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Riccardo Coltri

ZEFERINA
Fantasy dal Regno d’Italia

- bestiario e leggende -

Asengard Edizioni
© Asengard Edizioni srl
© Riccardo Coltri

“Zeferina - bestiario e leggende” è estratto dal libro Zeferina di Riccardo Coltri,


pubblicato nel maggio 2009 da Asengard Edizioni. La presente copia, identica in ogni
sua parte alla versione pubblicata nel libro, viene concessa dall’editore e dall’autore per
l’uso personale senza scopo di lucro, purché venga sempre citato questo documento
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BESTIARIO

Regninsaori o reinsaori, spettri dell’area cimbra della Lessinia. Dalla forma


sconosciuta, erano spiriti maligni o anime del Purgatorio alla ricerca di voti
favorevoli. L’origine della parola reignir non è certa: secondo lo scrittore e
studioso di superstizioni cimbre Ezio Bonomi, potrebbe derivare dal tede-
sco medievale renijren, regnare, o dal veneto riegnèr: rinvenire, tornare in
vita. In contrada La Valle, nei pressi di Camposilvano (Velo), nel terreno
chiamato Prà dei Reinsaori la gente diceva che i morti “i regnisse”. Le
testimonianze parlavano soprattutto di rumori che si potevano udire di
notte nelle stalle o nelle proprie abitazioni, come se vi fossero persone che
lavavano stoviglie, che accendevano il caminetto, che colpivano i muri. Al
mito dei regninsaori, nel romanzo, è stata accostata la simbologia del gufo,
che secondo una vecchia leggenda mediterranea è diventato un uccello
notturno dopo aver assistito alla crocifissione di Gesù.

Orchi (orcus, orke): nella mitologia romana Orcus era il sovrano del Regno
degli Inferi. L’ipotesi è che la figura dell’orco inteso come mostro si sia
diffusa in Europa, nel corso dei secoli, proprio dall’Italia. Nella mitologia
cimbra (orke nell’area tredicicomunigiana – Orçe. La “c” ha, in realtà, una
gambetta dritta alla base e la pronuncia è “k”), leggende risalenti ai secoli
scorsi raccontano che l’orco si faceva vedere la notte dell’Avvento. Poteva
tramutarsi in luce, fiamma, soldato a cavallo con la “schiena scavata”, ca-
prone, cane. Mai in agnello a causa della simbologia cristiana. In alcune
zone lo si confonde a volte con il Beatrìc o Beatrico, leggendaria figura che
guidava la catha selvarega e a volte era riconducibile a Dietrich von Bern,
Teodorico da Verona.
Il Re degli orchi, nell’area cimbra, si chiamava Selmano. In alcune favole
gli orchi sono alleati delle fade, ma la tradizione parla di una grande guerra
fra i due popoli in una non precisata epoca antica.
L’Orçe ha una doppia natura, innocua e malvagia. Un celebre “orco bur-

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levole”, dedito a fare innocui scherzi ai montanari, è ricordato in contrada
Kunech (Cunego), nei pressi di Velo. Gli orchi “malvagi”, invece, distaccate-
si dai “buoni” dopo il Concilio di Trento, potevano uscire dal bosco solo di
notte, dopo l’Ave Maria, e ovviamente andavano a caccia di bambini.
A Giazza/Ljetzan, la casa dell’orco si trovava in contrada Ravaro. Una testi-
monianza del 1884 racconta: «Quando l’Orche chiama a nome una perso-
na non si deve rispondergli altrimenti è perduta poiché egli allora la tocca
e la carne da lui toccata va corrosa sì che la morte è inevitabile. Causa egli
ancora la morte repentina, soffoca fanciulli e per questi e altri malefizi, si
citano fatti recenti con nomi e cognomi».
In Zeferina gli orchi sono immaginati come discendenti di guerrieri pro-
venienti dal Nord in epoca romana e nel corso dei secoli mescolatisi agli
Scaligeri.

Il massariòl (mazzamurello) è uno dei più noti folletti italiani, diffuso


in pressoché tutta la penisola. Nelle favole presenti in numerose regio-
ni (dove, a seconda del luogo, è chiamato mazarül, mazaròl, mazzarol,
massarol, mazepegùl, mazzamurello – termine con cui è maggiormente
conosciuto – matharol, mazzemarjielle, mazzamuriglio, eccetera), è una
piccola creatura delle campagne e dei boschi. Le sue caratteristiche variano
a seconda del territorio, ma dal nome, storpiato dai vari dialetti, appa-
re evidente che la leggenda provenga da un’antica e non ben identificata
fonte comune. Il suo aspetto e le sue azioni rispecchiano quelle di molte
altre razze del Piccolo Popolo. Per alcune favole il massariol era in grado di
imitare perfettamente le voci e chi metteva un piede sopra una sua orma
non trovava più la strada di casa. Una delle sue caratteristiche è di batte-
re sulle pietre, di solito con un martello o una mazza. Da qui, con ogni
probabilità, l’origine del nome, “colui che colpisce con una mazza”, una
caratteristica che potrebbe vagamente ricordare la divinità celtica Sucellos,
per tradizione armata di mazzuolo o di un maglio e detta “colui che ben
colpisce” o “il battitore”.
C’è chi associa il massariol al monaciello delle leggende del Sud Italia, a sua
volta chiamato in vari modi. La natura delle due creature appare, tuttavia,
piuttosto differente.
Il termine “Mazzaruollo” è stato per la prima volta citato in una commedia

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veneziana («Così ardito, così pronto, cosi ritto, bello, bianco, con questo
berrettino rosso, credo che ognuno mi conosca, e specialmente voi, bellis-
sime donne! Io mi dichiaro di essere il Foletto che voi, altri, signori Venilia-
ni, chiamate il Mazzaruolo.» – Dalla commedia Roselmina, rappresentata
a Venezia nel 1595. Da notare la caratteristica, comune a molti folletti
italiani ed europei, del berretto rosso).
Del “Mazzamurello” parla anche D’Annunzio, come di un’entità che at-
traversa (ammazza) le pareti (i muretti) delle case. Benedetto Croce cita il
termine scazzamauriello, facendolo derivare da scacciamaurino (i maurini
erano i monaci benedettini dell’ordine di San Mauro). Altri fanno derivare
il nome dallo spagnolo matamos, ammazza-mori.
A Roma esiste il “Vicolo di Mazzamurelli”. L’origine del nome è misterio-
sa, pare non appartenga a nessun cognome di persona e si riferisca proprio
a degli spiritelli maligni.
Nel romanzo i massarioli si fondono con il mito germanico dei coboldi,
di cui esistono diverse versioni. Un tipo di coboldo, simile agli gnomi,
infesta i luoghi sotterranei ed è dal riferimento a questo mito che prende
nome il cobalto, metallo velenoso. La leggenda dei coboldi sarebbe legata
a un antico rito propiziatorio germanico: un neonato veniva imprigionato
in un luogo sotterraneo fino alla notte del suo quinto compleanno, quindi
veniva trafitto con due lame, una di bronzo e una d’acciaio. Il cadavere era
dato alle fiamme e con i suoi resti si costruiva un feticcio, da cui nasceva un
coboldo. La malvagità di queste creature scaturiva dal desiderio di vendetta
per le torture subite e per la morte prematura. Più in generale, i coboldi
erano spiriti di persone morte, soprattutto bambini.

