga è trascritto il nome del Re, contenuto nel classico cartiglio, preceduto
dalla formula Nesut-Biti - Colui che Regna sul Giunco e sull’Ape - ovvero
Re dell'Alto e Basso Egitto, seguito dalla durata del regno.
La suddivisione delle Dinastie, comprese quelle definite Predinastiche, non
si discostano di molto da quanto trascritto da Manetone, seppur denotano
delle differenziazioni, sia nella sequenza dei nomi che nel computo degli
anni di regno.
Un dato interessante è rappresentato dallo sforzo del compilatore di
raggruppare le linee di successione secondo un ordine molto rigido,
attribuendo a ciascuna di esse la durata di regno, in maniera così precisa da
inserire – in alcuni casi – anche i mesi ed i giorni! Così, ciascun faraone è
associato ad un periodo di regno con una precisione - salvo rarissime
eccezioni - assolutamente non trascurabile.
Per mero interesse storico, è opportuno evidenziare un particolare
interessante che riguarda la linea faraonica legata al periodo Hyksos. Queste
linee dinastiche risultano quasi sempre omesse nelle elencazioni ufficiali
rinvenute sino ad oggi, molto probabilmente nel tentativo, delle legittime
discendenze Egizie, di cancellare dalla loro storia la dominazione straniera.
Ebbene, nel Canone Reale esse sono riportate in maniera assolutamente
precisa. Questo dato costituisce un fatto del tutto eccezionale, tanto da
confermare l’ipotesi, secondo la quale questo documento è stato concepito
come un registro o archivio storico. Quasi come se si fosse avvertita
l’esigenza di passare dalla Tradizione Orale alla necessità di trascrivere gli
elenchi, assecondando una rinnovata esigenza di “ricostruzione
genealogica”, al fine di non disperdere il ricordo delle origini dell’Egitto.
L’estrema precisione del compilatore nel riassumere gli anni di regno di
ciascun faraone, se da un lato ha generato interesse come supporto storico
per definire la cronologia delle dinastie egizie, dall’altro ha determinato non
poche polemiche tra ricercatori. Infatti, anziché alimentare il dibattito
scientifico che avrebbe potuto condurre ad una conclusione esaustiva sulla
portata storica del Papiro, ha esasperato la retorica oltranzista degli
accademici, sancendo, senza ulteriori appelli, la retrocessione del
documento a mero reperto da scantinato.
Cerchiamo di comprenderne i motivi.
Innanzitutto, la controversia si basa sulle possibili motivazioni che hanno
ispirato la redazione del chiacchieratissimo Papiro. La tesi ufficiale
attribuisce al Canone Reale una funzione puramente didattica, nel senso che
il contenuto del papiro non è altro che un esercizio di copia e, quindi, non
avrebbe nulla a che fare con la volontà di tramandare una cronologia
storica. Questa ipotesi, tuttavia, presta il fianco a non poche perplessità,
poiché il concetto di copia presuppone, per propria natura, una sorgente alla
quale attingere.
Altrettanto interessante, è l’ipotesi secondo la quale il documento sia un
atto ufficiale che fu redatto, probabilmente su commissione reale. In questo
caso, è ipotizzabile l’esistenza di un luogo dove erano custoditi documenti
“riservati”, a cui avevano accesso soltanto il Faraone ed i sui dignitari.
Si tratta della famosa “Sala dei Documenti”, sulle cui tracce sono
sguinzagliati decine di mercenari e ricercatori? Naturalmente, nell’uno e
nell’altro caso, ci si trova in presenza di scarsissime prove che potrebbero
rompere lo condizione di stallo in cui ci si trova.
Un altro elemento interessante, si evidenzia nella comparazione con testi
analoghi rinvenuti in Egitto, come ad esempio l’elenco dei Re rinvenuto ad
Abydos, nel tempio di Sethi I e Ramses II. Rispetto a questa cronologia, il
Canone Reale si contraddistingue per una specifica eccezione.
Fig. 4. Elenco dei Re nel Tempio di Abydos

Se osserviamo gli elenchi di Abydos, infatti, essi catalogano semplicemente


i predecessori dei faraoni celebrati, dimostrando il chiaro intento dell’autore
di voler legittimare la discendenza divina del regnante. Il Papiro di Torino
presenta caratteristiche diametralmente opposte: niente autocelebrazioni,
ma solo un trascrizione cronologica con rispettive indicazioni temporali. E’
evidente, quindi, che mentre gli elenchi di Abydos sono puramente
celebrativi, il manoscritto ha una sostanziale funzione di archiviazione. Ma
la contrapposizione tra scuole di pensiero si sviluppa anche su altri piani più
articolati, in particolare sull’attendibilità delle datazioni trascritte.
In realtà, non sempre il periodo sembra coincidere con le testimonianze
archeologiche provenienti da apposite campagne di scavo. Un esempio per
tutti, è la discordanza sugli anni di regno di alcuni faraoni appartenuti al
cosiddetto periodo Predinastico e alla Prima e Seconda Dinastia. Il Papiro,
infatti, stima un tempo, effettivamente troppo elevato, rispetto ai dati
ufficiali. In questo caso, ci si pone il quesito di quale delle due ipotesi sia
più attendibile, poiché se da un lato la posizione dell’egittologia accademica
risulta, sostanzialmente corretta, dall’altro non ci si può esimere
dall’esprimere un dubbio di merito, alimentato dalla possibilità che la
discordanza sia generata dalla mancanza di reperti che penalizzano la
cronologia ufficiale. Ad esempio, nessuno ha mai preso in considerazione
l’ipotesi che le dinastie considerate, potessero aver avuto effettivamente la
durata temporale indicata dal Papiro e che il problema potrebbe risiedere
nell’omissione dei nomi di alcuni faraoni, probabilmente per mera
dimenticanza o per voluto ostracismo. Del resto, come già ribadito in
premessa, sotto le sabbie del deserto giace ancora il 70% dei reperti e,
pertanto, al posto degli accademici non ostenterei tanta determinazione
nella formulazione di teorie eccessivamente adulterate. Così, anziché
ovviare alle discrepanze evidenziate, proponendo indagini di campo per
ricostruire – seppur nelle difficoltà di una campagna archeologica – le
effettive dinamiche cronologiche, si è preferito chiudere il discorso,
censurando l’inattendibilità del documento.
Il dubbio si genera anche a seguito delle complesse e, in alcuni casi
capziose, giustificazioni addotte dagli egittologi. Secondo la dottrina
ufficiale, gli anni associati ad alcuni sovrani potrebbero corrispondere
all’età del regnante al momento del trapasso e non alla durata di regno. La
quale cosa, tuttavia, non spiega per quale motivo il compilatore avrebbe
dovuto utilizzare diversi sistemi di computo a seconda del faraone oggetto
della trascrizione.
Infine, quali informazioni avremmo potuto ricevere sul misterioso Zep
Tepi, se il manoscritto fosse giunto intatto fino ai nostri giorni?
Le condizioni strutturali del reperto, rendono la ricostruzione del periodo
predinastico molto problematica. Dai frammenti superstiti possiamo
dedurre che, in tempi remoti, si sono succedute alcune dinastie
predinastiche, note come “i Venerabili di Menfi”, “i Venerabili del Nord”
e “gli Shemsu Hor” (ovvero “i Compagni o Seguaci di Horus”), i quali
avrebbero regnato fino al 3.100 a.C., quando il faraone Menes – ricordato
come il primo regnante della I Dinastia – salì al trono. Il Periodo di dominio
delle misteriose dinastie predinastiche è di circa 36.620 anni!
Se si vuole assecondare le teorie evolutive, sembra assurdo ipotizzare un
tempo così remoto, eppure gli indizi conducono proprio ad un tempo molto
lontano e la mia Teoria dello Zep Tepi e del Progetto Unitario di Giza
potrebbe confermare questa straordinaria ipotesi.
Il mistero delle successioni Predinastiche

Le discussioni tra accademici e indipendenti sull’attendibilità del Canone


Reale e sulle testimonianze dirette narrate dagli storici classici,
rappresentano un vero e proprio limite alla ricostruzione storica del passato.
Nel corso del tempo, la controversia ha finito per ingessare l’evoluzione
della scienza egittologica, eccessivamente appiattita su supposizioni tanto
rigide quanto cervellotiche che hanno finito per annichilire il vero e
profondo significato dei misteriosi reperti riscoperti nel corso degli ultimi
due secoli. Sotto certi aspetti, si può sostenere - senza tema di smentita –
che, allo stato attuale, il rapporto tra Egittologia e Zep Tepi è simile a due
polarità di segno opposto: si respingono e mai si attraggono.
La propensione degli accademici a ritenere che il Primo Tempo debba
essere considerato, esclusivamente, pura Mitologia - scartando a priori
qualsiasi ipotesi collegabile a processi storici tutti da definire - rappresenta
un indizio chiaro di come si è sviluppata la ricerca in questi ultimi decenni.
Qualsiasi tentativo di riaprire uno squarcio sui misteri del tempo,
ipotizzando una storicità dello Zep Tepi, rappresenta – per gli egittologi -
uno sforzo inutile che va stroncato tout-court.
Qualche anno fa, al culmine di una disamina sugli accadimenti che hanno
caratterizzato l’età prediluviana, John Anthony West mi propose una sua
riflessione, assolutamente condivisibile, allorquando argomentò: «(…) E’
come se gli Egittologi contemporanei ne sappiano di più rispetto agli stessi
Egizi. Questo è il livello dell’arroganza degli accademici (…)[5]».
Si ha la sensazione infatti, che i ricercatori moderni siano più informati sul
passato dell’Egitto, rispetto agli stessi Egizi che hanno vissuto direttamente
il loro tempo.
Si determina, così, che i contenuti del Canone Reale, gli elenchi di Abydos,
ma anche gli elenchi trascritti sulla cosiddetta Pietra di Palermo, uniti ai
resoconti dei scrittori classici, non sono sufficienti a smuovere l’attenzione
degli accademici sugli indizi che provengono dalla Terra dei Faraoni.
Eppure, fare chiarezza sui misteri dell’antichità, permetterebbe di stabilire,
in maniera pressoché definitiva, quanto sia realmente attendibile l’ipotesi
secondo la quale, una Civiltà Matrice ha condizionato le dinamiche
evolutive delle società post Diluvio.
Nel corso delle mie ricerche, propedeutiche alla formulazione della mia
Teoria, l’attenzione si è incentrata sull’approfondimento di alcuni autori
particolarmente prolifici.
La storia raccontata da Manetone risale ad un periodo oscuro e misterioso
e narra di un'epoca lontana in cui, i Faraoni che governavano la Valle del
Nilo, possedevano una conoscenza della Natura davvero sbalorditiva.
Lo stesso vescovo Eusebio di Cesarea - che fa ampio riferimento ai tre
libri del sacerdote di Serapide – propone una sua personale rivisitazione
dei periodi di regno. Sappiamo che Manetone individua nell’Enneade
Eliopolitana, la capostipite delle dinastie che ha retto le sorti della Terra
del Nilo per circa 13.900 anni. Dopo di essa, avrebbero regnato i
cosiddetti semidèi, o discendenti di Horus, per circa 1.255 anni. Una
nuova discendenza di faraoni ha retto l’Egitto per altri 1.817 anni. Al
termine di questa dinastia, altri trenta re si sono succeduti sul trono
egizio, ed hanno governato il Paese per altri 1.790 anni. In seguito,
ancora dieci re per ulteriori 350 anni e, infine, il regno degli Spiriti dei
Morti per 5.813 anni. La somma di tutto il periodo predinastico,
rielaborato da Eusebio di Cesarea, è di 24.925 anni.
Tuttavia, la quantità è enorme e lo è, a maggior ragione, per un vescovo
cristiano ortodosso, il quale ha apportato significative interpretazioni che
hanno fortemente condizionato la futura indagine sui misteri dello Zep
Tepi. Egli, infatti, proponendo una personale interpretazione sulla
dinamica cronologica proposta da Manetone, ha definitivamente
condizionato lo studio moderno sulle dinastie egizie stabilendo che le
origini dei faraoni sono ampiamente posteriori la stessa Genesi di biblica
memoria. «Con un abile gioco di prestigio» - sostiene argutamente
Graham Hancock, nel suo libro “Impronte degli Dei” - Eusebio di
Cesarea aggirò l’ostacolo immaginando «che l'anno sia un anno lunare,
formato, cioè, da trenta giorni: ciò che noi adesso chiamiamo mese in
passato gli egiziani lo utilizzavano per designare un anno…»[6]. Grazie a
questa magia, l’ortodosso vescovo cristiano ha ridotto l’intero ciclo
predinastico a poco più di 2.000 anni, cancellando una frazione
considerevole della nostra storia. Al tempo stesso, ha servito sul vassoio
d’argento, i fondamenti dell’insindacabile determinazione con la quale
l’archeologia in generale e, l’Egittologia in particolare, continuano a
sposare le tesi antropologiche, secondo le quali l’uomo è una diretta
evoluzione della scimmia.
Inoltre, spulciando tra le righe, si è scoperto che i calcoli di Manetone
conducono ad un ciclo di circa 38.000 anni, considerando la somma degli
anni che hanno interessato sia il periodo predinastico che quello dinastico.
Questo valore è molto importante, poiché - come vedremo nelle prossime
sezioni – è perfettamente in linea con la corretta configurazione
astronomica che collega i monumenti di Giza con le stelle ed è in intima
congiunzione con il procedimento aritmetico che caratterizza il rapporto tra
piramidi e numero. Pertanto, quando gli indizi assumono una connotazione
così marcata, il sospetto che ci sia qualcosa da chiarire è più che
giustificato.
L’indagine storica su tutto il periodo predinastico è un dovere al quale non è
possibile più sottrarsi, soprattutto per coloro i quali hanno a cuore la
ricostruzione della Verità Storica sulle origini dell’uomo. Ed è proprio
questo spirito che mi ha spinto sulla via dello Zep Tepi, con l’obbiettivo di
raccogliere le informazioni necessarie per avvalorare l’ipotesi, secondo la
quale, gli eventi passati sono stati condizionati da una Civiltà che ci ha
lasciato in eredità i misteri di Giza

2. L’Egittologia e l’Antico Regno


Il cartiglio della discordia

L’Etimologia della parola piramide si fa risalire al greco antico.


Letteralmente, deriverebbe dalla parola “pyr” - ovvero fuoco – con chiaro
riferimento alla prerogativa della fiamma di tendere verso l’alto,
terminando a punta come la piramide. Alcuni studiosi ritengono che il
vocabolo “pyr” derivi, a sua volta, dall’egizio “prms”, termine ritrovato nel
Papiro Rhind e tradotto con l’espressione “ciò che va in alto”, a
sottintendere la funzione ascensionale della figura geometrica. E’ curioso
notare, come in greco, il termine ☐☐☐☐☐☐☐ (piramis) – o più
correttamente pyramous, secondo la traduzione del filologo Lorenzo Rocci
- si riferisca, più volgarmente, alla “torta di frumento” (o sesamo),
proponendo un’ipotesi suggestiva dell’origine del termine, in evidente
connessione con le sopraffini cibarie adorate dai padri della Filosofia[7].
La parola piramide, inoltre, propone delle inattese correlazioni con
terminologie di origine orientali, come quelle richiamate, ad esempio,
nell’antichissima raccolta di versi degli Arias, tratta dai libri indiani Rig-
Veda, in cui il dio Indra è definito “piramdasra”, che significa «abbattitore
di dighe o di grandi muraglie»[8].
Anche in questo caso, l’associazione tra “abbattitore di grandi muraglie” ed
i colossi di Giza risulta particolarmente intrigante, soprattutto, se associamo
gli imponenti edifici alla funzione di generatori di energia, come proposto
da Christopher Dunn[9], ad esempio, oppure agli effetti prodotti dal mio
modello ispirato al numero adimensionale 137[10]. Il compianto Philip
Coppens individua nel termine “mr” la parola egizia piramide[11]; mentre
Mark Lehner sostiene che il termine possa derivare da “m” - che significa
“strumento” oppure “luogo” - e dal termine egizio “er” ovvero
“ascensione”[12]. Da ciò si deduce che secondo Lehner, il termine piramide
può significare “il luogo dell’ascensione” o “lo strumento dell’ascensione”,
ovvero il sito attraverso il quale, l’anima del faraone ascende alla Duat. Una
valutazione analoga, è stata proposta dall’eminente archeologo I.E.S.
Edwards, il quale individua, nei termini “mer” o “mr”, una formula fonetica
associabile al concetto di piramide, anche in questo caso, per indicare il
luogo dell’ascesa del Ka[13].
La necessità di comprendere l’origine del termine deriva dalla percezione
che i sacri testi egizi possano nascondere tracce di antiche conoscenze,
espresse in formule rituali. Infatti, per quanto il Libro dei Morti e i Testi
delle Piramidi, nella loro struttura globale, si caratterizzano per un profondo
simbolismo connesso al viaggio dell’anima nell’oltretomba, in alcuni
specifici capitoli descrivono una pluralità di vicende dall’apparente
connotazione storica, conferendo alla Piana di Giza (definita, nel Libro dei
Morti, col nome Djedu, ovvero il Luogo dello Zed, n.d.a.) una propria
centralità nella storia degli dèi nel corso dello Zep Tepi.
“Il Luogo dell’Ascensione”, pertanto, potrebbe assumere molteplici
significati: potrebbe riferirsi alle caratteristiche dell’edificio che tende verso
l’alto; oppure al luogo in cui l’anima del defunto inizia il proprio viaggio
verso la Duat; oppure al luogo in cui la materia ascende alle molteplici
dimensioni, secondo il modello basato sulla relazione piramidi-energia-
numero 137; o, ancora, ispirandosi alle Teorie del Contatto, potrebbe
indicare il punto di atterraggio di veicoli provenienti dallo spazio… Risulta
complicato, quindi, avere contezza del reale significato etimologico della
parola piramide, nonostante le interpretazioni ufficiali tendano a spostare
l’ago della bilancia verso concetti simbolici e/o metaforici. L’unica certezza
che se ne può ricavare, è che nel corso del primo periodo dinastico, si è
registrata una corsa spasmodica verso la realizzazione di strutture di forma
piramidale, o di obelischi come nel caso della città di Heliopolis.
Cosa può avere influenzato gli Egizi dinastici?
Partiamo dalla certezza che la piramide è considerata la figura geometrica
sacra per eccellenza. La scelta di utilizzare questa tipologia architettonica è
ambigua, per quanto gli egittologi la mettono in correlazione con un’altra
icona sacra della religione egizia: la pietra ben-ben. Questo termine, con
ogni probabilità, si riferisce a meteoriti di origine ferrosa (il famoso bje,
termine egizio che non ha trovato mai completa e certa traduzione, n.d.a.)
caduti in terra d’Egitto. Dalla loro forma è nato il mito della pietra ben-ben,
approssimativamente di forma conica, la quale fu posta al vertice degli
obelischi come simbolo fallico generatore di vita[14]. Questa simbologia
rappresenta l’estrema sintesi di un concetto filosofico e religioso, il quale
conferma il singolare dualismo tra le opere architettoniche e l’origine dei
principi di base della teologia egizia. Secondo gli Egittologi, la sacralità
attribuita alla pietra meteoritica avrebbe orientato i faraoni della IV dinastia
verso una scelta precisa della forma da attribuire alla loro ultima dimora,
introducendo una consuetudine architettonica propria di questo periodo, al
termine del quale, è completamente tramontata. È l’unica interpretazione
plausibile?
Sappiamo che l’Antico Regno è il ciclo storico prossimo al periodo
predinastico e, da ciò si potrebbe dedurre che la scelta dei faraoni, di
realizzare opere architettoniche piramidali, possa originarsi dalla precisa
volontà di emulare quelle già esistenti e attribuite agli dèi, con l’obbiettivo
di accreditare la propria correlazione con la discendenza divina del sovrano.
Questa ipotesi potrebbe spiegare la ragione per cui le piramidi di Giza – che
ipotizziamo realizzate nel corso dello Zep Tepi – abbiano ancora una buona
condizione strutturale, mentre tutte le altre appartenenti al periodo dinastico
sono ridotte in macerie. Del resto, è davvero arduo immaginare che gli
Egizi dinastici possano aver concepito un modello architettonico
particolarmente complesso, come quello piramidale, senza avere una fonte
ispiratrice che ne possa aver influenzato le scelte. Pertanto, possiamo
concludere che le piramidi “originali”, dalle quali hanno preso vita le copie
realizzate in epoca dinastia, sono quelle edificate a Giza. Questa ipotesi è
sufficiente a giustificare la loro preesistenza? Esistono altri elementi che
possano giustificare un’origine antecedente il periodo dinastico?
E’ noto che l’Egittologia ha attributo i tre edifici ai Faraoni della IV
Dinastia, Cheope, Chefren - al quale è attribuita anche la realizzazione della
Sfinge - e Micerino. Ma quali sono i reperti che confermano questa tesi?
Perché, ad esempio, la Grande Piramide è attribuita al faraone Cheope?
Potrebbe suonare strano, ma ad oggi, non esiste una sola prova archeologica
che possa giustificare questa teoria.
La storia del connubio Cheope-Grande Piramide si origina nella prima metà
dell’800, quando un colonnello inglese con la passione per l’archeologia, il
cui nome è Howard Vyse, fece una scoperta “sensazionale”. In una delle
cosiddette Camere di Scarico dello Zed, ovvero in uno dei posti più
impenetrabili del monumento, il provetto archeologo scoprì i famosi
“marchi di cava” dipinti sul soffitto e sulle pareti. Secondo la traduzione
dell’avventuriero inglese, i marchi recavano la seguente dicitura: «La
squadra di operai, quanto è potente la corona bianca di Khnum-Cheope …
anno diciassette».
Fig. 5. Cartiglio di Vyse

La scoperta destò un clamore straordinario ed ebbe il benefico effetto di


rimpinguare le anemiche casse dei mecenati per continuare a finanziare il
colonnello. Il ritrovamento, quindi, capitò proprio al momento giusto.
In realtà, con un colpo di pennello, Vyse ha causato un vero e proprio
disastro storico-archeologico:

1. innanzitutto, ha imbrattato il monumento nel tentativo di


riprodurre, maldestramente, il cartiglio di Cheope;
2. ha spalancato d’un colpo le porte ad un’errata interpretazione
della paternità dei monumenti di Giza, fino a quel momento
assolutamente anonimi e senza proprietario;
3. ha sancito, in via definitiva, la linea sulla quale si sarebbero
inseriti – nei decenni a venire – gli egittologi, stravolgendo le
regole che hanno governato il passato remoto dell’uomo.

Vyse spalancò le porte all’improvvisazione e alla retorica, grazie ad un


artifizio linguistico, a beneficio del malcapitato Cheope che si è ritrovato al
centro della storia, pur non essendone parte in causa.
Graham Hancock annota le seguenti, condivisibili, perplessità:
Era strano che i marchi fossero gli unici segni del nome di Cheope mai
trovati all'interno di tutta la Grande Piramide;

1. Era strano che fossero stati trovati in un angolo tanto oscuro,


fuori mano di quell’immenso edificio;
2. Era strano il fatto stesso che fossero stati trovati in un monu‐
mento per il resto privo di iscrizioni di qualsiasi genere.
3. Ed era estremamente strano che fossero stati trovati solo nelle
quattro camere di scarico superiori delle cinque esistenti. Ine‐
vitabilmente, menti sospettose cominciarono a chiedersi se «i
marchi di cava» sarebbero apparsi anche nella più bassa delle
cinque camere se anch'essa fosse stata scoperta da Vyse, anzi‐
ché settanta anni prima da Nathaniel Davison.
4. In ultimo, ma non meno importante, era strano che numerosi
geroglifici dei “marchi di cava” fossero stati dipinti capovolti,
che alcuni fossero irriconoscibili e altri scritti in modo
sbagliato o usati scorrettamente dal punto di vista
grammaticale.

I famigerati geroglifici furono esaminati da James Henry Breasted, noto


archeologo americano che, nel 1929, ha ricoperto il ruolo di direttore
dell’Università di Chicago, il quale sottolineò che: «il sistema di scrittura
geroglifica impiegato nell’iscrizione non era compatibile con quello
utilizzato durante la quarta dinastia, bensì ad un’epoca più recente»[15].
La tesi del complotto è rafforzata da un’altra sconvolgente realtà che
coinvolge – seppur indirettamente - un altro importante egittologo del
tempo: John Wilkinson, a quei tempi uno dei maggiori studiosi dei
geroglifici egizi.
Il suo taccuino, su cui annotava i progressi nello studio dei geroglifici, finì
nelle mani di Vyse, il quale – pensando di aver trovato la soluzione ai suoi
fallimenti – scopiazzò il cartiglio di Cheope sulle pareti delle camere dello
Zed.
Fa sorridere il fatto che, da lì a qualche tempo, il Wilkinson apportò alcune
correzioni al suo lavoro, delle quali Vyse non era al corrente. Così, il
colonnello finì per trascrivere il nome del faraone usando la forma
geroglifica scorretta.
Ma, ormai, era troppo tardi. Non era più possibile tornare indietro per
correggere lo scarabocchio.
Così, leggendo il cartiglio che campeggia sulle pareti dello Zed, non
possiamo fare a meno di notare che il proprietario della Piramide è un certo
“Raufu”, anziché “Khufu”.
Si potrebbe eccepire sulla legittimità di questa storia? Siamo proprio certi
che le cose siano andate in questo modo?
La risposta è nella decisione del Consiglio Supremo delle Antichità, il
quale, da decenni, ha vietato qualsiasi tentativo di studiare il famigerato
cartiglio…
Le Piramidi tra religione e architettura

Il cartiglio di Vyse offre l’opportunità di proporre un’ulteriore riflessione


sull’inconsistenza della relazione tra la Grande Piramide e Cheope. Se
esaminiamo le regole funerarie del tempo, si scopre che le ragioni della
preservazione del corpo e, quindi, dell’articolato procedimento della
mummificazione, erano state introdotte per garantire all’anima del defunto
di raggiungere la regione cosmica della Duat e, dall’altra, preservare il
corpo in attesa della resurrezione, assecondando la triplice funzione
dell’essenza vitale, ovvero la sequenza nascita-morte-rinascita.
Tuttavia, perché la ritualità potesse compiersi con efficacia, gli Egizi
introdussero delle regole particolarmente rigide. Ancora oggi, è possibile
leggere questi straordinari principi nei cosiddetti Testi delle Piramidi, in
particolare, il punto in cui si sancisce la fondamentale posizione che
bisogna assicurare al corpo del defunto, a conclusione di tutto il rituale
funebre, per raggiungere la certezza della vita dopo la morte.
«474 - Lo spirito appartiene al cielo, il corpo alla terra». Testi delle
Piramidi, Detto 305
Il corpo del defunto, quindi, doveva essere assicurato alla terra, perché
potesse sperare nell’ascensione dell’anima. Questo elemento ha una
straordinaria importanza, poiché evidenzia alcuni aspetti dell’ultima dimora
di Cheope, le quali non sembrano rispettare questo principio fondamentale.
È noto, infatti, che la camera di sepoltura si trova a circa 73 metri di altezza,
quindi molto al di sopra del livello del terra, contravvenendo – di fatto - ad
ogni regola funeraria imposta a quel tempo.
Cosa si può dedurre?

a. Innanzitutto che le ipotesi ufficiali sono archeologicamente e


storicamente infondate e palesano una sostanziale ignoranza
sugli usi funerari acquisiti nell’Antico Regno;
b. Se ipotizziamo - solo per un momento - che la teoria ufficiale
abbia un fondamento, allora bisogna prendere atto che Cheope
deve essere considerato il primo faraone eretico dell’Antico
Egitto e, la sua eresia, risulta essere ancora più straordinaria di
quella monoteista di Akhenaton, poiché si manifesta in un
contesto storico certamente meno bellicoso.
Tuttavia, se fosse stato così, sarebbe certamente emerso qualche indizio che
potesse certificare la presunta eresia, in particolare dai reperti che lo
riguardano direttamente. È evidente, quindi, che il connubio Cheope-
Grande Piramide perde la sua consistenza ogniqualvolta si tenta di
analizzarne, in maniera completa, la sua sostanza.
La quantità e la qualità delle eccezioni, quindi, sono tali da coinvolgere
ogni specifico settore di indagine, dallo studio dei reperti all’analisi dei
monumenti, dallo studio dei miti alle connessioni con l’astronomia,
dall’architettura all’ingegneria, dai fondamenti della teologie egizia fino
alle abilità pratiche degli operai del tempo.
Talvolta, l’Antico Egitto sembra rivelare tutti i principi di base
dell’aritmetica, proponendosi come “un insieme” formato da elementi
interconnessi, così che “principio di unione” travalica gli effetti dello spazio
e del tempo.
Fin dal secolo scorso, le piramidi sono sempre state accostate alla parola
Scienza, al punto che una pluralità di studi e pubblicazioni non hanno
lesinato accostamenti e riferimenti particolareggiati alle Leggi che regolano
l’Universo, soprattutto in ragione di alcuni aspetti mai chiariti del tutto.
Uno di questi si riferisce all’annosa questione su come siano stati edificati i
monumenti e quali tecniche sarebbero state usate per maneggiare la massa
enorme di blocchi in arenaria, granito e calcare.
Sappiamo dall’Egittologia, che Zoser è il primo regnante a fregiarsi del
titolo di Faraone della III Dinastia e a lui, gli accademici, hanno attribuito la
prima piramide dell’Antico Egitto: la famosa piramide a gradoni di
Saqqara.
Fig. 6. L’autore durante alcune fasi di rilevamento presso la Piramide di
Zoser

Il monumento sarebbe stato progettato dall’architetto Imothep, il cui nome,


forse, è più noto dello stesso Zoser. A spulciare tra le tesi ufficiali, sembra
che la sua genialità fosse ispirata dalla concezione architettonica della
mastaba, successivamente adeguata ad una nuova ideazione di monumento
funerario, intimamente connesso con la dottrina religiosa dell’epoca,
secondo la quale l’anima del Faraone doveva ascendere al cielo dopo la
morte[16].
La mastaba era concepita come struttura funeraria di dimensioni e forme
semplicissime, costituita da una camera mortuaria sotterranea, ricoperta da
un’ampia struttura superiore di forma rettangolare. Pertanto, la Piramide a
gradoni si configura come una sua evoluzione strutturale e filosofica,
proponendosi come una complessa sovrapposizione delle primordiali
costruzioni. Nel corso delle campagne archeologiche, sono state individuate
una grande quantità di edifici analoghi, alcuni dei quali sono stati
abbandonati addirittura prima del loro completamento. In questa fase
storica, gli Egizi, per la prima volta, introducono l’uso della pietra per
realizzare i loro edifici funebri. Inoltre, la dimensione ingegneristica ed
architettonica delle opere compiute, col trascorrere del tempo, diventa
sempre più raffinata, fino a raggiungere il culmine – secondo le tesi ufficiali
- con le piramidi di Giza.

Fig. 7. Piramide inclinata di Snefru

Una costruzione molto particolare, ad esempio, è rappresentata dalla


cosiddetta Piramide Inclinata, appartenuta al faraone Snefru, padre di
Cheope, la quale evidenzia delle caratteristiche decisamente singolari. Essa,
infatti, si contraddistingue per la duplice pendenza delle facciate che la
rende unica nel suo genere. Questa caratteristica ha sollecitato l’interesse
degli studiosi, i quali attribuiscono l’anomalia ad un banale errore di calcolo
durante le fasi di costruzione. I costruttori, infatti, preoccupati del possibile
cedimento della struttura, decisero di modificarne la pendenza, donandole la
particolare caratteristica trapezoidale.
Tra i tanti misteri che aleggiano sull’Antico Egitto, ci si chiede se si possa
annoverare anche la piramide inclinata di Dashur, nel tentativo di capire se i
costruttori hanno realmente commesso un errore, oppure hanno voluto
realizzare l’edificio con le peculiarità evidenziate per affidarci un
messaggio che, ancora, attende risposte…
La Piramide inclinata ha una propria “gemella”, poiché Snefru si sarebbe
fatto costruire una nuova tomba, più in linea con le fattezze piramidali,
caratterizzata per una uniformità di pendenze. Così a Dashur, sorgono due
piramidi attribuite al medesimo faraone. Un fatto del tutto eccezionale che
potrebbe configurarsi con un vero e proprio record.
Infine, lungo il corso della IV Dinastia, per motivi sconosciuti, da Dashur,
gli architetti avrebbero spostato il loro interesse verso un’area più a nord, a
Giza, quasi a ridosso dell’attuale capitale Il Cairo, dove sono state realizzate
le “tre sorelle”, la cui perfezione è nota a tutti.
Le tesi che argomentano il passaggio dalla mastaba alla forma piramidale
sono sempre state particolarmente controverse e, lo sono ancor di più, le
tesi che propongono soluzioni alla costruzione delle piramidi. In realtà, non
esiste una vera e propria teoria che riesca a soddisfare le tante incertezze in
materia. Sappiamo, con sicurezza, che tutte le supposizioni sulla
costruzione delle piramidi sono il frutto di mere ipotesi e, nessuna di esse, è
corroborata da una evidenza storico-archeologica.
Nel 1996, Graham Hancock propose un’osservazione particolarmente
bizzarra, ma estremamente interessante. Egli studiò la relazione tra gli anni
di regno di Cheope e il tempo di sistemazione di ciascun blocco per
completare l’edifico piramidale. Al termine del suo lavoro, il ricercatore
americano teorizzò che per completare la costruzione della Grande
Piramide, nel rispetto degli anni di regno di Cheope, gli operai avrebbero
dovuto posizionare, con estrema precisione, un blocco di pietra ogni cinque
minuti, di giorno e di notte, senza soluzione di continuità, per venti anni di
seguito.
Un’enormità che non richiede osservazioni di merito.
Nel prossimo paragrafo, analizzeremo alcune teorie e sperimentazioni sulle
tecniche di costruzione maturate dagli Egizi, nel tentativo di proporre
ulteriori elementi a sostegno dell’ipotesi che gli edifici di Giza
appartengono allo Zep Tepi e non al periodo dinastico.
Sperimentazione scientifica o empirismo?

Esistono molteplici ragioni a sostegno dell’ipotesi, secondo la quale, il


complesso monumentale di Giza non è stato edificato nel corso dell’Antico
Regno. Una di esse afferisce la maturità tecnico-ingegneristica acquisita,
nonché la qualità degli utensili in uso in quel periodo, i quali potrebbero
essere definiti, eufemisticamente, di concezione e di fattura,
sostanzialmente, semi-primitiva.
Gli Egittologi, viceversa, sostenendo l’ipotesi dell’edificazione dei
monumenti nel corso della IV dinastia, avvalorano la tesi dell’esistenza di
un complesso ed efficace “modello di produzione”, il quale avrebbe
contemplato tutte le fasi necessarie per la realizzazione dell’opera, ovvero
un efficace apparato per l’estrazione ed il taglio dei blocchi di arenaria e
granito, per il loro trasporto, per la posa in opera, il tutto assecondando
specifiche tecniche ingegneristiche del tutto eccezionali. L’unico problema
è che, da un punto di vista archeologico, non esiste alcuna prova che possa
testimoniare l’attendibilità di questa teoria.
Infatti, tutte le supposizioni che nel corso del tempo sono state acquisite
come indiscutibili certezze, si scontrano con l’inconfutabilità dei reperti,
con effetti dirompenti sulla legittimità delle teorie proposte.
La “Scuola Alternativa”, ad esempio – abbarbicata sull’assoluta certezza
dell’esistenza di una Civiltà Matrice – si dispone per una visione della
storia antica sostanzialmente divergente, inserendo tra i fenomeni che hanno
caratterizzato il passato remoto dell’umanità, anche la Piana di Giza.
Partendo da questi presupposti, quindi, ha scelto di seguire un filone
d’indagine innovativo, nel tentativo di trovare delle risposte definitive nella
possibile relazione tra scienza e monumenti.
Non a caso, dalla metà degli anni ’50 fino alla Teoria della Correlazione, la
scuola alternativa ha spinto sull’acceleratore della correlazione tra
monumenti e costellazioni, proprio perché l’inconsistenza delle prove
archeologiche ha imposto nuovi percorsi di indagine – in questo caso basato
sulle leggi che regolano l’astronomia – che potessero dirimere i dubbi sulla
legittimità delle tesi accademiche. Pertanto, quello che in un primo
momento sembrava essere un sentiero impervio, nel corso degli ultimi
trent’anni, si è trasformato in una corsia ad alta velocità. Le indagini
scientifiche interdisciplinari hanno lentamente modificato il paradigma
Giza, fino alla dimostrazione incontrovertibile, della relazione tra
monumenti e astronomia, tra piramidi e costellazioni, tra edifici ed astri in
ossequio al complesso fenomeno del Ciclo della Precessione degli
Equinozi.

Fig. 8. Utensili esposti al Museo Egizio di Torino


Paradossalmente, l’accertata capacità dei costruttori di allineare i
monumenti alle stelle, acquisisce un fondamento scientificamente
indiscutibile, mentre altrettanta certezza non si evince dalle tesi che
alimentano il mondo accademico basate su modelli inventati di sana pianta.
Le tecniche usate per edificare le piramidi, infatti, sono sconosciute e, per
quanto gli Egittologi – pur di sopperire alle notevoli lacune archeologiche –
si siano arroccati su pretestuose differenze nozionistiche tra empirismo e
sperimentazione, non esiste una prova che possa, tangibilmente, sostenerne
la legittimità[17].
L’immagine riassume, simbolicamente, la tipologia degli strumenti in uso
nel corso dell’Antico Regno, evidenziando degli oggetti dalle peculiarità
estremamente rudimentali. In questo periodo storico, infatti, le conoscenze
dei metalli erano pressoché nulle, eppure l’Egittologia attribuisce agli Egizi
la realizzazione di manufatti davvero eccezionali. Ad esempio, nel villaggio
di Naqada, nei pressi di Dendera, l’archeologo inglese sir William Flinders
Petrie riportò alla luce oggetti, perlopiù vasellame, realizzati in diorite e
basalto, ovvero tra le pietre più dure esistenti in natura e che, ancora oggi,
comportano non poche difficoltà di lavorazione. L’egittologo inglese
attribuì le opere addirittura ad un periodo predinastico, compreso tra il
3.900 ed il 3.180 a.C. e inserito in una fase storica più ampia, nota come
Neolitico Badariano, a sua volta suddiviso in tre periodi Naqada. Questa
scoperta, percepita dagli Egittologi come indiscutibile, suscitò grande
scalpore tra i ricercatori alternativi, poiché essa rappresentava una
potenziale prova dell’esistenza di una Civiltà perduta, vissuta anche in
Egitto, in grado di lavorare, con precisione ed abilità, le pietre più dure,
ipotizzando – per naturale conseguenza – l’esistenza di tecnologie e di
strumenti in grado di lavorare la pietra con accuratezza e velocità.
Questo episodio, dai contorni estremamente interessanti, spinse gli
“alternativi” ad approfondire con maggior vigore lo studio delle tecniche
adottate per edificare gli edifici di Giza, tuttavia, con risultati non del tutto
soddisfacenti, poiché al di là delle critiche rivolte alla scuola accademica,
non ha generato modelli scientificamente apprezzabili. Pertanto, la
costruzione delle Piramidi di Giza rimane ancora un mistero.
La quantità di pietra utilizzata è impressionante e, soprattutto, stupisce la
dimensione ed il peso dei blocchi utilizzati[18]. E’ stato calcolato che alcuni
di essi, in granito, impiegati per costruire la cosiddetta Camera del Re,
possono raggiungere anche le 60-80 tonnellate. Del tutto eccezionale – e, ad
oggi, ancora inspiegabile – è come abbiano fatto a tagliarli con tanta
precisione, anche perché non sembra reggere l’ipotesi ufficiale, secondo la
quale sarebbero stati impiegati picconi di calcare in silicio, seghe in rame
non dentellate e trapani con punte di smeriglio[19]. Peraltro, un’opera di tali
proporzioni, presuppone un’organizzazione capillare delle risorse umane,
ciascuna impegnata in apposite funzioni complementari. Una di esse è
l’estrazione della pietra dalle cave – è anche in questo caso, sono richieste
delle abilità eccezionali e soprattutto utensili adatti – nonché il trasporto e la
messa in opera dei blocchi. Per quest’ultima funzione, la logica richiede
l’impiego di mezzi meccanici particolarmente complessi, eppure, le
campagne archeologiche non hanno mai restituito nulla che potesse
giustificare l’impiego di mezzi adeguati, anche da un punto di vista
tecnologico.
Si sa che gli egizi erano a conoscenza della funzione delle leve e dei rulli
che, tuttavia, non sembrano essere sufficienti a giustificare l’innalzamento
di imponenti blocchi di granito ad un’altezza di oltre 73 metri,
corrispondente alla posizione della cosiddetta Camera del Re e dello Zed.
Quest’insieme di dubbi e, soprattutto i misteri che caratterizzano proprio i
due ambienti, nel corso del tempo, hanno generato una moltitudine di
teorie, alcune delle quali davvero incredibili.
Fino a qualche tempo fa, gli egittologi erano fermamente convinti che i
blocchi furono trascinati in cima grazie ad un sistema definito a rampe[20].
Questa ipotesi – mai scientificamente provata – si è arricchita di spiegazioni
e dimostrazioni tecniche, estremamente complesse, che si basava
sull’edificazione di vere e proprie rampe, costruite con mattoni crudi e
gradoni di pietra, per permettere agli operai di spingere i blocchi fino ai
punti più alti dell’edificio, aiutandosi con un sistema di pali in legno usati
come leve[21]. Queste strutture complementari sarebbero state disposte lungo
il perimetro delle Piramidi, per ciascun lato, così da rendere più “celere”
l’edificazione dei monumenti.
Per quanto affascinante, la tesi evidenzia alcuni limiti, tecnicamente,
insuperabili. Se fosse realistica, i costruttori avrebbero dovuto realizzare
delle opere di dimensioni ciclopiche, probabilmente, ancora più
straordinarie delle stesse piramidi. Per rispondere adeguatamente alle
esigenze tecniche, infatti, è stato calcolato che la lunghezza delle rampe
dovevano soddisfare i seguenti parametri: quattro chilometri per più di dieci
metri di larghezza. La realizzazione contemporanea degli edifici piramidali
e delle rampe di trasporto avrebbe richiesto dei tempi di realizzazione molto
lunghi, aggravate dal fatto che la loro angolazione doveva essere
periodicamente ricalcolata con l’avanzare della costruzione delle Piramidi.
Ciò avrebbe comportato un allungamento a dismisura dei tempi di
costruzione, difficilmente contenibili negli anni di regno calcolati per i tre
faraoni. Inoltre, i costruttori avrebbero dovuto considerare un ulteriore
problema, perché se le Piramidi sono “adagiate” su una piattaforma
rocciosa che ne regge il peso, le rampe sarebbero finite in punti
geologicamente instabili, con il grave rischio di vederle crollare sotto
l’immane peso dei monoliti che venivano trascinati lungo il loro corso. Si
può concludere, quindi, che un’opera di queste proporzioni, per propria
natura, deve essere considerata - forse anche in epoca contemporanea - un
vero e proprio prodigio di ingegneria. Questa teoria, in ogni caso, introduce
un nuovo elemento di studio, sul quale i ricercatori appartenenti alle due
scuole di pensiero, si sono ferocemente confrontati, ovvero la relazione tra
Piramidi e morfologia del territorio. E’ noto, infatti, che il sottosuolo della
Piana di Giza presenta una conformazione particolarmente complessa e si
sviluppa tra collinette rocciose ed acquiferi, ovvero condotti naturali che si
sviluppano nelle profondità del sottosuolo[22].
La realizzazione di un progetto edile così imponente, avrebbe richiesto
un’indagine tecnica preliminare, in ragione della necessaria certezza che la
conformazione geologica dell’area fosse adatta agli scopi.
Nel secolo scorso, sono state approntate specifiche indagini geologiche per
verificare la consistenza del territorio. I risultati hanno dimostrato che il
sottosuolo adiacente le Piramidi, non è adatto a sostenere opere
architettoniche così pesanti, a differenza dei punti in cui esse sono state
costruite.
Il risultato è davvero eccezionale, poiché dimostra che il progetto Giza non
è casuale, bensì si compone di una pluralità di attività, anche propedeutiche,
le quali hanno reso possibile l’opera. Le straordinarie capacità dei
progettisti, quindi, si manifestano in tutta la loro complessità, dimostrando
che questi edifici sono il frutto della Civiltà che ha caratterizzato lo Zep
Tepi.

