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Informazioni sul libro

Per quale motivo alcune persone si vedono belle e vincenti, mentre altre si
percepiscono brutte e poco attraenti?
Perché c’è chi finisce nella spirale degli interventi estetici pur di vedersi e
sentirsi più desiderabile?
Con questo libro scoprirete quali sono i meccanismi che portano la mente a
imparare a percepire il proprio corpo in un certo modo e comprenderete le
ragioni che si nascondono dietro l’opinione, spesso distorta, che si ha di sé.
Opinione che in qualche caso è capace di innescare una vera e propria
sindrome del brutto anatroccolo.
L’immagine corporea, infatti, è qualcosa che la mente apprende nel corso del
proprio sviluppo. Si fonda su immagini, etichette e punti di vista, a volte
positivi a volte negativi, raccolti consciamente e inconsciamente nell’arco
della propria vita. Ma sono etichette che possono influenzare profondamente
l’autostima della persona.
Questo libro vi insegnerà a superarle.
Nella parte finale troverete infatti alcuni test ed esercizi di auto-percezione
corporea per iniziare ad allenare la mente a disimparare il modo in cui essa
vede se stessa e il proprio corpo.
Siete pronti a vedervi come non vi eravate mai visti prima?
L'autore
Luca Saita, psicologo, psicoterapeuta, vive a Roma dove esercita la libera
professione. Ha studiato a Roma e a Sunderland, nel Regno Unito, dove ha
avuto modo di approfondire gli approcci più moderni alla psicoterapia. È
stato uno dei primi psicologi in Italia ad aprire un sito internet dedicato alla
psicologia, ricevendo l’attenzione dei media (www.lucasaita.it). Autore di
numerosi saggi e articoli sulla psicoterapia, per i nostri tipi ha pubblicato
Liberarsi dai sensi di colpa. Come smascherare i “venditori” dei sensi di colpa e
ritrovare serenità (2013).
Grafica della copertina: Alessandro Petrini

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Indice

Introduzione

1. Perché ci si sente brutti?

1. Come si sviluppa l’immagine di se stessi?

2. La distorsione dell’immagine del corpo

3. L’attacco al corpo

4. Proiettare sull’altro

5. Etichette dannose

2. Su quali basi si costruisce l’immagine della persona?

1. Le etichette razziali, nazionali, sociali e religiose

2. Le etichette familiari

3. Le etichette del quotidiano

3. Imparare a vedersi brutti

1. Quando i vissuti si trasferiscono sul corpo

2. Naso come “nasone”

3. La figlia del “califfo”

4. Vedere la “macchia”

5. La scelta del bersaglio

6. Il simbolismo del corpo


7. Come mai si subiscono attacchi alla propria immagine fisica?

8. La caduta nel circuito dell’autosvalutazione

4. Esercizi per disimparare a vedersi negati- vamente

1. Mettere in crisi le proprie convinzioni

1. Come ti vedi?

2. Raccogliere aneddoti: chi ha detto che cosa

3. Come avete imparato a vedervi? Come vi vedete voi!

4. Imparare a difendersi

5. Chiedetelo ai sogni

Conclusioni
Habentibus symbolum facilis est transitus
Questo libro è dedicato al cigno
che c’è in ognuno di noi
Introduzione

Per quale motivo alcune persone si vedono belle e vincenti,


mentre altre si percepiscono come brutte e miserevoli, e
spesso entrano nella spirale degli interventi estetici per
vedersi e sentirsi più desiderabili?
Nel rispondere a questa domanda, la grande difficoltà è
stata, prima di tutto, quella di rendere facile il difficile: sotto
un punto di vista tecnico, infatti, sono molto complessi e
raffinati e meccanismi mentali che portano una persona a
“vedersi brutta”, anche se all’apparenza può sembrare una
questione banale o semplice. Che non sia una questione
banale l’ho imparato nel tempo soprattutto nel lavoro svolto
insieme ai miei pazienti: quante sofferenze, infatti, incontra
chi si vede brutto e chi non accetta il proprio corpo! Molte
persone arrivano perfino a pensare al suicidio per questa
ragione, mentre può capitare che le persone che hanno
accanto non si accorgano del loro disagio, sottovalutando il
problema.
Sono state queste riflessioni che mi hanno portato a
scrivere quest’opera, e a scriverla con la maggiore chiarezza
e semplicità possibile: proprio per dare una prima chiave di
lettura forte e immediata a chi si vive come brutto e
inadeguato, per fornire un primo “salvagente” a chi si sente
affogare e si percepisce ormai schiavo della propria visione
negativa, senza avere nessuna speranza di uscirne fuori.
Nell’epoca tecnologica in cui viviamo, l’immagine di se
stessi sembra essere diventata un punto chiave per il
benessere delle persone: nell’epoca dei “selfie”, dei reality e
della televisione interattiva rappresentata dal web, sembra
proprio non esserci spazio per chi si sente “brutto”: nel mondo
moderno abbiamo telecamere pronte a riprenderci ovunque.
In realtà il concetto di bruttezza o di bellezza è un concetto
molto relativo, e chi si vede negativamente sta soffrendo, a
volte senza rendersene conto, proprio di quella che si
potrebbe chiamare una sindrome del brutto anatroccolo,
cioè è rimasto incastrato in una visione negativa di se stesso
creata dalla sua propria mente.
L’intento di quest’opera è quello di presentare al lettore in
modo chiaro e immediato in che modo può si può cadere in
questa sindrome, facendo sì che si percepisca il proprio corpo
negativamente e si perda l’autostima di se stessi. Nel corso
della trattazione sono analizzati meccanismi, tipi di immagini e
di etichette che concorrono a formare l’immagine mentale che
ognuno ha del proprio corpo.
Tutto questo per rispondere alla semplice e allo stesso
tempo complessa domanda:

Perché alcune persone si sentono brutte e qual è il significato


profondo di questo vedersi negativamente?

Pensarsi e percepirsi belli con una buona autostima è una


delle chiavi fondamentali per godersi la vita e realizzare i
propri desideri, per questo l’opera guiderà il lettore dalla
nascita del brutto anatroccolo sino alla sua trasformazione in
cigno, in un percorso che terminerà con alcuni test per
comprendere meglio se stessi e il modo in cui ci si vede.
Nello specifico, una prima parte dell’opera si occuperà di
quelli che possono essere i meccanismi basilari in grado di
modificare l’immagine di una persona in modo negativo,
qualora non sono compresi dalla persona che li subisce.
Una seconda parte tratterà il modo e le immagini
attraverso le quali si forma l’identità di ogni persona,
prendendone in considerazione sia quelle più generali che
riguardano ognuno, sia quelle più particolari e specifiche che
fanno parte della storia individuale.
La terza parte tratterà il modo in cui la mente impara a
sentire brutto e inadeguato il corpo, attraverso la lettura dei
simbolismi delle parti del corpo e dei possibili meccanismi che
possono innescare una vera e propria sindrome del brutto
anatroccolo.
Per i più coraggiosi, nella parte finale saranno proposti
alcuni test ed esercizi di autopercezione corporea, per
iniziare ad allenare la mente a disimparare il modo in cui si
vede per arrivare a trovare modi nuovi e più positivi di farlo.
Perché, in fondo, è il modo in cui ci si vede che determina il
modo nel quale ci si percepisce belli oppure brutti.
1
Perché
ci si sente brutti?

È singolare considerare come molte persone, a volte dietro


un atteggiamento apparentemente di grande autostima e
sicurezza, in realtà considerino se stesse come inadeguate,
brutte, poco piacevoli e piene di difetti, e come la loro
attenzione sia costantemente rivolta a pensare e a ripensare a
questi aspetti negativi del proprio corpo, che impediscono di
vivere e di godersi la vita in pieno.
Ricordo ancora il mio stupore quando iniziai questa
professione, e si presentò presso il mio studio una fotomodella
affermata, che mi chiedeva aiuto per il suo sentirsi e vedersi
brutta.
Mai, infatti, verrebbe da pensare che anche persone
considerate oggettivamente “belle”, possano portare con sé
dei vissuti e delle immagini di sé disconfermanti e negative,
tanto che queste possano arrivare a condizionare la loro vita e
a farle percepire “brutte”.
Come si dice, tuttavia, ogni testa è un mondo, e dentro ogni
persona si nascondono storie, emozioni e vissuti che, a volte
per paura, a volte per vergogna, non si raccontano agli altri e
si tengono segrete e nascoste dentro se stessi, e che fanno
“vedere” alla persona il Sé in un certo modo. Non soltanto se
stessa, però, ma anche delle porzioni precise di sé, fino ad
arrivare a farle diventare delle vere e proprie ossessioni, e a
portare la persona a sperimentare una sofferenza profonda e
a sprofondare nella depressione più nera.
Se è vero che non esiste una persona al mondo che non
abbia passato una fase della propria vita nella quale si è
guardata allo specchio e si è vista “brutta”, spesso questo è
associato a una fase di crescita, alla quale ne seguono altre,
per cui si passa da essere dei “brutti anatroccoli”, fino a
sbocciare in persone che sviluppano la loro personalità e che
diventano dei “cigni” adulti e sicuri di sé, con la propria vita e
con una propria salda autostima.
Può succedere, tuttavia, che, per vari motivi, si possa
rimanere come “incastrati” in una fase di pessimismo e di
visione di sé e del proprio corpo negativa e patologica, tanto
che vedersi “brutto anatroccolo” diviene la condizione
normale e stabile nella quale si considera se stessi e si vive la
propria vita.
Questa, che potrebbe essere considerata come una vera e
propria “sindrome del brutto anatroccolo”, è una condizione
effettivamente molto diffusa, che porta le persone a
considerarsi e a vedersi brutte senza alcun motivo reale, e
che condiziona pesantemente la loro vita, poiché il corpo
rappresenta, per certi versi, il biglietto da visita con il quale ci
si presenta agli altri, e, considerarlo come poco piacevole,
rende estremamente difficile entrare in contatto con gli altri e
con il mondo esterno. Questo porta le persone a rifugiarsi
dentro se stesse o a cadere nella spirale degli interventi
estetici, che però non bastano mai, in quanto per ogni “difetto”
tolto, ce n’è sempre un altro pronto a essere trovato.
La domanda a questo punto diviene inevitabile:

Come mai, però, ci si sente brutti? Come può arrivare una


persona a ritenere se stessa bella o brutta, cigno o brutto
anatroccolo?

Ci sono molti esempi di persone che, se non brillano per la


loro bellezza, tuttavia si sentono sicure di sé e amano il loro
corpo, riuscendo a viverlo in modo sano e armonico. Altre
persone, invece, seppure sono considerate belle dagli altri,
vivono mille tormenti e considerano se stesse piene di difetti,
vivendo una vita d’inferno e cercando di evitare ogni specchio
che possa riflettere la loro immagine.

Una prima risposta che si può dare a questo interrogativo, è


che, effettivamente, è la mente a decidere se ritenere il
proprio corpo bello o brutto.

Una volta che la mente abbia stabilito che il proprio corpo


sia adeguato, oppure inadeguato, a quel punto il giudizio e il
pensiero degli altri diviene ininfluente. Per questo motivo non
si può convincere chi è bello che sia brutto, e viceversa. Se
una persona ritiene di avere un “brutto naso”, per esempio,
questa è una sua convinzione e un’interpretazione che la sua
mente fa di una parte del suo corpo. Il problema a questo
punto diviene un altro.

Come mai alcune persone che hanno dei nasi, per esempio,
non proprio perfetti, li vivono serenamente, mentre altri con
nasi normalissimi soffrono moltissimo in quanto li ritengono
brutti e inaccettabili?