Lupo: celebre figura malvagia delle fiabe, è anche un’importante creatura


fantastica della Lessinia centrale e orientale (chiamata Lòo). A Giazza/Ljet-
zan era chiamato bolf (dal tedesco wolf ), ma anche per (bear, orso. Entrambi
gli animali erano senz’altro diffusi in Lessinia nei secoli passati), indicando
perciò una non ben identificata entità feroce, a volte ritta su due zampe.

Le sùrbiles, settime figlie di settime figlie, erano streghe-vampire sarde che

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succhiavano il sangue dei neonati non ancora battezzati. Ungendosi con
olii vegetali, le sùrbiles erano in grado di trasformarsi in mosche e pene-
trare nelle camere dei neonati attraverso il buco della serratura. Agivano
col buio, fra la mezzanotte e le tre. Per evitare che entrassero nelle stanze,
si utilizzavano come amuleti una scopa posta all’insù, oppure un mazzo di
foglie d’issopo e arancio, un paio di scarpe poste a capo del letto, un fazzo-
letto da testa. In alcune fiabe hanno una grande croce di peli sulla schiena.
Per spostarsi, le sùrbiles usavano la formula magica “Folla a suba de folla,
tres oras andai e tres oras a torrai” (Foglia su foglia, tre ore per andare e tre
ore per tornare).

Pesaroli: la pesarola era la personificazione dell’incubo. La piccola creatura


si sedeva sullo stomaco dei pastori, togliendo loro il fiato (come numerosi
altri folletti ed entità, deriva dai demoni della mitologia romana). In altre
leggende si trattava di una strega o di una trutt (o pesarola): un’anima
vampira che si scacciava spargendo sale vicino ai piedi del letto. Conosciu-
to in varie zone, il pesarol è detto anche mora o pesantola in Istria e zone
limitrofe, ed è imparentato con il cialciùt.

Fate (fade): di origine italiana e francese, il termine deriva dall’altro nome


latino delle parche, fatae (dal latino fatum, “destino”). Sono dette fade
nell’area dei Tredici Comuni cimbri e in alcune favole sono armate di mi-
steriose sfere luminose. Come nel caso degli orchi, possono presentare sia
natura benigna che crudele. Alcuni dei loro nomi erano Àissa Màissa, Bi-
fen Befe, Lissa Lassa. Il figlio della fada Àissa Màissa si chiamava Trolge
Molge.
Un modo per far nascere le fade era utilizzare i “Libri del Comando” o
“Libri del Diaolo”: occorreva mescolare la terra di sette cimiteri con sassi
di sette vaj (valli) e bagnare con acqua di sette fontane. Si dovevano poi
recitare delle parole contenute nei Libri. Prima che il Concilio di Trento
le costringesse a rifugiarsi nelle grotte, le fade si mescolavano alle persone
comuni, a cui avevano insegnato molti lavori utili: a fare il burro, il for-
maggio, la ricotta, a ricavare lana bianca dalle pecore nere (arte che fu poi

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dimenticata) e numerose altre cose.
Per la tradizione le fade della Lessinia, dopo il Concilio di Trento, sono
state confinate nel Covolo di Camposilvano (Kampsilvan) nei pressi di
Velo, enorme grotta a 1220m slm. Nei pressi sorge la cosiddetta Valle delle
Sfingi, un tempo Vajo del Brutto: una valletta lunga circa un chilometro,
con alte rocce affioranti, alcune dalla forma particolare. Un masso, soli-
tario in cima a una collinetta, è detto Sengio dell’Orco. Il Covolo è nato
da un crollo, è largo 70 metri, alto 35 e profondo 50. All’interno ha un
microclima di inversione termica e non sono rare le nevicate estive. La
tradizione vuole che Dante Alighieri, durante il periodo in cui fu ospite
dei Della Scala, abbia visitato la grotta, traendo l’ispirazione per descrivere
l’entrata dell’Inferno.

Sileno: figura della mitologia mediterranea e divinità dei boschi, Sileno


sarebbe stato figlio di Pan e di una ninfa. Aveva, di solito, l’aspetto di un
uomo piuttosto corpulento e barbuto. Era di natura lasciva e amante del
vino. Re Mida lo catturò per costringerlo a rivelargli i suoi poteri. «L’antica
leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno,
seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra
le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per
l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da
ultimo fra stridule risa in queste parole: Stirpe miserabile ed effimera, figlio
del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosis-
simo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere
nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è
morire presto.» (Nietzsche, La nascita della tragedia)

Krampus: originari di tradizioni alpine pre-cristiane, i krampus diven-


nero in seguito i diavoli che accompagnavano San Nicolò nella sfilata
lungo le strade di vari paesi montani. In Italia la celebrazione è molto
diffusa in Alto Adige, ma si svolge anche nella Val Canale (Friuli Venezia
Giulia) nella zona del Tarvisiano, Ugovizza, Malborghetto e Pontebba.
Nel resto d’Europa la sfilata avviene in molte altre zone, soprattutto di
lingua tedesca.

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Charun, nella mitologia etrusca, era uno psicopompo dell’Ade. Era un


essere barbuto, con un naso adunco e orecchie a punta. Spesso lo si ricorda
con dei serpenti attorno alle braccia e ali enormi (come, ad esempio, nella
Tomba dell’Orco di Tarquinia). Aveva in mano un martello, il suo simbolo
religioso, simile all’ascia bipenne romana. Fa una breve comparsa nel ro-
manzo e sulla sua arma è inciso il palindromo magico ΑΒΛΑΝΑΘΑΝΑΛΒΑ
(ablanathanalba).

Il cascugnit era un essere leggendario della Carnia, appartenente alla fami-


glia degli sbilfs. Versione friulana del centauro, ma mezzo uomo e mezzo
asino.

Le abitatrici dei campi erano streghe calabresi e lucane, ricordate nelle


regioni in cui risiedono comunità albanesi (in albanese il nome è perjasht-
mazit). Succhiavano il sangue dalle orecchie dei neonati e nascondevano i
corpi in tronchi cavi.

Janare, strie, masche, Noce di Benevento e streghe in Italia: le streghe


in Italia sono abbastanza diverse dalle Alpi al Mediterraneo, non solo per
quanto riguarda il termine usato. La strega è chiamata janara in Campania,
si diceva che janare diventassero tutte le donne nate il giorno di Natale (“se
sci femmina, sci janara”), masca a Torino (il termine potrebbe derivare da
maska, spirito dei morti longobardo, o da mascar, borbottare in francese),
cogas, brúscias o maghiargia in Sardegna, stria (o striga) in Veneto, e ancora:
mavara (Sicilia, Messina), magara (Calabria e Basilicata), masciáre o chivàr-
ze (Taranto e provincia), macàra (Salento), stroll’ca (Umbria).
A Benevento, insieme a Triora (tradizionalmente “città di streghe”), una
leggenda raccontava dei numerosi verbali sui processi per stregoneria bru-
ciati perché non cadessero in mano ai piemontesi. Si sa comunque della

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morte di Mariana di San Sisto, bruciata viva nel 1456, di Bellezza Orsini
che si suicidò in carcere a Roma, conficcandosi più volte un chiodo in
gola, evitando così il rogo; di Faustina Orsi che morì ottantenne, arsa viva
(1852). Come altre, recitava un incantesimo che faceva pressapoco così:
“Unguento mio unguento, sopra acqua e sopra vento portami alla noce del
Benevento”. Il Noce di Benevento era il luogo dove le janare si incontrava-
no e la città è famosa anche per le leggende sui Libri del Comando.