Fig. 9. Taglio da sega circolare su monolite a Giza


Infine, un ultimo elemento di analisi che ci introduce al prossimo paragrafo.
Qualche tempo fa, un ricercatore americano, Christopher Dunn, al termine
di un accurato ciclo di studi sulla Piana di Giza, rilevò che alcuni monoliti
erano caratterizzati dalla presenza di fori particolarmente “sospetti”,
evidenziando, inoltre, tecniche di lavorazione estremamente sofisticate[23].
Egli concluse che questi particolari potevano essere realizzati solo con
l’ausilio di moderni martelli pneumatici e/o trapani ad ultrasuono.
Questo studio ha aperto un nuovo fronte di indagine, il cui esito ha prodotto
ulteriori conferme che avvicinano le Piramidi di Giza ad una civiltà
perdutasi nei meandri della storia.
Tracce di tecnologie perdute

Christopher Dunn, ricercatore di origini inglesi, manager di un’importante


azienda aerospaziale americana, nel 1998, al culmine di un proficuo
percorso di ricerca, pubblica uno dei libri più discussi degli ultimi due
decenni, ovvero “The Giza Power Plant”. L’autore ipotizza che le piramidi
siano state costruite con l’ausilio di una strumentazione altamente
tecnologica e di estrema precisione, adducendo come prova, lo studio su
una consistente quantità di reperti rinvenuti in Egitto. In particolare, la sua
attenzione si è focalizzata sull’analisi di centinaia di blocchi di granito e
basalto, disseminati nei pressi delle due piramidi principali di Giza.
L’erosione, i terremoti e la mano dell’uomo, infatti, hanno creato non pochi
danni agli edifici, ma, indirettamente, hanno favorito lo studio del
ricercatore americano, i cui risultati hanno aperto un nuovo fronte
d’indagine sulle conoscenze acquisiti dalla Civiltà delle Piramidi e che gli
Egizi dinastici hanno, successivamente, trasposto nelle loro magnifiche
opere artistiche.
Le ipotesi maturate in questi ultimi decenni sulla funzione della Grande
Piramide dimostrano che, anche in ambito alternativo, la fantasia non
manca.
Eppure, tra le tante realtà utopistiche, emergono alcuni indizi che orientano
i percorsi di ricerca su sentieri sempre più verosimili. Dunn è uno di quelli
che, rimboccandosi le maniche, ha messo a disposizione il proprio know-
how applicato all’archeologia misteriosa ed ha raggiunto obbiettivi molto
interessanti – non tanto sulla funzione originaria dei monumenti, le cui
argomentazioni sono particolarmente discutibili – quanto sulle metodologie
utilizzate per il taglio della pietra. L’immagine di cui alla figura 9 è stata
scattata ad est della Grande Piramide in un’area dove sono stati distribuiti
blocchi in basato, probabilmente utilizzati per la costruzione del
monumento. Si nota ad occhio, la particolare incisione sul monolite che
taglia trasversalmente, da sinistra verso il centro, la pietra. La particolarità
della fenditura è straordinaria, poiché testimonia non solo la precisione, ma
anche l’abilità dell’autore di eseguire un’opera eccezionalmente complessa.
Secondo il ricercatore inglese, poiché l’incisione finisce all’interno della
giuntura con il blocco adiacente, significa che è stata realizzata prima che il
monolite fosse congiunto con il successivo. Dunn ritiene che per la
realizzazione di una simile tipologia di taglio, sarebbe stato necessario
l’impiego di una sega circolare.
La realtà espressa dall’immagine è estremamente dirompente. E’ evidente
che un’operazione così precisa, sarebbe stata impossibile con l’ausilio di
scalpellini in rame utilizzati in epoca dinastica. Quindi, partendo da queste
evidenze, l’ipotesi del possibile utilizzo di tecnologie avanzate prende
decisamente corpo nella formulazione delle teorie avanzate dall’esperto
ricercatore. L’incisione rilevata, sembra assumere la funzione di recidere,
metaforicamente, le vecchie teorie ufficiali, aprendo di fatto un nuovo
percorso nell’indagine archeologica sulle origini e sulle potenziali
conoscenze scientifiche della Civiltà delle Piramidi.
Nel corso delle sue investigazioni, Dunn ha notato la presenza di una
moltitudine di blocchi che presentavano delle caratteristiche molto sospette.
Tra questi, è molto interessante analizzare un monolite rinvenuto ad un
centinaio di metri dalla Seconda Piramide di Giza, abbandonato nella sabbia
del deserto, nonostante la particolarità della lavorazione a cui è stato
sottoposto in epoche passate.
Si tratta di un monolite in granito rosso proveniente dalle cave di Assuan,
nel sud dell’Egitto.
In questo caso, siamo in presenza di un’opera davvero particolare. Non è il
solito blocco squadrato, ma si tratta di una vera e propria scultura. Il blocco
di granito è stato perfettamente plasmato, con perizia e precisione da mani
esperte e con l’uso di strumenti adatti. Le scanalature e le bombature che si
rilevano a vista, danno la sensazione che il blocco dovesse avere una
propria centralità nell’opera complessiva realizzata, poiché è evidente
l’intento dell’autore di realizzare una piccola nicchia - direttamente dal
monolite grezzo - delimitata da una colonna.
La precisione del taglio, della sagomatura e del calcolo del diametro, sono a
dir poco eccezionali e alimentano sempre di più i dubbi sulla capacità degli
scalpellini dinastici nel realizzare opere tanto complesse. Secondo l’autore,
il blocco originario è stato sottoposto ad un processo di lavorazione molto
articolato e, la precisione dell’opera, dimostra che la pietra è stata lavorata
con un macchinario di estrema precisione. Analizzando le tracce sul
reperto, Dunn ha notato una sequenza particolare di indizi che
confermerebbero la sua ipotesi. Nelle tracce rilevate all’interno delle zone
sottoposte a taglio, infatti, ha individuato delle impercettibili scanalature
che lasciano ipotizzare l’utilizzo di seghe circolari ad ultrasuono. Inoltre, la
conferma della sua teoria potrebbe derivare da un’altra traccia molto
interessante. Esattamente nel punto di taglio - nella congiunzione con la
sagomatura della colonna - Dunn ha notato che i due componenti formano
un preciso angolo di 90°. Un dato estremamente unico se ci riferiamo agli
utensili dinastici, ma assolutamente possibile se si ipotizza l’uso di
tecnologia.
Ma gli indizi non finiscono qui. Nel corso del suo lavoro che lo ha occupato
per quasi un decennio, ha visitato molti siti archeologici realizzati nell’Alto
e Basso Egitto. Quindi, la peculiarità del suo lavoro non è focalizzata - solo
ed esclusivamente - all’investigazione sui maestosi edifici che dominano la
Piana, ma ha interessato l’intero territorio egiziano che ha ospitato le
vestigia dell’antica civiltà nilotica. Tuttavia, gli indizi più significativi li ha
raccolti nelle opere realizzate a Giza e non solo nei pressi delle piramidi,
ma anche nei templi a valle della Sfinge.
Nella formulazione della mia teoria sul Progetto Unitario di Giza, i
maestosi templi sono parte integrante del complesso architettonico e,
pertanto, non sorprende il fatto che vi abbia trovato delle tracce
significative, a conferma della mia ipotesi. Dunn, infatti, analizzando il
tempio della Valle ai piedi della Sfinge, ha riscontrato un elemento che ha
colpito la sua attenzione. Si tratta di un foro realizzato in un architrave,
posizionato nel padiglione sud-est all’interno del Tempio della Valle. La
precisione di esecuzione è davvero ammirevole, ma ciò che impressiona
sono i piccoli solchi, ancora evidenti, del lavoro di perforazione.
Secondo il ricercatore inglese, le striature non sono residui di lavorazione
da scalpellino, bensì la sagomatura di un trapano a punta circolare
scanalata, usata per bucare il blocco di granito rosa proveniente dalle cave
di Assuan.
Partendo dai risultati delle sue analisi sui reperti ha deciso di spostare la sua
attenzione sugli edifici di Giza e, in particolare, sulla Grande Piramide.
Secondo le sue teorie, la civiltà perduta che abitò il delta del Nilo, concepì
l’edificio come una “centrale di produzione di energia”.
Le ipotesi di Dunn, però, non sono supportate da nessuna concreta proposta
scientifica, una lacuna sostanziale che ha indebolito prepotentemente le sue
conclusioni, facendo passare in secondo piano un lavoro d’investigazione
molto persuasivo sulle tecniche di lavorazione della pietra.
In ogni caso, quando le sue teorie sono state pubblicate, hanno catalizzato
l’attenzione degli addetti ai lavori e di molti appassionati di misteri
dell’antichità, soprattutto per l‘originalità della proposta e per le prove a
sostegno della tesi.
Dal suo lavoro è possibile ricavare una serie di principi fondamentali,
soprattutto se esaminati secondo un preciso meccanismo di comparazione.
Se volessimo considerare fondate le teorie ufficiali, infatti, dovremmo
sostenere che le incisioni, le modellature ed i fori eseguiti nei blocchi di
granito, sarebbero stati prodotti con l’uso di semplicissimi strumenti, quali
scalpellini ed altri arnesi di incisione in rame, in uso durante la IV dinastia.
La teoria di Dunn, quindi, confermerebbe l’esistenza di una civiltà remota
che si è resa protagonista di uno sviluppo scientifico di assoluto rilievo,
tanto da poter lavorare le pietre più dure, esistenti in natura, con estrema
semplicità. Tuttavia, le sue conclusioni sono fortemente limitate
dall’incapacità di dimostrare le metodologie usate e, soprattutto, i processi
adottati per produrre la quantità di energia sufficiente a far funzionare gli
strumenti di taglio e/o perforazione.
La problematica, peraltro, è dalla scarsissima - per non dire inesistente -
quantità di reperti che possano testimoniare, tangibilmente, l’uso di un
qualche macchinario. L’unica prova concreta sono i blocchi usati per
edificare le tre piramidi di Giza, la cui lavorazione è la dimostrazione
lampante che i progettisti avevano acquisito delle competenze davvero
notevoli, non solo nell’operatività tecnica, ma anche nell’organizzazione
dell’intero progetto.
Sappiamo, ad esempio, dall’Egittologia che la realizzazione dell’opera ha
richiesto un impiego di risorse eccezionale, soprattutto in considerazione
dell’utilizzo di granito provenienti dalle cave localizzate a sud dell’Egitto,
posizionate ad una distanza di circa mille chilometri. Ma ancor più
inspiegabile è la pianificazione progettuale che richiede delle competenze
tecniche specifiche. Considerando che nel corso dell’Antico Regno gli
Egizi non erano a conoscenza neppure della prospettiva, l’impresa diventa
ancora più inspiegabile razionalmente.
Perché le costruzioni potessero reggere, infatti, era necessaria una perfetta
padronanza della topografia di Giza, della geologia dell’area, nonché del
disegno geometrico. Una conoscenza che gli Egizi non possedevano.
Peraltro, ad una fase progettuale deve necessariamente corrispondere una
fase esecutiva, a partire dalla scelta dei materiali, dalla conseguente
estrazione, trasporto e messa in opera.
La fase di estrazione rappresenta un vero e proprio enigma, poiché ottenere
dei blocchi di granito di dimensioni eccezionali e del peso che sfiora le 60
tonnellate è complicato ancora oggi. In questo caso, l’unica teoria che può
spiegare un lavoro così complesso è proprio quella formulata da Dunn.
Infatti, la tesi proposta in ambito accademico, riferita all’utilizzo di cunei in
legno imbevuti di acqua, usati per spaccare la pietra, presta il fianco a non
poche perplessità. Se fosse vera, dovremmo ipotizzare che gli scalpellini
egizi erano in grado di perforare la roccia per almeno un metro e mezzo per
poter infilare i cunei in legno ed ottenere un lavoro accettabile, nella
speranza che il blocco non subisse fratture irreparabili.
La stessa levigatura del blocco estratto, nonché la precisa squadratura,
rappresentano opere assolutamente straordinarie per l’epoca. E’ davvero
inconsistente l’idea di associare gli operai egizi, ricurvi sui blocchi di pietra,
nell’intento di lavorarli con scalpellini e seghe di rame non dentellate. Così
come inspiegabile è tutta la fase di trasporto verso Giza, in un tempo in cui
non esisteva ancora l’uso della ruota. Pertanto, se la via terrestre era
improponibile, risulta altamente improbabile anche quella fluviale, la quale
avrebbe richiesto l’impiego di infrastrutture adeguate a sostenere pesi
eccezionali, nonché l’impiego di una flotta mercantile imponente. Se
volessimo accettare le teorie ufficiali, dunque, potremmo concludere che –
con ogni probabilità – le piramidi non sarebbero mai state realizzate, a
causa dell’inconsistenza culturale, tecnica ed operativa degli Egizi del
tempo. Per questo motivo, le teorie di Dunn rappresentano un punto di
partenza molto importante, confortate dall’evidenza dei reperti che
confermerebbero l’impiego di tecnologie ancora sconosciute.
Piramidi: nient’altro che teorie!

Le teorie proposte dall’ingegnere americano Christopher Dunn, appaiono


scientificamente più interessanti della quantità di assiomi accademici, a loro
volta, assolutamente indimostrabili. La realtà che si respira nel mondo della
ricerca, è la sintesi di un paradosso davvero bizzarro, dove l’indimostrabile
acquisisce un’autorevole condizione di preminenza sull’evidenza dei fatti.
Purtroppo, la materia in oggetto è particolarmente articolata, poiché si
sviluppa su piani di indagine interdisciplinari, i quali – per propria natura –
vanno oltre la pura osservazione archeologica. Fino alla fine degli anni ’80,
ad esempio, il tema inerente le abilità tecniche conseguite nel corso del
periodo dinastico, è stato svolto con estrema disinvoltura dagli egittologi di
turno, i quali nella tutale superficialità, hanno prodotto ipotesi che, alla luce
dei fatti, si ammantano di una veste particolarmente imbarazzante.
Ad esempio, alcuni ricercatori – tra i quali l’eminente Mark Lehner -
nell’intento di bypassare le incongruenze tecnico-scientifiche evidenziatesi
con la teoria delle “rampe lineari”, hanno avanzato l’ardita ipotesi dell’uso
delle “rampe a spirale”. L’illuminazione è una diretta conseguenza della
presa di coscienza della difficoltà di proporre scientificamente la teoria
delle “rampe lineari”. Secondo Lehner, l’utilizzo delle rampe a spirale
avrebbe potuto ridurre i tempi di costruzione dell’edificio, poiché avrebbe
evitato la necessaria modifica dei piani di inclinazione delle rampe, in
quanto quelle a spirali si sviluppavano a stretto contatto con le facciate del
monumento.
Tuttavia, anche questa ipotesi genera alcuni dubbi sulla sua efficacia.
Premesso che, tecnicamente, la teoria potrebbe senz’altro integrarsi con la
tipologia dei blocchi in arenaria utilizzati per edificare il monumento,
poiché di dimensioni e peso relativamente contenuti, essa perde consistenza
nel momento in cui si confronta con le dimensioni ed il peso dei blocchi in
granito utilizzati per costruire la Camera del Re e lo Zed. Risulta, infatti,
particolarmente ostico ipotizzare che gli operai siano stati in grado di
trasportare – in salita e con pendenze improponibili – monoliti del peso
complessivo oscillante tra le sessanta e le ottanta tonnellate, considerando
gli ingombri lineari dei blocchi pari ad oltre 10 metri.
Per questa ragione, Knud Holscher, un architetto di origini danesi con la
passione per l’Egittologia, propone agli inizi del secolo, una nuova variante
alla teoria delle rampe, inventando l’ipotesi delle “rampe a zig-zag”, le
quali, nell’immaginario dell’architetto nordico, avrebbero ottimizzato le
procedure di costruzione delle piramidi. Tuttavia, il loro impiego, avrebbe
comportato un duplice problema: i tornanti avrebbero dovuto avere delle
angolazioni molto ampie per far passare i monoliti e, soprattutto, le rampe
avrebbero dovuto avere una struttura adeguata per sostenere il peso dei
blocchi. In buona sostanza, la loro costruzione avrebbe comportato uno
sforzo superiore alle stesse rampe lineari.
Così, ad un certo punto della storia dell’Egittologia, la teoria delle rampe
perde progressivamente peso, lasciando spazio ad altre ipotesi, in larga
parte provenienti dalla cosiddetta scuola indipendente, le quali, per certi
versi, sembrano tecnicamente più attendibili.
Un gruppo di archeologi e ricercatori italiani ha proposto una soluzione
interessante per il trasporto dei blocchi dalle cave al sito di costruzione,
prendendo in considerazione una serie di reperti a forma di slitta, rinvenuti
durante alcune operazioni di scavo. Le slitte, secondo l’équipe italiana,
erano utilizzate semplicemente per il trasporto dei blocchi di minor peso. Il
problema maggiore si poneva per i blocchi più grandi. In questo caso, però,
sono riusciti a dimostrare che era possibile caricarli sulle slitte utilizzando
un sistema di piani inclinati. L’esperimento ha dimostrato che è possibile
sollevare un masso di tre tonnellate per un metro di lunghezza: per farlo,
quattro persone ci hanno impiegato circa 10 ore-uomo.
Questa ipotesi sarebbe più esaustiva di quelle proposte in ambito
accademico, se non presentasse una quantità di problemi oggettivi: i tempi
di caricamento, i tempi di trasporto dalla cava al cantiere e, soprattutto, il
fatto che doveva essere trainata nella sabbia del deserto per distanze
siderali[24].
E’ stato stimato che la Grande Piramide è composta da circa 2.300.000
blocchi. Per sistemarli tutti in 20 anni - ovvero il tempo di regno stimato per
Cheope - dovevano essere impiegati poco più di cinque minuti per
sistemare ogni blocco, accettando un calcolo per eccesso. Pertanto,
considerando la precisione impiegata dai costruttori e la dimensione dei
macigni, è evidente che, cinque minuti per blocco, sembrano davvero
pochini! In particolare, se alla messa in opera aggiungiamo tutte le fasi di
estrazione, taglio e trasporto dei blocchi, l’ipotesi dei ricercatori italiani
diventa del tutto improponibile.
Sull’argomento sembra doveroso richiamare la teoria proposta da un
italiano, Elio Diomedi, che – a suo tempo - ha incontrato non solo
l’apprezzamento di Zahi Hawass, ma ha ricevuto ospitalità in trasmissioni
prestigiose, tra le quali Voyager. Diomedi sostiene che la stessa piramide fu
utilizzata come struttura di trasporto. Gli enormi blocchi di granito non
avrebbero mai potuto essere trasportati e sollevati a quelle altezze con i
sistemi in uso in quelle epoche. Pertanto, era necessario utilizzare la stessa
piramide per trasportare i blocchi, via via fino in cima. Così, Diomedi ha
ipotizzato l’utilizzo di un sistema di gallerie interne che avevano funzione
di rampe per trasportare i blocchi ai vari livelli.
Questa teoria – nell’assordante silenzio dei soliti lacchè - qualche anno
dopo, è stata copiata di sana pianta dal francese Jean Pierre Houdin, la cui
genialità è, tuttora, incensata! In ogni caso, la teoria delle gallerie interne
alla piramide proposta – sia da Diomedi che dal copista Houdin - non hanno
trovato riscontro nella realtà, poiché non è stata rilevata traccia di gallerie
all’interno della Grande Piramide.
Le teorie legate alla costruzione delle Piramidi si completa con le tesi
proposte da Graham Hancock e John Anthony West che prendono spunto da
alcune raffigurazioni pittoriche rinvenute in Egitto. Da esse, si evince una
connessione, molto interessante, con i fenomeni della “levitazione sonica”,
ovvero della capacità di sollevare pesi con il semplice utilizzo di suoni e,
quindi, di frequenze. Tuttavia, questa affascinante ipotesi non è supportata
da esperienze di natura scientifica.
Il compianto ingegnere Mario Pincherlè, autorevole ricercatore italiano, ha
dedicato molto tempo della sua vita a studiare i misteri della Piana di Giza.
In particolare, egli si è soffermato sulla funzione della colonna Zed
all’interno della Grande Piramide. Nel corso dei suoi studi, Pincherlè ha
proposto una propria ipotesi sulle tecniche di trasporto dei monoliti,
sostenendo la seguente tesi: i blocchi erano sollevati grazie all’utilizzo di
tavolette di legno che, poste in specifici punti e opportunamente bagnate,
subivano un aumento del volume e, quindi, sollevandoli di qualche
millimetro, rendevano le operazioni di carico e di trasporto molto più
agevoli. La procedura poteva essere adeguata a qualsiasi tipologia di blocco
e a qualsiasi peso. La teoria è, certamente, più interessante tra quelle note,
tuttavia non risolve il problema dei tempi di trasporto e tantomeno quelli di
posizionamento.
Molto suggestiva e, per certi versi divertente – in questo caso, è richiesta al
lettore la capacità di riprodurre le immagini nella propria mente per
apprezzarne l’umorismo – è l’ipotesi secondo la quale gli egizi, per
trasportare i blocchi con maggiore velocità, avrebbero utilizzato dei
rivestimenti circolari in legno da applicare ai blocchi di pietra. Ciò avrebbe
reso più agevole il trasporto, facendoli rotolare nel deserto, riducendo così
l’incidenza della fatica.
Immaginiamo, dunque, questo stuolo di operai che rotolano enormi “palle”
contenenti blocchi di pietra, lungo il deserto, per centinaia e centinaia di
chilometri… nella speranza di non trovare mai una duna in salita sul loro
percorso!
Inoltre, una semplice riflessione sembra inevitabile: considerando che l’uso
della ruota era pressoché sconosciuto, per quale motivo gli egizi avrebbero
dovuto usare supporti circolari e non hanno costruito direttamente un
supporto su ruota che avrebbe reso molto più semplice il trasporto?
Molto interessante, invece, sembra essere la “Teoria della pietra
ricostituita”, proposta dallo studioso Joel Bertho, il quale sostiene che -
sulla base di appositi studi e analisi in loco - i blocchi di pietra - utilizzati
per la costruzione della Grande Piramide - altro non sono che il risultato di
un impasto riversato in apposite forme di legno, così da dare l’impressione
finale di un blocco unico. Questo sistema, qualora appurato, risolverebbe
quasi tutti gli interrogativi sulla costruzione delle Piramidi di Giza, ma al
momento, anche questa teoria rimane confinata nell’oblio.
Infine, per sottolineare quanto le ipotesi finora indicate non tengono in
alcun conto la realtà dei fatti, vorrei proporre una riflessione molto
semplice: le piramidi costruite durante la V Dinastia, versano in condizioni
pietose. Molte di esse sono crollate o sono prossime al tracollo. Questo
significa che le tecniche sopraffine della IV Dinastia – durante la quale sono
stare costruite le meraviglie del complesso di Giza - sono state
improvvisamente dimenticate nel breve volgere di circa 100 anni. Nel 2.380
a.C., Unas – ultimo Faraone della V Dinastia - diede inizio alla costruzione
della propria Piramide, ricordata per la bellezza dei geroglifici catalogati nei
cosiddetti “Testi della Piramide” e dipinti all’interno della camera
sepolcrale. Oggi, la Piramide di Unas è ridotta ad un cumulo di macerie, o
quasi.
Volendo fare un raffronto con i nostri tempi, si può dire che la moderna
civiltà tecnologica è riuscita a produrre una splendida Ferrari F1 nel 1.900,
mentre nel 2014, non è stata più in grado di produrre neppure una carretto
su due ruote.
Una vera e propria astrusità!
Sull’argomento, ritengo interessante proporre una riflessione proposta da
Manuel Josè Delgado, archeologo di origini spagnole, pubblicata sulla
rivista Hera nel 2006:
«I faraoni della V Dinastia, immediatamente posteriori a Cheope, Chefren
e Micerino, scelsero Abusir per elevare le loro piramidi. (…) A rigor di
logica, le piramidi di Giza, essendo più antiche, dovrebbero essere meno
avanzate di quelle di Abusir, allo stesso modo in cui un modello di
automobile degli anni ‘30 o un computer degli anni ‘80 sono arretrati
rispetto all’ultimo modello appena uscito dalla stessa fabbrica. Come
spiegare il fatto che, invece, accadde esattamente l’opposto? La risposta
potrebbe risiedere nella differenza dei fabbricanti o della tecnologia. (…)
Seguendo questo ragionamento, potremmo pensare che mentre ad Abusir
abbiamo davanti agli occhi quello che erano capaci di fare gli antichi egizi
con la loro tecnologia, la maggiore perfezione di Giza sarebbe dovuta al
fatto che tale congiunto monumentale è stato realizzato da un’altra
“industria”. Tutte le civiltà hanno un carattere evolutivo. Man mano che il
tempo passa, gli edifici sono più alti, i ponti più grandi, le comunicazioni
più precise e la medicina più efficace. Non può essere in altro modo. Per
questo è inconcepibile che la cultura faraonica sia l’unica in cui si
produsse un’involuzione. Di conseguenza è il caso di chiedersi se in Egitto
possano essersi succedute o sviluppate contemporaneamente due culture
differenti. La Grande Piramide di Giza, l’unica meraviglia del mondo
antico ancora esistente, fu l’opera di maggior perfezione di tutta
l’antichità. (…) Tuttavia, mentre gli ingegneri e gli architetti esprimono la
loro meraviglia davanti a una tale prodezza, gli egittologi risolvono la
questione affermando che il monumento è il prodotto dell’evoluzione
culturale egizia. Alla mastaba (sepoltura tradizionale), si aggiungessero via
via altre sezioni, sino ad arrivare alla forma piramidale a gradoni ideata
dal grande Imhotep per il faraone Zoser durante la III Dinastia. Solamente
36 anni più tardi il faraone Snefru aggiungerà a questo tipo di piramide i
blocchi di rivestimento, ottenendo così la prima piramide a facciate lisce.
Su queste fondamenta, suo figlio Cheope avrebbe costruito la Grande
Piramide. (…) Tuttavia, ciò è impossibile. Da quando Imhotep fece
innalzare la prima pietra della piramide di Saqqara, sino al momento in cui
Cheope diede inizio alla costruzione del proprio monumento passarono
solamente 79 anni. (…) pensiamo al tempo necessario a una popolazione
agricola e di allevatori di bestiame per apprendere la difficile arte della
costruzione e portare a termine la formazione tecnica di un personale
qualificato; tentiamo di comprendere quale fosse l’apparato statale
necessario per tenere in piedi lo sviluppo di una tale opera; e teniamo
conto del fatto che quella cultura stava attraversando l’Età del Rame, non
conosceva (ufficialmente) né la puleggia, né la ruota e non disponeva di
grandi mezzi di comunicazione. Ad ogni modo, ammettiamo per un
momento che fossero riusciti a erigere una delle grandi meraviglie del
mondo in tali condizioni. Cosa accadde in seguito? Come spiegare
un’involuzione tanto pronunciata della tecnologia delle costruzioni, che
produrrà piramidi tanto imperfette e rudimentali, se paragonate a quelle di
Giza? (…) Come per la maggioranza delle piramidi della V Dinastia, la
tecnica impiegata è infima. Il rivestimento costituito da blocchi di calcare
nasconde strati di piccole pietre cementate con fango. Gli spazi vuoti tra i
calcinacci venivano riempiti con la sabbia. Non si può certo parlare di
evoluzione costruttiva, né spiegare come, partendo dalla Grande Piramide,
si sia potuto arrivare a questo ammasso di macerie. (…) Non si capisce,
però, come mai la tecnica acquisita e consolidata non venisse applicata in
questi nuovi complessi, come indica il fatto che il livellamento della prima
fila di pietre della Grande Piramide presenti un errore di mezzo centimetro
in altezza su 54.000 m2 della sua base, mentre la prima fila di blocchi della
piramide di Sahure presenta un dislivello di più di 1,5 m. (…) Nel Museo
Archeologico del Cairo, nella sala che contiene gli strumenti impiegati
durante l’Antico Regno per tagliare i massi, troviamo martelli di legno,
scalpelli di rame e asce di pietra. Quando ci troviamo davanti a tagli di
sega che incidono nel granito per una profondità di 2 mm a ogni passaggio
o a fori realizzati da trapani che penetrano nel quarzo per 2,5 mm a giro,
con una forza di penetrazione 50 volte maggiore di quella delle nostre
moderne perforatrici al diamante o alla widia (carburo di tungsteno),
siamo obbligati a chiederci chi abbia realizzato tali prodigi. (…) Per quale
motivo i faraoni della V Dinastia costruirono le proprie piramidi con la
stessa tecnica utilizzata sotto la III Dinastia, come se la IV Dinastia non
fosse esistita e l’esperienza acquisita nell’erigere l’intero complesso della
piana di Giza non fosse servita a nulla? Non è logico né sensato. (…)
Cheope, Chefren e Micerino non siano i reali promotori dei monumenti che
oggi portano i loro nomi, bensì gli usurpatori di un complesso costruito
prima di loro. Questo è ciò che affermano alcuni documenti come la Stele
dell’Inventario, in cui Cheope denomina la Grande Piramide “Tempio di
Iside” e “Monumento degli Antenati”».
3. Archeoastronomia e Misteri
Dalle stalle… alle stelle!

Nei capitoli precedenti, ho cercato di evidenziare le labili fondamenta sulle


quali poggiano le teorie ufficiali, ponendo attenzione alle tesi che spiegano
le ipotetiche procedure adottate dagli Egizi dinastici per la progettazione e
costruzione dei monumenti di Giza. Al contempo, mi sono brevemente
soffermato sulle teorie che avrebbero dovuto giustificare l’evoluzione
“tecnologica” della civiltà egizia che ha permesso la realizzazione del
complesso monumentale di Giza.
Lo studio ha mostrato che l’Egittologia – per quanto attiene la questione
Giza – ha adottato molteplici forzature che restituiscono un’immagine delle
origini del Progetto Giza decisamente falsata rispetto alle evidenze
archeologiche.
L’esigua disponibilità di reperti, per quanto sia fortemente condizionante,
non giustifica una ricostruzione delle società del tempo piena di forzature e
difforme dalla pura oggettività.
Anzi, per quanto possa sembrare una contraddizione, esse rappresentano
uno strumento indispensabile per approfondire lo studio sul passato remoto
di Giza, poiché è evidentemente impossibile riuscire a spiegare, in maniera
scientificamente accettabile, la maestosità delle opere realizzate
aggrappandosi agli arzigogoli accademici.
L’ipotesi empirica sbandierata dagli egittologi risulta, ampiamente
ingiustificabile, poiché è dimostrato che gli Egizi dinastici non avevano
maturato le condizioni necessarie per poter applicare complesse nozioni di
geometria, matematica, astronomia e fisica per realizzare le piramidi.
Esse sono strutture che – per la loro edificazione - richiedono ben altre
conoscenze. E’ chiaro, ormai, che solo la piena conoscenza delle scienze e
la relativa sperimentazione interdisciplinare, avrebbe consentito alla Civiltà
del tempo di poter realizzazione un’opera di tale portata.
Purtroppo, gli Accademici si ostinano a percorrere derive concettuali che
precludono qualsiasi confronto che possa contribuire – nelle forme e nei
modi scientificamente plausibili – alla ricostruzione delle dinamiche che
hanno caratterizzato il periodo storico più oscuro della nostra specie.
Pertanto, è giunto il momento di acquisire per certo che una civiltà
sostanzialmente semi-primitiva – così come riconosciuto dagli stessi
egittologi ed antropologi, nonché pienamente inserita nell'età del rame –
non avrebbe potuto sistemare - una sull’altra - circa 21 milioni di tonnellate
di pietre, in poco più di un secolo, di cui 12 milioni solo sulla Piana Giza.
Inoltre, le perfette simmetrie astronomiche, la totale conoscenza delle
caratteristiche geofisiche del pianeta, l’applicazione scientifica delle
costanti matematiche, quali il ☐ (pi-greco) ed il ☐ (phi-greco), spingono
l’attenzione in altre direzioni, per risolvere uno dei misteri più complessi
della storia dell’umanità.
Ricostruire con precisione le fasi che hanno portato alla realizzazione dei
monumenti, significa aprire una finestra anche sui risvolti esoterici che le
simbologie rappresentano. I progettisti le hanno consegnate all’architettura
di Giza, rendendole accessibili solo ad una ristretta casta di iniziati che
perpetuano, nel tempo, la loro preservazione.
E’ giunto, quindi, il momento di incamminarci verso la Teoria dello Zep
Tepi e del Progetto Unitario di Giza, partendo dalla certezza che le opere
monumentali sono state edificate in un’epoca molto remota.
Pertanto, al fine di conseguire un risultato accettabile – che soddisfi
scientificamente la teoria - ho impostato la ricerca seguendo schemi
diametralmente opposti rispetto a quelli tradizionali; un’inversione di
tendenza che, alla luce dei fatti, si offre come un vero e proprio obbligo
morale verso se stessi, nel pieno rispetto del nostro passato remoto!
L’associazione tra ricerca archeologica e indagine multidisciplinare, ha
aperto una breccia fondamentale che mi ha permesso di individuare – non
solo le inesattezze delle teorie proposte – ma anche la strada per arrivare ad
un’esaustiva interpretazione dei misteri del tempo. Questo approccio
tecnico, già introdotto da Robert Bauval nel 1993, ha consentito anche di
garantire una legittima razionalità alle costruzioni di Giza, piegando
l’inconsistenza delle dottrine imperanti e veicolando una piccola fetta di
ortodossi ad esercitare una maggiore attenzione alle innovative tesi della
“nouvelle vague”!
Nella storia dell’Egittologia, molti ricercatori hanno proposto particolari
tesi per giustificare le caratteristiche tecnico-scientifiche dei monumenti
edificati sulla piana di Giza. Uno dei più importanti egittologi della storia
contemporanea, Sir William Flinders Petrie, ha proposto per primo le
importanti correlazioni matematiche e geometriche presenti nella
costruzione della Grande Piramide. Ed è proprio all’eminente egittologo
che si deve l’accurato studio che ha portato a definire, “di areazione”, la
funzione dei condotti realizzati nelle cosiddette Camere del Re e della
Regina.
Le sue osservazioni possono essere considerate, senz’altro, propedeutiche,
poiché dai suoi studi si sono sviluppate le prime ipotesi sull’eventuale
correlazione tra Grande Piramide - e più in generale del complesso di Giza -
con le stelle della Costellazione di Orione. I suoi studi hanno stimolato
alcuni ricercatori ad azzardare che, questi monumenti, potessero essere dei
veri e propri osservatori astronomici.
Queste ipotesi sono state confortate dallo studio degli autori classici, i quali
hanno testimoniato la capacità dei sacerdoti egizi di osservare la dinamica
astronomica degli astri nelle fasi notturne, così da determinare i calendari, i
cicli lunari e il sopraggiungere degli equinozi e dei solstizi. I primi
convincimenti che le piramidi di Giza fossero in correlazione con gli astri,
si manifestano nel corso del XIX secolo e, sono ispirate, dalle osservazione
dell’archeologo americano Martin Isler, il quale si era convinto del fatto che
il perfetto allineamento dei monumenti ai punti cardinali, non era altro che
un sistema per migliorare al massimo i punti di osservazione
astronomica[25].
Questa teoria è stata considerata “pura eresia” dai suoi colleghi archeologi,
fin quando - nella seconda metà del secolo scorso - lo studio sulla
correlazione astronomica del sito, diventa un punto fondamentale dal quale
partire, per comprendere le nozioni scientifiche sviluppate dalla perduta
Civiltà delle Piramidi.
L’astronoma americana Virginia Trimble e l’egittologo Alexander Badawy,
negli anni sessanta, sono riusciti a dimostrare che il Condotto Sud della
Camera della Regina era puntato, come una canna di fucile, verso la Cintura
di Orione, in un periodo compreso tra il 2.600 ed il 2.400 a.C. Badawy
giunse alla conclusione che il condotto sud puntava deliberatamente sulla
costellazione, per permettere all’anima del Faraone di intraprendere il
viaggio celeste verso la Regione della Duat.
Si trattò di una scoperta sensazionale che apriva la strada ad una nuova
interpretazione del Mistero di Giza, fino ad allora imprigionato negli
stereotipi classici dell’Egittologia.
Essa, tuttavia, fu completamente ignorata fino agli inizi degli anni ’80,
quando il prof. I.E.S. Edwards, con particolare discrezione, cominciò ad
approfondirne i contenuti.
Si stava aprendo, così, un nuovo modo di concepire l’egittologia: non più
strenuo ed anacronistico percorso di ricerca - incentrato solo ed
esclusivamente sulla classica analisi e catalogazione dei reperti - bensì
un’analisi a 360°, corroborata dal costante confronto con la
multidisciplinarietà, nello sforzo estremo di entrare in frequenza con una
cultura antica, custode di un profondo Sapere.
Lo studio di Trimble e Badawy ha ispirato Robert Bauval e molti altri
“indipendenti” che - dall’ingegnere nato ad Alessandria d’Egitto - hanno
attinto per integrare la ricerca archeo-astronomica.
Ma anche esperti del calibro di Scwhaller de Lubicz, Jane B. Sellers, Selim
Hassan, Samuel Alfred Browne Mercer e Giorgio de Santillana hanno reso
un contributo notevole allo sviluppo di questo innovativo percorso di
ricerca. I loro studi hanno creato uno strappo notevole con la comunità
accademica, ma al contempo, hanno dato impulso ad una “rivoluzione
culturale” che ha determinato nuovi modelli di approccio allo studio delle
civiltà antiche e, di quella egizia in particolare.
Il filosofo e storico Schwaller de Lubicz sosteneva - in una delle sue opere
più note, “Le Miracle égyptien”, scritta a Parigi nel 1963 - che i veri
depositari delle Scienze erano gli Egizi, i quali - sulla via del tramonto -
decisero di tramandare ai Greci le loro conoscenze scientifiche. Un pensiero
dirompente, per la cultura dell’epoca, che non esitò a guardare con sospetto
il concetto di “Scienze” adoperato dall’illustre studioso francese.
Il contributo di Giorgio de Santillana e di Hertha von Deschend è stato
importantissimo, poiché per la prima volta, il Mito è stato interpretato in
tutta la sua ermetica simbologia astronomica, ponendo in evidenza la
centralità del ciclo della Precessione degli Equinozi nelle antiche culture.
“Il mulino di Amleto” – pubblicato nella sua prima edizione, nel 1969 - ha
avuto un effetto ancora più esplosivo sulla comunità accademica ortodossa.
Altrettanto importante, è stato il contributo di Jane Sellers la quale,
attraverso un approfondito studio sui Testi delle Piramidi, ha dimostrato
come – tra i misteriosi geroglifici - sono richiamati precisi elementi di
astronomia. Secondo la studiosa americana: «(…) la conoscenza
dell’astronomia antica rappresenta uno strumento fondamentale per poter
capire la storia delle culture, delle architetture sacre e delle religioni nella
loro evoluzione storica e nelle tradizioni mitiche dell’Antico Egitto (…)»[26].
Inoltre, la Sellers ha, apertamente, sostenuto l’ipotesi secondo la quale gli
antichi egizi avevano imparato a calcolare la Precessione degli Equinozi,
seppur non l’avessero compresa da un punto di vista scientifico (in questo
caso, adeguandosi all’ipotesi empirica proposta in ambito accademico,
n.d.a.). Le puntualizzazioni della Sellers, tuttavia, assumono un valore
importantissimo, poiché rappresentano una pietra miliare nell’evoluzione
delle posizioni ortodosse, verso orientamenti più inclini ad un approccio
multidisciplinare dello studio delle civiltà remote.
Il contributo di Selim Hassan e di Samuel A. B. Mercer ha stravolto i
canoni della religione egizia. Con questi autorevoli ricercatori vengono
introdotti i primi concetti che aprono ad una concezione stellare della
religione, collegandola alle dinamiche astronomiche, attraverso complessi
rituali «destinati a rivalutare la funzione sacra della rinascita dopo la
morte»[27].
Infine, Robert Bauval – dopo aver opportunamente assimilato le opere dei
suoi predecessori - ha sviluppato, tra il 1983 ed il 1993, la sua Teoria della
Correlazione. Egli ha saputo concentrare, in una nuova visione del
paradigma Giza, decenni di approfondimenti sulla religione cosmica egizia,
giungendo alla tesi, secondo la quale esiste un’intima correlazione tra le
Piramidi maggiori di Giza e le stelle della Cintura di Orione. Bauval parte
da una semplicissima osservazione che ripropongo in tutta la sua
importanza: «Esse sono inclinate in direzione sud-ovest lungo una
diagonale relativa all'asse della Via Lattea, e le piramidi sono inclinate in
direzione sud-ovest lungo una diagonale relativa all'asse del Nilo. Se si
guarda attentamente in una notte serena si vedrà anche che la più piccola
delle tre stelle, quella situata in alto che gli arabi chiamano Mintaka, si
trova leggermente spostata a est rispetto alla diagonale principale formata
dalle altre due. Questo disegno è riprodotto sul terreno dove riscontriamo
che la Piramide di Micerino si trova spostata esattamente nella misura
giusta a est rispetto alla diagonale principale formata dalla Piramide di
Chefren (che rappresenta la stella centrale, Alnilam) e la Grande Piramide,
che rappresenta Alnitak. Risulta evidente che tutti questi monumenti furono
posizionati secondo una pianta generale modellata con straordinaria
precisione su quelle tre stelle... Ciò che realizzarono a Giza fu di costruire
la Cintura di Orione sul terreno»[28].
Nel libro Custode della Genesi è perfettamente sintetizzato questo momento
magico; il tentativo riuscito, da parte dei progettisti, di trasmettere una
conoscenza davvero stupefacente delle arti e delle scienze, della dottrina
teologica e della filosofia, in una forma geometrica-architettonica senza
precedenti. La Teoria di Bauval – nonostante tutto – continua ad essere
avversata senza opporre concrete eccezioni; considerata un ricettacolo di
clamorose coincidenze, è stata condannata all’ostracismo senza appello, in
ragione di uno scriteriato dominio della Casta che non ammette deroghe. A
nulla sono valse le dimostrazioni scientifiche a sostegno delle sue ipotesi.
La Teoria della Correlazione

La Teoria della Correlazione pubblicata da Robert Bauval nel 1993, deve


essere considerata una pietra miliare, poiché ha segnato una nuova era nello
studio della civiltà Egizia. Essa ha indirizzato lo studio sui misteri delle
Piramidi di Giza, secondo parametri scientifici multidisciplinari,
evidenziando – talvolta anche con profondo rammarico – come questo
argomento, sia stato bistrattato da inaccettabili imprecisioni e superficialità
provenienti dal mondo accademico. Non c’è una data precisa per indicare
l’inizio del suo iter di studi. Nel corso di nostre piacevoli conversazioni,
Bauval ha sempre sostenuto che l’Egitto è una parte indispensabile della sua
vita e, pertanto, le sue tesi ne sono una diretta conseguenza.
Agli inizi degli anni ottanta, ha intrapreso un percorso di ricerca per
approfondire la possibile connessione dei monumenti con le stelle,
arrivando a definire la propria teoria nel decennio successivo, scavando un
solco profondo tra due modi opposti di concepire la ricerca.
In oltre dieci anni, Bauval ha dimostrato che le tre Piramidi Maggiori di
Giza sono in allineamento con la Cintura di Orione e che le camere interne
alla Grande Piramide, presentano caratteristiche molto particolari, dovute
agli allineamenti dei condotti delle Camere del Re e della Regina con la
Volta Celeste.
A completamento del suo percorso, ha dimostrato che la Piana di Giza è
parte integrante di un progetto più ampio e complesso che coinvolge i siti
archeologici di Zawyat-al-Aryan e Abu-Rowash. Questi ultimi, uniti al sito
di Giza, formerebbero una riproduzione parziale e, apparentemente precisa,
della costellazione di Orione sulla Terra.
In sintesi, la sua teoria si propone di dimostrare che le tre Piramidi di Giza e
la Cintura di Orione - in una determinata epoca - erano in perfetta
corrispondenza e sincronia, basando la propria analisi sullo studio dei
fenomeni astronomici.
Egli parte dal presupposto che il complesso monumentale di Giza,
considerato nella sua interezza, non è stato concepito solo come semplice
raffigurazione della Cintura di Orione, bensì come un sistema astronomico,
o misuratore precessionale, in base al quale procedere alla misurazione
delle epoche cosmiche che hanno sostanzialmente condizionato la teologia
e la cosmologia dell’Antico Regno.
Fig. 10, L’autore con Robert Bauval, relatori alla International Conference
on Ancient Studies, Zayed University, Dubai (2010)