Questo fa parte del tipo di elaborazione che la mente fa


della parte del corpo e, soprattutto, del tipo di immagine di
se stessi e del proprio corpo che la mente ha costruito nel
tempo. Dietro ogni etichettamento che la mente fa di una
parte del proprio corpo, c’è, infatti, un’immagine che di questa
parte del corpo si è costruita nel tempo.
In altre parole, quello di cui si sta discutendo è il modo in
cui la mente costruisce l’immagine ed etichetta una certa
parte del corpo, secondo una visione “psicologica” che la
mente compie partendo da una serie di pensieri, di vissuti e di
esperienze, che possono essere collegate al corpo o a una
specifica parte del corpo.
Si può pensare, per fare un esempio, che nella fase dello
sviluppo la mente impari a dare dei “nomi” alle cose. Se
abbiamo imparato a chiamare un certo tipo di fiore “rosa”,
allora per noi quel certo tipo di fiore sarà una rosa, e la nostra
mente continuerà a chiamare quel determinato fiore con quel
nome associando a questo tutte una serie di caratteristiche. Si
sa che la rosa è un fiore considerato nobile, profumato,
prezioso, ritenuto segno, simbolo ed espressione di certi
significati positivi. A nessun italiano, infatti, verrebbe in mente
di regalare dei crisantemi per un lieto evento. Però, che cosa
succederebbe se invece avessimo imparato a considerare e a
chiamare una “rosa” con altri nomi e con altri significati? La
nostra mente probabilmente potrebbe considerare tale fiore
come qualcosa di negativo, anche con caratteristiche negative
e ripugnanti. In alcune culture, per esempio, i significati
associati ai fiori sono differenti, e alcuni fiori che noi riteniamo
negativi sono ritenuti di buon auspicio e viceversa.
Per certi versi si può pensare che lo stesso meccanismo
accada con il proprio corpo: diviene fondamentale come la
persona impara a conoscerlo e a vederlo, perché questo
stabilisce come la mente lo pensa e lo etichetta. Certamente il
discorso è molto più complesso di quello affrontato
nell’esempio citato precedentemente, però si può dire che
diviene fondamentale considerare come una certa immagine di
sé si è sviluppata e creata, per capire come mai si arrivi a
vedersi in un certo modo. Lo “specchio delle mie brame” in
realtà è nella nostra mente, ed è la nostra mente.
A prescindere da ogni realtà “oggettiva”, ciò che la mente
“crede” diventa verità, una verità indiscussa e talvolta
indiscutibile. Tutto ciò che la mente assimila diviene quindi
inconscio (cioè inconsapevole), così che la persona perde ogni
spirito critico e autocritico rispetto alle sue convinzioni: una
volta che una certa immagine è stata fissata e imparata, la
persona la darà per scontata.
Come accade, però, che la mente possa creare nel tempo
una certa immagine di se stessi?
1. Come si sviluppa l’immagine di se
stessi?
Per poter rispondere a questa domanda, bisogna tenere
conto che l’immagine di se stessi e la sua formazione, fanno
parte di un processo dinamico che si sviluppa nel tempo, un
tempo che può essere lungo e che solitamente coinvolge la
prima parte della fase di crescita di una persona, cioè la sua
infanzia e la sua adolescenza.
Questo non vuol dire che questo processo non continui nel
tempo e che anche nell’età adulta non assuma una certa
importanza. Tuttavia, come per tutte le cose, spesso le
fondamenta costituiscono il terreno nel quale poi si sviluppa
tutto il resto, quindi diviene di fondamentale importanza
comprendere quali possano essere i primi vissuti di una
persona rispetto a se stessa e al proprio corpo.
Freud diceva che il primo “Io” che una persona sviluppa è
proprio un “Io corporeo”: per un bambino, infatti, tutto ha
inizio e viene compreso come “corpo”, e l’aspetto mentale è
un aspetto che solo successivamente si impara a differenziare
e a comprendere. In una prima fase della crescita, quindi,
tutto è interpretato e vissuto come “corporeo”: per fare un
esempio eclatante di questo aspetto, se si chiede a un bambino
lasciato dai propri genitori in un orfanotrofio il motivo per cui i
suoi genitori non l’abbiano voluto con sé, la risposta che si
otterrà sarà probabilmente “perché sono brutto”. L’aspetto
corporale in una prima età della vita rappresenta un aspetto
predominante, motivo per il quale i bambini quando vogliono
dire qualcosa contro qualcuno usano spesso dire che “è
brutto”.
Questo vuol dire che molti significati, seppure non
riguardano l’aspetto fisico in sé e per sé, possono, in una
prima fase della vita, essere associati invece proprio
all’aspetto fisico in senso stretto, andando a formare nella
mente un’immagine di un “corpo difettoso”, seppure questo
non lo sia affatto. Questa considerazione diviene fondamentale
se si considera quanti aspetti possono andare a influire e
diventare “corporei”, anche non essendolo.
Anche nella storia del brutto anatroccolo, la sua diversità
dai suoi fratelli era considerata come un motivo di bruttezza e
di isolamento, seppure questa aveva di fondo tutta altra
motivazione: questi apparteneva a un’altra specie, per cui
questi non era un “brutto anatroccolo”, bensì un “cigno
adolescente”, come poi scoprirà in seguito. L’aver dato un
certo significato e conseguentemente aver creato un certo
etichettamento, avevano comportato una certa immagine di
sé, che facevano vedere il piccolo cigno come effettivamente
non era (distorcendo l’immagine).
Questo meccanismo è alla base di molti etichettamenti e
fraintendimenti su se stessi e sul proprio corpo, che possono
portare una persona a vedersi in un certo modo incongruente
con la realtà e disfunzionale per se stessi. Nello sviluppo
dell’immagine di se stessi, infatti, vi sono molti fattori che
possono andare a influire sulla percezione dell’Io corporeo, e
influire su come la persona vede se stessa.
Solitamente, l’immagine di se stessi si sviluppa nel tempo, a
seconda di come la mente costruisce e associa significati
rispetto al proprio corpo, attraverso esperienze,
etichettamenti (positivi e negativi) ed elaborazioni che la
mente infantile e adulta fa di tutto questo. Lo sviluppo
dell’immagine di se stessi può avvenire in modo più o meno
sano, e ciò dipende effettivamente dalla storia che si cela
dietro questo processo di apprendimento.
Spesso elementi sociali, nazionali, culturali, religiosi e
familiari possono creare una vera e propria trama di
significati, che la mente può imparare a leggere in un modo o
in un altro, portando la visione e l’immagine di se stessi verso
una certa direzione, e facendo “sentire” la persona in modi
differenti. Questo sentire della persona dipende da come una
certa storia è stata interiorizzata e compresa, e fino a che
punto una persona è in grado di associare i giusti significati a
certi specifici eventi della vita e della propria crescita.
Uno degli esempi più drammatici nella mia esperienza come
clinico, è stato quello di una ragazza che mi chiese
consultazione in quanto si riteneva più vicina all’essere un
scimmia che una persona: questa infatti si vedeva come
scimmia, e voleva affrontare diverse operazioni alla testa per
potersi finalmente vedere come ragazza. Si presentò presso il
mio studio clinico con lastre del suo cranio e con la
convinzione di essere un antropoide. La sua mente, di fatto,
vedeva se stessa in quel modo, e anche guardandosi allo
specchio questa aveva la certezza di ciò che considerava come
reale. Ovviamente per me era chiaro che lei non fosse una
scimmia, ma la sua mente si era convinta di questo!
Molto importante, in questo senso, è capire e comprendere
come sono state vissute le varie fasi di crescita di una
persona:
prima infanzia;
infanzia;
adolescenza;
entrata nel mondo adulto.
Queste fasi possono determinare in modo cruciale il
rapporto che la persona instaura con il proprio corpo, e,
rispetto ai vissuti personali e al tipo di relazioni che la persona
ha avuto, il modo stesso in cui la mente impara a vedere e a
considerare l’aspetto corporeo.
Come è possibile però che si creino distorsioni nel vedere
se stessi? Quali sono i meccanismi che fanno sì che la mente
impari a vedere il proprio corpo in un modo negativo, fino ad
arrivare a considerarlo attraverso immagini palesemente
incongrue?
2. La distorsione dell’immagine del corpo
Durante la fase della crescita mentale di una persona, così
come anche nell’età adulta, possono intervenire dei fattori di
disturbo nella creazione dell’immagine del proprio corpo, che
spesso hanno a che fare con specifici meccanismi che possono
essere sintetizzati in tre grandi “famiglie”, che a loro volta
raccolgono delle sotto categorie.
Questi meccanismi di disturbo possono manifestarsi come
meccanismo di:
attacco diretto o indiretto;
proiezione;
etichettamento.
Queste interferenze possono intervenire in ambiti differenti,
così come in tempi di crescita differenti. Possono riguardare
anche contesti e agire su piani differenti, quali per esempio
quelli sociali, nazionali, culturali, religiosi, familiari e
relazionali, che saranno analizzati successivamente.
La considerazione importante da fare, è quella che questi
meccanismi di base sono quelli che più spesso comportano un
certo grado di distorsione in negativo, soprattutto quando
intervengono in età infantile, in quanto fanno sì che proprio nel
momento in cui la mente impara ad associare certi significati a
certe parti del corpo, forniscano a questa associazioni
negative, tali che se la mente le impara, può finire poi per
assimilarle in modo permanente.
Andiamo a considerare nello specifico come ogni
meccanismo funziona e su quali livelli può svolgersi tale
condizionamento.
3. L’attacco al corpo
Il meccanismo di attacco può essere considerato come il più
semplice ma efficace meccanismo distorsivo dell’immagine
corporea. Come si può evincere dal nome stesso del
meccanismo, questi prevede un attacco diretto all’immagine
corporea, la quale viene svalutata e considerata
negativamente.
Per esempio, dire a una persona che ha delle “brutte
gambe”, può essere considerato come un meccanismo di
attacco diretto, in quanto questo attacco alla parte corporea
è compiuto direttamente sulla persona e sulla sua immagine.
Leggermente differente è il meccanismo di attacco
indiretto, mediante il quale, per colpire una persona, se ne
colpisce un’altra (indirettamente). Può accadere per esempio
che, per colpire una persona sgradita, o anche una situazione
o contesto sgradito, si prenda come bersaglio indirettamente
una persona a questi collegata: recandomi a una festa che non
mi piace o nella quale mi annoio o non sono considerato, potrò
dire che il festeggiato aveva davvero un “naso orrendo”.
È molto importante considerare la differenza tra un attacco
diretto e un attacco indiretto, in quanto, a livello pragmatico,
questi svolgono effetti molto differenti, e oltretutto è
solitamente più difficile riconoscere un attacco indiretto
piuttosto che uno diretto, in quanto nell’attacco indiretto,
mancando un collegamento “evidente” con l’oggetto
dell’attacco, questi può essere maggiormente frainteso e
preso per buono.
Come mai questo meccanismo svolge un ruolo così
importante e in che modo?
Immaginiamo una persona in fase di crescita, che, per
esempio abbia l’età di nove anni: in questa età si è molto
sensibili ai commenti altrui e la propria immagine corporea è
ancora in formazione nella propria mente. Un attacco, diretto
o indiretto che sia, può coinvolgere vari livelli, e andare a
minare l’autostima corporea profondamente, condizionando il
modo in cui la mente vede una certa parte corporea.
Gli attacchi possono riguardare parti del corpo differenti, e
spesso nascondono un simbolismo che ha a che fare con la
parte del corpo attaccata: la svalutazione che sottendono certi
attacchi non è infatti quasi mai “casuale”, ma mira una parte
del corpo che ha a che fare con la natura dell’attacco.
Facciamo alcuni esempi che aiutino a comprendere quanto
detto fin qui.
Attacco diretto: una persona che vuole svalutare
un’altra che sente superiore a sé sotto un punto di vista
generale, potrà attaccarla adducendo che “è bassa”. In
questo modo, l’attacco corporeo che andrà a colpire
l’altezza dell’altro, avrà il risultato psicologico di cercare
di “ridurre” l’altro sia sotto il punto dell’altezza “fisica”
che sotto il punto di vista dell’altezza “morale”. Questo
attacco, che colpisce una caratteristica corporea, riesce
così a collegare un simbolismo che abbraccia due livelli.
Se la persona che subisce un attacco del genere non avrà
la capacità di elaborare l’attacco svalutante,
differenziando i livelli dell’attacco stesso, potrà portare
con sé il dubbio di essere “bassa”. In quel modo
l’immagine che la propria mente avrà del concetto della
propria altezza, potrà associarsi a un’idea negativa. Forse
non tutti sanno che ci sono persone che arrivano a
ricorrere a interventi di chirurgia estetica per
l’allungamento delle gambe, interventi molto dolorosi che
fanno guadagnare solo 4-5 cm di altezza.
Attacco indiretto: un attacco indiretto è solitamente più
difficile da cogliere, in quanto usa un altro come bersaglio,
creando una specie di triangolo. Caso molto tipico che
spesso mi capita di incontrare nella pratica clinica, è
quello di un genitore che, per attaccare il coniuge, svaluta
il figlio. Per esempio, un genitore arrabbiato con l’altro,
gli dice “tuo figlio è veramente brutto, ha preso tutto da
te”. In quel caso, il figlio presente alla discussione si vede
diventare un bersaglio della lite dei genitori, e seppure
l’attacco non è di per sé rivolto a lui, tuttavia l’effetto che
ha può essere quello di creare una disistima corporea nel
figlio. Un padre una volta mi confessò che non riusciva più
a guardare positivamente la figlia: questa, infatti,
crescendo, assomigliava sempre di più alla madre, con la
quale lui aveva avuto una separazione molto conflittuale e
contro la quale nutriva sentimenti molto negativi.
Si potrebbero portare moltissimi esempi di questo tipo di
attacchi, quello che per ora è importante sottolineare è come
questo meccanismo influisca sul modo in cui la mente vede il
corpo, in quanto questi attacchi contengono un’informazione
che riguarda il corpo, seppure l’obiettivo sia di altra natura.
La mente solitamente tende a catalogare le informazioni che
riceve e a creare un specie di database dove riassume le
varie caratteristiche di un oggetto: sentirsi dire “hai dei brutti
piedi”, per esempio, crea nella mente un’informazione
riguardo all’immagine dei propri piedi. È facile immaginare
quanto nella fase di una crescita di una persona questo possa
avere un’importanza enorme.
In generale il meccanismo di attacco ha alla propria base
l’intento di svalutare e di colpire qualcun altro, facendo
passare questo attacco attraverso il corpo.

Per quali motivi le persone attaccano?

Spesso la rabbia, la gelosia e l’invidia portano le persone


ad attaccare e a prendersela con coloro con i quali si sentono
in conflitto e con coloro con i quali si sentono inferiori.
Difficilmente una persona matura, sicura di sé e dei propri
mezzi, sentirà la necessità di attaccarne un’altra, soprattutto
andando a svalutare il corpo dell’altro, che rappresenta una
cosa molto intima e personale.

Per quale motivo gli attacchi spesso sono rivolti al “corpo”, e


non direttamente a una qualità psicologica o morale
dell’altro?

Attaccare il corpo di un altro è banalmente più semplice


rispetto ad attaccare una qualità della persona, oltretutto è
molto più difficile difendersi da attacchi “corporei” piuttosto
che da attacchi portati su un livello superiore: ben poche
persone non risponderebbero con forza sentendosi dare delle
“stupide”; viceversa, attaccando dicendo “oggi hai davvero un
aspetto inguardabile, sembri stanco e spossato” (giocando
quindi su un livello molto più metaforico) rende il
riconoscimento dell’attacco e un’eventuale risposta più difficili
da realizzare.
Differente è invece la motivazione del meccanismo
successivo, per il quale la svalutazione non è l’intento primario
(ma solo un effetto secondario), bensì il “trasferimento” di un
vissuto.
4. Proiettare sull’altro
La proiezione è un meccanismo di difesa della mente, che
fa sì che pensieri, contenuti, emozioni o vissuti ritenuti
inaccettabili o troppo dolorosi, siano trasferiti su altre
persone esterne al Sé individuale.
In altre parole, se la mia mente ritiene che qualcosa di me
stesso sia inaccettabile e che io non riesca a tollerarla,
cercherà di attribuire questo qualcosa a qualcun altro, così
che io possa sentirmi libero da sentimenti, pensieri e idee per
me sgradevoli. Questo meccanismo di proiezione può
riguardare effettivamente ogni tipo di contenuto mentale, ma
in questo contesto sarà preso in considerazione ciò che
riguarda il corpo, in quanto anche pensieri, idee, sentimenti
sgradevoli e inaccettabili sul proprio corpo possono essere
trasferiti ad altri. La differenza con il meccanismo precedente
sta nel fatto che in questo caso l’intento principale è più che
altro quello di liberarsi di un proprio contenuto mentale,
trasferendolo su un altro, piuttosto che un intento di attaccare
direttamente l’altro svalutandolo e ferendolo. Non per questo
anche questo meccanismo è molto pericoloso, in quanto passa
un’informazione che riguarda un aspetto corporeo dell’altro, e
che la mente dell’altro può immagazzinare come
un’informazione.
Nella mia pratica clinica, per esempio, mi capita (anche
troppo spesso) di vedere genitori che proiettano sui propri
figli le proprie inadeguatezze, canzonandoli o deridendoli su
parti del loro corpo, facendosi “beffe” di loro, e in questo
modo inconsciamente trasferendo su di loro i loro vissuti di
sentirsi brutti, inadeguati, poveri e deboli. Queste proiezioni
sono a volte disarmanti agli occhi di un estraneo, in quanto
hanno sui bambini effetti catastrofici, e in quanto sembra
incredibile come i genitori non si accorgano di quello che
stanno facendo. D’altro canto la proiezione è un meccanismo
del tutto inconscio, e le persone non si rendono assolutamente
conto di ciò che stanno proiettando all’esterno di se stessi.
Allo stesso modo questo può avvenire anche tra adulti, quando
una persona può attribuire a un’altra una sua qualità sgradita.
Per esempio, una madre può dire a una figlia che è meglio
che non indossi certi abiti, perché ha una brutta forma del
corpo, quando è evidente come questo sia più che altro un
problema del genitore, oppure un amico può dire a un altro
che ha delle mani molto femminili, quando in realtà è questo
che ha difficoltà a sentirsi uomo interiormente.
Il meccanismo della proiezione è un meccanismo molto
complicato e molto difficile da cogliere, in quanto comporta
attribuzioni di significati che possono essere facilmente
equivocati, dai bambini prima di tutto, in quanto non hanno
una mente ancora formata e in grado di decodificare messaggi
molto complessi, ma anche dagli adulti stessi, soprattutto
laddove esista già una base di disistima corporea e di
insicurezza. La proiezione oltretutto non consiste in un
attacco che presuppone una certa volontà di coscienza, bensì
di uno spostamento e trasferimento di vissuti, per cui chi
proietta risulta essere anche molto più verosimile
rispetto a chi attacca, in quanto non ne è consapevole.
Il terzo meccanismo di distorsione dell’immagine corporea
può essere pensato come una possibile conseguenza dei primi
due, e sicuramente come un meccanismo di rinforzo terribile
rispetto alla creazione di un’immagine corporea.
5. Etichette dannose
Ricordo il caso di un ragazzo molto timido e chiuso, che
veniva spesso canzonato sia a casa dai genitori, sia dagli
amici. La sua timidezza aveva comportato che lui raramente
desse risposte a questi attacchi esterni, bensì l’unica cosa che
faceva era quella di arrossire. Fu così che gli venne dato come
soprannome “il roscio”. Ogni volta che lui arrossiva, perché
veniva messo in mezzo e canzonato, tutti dicevano “ecco il
roscio!”. Questo fatto dell’arrossire divenne presto per lui una
vera e propria ossessione, e più cercava di non arrossire, più il
rossore usciva fuori in modo evidente. Dopotutto ormai lui era
conosciuto come “il roscio”, quindi non era neanche pensabile
che potesse arrabbiarsi o ribellarsi per queste etichetta.
Divenuto adulto non riusciva a uscire con le ragazze, né a
stare fuori con gli amici: l’unica cosa che pensava era alle sue
guance, e a quanto queste potessero diventare rosse. A un
certo punto aveva pensato di affrontare un’operazione
chirurgica per farsi tagliare i nervi del volto e i vasi sanguigni
che determinavano il suo diventare rosso. Tuttavia questa era
un’operazione molto pericolosa, in quanto poteva determinare
il perdere la possibilità di poter avere alcune espressioni
facciali. Il suo volto sarebbe potuto diventare una maschera di
cera bianca e senza movimento. Fu a questo punto che mi
chiamò per una consulenza.
Questo racconto evidenzia a mio avviso tutta la pericolosità
di questo meccanismo: farsi dare etichette e prendersele
senza protestare, può creare nella mente un’immagine del
proprio corpo che rimane fissa e inamovibile, tanto che la
mente può convincersi in modo definitivo che una certa parte
del corpo sia fatta in un certo modo.
Può accadere a volte anche di darsi delle autoetichette:
quando la mente ha deciso che una certa parte del corpo sia in
un certo modo, non esiste pensiero critico esterno o interno
alla persona che possa fare cambiare questa opinione. Questa
rigidità di pensiero e di visione di sé comporta la fissazione su
certe posizioni, e quindi la considerazione di vedersi in un
certo modo diviene una profonda certezza.
L’etichettamento è un meccanismo molto pericoloso, e
bisogna stare molto attenti a evitare che si possa cadere in un
circolo vizioso del genere, in quanto poi uscirne diviene molto
complicato. Spesso si tende a subire etichette e punti di vista
altrui in modo acritico e superficiale, seppure queste possono
creare nella mente punti di vista e informazioni che possono
radicarsi molto profondamente.
Quello che è tecnicamente chiamato come dismorfismo
corporeo, cioè avere un’immagine del proprio corpo come
negativa e vedersi brutti, è un vissuto molto più diffuso di
quanto non si creda, e nel corso di una psicoterapia sono
analizzati questo tipo di meccanismi e di effetto che hanno
sulla mente e sul modo in cui questa impara a vedersi,
ripercorrendo la storia dei vissuti personali e il modo nel quale
una persona ha appreso a vedersi in un certo modo.
Le etichette, infatti, concorrono a formare e a creare delle
vere e proprie “immagini”, che la mente associa direttamente
al corpo, creando così una certa visione di questo che rimane
fissata in modo profondo e radicato.
2
Su quali basi
si costruisce
l’immagine
della persona?