Il milauro era una mitica creatura a metà tra drago ed essere umano. Se ne
parlava in Sud Tirolo e a Bolzano. Secondo la tradizione, chi si cibava della
sua carne riusciva a capire il linguaggio degli animali.

I ciclopi (Κύκλωψ, “occhio tondo”), figure delle mitologia greca, forgia-


vano i fulmini per Zeus e nei miti romani erano gli aiutanti di Vulcano.
Secondo alcune fonti ci sarebbe attinenza con una popolazione barbara
che viveva in Sicilia prima della colonizzazione da parte dei greci. Tra le
varie spiegazioni sull’origine del mito, un tatuaggio concentrico (simbolo
del sole e del fuoco) sulla fronte di mastri ferrai greci, ma anche certe rare
patologie: la ciclopia è una forma dell’oloprosencefalia.

Babau: dal volto orrendo, gli abiti rammendati, zoccoli ai piedi, indossava
spesso il classico cappuccio rosso dei folletti. A volte aveva coltellacci da
macellaio. Il babau, affine alla genia dei barabao (originario di Venezia), era
conosciuto in particolar modo nel milanese e il termine potrebbe derivare
dal greco babàios (mascherone, spauracchio). Naturalmente è conosciuto
anche come Uomo Nero che rapiva i bambini.

Mal’ Vint’, “Vento Cattivo”. Folletto della Basilicata composto da muli-


nelli di vento carichi di oscure presenze (spiriti degli uccisi). Per scacciarli

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c’era la formula: “Fuggi vento tristo, ti perseguita Gesù Cristo, vattene a
quel lato, dove Dio ti ha condannato, in nome del Padre, del Figliuolo e
dello Spirito Santo”.

Butacc’ con Eggls era un mostro diffuso nei pressi del lago di Lisc, Grigio-
ni, in Svizzera. A causa del suo orrendo aspetto era chiamato anche “ventre
con gli occhi”.

Lamia, nella mitologia greca, era una figura umana e animalesca, spesso
rapitrice di bambini. Il mito mediterraneo originale parla di Lamia, regina
di Libia, che ebbe da Zeus il dono di potersi togliere gli occhi e rimetterli al
loro posto quando le aggradava. La moglie del dio, Era, per vendicarsi del
tradimento, uccise i figli nati da Lamia e Zeus (probabilmente si salvarono
due figlie: Scilla e Sibilla). Distrutta dal dolore, Lamia cominciò a uccidere
i bambini delle altre madri, dai quali beveva il sangue, e si tramutò in un
mostro. Per la mitologia basca le “lamiak” (plurale di Lamia) sono creature
con zampe di uccelli che vivono nei fiumi e nei boschi. Spesso avevano dei
pettini d’oro.

I folletti italiani, ed europei in generale, presentano varie caratteristiche


comuni: il berretto rosso (o parte del vestiario di quel colore), il sedersi
sul ventre di una persona addormentata per toglierle il respiro e numerosi
altri (leccare i capelli, specie dei bambini, per creare ciuffi ribelli, annoda-
re la criniera ai cavalli, talvolta il vago aspetto scimmiesco, eccetera). La
caratteristica del berretto o cappello rosso è presente anche nei sanguinelli
imparentati con i salvanel, nei powrie, “berretto insanguinato” o dunter,
folletti britannici che prendevano possesso dei castelli disabitati, dove ci
fosse stato in passato un atto di violenza. Il nome powrie deriva dall’abi-
tudine di intingere il berretto nel sangue della vittima e solitamente è as-
sociato al Red Cap. Berretto rosso è chiamato anche Bloody Cap (cappello
insanguinato), e Far Darrig (da Fear Dearg, uomo rosso). In un momento

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del romanzo si possono riconoscere, tra gli altri esseri, i cardinalen, folletti
di Imola con berretti prelatizi (rossi), conosciuti anche come barabanen; i
linchetti, creature lucchesi, i mazapegul, con berretti rossi sul capo, ibri-
di tra un gatto e una scimmia (molto probabilmente imparentati con i
mazzamurelli), il folletto piemontese vestito di rosso guenillon del Loo; i
pamarindi, folletti friulani dalle lontane origini finniche (nel poema fin-
landese Kalevala c’è la descrizione di un bambino con un cappuccio conico
e con scarpe di rame. Il pamarindo aveva il potere di trasformarsi in gigan-
te e viveva nei dintorni di Udine. Lanciava fischi, si gettava nei dirupi e le
bestie che lo inseguono muoiono sfracellate), i manteillons, folletti delle
cime del Monte Bianco, esseri senza gambe che nascondevano il corpo con
ampi mantelli.
Vaina era un folletto novarese dall’aspetto di neonato, che rotolava lungo i
pendii lanciando vagiti. Se si imbatteva in un bambino solo, quest’ultimo
veniva a sua volta maledetto.

Baba Yaga (mitologia slava/russa) viveva in una capanna che poggiava su


due zampe di gallina. Il buco della serratura era costituito da una bocca di
denti taglienti.

Le smare erano creature della notte appartenenti alla famiglia degli incubi
(in qualche modo imparentate con la pesarola). Il nome potrebbe derivare
da manhar, incubo, mentre mara è una parola finnica che significa fan-
tasma. Si originavano dal sangue umano e aggredivano coloro che erano
“stati battezzati male”. Conosciute nel bellunese e in altre zone del Veneto,
si credeva che contro le smare fosse utile tenere in mano una pannocchia
di granturco.

Beatrico: spesso era un tutt’uno con il mito della Caccia Selvaggia (Bea-
trico o Beatrìc era uno dei leader nella versione alpina del mito). In alcu-
ne zone venete, infatti, il corteo notturno di cani selvaggi è detto Catha

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Beatrich. C’è chi associa il nome Beatrico a Þiðrik af Bern, Dietrich von
Bern (Teodorico da Verona. Bern era il nome tedesco altomedievale della
città ed era così chiamata anche dai cimbri dei Tredici Comuni veronesi e
dei Sette Comuni vicentini). Alto, magro e sparuto, con la sua muta di cani
altrettanto magri e ossuti, Beatrico viaggiava fra il Trentino e il Veneto.

I monacielli sono i più noti folletti del Sud Italia. Perlopiù di natura be-
nigna (statuine che li raffigurano sono tutt’oggi considerate dei portafor-
tuna), avevano l’aspetto di piccoli esseri incappucciati, da cui il nome.
Una delle versioni sulla nascita del mito dei monacielli risale al Seicento,
quando un ricco signore napoletano diede l’ordine di costruire un nuovo
acquedotto riutilizzando i canali di tufo risalenti al IV sec. a.C. I lavoratori
(“pozzari”), con lunghi mantelli scuri e un elmetto, a volte erano costretti
a risalire nei cortili delle case, spesso spaventando la gente. Secondo le leg-
gende lucane, i monacielli erano, invece, i bambini morti senza battesimo;
per altre favole il monaciello aveva un copricapo rosso ed era pronto a rico-
prire d’oro chiunque fosse stato così svelto da rubarglielo (altra caratteristi-
ca comune fra i folletti: il berretto che, se preso, può regalare un tesoro. Per
questo, spesso, i folletti avevano più berretti, uno sopra l’altro). Secondo
altre fonti ancora, la leggenda si sviluppò a Napoli già nel 1578, durante il
Vicereame di Spagna: in una raccolta di leggi che regolavano gli affitti, un
articolo stabiliva che se il locatario veniva assalito da un monaciello aveva
il permesso di lasciare l’abitazione senza pagare.