L’effetto ottico della precessione assiale della Terra, determina un


movimento retrogrado del punto equinoziale, il quale sembra spostarsi
lungo la Volta Celeste, attraversando tutte le costellazioni che, era dopo era,
ospitano l’equinozio. Questo fenomeno produce l’effetto di veder sorgere il
Sole in costellazioni primaverili diverse. Durante questa fase, è possibile
osservare che il sorgere del Sole avviene nella costellazione che domina
l’equinozio di primavera, indirizzando lo sguardo verso l’est vero. L’astro
risplende sullo sfondo della costellazione equinoziale, per tutto il tempo che
impiega ad attraversare i 30° dell’eclittica, in cui si estende la costellazione
equinoziale, ovvero in un periodo di circa 2.160 anni, concludendo un ciclo
completo ogni 25.920 anni circa.
La precessione della Costellazione di Orione, si sostanzia in due fasi
equamente suddivise: nei primi 13.000 anni Orione si trova a circa 11°08’
sull’orizzonte, ovvero nel punto più basso del suo moto apparente e inizia il
suo viaggio verso il punto più alto. Una volta raggiunto i 58° sull’orizzonte,
riprende il percorso inverso per altri 13.000 anni, fino a discendere verso il
punto più basso come in un preciso moto perpetuo.
Questo fenomeno interessa tutte le costellazioni dell’emisfero celeste che
danno la sensazione di spostarsi nel cielo, rispetto ad un determinato punto
di osservazione; tale fenomeno è noto anche come moto apparente delle
stelle. Esso determina anche la posizione della Stella Polare - quindi del
nord vero - nel corso delle epoche che, ciclicamente, tende
“apparentemente” a spostarsi, a causa del movimento ciclico dell’asse
terrestre.
Bauval, con la sua teoria, tenta di dimostra che gli astronomi Egizi non solo
avevano la possibilità tecnica di osservare la variazione delle coordinate
celesti, ma che in un arco di tempo di circa cento anni potevano constatare
il cambiamento nella declinazione e nell’altezza degli astri, con una certa
attendibilità. Secondo l’eminente studioso, la conoscenza di questo
meccanismo, avrebbe consentito agli Egizi di fissare l’epoca di riferimento
per la costruzione dei condotti interni della piramide. Così, dal punto
d’osservazione, conoscendo il ritmo di variazione delle coordinate celesti
degli astri, gli astronomi Egizi potevano fissare un riferimento terrestre nel
rapporto monumenti-stelle.
Se proprio volessimo sollevare un’eccezione, si può obiettare che Bauval,
nonostante tutto, non sembra in grado di chiarire come e perché gli Egizi,
nel 2.300 a.C. circa, fossero in possesso di un’ottima conoscenza della ciclo
della precessione, ed in particolare del moto precessionale di Orione.
Sostenere che fossero in grado di calcolare le coordinate celesti -
considerando le possibili variabili che si determinano in un dato arco di
tempo - e appurare che avessero specifiche competenze per verificare le
variazioni sia della declinazione che dell’altezza degli astri, significa
dichiarare che gli Egizi erano custodi dei segreti più reconditi
dell’astronomia.
Un dato mai riscontrato nei reperti giunti fino ai nostri giorni!
Bauval, inoltre, prende in esame anche gli allineamenti dei condotti delle
Camere interne alla Grande Piramide, nel tentativo di proporre un senso
compiuto alla loro funzione astronomica, integrandoli nel suo progetto di
studio.
Dopo la pubblicazione dei risultati della ricerca di Trimble e Badawy, agli
inizi del nuovo secolo l’ingegnere Rudolph Gantembrink, noto anche come
“padre” del robot Upuaut, ha contribuito a chiarire la funzione dei condotti
rinvenuti nella Camera del Re e della Regina all’interno della Grande
Piramide di Giza. Con il suo robot, ha esplorato il condotto sud della
Camera della Regina, scoprendo alcune porte interne e, soprattutto,
confermando la relazione astronomica tra i condotti e le stelle. I risultati dei
rilevamenti forniti dall’ingegnere americano, infatti, riducono di molto gli
errori della misurazione angolare proposti dei suoi predecessori. Grazie ai
rilievi di Gatembrink, quindi, Bauval ha avuto – successivamente - la
conferma circa l’allineamento dei condotti della Camera della Regina e dei
condotti della Camera del Re, correlati con le stelle Beta Orsae Minoris e
Thuban-Alfa Draconis, Sirio e Al Nilam. Astronomicamente, il fenomeno
sarebbe stato osservato, secondo la sua teoria, nel 2.475 a.C. Questi risultati
gli hanno permesso di fissare anche la data di costruzione dei condotti,
nonché della parte superiore della stessa Grande Piramide, in un periodo
compreso tra il 2.475 ed il 2.450 a.C.
Questo risultato si è rivelato determinante, per Bauval, poiché ha
contribuito a rafforzare la sua teoria, giustificando l’inizio dei lavori e,
quindi dell’allineamento dei monumenti di Giza con la Volta Celeste nel
10.500 a.C.
Apparentemente, nell’epoca indicata da Bauval, si sono verificate quasi
tutte le condizioni che giustificano l’allineamento astronomico tra la
Costellazione di Orione e i monumenti di Giza, ma, come vedremo nei
prossimi paragrafi, ci sono delle eccezioni estremamente significative che
limitano la portata della sua Teoria.
Nel suo bestseller “Il Mistero di Orione”, Bauval scrive: «Quando
attraversano il meridiano a Giza, infatti, le tre stelle della Cintura di
Orione formano una linea non completamente in asse. Le due stelle più
basse, Al Nitak e Al Nilam, formano una diagonale perfetta mentre la terza
stella, Mintaka, si trova spostata leggermente verso sinistra rispetto al
punto di osservazione». Con questa osservazione, l’eminente ricercatore
chiarisce, in via pressoché definita, l’indissolubile legame che intercorre tra
i monumenti e le costellazioni del cielo all’equinozio di primavera del
10.500 a.C.
Dopo aver completato lo studio sulla Correlazione tra le Piramidi di Giza e
la Cintura di Orione, egli si è dedicato all’analisi degli altri monumenti
piramidali che, a vario titolo, potevano essere in relazione con la Piana di
Giza. Secondo Bauval, l’analisi topografica dei siti di Zawyat al Aryan e
Abu Rowash potrebbero confermare l’ipotesi di un “progetto unitario” che
univa le tre aree archeologiche, riproducendo fedelmente una parte
sostanziale di Orione sulla Terra; l’ambizioso progetto non fu completato
per problemi legati alla carenza di risorse.
Per avvalorare la sua teoria, Bauval si è dedicato anche allo studio dei Testi
Sacri Egizi, poiché in essi ha individuato alcuni importanti riferimenti alla
cosiddetta “religione stellare”, propria dell’Antico Regno. Con il suo studio,
ha cercato di dimostrare l’intima connessione tra le stelle e la teologia
ermetica, nel tentativo di certificare la sua Teoria della Correlazione. I Testi
delle Piramidi rappresentano un serbatoio notevole per comprendere i
misteri che la classe sacerdotale ha celato nelle complesse “formule
religiose” che caratterizzano i testi sacri Egizi e, ancora oggi, rappresentano
la più grande ed antica raccolta di Inni e Invocazioni al Dio Osiride e a suo
figlio Horus.
Così, mentre l’egittologia li ha “degradati” al rango di mere “formule
vocative”, Bauval ha tentato di dimostrare - grazie anche agli studi
propedeutici di Jane Sellers - che essi ripropongono, in maniera molto
precisa e altrettanto sconcertante, metafore che si integrano alle scienze
astronomiche. La descrizione del percorso dell’anima del defunto Faraone
che - viaggiando attraverso la Volta Celeste, giunge alla sua dimora nella
Duat - ne è un’evidente dimostrazione. Un diagramma cosmico dei quattro
sostegni del cielo, è uno degli strumenti di pensiero comuni, impiegati
nell’antica lingua egizia. «Il suo scopo è di visualizzare le quattro fasce
immaginarie concepite per incorniciare, sostenere e definire un’età
precessionale del mondo»[29].
I Testi delle Piramidi contengono diverse versioni di questo diagramma.
E’ importante rilevare, inoltre, che la simbologia precessionale, spesso, è
intimamente correlata ad immagini di distruzione, quasi a voler dimostrare
il timore che nelle fasi di transizione tra un ciclo di 1/12° e l’altro - che si
verifica ogni 2160 anni – possano accadere eventi di natura catastrofica.
Le ricerche di Bauval sono molto importanti, poiché – seppur volutamente
sottaciute dall’autore – rappresentano un chiaro indizio dell’esistenza di una
Civiltà prediluviana, caratterizzata dalla perfetta conoscenza delle Leggi
della Natura. Questo Sapere sarebbe stato, successivamente, tramandato
nelle ermetiche formule teologiche. Sulle origini della Civiltà delle
Piramidi, la sua teoria appare estremamente lacunosa, poiché l’autore non
ha mai fatto, espressamente, riferimento all’esistenza di una civiltà
prediluviana che possa essere stata protagonista di questi eventi.
Essa è ancor più evanescente, poiché non chiarisce come sia possibile che
gli Egizi fossero in grado di edificare monumenti, fondando lo sviluppo
delle loro dimensioni sulla base dell’applicazione delle costanti
matematiche Pigreco e Phigreco, “scoperte” solo nel successivo periodo
della Grecia classica.
Infine, sostenere – seppur implicitamente - che gli Egizi dinastici abbiano
realizzato i monumenti riproducendo la Volta Celeste visibile da Giza nel
10.500 a.C., è evidentemente un’ipotesi molto difficile da assecondare.
Significa, infatti, sostenere che gli Egizi erano a conoscenza della forma
sferica del Pianeta e del suo moto intorno al Sole; che avevano
perfettamente osservato il fenomeno della rivoluzione intorno all’astro, il
quale che si compie in un tempo ben definito; che gli Egizi avevano
osservato un fenomeno ancora più complesso – ovvero il ciclo della
Precessione degli Equinozi - che si compie in circa 26.000 anni e che
coinvolge tutte le costellazioni visibili nella Volta Celeste.
Robert Bauval ha svolto un lavoro determinante e, al tempo stesso, ha
prodotto un’accelerazione straordinaria per comprendere i misteri delle
civiltà del passato, per quanto le sue ipotesi non sono pienamente
convincenti. Esse risultano eccessivamente appiattite sugli stereotipi
accademici, a discapito di un’esigenza di chiarezza scevra da influenze
medievali. L’idea che nel 10.500 a.C. – o come vedremo, in un’epoca
ancora antecedente – il nostro pianeta fosse abitato da una Civiltà evoluta,
spaventa l’élite accademica, poiché si pone al di fuori dai processi evolutivi
della storia, così come la conosciamo oggi. Eppure, il richiamo ad un’epoca
così remota è una costante nelle tradizioni orali dei sacerdoti egizi e nei
pochissimi testi che ci hanno tramandato. Essa è parte integrante della
cosmologia Egizia, nella quale si fa chiaro riferimento allo Zep Tepi, all’Età
degli Dèi che hanno governato, con saggezza e con discernimento, le Terre
del Nilo.
In ogni caso, a Bauval va il merito di aver saputo sintetizzare la relazione
astronomica delle Piramidi con Orione-Osiride, dando piena adeguatezza ai
contenuti dei testi sacri egizi. Egli ha intuito che l’obiettivo dei progettisti
era quello di trasmettere un messaggio spazio-tempo, nel tentativo di dare
un’indicazione temporale al loro passaggio nella storia di questo Pianeta.
Hanno voluto fornire una data, un momento epocale da tramandare alla
storia, utilizzando saggiamente la pietra, modellandola secondo le
complesse regole delle Leggi dell’Universo.
La Sfinge e le vie del compromesso

Osservando il complesso monumentale di Giza, non si può non notare una


perfetta simmetria dell’intera area, quasi come se ogni oggetto fosse stato
messo al punto giusto, secondo un ordine ben definito. L’opera compiuta
dai costruttori rasenta la perfezione, lasciando traccia di un lavoro
complesso, faticoso e, al tempo stesso, occulto.
Giza contiene la forza delle leggi della fisica, la bellezza delle tecniche
dell’ingegneria, la saggezza dell’uso dei numeri, la sublime condivisione
dell’architettura Celeste.
Eppure, tra tanto equilibrio, sfuggono due elementi determinanti: il Tempo
e la Funzione.
Esse sono state realizzare secondo uno schema preciso, per fissare una
data sul calendario astronomico e, al tempo stesso, per eseguire una
funzione a cui erano state destinate in origine.
Abbiamo osservato le differenze tra le posizioni ufficiali e la teoria di
Robert Bauval:
- L’egittologia fissa la costruzione delle Piramidi di Giza intorno
al 2.400 a.C. (anche se gli accademici non concordano sulle
datazioni, quindi mi attengo ad una media aritmetica);
- Bauval fissa l’inizio dei lavori intorno al 10.500 a.C. ed il
completamento dell’opera nel periodo Dinastico.
Nel paragrafo precedente, ho evidenziato come la Teoria della
Correlazione abbia permesso un efficace passo verso l’indicazione di un
“momento epocale”, contraddistinto da un dato allineamento astronomico.
Abbiamo visto, però, che l’esito si risolve nella pubblicazione di una tesi
fortemente condizionata dagli stereotipi antropologici che fissano i
processi storici dell’evoluzione della specie umana in una data epoca.
Per dirla in soldoni, Bauval ha dato un colpo alla botte ed uno al cerchio!
Una scelta dettata dalla necessità - all’inizio degli anni novanta – di
edulcorare il violento strappo che stava producendo con la sua teoria. La
presentazione di proposte più radicali, infatti, avrebbe potuto provocare
traumi estremi con ripercussioni pesanti sulla tenuta della sua stessa tesi.
Pertanto, la strada più sicura era quella di proporre, il 10.500 a.C. come
datazione più “sensata”, approfittando del supporto professionale che
stava giungendo da Robert Schoch e dalle sue indagini geologiche sulla
Piana di Giza.
Il geologo, docente presso l’università di Boston, ha imposto l’imprimatur,
il sigillo scientifico definitivo alla teoria della Correlazione, proponendo
uno studio molto affascinante sulla geologia di Giza. Schoch - con l’ausilio
di un altro importante personaggio della ricerca indipendente, John
Anthony West - ha approntato una serie di studi su alcuni monumenti della
Piana. Uno di essi, non poteva che essere l’enigmatica Sfinge.
Su di essa, i due ricercatori hanno osservato degli indizi che sono stati
definiti “tanto significativi quanto determinanti”.
Nel corso della loro esplorazione, essi hanno evidenziato che i segni di
erosione - sia sulla roccia che forma il monumento che sulle pareti del
fossato che lo ospita – sono stati causati dall’azione dell’acqua, segno
tangibile che il monumento è stato esposto, nel tempo, a evidenti contatti
con agenti liquidi.
L’ipotesi che la Sfinge ed il suo fossato potessero essere stati sottoposti a
violenti interazioni con l’acqua durante il periodo dinastico, suona
particolarmente ostico, soprattutto in considerazione della posizione
geografica dell’Egitto, la cui caratterizzazione è rappresentata dalle enormi
distese di deserto. L’unica possibilità, per poter giustificare gli studi di
Schoch e West, era tornare indietro nel tempo, individuando il periodo in
cui le piogge torrenziali affliggevano la Terra del Nilo. Le profonde
sagomature che si possono chiaramente vedere sul corpo leonino – secondo
gli specialisti americani – dimostrano che la Sfinge è stata sottoposta
all’azione erosiva dell’acqua, in un periodo in cui, in Egitto, il clima doveva
essere decisamente diverso da quello attuale. A questo punto, non restava
che individuare il periodo geologico in cui si sono verificati questi eventi.
Schoch e West indicano nella fase conclusiva dell’ultimo periodo glaciale,
il momento in cui, i fenomeni narrati, sono avvenuti. La loro stima indica il
periodo compreso tra l’11.000 e 9.500 a.C. Questo dato significa una sola
cosa: qualcuno aveva già modellato il Leone di Giza sulla rocciosa collina a
valle delle Piramidi, ancor prima che terminasse l’ultima glaciazione.
«L'erosione della Sfinge - e delle pareti del recinto scavato nella roccia che
la circondava - non era stata affatto causata dall'azione del vento bensì da
migliaia di anni di forti piogge, moltissimo tempo prima dell'inizio
dell'Antico Regno»[30].
Questo dato apriva un’ulteriore profonda lacerazione tra egittologi e
ricercatori indipendenti, poiché metteva definitivamente in crisi
l’impalcatura ufficiale, spalancando le porte alla possibile esistenza di una
Civiltà che ha realizzato l’opera in tempi remoti. Inoltre, se si considera il
Progetto Giza come Unitario, è plausibile che le stesse Piramidi erano state
realizzate contemporaneamente alla Sfinge ed ad altri monumenti che
insistono sulla piana.
Pertanto, si può sostenere che erano già lì quando la Civiltà Egizia dinastica
ha emesso il primo vagito.
Il professor Schoch, a completamento della propria tesi, ha chiarito anche il
motivo per cui le profonde ferite, incise nel corpo della Sfinge e del fossato,
non potevano essere attribuite ad altre azioni erosive. L’erosione del vento,
ad esempio, provoca canali orizzontali dai margini netti, scavati negli strati
più molli della roccia colpita. Le osservazioni sul fenomeno eolico, sono
molto importanti, poiché evidenziano il netto contrasto con le ferite visibili
sul monumento.
Le “fessure verticali” confermano, infatti, la tesi dell’erosione da acqua, in
epoche remote, caduta in abbondante quantità.
Alcuni Egittologi hanno posto delle considerazioni di merito sulle
conclusioni di Schoch e West, in particolare, ponendo in connessione le
tracce di erosione rinvenute sulla Sfinge e la totale assenza delle medesime
sulle tre Piramidi.
Questa valutazione, purtroppo, non potrà mai essere verificata, poiché
l’intera copertura delle Piramidi – formata da blocchi di pietra calcarea - è
andata completamente perduta, all’indomani del devastante terremoto del
1.301 d.C. ed utilizzata per costruire i quartieri del Cairo. Se i blocchi
fossero giunti fino ai nostri giorni, probabilmente, avrebbero presentato le
stesse caratteristiche erosive. In ogni caso, se il Leone di Giza è stato
edificato intorno al 10.500 a.C., significa che il monumento ha visto la luce
in piena era glaciale ed esposto alle intemperie per i successivi duemila
anni, fino alla fine dell’ultima glaciazione.
È un’ipotesi plausibile?
Sembra difficile ipotizzare che, nel periodo accertato, una qualsiasi civiltà
possa essere stata in grado di proporre un progetto architettonico così
complesso, in una fase climatica particolarmente avversa. Inoltre, ammesso
pure che le piramidi siano state realizzate in epoca dinastica, sorge il dubbio
che i successivi 4.000 anni di siccità siano stati sufficienti per ridurre la
Sfinge ed il relativo fossato, nelle condizioni in cui si trovano attualmente.
In questi ultimi decenni, i risultati delle indagini svolte, in particolare, dalla
cosiddetta Scuola Indipendente, hanno evidenziato una serie di elementi che
inducono a ritenere, con sempre maggiore attendibilità, che la Piana di Giza
sia un’eredità di una civiltà perduta, le cui competenze tecniche e
scientifiche vanno oltre la nostra più ottimistica previsione.
Pertanto, è proprio nelle Conoscenze scientifiche che bisogna cercare, per
venire a capo di un enigma millenario. Il punto di partenza, naturalmente, è
il modello Bauval, ovvero la Teoria della Correlazione e dai fondamenti
astronomici sui quali si basa. Questo modello ha ispirato la nascita e
l’evoluzione della mia teoria, spingendomi indietro nelle ere astronomiche
fino a trovare il tempo in cui stelle e monumenti erano perfettamente
allineati, svelando, di fatto, uno dei più grandi misteri dell’Antichità.
L’eredità dei sacerdoti egizi

La quasi totalità dei ricercatori indipendenti - che dello studio dello Zep
Tepi ne hanno fatto un motivo di vita - non hanno potuto fare a meno di
associare l’epopea di Osiride all’ultima fase del Periodo Glaciale, molto
probabilmente condizionati dalla Teoria della Correlazione e, con assoluta
certezza, dalla teoria evoluzionista di Darwin. Essi hanno cercato qualche
prova tangibile che dimostrasse l’esistenza di una Civiltà perduta, così da
poter giustificare le notevoli capacità scientifiche raggiunte dai costruttori
di Giza. Le ricerche si sono indirizzate, secondo logica, nella direzione più
classica, scavando tra i miti e le leggende, dalle quali ricavare qualche
indizio. Alla fine, si è giunti alla conclusione che il mito di Osiride è il
frutto della memoria dell’uomo; per millenni, esso è stato trasmesso di
generazione in generazione, così da preservarne le radici storiche e, al
tempo stesso, per collegare l’antico passato alla contemporaneità.
Per questo motivo, storicizzare l’epopea di Osiride, associandolo ad un
periodo definito, rappresenterebbe un passo avanti straordinario, poiché
avvia una profonda revisione che possa far luce sulla reale dinamica delle
società umane nel corso del tempo.
Graham Hancock ha osservato che la figura di Osiride è stata elevata al
rango di “sommo dio della resurrezione”, proprio nel corso dell’Egitto
Dinastico, quasi come se in questa fase, fossero maturate quelle condizioni
necessarie per ricordare, con un senso logico, un’epoca remota storicamente
identificabile.
Quale civiltà, dunque, ne ha trasmesso il Mito? La domanda impone una
corretta analisi del ruolo e delle funzioni dei sacerdoti egizi, veri depositari
del Sapere custodito nella terra del Nilo.
Come possiamo considerare, quindi, la figura dei sacerdoti egizi che,
attraverso la teologia, hanno tramandato gli indizi dell’esistenza di una
civiltà antecedente il periodo Dinastico: maghi o scienziati?
Bauval sostiene che la casta sacerdotale ha utilizzato l’ermetismo dei
geroglifici per trasmettere il retaggio di conoscenze remote. I Testi delle
Piramidi ne sarebbero una perenne ed indiscutibile testimonianza.
Accettando questo postulato, si uscirebbe dalle contraddizioni, riabilitando
una casta di uomini relegati al rango di stregoni primitivi.
Egli tende a riconsiderare il ruolo e l’immagine di questi antichi saggi, così
da consegnarli al ruolo voluto dalla storia: niente “stregoni mezzi selvaggi
che volevano vivere in eterno”, bensì uomini altamente civilizzati che
custodivano i segreti più reconditi del passato. Egli sostiene che un’attenta
lettura interdisciplinare dei Testi delle Piramidi, potrebbe svelare ulteriori
segreti ancora da scoprire. Le sue conclusioni sembrano armonizzarsi con
orizzonti meno radicali, poiché anche la scuola accademica identifica la
classe sacerdotale egizia quale custode del Sapere empirico, saggiamente
riproposto nelle raffigurazioni artistiche, letterarie e monumentali di epoca
dinastica.
A mio parere, i sacerdoti egizi custodivano, realmente, il retaggio di un
antico Sapere, probabilmente ereditato dalla Civiltà delle Piramidi. E’ una
possibilità che trova conforto nelle abilità tecniche, espressione dell’intero
periodo dinastico, ma soprattutto nelle sacre ritualità attraverso le quali
venivano omaggiati gli dei nella loro correlazione con le costellazioni della
Volta Celeste.
Chi sostiene l’ipotesi secondo la quale gli egizi possedevano una
conoscenza empirica della scienza astronomica, non è lontano dalla verità,
poiché essi applicavano conoscenze ereditate da antichissime Tradizioni e
tramandate nel corso dei secoli – e forse dei millenni - per generazioni. «I
Testi delle Piramidi vanno letti come documenti scientifici o, almeno, semi-
scientifici, e non come incantesimi incomprensibili. Il fatto che rispondano
all'astronomia della precessione è già soddisfacente per me. Ma potrebbero
esserci anche altre chiavi: la matematica, la geometria, soprattutto la
geometria... Il simbolismo...».[31] Una corretta lettura dei Testi potrebbe
gettare nuova luce sulle stesse origini delle piramidi e sulla loro funzione
astronomica, nonché sulla storicizzazione del mito di Osiride.
La relazione tra le Piramidi e lo Zep Tepi rappresenta solo un punto di
partenza, da quale sviluppare un nuovo percorso di indagine, al fine di
comprendere la reale consistenza del messaggio proveniente dall’Egitto. Le
caratteristiche strutturali della Grande Piramide rappresentano un cardine
fondamentale per acquisire i fondamenti del messaggio scientifico
proveniente dal Passato.
La Scienza della Piramide

Sulla Grande Piramide di Giza si è detto praticamente tutto e, in qualche


caso, anche di più!
La letteratura sull’argomento è molto ampia e, mettere insieme tutte le
teorie che avvolgono questo maestoso e misterioso monumento, è cosa
improba. Tuttavia, al di là delle teorie riguardanti la realizzazione della
struttura - e, più in generale, l’edificazione dell’intero complesso
monumentale - ciò che stupisce è il condensato di valori scientifici che
caratterizzano il misterioso edificio. Spulciando tra i lavori di ricerca di altri
esperti della materia, ho cercato di selezionare, con non poca difficoltà, i
principali valori che si possono ricavare dall’investigazione tecnico-
scientifica dell’edificio. Lo scopo di questa studio, naturalmente, non è
quello di evidenziare la semplice descrizione delle peculiarità tecniche,
quanto dimostrare le evidenti complessità scientifiche – definite in ambito
accademico “semplici coincidenze” - rilevate da altri autori nel corso dei
loro specifici studi. I risultati delle indagini effettuate, a vario titolo, sono
riportati in maniera semplice, in forma descrittiva e priva di qualsiasi
commento. Del resto, non è neppure il caso di sottoporli ad esame più
accurato, poiché la loro straordinarietà rende superflua ogni riflessione.
1. I lati della Grande Piramide misurano rispettivamente:
a. Lato Nord: 230,2505 m.
b. Lato Ovest: 230,3565 m
c. Lato Est: 230,3905 m.
d. Lato Sud: 230,4535 m
Si evince, quindi, che la differenza, tra il lato più lungo e quello più corto
del monumento, è di appena 20,30 cm.;
2. Il rapporto tra il perimetro della Piramide (921,451 metri) ed il “pollice
egizio” (circa 2,5228 metri) restituisce il valore di 365,24, ovvero il numero
dei giorni compresi in un anno solare;
3. Se moltiplichiamo il valore del perimetro per due, si ottiene un dato
(1.842,88) vicinissimo ad 1/60° di grado alla latitudine dell’equatore, che è
di 1.842,78;
4. John Taylor[32], all'inizio del 1800, ha scoperto che l'altezza originaria del
monumento (146,727 metri) e il perimetro della sua base (921,451 metri)
avevano lo stesso rapporto reciproco del raggio di una sfera e la sua
circonferenza. Questo rapporto è 2 pi-greco. Il pi-greco fu calcolato con
esattezza, fino alla quarta cifra decimale, solo nel VI secolo d.C.;
5. Il vertice della Piramide è collocato esattamente sopra il centro della
base;
6. Gli angoli che determinano le inclinazioni dei blocchi di pietra, sono stati
calcolati e sistemati con una simmetria perfetta, essi risultano in perfetto
allineamento rispetto ai punti cardinali;
7. Se si traccia un cerchio intorno al triangolo formato dalla piramide, si
noterà che il centro si trova nel punto esatto in cui è stata costruita la
cosiddetta Camera del Re;
8. La facciata settentrionale è allineata, quasi alla perfezione, con il nord
vero; la facciata orientale quasi alla perfezione con l'est vero; quella
meridionale con il sud vero; e quella occidentale con l'ovest vero. L'errore
medio è di appena tre minuti d'arco. Un errore di tale portata può
definirsi di un’imprecisione infinitesimale inferiore allo 0,015%;
9. Gli angoli misurano circa 90° con una differenza di soli 2’’ d’arco.
L'angolo di sud-est misura 89°56'27"; quello di nord-est 90°03'02"; quello
di sud-ovest 90°00'33", infine, l’angolo di nord-ovest è fuori centro di
appena due secondi di grado, ovvero 89°59'58";
10. Se si prolungano gli angoli di nord-ovest e quelli di nord-est si crea una
specie di “imbuto” che racchiude il Delta del Nilo;
11. Le quattro facciate della Grande Piramide sono leggermente curve. E’
stato dimostrato che la curvatura dei lati della Piramide - seppur
impercettibile ad occhio nudo - è simile a quella della Terra;
12. La sua altezza, moltiplicata per un miliardo, corrisponde all’esatta
distanza tra la Terra e il Sole;
13. Se si moltiplica il peso della piramide, per un miliardo, si ottiene
approssimativamente il peso della Terra;
14. L’altezza media dei continenti si avvicina all’altezza della Piramide;
15. La Grande Piramide può essere considerata una riduzione in scala del
nostro pianeta, e precisamente in un rapporto di 1:43.200;
16. Se si divide la circonferenza della Terra all'equatore (40.077 km.), per
43.200, si ottiene come risultato 0,9277 (Km.). Se un chilometro, costituito
da mille metri, si moltiplica 0,9277, si ottiene 927,7 metri. E’ evidente che
la circonferenza della Terra all'equatore, ridotta di 43.200 volte, è pari a
927,7 metri. Rispetto al perimetro della Piramide si riscontra un margine
d’errore di appena sei metri, ovvero di circa lo 0,75%;
17. Il raggio polare della terra è di 6.356,9 chilometri. Se si divide per
43.200 volte, si ottiene un valore di 0,1471 chilometri: ovvero 147,1 metri.
E’ evidente che il raggio polare della Terra ridotto 43.200 volte, è in
relazione con l’altezza della Grande Piramide. Il valore attuale è 146,72
metri, ovvero 38 centimetri meno del numero ideale. Ciò equivale ad un
errore di appena lo 0,20%;
18. Con un'approssimazione praticamente trascurabile, il perimetro della
Grande Piramide è davvero in rapporto di 1:43.200 con la circonferenza
equatoriale della Terra. E, con un'approssimazione trascurabile, l'altezza
della Grande Piramide è davvero in rapporto di 1:43.200 con il raggio
polare della terra;
19. Le misure della Piramide sono talmente precise che se le tracciamo
intorno una circonferenza, quest’ultima e la sua altezza sono pari alla
circonferenza di un cerchio ed al suo raggio;
20. L’angolo d'inclinazione di 51° 51' è uguale per le quattro facciate del
monumento e rappresenta un valore determinante per calcolare il ☐ ;
21. Le ombre proiettate dalla piramide scandiscono con precisione
matematica le date degli equinozi e dei solstizi. L’ombra della Grande
Piramide “sparisce” durante l’equinozio di primavera;
22. Charles Piazzi Smith[33] ha calcolato che la Piramide si trova
esattamente a 30º circa di latitudine nord. Ciò significa che la Grande
Piramide si trova precisamente al centro della massa terrestre, ovvero
all’incrocio tra il meridiano ed il parallelo principali, ovvero a 1/3 della
distanza fra Equatore e Polo Nord. Essa, dunque, rappresenta lo “zero
naturale” di longitudine;
23. Il meridiano che passa per il vertice della Grande Piramide, taglia la
terra in due parti quasi uguali, sfiorando il Polo per soli 5 km. Il dato,
tuttavia, non costituirebbe una errore. Infatti, se ci poniamo alla base della
Piramide rivolti verso il Polo Nord, possiamo notare che esiste un
fenomeno particolare che interferisce nella corretta osservazione. Si tratta
del fenomeno della rifrazione. Pertanto, sembrerebbe che il progettista ha
disposto il monumento in modo tale che anziché a 30° si trovasse a
29°58'22”. Paragonato con la posizione esatta di 29°58'51", si tratta di un
errore di meno di mezzo minuto d'arco. Questa precisione evidenzia che i
progettisti possedevano una perfetta conoscenza della topografia e delle
tecniche di calcolo della geodesia, evidentemente impiegate per
conseguire un altissimo livello di precisione;
24. La sua distanza dal centro della Terra è identica alla sua distanza dal
Polo Nord;
25. La Grande Piramide è perfettamente allineata con l’asse di rotazione
terrestre;
26. La somma delle diagonali (25.826,6 cm.) è uguale al valore della
precessione;
27. Le tre piramidi, attribuite ai faraoni Cheope, Chefren e Micerino, sono
esattamente disposte come le tre stelle della Cintura di Orione;
28. Il passaggio verso il condotto discendente della Grande Piramide ha
un’inclinazione di 16°17’, la stessa inclinazione della stella Alpha Draconis
che, in tempi remoti, fungeva da Stella Polare;
29. Le mura del corridoio discendente declinano all’interno della piramide
per circa 109 metri perfettamente diritti, con un margine di errore di appena
5 millimetri;
30. Nella cosiddetta Camera del Re, è stato posto un sarcofago il cui
volume è l’esatta metà del volume della stanza che lo contiene. Il sarcofago
è ricavato da un blocco unico e, fatto straordinario, riporta sulle pareti
esterne tracce della sega diamantata servita per il taglio;
31. La Camera del Re è alta 5,81 metri, ovvero la metà della diagonale del
pavimento che corrisponde esattamente a 11,62 metri. Essa è lunga 5,23 ed
è larga 10,46. Questi valori forniscono esattamente le misure dei due
triangoli fondamentali del teorema di Pitagora. Ciò significa che in essa è
contenuto il valore della Sezione Aurea, ovvero del ☐☐
32. Sir William Flinders Petrie scoprì che nella Camera del Re, l’altezza ed
il perimetro erano in rapporto di ☐ ;
33. La Grande Piramide allo stato attuale – almeno fin quando non si aprirà
una varco all’interno della Seconda Piramide - è l’unica costruzione a
possedere quattro condotti, due per ogni camera. Essi sono inclinati verso
l’alto e puntati verso specifiche stelle. Quelli della Camera del Re sboccano
all’esterno e puntano sulla stella Al Nitak - ☐ Orionis e Thuban Draconis,
mentre quelli della Camera della Regina – che si è scoperto ostruiti da porte
con apposite maniglie - sono direzionati verso Sirio e Kochab dell’Orsa
Minore;
34. La Camera del Re fornisce anche dei “concetti” propri della dottrina
religiosa dell’Antico Egitto, ovvero la rappresentazione del doppio
spirituale. Non a caso, le misure del pavimento sono 10,46 metri per 5,23; il
sarcofago ha un volume esterno doppio rispetto a quello interno: 2.332,8
litri contro 1.166,4.
35. L’astronomo francese, U.J.J. Leverrier[34] calcolò il numero dei giorni
contenuti in un anno solare. Il valore preciso è di 365,2421995949074. La
cifra calcolata nella Grande Piramide è pari a 365,2421986677311. La
differenza tra i due valori è racchiusa in 0,08 secondi all’anno, ovvero
mezz’ora di un intero ciclo precessionale;
36. Sir J.N. Lockyer[35], astronomo inglese, ha calcolato che il numero dei
giorni lunari è di 29,53058871515. Nella Grande Piramide il dato relativo al
ciclo lunare è di 29,5305887150085: la differenza dei valori è pari a
0,00000000014;
37. Rocky McCollum ha scoperto che prendendo la tangente dell’angolo
d’inclinazione della Grande Piramide, si ottiene un valore di 1,27230.
Moltiplicando questo valore per una costante si ottiene il numero radiante
☐ ☐ ☐☐☐☐☐☐☐☐
38. Sviluppando lo stesso calcolo sulla Piramide di Chefren, il ricercatore
ha ottenuto il numero naturale ☐ =2,7182818. Ciò determina che la
Piramide di Cheope ha un’inclinazione ☐ mentre la Piramide di Chefren ha
un’inclinazione ☐☐
39. La scala di 1:43.200 non è casuale. E’ un numero che collegato ad altri
ed ai relativi multipli è intimamente connesso alla precessione degli
equinozi. Nel rapporto Piramide/Terra, il valore 43.200 è quasi una
costante. La Grande Piramide, dunque, è un preciso modello in scala
dell'emisfero boreale del pianeta Terra. Inoltre, la scala in questione
contiene valori legati all’importante fenomeno astronomico, la precessione
attraverso due costellazioni zodiacali, si compie in 4.320 anni;
«La costante ripetizione di questi numeri (…) potrebbe essere una
coincidenza. (…) la presenza del numero precessionale 43.200 nel rapporto
Piramide/Terra potrebbe essere a sua volta una coincidenza. Ma quando
troviamo numeri precessionali negli antichi miti e nell'antico monumento -
supporre che sia solo una questione di coincidenza significa dar fondo a
tutta la propria credulità»[36].
Questa lunga serie di dati, sia essi geometrici, matematici, geofisici ed
astronomici, devono far profondamente riflettere sulle capacità dei nostri
predecessori. Alla luce di questi dati, la tesi secondo la quale i
monumenti siano opera dinastica appare, infatti, assolutamente
improponibile.
«Secondo alcuni esperti di tecnica delle costruzioni con cui avevo parlato
della Grande Piramide, il bisogno di tanta precisione era incomprensibile.
Dal loro punto di vista di costruttori pratici, le spese, le difficoltà e il tempo
richiesti per raggiungerla non sarebbero stati giustificati dai risultati
visibili: anche se la base del monumento fosse fuori centro di due o tre
gradi (un errore, diciamo dell'1 %) la differenza per l'occhio nudo sarebbe
stata comunque troppo piccola per essere notata. D'altro canto la differenza
degli sforzi richiesti (per raggiungere un'approssimazione inferiore a tre
minuti contro tre gradi) sarebbe stata immensa»[37].
E’ evidente, quindi che i progettisti - prima di realizzare l’opera – erano
motivati da ragioni profonde per concentrare in questa costruzione tutte le
caratteristiche tecniche finora rilevate. Viene di conseguenza che, per
ottenere questi risultati, dovevano essere abilissimi, esperti e competenti,
con esperienze sperimentali provate sul campo.
«Questa impressione fu confermata da molte altre caratteristiche del
monumento. Per esempio, i suoi lati alla base erano quasi esattamente
della stessa lunghezza, rivelando un margine di errore di gran lunga
inferiore a quello che si esigerebbe oggi da architetti moderni nella
costruzione, poniamo, di un palazzo destinato a uffici di medie dimensioni.
(…) Il suo lato settentrionale misurava 230 metri e 25,05 centimetri, quello
occidentale 230 metri e 35,65 centimetri, quello orientale 230 metri e 39,05
centimetri, e quello meridionale 230 metri e 45,35 centimetri. Questo
significava che c'era una differenza di appena venti centimetri tra il lato più
corto e quello più lungo: un errore che ammontava a una minuscola
frazione dello 0,1 per cento su una lunghezza media dei lati di oltre 23.020
centimetri»[38].
I dati riportati, infine, evidenziano l’assenza totale delle Piramidi satellite
dalle correlazioni scientifiche. Eppure, esse partecipano ad una “perfetta
danza geometrica”, la cui precisione risulta essere un’ulteriore conferma
delle straordinarie tecniche adottate. Riscoprire la loro funzione, ci
consentirà di avere una visione globale del mistero di Giza, poiché,
grazie ad esse, è possibile determinare i canoni originari del Progetto
Unitario.
Le piramidi satellite: ratio e geometria

Osservando la collocazione dei monumenti sulla Piana di Giza, appare


evidente che essi sono stati disposti secondo un logica ben precisa. Tutto è
stato curato nei minimi dettagli, anche la distribuzione degli accessi agli
stessi monumenti, scrupolosamente sistemati sulla facciata nord di ciascuno
di essi. Tanta diligenza lascia presupporre che il piano di realizzazione del
progetto, sia stato preventivamente organizzato secondo una propria
ordinata disciplina, nel quale sono contemplati una molteplicità di opere
integrate.
E’ evidente che i costruttori non solo hanno rispettato un progetto tecnico,
ma in esso hanno racchiuso una pluralità di funzioni simboliche e
numeriche che, ancora oggi, sono oggetto di studio. Se, viceversa,
volessimo accettare i canoni della dottrina ufficiale, risulterebbe che i
monumenti sono stati edificati senza osservare uno schema specifico,
poiché un modello preciso non sarebbe mai esistito. Queste conclusioni,
però, generano delle inevitabili osservazioni su alcune anomalie, riscontrate
nella relazione tra gli usi funerari in vigore nel corso dell’Antico Regno e la
realizzazione degli stessi monumenti. A quel tempo, infatti, la ritualità
funeraria rispettava dei parametri ben precisi che si ispirava a delle
consuetudini maturate nel corso dei secoli. Ad esempio, i defunti dovevano
rigorosamente essere sepolti ad occidente della sponda del Nilo, ovvero nel
“Luogo dove tramonta il Sole”, identificato con il “Luogo della Morte”.
Questo postulato, per quanto sia rispettato dalla posizione geografica delle
Piramidi Maggiori, non è soddisfatto dalla disposizione delle Piramidi
Satellite che, sulla Piana di Giza, sembra siano state sistemate in maniera
“anomala”, se non addirittura confusionaria.
Esaminando la loro posizione geografica rispetto ai punti cardinali, è
inevitabile chiedersi per quale motivo i progettisti le hanno disposte
secondo parametri totalmente differenti rispetto ai monumenti “madre”.
Bauval - nel suo libro “Custode della Genesi” - sostiene che esse sono state
concepite come «indicatore di direzione equinoziale dell’alba e del
tramonto», ovvero indicano la direzione Est-Ovest in ragione del percorso
del Sole nella volta celeste, lungo l’eclittica.
Fig. 11. Ipotesi di Cook: Le piramidi satellite determinano un angolazione di
riferimento collegate all’allineamento astronomico del 10.500 a.C. con la
stella Al Nitak posizionata a 27° ovest.

La sua logica, quindi, relegherebbe le piramidi satellite ad una funzione


astronomica decisamente secondaria, rispetto ad una possibile ragione
scientifica per nulla casuale. Robin Cook, geometra britannico e ricercatore,
aggiunge alcuni particolari interessanti sulla loro funzione[39].
Egli sostiene che le Piramidi Satellite:
- si trovano al limite di un cerchio ideale (od orizzonte) che ha
come punto d’origine il vertice della Piramide di Chefren;
- sono una riproduzione in scala delle Piramidi maggiori;
- rappresentano (quelle di Micerino e Cheope, n.d.a.) un
riferimento angolare per determinare l’allineamento raggiunto
dalle stelle della Cintura di Orione nel 10.500 a.C., allorquando
sull’orizzonte di Giza la stella Al Nitak, la più bassa della Cintura
di Orione, corrispondente alla Piramide di Cheope, tramontava a
27° ovest rispetto al sud, ad un azimut di 207°. In questo caso, una
linea ideale che parte dal vertice di una delle piramide satellite di
Cheope, attraverso il vertice di Chefren, sfiora una Piramide
satellite di Micerino per “colpire” la stella più bassa della Cintura
di Orione, ovvero Al Nitak.
La teoria proposta da Cook, per quanto affascinante, non sembra rispettare
la linearità e la precisione propria dei costruttori delle Piramidi e si espone a
non poche critiche:

a. È evidente che se si traccia un cerchio che ha come punto


d’origine il vertice della Piramide di Chefren, si notano le
numerose anomalie che derivano dal posizionamento delle
Piramidi Satellite dentro e fuori l’orizzonte ideale del cerchio
stesso; tralasciando le inevitabili conseguenze negli
allineamenti angolari che determinerebbero i 27° est e i 207°
azimut;
b. Le Piramidi satellite non possono essere considerate una
riproduzione in scala delle Piramidi maggiori. Esse, infatti,
sono perfettamente simili nelle dimensioni e soprattutto sono
perfettamente allineate su un piano orizzontale. Non
presentano “l’anomalia di Micerino” rispetto all’asse Cheope-
Chefren. Inoltre, ci si chiede come sia possibile che i
costruttori – maniacalmente precisi ed attenti ai dettagli –
abbiano potuto commettere un evidente errore nel
riproporzionare le piramidi minori sia in scala che in asse;
c. L’allineamento citato da Cook – che a sua volta si riferisce
alla datazione di Bauval, ovvero al 10.500 a.C. - non è
preciso, in quanto un perfetto allineamento sull’orizzonte di
Giza non si potrà mai formare, a causa della posizione della
stella Mintaka, la stella più piccola della Cintura di Orione e
corrispondente alla Piramide di Micerino, evidentemente fuori
asse rispetto alle altre. In altre parole è come se si volesse
forzare l’allineamento di un oggetto ad angolo su un piano
lineare;
d. Ammesso che i costruttori avessero voluto determinare
l’allineamento a 27° gradi est, non si spiega per quale motivo
avrebbero dovuto costruire tre piccole piramidi perfettamente
allineate. Per “mirare” Al Nitak, ne sarebbe bastata una
soltanto! Perché ne hanno costruite tre?
e. Infine, il disegno sulla Piana sembra invertito. Non a caso, la
Piramide che determina la congiunzione con al Nitak è,
curiosamente, la Piramide satellite interna di Micerino e non
la Piramide satellite di Cheope. Sarebbe stato più logico se la
piramide satellite di Cheope si “congiungesse” direttamente
con il corrispettivo stellare.