Come fa la mente a costruire un’immagine del proprio


corpo? Questa è una domanda estremamente complessa, in
quanto nella costruzione dell’immagine corporea la mente
tiene conto di innumerevoli fattori.
Tra questi fattori vanno presi in considerazione tutti quei
fattori che possono, in un modo o nell’altro, contribuire a
creare un certo tipo di immagine che, per associazione, la
mente può imparare a leggere come immagine corporea
tout court. Per questo motivo anche le condizioni ambientali,
sociali e nazionali possono contribuire a creare una certa
immagine: un episodio di razzismo, in questo senso, può avere
l’effetto di un attacco diretto, in quanto squalifica il colore
della pelle e l’appartenenza razziale, e può far sì che la mente
associ il colore della pelle, per esempio, a una definizione
negativa, “imparando” così che avere un certo colore della
pelle sia una cosa negativa.
Una paziente proveniente da un piccolo paesino sui monti,
arrivata in una grande città, tendeva a sentirsi brutta in
mezzo alla gente, in quanto nella sua mente lei era solo una
“piccola montanara” mentre gli abitanti della città erano ai
suoi occhi (o meglio, agli occhi della sua mente) persone più
importanti e colte di lei.
Quali tipo di immagini possono quindi esercitare
un’influenza sul modo in cui si vede il proprio corpo e si
percepisce se stessi?
1. Le etichette razziali, nazionali, sociali e
religiose
Partendo proprio dall’immagine razziale, si può iniziare con
il considerare come questa immagine sia parte della persona e
della sua appartenenza a una determinata razza umana. Ogni
razza ha una sua storia, un suo vissuto e un suo immaginario
del tutto speciale e particolare. Questo s’inserisce nel vissuto
e nel contesto dove la persona vive, e crea delle immagini che
si vanno a condensare nella mente della persona.
La lunga battaglia contro il razzismo che l’umanità sta
svolgendo ha sicuramente concorso a modificare i vissuti
legati a certi tipi di razze, tuttavia, sia nell’inconscio di ogni
persona, sia a livello dell’immaginario cosciente (anche
rispetto e in considerazione alla storia passata), luoghi comuni
e modi di dire rimangono legati ad alcune appartenenze
razziali e concorrono a formare immagini e miti, che si
associano a formare dei significati specifici, finanche a creare
delle vere e proprie etichette, che possono essere molto
pericolose, come visto precedentemente.
Per fare alcuni banali esempi di modi di dire, solitamente
non si dice “lavori come un bianco”, bensì “lavori come un
negro” (neanche come un nero), questo a sottolineare come
l’associazione culturale verso questa razza sia ancora
impregnata della storia della schiavitù cui i neri furono
sottoposti in una determinata epoca. Così come la razza
asiatica è nominata in Europa con l’appellativo di “musi gialli”,
come a suo tempo gli indiani d’America furono chiamati
“pellerossa”, e come gli europei erano visti come “visi pallidi”.
Questi modi di dire esprimono il punto di vista popolare e
collettivo legato culturalmente ad alcune determinate
appartenenze, e a come nell’immaginario culturale certe
razze possano diventare sinonimo (e quindi creare un
collegamento nell’inconscio) rispetto a certe specifiche qualità
negative (o positive). Facendo esempi positivi, la razza
africana si associa all’idea della forza, quella europea
dell’intelligenza, quell’asiatica della saggezza e quella
americana del coraggio.
Ciò che conta è come la persona interiorizzi queste
immagini e che collegamenti interiori si creino nell’inconscio.
Per esempio, le persone di colore che cercano di sbiancarsi la
pelle per diventare bianche, è probabile che abbiano
associazioni negative rispetto alla propria appartenenza
razziale, e che cerchino di sbarazzarsi di questa immagine
mutando il colore della pelle, quasi a voler passare a un’altra
appartenenza razziale, ripudiando la propria, in quanto con la
propria pelle si vedono brutte.
Gli orientali che cercano, attraverso operazioni di chirurgia
estetica, di mutare i loro occhi occidentalizzandoli, rinnegano
interiormente la loro appartenenza e mostrano con
quest’azione un’immagine inconscia della loro appartenenza
razziale associata a un concetto ed etichetta negativa. Non
stupisce che proprio un modo di dire che definisce gli orientali
in modo negativo sia il chiamarli “occhi a mandorla”, concetto
che disprezza la razza attraverso un’immagine che colpisce gli
occhi attraverso un attacco svalutante. Gli occhi degli
orientali sono, in verità, pieni di poesia.
Stesso ragionamento vale per l’immagine nazionale: anche i
vissuti associati alla storia di una nazione e ai pregiudizi e
all’immagine che si hanno su questa possono andare a
depositarsi nell’inconscio come etichette positive e negative, e
condizionare l’immagine e l’identità globale di una persona.
Gli italiani, per esempio, sono definiti “stalloni” (immagine
sessuale positiva) ma anche furbi, lascivi, “mangia spaghetti”,
mafiosi, senza spina dorsale, geni ma allo stesso tempo poco
capaci di organizzarsi e individualisti. A prescindere dalle
verità storiche o caratteriali di un certo popolo, queste
immagini possono essere assorbite e come tali entrare a far
parte della struttura inconscia di una persona.
Interessante è poi vedere come certe nazionalità siano
considerate da certi popoli. In Italia, per esempio, “polacco” è
divenuto immagine e simbolo dei “lavavetro”, in quanto in un
certo periodo storico l’immigrazione polacca in Italia portò
molte persone ad arrangiarsi per vivere in qualsiasi modo,
purtroppo per loro anche in quello. In questo periodo per
definire il termine “domestica”, è spesso usata l’immagine
nazionale dei “filippini”, perché anch’essi in un periodo storico
recente immigrarono in Italia in cerca di lavoro e si
adattarono a fare quel tipo di lavoro.
Ancora più semplice e banale può essere l’esempio
sull’aspetto dell’immagine sociale: per chi arriva in una grande
città da un piccolo paese, questo può rappresentare un vero e
proprio trauma, e socialmente possono depositarsi
nell’inconscio immagini di provenienza da una realtà inferiore.
Non a caso, chi vive in città e viene da un piccolo paese, è
chiamato con il nomignolo del paese di provenienza, al fine di
ridicolizzare e sminuire l’immagine di quella persona
sminuendo la sua provenienza. Viceversa, chi arriva in una
piccola città da una più grande, è trattato con reverenza e
senso di rispetto, come se automaticamente il provenire da
una città più grande e conosciuta migliorasse anche la sua
immagine. L’immagine sociale ha anche a che fare con il tipo di
rapporto che la persona e la famiglia intrattengono con la
società. Quest’aspetto sarà trattato più specificamente nella
sezione riguardo all’immagine familiare.
La società rappresenta un mezzo di confronto e di paragone
per l’individuo che vive in essa, quindi anche il discorso
riguardo alla classe sociale di appartenenza e il tenore di vita
che una persona può permettersi influenzano profondamente
le immagini interiori. Non è un caso se le persone che godono
di una classe sociale alta nel contesto in cui vivono, appaiono
più sicure di se stesse, più confidenti con il mondo e con gli
altri, e sembrano avere un’autostima maggiore.
Effettivamente, per certi versi, l’hanno: questo supplemento è
fornito dalle immagini sociali depositate nell’inconscio che
forniscono una base positiva per l’immagine della persona
stessa.
Le persone facenti parte di classi sociali inferiori e
svantaggiate hanno spesso un’aria dimessa, si pongono verso il
mondo con modi reverenziali e si sentono a disagio, oppure
idealizzano le persone famose che ai loro occhi divengono dei
semidei viventi. Spesso le persone più svantaggiate prendono
a riferimento per la propria vita le persone “vip”, in quanto
per loro rappresentano dei modelli di grandiosità, e non è del
tutto fuori luogo pensare che uno dei principi che regola il
fenomeno del gossip sia proprio questo, cioè l’idealizzazione di
personaggi famosi come esempi di autostima e di immagine
positiva che si associano al concetto di vincente, e che quindi,
in quanto tali, attirano l’attenzione e l’ammirazione (così
facendo, attivano però anche l’invidia: non esiste niente di più
bello per i lettori del gossip, infatti, che leggere della caduta
dei loro idoli!).
Discorso ancora più complesso riguarda l’immagine legata
al tipo di appartenenza religiosa. Per fare un primo esempio,
un caffè macchiato è chiamato “il cappuccino degli ebrei”, per
far riferimento alla taccagneria che si associa socialmente e
culturalmente a quest’appartenenza. Rispetto a questa
religione millenaria e complessa, conta il tipo di storia che si
associa e le immagini che sono a questa collegate. Basti solo
pensare alla storia recente e ai campi di concentramento
nazisti per rendersi conto di quanti intrecci storici siano legati
a questa religione. Ogni religione porta con sé un suo
immaginario ed è legata a diverse etichette rispetto alla sua
storia e al suo sviluppo e modo di pensiero. La religione
mussulmana si è recentemente collegata agli avvenimenti
riguardanti le Twin Towers. Per questo motivo, recentemente,
incontrare una persona araba/mussulmana in un aeroporto è
divenuto fonte di ansia sociale, quando invece poco prima
questo collegamento non esisteva. Anche il cristianesimo
porta con sé tutta una serie di immagini inconsce e millenarie:
dall’aspetto della colpa, alla figura di Gesù Cristo, alle
crociate per eliminare gli infedeli fino alla figura del Pontifex
Maximus che rappresenta il capo della Chiesa e il vicario di
Cristo sulla terra.
Ogni religione contiene in sé etichette positive e negative, e
l’appartenenza a un certo contesto religioso significa quasi
automaticamente avere una base inconscia di immagini molto
differenti che influiscono sulla vita della persona. Potrà essere
in tal senso molto più facile per un buddista aprirsi alla via del
piacere piuttosto che per un cristiano; si troverà molto più a
suo agio a passeggiare a New York un induista che un
mussulmano, almeno in questo momento storico.
Per ogni persona esiste uno di questi tipi di background di
immagini e di etichette, e questo esercita degli effetti sul modo
in cui la persona si percepisce, e su come percepisce se stessa
rispetto al proprio corpo.
Il termine “immigrato”, per esempio, è un termine
denigratorio che denota la condizione di chi ha dovuto lasciare
la propria casa madre per migliori lidi. Difficilmente, infatti, si
pensa a una persona immigrata in termini positivi, cioè come
di colui che ha affrontato i rischi della vita. Esistono parole e
terminologie pericolose, che creano associazioni inconsce
dannose e che modificano il modo di sentirsi delle persone.
Ogni persona può, tuttavia, modificare ed elaborare le
immagini e le etichette presenti nel proprio inconscio in modo
da bonificare certe associazioni mentali che possono farla
vedere brutta.
Molto importante risulta essere il contesto sociale della
persona, per esempio:
la città dove ha vissuto;
l’ambiente sociale dove ha vissuto;
che tipo di immagini e di etichette, d’idea di se stessi e del
mondo sono state filtrate dall’ambiente dove ha vissuto.
Queste visioni divengono facilmente immagini che filtrano
nell’inconscio, e che vanno a costituire dei veri e propri miti,
che le persone portano dentro di sé e che influenzano la loro
vita. Questi miti possono avere a che fare con l’aspetto
razziale, nazionale, sociale, religioso e familiare, e si basano
su idee e immagini che la persona acquisisce dall’esterno. I
miti, che spesso s’istaurano per via di una certa funzionalità,
possono creare tutta una serie di distorsioni, nel momento in
cui, divenendo anacronistici e non più legati alla realtà, non
sono più funzionali, oppure quando, decontestualizzati
dall’ambiente da dove provengono, perdono la loro semantica.
Rispetto all’immagine razziale, nazionale, sociale e
religiosa, si possono rintracciare moltissime etichette che,
combinandosi con idee, divengono miti dannosissimi e
pericolosissimi, e che comportano tutta una serie di effetti,
oltre che svolgere un certo tipo di funzione rispetto all’identità
della persona.
È possibile, infatti, che le etichette che una persona porti
con sé rispetto ai vissuti esaminati fin qui, possano concorrere
a farla percepire come poco attraente e poco preziosa, e
possano quindi concorrere a farla percepire come “brutta”,
finanche condizionando il modo in cui la mente vede il proprio
corpo. Il brutto anatroccolo in fondo, si può pensare che
soffrisse per un problema “razziale”: esso aveva la pelle
(penne) scure, e per questo motivo era canzonato dai fratelli
che fornivano a lui un’etichetta rispetto a questa
caratteristica. Per questo motivo il brutto anatroccolo si
vedeva “brutto”: proprio perché nella sua testa l’immagine di
se stesso era modellata su un vissuto legato a un’etichetta.
Allo stesso modo, per molte persone vale lo stesso
meccanismo: quando loro qualità in diversi ambiti non sono
apprezzate, questo può influire sul modo in cui la mente
impara a vedersi e a percepirsi.
2. Le etichette familiari
Le immagini del familiare influenzano profondamente la
persona, che sviluppa un legame affettivo profondo con quello
che si potrebbe definire il suo contesto sociale ristretto oltre
che la sua fonte di affetto e di cure (o d’incurie).
Ogni famiglia ha una sua storia, un suo blasone, una sua
immagine ed etichetta sociale, e porta con sé determinati
vissuti relativi alle vicende delle generazioni passate e di
quelle più recenti. Sotto questo punto di vista, aspetti molto
importanti risultano essere l’aspetto sociale e storico della
famiglia, nel senso di come la famiglia si sia relazionata con
l’ambiente sociale esterno, cioè di che posizione una famiglia
abbia avuto nella società, di quanto sia riuscita ad affermarsi,
oppure di quanto non ci sia riuscita subendo delle carenze
fisiche o psicologiche. Per carenze fisiche s’intendono le
privazioni più o meno grandi di beni primari seguenti a
povertà o a guerre, mentre per quelle psicologiche
s’intendono quelle che riguardano la possibilità delle
generazioni precedenti di potersi prendere cura di quelle
successive.
Accanto a queste s’inseriscono le vicende interne della
famiglia, quali il tipo di rapporti interpersonali occorsi tra i
membri della stessa: rispetto alla vita coniugale dei coniugi,
per esempio, cioè rispetto al tipo di relazione sana o
conflittuale avuta dai coniugi stessi, oppure rispetto al
contesto genitoriale, che riguarda il modo in cui i genitori si
siano occupati dei figli.
Immagini d’amore, successi, armonia familiare, capacità di
amarsi e di comprendersi, sviluppano nell’inconscio immagini
positive che generano ottimismo rispetto alla propria
immagine familiare. Viceversa, immagini di morte, omicidi,
suicidi, incesti, abusi sessuali, divorzi e violenza, possono
generare immagini negative che s’interiorizzano come parti
della persona ed etichette disconfermanti e negative.
Molto importanti, a livello inconscio, sono le immagini
associate al tipo di dinamica coniugale e genitoriale, e al tipo
di ruoli e aspettative assorbiti dall’ambiente esterno. Ciò che
preme sottolineare in questa trattazione è che l’immagine del
familiare entra potentemente come immagine nell’inconscio,
associata a vissuti differenti che possono essere confermanti o
disconfermanti, e che queste immagini esercitano
un’influenza elevata sulla percezione di se stessi e
della propria immagine, formando etichette.
Per esempio, d’importanza cruciale sono i ruoli che si
assumono in famiglia e che, in diversi modi, una famiglia può
assegnare a una persona. Questi ruoli hanno la tendenza a
diventare immagini, e sono spesso accompagnati da divieti o
da luoghi comuni, oppure prendono vita poiché s’inseriscono in
dinamiche relazionali.
Una volta che un ruolo è divenuto un’immagine, e che
questa immagine si trasforma in un’etichetta, essendo
accompagnata magari da un “nomignolo” o “soprannome”,
oppure da una descrizione statica di una persona, ecco allora
che nell’inconscio questo tipo d’immagine della persona si
assocerà a una serie di modelli e concetti, e quindi si
radicherà profondamente, contribuendo così a influire sul
modo in cui la persona percepisce il proprio corpo.
Alcuni ruoli tipici, sono, per esempio, quello
dell’ambasciatore, oppure quello del controllore, del pazzo,
dello storpio, o dello stupido, o anche positivamente del genio,
del migliore o del figlio preferito. Quello che qui è importante
rilevare è come questi ruoli non solo operino come modelli
comportamentali acquisiti e come divieti interiorizzati di
poterne assumere altri, bensì diventino delle vere e proprie
etichette sulle quali la persona baserà la propria identità
profonda, e che determineranno tutto il funzionamento
inconscio delle immagini riguardanti l’identità.
Questo ragionamento diventa ancora più importante
considerando un altro aspetto legato all’immagine familiare,
cioè quello concernente il tipo di cure ricevute, o meglio di
incurie, in quanto nel bambino, il tipo di rapporto che instaura
con coloro che si prendono cura di lui, concorre a formare
nella mente l’idea di valere o di non valere, quindi, di
essere o non essere brutto!
I tipi di incuria possono essere sintetizzate, dalle più lievi
alle più gravi:
inversione dei ruoli (quando un figlio si trova a dover fare
da genitore ai propri genitori);
essere stati messi in secondo piano emotivamente (quando
un genitore pone i bisogni del figlio in secondo piano
rispetto ai propri);
abbandono emotivo (quando un genitore abbandona
emotivamente un figlio);
abbandono fisico (quando un genitore abbandona
fisicamente un figlio);
maltrattamenti (quando un genitore compie violenze lievi
o gravi, psicologiche o fisiche, su un figlio);
abusi sessuali e incesto (quando un genitore compie atti
sessuali o sevizie a sfondo sessuale su un figlio).
Tra parentesi è indicato un solo genitore e non entrambi in
quanto questi atti compiuti anche già da un solo genitore
hanno degli effetti gravi e creano immagini ed etichette
interiori; nell’elenco le violenze sessuali sono considerate
come più gravi rispetto a quelle fisiche poiché queste ultime
presentano, oltre all’aspetto della violenza, anche quello della
violazione dell’identità della persona e dell’offesa all’intimità
sessuale e hanno il potere di creare delle etichette di
fortissima svalutazione.
Bisogna considerare come queste incurie diventino delle
immagini in sé e per sé, e quindi la persona oltre a viverle
emotivamente, subendo le conseguenze psicologiche derivanti
da questo tipo di ferite emotive, vedrà diventare queste
esperienze delle vere e proprie immagini di se stessa che
andranno a costituire anche la base per la propria immagine
corporea, che la persona porterà con sé nella vita (se non
avrà l’aiuto di una persona adulta in grado di accogliere la
sofferenza, di sostenerla in modo protettivo e di aiutarla a
elaborare e metabolizzare quanto accaduto).
Per quel che concerne il discorso riguardante le etichette, il
familiare è uno dei luoghi per eccellenza dove queste sono
acquisite. Bisogna anche considerare che il familiare può
essere il luogo dove possono essere acquisite immagini molto
positive, cioè il luogo dove la persona può profondamente
immagazzinare immagini molto positive dell’identità di sé e
che queste immagini buone possono guidare la persona come
una base sicura d’identità per tutta la vita.
A ogni modo, come sarà ribadito più avanti nel corso
dell’esposizione, non esistono immagini tout court “buone” o
“cattive”: la funzionalità o la disfunzionalità di un’immagine o
di un’etichetta dipende da come questa è assimilata
nell’inconscio e a quali concetti questa si associa; l’aver subito
delle violenze, in sé e per sé cosa negativa, può anche arrivare
a essere una base forte per l’identità di una persona, laddove
queste immagini siano lette ed elaborate come un aspetto di
forza della persona che è riuscita a resistergli.
Un mio paziente, durante delle sedute di elaborazione di
varie violenze e ricatti che gli erano stati inflitti durante la
propria infanzia e adolescenza, una notte sogna se stesso nel
ruolo di “Rambo” (noto film interpretato dall’attore Sylvester
Stallone) che riesce a resistere a diverse torture inflittegli da
soldati nemici, e infine a salvarsi. In questo caso,
l’elaborazione delle immagini inconsce ha portato a fondare
un aspetto di forza e di stabilità della propria identità proprio
partendo da esperienze in sé e per sé negative, ma che,
metabolizzate nel giusto modo, possono fornire un aspetto
dell’identità sano, forte e funzionale. Viceversa, prima
dell’elaborazione, le violenze subite lo portavano a vedersi
storto, con la schiena storta, con le gambe brutte, in quanto la
sua mente aveva imparato a vedere se stesso e il suo corpo
come qualcosa che valeva poco, ed egli viveva ossessionato
dalla sua forma fisica, in quanto sentiva interiormente di non
valere, e questo sentimento si era trasferito sul suo corpo.
3. Le etichette del quotidiano
Sebbene le immagini interiori associate a vari aspetti di sé
si strutturino e si associno nel corso dello sviluppo infantile e
di tutta una vita, la mente ha una grande capacità di
assimilare ed elaborare nuove immagini, che scaturiscono dal
quotidiano e che possono andare ad aggiornare le immagini e
le etichette già contenute e “imparate”.
Per questo motivo anche le immagini apprese nel quotidiano
possono andare a influenzare e far sì che la mente impari un
certo modo di vedersi: assumono, per tanto, un’importanza
capitale le immagini assimilate ogni giorno dalla persona, che
possono confermare o disconfermare le già presenti
associazioni interne negative o positive di ognuno.
Per esempio:
avere una relazione affettiva disconfermante e negativa
può quotidianamente rafforzare l’immagine inconscia di
essere una persona che non è degna di essere amata;
fare un lavoro che non piace e che è sottopagato può
rafforzare l’immagine inconscia che si vale poco e che non
si è in grado di fare ciò che si ama;
farsi trattare male dagli altri e non fare niente per
modificare una certa situazione significa avallare
l’etichetta che non vede se stessi degni di stima;
rinunciare a un progetto ambizioso o a un sogno significa
rinforzare l’associazione inconscia di un’immagine di sé
d’essere una persona scarsa o che ha poche possibilità, e
che vale poco.
Si potrebbe fornire un elenco pressoché infinito di esempi di
questo tipo. Sotto un certo punto di vista, si può considerare la
giornata tipo di una persona e vedere che tipo di immagini
questa giornata fornisca all’inconscio: immagini confermanti?
Immagini disconfermanti?
Dalla sveglia mattutina fino alla buona notte, ogni persona
accumula una serie di immagini riconducibili a diversi ambiti:
visivo;
acustico;
sensoriale;
gustativo;
olfattivo;
relazionale.
Più in generale di tutto ciò che riguarda gli eventi della
giornata e dello svolgersi della vita.
Sotto un certo punto di vista, quando una persona riesce a
cambiare le proprie immagini ed etichette del quotidiano,
questo comporta già per la mente l’avvio di un processo di
modificazione profonda e può significare iniziare a vedersi
diversamente. Quando queste modificazioni sono positive,
molto spesso la persona inizia a percepire più bello
anche il proprio corpo: ci si sente, infatti, più sicuri, più
attraenti, più forti e conseguentemente anche più belli.
È da considerare, tuttavia, che alcune immagini profonde
sono radicate nella mente, e che queste, senza una specifica
elaborazione, sono a ogni modo molto difficili da elaborare e
da modificare, anche perché, nella maggior parte dei casi, la
persona non è consapevole, ma può al massimo riuscire a
percepirle appena, oltre il fatto che continua essa stessa a
usarle “quotidianamente”. Certe etichette, infatti, la mente le
vede come dei veri e propri assiomi e verità indiscutibili.
A ogni modo, il potere delle immagini quotidiane è costituito
dalla loro ripetizione nel tempo, e dal fatto che una ripetizione
a intervalli regolari (come può essere per l’appunto una di tipo
giornaliero), fissa sempre di più nel tempo le associazioni cui
sono legate determinate immagini: gutta cavat lapidem.
Per questo motivo, anche una psicoterapia ha effetti migliori
se condotta a intervalli regolari di tempo, e se questi intervalli
non sono troppo lunghi, visto che il processo terapeutico
consiste anche nella modificazione di alcune etichette della
mente con altre più funzionali.
Come può concretamente succedere che la mente impari a
vedersi brutta? Quali associazioni di immagini possono far sì
che la mente impari a vedere brutto il proprio corpo, che sia
nell’insieme o singole parti di esso, fino al punto che la
persona divenga ossessionata dalla propria immagine?
3
Imparare
a vedersi brutti