Leggende sui pavarò erano diffuse in diverse regioni italiane (a volte con
vari nomi), il termine deriverebbe da pavor, paura. Talvolta avevano teste
di cane ed erano armati di falcetti. A Belluno vivevano i komparet, appar-
tenenti alla stessa famiglia.

Il pizzingulle era un folletto maligno, dall’aspetto sconosciuto, che vive-


va nei dintorni di Reggio Calabria. È una delle numerose creature fatate

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elencate da Dario Spada nel suo celebre “bestiario” Gnomi, fate, folletti e
altri esseri fatati in Italia.

Muscas maceddas: creature leggendarie sarde con testa di pecora, un oc-


chio solo al centro della fronte, denti aguzzi, ali corte e, sulla coda, un
pungiglione velenoso.

I morkies erano folletti del Trentino dalla forma vagamente caprina. A vol-
te si trattava di un ceppo che si lasciava portare in una casa, per poi fuggire
quando i contadini accendevano il fuoco.

Gnefro: diffuso a Terni e nella Valnerina, era un folletto che viveva nel
pressi della Cascata delle Marmore e lungo il fiume Nera. A volte è ri-
cordato come un bimbo grazioso. Gimo genno giune, la frase che dice nel
romanzo, significa: “iniziamo a scendere”.

Beate genti o sealagan laute: le antiche popolazioni della Lessinia rac-


contavano favole sui primitivi abitanti di quel territorio, le Sealagan Laute
o Hoalagan Laute (o Seleghen Baiblen), Gente Beata o Gente Santa. Per
alcuni erano esseri splendenti che si potevano vedere solo all’alba o al tra-
monto e cavalcavano cavalli bianchi durante il giorno e neri durante la
notte. Leggende sulle Sealagan Laute sono presenti soprattutto a Giazza/
Ljetzan. Avevano vesti splendenti e vivevano in dimore meravigliose che
però, se avvicinate, scomparivano. Spesso erano creature solo femminili e
si confondevano con le anguane o le fade. Secondo altre versioni le beate
genti dimoravano nelle grotte, si vestivano di cortecce (come le Driadi), di
scorze d’abete, si nutrivano di carne umana e davano la caccia a caprioli,
uccelli, vipere e altri animali, che mangiavano crudi. In particolari notti
(la Notte dei Morti, soprattutto), scendevano le montagne innevate in-

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nalzando arti umani infuocati. Potevano governare il tempo atmosferico
e scatenare temporali. Le Sealagan Laute sono, da alcuni, associate agli
elfi della mitologia norrena (il termine “elfo”, a sua volta, deriverebbe dal
latino “albus”, bianco, o almeno questa è una delle ipotesi). Le beate genti
dei Tredici Comuni dimoravano nella Sealagankùval (Grotta della Gente
Beata, Giazza. È situata nel versante destro della Val Fraselle, nei pressi del
Kitzarstuan, il Macigno dei capretti). Per certe credenze, si mescolavano
agli uomini e alle donne, lavavano i panni della gente dei villaggi, stenden-
do una fune attraverso la Val Fraselle, lanciando grida per allontanare gli
uccelli: “Shua, ra ra ra”, “Vola, via via via”. Un aspetto che potrebbe ris-
pecchiare un’eredità delle parche greco-romane e dalle matres celtiche: nelle
prime ricorre la matassa di filo, come le seconde sono disponibili ad aiutare
gli uomini (fonte: Orchi, anguane, fade in grotte e caverne, Curatorium
Cimbricum). Un capo della fune veniva legato al Sealagankùval e l’altro
alla roccia della Grol, verso contrada Prusti. Così come le anguane, si con-
fondevano spesso con le persone comuni e potevano andare in moglie a un
uomo del paese. Cita una favola che una fanciulla delle genti beate andò
sposa a un uomo di Giazza. Sua madre le diede il capo di un gomitolo,
ordinandole di non dire mai a nessuno dove fosse l’altro capo del filo. La
ragazza, però, confessò il segreto, e da allora fu perduta e nessuno la rivide
mai più (Dal canto Binte: “I gi-der an stre; binte, ma kud mai benje ist iz
hort”, “Ti do una matassa di filo; lega, ma non dire mai dov’è il capo del
filo” – Curatorium Cimbricum Veronense, 2005).
Il linguaggio delle beate genti (nel romanzo) è il veronese del XIII seco-
lo, attinto dall’opera De Babilonia Civitate Infernali di Frate Jakomin da
Verona (una sorta di “Inferno” scritto dall’autore intorno al 1275). Fran-
cescano, Jakomin conosceva il latino ma per comunicare con il popolo
utilizzava il dialetto veronese stretto. Con ogni probabilità utilizzava parte
dei suoi poemetti durante le funzioni religiose. Non si sa se ci sia stato un
incontro con Dante Alighieri durante gli anni in cui il sommo poeta fu a
Verona ospite di Cangrande Della Scala (1316 – 1318). Jakomin scrisse
anche il poemetto De Jerusalem celesti.

Le donne di fuora erano fate o streghe siciliane costrette a tramutarsi in


rospi in certi giorni della settimana.

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Il martorèl, conosciuto nel Cadore, era vestito completamente di bianco,


appariva negli angoli delle strade e attirava i golosi con leccornie. Ma quan-
do qualcuno si avvicinava, lui lo afferrava e lo portava via con sé.

Sprovincolo: folletto marchigiano, dall’aspetto infantile e con gusci di


noci per scarpe. Si può considerare un parente dei pesaroli (è infatti detto
anche pesarello), appartenente alla classe degli incubi. A volte indossava un
berretto rosso.

Cialciùt: creatura friulana e istriana della notte, piccola, ingobbita e ri-


coperta di peli ispidi. Come tutti gli Incubi turba il sonno degli uomini
sedendosi sul loro petto o sul ventre (spesso è identificato come un folletto
vampiro). Talvolta la vittima sogna di trovarsi in una gigantesca chiesa o
sull’orlo di un baratro, poi una figura spettrale lo fa cadere. Il cialciùt è im-
parentato con il pesarol o pesarùl (vedi sopra). In Istria e in Slovenia è detto
anche mora. A Trieste è conosciuto anche come Matrizza.

Bügn: folletto mantovano, abitava nei fiumi e nelle pozze di acqua sta-
gnante. Aveva file di denti aguzzi simili a spine.

Cules: strani esseri simili a fuochi fatui. Presenti in Piemonte tra Cuneo,
Torino e Novara. Secondo alcuni, tenevano fra le mani un fuoco, per altri
erano loro stessi fatti di fiamme.

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Traigolzu: “Su Traigolzu”, essere leggendario sardo, per certe tradizioni
era una sorta di minotauro che alla mezzanotte tra il 14 e il 15 agosto scio-
glieva le sue catene ed emergeva dalle profondità del mare, per tornare ad
essere incatenato alla mezzanotte tra il 15 e il 16.

Gli arfai o arfari erano maschi di fate. Presenti anche in Francia, in Italia
sono ricordati in alcune leggende torinesi.