Quindi, le piramidi satellite devono, necessariamente, avere una logica


diversa da quelle teorizzate.
Gli Egittologi sostengono la teoria secondo la quale, le Piramidi di Giza
sono dei complessi funerari, ovvero le ultime dimore dei Faraoni della IV
Dinastia e delle rispettive consorti e/o dignitari di corte.
Quest’interpretazione, in realtà, non è completamente inesatta, poiché si
potrebbe ipotizzare che, nel corso del tempo, questi edifici siano stati
riutilizzati per gli scopi considerati in ambito accademico. Un’ipotesi che
potrebbe restituire un senso di credibilità alle “forzature” degli egittologi e
riconsegnare, ad un ruolo autentico ed originario, i monumenti costruiti a
Giza in epoche antecedenti il periodo dinastico. Del resto, se le Piramidi
fossero state concepite come ultime dimore, avrebbero dovuto soddisfare la
regola, principale e dominante nella IV Dinastia, di essere costruite ad
occidente del Nilo. Ora, se per le Piramidi maggiori la regola è soddisfatta,
poiché costruite ad occidente del Sacro Fiume, le Piramidi Satellite sono
evidentemente fuori posizione, poiché orientate – rispetto agli “edifici
madre” - verso sud e verso est.
Pertanto, mentre il rapporto tra Piramidi e usi funerari entra in piena
concordanza rituale, in quanto le regole sono state pienamente rispettate,
dall’altro è lecito chiedersi per quale motivo gli edifici minori siano stati
disposti secondo criteri diversi, in antitesi con i principi teologici propri del
periodo dinastico? Sarebbe stato più logico, infatti, se fossero state disposte
tutte a occidente, così come richiesto dagli usi funerari del tempo.
Da qui, la necessità di approfondire questo argomento, seguendo un
modello d’indagine innovativo, rispetto a quelli proposti finora, ovvero
focalizzando l’attenzione sulle piramidi satellite e sulle loro possibili
funzioni, secondo un’analisi geometrica e geografica.
Sappiamo che l’Egittologia ha conferito a queste strutture minori una
considerazione prossima allo zero. Ad esempio, Alan Gardiner, nel suo
libro “La Civiltà Egizia”, le ha dedicato appena un rigo e mezzo: «(…) Tre
piccole piramidi di fianco alla base, sul lato orientale (per la piramide di
Cheope, n.d.a.), erano destinate alle mogli (…)».
Come abbiamo visto, la stessa Teoria della Correlazione dedica ampio
spazio allo studio delle Piramidi maggiori, relegando le Piramidi Satellite
ad una funzione sostanzialmente marginale.
La disposizione delle Piramidi minori, contrariamente a quanto ipotizzato
finora, ha un senso logico, poiché a Giza, tutto segue un ordine ben preciso.
E’ impensabile che potessero essere state messe lì per un puro capriccio
dell’artista, ovvero come decoro di un’opera d’arte dal valore inestimabile.
Ho voluto approfondire la materia, nel tentativo di dimostrare una
potenziale relazione con gli elementi di base della matematica e della
geometria, utilizzando il medesimo linguaggio della Civiltà delle Piramidi:
ovvero il linguaggio del numero.
Per affrontare questo studio, è stato necessario avviare un’indagine
propedeutica per ricostruire, con estrema esattezza, i microcosmi che
caratterizzano le tre piramidi e i relativi edifici accessori, in rapporto alla
loro disposizione geografica sulla Piana di Giza e alle naturali relazioni
proporzionali tra di esse.
Nel corso delle mie visite al sito archeologico, mi sono imposto degli
standard procedurali ben precisi, così da ottenere dei risultati lineari e
consecutivi. Pertanto, anche l’indagine sui singoli monumenti si è articolata
secondo una logica operativa che ha posto il complesso della Grande
Piramide come punto di partenza e “Unità Base”.
Osservando analiticamente la Grande Piramide si avverte che il senso delle
proporzioni è sublimato dalla precisione ottenuta dai costruttori per la sua
edificazione. La meticolosità dei progettisti, infatti, è davvero maniacale.
Una tale accuratezza architettonica non è presente in nessuna struttura
artificiale di epoca dinastica ed è totalmente estranea alle abilità degli
architetti del tempo. Nonostante i turbamenti delle epoche, gode ancora di
discreta salute anche se, qua e là, sparsi nella sabbia, sono adagiati blocchi
di pietra che, nel corso del tempo, si sono staccati dal monumento. Essa si
estende su un’area di circa 13 acri e pesa circa sei milioni di tonnellate. La
quantità di blocchi in pietra arenaria e granito utilizzati per la sua
costruzione è di circa 2.300.000. Se ad essi aggiungiamo anche il
rivestimento in pietra calcarea - che un tempo rendeva la Piramide
riflettente alla luce del sole, secondo le descrizioni di Manetone ed Erodoto
- allora ci rendiamo conto di quale immenso lavoro si sono resi protagonisti
i costruttori. Ventidue acri di copertura a formare uno specchio composto da
circa 115.000 pietre – del peso di circa dieci tonnellate ciascuno - che
coprivano le quattro facciate del monumento.
Semplicemente impressionante!
Il complesso attribuito a Cheope si compone anche di tre piramidi satellite,
disposte lungo la facciata est, precisamente allineate tra esse, da nord a est.
Gli edifici si trovano in pessimo stato di conservazione, anche per l’incuria
che si è registrata in questi decenni che poca attenzione ha riservato alla
manutenzione dei monumenti minori di Giza. Le piramidi satellite – note
anche come piramidi delle Regine – sono delle costruzioni molto semplici,
con delle connotazioni strutturali che le pongono a metà strada tra una
riduzione in scala della piramide di Zoser e degli edifici piramidali a
facciata liscia.
Il secondo complesso che ho analizzato, è costituito dalla Piramide di
Chefren, l’unica che ha conservato, intorno al proprio vertice parte del
rivestimento originario in pietra calcarea, forse la caratteristica principale
che l’ha resa famosa nel mondo. L’edificio ha una peculiarità che la rende
diversa rispetto agli altri due edifici principali, in quanto è l’unico a
caratterizzarsi per la presenza di una sola piramide satellite. Essa è
posizionata esattamente al centro della facciata sud, ovvero in una posizione
diversa rispetto alle corrispondenti piramidi satellite degli altri due
complessi principali, le quali si sviluppano dal centro del “monumento
madre” verso destra. Inoltre, a completare il microcosmo Chefren,
probabilmente in epoca dinastica, è stato edificato un piccolo tempio
posizionato sulla facciata est.
Infine, il complesso piramidale di Micerino si compone di un edificio
principale centrale e di tre edifici minori, appunto le piramidi satellite. Il
suo lato nord impressiona per le pessime condizioni in cui versa. Una
profonda cicatrice verticale minaccia, pericolosamente, la bellezza e la
stabilità del monumento. Il lato sud, invece, incuriosisce per la presenza
delle Piramidi Satellite, disposte in perfetto allineamento tra di esse, ma con
un orientamento cardinale diverso rispetto alle “sorelle” sistemate ai piedi
della Grande Piramide, poiché costruite a sud verso ovest.
Le sue caratteristiche sono molto interessanti, poiché nel confronto con la
Grande Piramide, intesa come Unità Base, l’edificio principale si sviluppa
secondo un rapporto proporzionale di 1:2, mentre gli edifici minori
presentano le medesime dimensioni delle piramidi satellite della Grande
Piramide. Ciò significa che, geometricamente, ci troviamo in presenza di
due complessi, i cui edifici principali si sviluppano secondo rapporti
proporzionali inversi, mentre quelli secondari sono, sostanzialmente,
proporzionali a se stessi.
Riassumendo:

1. La Piramide di Cheope ha tre Piramidi Satellite con


cardinalità Est.
2. La Piramide di Chefren ha una piramide satellite con
cardinalità sud, e un tempio funerario con cardinalità Est;
3. La Piramide di Micerino ha tre Piramidi Satellite con
cardinalità Sud.

La quasi totalità delle principali teorie proposte, inerenti i misteri delle


piramidi, hanno progressivamente chiarito alcuni aspetti della logica
scientifica alla base del complesso monumentale che caratterizza la Piana di
Giza. Tuttavia, ci sono alcuni elementi che ancora sfuggono ad un naturale
principio di armonia, il quale presuppone un’integrazione di ciascun
edificio nella totalità, restituendo un criterio di “molteplicità nell’uno”. Le
piramidi satellite, quindi, sembrano rappresentare un’apparente disarmonia,
se considerate nel contesto unitario, poiché avulse da una razionale
sistematicità del complesso architettonico.
Esiste uno strumento scientifico che possa restituire una risposta
soddisfacente, chiarendo il mistero delle cosiddette Piramidi Satellite?
ovvero, per illustrare in via definitiva la logica della loro disposizione ai
piedi delle piramidi e, più in generale, la loro funzione nel sistema
monumentale di Giza?
La risposta è nei principi di base dell’aritmetica e, in particolare, nella
Teoria degli Insiemi.
La Teoria degli Insiemi si è sviluppata nel XIX secolo grazie al matematico
tedesco Georg Cantor ed è l’elemento base di tutta la moderna matematica.
L’Insieme si caratterizza per una collezione di oggetti, definiti “elementi di
un Insieme” e, a loro volta, ciascuno di essi può avere diversi oggetti,
oppure non contenerne nessuno, in quest’ultimo caso l’insieme viene
definito “Insieme vuoto”. Pertanto, se osserviamo le Piramidi di Giza e le
inquadriamo in un sistema insiemistico, possiamo ricavare alcune
informazioni davvero interessanti.

Fig. 12. Distribuzione dei monumenti secondo gli orientamenti ai punti


cardinali.

Il modello di indagine si basa sui seguenti parametri:


- rilevamento degli allineamenti dei monumenti in base ai punti
cardinali;
- distribuzione dei monumenti principali;
- distribuzione dei monumenti secondari e relativa relazione
cardinale con i monumenti principali;
- suddivisione dei complessi monumentali secondo una logica
insiemistica.
Se dividiamo in quattro quadranti la sezione territoriale della Piana di Giza,
si ottiene la seguente distribuzione di elementi: nel quadrante di nord-est è
localizzata la Grande Piramide; nel quadrante di sud-ovest è posizionata la
Terza Piramide; esattamente nel centro, troviamo il vertice della Seconda
Piramide; mentre le piramidi satellite sono disposte lungo la base delle
piramidi di riferimento.
L’Insieme Principale |A|, come è possibile riscontrare dall’immagine alla
pagina precedente, si compone dei tre monumenti maggiori e si orienta
secondo un asse cardinale che si sviluppa da nord-est verso sud-ovest.
Le Piramidi Satellite, invece, costituiscono un ulteriore Insieme, che
definiamo |B|. Esse sono dislocate ai margini dell’Insieme Principale |A|,
quasi a sottolineare la diretta dipendenza da quest’ultimo. I monumenti
minori si sviluppano secondo cardinalità omogenee ed integrate, ad
eccezione della struttura ai piedi della Seconda Piramide che, a sua volta,
occupa spazi già occupati, da un punto di vista cardinale, dalle satelliti della
Terza Piramide. Ne valuteremo successivamente il pieno significato
aritmetico.
Nella prossima immagine, possiamo notare la disposizione degli Insiemi
|B|, |C| e |D|.
La Seconda Piramide, infine, rappresenta l’Insieme a “cardinalità zero” e,
per conseguenza, possiamo considerarlo come il “Punto d’Origine”. Essa
svolge questa funzione, poiché è all’incrocio degli assi cartesiani e, per
propria natura, è il punto 0.
Fig. 13. La teoria degli Insiemi ed il complesso monumentale di Giza

Al tempo stesso, esso rappresenta l’Insieme con cardinalità zero, in quanto


genera – nello sviluppo degli insiemi legati alla cardinalità – due insiemi
vuoti, ovvero |C| e |D|.
Lo sviluppo del procedimento aritmetico, attraverso lo strumento
dell’Unione degli Insiemi ci consentirà di acquisire dei risultati numerici, i
quali potrebbero restituire delle efficaci indicazioni sulle ragioni che hanno
ispirato il progetto.
Pertanto, attribuiamo a ciascun insieme un valore unitario, con l’obbiettivo
di ottenere i principali riscontri numerici.
L’insieme costituito dalla tre Piramidi Maggiori è indicato come Insieme
|A|. Sia, poi, |B| l’insieme costituito dalle tre Piramidi Satellite, sia della
Grande Piramide che della Piramide di Micerino, le quali occupano
rispettivamente i punti cardinali est e sud. A completamento del ciclo
geografico, ad ovest e a nord della Seconda Piramide, consideriamo gli
insiemi vuoti |C| e |D|, ovvero a cardinalità zero. Indichiamo con il simbolo
|A| la cardinalità di un generico insieme A, ossia il numero degli elementi
che lo compongono.
Così:
│ A │= 3
│ B │= 6
│ E │=9
│ C │ = │Ø│ = 0
│ D │ = │Ø│ = 0
Sia │E│ l’unione dei quattro insiemi |A| |B| |C| |D|, ovvero |E| = |A U B U
C U D|
Poiché i quattro insiemi indicati sono disgiunti, ossia sono privi di elementi
comuni, la cardinalità di |E| è uguale a 9.
Pertanto, il valore che si ottiene è il seguente:
|A| |B| |A U B U C U D| |C| |D|
↓ ↓ ↓ ↓ ↓
3 6 9 0 0
La procedura prevede, ancora, un ulteriore approfondimento.
Il risultato, infatti, si integra di un ulteriore dato, o quantità, riferita alla
piramide satellite della Piramide di Chefren. Tuttavia, prima di procedere,
analizziamone le caratteristiche ed osservazioni:
- la piramide satellite ha una disposizione sud, rispetto ai punti
cardinali, pertanto, nell’economia della sommatoria tra elementi
degli insiemi, non è assimilabile come addendo, poiché il
medesimo punto cardinale è già soddisfatto dalla presenza delle
piramidi satellite della Piramide di Micerino;
- le sue dimensioni estremamente piccole, sembrano chiaramente
indicare una riduzione proporzionale, o dimezzamento, rispetto
alle corrispondenti delle due piramidi maggiori, quindi è evidente
che l’unità di misura attribuibile alla piramide satellite di Chefren,
in termini numerici è esattamente pari a ½, ovvero la metà di una
unità.
- alla piramide satellite della Seconda Piramide, quindi, va
assegnato una quantità pari a ½ rispetto alle corrispondenti.
Inoltre, considerando che si trova esposta a sud, ovvero nello
stesso punto cardinale delle piramidi satellite di Micerino, è
evidente che rappresenta un valore da sottrarre e non certo da
aggiungere;
Ricapitolando, la Seconda Piramide si caratterizza per le seguenti proprietà:
- Cardinalità sud: valore negativo -½
- Cardinalità ovest: valore 0
- Cardinalità nord: valore 0
Si rappresenta che il segno negativo relativo all’espressione -½, deve essere
inteso come un “indicatore visivo”, ovvero simbolico, per indicare che
l’elemento considerato è la metà delle altre piramidi satellite, ubicate nei
pressi delle piramidi attribuite a Cheope e Micerino. Esso, quindi, deve
essere inteso come espressione simbolica di un dato valore numerico.
Probabilmente, è una procedura tecnicamente non corretta, ma
concettualmente e visivamente chiara. Talvolta, si è costretti a dover trovare
un compromesso tra “estetica” e “contenuto”.
Pertanto, volendo riassumere il principio in una singola unità aritmetica,
possiamo indicare la seguente relazione numerica:
|X| = - ½
|C| = 0
|D| = 0
Ovvero:
|X| |C| |D|
↓ ↓ ↓
0,5 0 0
Ovvero, un valore numerico pari a 500.
Pertanto, la relazione numerica che si potrebbe desumere dal simbolismo
delle piramidi satellite, considerate come parte integrante di un insieme più
complesso è il seguente:
36.900 – 500 = 36.400
Quali conclusioni si potrebbero dedurre da questo procedimento? E’ una
casualità? Un messaggio? Una sequenza senza valore? Cosa ci è stato
trasmesso dall’antichità? Esiste una relazione con lo Zep Tepi?
In natura, non esiste la casualità e, in ogni caso, anche le azioni dell’uomo
ne sono largamente influenzate. Pertanto, se dal paradigma Giza emerge
una simbologia che si esprime in numero, significa che esiste una ratio che
l’ha alimentata.
Il risultato numerico potrebbe indicare un “tempo”? potrebbe rappresentare
un intervallo tra due momenti fondamentali nella storia dell’evoluzioni
delle società antiche?
Analizzando il percorso dell’evoluzione umana, in campo antropologico,
esistono una serie di parametri fondamentali che la condizionano. Ciascuno
di essi si determina in un arco di tempo che gli studiosi hanno catalogato
come “ere”. È molto interessante notare, ad esempio, che l’intervallo di
tempo tra il passaggio della specie Neanderthal alla specie Sapiens -
ufficialmente riconosciuto in ambito accademico – sembra coincidere con il
risultato dell’analisi insiemistica delle Piramidi.
Una coincidenza? E, in questo caso, come si giustificherebbe un richiamo
all’evoluzione umana?
In realtà, gli antichi testi egizi, in particolare una quantità di frammenti che
compongono il Libro dei Morti, richiamano costantemente alla
contrapposizione tra due “fazioni” opposte, alla cui guida ci sono “i seguaci
di Seth” e “le genti di Osiride”. Ciascuna di esse di caratterizza per una
particolarità: le prima sono definite “Sebau” o “cinocefali” mentre i secondi
sono associati agli dei. Si tratta della descrizione di un ricordo che fa
riferimento alla contrapposizione tra due specie umane? Si potrebbe
affermare che la diatriba si concluda – come cita l’antico testo – con
l’annientamento della specie Neanderthal, o seguaci di Seth?[40] Esiste
davvero un’intima connessione tra i monumenti di Giza e la storia evolutiva
della specie umana, con l’affermazione di una nuova razza che viene
celebrato con lo Zep Tepi?
Se volessimo considerare fondate le ipotesi di Sitchin e correlarle
all’evoluzione del Sapiens e allo Zep Tepi, è plausibile che la modifica
genetica si sia verificata proprio intorno al 73.000 a.C. Dopo 36.400 anni,
l’uomo ha vissuto un altro momento epocale quando, dopo la rivolta dei
Sebau (Neanderthal) guidati da Seth, si è consolidato un nuovo Tempo che
celebra il ricordo di Osiride ed il trionfo di Horus, il primo regnate ibridato
dall’unione tra una dea (Iside) e un umano (Thot). Il concetto stesso di
Primo Tempo sta ad indicare un momento di rinascita dopo le turbolenze tra
le fazioni antagoniste che hanno portato l’Egitto nell’oscurità della
contrapposizione. Questa ipotesi potrebbe restituire dignità storica anche
all’elenco dei re, ricordati nel Papiro di Torino che si origina proprio a
ridosso del 36.000 a.C.
L’intervallo di tempo di 36.400 anni circa, quindi, rappresenterebbe il
motivo che ha indotto i costruttori ad edificare il complesso di Giza,
cercando di tramandare una vera e propria “Capsula del Tempo”,
celebrando l’autodeterminazione della nuova razza che dominerà il mondo
nei millenni a venire. Tutto ciò conduce a ritenere che, tra i resti
monumentali di Giza, si nasconde un mistero che collega l’Uomo alle sue
origini e la correlazione astronomica del sito segna il tempo in cui gli eventi
hanno avuto luogo.
Lo Zep Tepi, quindi, si sta progressivamente liberando dello stereotipo di
“mito” per assurgere a memoria di una fase fondamentale dell’evoluzione
dell’Uomo.
Parte II
Il Progetto Unitario ed
Il Tempio della Gran Madre
“Non ho trovato una parola migliore di “religione”
per definire la fiducia nella natura razionale della realtà,
per quanto sia accessibile alla ragione.
Ogni volta che questo sentimento è assente,
la scienza degenera in un piatto empirismo”
Albert Einstein
1. Giza e il 36.400 a.C.
La Natura della Ragione

Così, dopo tanta fatica, la strada si è aperta, passo dopo passo e si è


spalancato un nuovo mondo, pronto a rivelare uno dei segreti più
affascinanti dell’Egitto predinastico e, probabilmente, della storia
dell’uomo.
Un’opera monumentale senza precedenti si è manifestata in tutto il suo
splendore, rivelando gran parte dei suoi segreti che nessuno mai, nel mondo
della ricerca – sia esso accademico o alternativo - avrebbe mai potuto
concretamente immaginare.
La mia formazione alla scuola accademica è stata importantissima, poiché
mi ha concesso di acquisire quegli elementi di base che mi hanno permesso
di affrontare la ricerca nel modo più corretto possibile, senza travalicare la
realtà dei fatti, scadendo in fantasie prive di qualsiasi fondamento.
Leggendo, studiando e approfondendo testi sull’argomento - scritti da
eminenti e riconosciuti esponenti dell’archeologia – ho consolidato quei
capisaldi professionali che mi hanno permesso di capitalizzare le tecniche
più articolate per affrontare la ricerca, in generale e quella di campo, in
particolare.
Questa intensa esperienza formativa, mi ha dato la possibilità di apprezzare,
in tutte le sue sfaccettature, la magnifica civiltà che si è sviluppata lungo le
sponde del Nilo, nel periodo compreso tra il 3.180 ed il 343 a.C.
Grazie al durissimo lavoro svolto dagli Egittologi, è stato possibile rivelare
al mondo le meraviglie dell’Antico Egitto, della cultura, delle arti,
dell’architettura, della religione, della cosmologia che si sono sviluppate in
quel tempo e che, nel corso dei secoli, hanno fortemente influenzato il
divenire delle società umane, fino ai nostri giorni.
Tuttavia, nonostante gli sforzi, molte conclusioni annunciate in ambito
accademico, hanno manifestamente palesato alcune carenze e, talvolta,
contraddizioni che hanno finito per alimentare legittimi dubbi e perplessità
sulla reale consistenza delle scoperte effettuate. Soprattutto se, l’argomento
principale si riferisce ai misteri della Piana di Giza e, delle Piramidi in
particolare
Ma i segreti dell’Antico Egitto si cingono di ben altri reperti che, spesso per
le loro peculiarità, sono stati relegati nel dimenticatoio, poiché decisamente
scomodi. Mi riferisco, ad esempio, ai famosi reperti in diorite scoperti da
Sir William Flinders Petrie nel villaggio di Naqada e associati al periodo
predinastico; oppure, alle controverse interpretazione sulla portata storica
del Canone Reale; o ancora alle teorie proposte sui misteriosi bassorilievi di
Dendera che ancor oggi alimentano non pochi dubbi sulle conoscenze
scientifiche nell’Egitto Antico.
Questi argomenti necessitano una rivisitazione scientifica, prima ancora che
storica, poiché dalla loro complessa sincronia si potrebbe fare chiarezza su
alcuni misteri che alimentano la sete di conoscenza del periodo
predinastico.
Gli egittologi si sono fatti trascinare dall’impeto della scoperta “a tutti i
costi”, finendo con l’attribuire, al periodo dinastico, siti e reperti
archeologici che, con quell’epoca, non hanno nulla a che fare.
Questo, ovviamente, ha prodotto due effetti decisamente negativi:
La qualità dell’investigazione sulle civiltà del passato ha subito delle
conseguenze disastrose, generando una confusione anche nella semplice
catalogazione dei processi evolutivi delle società del passato;
Ha provocato furiosi e accaniti dibattiti tra ricercatori che, alla fine, hanno
fortemente condizionato la percezione del complesso e, talvolta, ermetico,
messaggio lasciato in eredità dalla misteriosa civiltà delle piramidi.
Questa brevissima e succinta riflessione sintetizza i motivi per cui ho deciso
di indirizzare le mie ricerche riferendomi alle teorie proposte dall’insieme
dei ricercatori inseriti, per pura convenzione, nella cosiddetta Scuola
Alternativa.
In particolare, ho concentrato la mia attenzione sulla teoria proposta da
Robert Bauval – ma anche su quelle proposte da Andrew Collins, Graham
Hancock, John Anthony West e Robert Schoch – i quali, partendo da dati
oggettivi, hanno utilizzato un nuovo modello di analisi scientifica, basata
sulla multidisciplinarietà; forse, meno austero ma, sicuramente, più in linea
con le moderne concezioni di indagine.
La loro inversione di tendenza ha permesso di avviare un nuovo percorso di
studio che ha rivitalizzato il morente archetipo accademico, dissipando i
molteplici dilemmi che – fino a qualche tempo fa – volteggiavano, come
avvoltoi, sulle teorizzazioni ufficiali. Naturalmente, ciò non significa che
l’Egittologia debba essere destinata al macero tout court, anzi, è
esattamente il contrario.
Gli egittologi – in condizioni estremamente complesse – sono riusciti a
ricostruire un periodo lungo più di tremila anni, nonostante le enormi
difficoltà incontrate nelle campagne di scavo, nonché nell’indagine e
ricostruzione delle ambientazioni in cui si è svolta la vita degli antichi
Egizi. L’unica responsabilità che si può muovere al mondo accademico, è
quella di aver formulato certezze, lì dove non ve ne era alcuna, a cominciare
dalle teorie sul complesso monumentale di Giza. Questa conflittualità può e
deve essere superata, poiché soltanto abbattendo le barriere che ci
allontanano, è possibile condividere un percorso comune di ricerca, il quale
accelererebbe la comprensione delle eredità lasciate dalle civiltà del
passato. Difendere posizioni preconcette, senza aprirsi a nessuna forma di
dialogo, è un atteggiamento che ridimensiona, sia nel ruolo che nella
funzione, il vero ricercatore.
Su queste basi, si fonda la mia filosofia di vita, poiché ritengo che il
confronto costruttivo sia l’unica strada per concentrare risorse ed energie -
fisiche e mentali - e seguire la tortuosa strada che ha condotto il genere
umano fino ai nostri giorni.
Queste convinzioni hanno fortemente condizionato anche il mio percorso di
ricerca, permettendomi di evitare derive improponibili, tanto quanto quelle
proposte finora, a partire dalla possibilità che l’Uomo moderno sia il frutto
di un percorso evolutivo differente e le cui origini sono fortemente radicate
nello Zep Tepi.
Ancora oggi, nei libri di testo universitari - sui quali intere generazioni si
formano, prima di intraprendere percorsi di ricerca archeologica o didattici
– si studia che le costruzioni piramidali di Giza sono state realizzate durante
la IV Dinastia, volute dai Faraoni Cheope, Chefren e Micerino. Per
centinaia di anni - nonostante la totale inconsistenza di qualsiasi prova
opposta in ambito accademico - le Piramidi di Giza sono state considerate
opere riconducibili all’Antico Regno, proponendoci una favola, i cui
fondamenti, sono – eufemisticamente - fragili.
Sono sempre stato dell’idea che la ricerca dovrebbe ammantarsi di una dose
massiccia di sana onestà intellettuale, prima di diffondere al mondo teorie
che sbattono contro realtà completamente in antitesi. Purtroppo, in questi
due secoli di egittologia, si è registrata una tendenza assolutamente opposta
e, solo grazie all’impegno profuso da persone semplici e appassionate di
antichità, si è potuto avviare un profondo processo di rinnovamento che ha
condotto lo studio sui misteri dell’Antico Egitto fuori dalle sabbie mobili in
cui ha annaspato per secoli.
Perché, come molti altri ricercatori, ritengo che le Piramidi di Giza non
appartengono al periodo dinastico?
Per valutare concretamente le ragioni di tali personali certezze, considero
necessario procedere su un percorso di analisi del fenomeno Giza più
articolato, proponendo un approccio assolutamente acritico, nonché
propenso alla ricezione di nuovi elementi di indagine che potrebbero
rivalutare le teorie finora ritenute inattendibili.
Il modello di indagine deve essere considerato avulso dalla semplice ed
ormai acquisita elencazioni delle caratteristiche tecnico-scientifiche della
Grande Piramide - che sono state già esaminate – e deve proporsi come
strumento integrativo a supporto di una nuova elaborazione finalizzata alla
ricerca multidisciplinare. È necessario partire dagli elementi più semplici -
apparentemente privi d’interesse - e da essi avviare una ricostruzione
ordinata dei risultati ottenuti.
Un aspetto particolarmente interessante, ad esempio, è stato lo studio degli
strumenti utilizzati nell’Antico Regno, poiché essi rappresentano,
indirettamente, un indicatore fondamentale per comprendere i livelli di
conoscenza conseguiti a quel tempo. Così come è stato importante prendere
coscienza della farsa di Vyse, grazie alla quale la Grande Piramide è stata
attribuita al faraone Cheope e rappresenta l’unica testimonianza
archeologica – in realtà ci sarebbe anche la Stele dell’Inventario, ma su
questo reperto ci soffermeremo successivamente, quando si affronterà la
storia della tomba di Khentkhaus - che ha indirizzato l’egittologia verso
l’ostinata convinzione che il monumento sia stato voluto da Cheope,
nonostante all’interno della Grande Piramide non siano stati mai trovati
geroglifici o riproduzioni artistiche che potessero ricondurre all’autore del
monumento o, semplicemente, al faraone che l’avrebbe commissionata.
Siamo, dunque, in presenza di un monumento muto!
Questa peculiarità avrebbe dovuto indurre gli egittologi ad una profonda
ponderazione e, soprattutto, ad una totale cautela, prima di procedere a
conclusioni prive di fondamento. Sarebbe bastata una semplice
osservazione, per evitare confusioni.
In tutto l’Egitto dinastico, ad esempio, non è mai stata realizzata un’opera
architettonica che non sia stata ricoperta, in ogni suo spazio disponibile, da
geroglifici che testimoniano la grandezza del regnante che l’ha voluta. Uno
dei più fulgidi e spettacolari esempi, sono i Templi di Sethi I e Ramses II,
nell’antica città di Abydos, ma anche le magnifiche rappresentazioni nella
piramide di Unas a Saqqara, oppure le magnifiche tombe scoperte nella
Valle dei Re. In essi sono conservati rari esempi di meraviglie ideografiche
che narrano la grandezza dei faraoni e dei principi cosmogonici della
religione egizia. Invece, le Piramidi di Giza rappresentano una vera e
propria eccezione al principio di autocelebrazione, imperante a quei tempi.
Perché?
La Grande Piramide – ma anche la Seconda e la Terza Piramide di Giza -
sono dei monumenti, talmente imponenti, da incutere timore reverenziale in
tutti coloro che vi si avvicinano. Sono la sintesi delle meraviglie
ingegneristiche di un tempo sconosciuto e dispongono di spazi enormi per
poter incidere bassorilievi, disegnare geroglifici o semplici scene di vita
quotidiana che riguardava il faraone e la sua famiglia. Invece, siamo qui a
chiederci per quale oscuro motivo gli scribi, gli scalpellini e gli artisti
dell’epoca, non abbiano osannato colui che ha voluto questo prodigio della
scienza. Non un geroglifico a celebrare la grandezza del Faraone che ha
realizzato una delle sette meraviglie del mondo antico.
Perché Cheope, così come Chefren e Micerino, non hanno imposto ai propri
cortigiani di incidere geroglifici per celebrare se stessi e le opere imponenti
che hanno fatto edificare, per conservare i loro corpi e destinando, così, i
loro spiriti all’immortalità?
Semplicemente perché nessuno dei tre faraoni ha mai commissionato la
costruzione delle piramidi.
Quando sono ascesi al trono, gli edifici erano già lì; non a caso, Cheope è
ricordato per aver “fatto opere di manutenzione” dell’edificio a lui ascritto e
non per averlo fatto costruire.
Chi le ha realizzate, dunque? E chi era il misterioso popolo che ha
colonizzato la Piana di Giza? E da dove veniva?
Le tesi ufficiali propongono una visione dell’Antico Egitto fortemente
vincolata ad inossidabili preconcetti, eppure ci sarebbero dei semplicissimi
spunti di riflessione – derivanti da una cauta osservazione – che le mettono
in crisi.
La prima considerazione si riferisce ad un aspetto puramente specialistico:
come è stato possibile realizzare questi monumenti senza l’ausilio di un
disegno tecnico? e come hanno fatto a sviluppare gli ambienti interni
seguendo forme architettoniche così precise?
La curiosità è stimolata dalla certezza che gli Egizi, nell’Antico Regno, non
avevano sviluppato le tecniche della tridimensionalità e della prospettiva.
Quindi, è legittimo chiedersi come hanno fatto gli architetti a trasferire le
informazioni tecniche ai capimastri e questi ultimi agli operai addetti alla
posa dei blocchi?
La risposta all’interrogativo, certamente, non viene fornita dall’Egittologia
– che con ogni probabilità – queste domande non le ha mai partorite,
ostinandosi in fantasie iperboliche al limite dell’irrazionale.
Un esempio calzante riguarda la discussione che si è generata sulla
disposizione delle camere funerarie all’interno della Grande Piramide. La
versione ufficiale stabilisce che il Progetto originario avrebbe subito una
serie di modifiche tecniche, in corso d’opera. La camera funeraria, infatti,
sarebbe stata progettata per essere disposta al di sotto del livello della terra,
posizionata nella cosiddetta Camera Sotterranea o del Caos;
successivamente, non si sa per quale motivo, sarebbe stata spostata nella
parte superiore del monumento, dove insistono le Camere della Regina,
prima e del Re, poi.
In realtà, questa teoria, non convince.
Sono dell’idea che gli ambienti interni sono stati concepiti e realizzati
secondo una visione globale del monumento che prevedeva una
disposizione delle camere, ben definita, sin dal principio. Pertanto, non è
stata disposta nessuna variante al progetto iniziale, bensì ciascun ambiente è
stato collocato nella posizione che conosciamo, per assecondare le funzioni
a cui erano stati destinati. Su questo argomento, è interessante annotare la
riflessione proposta da Rainer Stadelmann, nel suo lavoro “Egypt: The
world of the Pharaos”. Egli osserva: «Fino ad oggi, gli studiosi hanno
cercato con spirito ampiamente positivo di attribuire le tre camere della
piramide a tre successivi cambiamenti nel progetto. Ma non rende giustizia
agli architetti che disegnarono ed eseguirono questo edificio unico con
tanta perfezione, suggerire che nell’elemento essenziale della costruzione
della piramide, ossia il sistema delle camere sepolcrali essi avessero
proceduto senza concetto o disegno. A contrastare questa tesi c’è
un’argomentazione conclusiva secondo la quale la costruzione esterna e la
disposizione del sistema delle camere sono in perfetta armonia, e che ne
dentro ne fuori esiste alcuna evidenza di un cambiamento nel progetto
originale».
Ogni progetto architettonico ed ingegneristico si compone di varie fasi.
Nel caso specifico, per estrema semplificazione, ho rilevato quattro processi
di maggiore interesse:

1. La fase di estrazione dei blocchi;


2. La lavorazione della pietra;
3. Il trasporto verso il cantiere;
4. La messa in opera.

Oggi possiamo osservare gli edifici nel loro antico splendore, ma non
possiamo neppure immaginare quanto sia stata articolata la fase progettuale
e quella realizzativa.
Iniziamo ad esaminare la prima fase: l’estrazione dei blocchi.
Le teorie ufficiali chiariscono che i blocchi sono stati estratti con l’ausilio di
strumenti molto semplici, ovvero utilizzando i cunei di legno. Essi, una
volta conficcati nella parete rocciosa - grazie all’apposito utilizzo di
martelletti in legno - venivano successivamente imbevuti di acqua. Di
conseguenza, lo spessore del legno tendeva ad aumentare, fino a
raggiungere un punto limite che avrebbero spaccato la roccia, rendendo
possibile l’estrazione del blocco.
Questa ipotesi – tuttora sostenuta in ambito accademico - genera una prima
perplessità tecnica: come è stato possibile forare la roccia – di granito,
basalto ed arenaria - per inserirvi i cunei? Inoltre, per estrarre i blocchi,
aventi misure variabili tra 1 metro e 80 centimetri, gli operai avrebbero
dovuto trapanare la roccia in profondità, così da ottenere la giusta
dimensione, ovviamente nella speranza che la roccia non subisse particolari
fratture che avrebbero vanificato gli sforzi. Pertanto, la prima fase di
lavorazione presenta delle problematiche legate all’utilizzo degli utensili
all’epoca disponibili che si rivelano, all’atto pratico, assolutamente inadatti.
La seconda fase considerata, si riferisce alla lavorazione dei blocchi e, in
particolare, alla fase di taglio del granito e del basalto. L’egittologia, per
questo tipo di processo, ipotizza l’uso di seghe in rame non dentellate. Per
eseguire il taglio in maniera precisa e senza rovinare il blocco, gli operai
spargevano della sabbia sulla superficie superiore della pietra così da creare
le condizioni per un giusto attrito. Alcuni anni fa, Bob Brier - egittologo di
origini americane ed appassionato di civiltà antiche - ha sperimentato il
taglio di un blocco di granito - individuato tra i tanti sparsi tra le sabbie
della Piana di Giza - utilizzando le medesime tecniche, nonché gli strumenti
dell’epoca. Il risultato ottenuto, credo si commenti da solo: la profondità di
taglio ottenuta è stata, approssimativamente, di due millimetri, in circa 30
minuti di lavoro. L’operazione ha chiesto anche il cambio di diverse seghe
che avevano ceduto nel corso della faticosa operazione. Questo esperimento
è servito per comprendere che utilizzando la tecnica condivisa in ambito
ufficiale, ci sarebbero volute settimane intere per tagliare un solo blocco
con gravi ripercussioni sui tempi di costruzione del monumento, oltre alla
necessità di approvvigionamento tonnellate di rame per realizzare gli
utensili.
La terza fase di lavorazione si riferisce alle procedure adottate per il
trasferimento dei blocchi dalla cava al cantiere.
Sono molteplici le tesi, ma ho ritenuto opportuno analizzare le teorie più
“gettonate” dall’Egittologia, ovvero il trasporto via terra e quello via fiume.
Nel 2013, nel corso di un colloquio Skype con John Ward - egittologo di
stanza a Luxor e responsabile del Sirius Project - mi ha informato che le
cave di granito utilizzate per estrarre i blocchi che formano la Camera del
Re e lo Zed, non provengono da Assuan, bensì dalla Nubia, quindi, ancora
più a sud rispetto a quanto ipotizzato finora. Questa informazione,
straordinaria da un punto di vista archeologico, incide relativamente sulla
soluzione dell’enigma, poiché la differenza nelle distanze non è
assolutamente determinante, in quanto trasportare un blocco di 50
tonnellate per meno di dieci metri, per gli Egizi dinastici sarebbe già un
miracolo.
L’ipotesi del trasporto terrestre è altamente improbabile, soprattutto se si
considera che, a quel tempo, non si conosceva ancora l’uso della ruota.
Inoltre, la teoria delle slitte è da scartare senza ulteriore indugio, perché
eccessivamente fantasiosa.
E’ stata ipotizzata la possibilità che gli operai abbiano utilizzato il Nilo per
spedire i blocchi verso il cantiere. Proviamo ad immaginare quale
organizzazione era necessaria per imbarcare blocchi della lunghezza di 10
metri per circa 50 tonnellate. Per realizzare l’impresa, occorreva una
struttura di carico di dimensioni enormi, oltre ad un’imbarcazione che ne
reggesse il peso. Peraltro, considerando che, solo la Grande Piramide, è
formata da 2.300.000 blocchi, dobbiamo immaginare che sul Nilo ci
sarebbe stato un traffico degno delle peggiori metropoli occidentali, senza
considerare le mutevoli condizioni del fiume durante l’anno che avrebbero
rallentato le fasi di trasporto. Inoltre, non ci sono prove che testimoniano,
seppur indirettamente, l’esistenza di un’imponente flotta mercantile che il
caso avrebbe richiesto, nel corso della IV Dinastia.
Siamo così giunti alla quarta ed ultima fase, ovvero la messa in opera dei
blocchi per la costruzione della piramide.
L’Egittologia favoleggia di decine di migliaia di operai impegnati nei
complessi procedimenti di edificazione. La presenza di un numero così
ingente di manodopera, avrebbe richiesto un sistema organizzativo
grandioso. Significa che la stragrande maggioranza della popolazione
Egizia sarebbe stata trasferita sulla Piana di Giza, con un’inevitabile
ricaduta su tutto il sistema produttivo interno del Paese. Questa teoria,
peraltro, è vanificata da una semplicissima considerazione: come è possibile
sostenere l’impiego così imponente di operai, se ogni blocco del peso
medio di 3 tonnellate - quindi uno dei più “piccoli” utilizzati per completare
la struttura esterna - per esigenze di spazio, richiede al massimo l’impiego
di 6/8 operai. Ammesso che 8 uomini siano stati in grado di sollevare un tal
peso e disporlo ad altezze così elevate, senza l’ausilio di strumenti idonei.
Questi brevi spunti di riflessione, dovrebbero indurre, anche le menti più
ortodosse, a prendere seriamente in considerazione la possibilità che
sull’argomento Giza sono state raccontate molte “inesattezze”.
La Grande Piramide nasconde tra le proprie mura, misteri davvero
affascinanti e, quando ci si riferisce alla “prima” meraviglia del mondo
antico, non si commette errore.
Essa è ammirata per la bellezza della Camera del Re, per la maestosità della
Grande Galleria o, anche, per la misteriosa colonna Zed. Tuttavia, esiste un
ambiente al suo interno che merita una riflessione ulteriore, poiché
conferma l’impossibilità che gli operai egizi abbiano realizzato il
monumento.
Il Condotto Discendente è uno degli ambienti meno noti e soprattutto meno
studiati. Di questo miracolo dell’ingegneria si parla raramente, eppure
rappresenta un indizio straordinario che genera non pochi dubbi sulla
connessione tra Grande Piramide e l’Antico Regno. Esso misura circa 109
metri e, per circa 75 metri è interamente scavato nella roccia viva. Mantiene
un’inclinazione costante di 26°34’; misura 1 per 1,19 metri ed ha uno scarto
nell’allineamento - dal punto iniziale al punto finale - contenuto in un
centimetro.

Fig. 14. Particolare del Condotto Discendente

Proviamo ad immaginare un operaio egizio, vissuto nel corso della IV


Dinastia – anche perché il cunicolo non avrebbe potuto ospitare più di un
operaio alla volta - addetto alla realizzazione di questo cunicolo; opera in
condizioni di lavoro estreme, dovuta all’esiguità degli spazi, alle
scarsissime quantità di ossigeno, poiché assorbito dal fuoco delle torce per
illuminare il tunnel e, soprattutto, con utensili di lavoro in legno e rame.
Ci vuole davvero molta fantasia per poter sostenere la plausibilità di questa
teoria.
Ma Giza non è l’unico mistero, ce n’è un altro – intimamente connesso al
famoso sito archeologico – che sembra custodire il retaggio di un’antica
Conoscenza perduta. Un Sapere che gli Egizi, non avendo le capacità di
comprenderne il significato scientifico, hanno trasferito in semplici
simbolismi, penalizzando – di fatto - il significato originario.