La mente impara a costruire una certa immagine e


considerazione del proprio corpo, allo stesso modo con cui
impara a costruire tutte le proprie conoscenze, così come da
bambini si impara a conoscere l’alfabeto.
Per insegnare l’alfabeto ai bambini, per esempio, a ogni
lettera si fa corrispondere un oggetto, così capita che la
lettera A sia raffigurata da un’Ape: in questo modo la mente
fissa la lettera “A” a una corrispondente immagine e a un
corrispondente suono fonetico. L’ape funge per la lettera “A”
proprio da etichetta: in questo modo la mente impara ad
associare un segno grafico, a un’immagine e un suono.
Si può immaginare che, per quel che riguarda la costruzione
del modo in cui si impara a vedere e a conoscere il proprio
corpo, valga lo stesso principio: per esempio, se prendiamo in
considerazione gli OCCHI, anche per questi la mente “impara”
le associazioni che sono proposte, positive o negative che
siano.
Un mio paziente, per esempio, a cui da piccolo era stato
detto che aveva ciglia “da femmina”, ebbe come reazione in
quell’età infantile di andare davanti allo specchio e di tagliarsi
completamente le ciglia con una forbice, cercando così di
cancellare nella mente (agendo sul corpo) quel tipo di
associazione che lui sentiva come negativa e dannosa.
L’attacco che aveva subito l’aveva messo evidentemente in
crisi, e la reazione infantile è ampiamente comprensibile. Lo
spunto interessante è come la mente “infantile” di bambino
avesse cercato di cancellare tale associazione agendo
direttamente sul corpo: per un bambino è, infatti, impossibile
mentalizzare i contenuti, e gli attacchi vanno direttamente sul
corpo!
Si può pensare che, nell’assimilazione di caratteristiche ed
etichette, esista una specie di alfabeto del corpo, e che la
mente impari questo alfabeto associando le varie immagini e
definizioni che impara attraverso la crescita mentale.
Nel caso precedente, si potrebbe dire “CIGLIA” come ciglia
“da femmina”. Ognuno di noi, quindi, ha nella sua mente una
serie di significati associati a ogni parte del corpo del tipo:
OCCHI come …
LABBRA come …
NASO come …
GAMBE come …
E così via.
In questo processo di apprendimento entrano in gioco i
meccanismi di distorsione precedentemente discussi, i quali
agiscono da interferenza così che, invece di associare
significati oggettivi e neutrali, se non positivi e gratificanti, si
possono creare associazioni negative che fanno sì che la
mente veda una certa parte del corpo come difettosa. Se una
certa idea si radica profondamente, la persona sarà convinta
di essere nel giusto nel vedersi in un certo modo, e porterà
con sé questa convinzione, fin al punto di vivere una vita di
tormenti interiori, oppure ricorrerà al chirurgo estetico per
farsi correggere questi “difetti” percepiti.
Può capitare che, per via di certi attacchi, diretti o indiretti
che siano, per colpa di certe definizioni ed etichette date da
altri a certe parti del corpo, la persona impari a vedersi
attraverso questi, così che certe parti del corpo appaiano alla
mente in un certo modo. Nella mia esperienza come clinico, mi
è capitato spesso di ascoltare le associazioni che le persone
avevano fatto con certe parti del corpo; per fare qualche
esempio.

PIEDI COME “BRUTTI”. La relazione di una mia paziente con il


marito era diventata molto conflittuale. Lui iniziò a dirle che
aveva dei brutti piedi, che erano sporchi, storti, che a lui non
piacevano. Lei cominciò a dubitare della bellezza dei suoi
piedi e del suo fascino (finché non si trovò un amante che
invece li apprezzava).

GAMBE COME “STORTE”. Da bambino, un mio paziente era


stato apostrofato da una vicina di casa avere le gambe storte
come quelle “dei calciatori”. Cominciò così a osservarle
attentamente e a vergognarsene. Quando successivamente gli
venne un bozzo su un ginocchio, andò a chiedere alla mamma
che cosa fosse, e lei rispose che era perché aveva le gambe
storte (quando in realtà era un normalissimo callo osseo). Si
convinse così ancora di più che le sue gambe fossero storte;
arrivò in consultazione che si vergognava perfino di
camminare per strada.

SENI COME “BRUFOLI”. Durante l’adolescenza, una ragazza era


stata presa in giro sulla crescita del suo seno, in quanto le era
stato detto che i suoi erano “due brufoli”. Crescendo il suo
seno era rimasto una taglia relativamente piccola, così si era
fissata nella sua mente l’idea di avere solo due piccoli brufoli,
il che l’aveva portata a un’operazione di ingrandimento del
seno. Dopo questa operazione, tuttavia, l’idea di avere due
brufoli le era rimasta, in quanto adesso la sua mente vedeva
due “grandi” brufoli! Fu così che mi chiese un consulto.