Silvani: probabilmente il nome deriva da silva e serviva a indicare un antico


spirito dei boschi. Altri nomi con cui questo folletto era conosciuto sono
salvanello (salvanèl in Trentino Alto Adige), sambinello, salbaneo in Veneto,
salbanello. Secondo le tradizioni è vestito di rosso (o ha un copricapo rosso,
per questo è ricordato anche come sanguinello). A volte era una minuscola
creatura che lecca i capelli dei bambini, rendendoli difficili da pettinare.
Un’altra leggenda parla invece del fantasma di un ladruncolo, Salva Nello.
Illuminato dalla luna durante un furto, l’uomo tentò di oscurare la luce
con le fascine che stava cercando di rubare. I rami, lanciati in alto, fecero
sanguinare la luna e gli abiti del ladro si sporcarono di rosso. L’uomo fu
maledetto e tramutato in un folletto destinato a vagare, di tanto in tanto,
nel mondo. Salvanello è anche uno dei nomi del diavolo.
Nel romanzo i silvani dimorano nelle grotte nei pressi del Ponte di Veja,
un enorme arco naturale di roccia (il più grande d’Europa), formatosi nel-
l’antichità dopo il crollo di una grotta carsica. Situato a 602 metri sul
livello del mare, il Ponte di Veja è alto 50 metri, l’arco ha uno spessore di
circa 10 metri e una larghezza media di 17. Numerosi i ritrovamenti ricon-
ducibili al Paleolitico medio e inferiore (sotto i massi crollati e in due ca-
verne carsiche situate sotto l’arco roccioso). La tradizione vuole che Dante
Alighieri abbia preso ispirazione da questo luogo, durante il suo soggiorno
veronese, per la descrizione delle Malebolge.
Fra gli altri luoghi citati, anche le Cascate di Molina e l’“Abisso” (tra il
Veneto e il Trentino, la Spluga della preta è una delle grotte carsiche più
profonde del mondo. La profondità esplorata è di 985 metri. Situata nei
pressi del Corno d’Aquilio, a 1475 metri slm).

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Le diali erano creature fatate alpine simili agli elfi e avevano mantelli che
sembrano fatti di neve.
Samblana era la regina delle nevi delle Dolomiti, a volte accompagnata
da due ancelle, le Yemeles, le “gemelle”, bambine identiche che giravano
mano nella mano nelle pietraie della zona dolomitica. Era possibile incon-
trarle al mattino, quando i prati erano intrisi di rugiada. Avvisavano gli uo-
mini di un’imminente disgrazia ed erano creature sorte dal lago di Garda.

Anguane: creature femminili dalla doppia natura di donna e di rettile,


spesso ricordate con piedi caprini. In ogni caso, legate alle sorgenti e ai
corsi d’acqua. Le anguane appartengono alla mitologia alpina, soprattutto
triveneta, ed erano forse affini alle ondine delle saghe germaniche o alle
ninfe acquatiche pre-cristiane. Si potrebbe trattare di divinità un tempo
venerate dalle popolazioni celtiche dell’Italia Settentrionale: dediche alle
matronae e alle adganai sono state trovate in vari luoghi, anche in Lom-
bardia. A seconda del luogo erano dette anche agane, zubiane, aiguane.
A volte venivano chiamate Bèle Butèle (belle ragazze), o strìe (streghe). La
tradizione vuole che (come si dice anche per altre creature fatate) abbiano
insegnato agli uomini a lavorare il latte e a fare il burro e il formaggio, e
che lavassero i panni della gente dei villaggi. In certi casi avevano piedi ca-
prini, talvolta posti al contrario. Le loro grida erano molto forti e in grado
di stordire, da cui l’antico detto veneto “sigar come ’na anguana”, “gridare
come un’anguana”. Vestivano solo di nero e potevano lavorare per la gente
dei villaggi solo di notte (si ritiravano quando suonava l’Ave Maria del
mattino). Si parla per la prima volta di aguane in un testo del XIII secolo,
il De Jerusalem Celesti di Frate Jakomin da Verona (vedi sopra). Secondo
alcune leggende erano le anime delle donne morte di parto. Ittele era il
nome di un’anguana veneta.
Nel paese ladino di Costlisëgn il loro mito si fonde con l’arrivo in Veneto
di guerrieri germanici ai tempi dei romani (genti che secoli dopo furono
dette “ongari”, da ungheri.), in altre zone del Nord Italia avevano calzari
fatti di pelle di capra, da cui, forse, la leggenda dei piedi caprini (elemento,

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tuttavia, riscontrabile in numerose altre creature fatate dopo essere state
bandite dal Cristianesimo).

Omeni selvadeghi: a seconda della regione l’Omo Selvadego è chiamato


in vari modi: Om Selvadegh in Val Pusteria, Om Selvadego in Valtellina, Om
Salvei nel biellese, Ommo Sarvadzo o Omo Selvadego sulle Alpi Apuane e
nell’Appennino Toscano, Om dal Bosk in alcune aree del Trentino. Bilje
Manne, Uomini Selvatici, è il termine cimbro. Omo Selvadego era anche
una celebre maschera del Carnevale Veneziano, forse la più semplice da
costruire: bastavano degli stracci e dei rami.

Rurel: folletti del Brenta.

Camene: (in latino Camēnae o Casmēnae o Carmēnae) erano, nella mi-


tologia romana, divinità delle sorgenti. Legate al parto, venivano invocate
perché il feto si presentasse nella giusta posizione, con la testa in avanti.

Beilhund: folletto del Trentino con la testa di ascia.

Rusalki: creature fatate slave, divinità minori dell’acqua che corrispondo-


no alle ninfe. Di notte uscivano dall’acqua per ballare alla luce della luna.
Il loro albero sacro era il platano.

Callicantzaroi: creature leggendarie greche, albanesi e italiane (elfi, per


alcuni). Orrendi d’aspetto, privi di vista, erano l’ultima incarnazione di

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divinità decise a non scomparire dal mondo.

Il fauno è una delle più antiche divinità italiche. In alcune versioni del
mito è identificato con un antico re del Lazio. In versioni tarde fu asso-
ciato al dio greco Pan, oltre che al Satiro (Grecia). Sarebbe stato il terzo re
preistorico d’Italia.

Nani del ghiaccio, Eismandl: diffusi in Trentino. Tra le varie favole italia-
ne che parlano di nani (a volte sono detti Ometti), celebre è quella di Re
Laurino, che aveva un meraviglioso giardino di rose. Il sovrano dei nani
rapì una principessa, ma dei cavalieri, grazie ai colori del roseto, riuscirono
a trovare subito il nascondiglio. Furente, Laurino lanciò una maledizione
sul giardino, che da allora non poté più essere visto di giorno, né di notte.
Il roseto diventò visibile solo all’alba e al tramonto, quando, cioè le Dolo-
miti si colorano di rosa.

Trolli: figure leggendarie scandinave, i troll sono ricordati anche in Italia


(trolli) e in Sud Tirolo. Alcuni trolli abitano, secondo le tradizioni, sulla
Rascesa vicino a Bolzano. Se un raggio di sole li coglieva, si tramutavano in
pietra (motivo per cui, per l’immaginario, in alcuni prati dell’Alto Adige si
ergono dei grossi macigni. Leggende di troll che diventano montagne sono
citate anche in Norvegia).

Nel romanzo non compaiono veri e propri mostri mitologici, ma si citano


il Basilisco (numerose le leggende sui monti Lessini, in particolare a Giaz-
za/Ljetzan) e l’anfisbena (Anphisibena, Bilotta), il cui nome deriva dalle
parole greche amfis e baneim, “che va in due direzioni”, leggendario ser-
pente dotato di due teste. La tradizione vuole che sia legato anche al mito
del celebre Noce di Benevento (culto longobardo della vipera).

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Salbanelli: in qualche modo imparentati con il salvanelli, questi folletti


avevano la testa sproporzionata rispetto al corpo e avevano i capelli ricci
e arruffati, tutt’uno con le barbe. Non parlavano ma lanciavano orrende
grida.