Fig. 15. Bassorilievo nelle cripte del Tempio di Dendera. Sembra una chiara
raffigurazione di un processo elettrolitico

Il sito in questione si trova a Dendera, l’antica Lunet-ta-netheret, in cui è


edificato il Tempio dedicato alla dèa Hator.
I bassorilievi contenuti nel tempio sono molto interessanti ed hanno attratto
molti ricercatori che hanno tentato di interpretarne le espressioni artistiche.
La casa della dea Hathor, peraltro, nella seconda metà del secolo scorso, è
stata al centro di un vero e proprio “giallo internazionale”.
Qualcuno avrebbe, volontariamente, trafugato alcuni bassorilievi,
asportandoli dalle cripte ed inviandoli in Europa, molto probabilmente al
Louvre. Ci sarebbero le testimonianze di un ricercatore tedesco, Peter
Ehlebracht che ne denunciò il caso. Le testimonianze dell’epoca parlano di
Ehlebracht che sarebbe stato “invitato” ad allontanarsi dal sito e a tacere su
quanto visto. Come noto, le verità sono sempre nel mezzo e, quindi, anche
questa narrazione deve far riflettere. Se la storia fosse vera, ci sarebbe un
solo motivo per cui i bassorilievi dovevano essere rimossi: era necessario
nascondere scomode verità, come quelle occultate nel famoso museo
francese[41].
La parte inferiore del tempio della dea Hathor è formata dalle cosiddette
cripte, le cui origini sono particolarmente controverse. Molti ricercatori
sono convinti che la parte inferiore dell’edificio è stata realizzata in epoche
largamente antecedenti il periodo dinastico, mentre le raffigurazioni interne
sembrano conferire certezza a questa ipotesi.
Cosa ne pensa l’Egittologia?
Gli egittologi ritengono che i bassorilievi scolpiti nel tempio, abbiano
semplicemente una funzione “ornamentale” e, quindi, nulla a che fare con
l’ipotesi di Civiltà prediluviane.
Hanno ragione?
In realtà, le analisi simboliche stanno consegnando alla storia riscontri
diametralmente opposti, poiché in alcuni di essi sembrano emergere delle
conoscenze inspiegabili per l’epoca in questione. Infine, voglio proporre
un’ultima riflessione su alcuni reperti che richiamano alla mente i blocchi
utilizzati per costruire le Piramidi. L’Egitto predinastico è testimonianza di
eventi molto singolari, soprattutto se si considerano i reperti in diorite
rinvenuti da Sir William Flinders Petrie, alla fine del XIX secolo. La diorite
è una roccia magmatica ed è una delle pietre più dure esistenti sul nostro
pianeta. E’ talmente difficile da lavorare e scolpire che, nell’Antico Regno,
era utilizzata per modellare il granito. Anche in altre antiche civiltà, ad altre
latitudini, sono stati trovati reperti che dimostrano l’utilizzo di questa
roccia; un esempio, è il famoso Codice di Hammurabi, scolpito su una
colonna di diorite alta due metri. E’ bizzarro notare come la diorite, in
ossequio alle teorie accademiche, sarebbe stata lavorata in un periodo in cui
gli utensili usati erano assolutamente inadatti a modellare superfici così
dure.
Fig. 16. A sinistra vaso di Naqada (periodo predinastico) a destra vaso in
avorio (periodo dinastico)
Nella foto, sono messi a confronto due oggetti, sulla sinistra quello
rinvenuto a Naqada e a destra, un vaso in avorio, risalente al primissimo
periodo dinastico. Tra i due oggetti c’è una differenza temporale molto
breve, eppure la qualità del materiale usato è diametralmente opposta. Un
dato interessante è che, mentre il vaso in diorite non presenta nessuna
incisione di natura artistica, nel secondo non c’è lo spazio per apporre una
punta di matita.
Stando così le cose, si deve dedurre che nel giro di poco meno di 300 anni,
si sarebbe assistito una vera e propria rivoluzione nella scrittura e nella
lavorazione delle materie prime. Una sistematica involuzione nella qualità
dei materiali utilizzati, in quanto si è passati dalla diorite a materie prime
più duttili, nonché un’evoluzione nell’arte decorativa, visto il “silenzio” del
reperto trovato da Petrie che fa da contraltare al chiacchiericcio grafico del
vaso risalente alla prima dinastia. Il silenzio del vaso di Naqada rammenta
un altro monumento altrettanto silenzioso: le mura interne alla Grande
Piramide.
Potrebbero appartenere allo stesso periodo?
Lo Specchio del Cielo

A giugno del 2015, si è concluso un lungo ciclo di studi che mi ha


impegnato per circa sedici anni, culminato con la pubblicazione della mia
teoria. Nella sua forma propedeutica, è stata presentata nel 2010, alla Zayed
University di Dubai, nell’ambito della International Conference on Ancient
Studies. I risultati conclusivi, invece, sono stati ufficialmente pubblicati a
gennaio del 2015, sulla rivista specializzata Ancient Origins.
L’obbiettivo del lavoro è dimostrare che la Piana di Giza è stata costruita in
epoche antecedenti la Civiltà Dinastica e, al contempo, gli edifici che
formano il Progetto non sono solo le Piramidi e la Sfinge, ma si completano
con altri complessi monumentali, certamente non secondari. Zep Tepi e
Progetto Unitario, pertanto, sono due espressioni che assumono un
significato particolarmente articolato e misterioso e rappresentano le
fondamenta sulle quali si sviluppa uno degli enigmi più oscuri dell’Antico
Egitto.
Il misterioso momento della Creazione è, da sempre, associato alla
mitologia, anche se - a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso - ha,
pian piano, acquisito una connotazione storica sempre più marcata,
nonostante la dinamica interpretativa sia stata fortemente condizionata da
sterili compromessi di maniera, assolutamente penalizzanti ai fini della
ricostruzione storica del passato remoto.
Stando alle definizioni accademiche, lo Zep Tepi non è un evento unico e
irripetibile, piuttosto si integra alla nozione di ciclicità e, quindi, si
predispone ad una sua possibile ripetibilità. Pertanto, gli Egizi possedevano
una duplice visione del Tempo - inteso come fenomeno lineare (djet) e
ciclico (neheh) - integrata da una comune matrice di osservazione dei
fenomeni: l’astronomia.
Ecco perché questa scienza diventa centrale nell’interpretazioni dei
monumenti e dei reperti predinastici. Essa, infatti, assorbe i principi di
linearità e ciclicità temporale, esprimendo le proprie caratteristiche
attraverso la naturale disposizioni degli astri nella Volta Celeste. Gli edifici
di Giza, quindi, non rappresentano altro che le impronte lasciate da una
Civiltà perduta che ha saputo unire la Terra al Cielo.
Nel corso del secolo scorso, si è discusso sulla possibilità che Giza fosse
espressione di un progetto, architettonicamente, molto più complesso.
L’idea che gli edifici maggiori e la Sfinge fossero stati costruiti nello stesso
momento, ha assunto una funzione sempre più centrale, soprattutto
all’indomani della pubblicazione della Teoria della Correlazione. Tuttavia,
circoscrivere il progetto alle sole Piramidi e al monumento dalle sembianze
leonine, significa penalizzare la comprensione di un messaggio molto più
eterogeneo.
Qualsiasi investigazione, tuttavia, necessita di una chiave di lettura. Non è
possibile proporre alcuna soluzione ad un qualsiasi problema, se non se ne
conoscono le regole che lo governano e, la Piana di Giza non è avulsa da
questa prassi.
Per comprenderne il messaggio è stato necessario aprire il “criptex” è
decifrarne il contenuto. Per farlo, ho utilizzato l’unica forma di linguaggio
comprensibile in ogni angolo dell’Universo: il numero. Del resto, sarebbe
stata una follia ipotizzare che, una qualsiasi Civiltà del passato, abbia potuto
trasmettere un codice utilizzando una forma letterale. Certamente, non
avrebbe ottenuto il risultato sperato.
La storia dell’Archeologia, infatti, è caratterizzata dalle enormi difficoltà
nel tradurre antiche lingue estinte che avrebbero potuto trasmettere indizi
utili per ricostruire gli usi e i costumi delle civiltà del passato. Se non fosse
stata scoperta la Stelle di Rosetta, ad esempio, sarebbe stato molto difficile
riuscire a tradurre la scrittura geroglifica egizia. Lo stesso dicasi per la
scrittura olmeca, zapoteca o epiolmeca, oppure per la scrittura Rongo-
Rongo dell’isola di Pasqua, o ancora i simboli incisi sul disco di Festo.
Sono tutti esempi di scritture ideografiche il cui significato è ancora di
difficilissima comprensione. Se queste civiltà avessero usato il linguaggio
del numero, verosimilmente, avrebbero potuto facilitare la comprensione
delle conoscenze che intendevano trasferire nel futuro.
Quest’ultima considerazione ritengo sia decisiva, poiché mi permette di
proporre un brevissimo spunto di riflessione sulla differenza tra le antiche
civiltà - prossime alla nostra - e quella prediluviana, ipotetica progettista
delle piramidi e di molti altri misteriosi edifici sparsi sul pianeta. Mentre le
prime, usano la scrittura secondo un’evoluzione sociale limitata al proprio
contesto storico che, ancora oggi, risulta di difficile traduzione, la seconda
propone l’utilizzo del linguaggio con il preciso intento di trasmettere il
proprio livello di conoscenza raggiunto. La prima utilizza un proprio
alfabeto, espresso attraverso simboli, il cui significato è spesso ignoto,
l’altra utilizza il numero nelle sue varie proposizioni. Per conseguenza, la
prima non comunica se non con se stessa, la seconda è in piena armonia con
il futuro.
A partire dal 2002, ho dedicato parte del mio percorso di ricerca, allo studio
della relazione tra linguaggio universale e monumenti, utilizzando
l’astronomia come strumento di connessione. A supporto, mi sono affidato
ad un software professionale per la simulazione astronomica, lo Starry
Night Pro Plus – aggiornandone la versione nel corso del tempo.
Da un punto di vista archeologico, invece, ho basato lo sviluppo delle mie
ricerche sulla scia dell’eredità lasciata da Robert Bauval.
Nel suo libro Custode della Genesi - scritto con Graham Hancock - egli
sostiene che l’Età dello Zep Tepi è da individuare nell’Era del Leone più
vicina ai nostri tempi - ovvero, nel 10.500 a.C. - perché “più in linea con
l’evoluzione dell’uomo”.
Questa spiegazione rappresenta, in sostanza, un limite formale, poiché
frutto di un evidente compromesso diplomatico. Al contempo, apre la strada
ad un ulteriore limite, questa volta di carattere tecnico. Infatti, per
sviluppare la sua teoria, egli prende in considerazione solo le Piramidi e la
Sfinge, tralasciando la possibile esistenza di altri monumenti rientranti nel
Progetto Unitario. Il terzo limite è di carattere scientifico e lo
approfondiremo nel corso del paragrafo.
Si tratta, quindi, di una proposta evidentemente errata.
Quindi, se le teorie ufficiali risultano scientificamente prive di senso e,
quella di Bauval, è condizionata da palesi inesattezze tecniche, è stato
necessario colmare le lacune con un nuovo percorso di indagini, il quale si
sviluppa lungo due direttrici fondamentali:
- Ricostruire l’intero Progetto Unitario di Giza, integrando gli edifici
rientranti nell’architettura originaria;
- Individuare il preciso momento storico dello Zep Tepi.
Come accennato, gli Egizi possedevano una cognizione del Tempo molto
complessa, attribuendo al suo scorrere una caratteristica di linearità (djet) e
di ciclicità (neheh).
L’idea di un Tempo ciclico si sposa alla perfezione con il fenomeno del
Ciclo della Precessione degli Equinozi, proponendo, come risultante, la
condizione che possano esistere più Età astronomiche in cui si sarebbe
verificata l’Età dello Zep Tepi, in ragione della costellazione che dominava
l’equinozio. La difficoltà, in questo caso, è stata quella di individuare l’Età
astronomica corretta. L’unico parametro certo è la Sfinge, la quale
rappresenta chiaramente un indicatore equinoziale, ovvero l’Età
astronomica del Leone, ovvero il tempo in cui all’equinozio di primavera il
sole sorgeva in quella Costellazione. Tuttavia, prima di entrare nei dettagli
dell’indagine astronomica, osserviamo brevemente alcuni aspetti
caratterizzanti il periodo dinastico, per avere contezza delle reali abilità
degli Egizi nelle tecniche di osservazione del moto delle stelle. Su questo
argomento, naturalmente, le perplessità sono notevoli, soprattutto perché la
conoscenza della dinamica astronomica presuppone una competenza tecnica
estremamente impegnativa. Come vedremo, la precisione degli allineamenti
è tale, da risultare impossibile che il progetto Giza possa essere il frutto di
semplici osservazioni ad occhio nudo.
Pertanto, ho voluto approfondire la materia, facendo delle apposite ricerche
partendo dalle tesi proposte dall’Egittologia Ufficiale. Iniziamo col dire che
le fonti ufficiali, sull’argomento, sono molto scarne. Mentre per la
matematica esistono Papiri che testimoniano conoscenze abbastanza evolute
per l’epoca – vedi ad esempio, il particolare contenuto del Papiro Rhind[42] -
in materia di astronomia non ci sono spunti di analisi particolarmente
rilevanti. Gli Egizi hanno trasmesso – attraverso le loro opere - nozioni
molto elementari, nella maggior parte dei casi riproducendo formule
funerarie, associate alle dinamiche stellari; in particolare, associando gli dèi
alle costellazioni o agli astri, come nel caso del viaggio del dio Ra - che
personifica il Sole - nel suo percorso lungo l’eclittica. L’osservazione del
moto delle stelle, secondo l’Egittologia, era effettuata con l’utilizzo di uno
strumento rudimentale, sulla cui precisione, ci sarebbe molto da discutere: il
Merkhet[43].
Fig. 17. Il Merkhet è lo strumento di misurazione astronomica usato
nel periodo dinastico, nella traduzione italiana, significa “ciò che
conosce”

Questo strumento – nella sua forma più primitiva - era formato da una
foglia di palma stilizzata, avente al suo apice un taglio ed una squadra con
filo a piombo e avrebbe permesso ai sacerdoti egizi di osservare il moto
delle stelle. Rimane il dubbio sulla efficacia dell’osservazione del loro
moto, sulla precisione dell’esplorazione della dinamica astronomica,
sull’adeguatezza nel calcolare le posizioni angolari degli astri, sulla validità
nello studio dei moti irregolari delle stelle (come nel caso di Sirio) e
determinare le conseguenti anomalie in termini matematici, fino a
trasformare i dati in scala e riprodurli nelle costruzioni di Giza.
I progettisti avrebbero dovuto ottenere dei dati scientifici di una precisione
straordinaria, per poterli riprodurre nei monumenti con esattezza maniacale.
Innanzitutto avrebbero dovuto conoscere il momento astronomico da
replicare, poi le coordinate astronomiche degli allineamenti e, infine,
sviluppare delle formule matematiche e le relative proiezioni, così da
realizzare una perfetta simmetria tra Terra e Cielo, garantendo una
precisione al minuto di un grado.
Tutto ciò era nelle competenze degli Egizi dinastici?
La risposta è scontata.
Tuttavia, bisogna sottolineare l’importanza ed il ruolo della civiltà Egizia
dinastica, la quale è riuscita a tramandare testimonianze di un tempo remoto
che altrimenti avremmo perso per sempre.
È stato un lavoro straordinario, poiché tutto ciò che, in quel periodo storico,
proveniva dalle profondità del tempo non è andato completamente perduto.
La trascrizione nelle formule funerarie del moto degli astri – come nel caso
del Sole e della Costellazione di Orione – seppur racchiusa in simbolismi
molto elementari, ha permesso di preservare informazioni eccezionalmente
vitali.
È come se la nostra società - tecnologicamente avanzata - da qui a qualche
tempo, a causa di eventi catastrofici, perdesse memoria delle conoscenze
acquisite e si trovasse nella condizione di dover ripartire dal nulla. Sarebbe
una tragedia immane se i superstiti non fossero in grado di preservare la
conoscenza e la memoria del tempo, magari anche in semplici graffiti
disegnati all’interno di grotte e caverne, magari, da mani inesperte.
E’ successo questo in Egitto?
A questo punto, non resta che concentrarci sullo studio delle dinamiche
astronomiche, alla ricerca della configurazione celeste che la perduta civiltà
delle piramidi ha trasmesso nel tempo attraverso il complesso monumentale
di Giza.
Per avere un’idea precisa di come le configurazioni siano soggette a
continui mutamenti nel corso delle ere, ho voluto esaminare tempi
astronomici diversi, così da offrire una serie di elementi di valutazione ed
evidenziare quanto siano necessarie opportune competenze per
comprenderne le dinamiche.
La scelta dei momenti precessionali esaminati non è casuale, bensì sono
ispirati da criteri ben precisi:

a. il 9.000 a.C. rappresenta il limite ultimo della datazione della


Sfinge proposta da Robert Schoch e John Anthony West;
b. il 10.500 a.C. rappresenta la datazione proposta da Robert
Bauval nella sua Teoria della Correlazione;
c. il 34.900 a.C. è esattamente un ciclo precessionale
antecedente il 9.000 a.C.;
d. il 36.400 a.C. è esattamente un ciclo precessionale
antecedente il 10.500 a.C.

Il punto di osservazione è, naturalmente, la Piana di Giza, in particolare


immaginiamo di essere in piedi, rivolti ad est, al centro della facciata della
Grande Piramide. Il momento di osservazione corrisponde all’alba
dell’equinozio di primavera, in ragione della funzione equinoziale della
Sfinge.
A questo punto, non ci rimane che cominciare il nostro “Viaggio nel
Tempo”.
Fig. 18. La Volta Celeste nel 9.000 a.C. osservata dalla facciata est
della Grande Piramide di Giza

Come è possibile osservare da quest’immagine, siamo all’equinozio di


primavera dell’anno 9.000 a.C. Il Sole è all’orizzonte in congiunzione con
Regolo, mentre la Costellazione del Leone sembra proteggere il sorgere
dell’Astro. In questa configurazione, la posizione della costellazione del
Leone è perfettamente disposta sulla linea immaginaria dell’Orizzonte
Celeste, quasi fosse adagiata.
La Costellazione di Orione è orientata verso Sud-Est ad un altitudine di
12°1.242’, leggermente distante dal Meridiano Celeste, posizionato a sud.
La Luna è esattamente nella “mano destra” di Orione, mentre la
Costellazione del Cane Maggiore, con Sirio, è ben al di sotto dell’orizzonte.
E’ evidente l’assenza di qualsiasi ipotetica simmetria tra gli astri e i
corrispettivi monumentali. In particolare, le posizioni della Costellazione di
Orione e della Costellazione del Leone sono completamente disallineate
rispetto ai monumenti maggiori di Giza.
La correlazione che stiamo osservando, conferma che, il periodo
astronomico considerato, non è per nulla indicativo e che non sussistono
particolari correlazioni che potrebbero giustificare una relazione tra questa
era e lo Zep Tepi. E’ opportuno, quindi, verificare momenti astronomici
differenti, per individuare l’epoca che i costruttori hanno immortalato tra le
sabbie del deserto egizio.

Fig. 19. La Volta Celeste nel 10.500 a.C. osservata dalla facciata est della
Grande Piramide di Giza

L’allineamento che stiamo osservando è quello proposto da Robert Bauval,


nella sua Teoria della Correlazione. Siamo a Giza nell’anno 10.500 a.C.
Come è possibile notare, all’alba dell’equinozio di primavera, la
Costellazione del Leone si trova in asse rispetto alla Sfinge, mentre la
Costellazione di Orione, si trova sul meridiano celeste, al un’altitudine di
13°47.994’, leggermente direzionata verso il quadrante di sud-est.
In questo caso, è particolarmente importante notare la posizione della stella
Mintaka che si trova esattamente sul meridiano, mentre la stella Al Nitak –
corrispondente della Grande Piramide - è spostata verso sud-est. Questa
collocazione è, chiaramente anomala, poiché gli elementi principali della
Cintura di Orione e della Piana di Giza – ovvero la stella Al Nitak e la
Grande Piramide - sono completamente disallineati. Da notare, inoltre, la
posizione della stella Sirio che si trova al di sotto dell’orizzonte celeste e
quindi non è visibile dal punto di osservazione.
La stella di Iside apparirà all’orizzonte celeste, molto più tardi, nel corso
della normale dinamica astronomica.
L’assenza della stella Sirio nella configurazione è un dato determinante,
soprattutto in considerazione della funzione e del ruolo acquisito da Iside
nelle vicende dello Zep Tepi.
Pertanto, l’allineamento proposto da Bauval, presenta diverse incongruenze,
troppi elementi fuori simmetria, per poterla considerare plausibile ai fini
della determinazione del Primo Tempo. Si potrebbe ipotizzare una sua
correttezza storica solo, e solo se, volessimo considerare la sua teoria come
momento conclusivo di un ciclo precessionale che ha, nell’origine dello Zep
Tepi, il suo principio.
Viceversa, se volessimo ritenere la proposta del ricercatore alessandrino,
quale fondamento che determina lo Zep Tepi, allora non possiamo non
sottolineare che i dettagli ne dimostrano l’inconsistenza scientifica e che il
10.500 a.C. non corrisponde all’epoca che i costruttori hanno voluto
tramandare nel tempo.
Pertanto, non ci resta che tornare indietro attraverso i cicli della
precessione, nel tentativo di individuare il momento preciso in cui si
manifesta la perfetta congiunzione tra la Piana di Giza e la Volta Celeste.
Fig. 20. Giza: La Volta Celeste nel 34.920 a.C.

In questa immagine, possiamo osservare la Volta Celeste nel 34.900 a.C.,


ovvero un ciclo precessionale indietro rispetto al primo allineamento
proposto dalla mia analisi, ovvero al 9.000 a.C.
Anche in questo caso, siamo all’alba dell’equinozio di primavera. Il
confronto tra i due allineamenti, propone una disposizione similare delle
costellazioni, con una variante molto interessante: sull’orizzonte celeste si
verifica un’importante congiunzione tra Venere–Sole–Regolo. Una
simbologia particolarmente intensa che richiama alcuni personaggi centrali
della mitologia egizia. La posizione del Leone, anche in questo caso, non
rispetta alcuna simmetria con la Sfinge, mentre la Costellazione di Orione si
posiziona a sud-est rispetto al meridiano celeste, ad un’altezza di
12°15.362’. Come è possibile notare, la posizione di Orione non soddisfa il
possibile allineamento con i monumenti di Giza, poiché decisamente fuori
asse e lontana dal meridiano celeste. Infine, Sirio si posiziona appena sotto
l’orizzonte celeste ed è invisibile all’osservatore. E’ chiaro che il periodo
astronomico non restituisce un potenziale allineamento con i monumenti
principali di Giza.

Fig. 21. Il cielo sopra Giza all’equinozio di primavera dell’anno 36.450 a.C.

Godiamoci, ora, uno dei momenti più straordinari della storia del nostro
passato remoto, allorquando, nei cieli di Giza si allineavano astri e pianeti
secondo una logica divina.
Siamo all’equinozio di primavera dell’anno 36.400 a.C. I primissimi raggi
di Sole stanno annunciando l’Alba.
La Costellazione del Leone e la Sfinge si fissano negli occhi, incrociando il
loro sguardo ad un angolo di circa 22° gradi Sud-Est. Sul Meridiano Celeste
è posizionata la Costellazione di Orione, disponendosi in perpendicolare
rispetto alle Piramidi. Il primo dato che suscita meraviglia è la perfetta
congiunzione tra Al Nitak - la stella maggiore della Cintura di Orione
posizionata sul Meridiano Celeste - e la Grande Piramide, suo
corrispondente monumentale. In nessun altro allineamento astronomico
proposto, si stabilisce questa precisa congiunzione tra i due elementi
maggiori della Piana e della Volta Celeste. Al Nitak taglia il meridiano
celeste, come la Grande Piramide si trova precisamente al centro della
massa terrestre, ovvero all’incrocio tra il meridiano ed il parallelo
principali, ovvero a 1/3 della distanza fra Equatore e Polo Nord,
rappresentando lo “zero naturale” di longitudine. Inoltre, è di notevole
rilievo notare gli altri elementi astronomici che confermano ed esaltano il
concetto di Primo Tempo o di Nuova Epoca. Innanzitutto, la posizione che
assumono i pianeti nel corso del loro moto orbitale. Essi sono tutti
concentrati nell’emisfero di Sud-Est, quasi come se volessero
accompagnare il sorgere del Sole nel suo viaggio lungo l’eclittica. In
particolare, desta interesse il nostro satellite naturale, la Luna, poiché essa,
astronomicamente, è nella sua “fase nuova”, poiché ha poche ore di vita ed
è posizionata appena sotto l’orizzonte celeste, pronta a seguire il suo
“sposo” nel cammino verso la luce.
Desta stupore, invece, la posizione del pianeta Saturno, che è l’unico che si
localizza nell’emisfero Sud-Ovest. La sua posizione ha un significato molto
profondo che analizzerò da qui ai prossimi paragrafi.
Infine, è rilevante annotare la posizione di un astro importantissimo per
l’Antico Egitto: Sirio-Iside.
La Stella si colloca esattamente sopra l’orizzonte compresa tra le due
costellazioni del Leone e di Orione. La sua posizione, nell’allineamento del
36.400 a.C. è importantissima, poiché si propone come dato inconfutabile
della volontà dei costruttori di indicare questo tempo storico e non altri.
Sirio, infatti, è presente solo in questo allineamento, mentre risulta
completamente assente in quelli proposti da altri ricercatori, a cominciare
dall’ipotesi di Bauval.
Dalla lettura dei Testi Antichi si evince, a sostegno di quanto finora esposto,
quanto sia importante il ruolo di Iside nelle vicende che si svolsero durante
lo Zep Tepi, dopo l’uccisione di Osiride da parte di Seth. Così come narra il
Mito, ha avuto un ruolo di primo piano nella triste epopea del tempo e, non
può non presenziare, astronomicamente, all’immortalità dello Zep Tepi, a
testimonianza imperitura del Governo degli Dèi, quando l’Egitto aveva
raggiunto il suo massimo splendore. La sua presenza nella Volta Celeste è
un chiaro elemento distintivo che riconosce nella dea, cara all’Egitto, una
funzione chiara e definita nelle corrispondenze astronomiche.
Sirio ha un proprio corrispondente monumentale e si configura come
l’ultimo baluardo prima di confermare la teoria del 36.400 a.C.
La funzione dei Pianeti

La mia Teoria si sviluppa attraverso una costante aggregazione di dati che –


nel lungo periodo - mi hanno permesso di ricostruire il puzzle, grazie ad
una complessa ed articolata indagine sulla totalità degli edifici che
compongono la Piana di Giza, nonché sul simbolismo che da esso deriva.
Essa si pone un gradino oltre la classica relazione Piramidi-Orione o
Sfinge-Costellazione del Leone, partendo dalla percezione che i progettisti
hanno tramandato qualcosa di molto più importante e composito e, l’analisi
che seguirà ne è una straordinaria testimonianza.
Una volta stabilita con certezza l’epoca in cui “gli dèi” hanno realizzato il
progetto Giza, non rimane altro da fare che osservare, con maggiore
attenzione, i dettagli della correlazione astronomica, nell’intento di
acquisire ulteriori indicazioni e compararli con i monumenti disposti sulla
Piana. L’obbiettivo è quello di ricavare, attraverso la disposizione degli
astri, informazioni sull’esistenza di ulteriori edifici che possano rientrare
nel Progetto Unitario.
Fig. 22. Giza: La Volta Celeste nel 36.400 a.C.
Non è stato difficile constatare, tra le peculiarità della mappa stellare, la
presenza intrigante di una pluralità di pianeti, disposti lungo l’eclittica. La
loro presenza nel cielo dello Zep Tepi, conferisce un senso di completezza
all’armonico concetto di “Inizio dei Tempi”. Osservando la loro dinamica
astronomica, si ha quasi la sensazione che avessero ricevuto l’incarico di
sostenere il ruolo di “paggetti”, invitati ad assistere al sorgere delle tre
regali potenze dello Zep Tepi: Ra-Sole, Osiride-Orione e Iside-Sirio.
L’allineamento osservato conduce ad un’epoca molto lontana, allorquando
molti degli antichi simboli a noi noti, stavano venendo alla luce con i propri
significati originari. I sette pianeti sono disposti lungo l’eclittica, a formare
una fila perfetta, mentre assistono al compimento dell’opera della
Creazione.
Analizziamone il significato simbolico.
Poco sotto l’orizzonte, la Luna acquisisce il simbolico significato della fine
di un ciclo e l’inizio del Nuovo Tempo, poiché esce dalla fase di “Luna
Nera” per entrare in quella di “Luna Nuova”. Il software indica, infatti, che
all’alba dell’equinozio di primavera del 36.400 a.C., la Luna è entrata nella
nuova fase da poco meno di 2 ore. Essa cede il passo al sorgere del Sole –
simbolicamente, alla nascita della nuova Luce – che inonderà le terre
d’Egitto apportando la linfa vitale per le nuove messi.
Di lì a poco, essa seguirà – per mezzo della propria dinamica astronomica –
il dio Ra che, imperioso, oscurerà con la propria vitalità tutti i suoi
cortigiani in attesa. Nel suo percorso nascente, il Sole sosterrà la sua prima
tappa ai piedi del Leone, dove incontrerà il pianeta Giove – figura simbolica
che rappresenta il padre degli dèi, ma è anche espressione simbolica del
concetto di giustizia. Immediatamente dopo, l’incontro con il messaggero
degli dèi, il pianeta Mercurio, pronto a svolgere il compito che, la
simbologia ed il mito, gli hanno affidato nel corso dei secoli: ovvero quello
di annunciare il compimento dell’Opera.
La disposizione dei due pianeti, posti in congiunzione con la stella Regolo,
assume un significato, meravigliosamente, intrigante. Infatti, se osserviamo
la Sfinge, possiamo notare che ai suoi piedi sorgono due Templi, le cui
colossali colonne inducono – con scarsi dubbi e molte certezze – a ritenere
che le costruzioni sono state realizzate contemporaneamente, rientrando nel
cosiddetto Progetto Unitario.
Fig. 23. I Templi a Valle della Sfinge hanno una connessione con gli astri?
Di lì a poco, essa seguirà – per mezzo della propria dinamica astronomica – il dio Ra che,
imperioso, oscurerà con la propria vitalità tutti i suoi cortigiani in attesa. Nel suo percorso
nascente, il Sole sosterrà la sua prima tappa ai piedi del Leone, dove incontrerà il pianeta
Giove – figura simbolica che rappresenta il padre degli dèi, ma è anche espressione
simbolica del concetto di giustizia. Immediatamente dopo, l’incontro con il messaggero
degli dèi, il pianeta Mercurio, pronto a svolgere il compito che, la simbologia ed il mito, gli
hanno affidato nel corso dei secoli: ovvero quello di annunciare il compimento dell’Opera.
La disposizione dei due pianeti, posti in congiunzione con la stella Regolo, assume un
significato, meravigliosamente, intrigante. Infatti, se osserviamo la Sfinge, possiamo notare
che ai suoi piedi sorgono due Templi, le cui colossali colonne inducono – con scarsi dubbi
e molte certezze – a ritenere che le costruzioni sono state realizzate contemporaneamente,
rientrando nel cosiddetto Progetto Unitario.
Pertanto, è plausibile ipotizzare che i due edifici a valle della Sfinge sono
stati edificati secondo un obbiettivo ben preciso, ovvero creare una
relazione astronomica tra i templi e gli astri, rafforzando, in tal modo, la
complessità del Progetto Unitario realizzato durante il 36.400 a.C.
Nel suo percorso ascensionale che condurrà il dio sul trono – simboleggiato
dal Sole che si avvia verso lo Zenit – Ra incontra il pianeta Venere, la cui
funzione simbolica è associata all’amore passionale e alla bellezza. Il
pianeta si trova nel quadrante di sud-est, quasi a metà del cammino che
deve compiere per raggiungere il punto più alto dell’eclittica. La sua
disposizione – anche in questo caso - non è casuale, poiché sta a
simboleggiare la congiunzione degli opposti che avviene nel corso del ciclo
vitale di ciascuno di noi. Le “nozze astronomiche” tra due oggetti cosmici
diametralmente differenti – un pianeta ed una stella – che si congiungono
nel mezzo del loro ciclo vitale, prima di incamminarsi lungo la via del
tramonto.
Infine, l’incontro con Marte – il pianeta rosso, l’astro che simboleggia il
furore della guerra – sancisce il momento propedeutico al proprio
insediamento sul trono del cielo. Perché si completino le funzioni di un Re,
oltre all’Amore, è necessario che si consolidi la Forza. Così, il Sole - prima
di raggiungere lo Zenit – acquisisce, dal suo incontro con Marte, la certezza
di essere scortato verso il trono in assoluta sicurezza.
Il Sole è ora allo Zenit, tutto si è compiuto secondo la legge della Natura
che regola i cicli dell’astronomia.
Così, assecondando le Sacre Scritture, dopo un lungo momento di azione,
giunge la fase del riposo e della contemplazione dell’opera compiuta.
Dopo aver superato lo Zenit, ora il Sole percorre l’eclittica nel quadrante di
sud-ovest, dove l’attende il pianeta Saturno.
Su questo pianeta - e sulla sua funzione simbolica - si sono sviluppati molti
dibattiti che hanno fatto registrare posizioni, talvolta, molto controverse. In
alcuni ambienti esoterici, ad esempio, questo pianeta è posto in simbiosi
con la figura del dio Seth, colui il quale elimina fisicamente il proprio
fratello, pur di raggiungere lo scopo di dominare le terre del Nilo.
Probabilmente nasce da questa associazione l’accezione negativa conferita
all’astro, un’ipotesi generalmente accettata che, in ogni caso, non mi
convince del tutto.
Sull’argomento, sembra interessante proporre una riflessione di Renèe
Guenon, tratta dal suo libro: “Simboli della Scienza Sacra”. Lo scrittore ed
esoterista francese - sul simbolismo del discusso pianeta, generalmente
associato a sinistre funzioni – si esprime in questi termini: «(…) Non si deve
(…) considerare Saturno unicamente (…) una potenza malefica, (…) perché
non bisogna dimenticare che egli è innanzitutto il reggente “dell’età
dell’oro”…».
Questa considerazione, conferisce al pianeta una funzione
straordinariamente rilevante: “Reggente dell’Età dell’Oro”. Questa
funzione, nelle vicende che hanno interessato l’epopea di Osiride, invita a
riconsiderare la natura del rapporto tra Iside e Thot, poiché è proprio a
quest’ultimo che è affidata la reggenza, fino al ritorno di Iside, concentrata
nella ricerca del corpo martoriato del suo amato. E’ plausibile considerare
una simbolica associazione tra Thot e Saturno?
L’analisi della carta astronomica restituisce un ulteriore dato,
particolarmente curioso.
Lungo l’eclittica è possibile riscontrare la presenza di tutti i pianeti
convenzionalmente associati ai giorni della settimana. Ed è molto
particolare osservare che il pianeta del “riposo”, Saturno-Sabato, è
localizzato esattamente nel quadrante ovest della configurazione. Questa
disposizione è estremamente affascinante poiché riporta – con vigore e
cognizione di causa – alla tradizione ebraica. Infatti, in questa cultura, il
Sabato è considerato il giorno del riposo, dedicato ai riti di celebrazione del
Signore Dio, creatore dei Cieli e della Terra. E’ possibile che la Tradizione
ebraica possa essere stata condizionata dal retaggio degli eventi
caratterizzanti l’Egitto predinastico? Oppure siamo in presenza di un’altra
coincidenza?
La lettura astronomica ci invita a rivolgere lo sguardo vero i miti Egizi -
così da completare la nostra analisi – ed ottenere pieno riscontro nella
correlazione avvenuta all’equinozio di primavera del 36.400 a.C. Per gli
Egizi, il Sole era associato al dio Ra, considerato il padre degli dèi, così
come Giove – seppur nella sua attribuzione di Amon – può essere associato
a Ra.
Questa correlazione tra i due astri è molto interessante, poiché oltre a
sottolineare la similitudine tra i due personaggi rappresentati, mette in
evidenza un dato scientifico di assoluto rilievo. Sappiamo, infatti, che tra i
pianeti appartenenti al nostro sistema solare, Giove è l’unico a presentare
delle caratteristiche morfologiche che lo rendono una “stella mancata”.
Quindi se associamo Ra-Amon e Sole-Giove, si evidenziano delle
similitudini molto inquietanti. Come potevano saperlo, gli egizi, visto che
solo la moderna astronomia ha potuto accertare le analogie tra i due corpi
celesti?
Il pianeta Mercurio è, generalmente, associato allo scriba degli dèi, il dio
Thot, colui il quale è custode del Sapere. A lui sono ascritte le misteriose ed
ermetiche Tavole Smeraldine che custodiscono i segreti della scienza della
perduta civiltà delle Piramidi. Ancora oggi, molti ricercatori e avventurieri
sono sulle tracce di questi antichissimi testi, influenzati dalle cosiddette
“profezie” del veggente americano, Edgar Cayce. Tra gli anni ’80 e ’90 del
secolo scorso, le profezie hanno alimentato una vera e propria caccia al
tesoro che ha coinvolto addirittura Zahi Hawass, il quale non perse tempo a
convocare le televisioni di tutto il mondo per annunciare la scoperta di una
camera sotto la Sfinge, dove ipotizzava l’esistenza della cosiddetta “Sala
dei Documenti”. Dei Libri di Thot, naturalmente, non c’è nessuna traccia.
Si vocifera – ma la cosa intendo riportarla per mera curiosità – che i libri
siano stati custoditi nella biblioteca di Alessandria, fino al tragico incendio;
poi, furono riportati in occidente ed oggi, si pensa possano essere custoditi
nelle segrete del Vaticano.
Thot, introduce un altro personaggio della mitologia egizia, particolarmente
importante per il ruolo che ha svolto: la dea Iside. Con il supporto di Anubi,
egli aiuta la sposa di Osiride nella ricerca del corpo al fine di ricomporne le
membra e rendere possibile la creazione del futuro Re dell’Egitto: Horus.
Nella complessa visione mitologica, ad Iside è, generalmente, attribuita una
doppia identificazione astronomica: il pianeta Venere e la stella Sirio.
Seppur, bisogna specificare che, talvolta, è associata anche alla
Costellazione del Toro, nella sua forma di Hathor.
Alla dèa sono attribuite specifiche funzioni simboliche, tra le quali:
l’amore, per la quale è maggiormente ricordata nell’iconografia egizia; la
fecondità e la maternità in quanto generatrice del primo semidio dell’Egitto,
ovvero Horus; ma a Iside è anche riconosciuta la funzione di custode della
magia della rinascita, poiché è la dèa che, ricomponendo il corpo martoriato
di Osiride, è stata in grado di poter generare il nuovo re.
Horus è un predestinato, poiché le vicende che portano alla rivolta di Seth e
dei suoi Sebau contro Osiride, lo mettono nelle condizioni di dover
sobbarcarsi il peso della rinascita del nuovo regno. Egli, quindi, si configura
in associazione astronomica con il pianeta Marte, il corpo celeste di colore
rosso che rappresenta il furore della vendetta contro i nemici di Osiride.
Il Pianeta Saturno, infine, è correlato alla figura del dio Ptah, il dio
nascosto, il Creatore, il supremo, il non-creato, spesso associato alla materia
primordiale dalla quale si genera la vita. Esiste una precisa connessione tra
il pianeta Saturno ed il Tempo, poiché talvolta gli stessi Egizi,
consideravano questa simbolica correlazione attraverso la natura di eterno
vivente del dio Ptah. Nella configurazione astronomica del 36.400 a.C.,
Saturno sembra scandire i ritmi dello Zep Tepi, così da assecondare l’ordine
della Creazione. Inoltre, la posizione astronomica nel quadrante di sud-
ovest, sancisce il termine ultimo dell’opera compiuta, il momento della
contemplazione del Progetto divino appena portato a conclusione.
Infine, non resta che leggere la funzione simbolica del nostro satellite
naturale: la Luna. Talvolta, nell’esoterismo, essa è associata ad Osiride, ma
anche allo stesso Thot. Certamente, essa rappresenta il “lato oscuro” della
luce divina.
Nella configurazione astronomica riferita allo Zep Tepi, essa si trova
esattamente al di sotto della immaginaria linea dell’orizzonte celeste, nel
suo colore più oscuro, in attesa di entrare al proscenio della vitalità e
seguire il sole nel suo percorso lungo l’eclittica.
La connessione con il Messaggero degli dèi è quasi immediata, poiché - nel
silenzio ermetico del tempo, con la sua signora Iside - trama nell’oscurità la
vendetta per l’assassinio del suo divino Osiride. La connessione tra il dio
Osiride ed il disco lunare, infine, permette di proporre un’ulteriore analisi,
assolutamente significativa: il concetto di Zep Tepi è protagonista
indiscusso del suo Tempo, incarnando la fase in cui la Luna simboleggia la
duplice funzione di Fine e di Inizio, di Morte e di Rinascita.
La lettura simbolica degli eventi astronomici, correlati alle vicende
testimoniate nella mitologia egizia, ci rendono osservatori di un’epoca, in
cui l’umanità dei protagonisti esplode in tutta la sua vitalità.
Tuttavia, rimane un ultima questione da definire: si tratta della fine e
l’inizio di quale momento?
Molto spesso, quando ci si riferisce ai grandi personaggi che hanno
determinato il corso della storia o della religione, ci si trova ad analizzarne i
loro temi astrali, rileggendo le influenze degli astri nella vita dei singoli
personaggi, poiché gli allineamenti degli astri e dei pianeti sembrano
influire sulle vicende umane in maniera quasi opprimente.
Questa era la considerazione di base della perduta civiltà delle piramidi che
ha voluto coniugare gli eventi del personaggio Osiride nella simbologia
astronomica.
Pertanto, il 36.400 a.C. propone una lettura dell’immortalità storica del
personaggio Osiride? E’ esistito davvero?
Osiride, in antico egizio “As-ir” - ovvero “il Signore del Luogo di
Occidente” - è ricordato come la divinità che apportò i primi rudimenti
dell’agricoltura e dell’allevamento. E’ considerata una divinità dallo spirito
buono, sempre pronto ad intervenire per sostenere il popolo, caratteristiche
che, con ogni probabilità, lo hanno reso debole agli occhi di chi era pronto a
tramare alle sue spalle. In tutte le culture, in ogni epoca e ad ogni latitudine,
si narra di un personaggio con le sue medesime caratteristiche, che vive in
funzione del popolo e, dovunque, esso viene ricordato nei miti leggendari
delle società del tempo, divenendo un simbolo di umanità, di amore, di
ricchezza spirituale e di progresso.
Secondo i Testi Egizi, Osiride sarebbe nato nel primo dei cinque giorni
aggiuntivi istituiti da Thot, dall’unione tra la dea Nut e il dio Geb. Egli,
dunque, si configura come divinità generata dall’unione del cielo e della
terra.
Una nascita mitologica oppure l’ermetico riferimento ad una provenienza
stellare?
E’ ormai impossibile sottacere che - nel corso dei millenni - l’arte, la
mitologia ma anche la religione narrano, attraverso le proprie formule
descrittive, di una civiltà venuta dalle stelle. Essa sarebbe la reale
generatrice dell’uomo, come lo conosciamo oggi, nella sua forma di
Sapiens Sapiens. La prova di tali ardite supposizioni creerebbe una svolta
epocale nell’evoluzione della nostra specie e, soprattutto, modificherebbe –
in maniera decisiva – il nostro concetto di consapevolezza. Esse sono
ipotesi che non è possibile rigettare, fino a prova contraria. Tuttavia, il
percorso di ricerca della verità storica è sempre molto difficile da praticare
e, per una sua omogenea definizione, presuppone una visione dei fenomeni
molto ampia.
Sitchin, ad esempio, nel corso del suo ciclo di studi, ha proposto una chiave
di lettura molto particolare, dei fenomeni evolutivi che hanno interessato il
genere umano. Essa propende per l’esistenza – nel corso delle ere remote –
di una civiltà che ha determinato i destini della nostra specie e del nostro
pianeta, generando l’uomo con le caratteristiche attuali, attraverso una
manipolazione genetica sull’Erectus, esautorando, di fatto, la già fragile
teoria darwiniana.
Questa ipotesi come si collega allo Zep Tepi e al mito di Osiride?
Dalla lettura dei miti non è difficile individuare delle formule che inducono
a ritenere queste divinità assolutamente potenti, ricche di conoscenza e
straordinariamente efficaci in ogni attività, al di sopra delle culture dei
popoli del tempo. Essi possedevano delle conoscenze superiori.
Potrebbe essere Osiride, dunque, il progenitore di una stirpe di uomini-dèi
vivente ancora oggi? E’ per questo che la Civiltà delle Piramidi ha voluto
ricordare questo personaggio? Perché ha saputo mettere in correlazione
cielo e terra, generando una nuova stirpe di uomini ad immagine e
somiglianza degli Elohim?
Se gli Antichi Testi narrano queste vicende è possibile che qualcosa di
straordinario sia realmente accaduto nella notte dei tempi; la sintesi dei miti
e delle leggende che si fondono in un’unica consolidata realtà, ci conduce,
lentamente ma progressivamente, alle origini della nostra esistenza.
2. Il Trono di Iside
Osiride, Iside ed il simbolismo astronomico
Esiste un legame tra le figure di Iside e Osiride e la funzione delle
Costellazioni del Toro e di Orione ed è celato nel simbolismo astronomico.
I due personaggi, infatti, hanno acquisito un ruolo dominante nella
mitologia egizia, proprio come le due costellazioni dominano la scena dello
Zep Tepi nella Volta Celeste.
La centralità dell’interpretazione storico-filosofica è legata ai fatti
raccontati nei Testi Antichi e che richiamano, prepotentemente, le figure dei
due personaggi chiave della mitologia egizia. Il loro ruolo ha assunto
funzioni molto complesse nelle dinamiche dell’epoca d’oro dello Zep Tepi
e, pertanto, sono ricordati nelle forme più imponenti che l’uomo abbia mai
potuto realizzare nel corso della propria storia: i monumenti di Giza. Il mito
che ne è scaturito lascia intendere che la centralità delle due figure è
rilevante e gli spunti di riflessione che seguono sembrano giustificarne la
dimensione storica. La figura di Osiride merita una considerazione ancora
più approfondita, sia per la dimensione del personaggio che per l’incidenza
che ha avuto nel corso del tempo, così da essere considerato protagonista
indiscusso della mitologia, ricordato sotto varie forme e con nomi diversi a
seconda della civiltà in cui si affermava il mito.
Ed è proprio da essa che è opportuno partire per evidenziare i contenuti
derivanti da una sua complessa valutazione che si colloca nel bel mezzo
della letteratura, della filosofia e della teologia dell’Egitto Dinastico.
Osiride è ricordato, nei racconti egizi, come colui il quale apportò un
notevole contributo allo sviluppo di alcune scienze, a beneficio
dell’evoluzione socio-culturale delle popolazioni che risiedevano nella valle
del Nilo. Egli insegnò alle sue genti, come creare le condizioni giuste per
migliorare la qualità di vita.
La sua epopea è stata esaltata grazie all’abilità degli architetti, capaci di
creare opere monumentali in stretta correlazione con le energie della natura,
per sancire l’immortalità del personaggio. Per questo la sua storia è stata
tramandata di generazione in generazione, fino ad essere immortalata, ad
imperitura memoria, negli scritti scoperti in ogni angolo del territorio
egizio. Osiride – nella sua funzione di custode del Sapere e nel ruolo di
civilizzatore a cui il “fato” lo ha destinato - è stato profondamente venerato
dal suo popolo. Ma, come spesso accade a chi detiene le redini del potere,
all’amore del popolo corrisponde l’odio dei parenti.
«L’invidia, infatti, armò la mano di Seth, suo fratello, il quale cospirò per
ucciderlo. Seth fece costruire in segreto una bara preziosa proporzionata
sulle misure del fratello Osiride. Durante un banchetto, nel quale annunciò
che ne avrebbe fatto dono a colui al quale si fosse adattata, invitò i presenti
a provarla, fin quando non incoraggiò il fratello a tentare nel curioso
gioco. Appena Osiride vi si distese dentro il coperchio venne chiuso e
sigillato. Seth fece gettare la bara nel Nilo e così facendo, annegò Osiride.
Iside - sua sposa, con l'aiuto della sorella Nepthis – lo riportò in vita
usando i suoi poteri magici. Tuttavia, prima che potesse vendicarsi, Seth
uccise Osiride e fece a pezzi il suo corpo, nascondendo le quattordici parti
in vari luoghi. Iside e Nepthis trovarono i pezzi (eccetto i genitali, che
erano stati mangiati dal pesce Ossirinco) e ricomposero il corpo. Intanto, il
sommo dio Ra mandò Anubi e Thoth ad imbalsamare Osiride. Intanto, Iside
lo riportò in vita e si fece fecondare così da rimanere gravida. Il figlio che
Osiride ebbe da Iside, Horus, quando fu abbastanza grande affrontò Seth in
battaglia, per vendicare la morte del padre. Il combattimento fu lungo e
cruento, Horus perse un occhio nella battaglia e Seth un testicolo. Il
conflitto fu interrotto dagli altri dei, che decisero in favore di Horus e
diedero a lui la sovranità del paese. Seth fu condannato e bandito dalla
regione. In altre versioni le due divinità si riconciliarono, rappresentando
l'unione dell’Alto e Basso Egitto».[44]
La storia di Osiride è divenuta, nel corso dei secoli, una leggenda, salvo poi
trasformarsi in un vero e proprio mito, sintesi della combinazione di diverse
varianti, condizionate sia dai luoghi in cui si affermava il culto, sia dalle
situazioni storico-sociali del momento. Per fortuna, gli elementi sostanziali
che determinano le peculiarità della figura storica, non sono andati perduti.
Un grande contributo alla sua preservazione, si rileva nell’interpretazione
del contenuto mitologico che, nondimeno, ha originato importanti teorie,
anche se, in alcuni casi, in contrasto tra loro. Esse forniscono, in ogni caso,
concetti basilari che fanno da supporto all’analisi delle caratteristiche
storiche del personaggio, così da restituire un risultato accettabile sulla reale
solidità del mito di Osiride, caro agli antichi Egizi.
La saga di Osiride e Iside è una sintesi di scienza, filosofia e teologia,
sapientemente amalgamate; siamo in presenza di personaggi che esprimono
peculiarità davvero interessanti e, per certi versi, hanno ispirato il mito di
differenti personaggi che hanno caratterizzato le mitologie di distinte civiltà
ad altre latitudini.
Da un punto di vista essenzialmente filosofico, invece, la figura di Osiride
richiama alla nostra mente un altro personaggio straordinario, che ha
rivoluzionato il nostro modo di essere e di vivere: Gesù di Nazareth.
Analizzando il personaggio, emerge una figura che concentra in sé alcuni
elementi di carattere filosofico e teologico, propri del Maestro figlio del Dio
Vivente:
- La figura di Osiride è essenzialmente legata agli aspetti più
solenni della religione egizia che si coniuga indissolubilmente con
una visione solare del ciclo della vita nei suoi processi naturali di
vita, morte e resurrezione;
- Al dio egizio può attribuirsi una proprietà “evemeristica”, ovvero
si è in presenza di un re, che cade nel tranello organizzato da suo
fratello Seth, viene ucciso nel modo più brutale, per mano di suo
fratello e, successivamente, divinizzato dal suo popolo;
- Infine, gli si può riconoscere una natura “escatologica”, poiché ci
troviamo in presenza di un dio che viene al mondo con un
obiettivo ben preciso: trasmettere il proprio sapere alle
popolazioni con l’intento di distribuire la conoscenza delle
filosofie ermetiche e delle arti; al termine della propria missione,
affronta la morte per mano di suo fratello e risorge.
La sintesi delle tre considerazioni esposte, conduce ad un’unica
interpretazione complessiva: Osiride e Gesù sono uniti da specifiche
attribuzioni che risultano davvero stupefacenti.
Infine, l’anello di congiunzione tra la Costellazione di Orione e la figura di
Osiride è l’ultimo passo per comprendere, nella sua totalità, la
configurazione astronomica del 36.400 a.C.
I Sacerdoti Egizi lo associavano alla Costellazione che occupa il cielo sopra
la Piana più famosa del mondo. Essa è definita anche il “Gigante della
Sera”, proprio a sottolineare la vastità e la grandezza della costellazione che
riempie il cielo notturno e scandisce il ritmo del tempo, come un’enorme
clessidra. L’epopea del dio Egizio è sopravvissuta anche grazie all’abilità
dei progettisti di renderla immortale, coniugandola alla perfezione ai cicli
astronomici.
Robert Bauval non solo ha evidenziato la potenziale correlazione
astronomica, ma ha avuto la capacità di provare che lo scontro tra Horus e
Seth, in realtà, si sviluppa anche nella dinamica astronomica della
Costellazione del Toro in rapporto con la Via Lattea. Leggiamo cosa ci
raccontano i Testi dei Sarcofagi, alla Formula 7, dove si evidenzia il
momento finale dello scontro tra i due contendenti: «(…) La terra fu fatta a
pezzi mentre i Rivali [Horus e Seth] combattevano; i loro piedi scavarono
lo stagno sacro a Eliopoli. Adesso viene Thot, avviluppato nella sua
dignità… Così il combattimento si è concluso, il tumulto si è arrestato, il
fuoco che fuoriusciva si è spento, l’’ira alla presenza del Tribunale del Dio
è placata, e si siede per pronunciare giudizio alla presenza di Geb (…)».
La descrizione di questo evento è semplicemente straordinario, poiché
evidenzia tutta la sua potente violenza, propria di due divinità che si
scontrano e, al tempo stesso, rileva quanto la connessione astronomica
abbia una propria, ineluttabile, proprietà scientifica che ha fortemente
condizionato il racconto mitologico. Questo significa che Osiride, Giza e
Orione sono stati intimamente e volutamente correlati dai progettisti fin dal
primo momento.
Giza sembra essere un inno al dio Osiride, riconosciuto quale “divinità”
portatrice di civilizzazione, scienze e legislazione. Egli è l’autorevole
rappresentante di una civiltà, le cui origini, si perdono nella notte dei tempi.
E le scienze sintetizzate nel meraviglioso sito archeologico, sono una
testimonianza dell’esistenza di questa figura straordinaria e del Primo
Tempo di cui fu regnante!
Ma le vicende dello Zep Tepi sono influenzate da un’altra figura che è
strettamente legata al dio egizio, ovvero la dea Iside. La donna, nella
simbologia antichissima, assume un ruolo decisamente primario poiché,
come noto, essa si basava sul matriarcato. Iside si inserisce in questa
concezione come la Gran Madre che genera il figlio Horus. La “Divina
Iside” è la più classica rappresentazione della femminilità. È generalmente
associata alla dèa Hathor, la dea vacca e, spesso e volentieri è ritratta con in
capo il simbolo delle corna taurine, donatole, secondo il mito, da Thot
quando Horus gli strappò la corona.
La correlazione tra Iside e la Costellazione del Toro è tutt’altro che
improponibile e, la dinamica astronomica sembra confermarlo. Nella Volta
Celeste, la costellazione del Toro sembra “proteggere” il Gigante della Sera,
ponendosi innanzi ad esso, per salvaguardarne il cammino. Infatti, la
Costellazione del Toro-Iside sorge prima di Orione-Osiride, ponendosi
come esploratore, prima che il Divino Sovrano si accinga a percorrerla.
Iside, nel ruolo di esperta delle “arti magiche” svolge il ruolo che il mito ci
ha tramandato, operando per la resurrezione del dio-Re e, successivamente,
nel generare il loro figlio Horus.
Secondo il Libro dei Morti, ella ha avuto l’arduo compito di ricomporre la
diatriba interna al suo popolo ed aprire una nuova strada verso il progresso
della Civiltà che ha abitato le rive del Nilo.
Iside, quindi, assume una funzione determinante nella ricostruzione
dell’Egitto predinastico, dopo un periodo conflittuale che vive la massima
drammaticità con la morte del suo sposo. Da un punto di vista ermetico, è in
questo momento che nasce il ruolo della Gran Madre, da cui si
svilupperanno le connessioni con più complesse simbologie.
Bauval, nella sua analisi astronomica, ha attribuito alla Divina Iside un
corrispettivo astronomico nella Costellazione del Toro, evidenziando il
disegno dell’insieme di stelle che la compongono come una “V” capovolta.
Tuttavia, analizzando la simbologia emerge un significato molto profondo e
complesso, che richiama il concetto del Femminino Sacro. La geometria
della lettera “V” capovolta, evidenzia la forma dell’utero femminile. Questa
funzione simbolica si sposa alla perfezione con il mito di Osiride, la sua
resurrezione e la relativa inseminazione della Regina Iside che culminerà
nella nascita di Horus.
La dinamica astronomica ci riserva, quindi, il seguente messaggio: la
Costellazione del Toro-Iside-V sorge prima della Costellazione di Orione-
Osiride-Zed, quest’ultimo da intendersi come simbologia fallica in
contrapposizione al simbolo “V”. Pertanto, Iside è “sopra” Osiride!
La posizione di Iside su Osiride, ovvero della Costellazione del Toro su
quella di Orione, collega tutta la documentazione antica attualmente
disponibile: dal Papiro di Torino, alla Stele dell’Inventario, alla Grande
Piramide.
Al termine di questa propedeutica analisi dei personaggi principali dello
Zep Tepi, non possiamo non riportare le funzioni basilari attribuite alla dea,
ovvero:
- Una funzione puramente sessuale;
- Una funzione Spirituale, quale Sposa Archetipa, inteso come
modello a cui ispirarsi per la congiunzione con il divino;
- Una funzione di reggente dell’Egitto, prima di destinare la
successione divina al figlio Horus e alla discendenza degli
Shemsu-Hor.
Il ruolo della dea, quindi, ha una centralità notevole nella mitologia e, come
vedremo, anche ella sarà celebrata e destinata all’immortalità, acquisendo
un proprio ruolo sulla Piana di Giza. Iside, infatti, non è solo associata alla
Costellazione del Toro, ma anche alla Stella Sirio. E sarà proprio lo studio
della posizione dell’astro principale del Cane Maggiore che mi ha permesso
di individuare il monumento che - nel Progetto Unitario - le era stato
attribuito.
Sulle tracce della dimora di Iside