Chiaramente l’effetto delle distorsioni risulta essere più


grande rispetto a quanto una persona sia mentalmente ancora
in fase di sviluppo. Tuttavia, bisogna considerare che anche
nelle persone adulte questi possono avere un certo effetto,
talvolta un effetto più grande di quello che si possa pensare.
1. Quando i vissuti si trasferiscono sul
corpo
Può accadere che la mente inizi a vedere il proprio corpo
negativamente a causa di un senso generale di inadeguatezza.
In questo caso, i vissuti e le etichette negative che possono
influenzare come la mente vede il corpo sono quelli legati a
immagini che riguardano gli ambiti:
razziale;
nazionale;
sociale;
religioso;
familiare;
del quotidiano.
Un sentimento di inadeguatezza interiore, infatti, può dar
adito a un meccanismo di trasferimento, attraverso il
quale ciò che la persona percepisce come carente di se stessa
viene “spostato” sul corpo, così che la persona arriva a
disistimarsi e a percepirsi inadeguata non per alcune qualità di
cui si sente carente, bensì rispetto a qualità che ineriscono il
corpo stesso.
Spesso, infatti, chi si sente brutto ci si sente in quanto non si
sente sicuro di se stesso, e questa insicurezza si trasforma in
disistima corporea.
Il sentimento e il vissuto di sentirsi inferiori agli altri,
insoddisfatti di se stessi e con una bassa autostima, portano a
percepire il proprio corpo come brutto e indesiderabile, come
se per assimilazione le qualità inerenti alla persona
riguardassero anche il suo corpo. Questo, di fatto, avviene
perché la mente è portata a pensare l’identità della persona
mente/corpo come un tutt’uno: se io penso di avere una
“brutta identità” e di valere poco, la mente tenderà ad
assimilare tale valutazione anche perciò che riguarda il corpo
stesso.
Per questo motivo, molte persone che si vedono brutte
ricorrono dal chirurgo estetico, come se migliorare una parte
del proprio corpo potesse migliorare la stima che si ha di se
stessi. Di fondo ciò che c’è in gioco è proprio l’autostima della
persona. A ogni persona è capitato, in periodi poco felici della
vita, di avere come la sensazione di sentirsi meno belli del
solito, se non proprio poco piacevoli e non apprezzabili.
Una mia paziente, i cui genitori, per attaccarsi a vicenda,
l’avevano usata come strumento per la loro disputa, si era da
sempre sentita dire di essere brutta e di valere poco come il
padre, o di avere una brutta faccia proprio come quella della
madre. Aveva così coltivato negli anni della sua crescita una
profonda disistima di sé, e quando alcune vicende della sua
vita non erano andate come lei aveva sperato, soprattutto
nell’ambito lavorativo, i sentimenti profondi di disistima che
provava erano riemersi violentemente. Questo aveva
comportato che la depressione in cui era piombata dopo la
perdita di un lavoro, si era trasformata in una profonda
disistima corporea. Così non riusciva più a vedersi
normalmente, come le capitava precedentemente, bensì aveva
iniziato a nutrire dubbi su quanto fosse bella e brava, in
quanto nel presente si vedeva brutta e incapace. Iniziò a
coltivare un’ossessione per il suo volto, che vedeva storto e
poco piacevole, e quando usciva con gli amici trovava difficile
anche il solo parlare con gli altri.
Per fare un altro esempio basato sui vissuti quotidiani,
capitò che un ragazzo mi chiese una consultazione in quanto si
percepiva brutto, perché sentiva di avere un brutto naso, e
perché sentiva di essere come un piccolo “bignè”, mentre
vedeva gli altri come delle “torte giganti”, cioè pensava di
valere poco rispetto agli altri. Ciò che aveva messo in crisi la
sua identità era il suo vissuto quotidiano con la sua fidanzata:
questa, da molto tempo ormai, metteva in dubbio la loro
relazione, uscendo con un suo ex fidanzato, ed escludendolo
dalla sua vita in quanto gli diceva di sentirsi “soffocata”.
Questa relazione disconfermante l’aveva mandato in una crisi
profonda, tanto che quando mi chiese di aiutarlo gli era
rimasta ben poca stima di sé. La sua relazione aveva scalfito
la sua autostima, dal momento in cui egli aveva accettato
questa modalità insana di relazione.
La percezione dell’immagine fisica di una persona è un
concetto molto relativo, e mai come in questo campo vale il
detto latino de gustibus non disputandum est. Molti attori,
per esempio, hanno fatto della loro “particolarità” e della loro
“simpatia” il proprio punto di forza, e nessuno potrebbe, per
esempio, immaginare la verve comica di un Woody Allen, se
questo fosse stato un “belloccio palestrato”.
Nella storia individuale di ogni persona, possono mescolarsi
diversi meccanismi e vissuti. Effettivamente le variabili che
entrano in gioco sono molteplici, e solo accettando una visione
complessa e multifattoriale dei fenomeni si possono
comprendere profondamente. Dire che le persone in generale
si vedano brutte per un solo motivo, sarebbe un’affermazione
falsa e pretenziosa. Le storie individuali e le variabili
solitamente si mescolano creando tante storie uniche e
irripetibili, che vanno comprese caso per caso. Per questo
motivo può essere utile presentare alcuni esempi che
racchiudano differenti meccanismi e vissuti.
2. Naso come “nasone”
Nonostante sia all’apparenza un bel ragazzo e sia benvoluto
dalle ragazze, che lo cercano e che si innamorano di lui, non
riesce mai di smettere a pensare al suo naso. Gli sembra
grosso, ingombrante, storto e soprattutto gobbo. Questo
pensiero lo assilla quando mi chiede una consultazione. Ha
venticinque anni, e non riesce a godersi le serate con gli amici
e quando si trova a corteggiare una ragazza si fa sempre
venire mille dubbi. La questione del naso è un brutto affare,
più volte ha pensato di ricorrere alla chirurgia estetica, ma
dopo aver sentito che alcune operazioni hanno avuto esiti
negativi, ha preferito prima consultare uno psicoterapeuta.
Molto interessante con questo paziente è stato ricostruire la
storia del suo “naso”. Anche se può sembrare assurdo, infatti,
ogni naso ha una sua storia.
Quando genitori si sono separati, ognuno di loro ha trovato
un nuovo compagno.
Il nuovo compagno di sua madre era molto geloso dell’ex
marito, così soleva rifarsi su di lui. Compiendo quindi un
attacco indiretto, per squalificare il padre, lo attaccava in
vari modi, tra i quali soleva farsi “beffe” del suo naso. “Certo
ti sta venendo una bella gobba!” (in questo modo si rifaceva
sul figlio della gelosia che sentiva nei confronti dell’ex marito).
Anche la nuova compagna del padre non era da meno. Una
volta l’aveva sentita dire che da bambino era molto più bello,
mentre crescendo si era proprio imbruttito.
Questi attacchi e squalifiche che aveva subito, si erano
insinuate nella sua mente, tanto che non poteva fare a meno di
vedere il suo naso come un macigno e un ostacolo alla sua
bellezza. Era divenuto insicuro in diversi campi della sua vita,
e quando qualcuno faceva battute sul suo naso (per
squalificarlo e metterlo in difficoltà) lui ci stava malissimo, in
quanto prendeva quelle parole come una verità assoluta che
gli veniva sbattuta in faccia (o meglio, sul naso).
Il colpo di grazia fu quando al liceo alcuni compagni lo
etichettarono come “nasone” per prenderlo in giro. Egli non si
ribellò a tale soprannome, anzi lo accettò passivamente, e
questo contribuì ancora di più a creare nella sua mente una
certa immagine del suo naso. Ogni volta che guardava il suo
naso si sentiva male, e cercava di evitare il più possibile di
guardarsi nello specchio. Questa etichetta terribile che gli era
stata data gli era profondamente entrata nella mente, e non
trovava più il modo di liberarsene.
Ricostruendo attraverso un lavoro clinico la storia del suo
naso, fu possibile per lui accedere ai significati che la sua
mente aveva imparato, e che lui stesso nel tempo aveva come
dimenticato, in quanto li dava inconsciamente per scontati. Fu
una rivelazione farsi tornare alla memoria questi episodi, e
l’elaborazione di questi fece in modo che la sua mente piano
piano disimparò questi significati per associarne ad altri più
positivi. Anche l’analisi dei meccanismi di attacco, di quelli di
etichettamento e dei vissuti familiari che li avevano generati,
lo aiutò a collocare i significati nel giusto modo.
Prima di tutto comprese il significato degli attacchi che gli
erano stati portati: questi erano attacchi che avevano come
base gelosie e invidie da parte degli altri, che avevano dato
sfogo alla propria rabbia usando lui come “schermo”. Il suo
naso, infatti, non era mai stato in realtà un problema, e questo
lo dedusse dal fatto che era stato con ragazze e nessuna di
queste se ne era mai lamentata. Anzi, molte trovavano che il
suo naso conferisse una forte personalità al suo volto. Coloro
che l’avevano attaccato avevano voluto trasferire su di lui i
loro vissuti di impotenza e di svalutazione, attraverso il
meccanismo della proiezione. Capì che la sua mente aveva
costruito un’immagine basandosi su queste etichette, così fu in
grado da adulto di ricostruire una sua immagine del suo naso,
vedendolo con “i propri occhi”.
Quello che successe fu che la sua mente disimparò a
vedere il suo naso attraverso le esperienze, gli attacchi e le
etichette che gli erano stati dati dagli altri, bensì riuscì a
costruire una nuova immagine con nuovi significati. Alla fine
del processo terapeutico non aveva più nessuna intenzione di
ricorrere alla chirurgia estetica, bensì voleva proprio tenersi
il suo naso “ritrovato”.
3. La figlia del “califfo”
Alla prima consultazione B. si presenta dicendo di sentirsi
brutta e storta. Ha comprato delle scarpe nuove, ma le vede
troppo lunghe e pensa che non vadano bene, le sembra di
essere la “figlia del califfo”.
In realtà, ascoltando la sua storia, è stata sempre una
donna molto richiesta, e adesso che ha trent’anni continua a
esserlo. Si vede però negativamente, ricorre spesso alle
lampade e a piccoli interventi di chirurgia estetica, per
modificare difetti che non può proprio tollerare. Il suo vedersi
brutta la sta pesantemente condizionando, in quanto la sua
insicurezza spesso le crea dei problemi nel relazionarsi con gli
altri e nel costruire rapporti che siano duraturi.
Il suo vedersi brutta sembra provenire dai suoi vissuti
familiari: il padre e la madre si separarono prima che lei
nascesse, e subito dopo ebbero nuovi partner e altri figli. Lei
si trovò così come a non appartenere a nessuna delle due
famiglie, in quanto si era sentita da sempre come un ospite
indesiderato.
In fondo chi era lei rispetto alle nuove famiglie che si erano
create? Il suo vissuto era proprio quello di essere “la figlia del
califfo”, cioè come una figlia di “nessuno”. Crescendo con
quest’idea nella mente, e sentendosi poco amata per via di
altre vicissitudini familiari, la sua autostima ne aveva
pesantemente risentito. L’idea di non essere stata voluta e
apprezzata si era profondamente radicata nella mente, fino a
creare un’etichetta molto pericolosa.
Non apprezzandosi, nel tempo aveva finito per sentirsi e
vedersi brutta, e nonostante fosse stata una ragazza richiesta
e corteggiata dai ragazzi, tutto questo non era bastato a
modificare l’etichetta che si era creata nella sua mente.
Effettivamente, questo è l’effetto che le etichette hanno
sulla mente: si fissano e si radicano in profondità, e la mente le
prende come degli assiomi. Paradossalmente (ma non troppo)
le esperienze positive che la persona vive sembrano non avere
nessun effetto trasformativo rispetto all’idea originale, e la
persona può vivere le esperienze positive come doni della dea
bendata, piuttosto che come risultati che si basano su
caratteristiche positive. B. aveva pensato nel tempo che
avesse avuto molti corteggiatori solo per dei casi fortunati, e
che comunque ogni donna avesse molti corteggiatori, magari
anche più di lei.
Nella sua mente si vedeva come “la figlia del califfo”, o
meglio una delle figlie del califfo, non voluta e non desiderata,
e quest’etichetta aveva avuto un effetto devastante sulla sua
autostima. Ricostruendo la sua storia fu possibile per B.
riuscire a comprendere il trasferimento sul corpo che lei
aveva fatto dei suoi vissuti familiari, e in che modo questo
l’aveva portata a vedersi brutta nonostante tutte le evidenze
dicessero che non lo fosse.
Il problema è che la mente non è in grado di osservare se
stessa, per cui se la mente opera un meccanismo di
trasferimento, non può accorgersi di starlo facendo. Per la
mente la visione del corpo che ha è la visione giusta e
inconfutabile. Per questo motivo quando si entra in certi
meccanismi non è poi semplice uscirne. Allo stesso modo
funziona, rispetto ai vissuti corporei, l’anoressia mentale,
seppure le dinamiche che la scatenano siano di fondo differenti
da quelle che si stanno trattando in quest’opera.
La mente ha effettivamente un potere immenso, ed è in
grado di decidere la visione che ha del corpo così come di
molti altri aspetti della vita. Per questo motivo, a volte è
meglio avere dubbi piuttosto che certezze, in quanto un
rischio che corre ogni persona è quello di rimanere
intrappolata nella visione autodeterminata che la mente fa
del mondo, di se stessi e del proprio corpo. Un aiuto esterno,
in molti casi, ha proprio la funzione di cominciare a contestare
alcuni assiomi che la mente dà per certi e che non pensa di
dover sottoporre a una certa critica. Quello che subisce la
mente di fatto è un vero e proprio autoinganno, che alcuni
autori hanno chiamato “sguardo ingannato”, quando cioè la
mente vede ciò che vuole vedere, e fa di tutto per evitare di
vedere ciò che non vuole o che desidererebbe non vedere.
4. Vedere la “macchia”
Quando da bambina indossa il suo vestito migliore, il
commento del padre è che “sul vestito c’è una macchia”. È
così che C., ormai divenuta una donna adulta, ha imparato a
vedere il suo corpo, se stessa e il mondo: è sempre alla
ricerca della “macchia”, del difetto, e il suo atteggiamento
ipercritico condiziona pesantemente il suo modo di vedere se
stessa e il mondo.
Questo le causa una grande ansia, in quanto vede sempre il
negativo delle cose, e oltretutto raramente riesce a percepire
il positivo delle situazioni che sta vivendo, e anche il rapporto
con il proprio corpo ne risente, in quanto non lo ama e non si
ama, quindi non riesce a cogliere le occasioni che le capitano
nella vita.
Spesso la visione di un familiare, o la visione che la famiglia
ha del mondo può condizionare in modo molto profondo il
modo in cui si guardano le cose: è come avere un paio di
occhiali rossi, attraverso i quali tutto il mondo sembra rosso.
In questo caso specifico, è per C. come avere un paio di
occhiali con sopra una “macchia”, attraverso i quali ogni cosa
che viene osservata risulta avere una macchia sopra.
Attraverso un percorso di autocoscienza C. riesce a rimuovere
questa macchia dai suoi occhiali, così che può vedere se stessa
libera da questo condizionamento mentale.
Nell’esempio qui proposto sembra essere un gioco un
meccanismo di proiezione: il padre di C. proietta il proprio
modo negativo di vedere il mondo, così invece di lodare la
figlia per il suo bel vestito, riesce a coglierne solo la macchia.
Questa proiezione ha un potere molto svalutante, soprattutto
poiché C. è ancora una bambina.
Nell’età infantile è impossibile cogliere le proiezioni altrui,
in quanto la mente infantile non ha la capacità di pensiero per
poter compiere una simile analisi. Nel mio lavoro clinico mi
capita molto spesso di ascoltare storie simili: in un altro caso,
una paziente, quando nella sua adolescenza aveva indossato il
suo vestito della cresima, il commento del padre era stato
“che gambe storte che ti fa quest’abito!”. Questi aspetti
proiettivi sono molto pericolosi, in quanto rimandano
un’immagine negativa e svalutata, che l’inconscio assorbe e
che porta con sé nel tempo. Spesso queste persone sentono di
non valere, di essere brutte, di non meritare niente nella vita,
e finiscono per accettare le situazioni più assurde. L’autostima
bassa le rende vulnerabilissime agli attacchi altrui, e il senso
di svalutazione interiore comporta spesso sentimenti
depressivi profondi. Finiscono così per entrare in un circolo
vizioso di disistima psicofisica dal quale sentono che uscire sia
impossibile.
5. La scelta del bersaglio

Perché a volte si verificano attacchi a una certa parte del


corpo, mentre in altre circostanze sono altre parti del corpo
a essere attaccate?

Negli esempi proposti finora, effettivamente, le parti del


corpo soggette di attacchi da parte degli altri, oppure sulle
quali la persona concentra la propria attenzione (e disistima)
sono state di tipi molto diversi tra di loro. Questo non vuol dire
che esista una parte di casualità in tutto ciò: a tutto questo
esiste, di fatto, una spiegazione ben precisa, che segue regole
di causalità.
Il motivo è che ogni parte del corpo rappresenta
simbolicamente un qualcosa, che la persona decide di
attaccare quando questo attacco va simbolicamente a colpire
l’altro rispetto a una specifica caratteristica.
Allo stesso modo, anche quando la persona trasferisce sul
proprio corpo dei vissuti di disistima, la scelta delle parti non è
mai casuale. Prendendo in considerazione un caso esposto
precedentemente, il fatto che B. pensasse di avere dei brutti
piedi (delle brutte scarpe) e una faccia che non le piaceva,
aveva di fatto un significato ben preciso che adesso andremo a
capire.
Per iniziare a comprendere questo fenomeno, forniamo
come esempio una parte del corpo specifica che può essere
soggetta ad attacchi altrui. Nello specifico prendiamo in
considerazione gli attacchi che, molte volte, sono rivolti alla
capigliatura altrui.
Nel simbolismo della storia dell’uomo e della mitologia, i
capelli rappresentano la parte vitale e la forza dell’uomo.
Come per gli animali, infatti, questi rappresentano il pelo, o la
criniera, segno di salute e di forza. Perdere i capelli è un
segno associato solitamente alla malattia o alla debolezza:
come nel mito biblico di Sansone, la cui forza si trovava nelle
sette trecce dei suoi capelli, e che una volta tagliati videro il
personaggio ritrovarsi senza forze. La terribile Medusa aveva
i capelli fatti di serpenti, che simboleggiavano la sua forza
demoniaca, che le veniva dal male, e non è un caso se i
Pellerossa d’America così come molte altre tribù, solevano
togliere ai nemici il loro scalpo, in segno di vittoria.
Il simbolismo e il concetto moderno riguardo ai capelli è in
parte diverso rispetto a quello dell’antichità e che nel corso
dei secoli della storia umana ha contraddistinto le varie civiltà;
tuttavia, anche oggi si spende molto tempo e denaro per
decorare i propri capelli, che rappresentano la cornice del
volto. Attualmente tra gli uomini è diffusa la moda di portare i
capelli rasati a zero, che non sono considerati un segno di
mancanza di forza, anzi, un look ricercato e apprezzato da
molte persone.
A parte le mode che possono essere passeggere e fare
parte di movimenti culturali e sociali in continua
trasformazione, questo non toglie che il significato simbolico
profondo dei capelli rimanga, cioè quello associato a un’idea di
forza e di potenza. Questa considerazione è molto importante
in quanto, rispetto all’immagine che una persona può
sviluppare dei propri capelli, bisogna considerare quanto
l’idea simbolica di fondo possa incidere.
Partiamo da una prima considerazione:

come mai persone calve, per esempio, vivono bene questa


loro condizione, mentre altre entrano in una profonda crisi
quando vedono che stanno perdendo i loro capelli?

Questo ha spesso molto a che fare con la storia che ogni


persona ha interiorizzato sui propri capelli, e sull’immagine
che la mente ha di questi.

Spesso un attacco rivolto ai capelli ha a che fare con il


tentativo di togliere forza alla persona, un po’ come per
Sansone il taglio dei capelli comportò la perdita delle proprie
forze.