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LEGGENDE

La zoppa di Campofontana è una storia che si è diffusa molti anni fa


a contrada Pagani. Un’anziana zoppa, approfittando dell’assenza di una
coppia di allevatori, affatturò un bambino, che poco tempo dopo morì. In
seguito la strega riuscì a uccidere anche l’altro loro figlioletto. I due ebbe-
ro un terzo figlio e un giorno la madre trovò anche su di lui i segni della
maledizione. Chiesto aiuto a un prete, il piccolo fu salvato con dell’acqua
santa.

Corvi: hanno un ruolo particolare in diverse mitologie, soprattutto nor-


deuropee. I celti li associavano alle profezie e alla morte, erano sacri a Lug
e alla dea irlandese Morrigan (che poteva assumere forma di corvo). In
Britannia, nell’Età del Ferro, esistevano rituali legati ai corvi, spesso se-
polti, forse come sacrificio per forze maligne dell’oltretomba. I due corvi
Huginn e Muninn (Pensiero e Memoria), erano inviati da Odino per il
mondo, tornavano al tramonto per sussurrargli cosa avevano visto. Odino
si serviva di corvi anche nella Caccia Selvaggia.

In Lessinia, nei XIII Comuni cimbri, come protezione per tutto ciò che è
malvagio era molto sentita la cosiddetta preghiera dei tre angeli: Oggi noi
andiamo a dormire con tre angeli ai piedi, uno ci copre, uno ci sveglia, uno
ci protegge, da tutte le cose cattive, e da tutti i sogni cattivi, fino all’amato,
limpido giorno. In lingua taucias (“cimbro”): Haint geni-nidar suaze pit drai
anghiler a’ de fuaze. Oaz decka-pi un oaz dorbecka-bbi un oaz hauta-bbi. Fon
alljen poasen dinger un fon alljen poasen tromen. Derwai’ der liabe liachte tac
kint.

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Vari scongiuri che si sono diffusi sui Monti Lessini hanno, invece, signifi-
cati oscuri: Aber aber, eber eber os non conminuetis ex eo, dia biz sabav xeber,
aber aber, eber eber. “Ox non conminuetis ex eo” si riferirebbe a Gesù sulla
croce: “le sue ossa non si spezzeranno” (dopo aver riscoperto questo testo,
il regista Alessandro Anderloni dell’associazione Le Falìe di Velo, ha pro-
dotto, con musiche di E. Zanfretta, la bellissima canzone Aber aber, conte-
nuta nel cd Binte). Un’altra formula che sembra in qualche modo fondere
magia e religione, conosciuta anche in altre zone, era: Va’ via temporale,
nella val scura, dove non c’è il sole né la luna (Vatene, o tempore, in te la val
scura, ando no’ gh’è né sole né luna. Una donna di San Mauro di Saline la
recitò davanti a un braciere acceso). Di tutt’altra natura, e anch’essa diffusa
in più zone, era una vecchia preghiera dei ladri: “Nel nome del rubare,
sempre continuare, mai restituire, a costo di morire”.

Il sogno del cane: la nascita di Cangrande Della Scala, nel 1291, pare sia
stata preceduta da un sogno premonitore della madre: la donna si imma-
ginò mentre partoriva un cane, che col suo possente abbaiare svegliava
l’intero mondo. Quando il bambino nacque fu chiamato Can Francesco.

La simbologia del cane è molto vasta e ne fanno riferimento numerosi


miti. Il cane è uno psicopompo, accompagna le anime nell’aldilà. Era par-
ticolarmente venerato dai celti. Arawn, signore dell’Annwn (oltretomba
gallese) possedeva cani soprannaturali. Numerose le leggende nelle isole
britanniche, dove un cane nero era presagio di morte e restava di guardia
sui vecchi sentieri. In antichità, soprattutto nell’area del Nord Europa (e,
in età feudale, in alcune zone italiane, per esempio presso gli Scaligeri),
era simbolo di forza. Nella mitologia scandinava e longobarda appare a
volte con animali come il corvo, il lupo, l’orso. Si ricorda Garmr, il cane
infernale che sorveglia l’entrata di Hel, il mondo dei morti. I guerrieri
longobardi, prima della loro discesa dalla Scandinavia, erano detti winnili:
secondo alcune interpretazioni significava cani folli). Un cane da caccia,
assieme a un cavallo nero, condussero re Teodorico all’Inferno. La Caccia

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Selvaggia (Catha Selvarega) della mitologia alpina era composta da una
muta di cani neri: le anime degli uomini morti sui monti. Il mito del po-
polo di uomini-cane (cinocefali) è presente in tutte le culture indoeuropee
di età classica, dall’Africa Settentrionale alla Grecia, dalla Persia all’India.
Popolazioni di uomini-cane vengono descritte da vari autori latini e greci
con nomi diversi. Tra le varie figure mitologiche, la dea Ecate, Cerbero,
mentre in Egitto si venerava Anubi, rappresentato con una testa di cane
nero (o uno sciacallo).

La simbologia dell’albero è altrettanto ricca. Il platano menzionato nel


romanzo è oggi detto “dei Cento Bersaglieri” ed è stato piantato nell’estate
del 1574. Misura 25 metri d’altezza, per una circonferenza di oltre 15 me-
tri. La tradizione vuole che nel 1937 l’esercito italiano abbia nascosto fra i
rami e nelle sue cavità un’intera compagnia di soldati. Nell’inverno del ’44
le SS, preoccupate dei continui agguati dei partigiani – agguati che partiva-
no proprio dai nascondigli dell’albero – decisero di tagliare diversi rami. La
pianta si trova in una frazione di Caprino che ora ha preso il nome di “Pla-
tano” (in precedenza era Salgaréa). L’albero, il platano più grande d’Italia,
sorge davanti al torrente Tasso ed è monumento nazionale. Nel romanzo
sono citati anche altri alberi leggendari, come il Noce di Benevento, dove
avvenivano i convegni fra le janare, le streghe del Sud, e l’Yggdrasil della
mitologia norrena. I sanctivi erano alberi venerati dai longobardi.

La Defunta Correa è una leggenda argentina risalente all’Ottocento. Deo-


linda Correa viaggiò con il figlioletto tra le braccia: non aveva nulla da
mangiare e da bere e morì di sete, ma il bimbo si salvò con il latte della
madre morta. Così fu trovato da dei testimoni. Il culto della defunta Cor-
rea, protettrice dei bambini, viene oggi simbolicamente ricordato portan-
do fiori e acqua su piccoli altari.

Villa Pullé, Chievo: fino a non molto tempo fa ritenuta una casa strega-

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ta, in passato fu ricovero di senzatetto e negli scorsi decenni, forse, sede
di messe nere. L’impianto originale del grande parco circostante risale a
circa metà Settecento, mentre non è certo a quando risalga esattamente
la casa (se ne hanno per la prima volta notizie nel 1518). Fu di proprietà
del conte Leopoldo Pullé, deputato e commediografo, poi di Elvira Mini-
scalchi-Erizzo, che la lasciò al Consiglio Ospitaliero, a patto che vi venisse
costruito un ospedale per tubercolotici. La struttura chiuse nel 1960, da
allora Villa Pullé è disabitata. Recentemente si è voluto riqualificare il bel-
lissimo parco adiacente la casa. Il bosco vicino a Chievo è ancora oggi detto
“Mantico” e si ritiene che in passato sia stato sede di un oracolo.