Nel 2012, in un soleggiato pomeriggio di fine luglio, ho ricevuto una mail


inviata da John Ward, responsabile del Sirius Project e ricercatore
impegnato in campagne di scavo in Egitto, dove proprio a marzo del 2019
ha scoperto una splendida tomba, risalente al periodo di Thutmose,
contenente circa 60 corpi ancora ignoti.
Nella sua mail, John Ward – oltre a questioni di ordine personale – ha fatto
riferimento ad alcuni edifici costruiti sulla Piana che sono molto
interessanti, poiché presentano caratteristiche davvero uniche: tra essi, ha
fatto riferimento ad una tomba posizionata esattamente a sud-est delle
Piramidi. La mail ha, ovviamente, stimolato la mia curiosità, spingendomi a
predisporre uno studio propedeutico dell’edificio, pressoché sconosciuto ai
tanti.
Nei giorni seguenti, ho riflettuto molto sul concetto di coincidenze, poiché
la sua mail è giunta proprio nel momento in cui ero impegnato nel progetto
di riorganizzazione della Piana di Giza, associando alle piramidi e alla
Sfinge ulteriori edifici che potessero essere stati costruiti nello stesso
momento, a formare il cosiddetto Progetto Unitario.
Un segno del destino? Le cose non accadano mai… per caso.
Da quel momento, ho percepito che la tomba sconosciuta potesse avere
qualche connessione con le Piramidi. Così ho consultato la mappa
astronomica relativa al 36.400 a.C., nell’intento di individuare possibili
connessioni. Avevo bisogno di un indizio che potesse mettere in
correlazione Iside, la Stella Sirio ed il monumento X. Il modello che ho
adottato, è il medesimo utilizzato per individuare il tempo del preciso
allineamento tra le Piramidi di Giza e la costellazione di Orione. Ero
convinto che gli indizi fossero celati nei misteri che avevano ispirato il mito
di Iside-Sirio; non la sua evoluzione, bensì il principio alla sua origine. Solo
così avrei avuto la possibilità di individuare il monumento di riferimento
ideato dai Costruttori di Giza.
Nel paragrafo precedente, abbiamo osservato l’esistenza di un legame
indissolubile che unisce Iside e Osiride, da ciò si può indirettamente
dedurre che esiste una possibile relazione, altrettanto inscindibile, tra la
dimora di Osiride ad occidente del Nilo, nella Terra dei Morti e la Signora
che custodisce l’Oltretomba. Per logica conseguenza, quindi, in qualche
punto della Piana di Giza, doveva esserci qualcosa che unisse in eterno le
due figure centrali dello Zep Tepi: oltre le piramidi, c’era da scoprire il
Trono di Iside!
Ci sono tracce ovunque di personaggi storici, relegati alla mitologia e
questo breve estratto dal Kore Kosmu sembra, davvero, molto interessante
poiché fa riferimento alle figure centrali della mia ricerca:
«Allora Horus disse: “Dimmi, madre, come riuscì la terra ad ottenere il
felice dono dell’efflusso [seme] di Dio?”. E Iside rispose: “Potente Horus,
non chiedermi l’origine della specie da cui discendi, perché non è permesso
indagare sulla nascita degli dèi. Posso solo dirti questo, che Dio che
governa solo, il Fabbricatore dell’Universo, lasciò sulla terra per breve
tempo il tuo grande padre Osiride e la grande dea Iside, affinché dessero al
mondo l’aiuto di cui avevano tanto bisogno».
Il dio che lasciò sulla terra il grande Osiride e la grande Iside, affinché
potessero aiutare il mondo…
E’ una lettura straordinaria, in quanto conferisce una funzione specifica ai
personaggi – “quella di aiutare il mondo” – e, al tempo stesso, una
dimensione di autorevolezza rispetto a chi lo abitava. Due personaggi
potenti che erano in grado di dare un nuovo indirizzo all’umanità, grazie al
loro Sapere. Due grandi e potenti personaggi, dunque, ma anche due grandi
e potenti monumenti a loro imperitura memoria: le piramidi-Orione e il
monumento X-Sirio.
Iside (Aset) nacque, come suo fratello gemello Osiride, dall’unione della
dea del cielo Nut e il dio della terra Geb. Fu sposa dello stesso Osiride, ne
pianse la morte, ne ricompose i pezzi del corpo, dispersi dalla mano
assassina di Seth; con l’aiuto di Anubi e del sapiente Thot diede alla luce un
erede al suo defunto sposo: Horus. Il mito ci descrive una donna
coraggiosa, intelligente e determinata, una moglie perfetta e un altrettanto
perfetta madre. Tutti simboli che appartengono ad Iside e alle molteplici
dee, collegate alla figura della perfezione femminile.
Probabilmente venne associata alla stella Sirio proprio per la qualità
dell’astro che è in grado di “dare la vita al Nilo”, nel periodo della piena,
come ben ci descrive nel suo libro, lo studioso Ed Krupp[45]: «Dopo essere
scomparsa dal cielo notturno (per 70 giorni) Sirio riappare finalmente con
l’alba, prima che nasca il Sole. La prima volta che ciò accade, ogni anno,
si denomina l’ascensione eliaca della stella e, in quel giorno, Sirio rimane
visibile solo per un breve periodo di tempo. Nell’antico Egitto questa
riapparizione annuale avveniva intorno al solstizio estivo e coincideva con
la piena del Nilo. Iside, come Sirio, era la “Signora dell’inizio dell’anno”,
poiché per gli Egizi l’anno nuovo era segnalato da quest’evento. Sirio fa
rivivere il Nilo, così come Iside fa rivivere Osiride. Il periodo di tempo in
cui Iside si nascose da Seth corrisponde al lasso di tempo in cui Sirio
scompare dal cielo notturno. Lei diede luce a suo figlio Horus, così come
Sirio dà luce al Nuovo Anno e, nei testi sacri, Horus ed il Nuovo Anno sono
equivalenti. Lei è il veicolo per il rinnovamento della vita e dell’ordine.
Brillando per un momento, in un mattino d’estate, stimola il Nilo ed inizia
l’anno».
I testi sacri in cui viene menzionata, supplicata e incensata, sono
numerosissimi e si perdono nella notte dei tempi. Iside è presente nelle
raffigurazioni artistiche fin dagli albori della civiltà egizia, rappresentata
con enormi ali, con l’ermetico simbolo del disco solare tra le due corna
taurine. Nella sua mano stringe l’Ankh, in qualità di “colei che dà la vita”,
mentre nell’altra ostenta l’Uadj, il “bastone regale” delle dee. Nelle statue
che la ritraggono a seno nudo, con in braccio il figlio Horus, è sancito il suo
senso materno e, alla dea cara all’Egitto, erano rivolte le invocazioni per la
guarigione degli ammalati. Alla bontà di Iside erano affidate le anime dei
defunti, affinché potessero ricevere il dono della resurrezione, così come
aveva fatto - con un atto magico – per il proprio sposo Osiride; per questo è
riconosciuta anche come Signora dell’oltretomba e della rinascita.
L’intero mito della dea è associabile al percorso annuale del Nilo, le cui
acque si alzano al sorgere della stella Sirio, così che la vegetazione possa
rinascere a nuova e rigogliosa vita. Una figura centrale, dunque, sul cui
mito si potrebbe scrivere un libro a parte; eppure sono i dettagli più
semplici che evidenziano il legame tra Iside e la Piana di Giza,
nell’allineamento astronomico del 36.400 a.C.
L’analisi dei simboli che compongono il nome di Iside rappresentano il
punto di partenza dal quale è possibile ricavare gli indizi per rintracciare il
monumento a lei dedicato dai progettisti di Giza. Partendo proprio dal
primo geroglifico, posizionato a destra. L’analisi si rende necessaria poiché
l’interpretazione ufficialmente accettata non convince pienamente.
Fig. 24. Geroglifico indicante il nome di Iside-Aset.

Il nome di Iside è raffigurato da un insieme di simboli così riassunti: una


figura accovacciata; un ovale sormontato da semicerchio e, infine, un
simbolo che richiama la struttura del trono.
La scrittura egizia ha diverse chiavi di lettura, ad esempio alfabetica,
sillabica o ideografica. In questo caso, la sequenza letterale aiuta ad avere
un concetto più ampio e complesso delle immagini proposte, così da
proporre un’interpretazione sequenziale dei simboli che restituiscono
l’attribuzione originaria del nome.
Pertanto, la chiave di lettura è la seguente:
- La donna accovacciata è la rappresentazione inequivocabile di
una figura femminile, generalmente associato al simbolo a forma
di bandiera che significa divinità;
- Il semicerchio corrisponde alla lettera T ed è utilizzato per
determinare un genere femminile. In questo caso, il simbolo è
correlato all’ovale ed al trono e nel suo insieme ha la seguente
valenza: “madre del luogo”. Il termine “madre” è rafforzato dal
significato dell’ovale che raffigura un “utero”.
Pertanto, i geroglifico propone la seguente chiave di lettura: “Signora
Divina Madre del Luogo”. L’interpretazione alla lettera, determina
un’immediata rivisitazione del titolo conferito ad Iside nella famosa Stele
dell’Inventario. L’egittologia ufficiale, in ragione della traduzione
dall’egizio, le attribuisce il ruolo di “Signora della Piramide”, ma
l’interpretazione presta il fianco a non poche perplessità, sia in ragione della
funzione della dèa nella mitologia egizia e nell’epopea di Osiride, sia nella
rappresentazione terrestre del cielo sulla Piana di Giza.
La lettura dei simboli è fondamentale per comprendere in senso delle
raffigurazioni. Per questa ragione, è interessante proporre una riflessione di
R.A. Schwaller de Lubicz, successivamente ripresa da John Anthony
West[46]: «L’immagine non è un rebus e nemmeno un criptogramma, ma
evoca semplicemente un’intuizione. Ciò non è trascrivibile in parole (…)
senza pericolo di occultarne l’intenzione originaria. (…) Pertanto, quando
Champollion e i filosofi ortodossi affermano che gli antichi si servivano di
certe immagini per esprimere astrazioni, le loro dichiarazioni non sono
precise e non si accordano con la filosofia egizia, che si preoccupava di
evocare intuizioni che per noi sono astrazioni, ma per gli antichi erano
“stati dell’Essere”».
L’iscrizione sottostante - che è inserita nella cornice della Stele
dell’Inventario - è stata oggetto di notevoli discussioni tra gli addetti ai
lavori, poiché, in ambienti di ricerca indipendente, si è eccepito sulla
correttezza della traduzione. La stringa è stata oggetto anche di un mio
studio, il quale confermerebbe che la traduzione originaria è errata.
Osserviamone i caratteri principali:

Fig. 25. Sequenza tratta dalla Stele dell’Inventario

La traduzione ufficiale è: «Egli [Cheope] trovò che il tempio di Iside,


signora della piramide, era presso il tempio della Sfinge (…)».
In realtà, analizzando nei dettagli i geroglifici che formano il discusso testo,
notiamo un particolare che cambia completamente il senso della traduzione.
Il dettaglio si manifesta nel seguente cartiglio:
Fig. 26.

Questo ideogramma, nella traduzione generalmente accettata, è tradotto con


il termine “accanto a”. Pertanto, se volessimo tener conto di questo
particolare, fondamentale, la traduzione corretta sarebbe la seguente: «Egli
[Cheope] trovò che il tempio di Iside era accanto la piramide presso il
tempio della Sfinge (…)».
Se ne deduce, pertanto, che l’espressione “Signora della Piramide” è la
sintesi dell’errata traduzione del testo originario, poiché – anche secondo
una chiave di lettura puramente basata sulla logica – con questa espressione
si finisce per attribuire un titolo solenne ad un personaggio che con le
Piramidi e la Costellazione di Orione non ha mai avuto nulla a che fare.
Iside, dunque, presenzia in maniera tanto marginale quanto regale – così
come compete ad una regnante egizia - al Luogo in cui il suo Sovrano
domina.
La Formula 600 dei Testi delle Piramidi, conferma: «O Horus, questo re è
Osiride, questa piramide del re è Osiride, questa sua costruzione è Osiride;
recati lì; non stare lontano da lui nella sua forma di pr (ovvero, piramide,
n.d.r.)».
Non a caso anche i geroglifici che formano il nome di Osiride sono chiari.
Nei suoi simboli è racchiusa la funzione a cui il mito lo ha relegato, ovvero
di “Signore che regna sull’Occidente”.
Fig. 27. Sahu - Osiride

Osservando i geroglifici si nota una figura chiaramente maschile – genere


determinato anche dall’assenza del simbolo a semicerchio che indica il
genere femminile – sormontato dall’occhio, associato al luogo
dell’Occidente. La figura maschile è posta a fianco di un altro simbolo che
rappresenta il trono. Pertanto, Osiride è “colui che governa sul regno
dell’Ovest”, sul luogo dove tramonta il Sole, definito dagli antichi egizi
come Regno dei Morti.
E Giza, si trova esattamente ad ovest del Nilo.
Pertanto, da questa interpretazione, si percepisce che Osiride è il Signore
della Piana di Giza, mentre Iside ne custodisce il Luogo.
La Tomba della Regina Khentkhaus

La ricostruzione del Progetto Unitario di Giza richiede un’attenzione molto


particolare, soprattutto nella ricostruzione delle fasi storiche che hanno
caratterizzato lo Zep Tepi. Infatti, è proprio nel consolidamento delle
informazioni recuperate dall’indagine sui reperti che è possibile definire gli
ambiti di azione.
Non fa eccezione lo studio sulla cosiddetta Tomba di Khentkhaus, ubicata
sulla Piana di Giza, a sud-est delle Piramidi e ad un tiro di schioppo dalla
Sfinge. Il monumento è particolarmente fatiscente e, questo è anche uno dei
motivi per cui è stato messo in un cantuccio ed abbandonato all’oblio,
nonostante presenti delle caratteristiche strutturali molto interessanti.
L’Egittologia cataloga l’edificio funerario come una tomba o mastaba, ma
c’è anche chi azzarda che – originariamente – potesse essere stata concepita
come una Piramide, salvo poi modificare gli obbiettivi del progetto in corso
d’opera. Attualmente, è fuori da qualsiasi circuito turistico e, solo di
recente, è entrata nell’interesse della scuola Khemitiana, guidata dai
discendenti del compianto Abd’el Hakim Awyan[47]. E’ chiusa ai visitatori,
così come tutto il complesso eretto nelle immediate vicinanze che forma
parte integrante di un’area archeologica, successiva all’edificazione della
stessa tomba dimenticata.
Nell’economia della ricostruzione del Progetto Unitario concepito dalla
perduta Civiltà delle Piramidi, la parte inferiore - sulla quale oggi poggia la
tomba della regina – rappresenta un punto di partenza fondamentale, poiché
conserva tra le proprie mura alcuni indizi di spiccato interesse archeologico.
Tuttavia, prima di analizzarne gli aspetti strutturali, ritengo opportuno
ricostruire l’intera vicenda che ha portato alla scoperta dell’edificio
funerario e i motivi per cui è stata attribuita alla regina Khentkhaus.
Tutto nasce da una leggenda rinvenuta nel celeberrimo Papiro Westcar,
dove si racconta di una profezia narrata da un mago, di nome Djedi, al
Faraone Cheope. La Profezia riguardava la nascita di tre fratelli, figli del
dio Ra e della moglie di un sacerdote di Eliopoli, di nome Redjedet. Questi
bambini erano nati con un destino segnato: ovvero quello di regnare
sull’Alto e Basso Egitto e continuare la dinastia cominciata con Snefru,
padre di Cheope. Ovviamente, la notizia mise in allarme il Faraone –
preoccupato di perdere il trono – ma Djedi, il mago, rassicurò Cheope
raccontandogli il destino dei tre fanciulli. I tre sarebbero ascesi al trono solo
dopo il regno di suo figlio Chefren e di suo nipote Micerino. Solo allora, i
tre nobili fanciulli avrebbero progressivamente ricoperto il ruolo di guida
della Civiltà Egizia. Ebbene, incredibile a dirsi, ma la profezia si è
realmente avverata, non si sa se per puro caso oppure per “effetto” della
mano dell’uomo che ha fatto realizzare la divinazione del mago Djedi.
Infatti, dall’unione del faraone Shepsekaf, ultimo faraone della IV Dinastia,
e della sua regina Khentkhaus, figlia di Micerino, nascono Userkaf e Sahura
che sono ricordati quali primi due faraoni della V dinastia, mentre il terzo,
Neferirkara, salì al trono dopo la morte del fratello Sahura.
Secondo il papiro Westcar, quindi, la funzione della Regina Khentkhaus è
stata clamorosamente annunciata dalla storia, destinandola ad un ruolo
molto importante per le fasi successive alla famosissima IV dinastia. Ciò
nonostante, l’Egitto ha completamente ridimensionato il suo ruolo storico,
relegandola nel dimenticatoio e privandola dei meriti, delle mansioni e delle
funzioni acquisiti nel corso del suo regno. In poche parole è stata
completamente dimenticata e cancellata dalla storia. Ma chi era in realtà
questa misteriosa regina, di cui ci rimane solo un piccolo e rovinatissimo
bassorilievo, inciso su un blocco di granito all’interno della tomba che la
ritrae assisa sul suo regale trono?
Sappiamo che è figlia di Micerino e che la sua tomba – con ogni probabilità
– fu costruita su una piattaforma originaria risalente ad un epoca largamente
antecedente il periodo dinastico. Tuttavia, prima di analizzare le
caratteristiche strutturali della tomba, credo sia interessante partire
dall’analisi dei geroglifici che compongono il nome della regina, poiché
sembra custodire un antico segreto.

Fig. 28. Il cartiglio delle regina Khentkhaus

E’ interessante rilevare come il cartiglio preserva un significato molto più


profondo di quanto si possa immaginare. Nella traduzione ufficiale,
l’egittologia si limita all’interpretazione fonetica della scrittura ma,
analizzando meglio i simboli, si ricava un ideogramma davvero notevole.
Il nome Khentkhaus, in realtà, nasconde una funzione molto complessa ed
intrinsecamente legata ad una dea del pantheon egizio:

= il significato del simbolo è Khent, ovvero “davanti”

= questo simbolo indica una chiara attribuzione


“femminile”

= il significato del simbolo e Ka, ovvero


“spirito”. Trattandosi di tre simboli in sequenza, viene
indicato un plurale e quindi la traduzione è “spiriti”

= questo simbolo è associato alla lettera S, oppure indica il


pronome personale “Ella”
Pertanto la sequenza è: “Ella/Colei che è davanti agli Spiriti”.
Perché per la regina fu scelto un nome così impegnativo che richiama la
stessa funzione simbolica attribuita alla dea Iside? È possibile che la regina
Khentkhaus abbia scelto tale titolo perché “sapeva” che il luogo di sepoltura
scelto, aveva un antico legame con la dea cara agli Egizi?
Il professore Miroslav Verner, impegnato da anni in campagne di scavo in
Egitto, ha rinvenuto alcuni indizi molto interessanti durante le fasi di
“riscoperta” del monumento. Verner riferisce di reperti, ritenuti di estremo
interesse archeologico, dai quali è possibile notare alcune peculiarità che si
riferiscono al personaggio che vi era sepolto. La scoperta di alcuni
frammenti - rinvenuti nelle adiacenze della tomba, precisamente sul lato
orientale - all’interno del tempio, è davvero ragguardevole. Sull’unico
pilastro, sopravvissuto alla furia del tempo e all’incuria dell’uomo, è
raffigurata la regina Khentkhaus con l’ureo sulla fronte.
Il simbolo è molto importante, poichè conferisce, a chi lo indossa, una
regalità divina. Esso, infatti, è riconducibile ai più antichi retaggi conosciuti
ed è presente in tutte le culture più antiche nelle forme più disparate. L’ureo
è un serpente, un cobra sull’attenti, ad incarnazione di tutte le qualità
associate al rettile: regalità, saggezza, potere, unione spirituale.
E’ il serpente piumato che porta la conoscenza alle civiltà precolombiane, il
serpente simbolo di vicinanza al Grande Spirito negli animali totem nella
cultura pellerossa, ancora il serpente chiamato Kundalini, il flusso
energetico che sale dal primo all’ultimo chakra nella cultura orientale.
Regale e Divina, esattamente come la mitologia egizia presenta la figura di
Iside. Pertanto, i simboli e le interpretazioni ideografiche rappresentano
un’ulteriore conferma della stretta correlazione tra la regina della V
Dinastia e la dèa Iside.
Come vedremo, la relazione tra la regina dimenticata e la dea cara agli
Egizi va oltre la similitudine nelle funzioni simboliche. Essa si manifesta
anche attraverso la simbologia, espressa attraverso il numero, che
caratterizza il monumento originario sul quale, la Khentkhaus fece
realizzare la propria mastaba nel corso della V dinastia. La lettura dei dati,
infatti, ci permetterà di scoprire che l’edificio originario fu costruito
contemporaneamente alle Piramidi e alla Sfinge e le sue dimensioni sono
una chiara espressione della relazione con la stella Sirio.
Il Monumeno di Iside-Sirio

L’estate 2012, da un punto di vista professionale, è stato un vero e proprio


crocevia. La configurazione astronomica al 36.400 a.C. sembrava soddisfare,
pienamente, la connessione con i monumenti realizzati a Giza, eppure c’era
un elemento che stava mettendo in crisi l’intera impalcatura; un piccolo
dettaglio che poteva inficiare i risultati della correlazione tra astri,
costellazioni e monumenti. La mappa astronomica, infatti, indicava la
presenza di Sirio nella Volta Celeste, eppure, in quel periodo, non avevo
trovato elementi che potessero giustificare una plausibile correlazione con
l’astro associato alla dea Iside.
La mia priorità, era trovare il tassello mancante che potesse soddisfare i
principi di connessione tra monumenti e stelle. Tuttavia, era necessario capire
quale potessero essere gli strumenti di analisi, prima di ipotizzare qualsiasi
proposta. E lo strumento più accreditato, naturalmente, era il numero, inteso
quale espressione del linguaggio universale; l’unico in grado di annullare lo
spazio-tempo e rendere possibile la comunicazione tra civiltà appartenenti a
momenti distinti.
Lo studio della tomba della regina dimenticata, quindi, doveva innanzitutto
svilupparsi secondo logiche improntante all’applicazione di modelli di analisi
matematica, così da individuare le basi del linguaggio trasmesso
dall’antichità e applicarle all’indagine sulla ipotetica relazione tra Sirio e la
Mastaba. Ero convinto che nelle proporzioni della tomba della regina
dimenticata, ci fossero gli indizi che potessero correlarla alla stella Sirio.
La scoperta della “Casa di Iside”, quindi, era indispensabile per ricostruire
l’evoluzione delle società protodinastiche e disegnare quella sottile linea che
potesse, finalmente, congiunge i tempi remoti con la cultura che si è
sviluppata sulle sponde del Nilo nel periodo dinastico.
Questo passo rappresentava un punto fondamentale per il prosieguo della mia
ricerca.
La convinzione di essere sulla strada giusta era molto forte, poiché -
osservando il monumento che si ergeva dalle sabbie della Piana – avvertivo la
netta sensazione che stesse rivendicando il suo ruolo nella mia ricostruzione
dello Zep Tepi e del Progetto Unitario.
Una ricerca senza sosta stava giungendo, finalmente, in dirittura d’arrivo, per
togliere il velo all’ennesimo mistero ed aprire le porte alla vera storia del
nostro passato remoto. Come spesso accade in questi casi, l’illuminazione è
arrivata dopo notti passate in bianco a leggere e rileggere testi e documenti,
ad analizzare carte astronomiche, a studiare la disposizione degli edifici
sull’area archeologica.
Non posso fare a meno di pensare che la tomba dimenticata, era lì da millenni
e, solo nel 1930, fu riportata all’attenzione del mondo accademico. Un solo
breve momento di notorietà, salvo poi finire negli archivi, completamente
cancellata dalla storia; un delitto che ha oscurato per decine e decine di anni,
gli enigmi custoditi tra le sue mura.
In quell’estate del 2012, era giunto il momento di riportarli alla luce.
Avevo deciso di sviluppare il mio studio seguendo quattro direttrici ben
definite:
- Un’indagine topografica dell’area;
- Un’analisi tecnica dell’edificio, alla ricerca di analogie
scientifiche che potessero essere comparate a quelle rilevate nelle
Piramidi;
- Un’indagine multidisciplinare del monumento, attraverso
l’applicazione di una pluralità di modelli scientifici;
- Una comparazione dei risultati ottenuti e una verifica delle
potenziali analogie con le proporzioni fisiche della stella Sirio.
Per circa quattro mesi, senza sosta, ho setacciato l’area sud-est di Giza, alla
ricerca di qualche indizio che potesse semplificare la ricerca degli elementi da
inserire nei modelli scientifici da applicare, così da risolvere il dilemma della
relazione tra il derelitto monumento di Khentkhaus e la stella cara agli egizi.
Il primo punto di indagine, mi ha permesso di rilevare – in via propedeutica –
che l’edificio è stato realizzato in due momenti diversi e la parte inferiore –
ovvero un costone di roccia sapientemente sagomato ad arte – sembrava
essere molto più antico. Da un punto di vista geologico, l’area sulla quale
sorge la mastaba della regina Khentkhaus è molto simile a quella sulla quale
sono state edificare le Piramidi, anzi, si può sostenere che il sottosuolo
appartiene alla stessa piattaforma. Intorno alla mastaba, inoltre, si sviluppano
costoni molto simili, al punto che si avverte la sensazione che, in origine, si
trattasse di un unico blocco, successivamente lavorato per "estrarre” il
costone sagomato sul quale è stata realizzata la mastaba.
E’ molto interessante rilevare, inoltre, come il posizionamento geografico del
monumento sia stato studiato nei minimi particolari. Rispetto alla
disposizione dei monumenti più noti, come le Piramidi e la Sfinge, l’edificio
si posiziona esattamente a sud-est, proprio come la stella Sirio si pone a sud-
est rispetto alla Costellazione di Orione e alla Costellazione del Leone. Questi
dati sono stati molto utili, poiché mi avrebbero confermato che la “Casa di
Iside” è stata concepita come parte integrante del progetto edilizio plasmato
durante lo Zep Tepi.

Fig. 30. La Piana di Giza e la disposizione dei monumenti principali secondo i


punti cardinali.

Il secondo punto esaminato, riguarda la verifica dell’esistenza di eventuali


analogie con le Piramidi maggiori.
L’attuale mappa di Giza è notoriamente composta dalle Piramidi e dalla
Sfinge. Eppure, se osserviamo l’area geografica che si sviluppa intorno alle
famose costruzioni, ci rendiamo conto che nella zona sono stati costruiti molti
edifici, soprattutto in epoca dinastica, che sono strutturalmente diversi - per
qualità dei materiali usati e per concezione architettonica - da quelli rientranti
nel Progetto Unitario.
La loro particolarità consiste nella ricchezza di geroglifici che narrano di
scene di vita ordinaria, religiose e finanche amorose, molto utili alla
ricostruzione degli usi e dei costumi del tempo. Tuttavia, se approfondiamo i
contenuti dei testi ci si rende conto di un dato sorprendente: su tutta la Piana
di Giza – quindi tra centinaia e centinaia di geroglifici sparsi ovunque - non
c’è una sola stringa fonetica che parli delle piramidi o delle tecniche utilizzate
per la loro edificazione. Sembra davvero incredibile che nessuno, a quel
tempo, abbia prestato un minimo di attenzione alle fasi di edificazione di una
delle sette meraviglie del mondo antico! E’ quasi come se gli Egizi fossero
talmente abituati alla loro presenza che vivevano la loro esistenza senza
essere travolti dalla maestosità dei monumenti.
In questo contesto, anche il costone di roccia sagomato presenta
caratteristiche analoghe, già rilevata per le piramidi, poiché non presenta
alcuna iscrizione. Questa considerazione può aggiungersi alle molteplici
riflessioni, finora proposte, le quali confermano che le costruzioni principali
di Giza erano lì prima della IV Dinastia.

Fig. 31. Le tracce di erosione sulla parte inferiore del monumento originario,
ricordano quelle rinvenute sul fossato che ospita la Sfinge
Il terzo punto considerato, riguarda l’analisi strutturale del monumento. Essa
sembra sia stata costruita in due momenti diversi. La base è interamente
scolpita nella roccia, mentre la parte superiore è più in linea con le fattezze
delle strutture adiacenti, presentando blocchi di piccola dimensione,
sovrapposti l’uno all’altro, a formare una mastaba di chiara matrice dinastica.
Questa differenza architettonica mi ha insospettito non poco, perché se la
tomba è stata realizzata durante l’Antico Regno, per quale motivo i costruttori
si sono impelagati in un lavoro disumano per modellare la roccia viva, non
avendo le attrezzature adatte per la lavorazione della pietra?
Il sospetto di essere in presenza di qualcosa di molto più antico era forte e,
più esaminavo i dati rilevati, più mi convincevo di essere sulle tracce del
Tempio citato nella Stele dell’Inventario. Il monumento originario presenta
delle tracce molto particolari, che non si riscontrano in altri edifici della
Piana, ad eccezione della Sfinge. Esse si caratterizzano per dei solchi verticali
che riportano alla memoria le tracce di erosione da acqua piovana, riscontrate
da Schoch e West negli anni ’90, sul corpo leonino a guardia delle Piramidi.
Nella foto precedente, ho voluto proporre una piccola correlazione, tra le
tracce riscontrate sulla Casa di Iside ed un particolare di quelle rinvenute sul
più famoso monumento egizio. L’indizio mi ha permesso di approfondire
alcuni aspetti strutturali della misteriosa tomba, per scovare qualche ulteriore
elemento che potesse confermare l’ipotesi della sua vetustà rispetto agli
edifici di epoca dinastica presenti in zona. Partendo dalle considerazioni
proposte da Robert Schoch e John Anthony West, mi sono dedicato all’analisi
del fenomeno erosivo, utilizzando metodologie di analisi scientificamente
accettate. Confrontando le tracce di erosione rilevate in alcuni punti della
parte inferiore della Tomba di Khentkhaus, ho ricevuto la conferma della
similitudine con le profonde cicatrici della Sfinge. Questo dato rappresenta
un valore aggiunto molto importante per l’esito della ricerca, poiché certifica
la retrodatazione dell’edificio a tempi molto più antichi, anche perché gli
stessi blocchi di pietra - usati per costruire la mastaba in epoca dinastica - non
presentavano tracce di erosione d’acqua.
I due passi successivi, sono finalizzati allo studio di una possibile
correlazione astronomica tra il monumento e la stella Sirio. Il modello
utilizzato è molto simile a quello applicato per indagare la correlazione
astronomica tra le Piramidi e la Costellazione di Orione. Ho verificato,
innanzitutto, la disposizione dei monumenti principali rispetto alla tomba
dimenticata.
Fig. 32. La posizione della Tomba di Khentkhaus sulla Piana di Giza rispetto
ai monumenti principali e ai punti cardinali.