M. è un ragazzo molto intelligente, che si presenta presso il


mio studio per via delle sue insicurezze. Nonostante le sue
grandi capacità cognitive, la sua autostima è sempre stata
molto bassa. Da qualche tempo, come per i maschi della sua
famiglia, i suoi capelli si stanno diradando, e seppure questo
non comporti nessun effetto esterno, in quanto riesce sempre
a far colpo sulle donne e nessuno abbia notato questo
cambiamento impercettibile (avendo sempre portato i capelli
molto corti) sta vivendo questo evento come una tragedia.
Alcuni compagni di università, invidiosi dei suoi eccellenti
risultati, essendo il primo del suo corso, da qualche tempo
hanno iniziato ad attaccarlo usando come bersaglio i suoi
capelli, cercando così di svalutare il suo valore e la sua forza.
Quando hanno capito che i capelli sono il suo punto debole,
questi hanno iniziato a canzonarlo pesantemente. M. ha alle
spalle una separazione molto conflittuale dei genitori, nella
quale è stato spesso bersaglio di attacchi indiretti da parte di
entrambi, per i quali ha molto sofferto e che ha pesantemente
condizionato la sua autostima. In questo momento della sua
vita, dove si avvia a un futuro brillante come uomo e come
professionista, la perdita dei capelli sta mettendo in crisi la
sua autostima e l’immagine che lui ha di se stesso, riportando
a galla tutte le sue insicurezze; i suoi compagni di corso
attaccano la sua forza, in quanto, non reggendo il confronto
su un piano intellettuale, tentano di smontarlo su un piano
emotivo.
T. è un uomo brillante, che si avvia verso una fase matura
della sua vita, affrontando le sfide della sua età con coraggio e
con forza, caratteristiche che lo hanno sempre
contraddistinto. Qualche capello bianco inizia a colorare la
sua folta chioma, segno che sta entrando in un’età matura
della sua vita. Amici e familiari non perdono occasione per
fargli notare questo evento, prendendolo in giro e deridendolo,
e chiedendogli perfino se possono strappargli quei capelli
bianchi perché non possono vederlo così! I capelli bianchi, che
rappresentano un aspetto di crescita e di maturità, nonché un
segno di passaggio verso un’altra fase della vita, non sono
tollerati dagli altri che vorrebbero che rimanesse un eterno
bambino e che temono profondamente che diventi più “grande
e forte” di loro. Egli, che, inizialmente detesta i suoi capelli
bianchi e ne soffre, impara a riconoscere gli attacchi altrui, e
ad apprezzare il significato profondo che i capelli bianchi
hanno per lui, come portatori di saggezza e di maturità.
Riconosce altresì come gli altri “temano” la sua crescita, e che
stiano usando il pretesto dei capelli bianchi per svalutarla,
designandolo non come “adulto”, bensì come “povero
vecchio”.
È interessante notare come per ogni persona si possa
comporre una storia di una certa parte del corpo. Nella
crescita e nei vissuti infantili spesso si può rintracciare come
la mente abbia creato e associato una certa immagine a una
certa parte del corpo. È importante sottolineare come ogni
parte specifica rappresenti un simbolo: i capelli sono simbolo
di forza, e non è un caso se spesso attacchi ai capelli
sottendano un qualche tipo di attacco alla forza dell’altro.
Così, una persona che porta i capelli lunghi può essere
additato come “capellone”, una persona calva può essere
soprannominato “il pelato” o “il boccia” che dir si voglia; chi
porta una frangetta può essere chiamato “frangettina”, o
“frangettone”. Questo testimonia come sia possibile poter
portare un attacco a qualcun altro sfruttando qualsiasi
caratteristica questi abbia. Questo accade in quanto l’attacco
è usato per ferire l’altro, e non la parte in sé, che per ognuno
di noi è unica e irripetibile, con sue proprie caratteristiche.
Insomma, chi vuol portare un attacco spesso sfrutta ogni
occasione a disposizione.
È interessante notare quanto sia importante per una donna,
per esempio, che gli altri si accorgano della sua nuova
acconciatura. Una nuova acconciatura significa anche un
nuovo modo di essere, e rappresenta una ferita per qualunque
donna non essere considerata: un attacco può essere portato
anche non prendendo in considerazione l’altro.
Attaccare i capelli significa attaccare la personalità e la
forza della persona. Spesso mi è capitato di ascoltare la frase
“ma dove vai con questi capelli?” riferitami da racconti di miei
pazienti nei loro confronti. Tutto ciò può contribuire a creare
un vero e proprio complesso dei capelli, soprattutto laddove vi
sia una storia di bassa autostima alle spalle, quando la
persona non è in grado, attraverso il proprio pensiero, di
respingere gli attacchi altrui e di elaborarli nel loro significato
più profondo.
Andiamo a considerare il significato simbolico anche delle
altre parti del corpo, e i motivi profondi per i quali si
subiscono attacchi contro parti differenti.
6. Il simbolismo del corpo
Passiamo a esaminare quale può essere il simbolismo legato
alle varie parti del corpo umano.
CAPELLI. Come esaminato nel paragrafo precedente, i
capelli rappresentano la forza di una persona. Una
svalutazione dei capelli ha spesso a che fare con una
diminuzione nell’autostima rispetto alla forza che la
persona sente di avere.
OCCHI. Rappresentano l’anima della persona, come
anticamente si rappresentavano le popolazioni primitive.
Svalutare lo sguardo di una persona significa togliere la
potenzialità seduttiva di questa e la sua capacità di
entrare in contatto con gli altri, nonché svalutare la sua
intera personalità. Gli occhi di Medusa hanno il potere di
pietrificare, così come il potere seduttivo degli occhi può
conquistare gli altri. Spesso la personalità viene
trasmessa attraverso gli occhi, per questo motivo si parla
di “sguardo magnetico”. Un attacco agli occhi è un attacco
che tenta di ridurre l’intera personalità della persona.
SOPRACCIGLIA E CIGLIA. Rappresentano un’espressione della
mascolinità e della femminilità, e fanno da cornice agli
occhi stessi e alla capacità di questi di guardare il mondo.
Sentirsi svalutati rispetto alle sopracciglia e alle ciglia ha
a che fare con un depotenziamento del proprio potenziale
seduttivo e sensuale, nonché sessuale.
NASO . Si colloca al centro del viso, ed è l’organo deputato
alla funzione olfattiva, quindi alla capacità si sentire e
percepire gli altri. È simbolo dell’intuito, della capacità di
entrare in contatto con gli altri attraverso gli istinti. Per
gli animali, per esempio, il naso svolge un ruolo
importantissimo, in quanto rappresenta la capacità di
orientarsi nell’ambiente. Una svalutazione del naso ha
spesso a che fare con un attacco alla capacità dell’altro di
saper scegliere e valutare ciò che è importante nel
mondo. Per questo motivo si suole dire “ha naso negli
affari”, cioè è in grado di comprenderli e di orientarsi.
Sentire di avere un brutto naso può equivalere a sentire
debole la propria capacità di cavarsela nella vita. Quando
le persone chiedono interventi estetici per modificare il
proprio naso, spesso soffrono di qualche difficoltà di
adattamento all’ambiente, alla vita stessa o rispetto alla
loro identità.
FACCIA. Simboleggia l’identità di una persona. Un attacco
al volto è un attacco diretto all’individuo nella sua unicità
e alla sua personalità complessiva. Gli attori nel teatro
greco e latino usavano delle maschere per amplificare la
personalità del ruolo che stavano recitando. La parola
persona deriva proprio dalle parole latine per sona, che
significa “attraverso i suoni”, in quanto dalle bocche delle
maschere uscivano amplificati i suoni che gli attori
usavano per dare vita ai loro personaggi e alla loro
personalità. Spesso un attacco al volto altrui vuol proprio
rinnegare l’identità della persona stessa. Basti pensare a
molti epiteti che si usano per apostrofare gli altri rispetto
al loro volto per comprendere come questi abbiano
l’intenzione di “distruggere” l’altro.
BOCCA. Rappresenta la capacità di entrare in contatto con
il mondo e simbolicamente rappresenta le sensualità e la
sessualità, e anche la capacità affettiva di una persona: i
baci si danno con la bocca. Un attacco alla bocca significa
una svalutazione all’affettività altrui, della sua capacità
emotiva e affettiva. Per questo motivo molte persone
ricorrono alla chirurgia estetica, come cercando di
evidenziare la loro capacità affettiva e sessuale verso gli
altri, cioè la loro capacità di entrare in contatto con
l’altro. La bocca è anche l’organo dal quale esce la voce
della persona, per cui svalutare la bocca altrui significa
togliere importanza alla sua voce, cioè a ciò che la
persona pensa e crede.
ORECCHIE. Rappresentano l’organo deputato all’ascolto
dell’altro. Un attacco alle orecchie ha spesso a che vedere
con la capacità dell’altro di ascoltare e di sentirsi
ascoltato.
COLLO . Rappresenta il ponte tra il cuore e il cervello, zona
di conflitto tra il razionale e l’emotivo. Per questo motivo è
legato all’immagine di sensualità e seduzione, di
tentazione e di timore. Una svalutazione del collo significa
una svalutazione della capacità dell’altro di tentare se
stesso e gli altri, di saper collegare le emozioni e la
ragione.
BRACCIA. Rappresentano la capacità di entrare in contatto
con l’altro, di abbracciarlo di tenerlo a sé. Dopo che una
mia paziente aveva lasciato un uomo che la faceva
soffrire, questo le disse che aveva le braccia “tutte con la
pelle cadente”. Ella ci rimase malissimo e si fece venire
dei dubbi sulla propria bellezza e sulla propria capacità di
potersi relazionare con gli altri. In realtà quest’attacco
era una proiezione sull’altro dell’incapacità di quest’uomo
di tenere una persona a sé: era stato lui, infatti, con il suo
comportamento, che aveva spinto lei a lasciarlo.
MANI. Sono la parte del corpo con la quale tocchiamo gli
altri, e con la quale lavoriamo. Rappresentano la capacità
di fare e di toccare l’altro. Una svalutazione ha spesso a
che fare con un senso di incapacità e di impotenza
lavorativa e affettiva. Chi autosvaluta le proprie mani
spesso non crede in se stesso e nella propria capacità di
fare e di relazionarsi con gli altri.
SENO . Rappresenta la femminilità. Molte donne ricorrono
alla chirurgia estetica quando interiormente non si
sentono sicure della propria femminilità. Un attacco al
seno ha sicuramente a che fare con l’identità femminile di
una donna. Il seno rappresenta anche l’elemento nutritivo
che la donna porta con sé: le ghiandole mammarie, infatti,
possono creare il latte che è un elemento che dà la vita.
Può capitare che donne che sentono di avere poco da dare
agli altri e alla vita sviluppino un vero e proprio complesso
del seno, trasferendo su di questo i propri sentimenti di
inutilità e di inadeguatezza. “Rifarsi” il senso allora può
significare simbolicamente come cercare di “riparare” la
loro capacità di essere creative e nutritive, nonché di
poter essere desiderate e amate.
PETTO . Rappresenta per gli uomini il potenziale virile. Una
svalutazione di questo a che fare con l’aspetto della virilità
e della potenza. Molti uomini soffrono di un complesso
rispetto al petto, e spesso questo prende le sue basi da un
vissuto di non essere virili e di non avere una buona
autostima. Esistono molte forme per il petto (così come
per i seni) e il vedersi belli o brutti spesso dipende dai
vissuti personali più che dalla forma in sé. A un mio
paziente a cui da piccolo avevano detto che aveva il petto
del “ciabattino”, si era fissata nella mente l’idea di essere
brutto e di non valere, cosa che l’aveva messo in difficoltà
rispetto alla sua relazione con le donne (per via di questo
etichettamento).
PANCIA. Rappresenta la capacità emotiva di entrare in
contatto con l’altro e con le emozioni proprie e altrui. Per
le donne rappresenta anche la capacità di poter generare.
Attaccare l’altro rispetto alla propria pancia, significa
svalutarne l’altrui capacità emotiva e affettiva. Spesso
questi attacchi sono portati da persone algide e con
difficoltà affettive, che invidiano chi invece ne è in
possesso.
ORGANI SESSUALI. Rappresentano tout court la sfera
sessuale della persona. Molti epiteti, non a caso, prendono
di mira l’aspetto sessuale altrui. Una svalutazione di
queste parti ha a che fare con l’aspetto della potenza
sessuale e dell’identità della persona.
GLUTEI. Rappresentano la capacità seduttiva di una
persona. Una svalutazione di questi ha a che fare con il
potenziale seduttivo.
GAMBE. Rappresentano la parte del corpo che porta nel
mondo, nonché, soprattutto per le donne, la loro capacità
seduttiva. Un attacco alle gambe ha a che fare con il
tentativo di togliere all’altro il suo potenziale di poter
andare nel mondo, cioè il suo potenziale esplorativo,
nonché il suo potenziale di mostrarsi agli altri. Ascolto
spesso storie cliniche nella quali sono portati attacchi alla
gambe: questo ha a che fare con un aspetto di proiezione
dell’incapacità altrui di “andare” per il mondo, nonché con
una svalutazione della capacità di attrarre gli altri.
PIEDI. Rappresentano la sensualità e la tenerezza. Quando
qualcuno svaluta i piedi dell’altro sta svalutando la sua
capacità di poter camminare nel mondo, di poter essere
sensuale e di conquistare gli altri, nonché la sua
personalità.
La svalutazione di diverse parti del corpo può avvenire in
due modi principali:
un attacco esterno, quando qualcuno vuole sminuire una
caratteristica dell’altro;
un’autosvalutazione interiore, laddove la persona sente
alcune sue caratteristiche come carenti e tende a
trasferire sul corpo tali sentimenti.
I prossimi due paragrafi prenderanno in considerazione e
approfondiranno ulteriormente queste due possibilità, che
portano la persona a vedersi brutta e indesiderabile, e che
fanno sì che la mente veda il corpo in un certo modo.
7. Come mai si subiscono attacchi alla
propria immagine fisica?

Come mai si subiscono attacchi dall’esterno?