Bambini scambiati (changeling): «Alle volte i folletti si invaghiscono dei


mortali, e se li portano via nel loro paese, lasciando al loro posto qualche bam-
bino folletto malaticcio, oppure un ciocco di legno che grazie a un incantesimo
sembra un mortale, e a poco a poco si consuma, muore e viene sepolto» (Yeats,
Fiabe Irlandesi). Il mito dei bambini scambiati è presente anche in alcune
regioni italiane, per esempio nelle leggende dei Bregostani, uomini selvaggi
del Trentino.

Libri del Comando: favole sui “Libri del Comando”, o Libri del Mago,
Libri del Diavolo, a volte Libri del Magnetismo, sono presenti in nume-
rose regioni italiane, dal Nord al Sud (in Piemonte erano ereditati dalle
masche, a sud si immaginavano di proprietà delle janare, nel nord-est delle
strie). Alcune leggende attribuiscono i libri a Pietro d’Abano (1250-1316).
Accusato di eresia, d’Abano morì in carcere, in seguito il suo cadavere fu
disseppellito e arso sul rogo. Si racconta un fatto avvenuto a contrada Pa-
gani di Campofontana: uno dei “libretti del mago” (Puox von Megi o Puach
von Megi) era stato trovato e si era preparato un falò per bruciarlo. Ma al
contatto con le fiamme il libro lanciò orrende grida e tentò di alzarsi in
volo. Solo dopo aver versato gocce di acqua santa sul testo maledetto, il
rogo fu portato a termine. Chi riusciva a trovare uno dei (tre?) Libri del
Comando, era in grado di volare, riempire le stalle di “esseri vivi” (bestia-
me) e portare a termine ogni sorta di prodigio.

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Balor l’occhio malvagio: nella mitologia irlandese, Balor, detto Bailc-


bemnioch “Dai colpi possenti” e Birugderc “Occhio malvagio”, era un
condottiero che poteva uccidere chiunque soltanto guardandolo con il suo
occhio maledetto. L’occhio di solito era chiuso e veniva aperto sul campo
di battaglia da quattro uomini.

Horo: il mito lo vuole figlio di Osiride ed Iside e vendicatore del padre nei
confronti di Seth, il quale gli tolse un occhio durante lo scontro.

Odino: norreno Óðinn, anglosassone Woden, tedesco Wotan, longobardo


Gòdan, principale divinità del pantheon nordico, dio della guerra e della
magia, della sapienza e della poesia. Per apprendere l’arte delle rune rimase
appeso all’albero Yggdrasill per nove giorni e nove notti. Per la mitologia
norrena, Odino guiderà gli dèi e gli uomini contro le forze del caos nel-
l’ultima battaglia, quando giungerà il Ragnarök, la fine del mondo, nel
quale il dio sarà ucciso, divorato da Fenrir, il lupo del Bosco di Ferro
(Járnviðr).

Benandanti: (“buoni camminatori”), legati al culto della fertilità della ter-


ra diffusosi in Friuli intorno al XVI-XVII secolo. Congreghe di persone
che si prefiggevano di contrastare i malefici delle streghe, occupandosi in
particolare della protezione dei raccolti. I benandanti erano “nati con la ca-
micia”: scelti fra i bambini a loro volta scelti dal destino, cioè ancora avvolti
dal sacco amniotico. Fra le armi dei benandanti per contrastare le streghe
c’erano gambi di finocchio. Dopo il Concilio di Trento i benandanti furo-
no dichiarati eretici dalla Santa Inquisizione. Il loro culto si diffuse nella
pianura friulana, arrivò in Istria e, a ovest, anche a Vicenza e a Verona.

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Striossi erano detti gli stregoni nel veronese.

La Stregheria, o Vecchia Religione delle streghe italiane, si diffuse soprat-


tutto nel XIV secolo attraverso Aradia, detta la Santa Strega, figlia mes-
sianica della dea Diana con la missione di insegnare la stregheria ai poveri
e agli oppressi. La stregheria si basava in realtà su tradizioni molto più
antiche, dal culto delle streghe pre-etrusche e da due movimenti pagani
millenari: “Ad cursum Dianæ” (il Corteo di Diana) e “Dominæ Ludum”
(la Signora del Gioco).

Hagalaz, runa simbolo dei cristalli di ghiaccio. A seconda del luogo era
detta Haal, Hagall, Haegl. In certe raffigurazioni assomiglia vagamente a
una scala e nel romanzo è uno dei simboli degli orchi.

Morto che conduce il vivo: in una vecchia fiaba della Lessinia si parlava
della profezia di un morto che avrebbe condotto un vivo. La profezia si
compì quando sulla carogna di un cervo trascinata da un torrente scese un
rapace per cibarsi della sua carne. (La principessa degli indovinelli, in Favo-
la, leggenda e realtà nei racconti dei filò dei monti Lessini, a cura di Attilio
Benetti).

Due soli in cielo alla fine del mondo: «alla fine del mondo compariranno
nel cielo due soli». La credenza era diffusa in passato in alcuni comuni
cimbri, probabilmente un mito di origine germanica. Nel testo, il mito si
fonde con il fenomeno del “parelio”, chiamato anche Cani del sole.

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Reitia (pronuncia: reizia) era dea creatrice e protettrice delle partorienti. Il
simbolo misterioso a forma di chiave (la Chiave di Reitia), probabilmente
un caduceo stilizzato, aveva il potere di aprire le porte agli iniziati, i sette
cancelli che conducevano ai Titani. I Reti erano una popolazione italica
pre-romana stanziata intorno al II sec. a.C in un’area compresa tra i fiumi
Reno, Ticino, Adige, Isarco, Drava e Inn, nelle attuali regioni di Trentino-
Alto Adige, Tirolo, Bassa Engadina, prealpi veronesi, Lombardia alpina.

Una casa piena di incisioni di croci si trova nel piccolo abitato di San Fran-
cesco, tra Camposilvano e Velo. Il vecchio edificio di pietra, disabitato (mai
completato), sorge in un prato isolato, al limitare del bosco. Avvicinandosi,
si può notare che tutti i muri interni ed esterni, così come i massi circo-
stanti l’abitazione, sono riempiti di croci, incise o scolpite in varie forme e
misure. Il nome di chi provò ad abitare nella casa nessuno se lo ricorda, ma
si parla del tentativo disperato di un uomo di scacciare i numerosi spiriti
malefici e creature strane che infestavano i vicini boschi.

Il brigante Tomasin (pare che il nome fosse Tommaso Comerlati) aveva


trovato rifugio in una contrada di Velo, “Montagna Alta del Carbone”,
Tredici Comuni cimbri. Probabilmente vissuto all’epoca di Napoleone I, a
contrada Comerlati. Violento, abile ladro, aveva lunghe trecce di capelli e
si diceva avesse fatto un patto con il diavolo. Un giorno sorprese un uomo
che rubava delle pere da un albero di sua proprietà: lo obbligò a mangiare
tutte le pere, poi lo fece salire sulla pianta e gli fece fare il verso del cuculo.
Infine, gli sparò. Forse il demonio stesso, nelle sembianze di un grosso cane
nero, lo rincorse una notte, ma il brigante gli gridò che non era ancora
“arrivata l’ora”, e che le sue malefatte non erano state tutte compiute. In un
racconto l’uomo sale su una pianta, pronuncia le parole “Il corpo ai corvi,
l’anima a Satana” e scompare nel nulla. (fonte: Favola, leggenda e realtà nei
racconti dei filò dei Monti Lessini, di Attilio Benetti).