Come osservato, la tomba è posizionata a sud-est, a metà strada tra le


piramidi e la Sfinge, proprio come la stella Sirio è posizionata a sud-est della
Cintura di Orione. Tuttavia, rispetto alle Piramidi, non è perfettamente
allineata con i punti cardinali, ma ha una disposizione angolare diversa e,
questo indizio ha alimentato la percezione di non seguire l’armonia
dell’intero complesso monumentale. Questa anomalia, apparentemente senza
significato, custodisce un mistero straordinario. Tuttavia, prima di entrare nel
merito dell’analisi dei valori matematici, è opportuno evidenziare un altro
elemento propedeutico alla fase finale della ricerca. C’è un dettaglio
interessante, infatti, che riguarda la costruzione originaria del monumento che
va evidenziata; una caratteristica strutturale che si rileva nel suo lato
occidentale: l’edifico, in quel punto, sale come in una forma a spirale. Questa
caratteristica non si replica in nessun altro monumento in tutto l’Egitto
Dinastico. Perché gli Egizi avrebbero deciso di realizzare un monumento con
quelle caratteristiche?
Fig. 33. La tomba in relazione al moto di Sirio.
Spinto dalla curiosità, ho analizzato il moto orbitale di Sirio, poiché
sospettavo l’esistenza di una possibile correlazione: e così è stato!
Nella foto precedente, ho sovrapposto due immagini, una riferita alla Tomba
e l’altra al moto orbitale di Sirio e, la correlazione si manifesta in tutta la sua
eccezionale similitudine. Infatti, se si osserva l’orbita della stella e si
riproduce in piano il moto orbitale, ci troviamo esattamente in presenza di
una spirale proprio come sagomata nell’edificio. La particolare caratteristica
potrebbe confermare che i costruttori non hanno lasciato nulla al caso,
riproducendo sulla Piana di Giza il corrispettivo terrestre di Sirio con le
proprie caratteristiche astronomiche, collocandola esattamente nel punto
preciso a sud-est delle Piramidi.
Fig. 34. La correlazione tra monumenti e costellazioni. La particolare
disposizione della mastaba rispetto alla costellazione del Cane Maggiore.

Lo studio delle anomalie riscontrate nella posizione della tomba rispetto ai


punti cardinali, mi ha permesso di chiarirne le ragioni. Sappiamo che i
costruttori di piramidi hanno realizzato i monumenti tenendo ben presente
una costante fondamentale: la precisione nelle correlazioni tra i monumenti e
i punti di orientamento sulla superfice terrestre. Infatti, le piramidi sono
perfettamente in relazione con i punti cardinali. La Casa di Iside, invece,
sembra essere un’eccezione, poiché è leggermente orientata verso sud-ovest.
Esiste una ragione che giustifica questa disposizione?
Se osserviamo l’immagine precedente, possiamo apprezzare la genialità dei
costruttori. Essi hanno ruotato il complesso di Iside di circa 23° nord-ovest,
così da creare le condizioni per tracciare una riproduzione simbolica della
Costellazione del Cane Maggiore, al cui vertice è posizionata la stella Sirio.
Ho voluto ulteriormente approfondire la questione, per eccesso di zelo ed ho
rivolto la mia attenzione alla costruzione della tomba e alla sua angolazione
rispetto ai punti cardinali.
Ho voluto concentrarmi sull’anomalia per cercare di svelarne il mistero.
Dopo un lungo periodo di indagine, ho potuto rilevare il seguente,
affascinante, dato.
I costruttori di Giza hanno edificato la struttura, disallineata rispetto ai punti
cardinali, per un motivo molto semplice ed al tempo stesso intrigante. Se si
traccia una linea immaginaria lungo il corso ovest della mastaba –
dall’angolo nord-ovest verso sud-ovest - ed un’altra che taglia la medesima
costruzione dall’angolo nord-ovest verso sud-est, si ottiene come risultato un
triangolo con il vertice rivolto verso nord-ovest. L’operazione può essere fatta
a specchio, utilizzando come punto di partenza la base di sud-est, ed il
risultato è sempre lo stesso, con l’unica variante che il vertice alto si trova
nell’angolo di nord-est. Il triangolo ottenuto è molto particolare, poiché
sembra essere una chiara riproduzione del disegno che forma la Costellazione
del Cane Maggiore sulla Piana di Giza.
Se osserviamo la mappa celeste ed individuiamo nel cielo la posizione del
Cane Maggiore, notiamo che essa ha la forma di un triangolo. Pertanto, il
motivo per il quale i costruttori hanno edificato la mastaba con una leggera
angolazione, portandola fuori asse rispetto ai punti cardinali, è giustificato
dalla necessità di riprodurre la posizione e la configurazione della
costellazione sulla Piana. Questo dato, senza alcun dubbio stupefacente, è
un’ulteriore conferma della funzione dell’edificio e della sua intima relazione
con la stella di Iside. I monumenti, quindi, sono stati allineati a specchio
rispetto alla Volta Celeste secondo un ordine ben definito: osservando la
dinamica da Est, troviamo in sequenza la Sfinge-Costellazione del Leone, a
sud-est la tomba di Khentkhaus-Costellazione del Cane Maggiore con al suo
vertice la stella Sirio e a sud le Piramidi-Cintura di Orione.
A questo punto dell’indagine, ho concentrato la mia attenzione sullo studio
del numero, in quanto strumento del linguaggio universale, il medesimo
linguaggio attraverso il quale si esprime la civiltà delle Piramidi. Per
assecondarne le leggi, ho raccolto ed elaborato la massa di dati ottenuti nel
corso delle fasi di rilevamento da campo e trovare la chiave per decifrare la
possibile connessione del monumento con il Progetto Unitario. L’obbiettivo è
evidenziare la relazione che intercorre tra le proporzioni della struttura
originaria e le dimensioni fisiche della stella Sirio e, al contempo, verificare
l’eventuale esistenza di una correlazione basata sull’utilizzo delle costanti di
base della matematica. Purtroppo, la Tomba di Khentkhaus versa in
condizioni davvero pessime, quindi le misurazioni effettuate sono suscettibili
– seppur minimamente – di plausibili variazioni. Esaminiamo, dunque, le
misure della struttura originaria su cui poggia la tomba.
I lati corrispondono più o meno a 45,5X45,8 metri, mentre l’altezza originaria
è pari a circa 10 metri. I dati forniti dal rilevamento, offrivano elementi che
necessitavano di apposita aggregazione per poter ottenere qualche ulteriore
indizio.
Pertanto, nella prima fase, ho trasformato le misure dell’edificio, da metri in
cubiti reali egizi, così da avere un parametro di riferimento sostanzialmente
omogeneo e in linea con le tradizioni egizie. Lo stesso procedimento è stato
adottato per i parametri fisici della stella Sirio. Per omogeneità di confronto
ho utilizzato - sia per l’edificio che per la stella - i seguenti criteri di
riferimento: l’area o superfice (nel caso della stella, n.d.a.), il volume, il
diametro o diagonale (nel caso della stella, n.d.a.) e la circonferenza. I
risultati ottenuti dal confronto tra le misure dell’edificio e della stella,
evidenziano dati sorprendenti:

1. la relazione tra i due oggetti, sono espressi sulla base delle


costanti matematiche ☐ e ☐☐ ciò significa che l’area
dell’edificio e la superfice della stella sono in relazione di ☐ ;
oppure, che la relazione tra il volume dell’edifico e della stella
sono in relazione di ☐ ; mentre, la relazione tra la diagonale
dell’edificio e il diametro equatoriale della stella si esprime
secondo una relazione di ☐ ; infine, la relazione che intercorre
tra la circonferenza dell’edificio e della stella è espressa, ancora
una volta, in relazione di ☐ .
2. Tutto ciò significa che, coloro i quali hanno realizzato la Casa
di Iside, erano perfettamente a conoscenza dei valori e dei
parametri fisici della stella, dai quali - con un procedimento
inverso, basato sull’utilizzo delle costanti matematiche - hanno
stabilito le dimensioni del tempio della dèa.

Eccone i risultati in dettaglio:


Relazione tra la Casa di Iside e la stella Sirio
Casa
di Iside Cubiti Reali Stella Sirio Cubiti Reali Rapporto Cost.
Area 3.984,51 Superf. 19,65x 1016 5
√r π

Volume 1007098 Volume 65,56 x 1025 7


√r ☐
Diag. 124,384 Diam. 4.919.172.93 {√r[(1.000)-1]-2} π
Circonf. 390,5657 Circonf. 15,71 x 109 {√r[(1.000)-1]-2} π

I progettisti non avrebbero potuto esprimere meglio la simbologia che


consacra la Regina dello Zep Tepi quale Grande Madre della future civiltà.
Sirio è lì, sulla Piana di Giza da millenni e, pur se nascosta dalla maestosità
degli altri monumenti, esprime la sua perfezione custodendo i segreti
dell’armonia delle proporzioni.
E’ evidente, quindi, che essa è parte integrante del Progetto Unitario e
conferma che i monumenti sono un’esatta riproduzione del cielo, nel 36.400
a.C., l’Epoca in cui gli dèi hanno dominato l’Egitto.
La conferma astronomica

La configurazione astronomica al 36.400 a.C. restituisce degli indizi


decisamente più armoniosi, rispetto a quelli contenuti nella teoria di Bauval,
non fosse altro per l’ebbrezza di scoprire nuovi elementi che sembrano
disegnare un capolavoro unico.
Ma le sorprese non finiscono qui, poiché l’area sud-est delle piramidi si
cinge di ulteriori elementi davvero affascinanti.
Se osserviamo la carta astronomica, infatti, notiamo che la Costellazione
del Cane Maggiore è molto vicina alla Costellazione di Orione e, per
differenza, lontana rispetto alla Costellazione del Leone.
Viceversa, se osserviamo la mappa terrestre, ci troviamo esattamente in
presenza di un dato curioso, ovvero la Tomba di Khentkhaus sembra essere
più vicina alla Sfinge e, ovviamente, più lontana dalle Piramidi.
C’era da chiarire, quindi, un vero e proprio dilemma.
Ebbene, i dati che analizzeremo da qui ad un momento, sono davvero
incredibili e dimostrano - ancora una volta - che chi ha realizzato il Progetto
Giza doveva necessariamente appartenere ad una Civiltà notevolmente
evoluta sotto tutti i punti di vista.
Innanzitutto, ho verificato le distanze tra tutti i monumenti della Piana di
Giza rispetto alla tomba di Khentkhaus.
I dati così ottenuti dalle misurazioni - seppur condizionati da piccole
imprecisioni del tutto marginali, dovute dalle pessime condizioni dei
monumenti - hanno ulteriormente confermato la genialità dell’autore e la
sottile scienza adottata per comporre lo Specchio Celeste sulla Piana di
Giza.
Fig. 35. La distanza tra i monumenti, considerando la Casa di Iside quale
“punto 0”

Come è possibile notare dalla tabella, la Tomba di Khentkhaus risulta essere


più vicina alla Sfinge (distanza 310 metri circa) che alle Piramidi dalle quali
dista tra i 700 metri della Terza Piramide ed i 540 della Seconda. Quindi
rispetto alla disposizione stellare si presentava un’ultima questione da
risolvere.
Monumenti Tomba di Khentkhaus (mt)
Grande Piramide 650
Seconda Piramide 540
Terza Piramide 700
Sfinge 310

Mi sono rimesso all’opera, ripartendo dal software di simulazione


astronomica ed ho misurato le distanze tra le stelle in questione. I dati
evidenziavano sorprese davvero eccezionali.
Nella Tabella che segue sono riassunti tutti i dati riferiti alle distanza
astronomiche.
Stelle Sirio (Anni Luce)
Al Nitak 817,7
Al Nilam 1351
Mintaka 910,9
Regolo 73,35

La Tabella dimostra che Sirio è più vicina alla stella Regolo, nella
Costellazione del Leone, che non alle tre stelle della Cintura di Orione,
nonostante l’osservazione astronomica ad occhio nudo restituisca un dato
contrario. La separazione tra Sirio e Regolo, infatti, è contenuta in solo 73
anni luce, viceversa, la distanza dalle altre stelle della Cintura di Orione è
praticamente abissale!
Questo dato dimostra che non era sufficiente la semplice osservazione
empirica dei fenomeni astronomici, poiché se fosse stato così, i costruttori
avrebbero commesso un errore nella disposizione dei monumenti,
avvicinando la mastaba alle piramidi e allontanandola dalla Sfinge. Invece,
realizzandola così come la vediamo oggi, i progettisti hanno dimostrato una
capacità straordinaria e soprattutto una conoscenza perfetta delle distanze
astronomiche tra gli astri. Essi avevano gli strumenti giusti per osservare il
moto delle stelle e calcolarne sia le dinamiche astronomiche che i dati fisici;
se non fosse stato così non avrebbero potuto realizzare il progetto alla
perfezione. Viene, per conseguenza, che la civiltà dinastica mai avrebbe
potuto raggiungere un risultato del genere poiché, culturalmente
impreparata ad affrontare un’opera così estrema.
La ricerca sui segreti della Casa di Iside, tuttavia, si ammanta di un ulteriore
dato estremamente significativo.
Analizziamo, infatti, un ultimo dato relativo alla posizione del complesso
della Casa di Iside rispetto ai punti cardinali. Questo modello è stato
utilizzato per verificare l’angolazione del complesso rispetto all’Est e
l’eventuale correlazione con la stella Sirio rispetto al medesimo parametro
di valutazione. Per ottenere questo dato, ho dovuto individuare una base di
stazionamento, così da stabilire un punto “0” di origine. Dalla posizione
così ottenuta, ho tracciato un sistema di assi cartesiani, al fine di acquisire
una maggiore semplicità nell’elaborazione dei dati, come nell’immagine
che segue.
Fig. 36. Posizione angolare della Casa di Iside rispetto ai punti cardinali, in
particolare all’Est.

Dall’origine “0”, ho tracciato un angolo, da est verso sud, per verificare la


disposizione del complesso, in gradi, rispetto all’est. Il dato così ottenuto,
esprime il seguente valore: 67°32’58” sud-est.
A questo punto, non mi rimaneva che verificare la posizione angolare della
stella Sirio rispetto all’est nella datazione dello Zep Tepi, ovvero al 36.400
a.C. Il dato mi avrebbe dato una prova – per non dire una certezza – della
correlazione tra i due elementi. Se la separazione angolare corrispondeva
all’angolazione del monumento sulla Piana di Giza avrei ottenuto una
duplice conferma:
- la mastaba della regina sorgeva su un pezzo di storia dello Zep
Tepi;
- la Civiltà che ha ideato il Progetto Giza era custode di un Sapere
davvero straordinario.
Così, mi sono appellato al mio fedele software Starry Night Pro Plus 7.0,
nella speranza potesse emettere una sentenza favorevole. Un silenzio carico
di tensione ha scandito il tempo tra l’inserimento dei dati ed il conseguente
risultato.
Il monitor del mio pc indicava la Volta Celeste posizionata all’equinozio di
primavera del 36.400 a.C.
Bastava solo posizionare il mouse tra i due punti di correlazione
considerati, per ottenere l’auspicato responso.
Il risultato della separazione angolare della stella Sirio rispetto all’Est,
all’equinozio di primavera del 36.400 a.C., restituiva il seguente dato:
67°59’22”, ovvero una differenza tra i due valori pari a circa 0°22’.
Praticamente un’inezia!
Questa è l’ultima indicazione scientifica che avvalora la natura del
complesso della regina dimenticata: sul promontorio dove ora sorge una
mastaba, in origine era posizionata la Casa di Iside, proprio come narrato
nella bistrattata Stele dell’inventario.

Fig. 37. La separazione angolare di Sirio rispetto all’Est nel 36.400 a.C.

A questo punto non restava che indagare l’area ovest di Giza, alla ricerca di
ulteriori indizi che potessero confermare l’esistenza di reperti o monumenti
rientranti nel Progetto Unitario. Ma prima di tutto era necessaria una
puntatina ai templi della Sfinge, poiché anche lì c’è un pezzo di storia dello
Zep Tepi ancora tutta da ricomporre.
3. Ad Ovest delle Piramidi
Le verità nascoste
Uno degli aspetti più affascinanti del lavoro di ricerca, è, ovviamente,
scoprire quei reperti archeologici in grado di dimostrare che i Miti narrati
nelle prime civiltà a noi note – quindi da quella Sumera a quella Egizia –
sono stati influenzati da fatti storici caduti nell’oblio. E’ un compito
difficile, complesso, a volte rischioso, poiché è molto facile prendere delle
sviste, soprattutto quando si è impegnati nell’affannosa ricerca del risultato
a tutti i costi. La moderazione e la temperanza sono delle “conditio per
quam”, al fine di ottenere dei risultati inconfutabili per una corretta
ricostruzione di tutta la fase storica più arcaica.
L’interesse per tutto ciò che è accaduto in epoche convenzionalmente
associate alla fase prediluviana, mi ha permesso di acquisire una serie di
reperti e di nozioni davvero interessanti; esse, analizzate nel giusto verso,
hanno spalancato le porte ad una parziale ricostruzione di fatti ed eventi che
giustificano la realizzazione di complessi monumentali come Giza.
Le civiltà post diluviane sono state fortemente influenzate da un retaggio
tramandato da epoche ancora non pienamente definite. Perché se è vero che
la mia Teoria indica il momento del preciso allineamento - dei monumenti
di Giza con gli astri nella Volta Celeste - al 36.400 a.C., questo non vuol
dire che tutto è cominciato in quell’epoca.
Tuttavia, su questo periodo storico convergono una serie di recenti scoperte
che devono far riflettere.
Tempo fa, ho ricevuto una mail dalla “Pyramid of the Sun Bosnian
Foundation”, con la quale mi informavano – per conoscenza, avendo
partecipato ad alcune attività di studio sulle piramidi di Bosnia - di alcuni
risultati conseguiti nel corso degli scavi effettuati a Visoko dall’archeologo
Semir Osmanagic. Ebbene, in quel periodo sono stati resi noti i risultati di
un reperto in legno rinvenuto nell’incastro tra alcuni blocchi nei tunnel,
sotto la cosiddetta Piramide del Sole. Le analisi sono state effettuate presso
due laboratori distinti: il primo nel Dipartimento per lo studio sui Radio-
Isotopi presso l’Istituto di Fisica dell’Università delle Tecnologie di Gliwice
in Polonia e l’altro nel Laboratorio Leibniz per la Datazione Radiometrica
presso l’Università Christian Albrecht di Kiel, in Germania. In entrambi i
casi, le analisi hanno dato dei risultati davvero interessanti.
La dottoressa Anna Pazdur, dell’Università di Gliwice annunciò che il
pezzo di legno analizzato risaliva a 34.000 anni fa circa, con un margine di
errore di più o meno 1.500 anni. Il medesimo risultato è stato annunciato
dal dipartimento tedesco che indicava una datazione prossima a 30.600 anni
fa, con un margine di errore di più o meno 500 anni.
Questi dati devono far riflettere su due questioni in particolare: la prima è
che con ogni probabilità, le Piramidi di Bosnia sono effettivamente delle
costruzioni a cui ha contribuito la mano dell’uomo e, quindi, non
completamente naturali, così come sostenuto da una parte cospicua di
archeologi e ricercatori; la seconda, invece, deve farci riflettere sulla
convergenza storica in un periodo a ridosso del 36.400 a.C.
La concomitanza di reperti che si concentrano nel periodo rilevato dallo
studio dei monumenti di Giza, è confermata da un’altra clamorosa scoperta
avvenuta in Francia, grazie ad un’équipe di ricerca canadese.
L’evento fu annunciato dalla rivista New Scientist che – narrando
dell’incredibile scoperta – poneva i riflettori su una serie di simboli,
risalenti al periodo preistorico, rinvenuti in alcune caverne. Essi erano
dipinti sulle pareti e disposti in sequenza, dando la chiara sensazione
potesse trattarsi di un alfabeto sconosciuto. Anche in questo caso, si è
proceduto ad una datazione, per definire il periodo in cui l’opera era stata
compiuta e, con mia grande sorpresa, essi risalivano a circa 25.000 anni fa.
Peraltro, la cosa più interessante è che, alcuni di essi, ricordano i simboli
fonetici che gli Egizi hanno riproposto nella loro scrittura geroglifica.
Le evidenze archeologiche dimostrano, quindi, che prima dell’ultima fase
post glaciale, si è sviluppata - su questo pianeta - una Civiltà che ha lasciato
tracce di sé ovunque. Sul globo terrestre sono disseminate testimonianze
che non possono essere trascurate; ed è altrettanto fuori luogo, continuare a
nascondersi dietro la teoria darwiniana, la cui datazione al 1859, la pone
inesorabilmente in contrasto con i modernissimi sistemi di analisi che
potrebbero rilevare, viceversa, gli indizi necessari a riscrivere l’evoluzione
dell’uomo in simbiosi con le evidenze archeologiche.
Sotto questo profilo, un grande contributo lo ha reso Michael Cremo che nel
1996, con il suo libro “Archeologia Proibita”, il quale ha aperto un nuovo
capitolo sulle ipotesi che l’Homo Sapiens avesse vissuto ben altre
evoluzioni. Ci troviamo quindi in presenza di un rompicapo davvero
affascinante che si collega ad un’altra scoperta, passata clamorosamente
sotto silenzio. Nel 1999, l’agenzia di stampa russa, la Pravda, annunciava -
in un articolo condito da particolari davvero straordinari - che una
spedizione di scienziati russi della Bashkir State University aveva scoperto
nel villaggio di Chandar, negli Urali meridionali, una lastra sulla quale era
incisa una dettagliata mappa orografica. Il capo della spedizione, il
professor Alexander Chuvyrov era convinto di aver trovato la prova
dell’esistenza di una Civiltà che aveva abitato il nostro pianeta in epoche
remotissime, mettendo a dura prova tutte le teorie evolutive finora proposte.
Egli, analizzando la mappa, aveva notato che non era stata riprodotta
manualmente, ma con un non meglio precisato strumento di incisione.
Inoltre, era così ben dettagliata che non poteva essere stata realizzata se non
con l’aiuto di prospezioni aeree. Su di essa, infatti, erano ben raffigurati
fiumi, opere di irrigazione, sistemi di canali particolarmente ampi e
complessi, dighe e canyon che potevano essere riportati solo con l’ausilio di
complessi strumenti – altamente tecnologici - come quelli moderni. La
stessa particolarità strutturale della mappa lascia attoniti. Essa ha uno
spessore di base di circa 14 centimetri in dolomite dura, un secondo strato
in vetro diopside di composizione ignota alla scienza moderna ed un terzo
strato superiore, di 2 millimetri di spessore, in porcellana di calcio per
proteggere la mappa. Il risultato più incredibile, però, è arrivato al momento
della datazione del reperto. Incastonate nella lastra ci sono due fossili di
conchiglie che si sono estinte tra i 500 e i 120 milioni di anni fa.
Infine, a rendere la questione ancora più complessa, sulla lastra sono state
trovate delle iscrizioni, apparentemente geroglifico-sillabiche che non sono
collegabili a nessuna delle civiltà a noi note.
Questi dati, sono l’ulteriore riprova che evoluzione dell’uomo e della
scrittura sono andati di pari passo nel corso della storia. I simboli fonetici
sono stati utilizzati, molto probabilmente, fin dall’inizio dell’ultima fase
evolutiva che è coincisa con lo Zep Tepi. Tutto sembra convergere su
questo punto nodale del nostro passato a dimostrazione che gli eventi che si
sono verificati sono stati davvero epocali.
Finora, si è ipotizzato che la Civiltà Remota che ha colonizzato la Terra,
abbia lasciato tracce di sé utilizzando solo ed esclusivamente il linguaggio
della scienza, ma come vedremo è una supposizione che deve essere
rettificata.
Le scoperte in Francia, infatti, sono una testimonianza in controtendenza.
Non solo matematica, astronomia, ingegneria e architettura dunque, ma
anche manifestazione del pensiero attraverso simbologie ideografiche e/o
sillabiche, a testimonianza di un epoca sicuramente ricca di fermento
culturale. Peraltro, le tracce rinvenute, risalenti a circa 25.000 anni fa, sono
state impresse in una delle fasi geologiche più complesse per il nostro
pianeta, poiché è proprio tra il 29.000 ed il 24.000 a.C. che si sono verificati
disastri planetari, variazioni climatiche e geologiche su vasta scala, al punto
che gli stessi ricercatori le hanno definite “di proporzioni inimmaginabili”.
E’ in questo periodo che la fiorente Civiltà di Giza abdica al corso degli
eventi trasformandosi in una razza di sopravvissuti alle catastrofi
planetarie?
Non è assolutamente da escludere, soprattutto se si presta particolare
attenzione alla mitologia Sumera, l’unica sopravvissuta nelle forme più
complete ed i cui contenuti sono particolarmente utili per una ricostruzione
plausibile del percorso compiuto dall’uomo.
Al di là delle interpretazioni date alle Tavolette rinvenute nella terra di
Sumer, sulle quali si è speculato e si continuerà a speculare, sosterrò questa
posizione fin al raggiungimento della necessaria chiarezza. Non ho mai
avuto l’abitudine di sposare l’una o l’altra ipotesi, quindi anche in questo
caso rimarrò fedele ai miei convincimenti. Non condivido le ipotesi
proposte da Sitchin, almeno non completamente, anzi ritengo che in alcuni
casi, il contenuto sia stato eccessivamente enfatizzato. Ma come ogni
ricercatore libero da vincoli preconcetti, ho il dovere di rilevare gli aspetti
comuni tracciati dalle Civiltà postdiluviane che si sono sviluppate ad ogni
latitudine e, da lì, partire per raggiungere un altro traguardo di questa
infinita corsa verso la Verità Storica.
I Templi del mistero

Poco meno di un centinaio di metri, separano il villaggio di Naztel el


Samman dai Templi a valle della Sfinge. Si tratta di un agglomerato di
abitazioni per lo più fatiscenti che costeggiano il sito piramidale.
Un posto particolarmente vivace, certamente molto pittoresco, oltre che
affascinante. Qui la stragrande maggioranza della popolazione è impegnata
in attività collegate al turismo, al punto che intere famiglie condividono
esercizi commerciali, di varie dimensioni, pur di garantirsi i profitti
provenienti dai costanti flussi di turisti che visitano la piana di Giza.
Le famose scuderie dei cammelli rappresentano un altro fiore all’occhiello
per il villaggio che, con i suoi circa 70.000 abitanti, può essere considerato
una vera e propria città nella città; la gran parte dei cammelli e dromedari
vengono utilizzati per accompagnare i turisti in affascinanti ed esotici tour
tra le piramidi. Visitare questo sobborgo della capitale egiziana è un “must”,
poiché è molto coinvolgente e, ritengo sia un’esperienza tutta da vivere.
Alla periferia ovest di Naztel el Samman, esattamente al di là della strada,
inizia la polverosa sabbia del deserto che conduce ai piedi della Sfinge.
Percorrere i circa 100 metri che separano lo stazionamento dei bus turistici
dalle zampe del Leone di Giza, è uno dei momenti più entusiasmanti per chi
visita il sito archeologico. La fretta di raggiungere i monumenti, rallentata
dalla difficoltà di procedere tra la sabbia - dalla quale spuntano, qua e là,
pietre e rocce sulle quali non è difficile incespicare – alimenta un contrasto
interiore tutto da provare. E mentre il passo si affretta, le meravigliose
vestigia dei templi - che si stagliano ai piedi della Sfinge - si manifestano in
tutta la loro imponenza.
L’uomo e la Natura hanno sostanzialmente demolito il Tempio della Sfinge,
mentre quello cosiddetto della Valle, preserva una condizione strutturale
ancora accettabile. I due templi sono disposti in maniera perfettamente
simmetrica, l’uno accanto all’altro, per riportare alla memoria un altro
tassello dello Zep Tepi.
Fig. 38. Il misterioso complesso monumentale della Sfinge

Il Tempio della Valle è ufficialmente attribuito al faraone Chefren e, così


come per le Piramidi e la Sfinge, anch’esso si propone come una meraviglia
dell’ingegneria. Analizzando lo stile architettonico del monumento, è facile
intuire che si caratterizza per la dimensione dei blocchi di pietra che lo
compongono. Il tempio è sicuramente tra i più antichi edifici in pietra mai
costruiti in Egitto, se non addirittura al mondo. Gli unici edifici che possono
essere associati a questa costruzione, sono il vicino Tempio della Sfinge e
l’ermetico Osireion, realizzato ad Abydos.
Il tempio ha una struttura di forma quadrata e misura circa 50 metri per lato.
A dire il vero, il rilevamento delle misure è risultato particolarmente
complesso, a causa delle condizioni strutturali in cui si trova l’edificio. Ma
ritengo di poter proporre il dato come acclarato, poiché rilevato con appositi
strumenti a sensori di moderna generazione. I costruttori lo hanno realizzato
sui margini del pendio che caratterizza la Piana, così che le pareti esterne
del monumento variano in altezza dai 20 metri, rilevati sul lato ovest, ai 40
metri e poco più, rilevati sul lato est.
Nel corso dell’ispezione, ciò che mi ha impressionato è stata la grandezza e
la quantità di pietre utilizzate per la sua costruzione. Centinaia di blocchi in
calcare formano la struttura principale del tempio, ciascuno di essi ha un
peso che oscilla tra le 180 e le 200 tonnellate, ovvero l’equivalente del peso
di circa 300 moderne autovetture familiari messe una sopra l’altra!
Semplicemente incredibile!
Ciò che lascia completamente attoniti, inoltre, è la lavorazione dei blocchi,
nonché la capacità dei costruttori di sollevarli per circa 20 metri di altezza.
Leggere questi dati potrebbe non dare la giusta dimensione del fenomeno,
pertanto vi propongo una correlazione con un altro sito megalito molto
famoso: Stonehenge, in Inghilterra.
Considerate che il blocco di pietra più grande del complesso britannico,
pesa circa 50 tonnellate ovvero un quarto del peso di quelli egizi e non è
stato necessario issarlo alle altezze previste per il tempio di Giza. In poche
parole, siamo in presenza di qualcosa che va oltre ogni umana logica.
Credo sia interessante aggiungere, infine, i risultati dell’analisi geologica, in
base alla quale si è stabilito che, i blocchi formanti il tempio, sono stati
estratti dal recinto dove è posizionata la Sfinge, evidenziando, così, la
contemporaneità dei due monumenti.
Ma quando sono stati realizzati?
Gli Egittologi attribuiscono la costruzione del Tempio della Valle al faraone
Chefren, realizzato in un periodo compreso tra il 2.520 ed il 2.494 a.C. Così
come per la Grande Piramide, il Tempio della Valle è stato “assegnato” al
faraone, grazie al ritrovamento di una statua in diorite, rinvenuta in un
pozzo all’interno del tempio, sepolta a testa in giù.
L’attribuzione del tempio al faraone Chefren è un vaneggiamento confutato
da una serie di evidenze di assoluto rilievo. Ne esaminiamo due in
particolare: innanzitutto, nella Stele dell’Inventario si parla già della Sfinge
ai tempi di Cheope, quindi, ciò significa che i monumenti erano già stati
costruiti prima della nascita di Chefren; inoltre, come per le piramidi di
Giza, anche all’interno del Tempio della Valle non è stato trovato un solo
geroglifico che celebri il faraone o una divinità del suo tempo; inoltre, la
complessità delle tecniche ingegneristiche utilizzate per la sua costruzione,
non sono state mai riscontrate nel periodo di regno di Chefren.
Un altro fatto sorprendente si rileva dall’analisi della costruzione del
Tempio della Valle, poiché sembra sia stato realizzato in due fasi diverse.
Infatti, nel corso dell’indagine effettuata, ho potuto osservare un dato già
emerso nel corso di esplorazioni svolte da altri ricercatori e che ritengo di
grande importanze storica.
Il tempio è realizzato in pietra calcarea e granito, ma mentre la prima è
parte integrante del progetto originario, il granito è stato aggiunto in un
secondo momento ed incassato a copertura delle erosioni a cui sono stati
sottoposti i blocchi originari. In sostanza, il rivestimento in granito è stato
tagliato in modo tale da combaciare alla perfezione con i monoliti in
calcaree fortemente erosi. Da ciò, si deduce che, quando il granito è stato
aggiunto alla complessità della struttura, il nucleo originario in pietra
calcarea era già stato realizzato in tempi molto più remoti.
E’ chiaro, dunque, che non esiste un solo elemento che possa soddisfare le
ipotesi ufficiali, la qual cosa spinge inevitabilmente la ricerca indietro nel
tempo, fino alle porte dello Zep Tepi.
Secondo gli egittologi, il Tempio della Valle sarebbe stato realizzato per
svolgervi i rituali della mummificazione o quelli “dell’apertura della
bocca”, cerimonia che si svolgeva per consentire al Ka del faraone di
viaggiare simbolicamente verso la regione della Duat. Il Tempio, in ragione
della sua destinazione funeraria, sarebbe collegato alla struttura piramidale,
per mezzo delle strada rialzata che conduce alla seconda Piramide di Giza.
Come vedremo a breve, il Tempio della Valle è stato realizzato per
assecondare ben altra funzione.
Il tempio della Sfinge è adagiato su un terrazzamento, ricavato dal pendio
della Piana ed è sistemato davanti alle zampe del corpo leonino che sovrasta
l’area est di Giza. Nella configurazione architettonica, esso è molto simile a
quello della Valle. Gli ingressi posti sul versante est, presentano blocchi di
granito rosa, così anche in questo caso è plausibile l’ipotesi che il tempio
sia stato sottoposto ad un maquillage, per ripristinare i malandati blocchi in
calcaree, originariamente utilizzati. Tuttavia, non si sa per quale motivo, il
lavoro, in questo tempio, non è stato completato e i blocchi in calcaree,
rimasti esposti alle intemperie, adesso sono gravemente danneggiati.
Fig. 39. Particolare dei blocchi all’interno del Tempio della Sfinge

Il pavimento era ricoperto di alabastro e, se fosse giunto integro fino ai


nostri giorni, avremmo potuto assistere ad un vero e proprio spettacolo di
bellezza. Al visitatore che varca la soglia del tempio, si apre un cortile
interno, interamente circondato da un maestoso colonnato che custodiva
una serie di nicchie, posizionate nelle pareti est ed ovest. Al loro interno
erano preservate le statue, probabilmente degli dèi o dello stesso faraone,
autore del restauro. Al centro del cortile, con ogni probabilità sorgeva un
altare, oggi completamente distrutto.
Gli egittologi ritengono che il Tempio fosse destinato ad un culto solare,
molto probabilmente era adorato il dio Khepri - quale “sole nascente” – Ra
– quale “sole allo Zenit” e Atum – quale “sole al tramonto”. Gli studiosi
sono giunti a queste conclusioni associando l’allineamento del tempio ai
punti cardinali, lungo la direzione di orientamento da est a ovest.
Inoltre, la presenza di ventiquattro colonne al suo interno, lascia ipotizzare
che i costruttori abbiano voluto simbolicamente suddividere le ore del
giorno e della notte, intervallati da due santuari che rappresenterebbero le
due fasi giornaliere.
Siamo, naturalmente, nel campo delle ipotesi, non avendo elementi ulteriori
per poter determinare, con certezza, ruolo e funzioni del tempio, poiché non
è stata rinvenuta alcuna iscrizione che potesse sostenere una plausibile
ricostruzione storica dell’edificio.
Infine, l’ultimo tempio, quello meno conosciuto.
Il Tempio di Amenhotep II è, apparentemente, una struttura priva di
sostanziale interesse, ai fini della determinazione del Progetto Unitario di
Giza.
Costruito durante il Nuovo Regno, è disposto su una piccola altura a nord-
est della Sfinge, sfiorato da una delle arterie principali che, dalle alture ad
ovest delle piramidi, portano giù fino ai templi della Sfinge. Allo stato è
quasi completamento crollato; resistono ancora alcuni elementi
dell’ingresso al tempio e qualche colonna. Anche in questo caso ci troviamo
in presenza di alcune anomalie strutturali che fanno ipotizzare la presenza
di una struttura originaria sulla quale Amenhotep fece costruire il proprio
tempio. Il pavimento, infatti, per quanto semidistrutto, fa trasparire una
struttura molto più antica sulla quale è stato rimodellato.
Il lavoro di indagine e di raccolta dati è stato particolarmente intenso e mi
ha impegnato per circa due mesi. Così, dopo tanta attività sul campo, ho
deciso di dedicare la mia attenzione ad una semplice osservazione dell’area.
Ho trascorso un molto tempo seduto sul terrazzamento del Tempio della
Valle - raggiungibile attraverso un irto passaggio coperto che ha origine
all’interno dello stesso tempio, molto spesso stracolmo di visitatori –
ammirando la Sfinge da sud-est e contemplando la maestosità degli edifici
che avevo appena terminato di analizzare.
Per quanto il sole picchiasse molto forte, non avevo intenzione di
distogliere i miei pensieri dalle peculiarità dei templi.
Pur essendo edifici concettualmente diversi dalle piramidi, presentavano
alcune similitudini di assoluto rilievo che, con sempre maggiore certezza,
mi spingevano a ritenerli parte integrante del Progetto Unitario.
Ho valutato, innanzitutto, la complessità dei blocchi di pietra usati per la
loro costruzione. Siamo in presenza di megaliti, lavorati perfettamente,
aventi oltre il doppio del peso dei blocchi di granito che formano la
cosiddetta Camera del Re, all’interno della Grande Piramide. Per quanto la
pietra calcarea sia facilmente lavorabile, risulta davvero complicato
ipotizzare l’estrazione, il trasporto e la lavorazione, oltre che la messa in
opera, di monoliti di quelle dimensioni. Soprattutto se ci si riferisce alla IV
Dinastia.
Altrettanto rilevante, è la totale assenza di geroglifici sulle mura e sulle
colonne dei templi. Come per le Piramidi maggiori di Giza, anche i templi a
valle della Sfinge sono totalmente privi di qualsiasi tipo di iscrizione; si
tratta di un dato estremamente importante, poiché inusuale per il periodo
dinastico, a cui sarebbero ascritti dalle teorie ufficiali.
Infine, un elemento ridondante è la maniacale attenzione dei costruttori
all’allineamento dei monumenti ai punti cardinali. Anche nel caso dei
Templi, si rinnova la costante che caratterizza gli edifici maggiori di Giza.

Fig. 40. I resti del misterioso tempio di Amenhotep II

Cheope, così come Chefren, con ogni probabilità, hanno veramente trovato
le costruzioni sulla Piana di Giza e non hanno fatto altro che ristrutturarle.
La prova è lampante, sotto gli occhi degli egittologi da generazioni. I templi
della Sfinge, infatti, presentano chiare manomissioni che evidenziano una
prima fase di costruzione con blocchi di pietra calcarea – assolutamente
remota – ed una seconda mano di ristrutturazione con blocchi di granito di
più recente fattura. E’ molto probabile che la ristrutturazione si riferisce
proprio al racconto della Stele dell’Inventario.
A questo punto, non resta altro che scoprire quale è la funzione dei templi e
le connessioni astronomiche a cui sono stati destinati al momento della
progettazione.
La relazione tra Templi e i Pianeti

La correlazione astronomica tra monumenti e astri al 36.400 a.C., mi aveva


permesso di individuare la perfetta e simmetrica correlazione tra le Piramidi
Maggiori e la Cintura di Orione, tra la Sfinge e la Costellazione del Leone, tra
la tomba di Khentkhaus e la Stella Sirio, quest’ultimo come elemento
innovativo rispetto alla teoria della Correlazione di Robert Bauval. E’ stata una
meravigliosa avventura che mi ha condotto oltre le teorie del famoso
ricercatore alessandrino - esattamente un ciclo precessionale prima del 10.500
a.C. – centrando l’obbiettivo di correlare i testi ermetici egizi con la mitologia,
con i monumenti e con il periodo in cui lo Zep Tepi ha storicamente avuto
luogo.
Nel 2015, dopo aver trascorso una ventina di giorni ai piedi della Sfinge, mi
sono trovato al cospetto di un ulteriore mistero: verificare l’ipotesi della
contemporaneità dei templi a valle con gli altri edifici formanti il Progetto
Unitario.
In realtà, la mappa astronomica che fissa l’orologio al 36.400 a.C., mi aveva
già dato delle indicazioni ben precise. La mia Teoria, infatti, oltre a restituire le
correlazioni tra i monumenti maggiori e le stelle, aveva aperto uno spiraglio
sulla plausibilità che il Progetto Unitario coinvolgesse altri monumenti e, tra
questi, anche i templi che avevano catturato la mia attenzione, già da molto
tempo. L’obbiettivo, sul quale ho lavorato alacremente, si riferisce agli
elementi di comparazione che avrebbero giustificato la connessione tra i
templi e gli astri di riferimento.
Non rimane, quindi, che osservare le mappe astronomiche e analizzare i dati
secondo un procedimento organico all’intero Progetto.
Il mio rientro a Napoli, dopo un periodo speso a Il Cairo, è stato molto
tranquillo, forse perché tra le due metropoli ci sono poche – seppur sostanziali
– differenze. In ogni caso, sono entrambe ricche di colori e di calore,
profondamente coinvolgenti e ricche di storia. In poche parole, assolutamente
mediterranee.
Dopo qualche giorno di relax, mi sono rituffato tra le mie scartoffie, per
rimettere in ordine i dati e lavorare sul dubbio che alimentava i miei pensieri:
dimostrare che anche i templi erano parte integrande del Progetto originario.
Sono ripartito dalla mappa astronomica al 36.400 a.C., ormai fondamentale,
dalla quale ho potuto rilevare la presenza di elementi assolutamente innovativi
e ricchi di simbologie ermetiche, oltre che scientifiche.
Fig. 41. La configurazione astronomica al 36.400 a.C. Particolare della
relazione tra Giove e Mercurio con la Costellazione del Leone.