Le ragioni sono molteplici, per semplicità, tuttavia, si


possono sintetizzare in due i motivi per i quali una persona
attacca un’altra:
motivi individuali (personali);
motivi relazionali (cioè che fanno parte di un sistema
relazionale).
I motivi individuali, spesso si basano su meccanismi di difesa
della persona, che diventano dei veri e propri meccanismi di
attacco verso l’altro. Questo accade, per esempio, quando una
persona, per via di alcuni suoi limiti individuali, proietta
all’esterno tutta una serie di proprie caratteristiche che lei
stessa non accetta, e, quindi, per il meccanismo di difesa della
proiezione, usa l’altro come fosse uno schermo, attribuendogli
tutta una serie di proprie caratteristiche che non accetta e
che non vuole.
Così, chi ha dei complessi d’inferiorità, per esempio, non
tarderà a cercare di proiettarli all’esterno, cercando di
sminuire chi ha di fronte, al fine di non doversi confrontare
con la sua inferiorità. Saranno così gli altri a essere “storti”,
“brutti”, senza qualità.
Questi meccanismi possono essere osservati di continuo,
quando l’identità di una persona mette a rischio quella degli
altri. Per questo motivo le persone sono così rapite
dall’invidia e dalla gelosia, perché ciò che c’è in gioco
profondamente è l’identità inconscia e le immagini che sono la
base per la mente per la valutazione di se stessi. Non è poi
tanto difficile vedere in opera questo meccanismo: basta
mandare all’esterno un’immagine confermante di se stessi, e
subito si attiveranno le immagini inconsce degli altri, e da
questa interazione usciranno:
conferme, laddove le immagini positive inviate si
rispecchieranno in altre immagini positive;
disconferme, laddove le immagini positive inviate si
rispecchieranno al contrario in immagini negative.
Inviando all’esterno, invece, immagini negative, le risposte
potranno essere:
sentimento di pena (adulto) o godimento narcisistico
(infantile), quando le immagini negative inviate incontrino
immagine positive;
compatimento e consolazione (adulto) o scherno
(infantile), laddove le immagini negative inviate incontrino
altre immagini negative.
Questo semplice processo comporta tutta una serie di
rispecchiamenti positivi e negativi che confermano o meno la
propria immagine e quella degli altri, quasi a provocare quello
che si potrebbe chiamare un confronto inconscio di
immagini, nel quale ogni persona modula la propria identità
rispetto alle altre che ha di fronte. Ciò che si è, e ciò che si
racconta agli altri di essere, provoca sempre una di queste
quattro reazioni.
Bisogna considerare, tuttavia, che oltre a questo, il
meccanismo di difesa della proiezione fa si che una persona
proietti una propria parte indesiderabile su un’altra, trattando
l’altro come se fosse un vero e proprio schermo “bianco”. Se
una persona è depressa, per esempio, e riconoscere questo di
se stessa la mette in crisi per motivi di equilibrio interiore,
ecco allora che chiederà a una persona che si trova lì vicino se
è depressa, perché la vede “un po’ giù”. Allo stesso modo,
banalmente, accade che chi abbia fame e veda qualcosa di
buono in una vetrina di un negozio, chieda a chi ha accanto se
la vuole mangiare. Finché queste proiezioni sono innocue,
come nell’ultimo esempio, all’altro non accade niente di male,
quando invece queste proiezioni sono negative, allora
diventano un vero e proprio attacco all’identità altrui.
Individualmente, proiezioni o confronti tra immagini
positive/negative possono avvenire su diversi piani e livelli.
Questi attacchi, infatti, possono essere diretti all’identità
sociale, etnica, nazionale, religiosa, familiare, personale e
anche ad altri aspetti, quindi hanno un campo d’azione molto
ampio.
Per fare un esempio macroscopico, il razzismo è un
meccanismo che si basa su una squalifica dell’altro a
vantaggio della propria identità. Spesso il razzista, infatti,
invidia e teme l’identità altrui e cerca di controllare questo
suo timore e paura inflazionando negativamente l’immagine
dell’altro, ossia riducendolo, rendendolo piccolo, brutto e
svantaggiato. Rimpicciolendo l’altro, infatti, si cerca di
ristabilire la forza della propria identità (che profondamente
si percepisce debole) a detrimento degli altri. Anche il
bullismo si basa su questo meccanismo, in quanto il bullo,
attaccando l’altro verbalmente e fisicamente aumenta la
propria autostima a discapito di quella dell’altro. Chi non ha
paura, solitamente non attacca l’altro, poiché non ha bisogno
di dimostrare niente né all’altro né a se stesso.
Questi meccanismi sono evidenti nell’uso che gergalmente si
fa dei cosiddetti epiteti o “parolacce”, dove le metafore usate
rendono bene l’idea di come si cerchi di squalificare
l’immagine altrui. Così se si vuole attaccare l’altro nella
propria identità sessuale (aspetto molto importante e intimo
della persona), si avranno a disposizione molti modi di dire
inventati a tal guisa. Tutte le parolacce effettivamente vanno a
designare l’altro con un’immagine negativa, come, per
esempio, un “escremento”, oppure vanno ad attaccare gli avi
(l’aspetto familiare) che non ci sono più, o ancora l’etnia, la
religione, la razza e anche molto altro.
Alcune persone proiettano proprie qualità negative e propri
sentimenti inaccettabili sugli altri, tanto che questi
proiettatori professionisti riescono a far passare l’altro per
quello che non è, finché l’altro, se arriva a crederci, inizia
anche lui a sua volta a proiettare sugli altri. Questo
meccanismo può espandersi come un vero e proprio virus,
finché qualcuno non lo ferma.
Tuttavia, nonostante tutte le proiezioni che possano essere
fatte, le immagini interiori delle persone rimangono quelle che
sono, e nessuno è privato dei propri tormenti interiori, solo
sono distribuiti a chi inconsciamente li accetta, non riuscendo
a decodificarli e neutralizzarli.
Personalmente passo molto del mio tempo come clinico a
lavorare su questi meccanismi di attacco (proiezione) e
d’invidia, poiché tutto ciò è molto più comune di quanto non si
pensi.
Un padre infelice, che proietta su un figlio la sua infelicità
dicendo, per esempio, “tu non sarai mai felice”, manda
nell’inconscio di questo un’immagine molto negativa, che un
figlio potrebbe portarsi dietro per sempre. Questo figlio
potrebbe, infatti, assumere un atteggiamento molto negativo
rispetto alla vita, facendo così far fallire molti suoi progetti,
arrivando a deprimersi terribilmente, non considerando che il
corso fisiologico della vita può presentare dei fallimenti e dei
momenti di passeggera infelicità, e che questi non
rappresentano un destino immutabile. Questo alla lunga
potrebbe farlo sentire brutto e svantaggiato, se tali vissuti si
trasferiscono sul corpo.
Una madre che si sente socialmente inferiore, può
proiettare su un figlio questa sua inferiorità dicendogli che è
un “incapace”, fornendo così a questi come sua qualità
cognitiva l’idea che lui sia un buono a nulla.
Un’insegnante che non è riuscita nella sua professione, può
facilmente invidiare l’alunno più bravo che ha, cercando di
smontarlo e dicendogli che “non capisce niente”, abusando del
suo potere al fine di dimostrare ciò.
Tutti questi attacchi, proiezioni, invidie e gelosie forniscono
etichette negative che si vanno a depositare nella mente e che
creano un vissuto di povertà interiore corporea (sentendosi
“brutti”).
Gli attacchi corporei, del tipo:
hai le gambe storte;
hai il naso lungo;
sei brutto/a;
sei troppo basso/troppo alto,
qualsiasi altro esempio di attacco corporeo possibile.
creano nella persona fissazioni di non andare bene e di non
essere abbastanza attraente da poter piacere e da poter
essere desiderata e quindi amata. Questi attacchi corporei,
soprattutto quando avvengono nella prima infanzia, dove il
bambino è tutto corpo, hanno degli effetti dannosissimi,
perché si calano nella mente in modo profondissimo.
Tuttavia, per capire ancora meglio questo tipo di attacchi, è
cruciale esaminare quali possono essere i motivi relazionali
che inducono la persona a condurre questa serie di attacchi
pericolosi, che spesso, appartenendo a dinamiche relazionali e
familiari nascoste, sono ancora più difficili da individuare.
Si pensi, per esempio, al cosiddetto fenomeno delle bande di
tifosi: queste agiscono relazionalmente come se fossero un
individuo e attaccano gli altri al fine di aumentare la propria
autostima. Così allo stadio tifoserie si scontrano per affermare
chi sia il più forte, seppure si stia svolgendo una guerra tra
autostime basse, in questo senso proprio quella che si dice una
guerra tra poveri.
Soprattutto all’interno di una famiglia, queste dinamiche
divengono importantissime, perché, laddove scoppino dei
conflitti, questi sono spesso giocati e rigirati su altri, e si può
assistere a tutta una serie di attacchi incrociati, per cui per
squalificare una persona, si passa attraverso un’altra, e
spesso purtroppo chi ne paga le conseguenze sono proprio i
bambini. Facciamo qualche esempio chiarificatore.
Nel caso tipico di un matrimonio conflittuale, spesso il
conflitto tra coniugi è giocato attraverso i figli. Così tutta una
serie di squalifiche può passare attraverso l’attacco a un figlio
dicendogli, per esempio, “sei proprio uguale a tuo padre”,
oppure attaccandolo quando questi prende la parte di un
genitore rispetto a un altro, per cui, passando alla fazione
nemica, si prende gli “insulti” che vanno anche al coniuge con
il quale si è schierato. Più semplicemente, una madre o un
padre che sentono un figlio come un ostacolo alla propria
separazione, possono vivere questo come fosse una catena,
quindi possono prendersela con lui vivendolo come un ostacolo
alla propria libertà. Oppure una madre che ce l’ha con il
marito e che vive questa sua rabbia come inaccettabile, può
proiettare la propria rabbia su una figlia, che quindi diventa
“brutta” e causa di tutti i mali. Anche nel caso delle famiglie
ricomposte avvengono molto frequentemente queste
dinamiche, quando un nuovo coniuge se la prende con i figli del
precedente matrimonio per una serie di conflitti e gelosie che
nascono da questo.
Le possibilità d’intrecci relazionali sono pressoché infinite,
e il potere di questi attacchi è dato dal fatto che si confondono
all’interno di queste dinamiche diventando come invisibili e
molto difficilmente rintracciabili, tanto che la maggior parte
delle volte le persone li prendono per buoni, non riuscendo a
decodificare il significato relazionale e finendo per attribuirsi
l’etichetta che è stata inviata loro, seppure era in realtà
creata e destinata per un altro.
Questi attacchi che spesso prendono la forma di un attacco
al corpo dell’altro (sei brutto, fai schifo ecc.) sono incamerati
nell’inconscio come congrui, così sortiscono un effetto molto
dannoso: la persona inizia a vedersi attraverso questi e finisce
con il sentirsi com’era stata disegnata. Queste squalifiche
esterne possono accumularsi diventando una base per
l’identità della persona, che può arrivare a vedersi mutilata di
ampie parti di sé e viversi come se fosse monca, “storta” e
incapace di poter affrontare tutta una serie di compiti nella
propria vita. Insomma, comincia a vedersi brutta, rispetto ai
vari attacchi che ha subito e alle varie parti che sono state
colpite.
E., una ragazza brillante e intelligente, si era spesso sentita
ripetere che era “storta”, questo rispetto a varie parti del
corpo. Crescendo, aveva finito per vedersi tutta storta, e non
aveva più una parte del corpo che vedeva “dritta”. “Tanto io
sono tutta storta, me lo dicono da sempre” era stata una delle
prime cose che mi aveva detto in uno dei nostri primi incontri.
Neanche cercava di avere un ragazzo, tanto più di piacere agli
altri, e passava la giornata pensando da quale medico potesse
andare e quale operazioni potesse fare per “farsi dare un
raddrizzata”. Aveva consultato vari ortopedici per sapere se
le sue ossa fossero storte, e se potessero essere rimesse
dritte. Aveva accettato completamente l’idea di essere storta
e si proponeva agli altri con questa idea, pensando che la sua
vita ormai fosse completamente compromessa.
Quello che storce le cose è in realtà la violenza, la violenza
degli attacchi che fanno sì che la mente veda brutto il corpo, e
quando la mente impara a “crederci”, allora il gioco è fatto.
Spesso accanto agli attacchi, può anche accadere che una
persona cada in un circuito di autosvalutazione, nel quale
inizia a vedere se stessa come brutta. Vediamo come.
8. La caduta nel circuito
dell’autosvalutazione
Quando una persona, per via dei suoi vissuti (razziali,
nazionali, sociali e religiosi, familiari e quotidiani) sente di non
avere certe qualità, potenzialità o caratteristiche positive, può
cadere in un circuito di autosvalutazione, nel quale inizia a
trasferire sul proprio corpo questi suoi vissuti negativi.
Questo può avvenire a prescindere dal fatto che sia stata
fatta oggetto di attacchi svalutanti da parte degli altri oppure
no. Certamente, l’essere stata oggetto di attacchi svalutanti
può aiutare ad aumentare questo meccanismo, tuttavia una
persona può iniziare a vedersi brutta anche solo a causa di
questi vissuti.
Il circuito che può innestarsi è il seguente:
1. sentire di non avere qualità positive;
2. trasferimento sul corpo di questi vissuti;
3. vedere il corpo come brutto;
4. vedendo il corpo come brutto pensare di non avere qualità
positive;
5. sentire di non avere qualità positive;
e così via.
Quando la persona cade in questo tipo di circolo vizioso,
uscirne è davvero molto difficile. La mente, infatti, entra in un
meccanismo nel quale autorafforza le proprie convinzioni e le
proprie idee. Anche le esperienze possono avere un peso nel
rafforzare questo meccanismo, in quanto esperienze negative
possono “aiutare” a convincere la persona a sentire di non
avere qualità positive, innescando il circuito di
autosvalutazione.
In questo senso, si può pensare che una fase 0 del circuito
possa consistere in:
0a: avere una bassa autostima conseguente a etichette
negative su se stessi;
0b: andare incontro a una serie di esperienze negative e
disconfermanti.
L’incontro tra questi due fattori è spesso la miccia che
innesca un circuito di autosvalutazione. Molto spesso le
persone giungono a una consultazione dopo che un evento
molto negativo ha minato profondamente la loro autostima, e
quando sentono di non riuscire a fronteggiare tale evento, in
quanto incontra etichette negative che fanno da base alla loro
autostima.
Quando si è nel pieno del vortice di questo meccanismo,
l’unica cosa che si riesce a fare è quella di vedersi brutti.
Nella fase 3 del circuito solitamente iniziano le fissazioni su
una specifica parte del corpo, che diventa brutta e capro
espiatorio di tutti i “mali”. Quando le persone arrivano a
questo punto, iniziano a pensare seriamente a operazioni di
chirurgia estetica, le quali però comportano, dopo un certo
lasso di tempo, che un’altra parte del corpo diventi la parte
brutta e malata. Per questo motivo è molto importante che la
persona riesca a risalire alla causa che l’ha portata a vedersi
brutta, altrimenti correrà il rischio di passare una vita intera a
vedersi e a considerarsi “brutta”, rincorrendo la propria idea
di bellezza senza mai trovarla profondamente.
4
Esercizi
per disimparare
a vedersi negativamente

È possibile cambiare il proprio modo di vedersi?


Quando la mente ha assimilato certe etichette e modi di
vedersi, solitamente è molto difficile riuscire a cambiare
questi punti di vista, in quanto questi sono percepiti come dei
veri e propri assiomi. Questo accade poiché avviene un
meccanismo di autoinganno della mente stessa; nessuno può
vedersi dall’esterno, salvo che non prenda una videocamera e
riprenda se stesso: con la mente purtroppo questo non è
possibile, se non di chiedere a un’altra “mente” di vedere che
cosa osserva da un punto di vista esterno. Tuttavia, ci sono dei
piccoli (grandi) “trucchi” che possono essere usati per iniziare
a mettere in “crisi” ciò che la propria mente vede, e
attraverso un percorso di autoconsapevolezza, è possibile
disinnescare gli autoinganni della mente e iniziare a vederci
più chiaro.
Di seguito saranno proposti esercizi e tecniche che servono,
prima di tutto, per creare le condizioni per disinnescare alcuni
meccanismi, e, successivamente, per avviare un processo di
disapprendimento della mente rispetto ai propri vissuti e
alle etichette che si sono radicate in profondità.
Questi esercizi sono proposti per essere uno stimolo per il
lettore al fine di creare uno sguardo autocritico sulle proprie
autoconvinzioni e modi di vedersi.
1. Mettere in crisi le proprie convinzioni
Prima di tutto, conviene compiere un primo (grande)
mutamento d’atteggiamento rispetto a ciò che si crede, che si
pensa e che si vede.
Ciò significa iniziare a mettere in crisi le proprie convinzioni
attraverso un atteggiamento mentale critico.
Potete scrivere di seguito le convinzioni che pensate di
avere rispetto al vostro corpo e a ciò che pensate di voi.
Potete scrivere proprio ciò che pensate o che avete pensato e
che ormai date quasi per scontato. Se riuscite scrivetene
almeno tre, se poi ne avete di più potete anche fare un lungo
elenco su un foglio. A ogni modo se riuscite a riassumere in tre
punti le convinzioni fondamentali che avete sul vostro corpo o
su di voi, questo può essere utile per aiutarvi a focalizzare
meglio il problema (o meglio, le etichette mentali che
generano il vostro problema).

1. ........

..........

2. ........

..........

3. ........

..........

Da adesso in avanti dovete mettere sotto una luce critica,


anche ipercritica, se ci riuscite, queste convinzioni, e dovete
fare in modo di non dare queste convinzioni per scontato.
Dovete diventare degli artisti del dubbio, e non accettare
in nessuna occasione queste convinzioni come verità, piuttosto
iniziare a pensarle in termini “dubitativi”, chiedendovi da dove
possono venire, quando e come le avete imparate, da chi avete
potuto sentire tali convinzioni o etichette che siano.
Spesso, ponendo a se stessi domande sulle proprie
autoconvinzioni, si scopre come queste in realtà non abbiano
una base così solida di verità, e spesso ci si accorge come
siano convinzioni date per scontato che non trovano nessun
fondamento di verità in fatti reali.

Può darsi che le convinzioni che avete scritto facciano parte


di un vostro vissuto?
Oppure avete sentito qualcuno dirle su di voi e vi siete
convinti di essere così?
Siete mai stati “canzonati” sulla parte del corpo sulla quale
dubitate di essere belli, oppure siete voi che la svalutate in
quanto tendete a giudicarvi negativamente?

Di seguito scrivete almeno tre buoni motivi per cui non


dovreste accettare queste vostre etichette negative senza
prima aver pensato bene a una loro possibile critica:

1. ........

..........

2. ........

..........

3. ........

..........
Questa può essere una buona base di partenza per
disinnescare il modo in cui vi vedete e soprattutto il
modo in cui la mente si è ormai abituata a vedervi.
Le abitudini, infatti, possono essere molto pericolose, in
quanto, proprio per il loro ripetersi continuo, creano di per sé
delle etichette implicite, cioè dei modi di vedersi che si
radicano nella persona e che questa finisce per accettare
come parte di sé. Rompere le abitudini è un’ottima strategia di
attacco per iniziare a mettere sotto critica tutto ciò che ormai
si ritiene come assodato e che si dà per scontato di sé.
Quello che dovete proporvi è di rompere i vostri schemi
mentali di vedervi, per trovarne di nuovi che tengano conto di
altri punti di vista differenti da quelli abituali.
1. Come ti vedi?
Per entrare più nello specifico del tema, può essere molto
utile dare un voto, da 0 a 10, alle specifiche parti del corpo,
nonché un voto generale a quanto ci si sente bene nella
propria altezza e con il proprio aspetto fisico in generale.
Questo semplice test può dare delle indicazioni molto
interessanti, soprattutto considerando il significato simbolico
che le varie parti del corpo hanno.

CAPELLI: ........

OCCHI: ........

SOPRACCIGLIA E CIGLIA: ........

NASO : ........

FACCIA: ........

BOCCA: ........

ORECCHIE: ........

COLLO : ........

BRACCIA: ........

MANI: ........

SENO (per le donne): ........

PETTO (per gli uomini): ........


PANCIA: ........

ORGANI SESSUALI: ........

GLUTEI: ........

GAMBE: ........

PIEDI: ........

ALTEZZA: ........

BELLEZZA: ........

Se avete dato voti almeno sufficienti a tutte le voci, vuol


dire che nella vostra mente avete un’immagine di voi stessi e
del vostro corpo armonica e ben adattata, e che avete una
considerazione di voi sufficientemente buona da potervi
fornire una buona autostima.
Se invece sono fioccate alcune insufficienze, significa che
rispetto ad alcune aree della vostra vita avete un’etichetta
interiore negativa, che condiziona il vostro modo di vedervi.
State attenti al simbolismo che le varie parti del corpo
racchiudono: vedere una parte del proprio corpo brutta
significa non avere stima di se stessi rispetto alla qualità
simbolica che questa rappresenta.

Quale parte del corpo sentite come insufficiente?


Quale qualità simbolica rappresenta?
Trovate una corrispondenza nella parte del corpo che vedete
brutta e la qualità simbolica che questa rappresenta?

A questo punto siete pronti a passare alla fase successiva.


2. Raccogliere aneddoti: chi ha detto che
cosa
Considerando le parti del corpo che avete reputato
insufficienti e delle quali non siete soddisfatti, potete adesso
iniziare a scrivere una vera e propria storia su queste parti
del corpo.
Potete iniziare dalla considerazione che avete avuto di
queste parti nel tempo e negli anni, soprattutto nel periodo
della crescita. Di cruciale importanza è anche cercare di
ricostruire anche ciò che le altre persone vi hanno detto su
tali parti del corpo: quale è stato il loro giudizio, se hanno
fatto battute, se vi sono state date alcune etichette, se
esperienze negative hanno condizionato la visione che avete di
queste parti.
Nello scrivere la storia di queste parti del corpo è di
cruciale importanza che siate più specifici possibile, cioè che
cerchiate di entrare più possibile nei particolari, senza
tralasciare nessun aspetto.
Dopo aver scritto questo resoconto potete chiedervi:

in che modo la mia visione di questa parte è stata


condizionata nel corso della mia vita dagli altri?

Spesso, infatti, ricostruendo una storia, ci si accorge come


ci si è guardati più con gli occhi degli altri piuttosto che con i
propri, e come molte convinzioni che si hanno sono in realtà
convinzioni altrui e non proprie.
Accanto alla storia della parte del corpo che vivete come
inadeguata, dovreste a questo punto anche scrivere un’altra
storia: prendendo in considerazione il significato simbolico che
ogni parte del corpo ha, come esaminato precedentemente nel
corso dell’opera, potete scrivere come vi sentite confidenti
rispetto a certe caratteristiche.
Dopo aver scritto questo secondo resoconto potete
chiedervi:

in che modo la mia visione di questa parte è condizionata dal


fatto di non sentirmi adeguato/a rispetto ad alcune aree della
mia vita?

Vedersi brutti a volte deriva proprio da non sentirsi


confidenti con se stessi e dall’avere un’autostima bassa: chi ha
più stima di sé è portato a vedersi come più bello, e spesso
rimandando all’esterno questa immagine interiore, risulta
anche più bello e piacente agli occhi degli altri.

Qualcuno ha fatto in passato considerazioni su alcune delle


vostre qualità?
Sono state date etichette ad alcune vostre qualità?