Guardando la mappa astronomica, la prima cosa che salta all’occhio


dell’osservatore attento, è la presenza di due astri nei pressi della Costellazione
del Leone. Si tratta dei pianeti Giove e Mercurio che sono in congiunzione
astronomica con la stella Regolo. Un meraviglioso indizio che mi ha spinto ad
approfondire l’argomento con rinnovato entusiasmo ed un pizzico di curiosità.
Per la prima volta mi dovevo confrontare con edifici che non hanno una forma
piramidale. Due templi e due pianeti, un nugolo di dati raccolti a Giza e la
necessità di raccogliere altri dati astronomici, per valutare la possibilità di una
correlazione che avrebbe avuto del sensazionale. Cosciente delle difficoltà che
avrei incontrato sul mio cammino, ho voluto - anche questa volta - fare
riferimento ai modelli di analisi utilizzati da altri ricercatori; una scelta
procedurale, ampiamente accolta dalla comunità internazionale indipendente,
sulla quale si fonda la correttezza delle affinità tra astri e monumenti.
Fig. 42. I templi perfettamente allineati ai piedi del Leone di Giza

L’importanza di utilizzare dei modelli di analisi, ormai consolidati, mi ha


imposto ulteriori limiti procedurali, riducendo notevolmente eventuali
sconfinamenti che avrebbero potuto inficiare il lavoro di elaborazione dei dati.
A questo proposito, ho dovuto attenermi ad una scelta condizionata dei
parametri da confrontare, sia per quanto riguarda i templi sia per gli astri, con
l’impegno di utilizzare gli stessi per qualsiasi monumento analizzato, così da
rendere i risultati i più credibili possibile.
Pertanto, per quanto riguarda i templi, ho scelto di analizzare le seguenti unità
di misura: l’area, il volume, la diagonale e la circonferenza, secondo il
principio del poligono inscritto nella cerchio; mentre, per i pianeti, ho
analizzato i dati di primaria importanza: la superfice, il volume, il diametro
equatoriale e la circonferenza. La comparazione dei dati ha restituito risultati
molto interessanti, introducendo una possibile soluzione al mistero dei templi
a valle della Sfinge.
Nella tabella che segue, sono riportate schematicamente le misure del Tempio
della Sfinge; è stato necessario procedere ad una semplice equivalenza per
trasformare le misure espresse in metri, in cubito reale egizio.
Tempio della Sfinge Valori in CRE
Area Colonnato 1.754,84
Volume del colonnato 16.030,48
Diagonale Colonnato 68,57
Circonferenza 215,31

Così, la tabella si compone di due colonne, nella prima sono riportati i dati
fisici esaminati (area, volume ecc.); nella seconda, le misure rilevate, espresse
in cubiti reali egizi, così ottenuti dall’equivalenza con i valori espressi in metri.
Le voci relative al volume, alla diagonale e all’area del colonnato – così
sintetizzate per una mera questione di spazi - si riferiscono al cortile interno
del tempio, nelle quali sono alloggiare le nicchie sia sul versante ovest che su
quello est, le quali simbolicamente si riferiscono alle dinamiche del Tempo.
Pertanto, oltre ai valori perimetrali dell’edificio, ho voluto ipotizzare un
raffronto anche con alcuni valori riferiti agli spazi interni, così come per i
pianeti di cui si calcolano la massa ed il volume.
Nella tabella che segue, sono riportati i dati fisici del pianeta Giove, espressi in
cubiti reali. L’equivalenza si è resa possibile poiché tutti i valori considerati
sono espressi in unità di misura lineari.
Paramenti Giove Cubiti Reali
Superficie 47,67x1029
Volume 54,36x1028
Diametro equatoriale 273.391,97
Circonferenza 839.466,70

La tabella, in questo caso, è suddivisa in due colonne: nella prima sono


indicate le voci riferite alle caratteristiche fisiche del Pianeta; nella seconda,
sono espressi i valori interi riferiti alle dimensioni del pianeta, così ottenuti a
seguito di equivalenza tra le misure in chilometri e/o metri, riportati in cubiti
reali. Ad esempio, la superficie di Giove è pari a 6,2x1016 km2.
Questo valore, naturalmente, è considerato nella sua interezza, calcolando il
numero di base per il proprio moltiplicatore esponenziale, utile ad ottimizzare
gli elementi di comparazione con le misure del tempio.
Una volta schematizzati i parametri da confrontare, è stato necessario
verificare le eventuali relazioni che intercorrono tra i dati, così da verificare se
essi si sviluppano secondo alcune costante matematiche come nel caso della
Casa di Iside.
E’ stato un lavoro molto complesso, nonostante i risultati siano stati generati
direttamente dal database; il problema principale è stato impostare il modello
scientifico di analisi, per l’implementazione dei dati necessari alla loro
elaborazione.
Nella tabella successiva, è possibile osservare i seguenti risultati:
Tempio della Sfinge
Tempio C.R.E Giove C.R. Rapporto Cost
Area 1.754,84 Superf. 29 23 ε
47,67x10 r (10)
Volume 16030,47 Volume 28 21 φ
54,36x10 ½ r (10)
Diag. 68,57 Diam. 273391,9694 [√r (10)-2]-10 π
Circonf. 215,31 Circonf 839466,692160 [√r (1.000)-1]-2 π

Esaminando i valori restituiti dalla relazione tra i dati fisici del tempio della
Sfinge e le costanti matematiche π, ε e φ, è possibile rilevare i seguenti
rapporti proporzionali:

1. L’Area del Tempio è in relazione con la superficie secondo la


costante ε;
2. Il Volume del Tempio è in relazione con il volume secondo la
costante φ;
3. La Diagonale del Tempio è in relazione con il diametro
equatoriale secondo la costante π;
4. La Circonferenza del Tempio è in relazione con la circonferenza
secondo la costante π;

I risultati così ottenuti, confermano il sospetto che i progettisti hanno


determinato le proporzioni del Tempio della Sfinge, riferendosi ad
un’elaborazione sistematica delle principali caratteristiche fisiche del pianeta
Giove, proporzionandole in base alle costanti matematiche ☐ , ☐, e ☐ .
Per il Tempio della Valle ho adottato la medesima procedura.
Anche in questo caso, le misure rilevate sono state dimensionate in Cubiti
Reali, come riportato nella tabella che segue:
Parametri Tempio Valori in Cubiti Reali
Area 3.837,553
Volume 636922,3512
Diagonale 121,681
Circonferenza 382,07834

Nella tabella successiva, invece, sono riportati i dati relativi al Pianeta


Mercurio, il secondo pianeta visibile nella mappa astronomica in congiunzione
con Regolo, nella costellazione del Leone. Anche in questo caso, i dati raccolti
sono stati elaborati in cubiti Reali così da rendere la comparazione tra valori,
assolutamente omogenea. Infine, anche per il pianeta Mercurio ho considerato
gli stessi parametri fisici utilizzati per il pianeta Giove così da ottenere una
sequenza di valori confrontabili e scientificamente credibili.
Paramenti Mercurio Valori in Cubiti Reali
Superficie 23,75x1025
Volume 79,11x1034
Diametro equatoriale 9329871,893
Circonferenza 29.294.460

La tabella successiva sintetizza le relazioni tra i dati considerati, proponendo


dei risultati straordinari:
Tempio della Valle
Tempio C.R.E. Mercurio C.R.E. Rapporto Cost
Area 3.837,55 Superficie 25 -25 π
23,75x10 r (10)
Volume 636922,35 Volume 79,11x1034 r (10)-32 ε
Diagonale 121,68 Diametro 268.766.917,3 -6 ε
r (10)
Circonf. 382,07 Circonf. 29.294.460 r (10)-9 ε

Analizziamo insieme i rapporti:

1. l’Area del Tempio della Valle è in relazione con la superficie del


pianeta secondo la costante π;
2. il Volume del Tempio è in relazione il volume del pianeta
secondo la costante ε;
3. la Diagonale del Tempio è in relazione con il diametro
equatoriale del pianeta secondo la costante ε;
4. la Circonferenza del Tempio è in relazione la Circonferenza del
pianeta secondo la costante ε.

La relazione tra edifici e pianeti, quindi, appare in tutta la sua evidenza e, al


tempo stesso, testimoniano la volontà dei costruttori di dimensionare gli edifici
utilizzando alcune costanti matematiche. Questo significa che per realizzare
un’opera del genere, era necessario possedere una perfetta conoscenza delle
caratteristiche fisiche di entrambi i pianeti, oltre alle abilità di sviluppare
complesse formule matematiche.
La configurazione astronomica evidenzia un’insospettabile correlazione tra i
pianeti Giove e Mercurio e la stella Regolo, con i templi e la Sfinge.
Tuttavia, il microcosmo ad est delle piramidi si completa di un altro
enigmatico edificio, il tempio di Amenhotep II – o quanto meno dell’edificio
che era originariamente posizionato in quel punto e sul quale il faraone ha
costruito il proprio santuario – la cui funzione potrebbe integrarsi nel Progetto
Unitario. Apparentemente, sembra avulso da ogni logica, soprattutto in
considerazione del fatto che oltre la costellazione del Leone, nella Cielo di
Giza al 36.400 a.C., non c’è alcunché.
A cosa serviva l’edificio originario posizionato a nord-est della Sfinge? Perché
è stato costruito proprio in quel punto e con una configurazione angolare
anomala rispetto alla congiunzione con i punti cardinali degli altri monumenti?
Capire la funzione del monumento sul quale sorgono i resti del Tempio di
Amenhotep II è stato davvero molto complicato. E’ stato un lavoro molto
lungo, condizionato da una pluralità di variabili, le quali hanno reso
particolarmente complessa la soluzione del problema. Ma, alla fine, sono
riuscito a trovare la chiave di lettura del microcosmo ad est di Giza.
Vediamo come…
Se tracciamo un cerchio che parte dall’angolo nord-est del tempio di
Amenhotep e, successivamente, ne tracciamo un altro ad intersecarsi col
primo, abbiamo ottenuto un’ellissi che attraversa le zampe della Sfinge,
esattamente come l’eclittica attraversa la “zampe” della costellazione del
Leone, rappresentate, nella fattispecie, dalla stella Regolo. Pertanto, la
posizione angolare del tempio esprimeva una funzione ben precisa, ovvero
quello di determinare il Piano dell’Eclittica nell’età dello Zep Tepi.
Fig. 43. La funzione del tempio di Amenhotep II. L’angolazione ai punti
cardinali non è casuale.

I dubbi che affollavano la mia mente, pian piano, lasciavano il campo alla
certezza di aver individuato un altro segmento del progetto voluto dalla
Perduta Civiltà delle Piramidi. Con lo sguardo rivolto alla Piana di Giza,
intravedevo nella mia mente le meraviglie di un tempo antico, ormai quasi
cancellate dal trascorrere dei millenni e dalla mano dell’uomo. In un’era della
nostra evoluzione, in questa regione del pianeta, una Civiltà senza nome,
compiva uno dei miracoli più alti della Scienza, le cui particolarità ancora
sfuggono alla nostra comprensione.
L’emozione di ricomporne il mosaico, tessera dopo tessera, non ha avuto
prezzo.
L’ultimo Segreto ad Ovest di Giza

La ricerca della seconda Sfinge sulla Piana di Giza ha severamente


impegnato numerosi egittologi e ricercatori indipendenti. Sono state
approntate periodiche campagne di scavo e di rilevamento nell’intento di
svelare l’arcano, eppure, della controparte del monumentale corpo leonino
con volto umano, non c’è neppure l’ombra. Ma da cosa è stata alimentata la
spasmodica ricerca di una minima traccia che potesse dimostrare l’esistenza
di un’altra Sfinge, a guardia del complesso piramidale di Giza? Ebbene, la
risposta è scritta nella cosiddetta Quinta Divisione della Duat.
Gli egizi associavano la Duat all’oltretomba, sulla quale dominava Osiride
ed era identificata con una porzione di cielo racchiusa tra la Costellazione
di Orione e la stella Sirio nel Cane Maggiore, anche se, sull’argomento, ci
sono altre ipotesi che tendono ad associare la Regione della Duat alle stelle
circumpolari, quali Orsa Maggiore e Drago.

Fig. 44. Immagine tratta dal Libro dei Morti Egizio, dalla quale si evince
l’immagine della doppia Sfinge.

Nell’immagine, tratta dal Libro dei Morti Egizio - che narra del viaggio
notturno del dio Sole e delle innumerevoli insidie, dovute alla presenza
delle forze del male - sono rappresentate, esattamente nei pressi della
Grande Piramide, le due Sfingi. La prima, orientata verso Est e l’altra ad
Ovest. Questa raffigurazione ha incuriosito gli studiosi, i quali si sono
cimentati in un’impresa davvero suggestiva: quella di riportare alla luce
“l’ultimo tassello” monumentale della grandiosa opera di Giza. Tuttavia, i
risultati ottenuti sono stati, semplicemente, deludenti. Ad Ovest delle
piramidi, non è stato trovato nessun reperto che potesse giustificare
l’esistenza del secondo Leone.
Quindi? E’ possibile che gli Egizi si siano sbagliati?
In realtà, non sarebbe la prima volta che ci si trova in presenza di
“indicazioni”, di epoca Dinastica, che non sono precisamente in linea con la
realtà dei fatti, vedi ad esempio le disquisizioni relative al Canone Reale o
Papiro di Torino. Sappiamo che il Libro dei Morti è stato scritto su papiro
durante la XVIII Dinastia, ovvero, circa 1.000 anni dopo il periodo
convenzionalmente associato alla realizzazione dei monumenti di Giza.
Potrebbe essere plausibile l’ipotesi che esso presenti qualche lacuna
interpretativa. Peraltro, se consideriamo che il complesso monumentale è
stato costruito in epoche remote, non è fuori luogo ritenere che gli Egizi
dinastici abbiano potuto riproporre una raffigurazione della Piana, con
manifesti errori interpretativi.
Il dubbio su un ipotetico “disguido” è giustificato dal fatto che, nonostante
gli sforzi profusi, l’Ovest non si è dimostrato terreno fertile per gli
speranzosi archeologi. Così, in virtù di quanto narrato finora e nella
necessità di avere una mappa completa ed attendibile dell’intero sito
archeologico, mi sono dedicato alla ricerca di qualche elemento che potesse
ricomporre il mosaico di Giza, nella maniera più corretta. Anche in questo
caso, ho chiesto ausilio alla scienza e, in particolare all’astronomia.

Fig. 45.

Questa immagine riproduce la porzione di cielo a Sud-Est di Giza,


esattamente nel 36.400 a.C., allorquando le costellazioni del Leone, di
Orione e la stella Sirio erano in precisissima correlazione con i monumenti.
Il limite delle teorie sugli allineamenti astronomici, proposti fino ad oggi,
ha evidenziato un elemento comune: quello di aver osservato solo una
porzione di cielo in una determinata epoca. Quindi, se la Perduta Civiltà
delle Piramidi ha realizzato il progetto sforzandosi - fino agli estremi della
ragionevolezza - nel mantenere precise le correlazioni tra monumenti e
stelle, è possibile che abbia disegnato, in Terra, l’intera volta celeste? Si può
azzardare che i monumenti interessati all’allineamento astronomico, oltre
quelli noti, contemplino anche un edificio ad ovest? Esistono altre
costruzioni, sulla Piana, che possano essere parte integrante dell’intero
progetto Giza, quale riproduzione dell’Est e Ovest celesti?
Il ragionevole dubbio si era focalizzato sulla possibilità che il Progetto
Originario fosse “globale”, nel senso che, sulla Piana di Giza, fosse
riprodotta tutta la Volta Celeste visibile in quel punto geografico, da Est a
Ovest; inoltre, i monumenti realizzati per giustificarla, comprendevano i più
famosi e quelli ancora da individuare e correlare. Da ciò, si può dedurre che
la rappresentazione della Quinta Divisione della Duat, con ogni probabilità,
contiene un errore di memoria.

Fig. 46. La Costellazione dell’Acquario, nella mappa astronomica del


36.420 a.C., è situata esattamente all’opposto dell’Equinozio di Primavera e
si trova appena sotto l’Orizzonte Celeste, invisibile all’occhio umano, così
come la Tomba degli Uccelli e invisibile dal punto di osservazione sulla
Piana d Giza

Ad Ovest delle Piramidi, sospettavo la presenza di qualcosa e - quel


qualcosa - non era un Leone.
Ritorniamo quindi all’astronomia ed esaminiamo la configurazione
astronomica del cielo nel 36.400 a.C.
Nella pagina precedente, abbiamo osservato la configurazione astronomica
nel quadrante di Sud-Est, rilevando la perfetta congiunzione con i
monumenti della Piana di Giza. Ora, vi invito a spostare l’attenzione alla
sezione Ovest della mappa.
Partiamo dalla posizione della Costellazione di Orione che prendiamo come
punto di riferimento, ed osserviamo il percorso dell’eclittica concludersi,
nel punto equinoziale di autunno, nella porzione Ovest del Cielo.
Esattamente in congiunzione con l’Ovest, leggermente sotto l’orizzonte
Celeste, si trova la Costellazione dell’Acquario.
La costellazione è perfettamente in opposizione a quella del Leone, ed
occupa la porzione di cielo occidentale della Piana. Ciò significa che, se la
Civiltà Perduta di Giza ha realizzato il Progetto, riproducendo
sistematicamente la Volta Celeste sulla Terra, è chiaro che, in opposizione
della Sfinge, doveva esserci un Acquario.
E la sua posizione, al di sotto dell’Orizzonte Celeste, giustifica due aspetti
fondamentali: il primo è che il monumento non poteva essere “visibile” dal
luogo delle Piramidi e della Sfinge; secondo, da un punto di vista
“esoterico”, la configurazione cosmologica proposta, indicava il punto
esatto convenzionalmente associato al “luogo della morte”, ovvero, al
momento della trasformazione, quindi, all’ultimo stadio della Sapienza,
prima di entrare nella nuova dimensione.
Acquario e Sapienza.
Acqua e Sale.
E’ possibile?
All’inizio dello scorso secolo, precisamente nel dicembre del 1929,
l’Università di Chicago pubblicò un lavoro di ricerca, effettuato nella
regione del Fayyum e nel delta del Nilo[48], eseguito dai ricercatori Kenneth
Stuart Sandford e William Joscelyn Arkell, i quali evidenziarono l’esistenza
di un bacino fluviale che aveva interessato l’Egitto in epoche remote.
Infatti, durante la campagna di scavi nei pressi della sponda mediterranea
dell’Egitto e nella regione del Fayyum e nel delta del Nilo, sono stati
rinvenuti alcuni reperti e tracce del letto di un fiume che lasciavano
presupporre l’esistenza di antichi e sconosciuti corsi d’acqua. Essi si
addentravano all’interno del territorio egiziano, per diversi chilometri e
risalivano ad epoche non ben precisate. La scarsità di fondi ha fatto
desistere ogni ulteriore approfondimento sulla loro funzione.
Qualche anno prima, il paleontologo e scienziato tedesco Max Ludwig Paul
Blanckenhorn teorizzò l’esistenza di un fiume ad occidente del Nilo, dal
nome Ur Nil[49]. Il fiume – che scorreva nel deserto del Nilo circa 50.000
anni fa - aveva origini non proprio chiare, al punto che è stata proposta,
addirittura, un’ipotesi artificiale. L’argomento fu trattato anche dallo
studioso Michael A. Hoffman[50], il quale nel suo libro, dal titolo “Egypt
before the pharaohs: the prehistoric foundations of Egyptian civilization”,
sostenne la plausibilità delle teorie di Blanckenhorn, nonostante la difficoltà
di reperire gli elementi per una precisa datazione e disposizione geografica
del corso fluviale. “Der Libysche Ur-Nil in Oberägypten” di Richard
Uhden, pubblicato dalla Geologische Rundschau nel 1929, è la ciliegina
sulla torta. Su questo argomento, ha speso parte delle sue ricerche anche
Stephen Mehler, archeologo e studioso di civiltà antiche. Mehler, a
proposito dell’Ur Nil scrive: «L’Ur-Nil è una teoria proposta dallo
scienziato tedesco M.L.P. Blanckenhorn e descrive un’area, nota oggi come
deserto occidentale dell’Egitto che un tempo era sede di un enorme ed
antico fiume che era molto più largo e lungo dell’attuale Nilo. Oltre 50.000
anni fa, l’antico Ur-Nil era la fonte d’acqua e la base dell’antico Khemit
(...) Lo scopo originario di questi tunnel (sotto la piana di Giza, n.d.a.) era
di portare l’acqua dell’antico Ur-Nil dalla zona occidentale fino ai
monumenti di Giza. L’acqua veniva impiegata per diversi scopi: ad
esempio come carburante per produrre energia attraverso la Grande
Piramide».
Insomma, gli elementi ci sono, le tracce anche, manca solo che qualcuno si
decida a proseguire la strada della ricerca sul campo, per dare conferma alle
ipotesi proposte. Esistono degli elementi molto particolari che confermano
la teoria e cercherò di analizzare a breve, nei modi e nelle forme più
semplici possibili.
L’esistenza di questo imponente corso d’acqua, assume una funzione
straordinariamente importante, per l’allestimento di tutto il Progetto
Monumentale di Giza, poiché apre una porta verso la scoperta di una delle
funzioni a cui le piramidi erano state preposte. Inoltre, la conferma
dell’esistenza di un bacino fluviale artificiale che convogliava acqua verso
le Piramidi, dimostra che la mia ipotesi sul Progetto Globale della
correlazione astronomica, tra monumenti e costellazioni, lungo l’arco Est-
Ovest era assolutamente organica al principio: “Come sopra, sotto”.
Ma procediamo con ordine.
Ammesso che l’Ur-Nil fosse un corso d’acqua artificiale, per quale motivo,
gli Egizi dinastici, avrebbero dovuto cimentarsi nella costruzione di
condotti talmente imponenti per funzione e lunghezza? Tanto più che
avevano a disposizione il Nilo, ampiamente navigabile e funzionale a
qualsiasi attività commerciale. A cosa serviva un altro canale?
Certamente per i dinastici non avrebbe avuto alcun senso, soprattutto perché
non avevano le competenze tecniche per realizzarlo e, in ogni caso, non ne
avrebbero ricavato alcuna utilità pratica. Ma una civiltà prediluviana,
invece, avrebbe avuto tutti i motivi per cimentarsi in questa impresa,
soprattutto in ragione della funzione della Grande Piramide in relazione con
il numero della fisica 137[51]. Infatti, il condotto sarebbe servito per
convogliare all’interno dell’Egitto acqua salata.
Ma perché questo sforzo immane per condurre acqua salata sulla Piana di
Giza? A cosa serviva? Cosa c’era da riempire? E per quale scopo?
Nel corso degli anni, gli egittologi hanno trovato delle prove, in base alle
quali, si è potuto determinare che, in un dato momento storico, il mare è
fluito ai piedi delle Piramidi, lasciando nella sabbia alcuni fossili marini,
per lo più conchiglie.
Quindi, le ipotesi posso essere soltanto due:
- In epoche remotissime il mare occupava la Piana di Giza;
- Esisteva un condotto artificiale/naturale proveniente dal Mediterraneo o
dalla regione del Fayyum collegato al Mar Rosso, funzionale ai monumenti
costruiti in loco.
Accertata la plausibilità dell’ipotesi, era necessario individuare i riferimenti
monumentali in grado di confermare lo sforzo profuso per convogliare
acqua dal Mediterraneo o dal Fayyum, verso Giza.
E l’unica risposta era un bacino artificiale.
Come nel cielo di Giza, nel 36.400 a.C., la Costellazione del Leone è in
opposizione a quella dell’Acquario – rispettivamente posizionate, con
precisione assoluta, all’Est e all’Ovest della Volta Celeste - così la Sfinge
doveva essere in opposizione al Bacino artificiale, costruito per raccogliere
l’acqua del mare.
Utilizzando una proporzione matematica, possiamo affermare che: il Leone
sta alla Sfinge come l’Acquario sta al Bacino artificiale. Ecco dov’era
l’errore commesso, inconsapevolmente, dagli Egizi dinastici, un errore di
memoria, di cronache tramandate nel corso dei millenni e modificate nel
tempo. Non ci sono due Sfingi sulla Piana di Giza e non avrebbero mai
potuto esserci, poiché se i costruttori si sono ispirati alla Volta Celeste,
riproducendo fedelmente le costellazioni, non avrebbero potuto commettere
l’errore di posizionarvi due Leoni.
Ma dove trovare il bacino artificiale corrispondente alla costellazione
dell’acquario?
La Sfinge dista circa 663 metri dal vertice e, quindi dal centro, della
Seconda Piramide, con una direzione di circa 277,5° NW. Proseguendo
verso Ovest con pari angolazione e alla stessa distanza dal vertice della
Piramide, ci troviamo esattamente su un promontorio roccioso, in
prossimità della Tomba degli Uccelli.
La Tomba, nota anche con la sigla NC2, è stata oggetto di una controversia
dialettica tra Zahi Hawass e Andrew Collins poiché, mentre il primo ritiene
che i condotti e le camere all’interno siano di fattura naturale, il secondo,
viceversa, ritiene siano state scavate dall’uomo. L’archeologia ufficiale
destina questa enigmatica costruzione ad un luogo dove venivano seppellite
le mummie degli uccelli sacri agli Egizi, in epoca dinastica. Tuttavia, la
struttura esterna e i condotti che da essa derivano, mostrerebbero che questa
tomba, in realtà, sarebbe molto più antica di quanto si possa immaginare e
considerando i blocchi presenti all’ingresso, ci sembra quantomeno
inevitabile associarli ai megaliti formanti i templi a valle della Sfinge;
quindi, risalirebbero esattamente allo stesso periodo.
In quel punto esatto, i costruttori di Giza avevano compiuto la “Nona
Meraviglia” del complesso (dopo la Sfinge, le tre Piramidi, la parte
inferiore della Tomba di Khentkhaus e i tre Templi della valle), costruendo
la costellazione dell’Acquario, ovvero il bacino artificiale contente acqua
salata, disposto esattamente in un punto non visibile da Giza, e stabilendo il
suo centro ad Ovest, con ingresso esattamente a Nord.
All’interno della Tomba degli Uccelli, inoltre, sono stati notati una serie di
condotti, direzionati in vari punti della Piana, fino ai piedi delle Piramidi.
Essi non sono stati mai esplorati, poiché ancora in gran parte ostruiti e, in
alcuni punti, anche pericolanti. Tuttavia, Andrew Collins che ha dedicato
molto tempo allo studio della conformazione geologica del sito, ha notato
alcuni particolari davvero intriganti. In primis, le rocce all’interno della
Tomba presentano ampie tracce di erosione di acqua, la qualcosa
confermerebbe l’ipotesi che sia servita per contenere il prezioso liquido. Ma
c’è un elemento che ritengo assolutamente straordinario, ai fini della
trattazione. Ad un preciso quesito posto all’autorevole ricercatore britannico
- in occasione della Conferenza Internazionale di Pescara, nel 2011 –
ovvero, se all’interno della Tomba avesse rilevato tracce di calcio e di
sodio, Collins ha risposto con un deciso: “Yes”. Questo dato è fondamentale
e dimostra che la Tomba degli Uccelli ha ospitato acqua salata e non è altro
che l’Acquario, controparte del Leone.

Fig. 47. Sezione ovest della Piana di Giza, il “recinto” indica la posizione
dove è localizzata la Tomba degli Uccelli ed il suo probabile sviluppo sul
promontorio.

La Quinta Divisione della Duat, quindi, presenta un elemento in dissonanza,


rispetto a quanto in realtà è stato progettato nell’Epoca d’Oro degli Dèi che
gli specialisti hanno interpretato, successivamente, come espressione di
“dualità”. Hawass sostiene che sono stati effettuati degli scavi, nella parte
occidentale del complesso monumentale, con esiti sostanzialmente negativi
ed ha escluso – con assoluta certezza – che ad ovest ci sia una seconda
Sfinge. L’inghippo, tuttavia, è determinato proprio dal fatto che gli sforzi
sono stati diretti a rilevare l’esistenza di un corpo leonino e non di un
recinto e soprattutto, non hanno scavato lì, dove avrebbero dovuto.
L’elaborazione grafica è una stupefacente ricostruzione della configurazione
astronomica verificatasi nel 36.400 a.C. che ha ispirato il progetto realizzato
sulla Piana di Giza, ad imperitura memoria di un evento storico che ha visto
come protagonista, o tra i protagonisti, il sovrano Osiride.
Fig. 48. Ricostruzione del Progetto Unitario di Giza. Elaborazione a cura di
Armando Mei. Tutti i diritti sono riservati all’autore

Visionando la riproduzione della mappa astronomica e la connessione con i


monumenti, appare interessante rilevare un dato molto particolare.
Quando i progettisti hanno disegnato i monumenti in terra - rispetto alla
Volta Celeste – è come se l’avessero fatto in tre momenti diversi o, ancora,
come se volessero ricostruire i vari pezzi di Giza, leggendo la mappa
astronomica da tre angolazioni diverse.
La prima è rappresentata dal complesso della Sfinge, con i suoi Templi,
posizionati in perfetta congiunzione con il quadrante est del Cielo.
La seconda angolazione si riferisce alla connessione tra le piramidi e la
tomba di Khenthaus (il tempio di Iside) con i corrispondenti astronomici
della Cintura di Orione e la Stella Sirio.
La terza angolazione, infine, si riferisce alla connessione tra la tomba degli
uccelli e la costellazione dell’Acquario.
E’ come se Giza fosse stata spezzettata in tre parti rispetto alla Volta
Celeste.
La scelta dei progettisti potrebbe essere giustificata dal fatto che i
monumenti dovevano essere disposti nella posizione che osserviamo oggi,
per assecondare una loro specifica funzionalità. Così, mentre i quadranti
laterali della Volta Celeste – ovvero l’est e l’ovest – sono riprodotti così
come apparivano nel cielo, l’area sud-est – che comprende Orione e Sirio -
è disegnata a specchio. Un mistero davvero intrigante sul quale, al
momento, è impossibile trovare una risposta, almeno fin quando non sarà
possibile ritornare sulla Piana di Giza, con le opportune autorizzazioni, per
rivelare al mondo gli ultimi segreti che ancora custodisce.
Conclusioni
Questi lunghi anni trascorsi tra i misteri di Giza, mi hanno convinto
dell’esistenza di un grosso equivoco che condiziona fortemente il
progressivo studio sull’evoluzione della civiltà egizia. E’ noto, infatti, che
tutto l’impianto teorico, sviluppatosi in questi due secoli, si basa sulla
determinazione che i monumenti costruiti a Giza, siano opera degli
architetti vissuti durante i regni di Cheope, Chefren e Micerino.
Non essendo convinto di questo assioma - nel corso di questo libro - ho
sintetizzato la nascita ed il consolidamento delle teorie ufficiali, rilevando
un perverso e scellerato comportamento che sta danneggiando il cammino
verso la Verità Storica a cui, presumo, ciascuno ambisce: esse fondano i
loro orientamenti su perniciose dialettiche, prive di ogni fondamento
scientifico.
La Grande Piramide, ad esempio, è attribuita al Faraone Cheope per una
sola ragione: per i cartigli dipinti all’interno delle camere di scarico, o
stanze dello Zed. Non c’è nessun altro reperto, finora emerso dalle sabbie
del deserto che dimostri una correlazione tra Cheope e la Grande Piramide.
Come abbiamo visto, i cartigli rinvenuti negli anfratti più sperduti
dell’edificio, sono stati dichiarati, assolutamente inattendibili. Si ritiene che,
non solo Vyse sia l’autore di questo vergognoso oltraggio alla storia
dell’umanità, ma che lo staff di Hawass abbia fatto il resto, manomettendo
il cartiglio contenente il nome del faraone, così da allinearlo alle bizzarre
ipotesi ufficiali.
Per contro, ci sono una discreta quantità di elementi che tendono a
dissociare le Piramidi dal periodo dinastico, come ad esempio:
- la tipologia e la complessità ingegneristica dell’opera, la rende
avulsa dal periodo dinastico a cui è attribuita;
- l’impossibilità materiale di realizzare un pozzo di 40 metri,
scavato nella roccia viva, nelle profondità di Giza;
- l’impossibilità di realizzare il Condotto Discendente, le cui
caratteristiche tecniche sarebbero molto difficili da rispettare
anche ai giorni nostri;
- la costruzione della Grande Galleria è un’opera ingegneristica
eccezionale, per qualità tecniche e dimensioni, ed è impossibile
che possa essere stata realizzata sulla base delle conoscenze
tecniche del tempo;
- l’estrazione, il trasporto e la messa in opera di blocchi di granito
del peso di 80 tonnellate, di media, è un’opera inverosimile per
quei tempi;
- le coperture in pietra calcarea, per ciascuna piramide, avrebbe
comportato uno sforzo improponibile;
- la totale mancanza di geroglifici, all’interno degli edifici, è
un’anomalia inspiegabile ed inconcepibile, se consideriamo
l’unicità delle costruzioni nell’Antico Regno.
- la totale assenza di materiale organico che giustificherebbe la
possibilità di sepolture nonché la grande eresia che avrebbe
compiuto Cheope, facendosi costruire la camera sepolcrale al di
sopra del livello della terra, contravvenendo a tutti i principi
fondamentali della teologia del tempo.
Su questi ultimi argomenti, negli ambienti ufficiali, domina il silenzio
totale. Un silenzio che vale più di qualsiasi altra risposta.
L’equivoco, quindi, si manifesta chiaramente allorquando si vuole attribuire
gli edifici di Giza ad un periodo storico che non avrebbe potuto concepirli.
Il problema è che la Piana di Giza si trova in Egitto, una terra disseminata
di monumenti, resti di città, opere e reperti appartenuti ad una civiltà che si
è sviluppata nell’arco di tempo compreso tra il 3.180 ed il 343 a.C.,
lasciando traccia delle proprie espressioni artistiche e teologiche nelle
popolazioni del Mediterraneo.
Quindi, poiché le piramidi sono lì, gli egittologi le hanno comprese tra le
vestigia della civiltà del Nilo, commettendo uno degli errori più clamorosi
di tutti i tempi, peggiorato dall’insana arroganza di voler giustificare questa
sciocchezza con teorie da circo equestre.
La Piana di Giza appartiene ad un altro tempo… appartiene allo Zep Tepi…
ad un’Era che non può essere relegata al Mito, poiché trasuda storia, la
Storia che ha segnato – nel bene e nel male - l’evoluzione di questa
umanità, così come la conosciamo oggi.
Nel corso di questo libro, nella prima sezione, ho richiamato alcuni testi
antichi, volendo sottolineare la forte connotazione storica di eventi
straordinari che si sono verificati nel corso dello Zep Tepi, l’Epoca di
Osiride. L’attenzione e l’approfondimento dei reperti, mi ha permesso di
concentrare le forze sulla correlazione tra un Tempo dimenticato e le
costruzioni di Giza, rinvenendo quegli elementi giustificativi di un processo
storico che sancisce non solo gli accadimenti, ma anche l’Era durante la
quale essi si sono svolti.
Pertanto, dalle ipotesi di Bauval, mi sono immerso in una totale revisione
della sua Teoria, al fine di integrarla e renderla compatibile con la
complessità delle opere monumentali e dell’eredità filosofica tramandataci.
A questo proposito, voglio proporre una precisazione, poiché sento
profondamente la necessità di doverla fare. Ho conosciuto personalmente
Robert Bauval, nel corso della nostra comune esperienza, all’International
Conference on Ancient Studies che si è tenuta a Dubai nel 2010, presso la
Zayed University. In quell’occasione, sia lui che suo fratello Jean Paul,
hanno aperto il loro cuore, dimostrando di essere innanzitutto degli uomini
veri e poi ricercatori. Da allora, posso dire che siamo uniti da un profondo
sentimento di stima, amicizia e rispetto.
Personalmente, ritengo Robert Bauval un mio Maestro, poiché se non fosse
stato per i suoi studi, non sarei qui a scrivere queste mie riflessioni. Egli ha
avuto il grande merito di aprire una nuova strada nel difficile percorso verso
la Verità Storica e, a lui, va tributato un grande encomio. Ma come per ogni
cosa che rientra nella sfera della ricerca scientifica, ci sono le fasi di
aggiornamento ed integrazione e, la mia Teoria dello Zep Tepi e del
Progetto Unitario di Giza assume proprio questa funzione. Nel 2011,
durante una conferenza a Pescara, dove eravamo entrambi relatori - insieme
a Jean Paul Bauval e Andrew Collins - mi ha scritto: «You are, among the
few who will make a difference»[52]. Aver ricevuto dal mio Maestro questo
simbolico testimone, è stato per me un motivo di grande orgoglio, oltre che
una responsabilità davvero onerosa.
Ma, al tempo stesso, è stato un grandissimo incoraggiamento che mi ha
portato, nel giro di quattro anni, dal 2011 al 2015, alla chiusura di un ciclo
di studi, i cui risultati si sostanziano nella riscoperta del “Progetto Unitario”
di Giza e nell’individuazione del Tempo in cui si sono svolti i fatti celebrati
con l’edificazione dei monumenti.
A questo punto del mio percorso, posso dire di avere raggiunto una
chiarezza sugli eventi passati davvero ragguardevole. Sono certo che la mia
Teoria aprirà un nuovo ed estenuante dibattito sulla sua reale consistenza.
E’ un esercizio che lascio ai tanti, poiché non ho intenzione di perdermi tra i
rivoli della polemica. E’ quanto di più deleterio possa esistere.
Non mi interessa sapere se si è o meno d’accordo, bensì auspico un
confronto con chi, proponendo un proprio studio di ricerca, dimostri che gli
allineamenti al 36.400 a.C. sono errati, oppure che le costruzioni potevano
essere realizzate in base ad un principio che ad oggi non è ancora noto. Il
confronto tra Teorie si basa sul dibattito scientifico e non sulla misera
opinione. E’ una precisazione che tengo a fare, proprio in virtù delle
considerazioni che vengono proposte e che alimentano il dibattito sulle
teorie, cosiddette, di frontiera.
L’arroganza degli accademici ha stufato. A volte si ha la sensazione che
trascorrono l’esistenza protetti da una campana di vetro, isolati dal mondo.
Dotati di potentissimi paraocchi, gestiscono l’Egittologia come se fosse una
proprietà alla quale non è possibile accedere se non si è parte della casta.
Essi, alla fin fine, rappresentano un limite notevole allo studio del nostro
passato remoto e, come per tutto ciò che rappresenta un limite, non sarebbe
male pensare ad un loro radicale azzeramento, riformulando i parametri per
la scelta dei percorsi didattici da donare alle future generazioni di
archeologi.
C’è una nuova Storia da riscrivere, la vera storia delle origini delle moderne
società. Le nuove leve attendono un atto di coraggio che annienti, per
sempre, l’oppressione culturale che penalizza la Conoscenza ed il Sapere.
Emmanuel Kant, uno dei padri dell’Illuminismo, invitava ad esprimere
giudizi, pareri ed opinioni, con Coscienza e Consapevolezza. E’ una
formula che si è persa nel tempo, lasciando il campo all’ipocrisia e alla
supina acquiescenza in ragione di un proprio tornaconto. E’ giunto il
momento di risvegliare le nostre coscienze e di riappropriarci della nostra
Storia… tutto ciò è possibile solo conoscendo.
«Sapere aude».
Bibliografia
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Indice
Introduzione 7
Parte I – I Misteri della Piana di Giza e la storicizzazione dello Zep Tepi

1. Lo Zep Tepi
La Piana di Giza 17
Lo Zep Tepi ed il Canone Reale 25
Il Mistero delle successioni Predinastiche 35
2. L’Egittologia e L’Antico Regno
Il cartiglio della discordia 39
Le Piramidi tra religione e architettura 47
Sperimentazione scientifica o empirismo? 53
Tracce di tecnologie perdute 61
Piramidi: nient’altro che teorie! 69
3. Archeoastronomia e Misteri
Dalle stalle… alle stelle! 79
La Teoria della Correlazione 87
La Sfinge e le vie del compromesso 97
L’eredità dei sacerdoti egizi 103
La Scienza della Piramide 107
Le piramidi satellite: ratio e geometria 117

Parte II – Il Progetto Unitario ed il Tempio della Grande Madre


6. Giza e il 36.400 a.C.
La Natura della Ragione 139
Lo Specchio del Cielo 157
La funzione dei pianeti 173
7. Il Trono di Iside
Osiride, Iside e il Simbolismo astronomico 185
Sulle tracce della dimora di Iside 193
La Tomba della Regina Khentkhaus 203
Il monumento di Iside-Sirio 209
La conferma astronomica 223
8. Ad Ovest delle Piramidi
Le verità nascoste 229
I Templi del Mistero 235
La relazione tra Templi e i Pianeti 245
L’ultimo Segreto ad Ovest di Giza 255

Conclusioni 269

Bibliografia 277
Indice 283
[1]
Jean Jacques Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli
uomini, Editori Riuniti 2006 Roma
[2]
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[3]
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[4]
Ernest Alfred Wallis Budge, Il Libro dei Morti Egizio, 1895 Londra, Capitolo XVIII
[5]
Tratta da una corrispondenza privata con l’Autore
[6]
Graham Hancock, Fingerprints of the Gods, Three River Press, 1995 New York, p. 369
[7]
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[8]
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[9]
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[11]
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[16]
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[17]
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York
[19]
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Giza, BBC Worldwide Ltd, 2002
[20]
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43
[21]
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[22]
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[23]
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[24]
Esperimento per il sollevamento dei pesi nell’Antico Egitto, idea e progetto di Osvaldo
Falesiedi, G.A.T. Gruppo Archeologico Torinese, 22 maggio 1999 Torino
[25]
Martin Isler, Sticks, Stones, & Shadows: Building the Egyptian Pyramids, Amazon
2001
[26]
Jane Sellers, The Death of Gods in Ancient Egypt, Amazon 2007
[27]
Selim Hassan, Remains of religious customs of ancient Egypt in modern Egypt, Actes
of the 5th International Congress for the history of religions, 1929 Lund, Sweden, p. 162-
166
[28]
Robert Bauval Graham Hancock, Custode della genesi, CDE Editore, 1997
[29]
Robert Bauval e Adrian Gilbert, Il Mistero di Orione, Corbaccio, 1998 Milano
[30]
Robert Bauval Graham Hancock, Custode della genesi, CDE Editore, 1997
[31]
Robert Bauval Graham Hancock, Custode della genesi, CDE Editore, 1997
[32]
John Taylor è un poeta e saggista inglese con la passione per la matematica e
l’astronomia. A lui sono attribuite alcune scoperte matematiche che riguardano la Grande
Piramide.
[33]
Charles Piazzi Smith è un astronomo britannico che ha dedicato parte dei suoi studi ai
misteri della Grande Piramide di Giza, scoprendo una quantità di relazioni tra i monumenti
e il pianeta Terra.
[34]
Urbain Jean Joseph Le Verrier è stato un astronomo francese, vissuto nel corso
dell’800. È noto per aver teorizzato l’esistenza del pianeta Nettuno sulla base di modelli
matematici.
[35]
Sir Joseph Norman Lockyer è stato un astronomo britannico con la passione per
l’antichità. È stato il primo a ipotizzare che Stonehenge avesse una funzione astronomica,
per questo è considerato il “padre dell’archeoastronomia”.
[36]
Graham Hancock, Impronte degli dei, Corbaccio, 1996
[37]
Graham Hancock
[38]
Graham Hancock
[39]
Robin Cook, The Pyramids of Giza, Seven Islands, Glanstonbury, 1992
[40]
Armando Mei, La piramide e i segreti del 137, Xpublishing, 2018
[41]
Peter Ehlebracht - Haltet die Pyramiden fest!: 5000 Jahre Grabraub in Agypten - (German
Edition) 1980
[42]
Il papiro è noto anche come papiro di Ahmes, dal nome dello scriba che lo
trascrisse intorno al 1.650 a.C. Si tratta del documento egizio a carattere matematico più
esteso e contiene le soluzioni di 85 problemi matematici ricorrenti nella vita quotidiana
delle classi sociali più aristocratiche.
[43]
Massimiliano Franci “Astronomia egizia, Introduzione alle conoscenze astronomiche
dell'antico Egitto”, Edarc, Firenze 2010
[44]
Graham Hancock , Impronte degli dèi, Corbaccio Editore 2003
[45]
Ed Krupp, Echoes of the Ancient Skies: The Astronomy of Lost Civilizations,
Oxford University Press, 1994 Londra
[46]
John Anthony West, Il Serpente Celeste, Corbaccio, 1999 Milano
[47]
Abd’el Hakim Awyan egittologo egiziano, appartenente alla scuola indipendente. E’ il
fondatore della Scuola Khemitiana.
[48]
James Henry Breasted, Prehistoric Survey of Egypt and Western Asia- Vol. 1, Chicago
Univeristy, 1929 Chicago
[49]
Max Ludwig Paul Blanckenhorn, Die Steinzeit Palästina-Syriens und Nordafrikas, J. C.
Hinrichs, 1921
[50]
Michael A. Hoffman, Egypt before the pharaohs: the prehistoric foundations of
Egyptian civilization, by Michael O'Mara Books Ltd, 1991 London
[51]
Armando Mei, La Piramide e il segreto del 137, Xpublishing 2018. Il Libro descrive la
possibile funzione della Grande Piramide in base al numero adimensionale 137, scoperto
dall’Autore, nel 2009, nelle proporzioni della Seconda Piramide di Giza.
[52]
«Tra i pochi sarai quello che farà la differenza». Traduzione dell’Autore

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