Di cruciale importanza è l’autostima che sentite di avere o


di non avere. Potete scrivere, con un voto da 0 a 10, quanto
sentite solida la vostra autostima.

AUTOSTIMA PERSONALE: ........

Tenete conto che l’influenza della vostra autostima sul modo


in cui vi vedete può essere molto alta, talvolta decisiva nel
vedersi belli o brutti. Un voto insufficiente rispetto alla vostra
autostima vi può stare già suggerendo un modo negativo di
considerarvi.

Quanto, secondo voi, la vostra autostima condiziona il vostro


modo di vedervi belli o brutti?
3. Come avete imparato a vedervi? Come
vi vedete voi!
A questo punto potreste esser pronti per vedervi con i vostri
occhi.
Potete costruire due sagome del vostro corpo: su una
sagoma potete scrivere la visione che hanno avuto gli altri di
voi, se volete anche amplificando le osservazioni e le etichette
che vi sono state date.
Su un’altra sagoma potete invece scrivere come vi vedete
con i vostri occhi. Se non ci riuscite da soli, fatevi aiutare da
una persona che stimate e che vi vuole bene. Potreste stupirvi
dei feedback che riceverete e che non vi aspettavate.
A questo punto mettete a confronto le due sagome, e
potrete avere la visione da un punto di vista esterno che avete
voi di voi stessi, e quella che avete preso dagli altri. Questo è
un passaggio mentale che può essere a volte molto difficile,
per questo motivo con l’aiuto di una persona esterna (o di un
terapeuta, se volete), potete andare a conoscere le distorsioni
che la vostra mente applica senza accorgersene.
Potete strappare la sagoma con la visione che vi hanno dato
gli altri in mille pezzi, e appendere la sagoma con la nuova
visione in un punto dove potete rivederla ogni giorno. Questo
può aiutare a rafforzare la vostra autostima, e, soprattutto,
aiutarvi ad assumere una visione critica rispetto alle etichette
che portate dentro di voi su voi stessi.
Dopo aver completato queste fasi, trascorso un periodo ti
tempo di almeno un mese, potete rifare il test sul corpo: se
notate che le vostre valutazioni sono aumentate in positivo,
significa che avete toccato dentro di voi dei punti cruciali, e
che i meccanismi per i quali vi vedete in un certo modo
iniziano a scalfirsi.
Se invece i voti non migliorano, o, addirittura, peggiorano,
significa che la vostra visione di voi stessi è profondamente
radicata dentro di voi, e che fareste bene a rivolgervi a uno
specialista: personalmente, avendo dedicato molto ore del mio
lavoro clinico su questi temi, so bene come certe etichette
siano dure da scalfire, e come l’elaborazione della visione di
se stessi sia fatta di passaggi profondi e complessi.
Rivedere l’immagine di se stessi a volte significa anche
mettere sotto discussione e sotto critica alcune relazioni
significative che le persone hanno nella loro vita, e questo non
è né semplice né tantomeno facile. Gli esercizi proposti in
questa fase vanno considerati come uno stimolo per
cominciare a pensare e a ragionare in modo diverso, in quanto
per vedersi in modo diverso, deve essere la mente stessa che
cambia il proprio modo di vedere.

Le cose non cambiano finché non cambiano noi.

Il processo che viene qui proposto non è un processo di


apprendimento, come alcune discipline propongono, bensì
tutto il contrario: l’elaborazione consiste proprio nel
disimparare come ci si è visti precedentemente, cioè dal
liberarsi da tutto ciò che già si conosce e che si è imparato,
per aprirsi a nuovi significati.
Come si narra in un racconto zen, non si può imparare se la
propria tazza del tè è già ricolma di opinioni, punti di vista e
nozioni. Abbandonare le proprie certezze, in certi casi, è
l’unico modo per iniziare a vedere le cose in un modo nuovo.

Di che cosa è già colma la vostra tazza del tè?


4. Imparare a difendersi
Altro elemento essenziale da prendere in considerazione se
si vuole uscire da un circuito di autosvalutazione, è quello di
imparare a difendersi dagli attacchi altrui. Non solo: anche
dalle etichette, dalle proiezioni e da tutto ciò che può
influenzare il modo della mente di percepire il se stessi e il
proprio corpo.
Continuare a subire attacchi esterni, infatti, può essere
molto dannoso e una delle cause principali che può portare a
vedersi negativamente.
Andiamo a esaminare in che modo è possibile difendersi da
attacchi ed etichette tossiche.

Difendersi dagli attacchi


Quante volte capita di sentirsi dire qualcosa di negativo
riguardo il proprio corpo? Non è tanto importante ciò che
viene detto, tuttavia, quanto ciò che viene risposto (o non).
Non rispondere a un attacco esterno, per esempio, equivale a
dare il via libera nella propria mente a quel punto di vista, che
può insinuarsi e divenire un’idea pericolosa.
È essenziale, quindi, imparare a difendersi e a rispondere
agli attacchi che vengono subiti, così che questi possano
essere subito neutralizzati. In questo senso, è essenziale
comprendere i motivi per i quali sono portati certi attacchi,
soprattutto comprenderne l’aspetto simbolico, in quanto se si
riesce a comprendere l’aspetto simbolico si ha in mano un
chiave di lettura che permette una risposta rapida che può
neutralizzare il senso profondo dell’attacco.
Per fare un esempio, un mio paziente mi raccontava di
come, ogni volta che andava a trovare un suo zio, questo si
metteva a tessere le lodi rispetto a quanto lui fosse cresciuto
in altezza. In questo non ci sarebbe stato niente di male, se
non per il fatto che lui non era un adolescente, bensì aveva
ben quarantacinque anni! Mettendosi a tessere le “lodi” della
sua crescita, lo zio in realtà lo trattava come un adolescente,
non riconoscendo che lui fosse ormai un uomo maturo, e, per
certi versi, metteva anche in crisi la visione della propria
altezza. Lavorando questa tematica con il mio paziente, si
evidenziò come questo zio fosse geloso del successo
professionale che il nipote stava avendo, e che queste battute
che faceva lo zio sulla sua altezza fossero in realtà come un
modo per “rimpicciolirlo”. Così suggerirei al mio paziente, la
prossima volta che fosse andato a trovare questo zio, di
difendersi da questo attacco, tenendo conto dell’elemento
simbolico, e di neutralizzare questo attacco ripagando lo zio
con la sua stessa moneta.
La volta successiva che lui andò a trovare questo zio, questo
gli disse, come al solito, di quanto lo trovava cresciuto rispetto
all’ultimo incontro.
“Caro zio”, gli rispose, “mi sa tanto che non sono io che sto
crescendo, ma che sei tu che con l’età ti stai rimpicciolendo!”.
Lo zio ci rimase di sasso. Dopo quella volta non gli disse mai
più che era cresciuto, e badò bene a non toccare più
l’argomento. In questo modo l’attacco era stato neutralizzato,
e l’immagine mentale rispetto all’altezza era stata salvata.

Quali attacchi avete subito ultimamente al vostro corpo?


Quali elementi simbolici vanno a colpire?
Come potreste rispondere per neutralizzarli?
Difendersi dalle proiezioni

Il discorso sulle proiezioni è leggermente diverso, in quanto


le proiezioni non sono attacchi che servono a colpire un
qualche elemento simbolico, piuttosto sono trasferimenti di
vissuti che una persona compie su un’altra, trasferendo
qualcosa di sé sull’altro. Anche in questi casi, tuttavia, è
sempre bene dare una risposta, in quanto, incassare certi tipi
di messaggi senza rispondere, può essere percepito dalla
mente come un’autorizzazione a prenderli per buoni.
In questi casi l’importante è capire quale elemento venga
trasferito, così da poterlo rispedire al “mittente”, non
assumendolo dentro si sé.
Una mia paziente aveva una madre che tendeva sempre a
svalutarla: le diceva che lei “non era nata bella”, che aveva
altre caratteristiche molto buone ma che doveva
accontentarsi nella vita, che era meglio per lei seguire gli altri
piuttosto che andare avanti con le proprie idee. Alla lunga
queste frasi della madre avevano finito con il condizionarla, e
lei era diventata molto insicura rispetto alla vita e rispetto a
se stessa. Quando le chiesi come vedeva sua madre, lei mi
disse che sua mamma era una donna molto insicura, che
passava ore davanti allo specchio e che prima di uscire di casa
aveva bisogno di diversi consulti sul modo in cui si era vestita.
Era spesso timida e impacciata, e aveva avuto una vita sociale
problematica per via di questi modi di vedersi. Le feci notare
come tutto quello che lei pensava di sua madre corrispondeva
con quello che sua mamma diceva di lei. Fu così che cominciò
a mettere sotto critica questi punti di vista e a restituire alla
madre le insicurezze che appartenevano a questa. Come si
dice, molto spesso “gallina che canta, ha fatto l’uovo”.
Conviene fare molta attenzione alle proiezioni altrui.

A chi corrisponde, in realtà, ciò che pensate di voi stessi?


Difendersi dalle etichette
Le etichette possono essere dannosissime. Un soprannome
o un modo di dire possono seguire una persona per anni, e
rimanere attaccati a questa neanche le fossero stati incollati
con la colla più potente del mondo.
Per questo motivo può essere pericoloso farsi dare dei
soprannomi, soprattutto se questi sono negativi. Chi invece si
porta dietro un soprannome da tanto tempo, è un bene che
inizi a pensare di come liberarsene, in quanto questo può
avere un effetto altamente tossico.
Una tecnica per liberarsi di un soprannome, può essere
quella di cominciare a dare un soprannome a chi usa un
nomignolo per chiamarvi, così da creare un “botta e risposta”
fastidioso ogni volta che viene presentata la vostra etichetta.
Questo metodo, ripetuto per un tempo sufficientemente
lungo, alla fine scoraggia gli altri a usare soprannomi, e fa
capire che non si gradisce più essere chiamati in un certo
modo.

Quali etichette vi sono state date?


Come mai le avete accettate passivamente?
Quali soprannomi potete dare a chi vi chiama con un
nomignolo?

Difendersi dall’autosvalutazione
A volte siamo proprio noi stessi a darci etichette e a vederci
negativamente. Questo può essere molto pericoloso, in quanto
è molto più difficile difendersi da se stessi che dagli altri. Per
questo motivo, se si inizia a pensare negativamente su se
stessi, è bene porsi molte domande, e non accettare mai un
punto di vista negativo autoinfliggendosi un’etichetta.
Se l’autosvalutazione è nata da esperienze negative subite
da altre persone, oppure da esperienze di vita vissuta, è bene
interrogarsi sui motivi di eventuali fallimenti, per
comprendere quali possono essere state le ragioni che li
hanno generati.

Che cosa potete stare svalutando di voi stessi?


Come mai tendete a vedervi così negativamente?
Chi o che cosa vi ha fatto vedere così negativamente?
Di quale fallimento vi siete fatti una colpa?

Se è vero che la miglior difesa può essere proprio l’attacco,


è bene associare agli esercizi sull’autovalutazione e sulla
percezione corporea esposti precedentemente l’esercizio di
iniziare a difendersi e a rispondere agli attacchi altrui, non
permettendo più agli altri di definire la propria immagine
personale.
5. Chiedetelo ai sogni
Comprate un quaderno del colore che vi piace. Mettetelo
accanto al vostro comodino con una penna. Al risveglio
mattutino scrivete i sogni che ricordate. Dopo un mese di
questo “esercizio”, rimarrete sorpresi dal risultato.
La mente, infatti, esprime attraverso i sogni le visioni che
ha di se stessa, cioè come si vede e come si vive, e lo fa
proprio attraverso immagini che spesso si rivelano molto
simboliche.
Solitamente le persone non danno molta importanza ai
propri sogni: al risveglio mattutino, anche se hanno avuto un
sogno curioso e interessante, tendono a dimenticarlo e a
tralasciarlo, quasi fosse un fastidio che ha inquinato il loro
sonno. Al contrario, i sogni sono dei veri e propri tesori, e
possono rivelare atteggiamenti, stati d’animo e pensieri di cui
durante la veglia non si è coscienti.
Scrivere per un mese i propri sogni (anche due se ci
riuscite) e rileggerli poi tutti di seguito, come fossero un
romanzo, vuol dire gettare uno sguardo su come la mente si
vede, e ricevere un feedback molto potente sui propri
atteggiamenti mentali.
È importante andare a leggere di seguito i sogni fatti in un
medio periodo (almeno) perché, se è difficile interpretare un
singolo sogno (che spesso risulta incomprensibile), leggendo
più sogni consecutivamente è più facile rintracciare una
trama, che diviene evidente man mano che si procede nella
lettura. Rimarrete stupiti da ciò che ne verrà fuori.
Potete contare oltretutto sull’imparzialità dei vostri sogni,
in quanto, se durante il giorno i condizionamenti sono molto
forti ed è effettivamente difficile assumere un punto di vista
diverso su se stessi, viceversa nei sogni, nell’elaborare temi
ed etichette, la mente può fornire punti di vista nuovi e
rivoluzionari, che non si erano assolutamente presi in
considerazione o che si ritiene assurdo prendere in
considerazione.
I sogni, come in un gioco di specchi, possono mostrare i
punti ciechi (coscienti) della mente, e illuminare la persona su
punti di vista nuovi e inaspettati.
Nel mio lavoro clinico sul tema del corpo, i sogni
rappresentano un punto chiave per l’elaborazione della
persona, e mi è capitato spesso che fossero proprio sogni fatti
da un paziente a portare avanti l’elaborazione stessa.
Interessante soprattutto il fenomeno dei sogni ricorrenti,
cioè i sogni che si continuano a ripetere avendo la stessa
trama. Questi sogni spesso mostrano atteggiamenti ed
etichette mentali radicate, che condizionano pesantemente il
modo attraverso il quale la mente legge la realtà.
Un mio paziente, ormai uomo maturo, aveva come sogno
ricorrente, da più di vent’anni, quello di ritrovarsi al liceo e
dover ancora finire gli studi. Una serie di eventi della vita
avevano creato nella sua mente l’etichetta che egli fosse un
“adolescente”, e questi continuava sempre a vedersi come
fosse un ragazzo e a svalutarsi, sebbene fosse divenuto uno
stimato e ammirato professionista. Questo lo portava a non
apprezzarsi, e a nutrire dubbi su se stesso e sulla propria
bellezza e professionalità.
Bisogna immaginare la mente come fosse una lente: la
visione di se stessi e del proprio corpo avviene attraverso
questa lente, che può modificare, deformare, amplificare o
distorcere ciò che osserva. Più si riescono a conoscere i punti
di curvatura di questa lente, più si è in grado di neutralizzare
le distorsioni che questa applica nei confronti di ciò che
osserva.

Di che cosa parlano i vostri sogni?


Quali sono i punti di vista su voi stessi che emergono dai
vostri sogni?
Nei sogni c’è qualcuno che vi critica?
Avete un sogno ricorrente?
Conclusioni

Nella mente non esiste nulla di predeterminato. Questa è in


costante evoluzione e aggiornamento, ed è capace di
apprendere o di disapprendere determinati meccanismi o
pensieri.
Nella crescita umana, ciò che ogni persona pensa di sé e del
proprio corpo è parte integrante del processo di sviluppo di
ognuno. Questo processo, per ciascuno di noi, può avere un
corso sano o patologico, e può essere soggetto a blocchi o a
traumi.
Quest’opera ha voluto presentare quella che si può pensare
come una vera e propria sindrome del brutto anatroccolo,
in quanto, più spesso di quanto non si creda, alcune etichette,
idee e immagini svalutanti possono fissarsi nella mente, finché
questa non inizia a vedersi in un modo distorto.
Questi tipi di apprendimenti sono molto pericolosi, e
possono condizionare pesantemente la vita di una persona, in
quanto determinano il modo in cui la persona percepisce se
stessa. Oltretutto, spesso le persone affrontano un alto grado
di sofferenza per via di queste idee, che possono portarle
perfino a gesti tragici, oppure più semplicemente a cadere
nella spirale di meccanismi di autosvalutazione che possono
arrivare a togliere la gioia di vivere.
Quest’opera ha voluto presentare in maniera più chiara
possibile quali sono i meccanismi tremendi che possono
scatenare questa sindrome, sino a portare le persone a
vedersi brutte distorcendo totalmente la realtà, non tenendo
soprattutto conto di una questione fondamentale: ogni corpo
è diverso, ognuno di noi è unico e irripetibile, e la bellezza e
la bruttezza non esistono in sé e per sé, ma solamente nel
giudizio e nella mente delle persone.
Spesso, infatti, è l’autostima a far percepire una persona
bella oppure brutta, e lo stesso vale anche agli occhi degli
altri: come insegna la favola de La bella e la bestia, infatti,
sono le maniere che fanno innamorare gli altri di noi, e non
l’aspetto in sé e per sé.
Se avete deciso di leggere questo libro, significa che dentro
di voi c’è un cigno che aspetta di essere accolto e liberato
dall’etichetta di brutto anatroccolo, e che non vede l’ora di
dispiegare tutte le sue potenzialità, divenendo cosciente di se
stesso. Date al vostro cigno una chance, e non permettete
mai a nessuno di convincervi che siete solo un brutto
anatroccolo e che niente potrà cambiarvi.

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