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Stele di Luni: breve citazione, nel romanzo, di questo mito ligure. In
Lunigiana sono stati ritrovati numerosi monumenti preistorici in pietra,
creati tra il III e il VI millennio a.C. Le statue, dal significato oscuro, rap-
presentano uomini, nella maggior parte dei casi dal volto stilizzato a forma
di mezzaluna.

Barone Corvo: alla fine del Cinquecento il feudo di Roccascalegna fu ac-


quistato dal barone Vincenzo Corvi di Sulmona per 10.000 ducati. L’uo-
mo era soprannominato “Corvo” (o “Barone Corvo de Corvis”), perché
imponeva agli abitanti di adorare un corvo nero come la notte, con gli
occhi rossi e fiammeggianti. Il barone fu assassinato e assieme a lui perì il
suo corvo. Si dice che l’uomo, prima di morire, abbia lasciato sul muro di
una stanza del castello l’impronta della sua mano insanguinata.

Una bottiglia con dentro Napoli: il mago Virgilio, per difendere Napoli
dagli invasori, costruì un minuscolo modellino della città e lo chiuse in
una bottiglia. Le pareti di vetro sarebbero diventate una protezione anche
per la città reale. Ma la bottiglia si ruppe e, con essa, l’incantesimo.

Moro di Capitignano: il Simbolo del Comune di Capitignano è la testa di


un moro, a ricordo dell’amante di una regina. Quando i figli della sovrana
assassinarono il moro, la donna fece fare con il cranio del morto una tazza
coperta d’oro, con le ossa delle gambe una sedia e con quelle delle braccia
una cornice per uno specchio.

Perchta era una divinità nelle tradizioni alpine pre-cristiane. Il suo nome
significa La Splendente. Le parole peraht, berht e brecht significano radioso,
luminoso e/o bianco. È considerata una sorta di cugina meridionale di

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Holda ed è associabile alla Befana.

Il corno rosso portafortuna è il più diffuso amuleto italiano. Le sue origini


risalgono al Neolitico, quando veniva usato come auspicio di fertilità.

Napoleone in Veneto: secondo le vecchie testimonianze, l’arrivo di Napo-


leone Bonaparte in Veneto fu preceduto da avvenimenti catastrofici come
malattie del bestiame, inverni estremamente rigidi e altri episodi che la
gente giudicò “maledetti”.

Caccia Selvaggia: mito di origini nordiche, presso i vichinghi era guidata


da Odino. Esistono versioni in numerose altre zone d’Europa. La leggenda
è presente anche in Italia, un mito alpino diffuso soprattutto nell’area ve-
neta, dove il leader è di solito associato a Teodorico da Verona (il Dietrich
von Bern delle saghe germaniche, citato anche nel Canto dei Nibelunghi).
Il corteo era spesso formato da una muta di feroci cani neri, coloro che
erano morti violentemente sulle montagne. In altre zone del Nord Italia il
nome del leader era Ce-de-Lu, Zampa de Gal, Spina de Mul.

Ey de Net, Occhio di Notte, era un leggendario guerriero della “Saga dei


Fanes”, storia raccolta e trascritta verso la fine dell’Ottocento da Karl Felix
Wolff. Le moderne interpretazioni fanno risalire i fatti descritti nell’epoca
di transizione tra l’età del Bronzo e quella del Ferro.

Scolari della Scuola Nera: in antichità, il Maligno aprì una scuola dove
potevano entrare solo bellissimi giovani, che rimanevano nel luogo per
sette anni. I giovani erano poi chiamati Scolari della Scuola Nera, o Scolari

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Vaganti (o Veneziani); nel Sud Italia: Greci di Levante. Gli Scolari della
Scuola Nera viaggiavano soli, avvolti in mantelli scuri. Erano conosciuti
anche in Svizzera e spesso avevano il Libro del Comando sotto al braccio.

Sibille: appartenenti alla mitologia greca e a quella romana, erano vergini


in grado di fornire predizioni, figure reali e nel contempo leggendarie. Nel
romanzo la figura della sibilla si fonde, in parte, con le bambole della magia
nera e, come aspetto, con la mummia di Rosalia Lombardo, appartenente
a una bimba di soli due anni nata nel 1918 e deceduta il 06 dicembre
1920. Trattata dal dottor Solafia con una formula ancora oggi sconosciuta,
la mummia, incredibilmente ben conservata e dal commovente aspetto di
una bimba che sembra solo addormentata, si trova oggi nelle catacombe
di Palermo. La pelle del viso appare morbida e colorita, sul capo la piccola
mummia ha un fiocco giallo a trattenere i capelli che ricadono in boccoli
sulla fronte. I parassiti hanno colpito il corpo e alcuni forellini sono chia-
ramente visibili.

Sacra Furia: i Berserkir (Berserker), erano guerrieri vichinghi che avevano


fatto giuramento a Odino. Prima della battaglia entravano in uno stato
mentale di furia/trance, detto berserksgangr.

Concilio di Trento: la tradizione vuole che dopo il Concilio di Trento


(1545-1563) tutte le creature soprannaturali che prima si mescolavano agli
uomini, siano diventate fuorilegge. Per molto tempo si è detto che “Dopo
il Concilio, gli animali, il legno e la pietra non poterono più parlare”.
Secondo una leggenda, Carlo Borromeo, di strada per Trento, invece di
seguire la Val d’Adige passò per “Le Sìne”, la Lessinia, dove la gente gli par-
lò delle fade e degli orchi, supplicandolo di far sparire le creature fatate. A
Camposilvano una chiesa fu dedicata a “San Carlo Borromeo” alcuni anni
prima della beatificazione.

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Altarknotto: su questo altare pagano, intorno all’anno Mille, i montana-


ri dell’Altopiano vicentino veneravano divinità di origine nordica, come
Odino e Thor.

Cimbri: guerrieri provenienti dalla Danimarca (secondo alcune leggende


imparentati con i Cimmeri), dalla regione dell’Himmerland. Una leggen-
da ancora più romantica racconta che, contro il volere dell’Impero Roma-
no, da cui furono sconfitti nel 101 a.C. (dal console Caio Mario), si stan-
ziarono in un’area compresa tra l’odierno Veneto e il Trentino. A Ljetzan
(Giazza – Verona) sopravvive ancora oggi una parlata di origine germanica
e fino a poco tempo fa gli anziani raccontavano che gli avi delle genti dei
monti erano in quel luogo dopo una grande battaglia (Grosse Stroach). “De
ünsarn eltarn habent hortan kchöt, dass dar ünsar stam vun zimbarn ist
von tåüschen lentarn af an nort kömet in des bellische lant, in zait vom
krige, ba dar grosse stroach ist den gant übel./ I nostri genitori hanno sem-
pre raccontato che la nostra stirpe dei Cimbri è venuta dal lontano Nord
in tempo di guerra in terra italiana, poiché la grande battaglia aveva avuto
per loro esito negativo”.

Imnhagalle era una misteriosa divinità degli Arusnati, antica popolazio-


ne dell’Italia settentrionale (Verona, Valpolicella) probabilmente di origini
gallo-celtiche.

Kvitekrist: il Cristo Bianco. Il vecchio nome norreno per indicare Gesù,


che rimpiazzò Odino. Il grande Pan è morto fu il grido che annunciò, ai
marinai egei, la caduta delle antiche divinità e la fine dell’Olimpo.

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Camilgiar: nome di uno stregone dei monti Lessini.

Ultima Battaglia: il Ragnarök (o ragnarøkkr) della mitologia norrena: la


battaglia finale in seguito alla quale l’intero mondo sarà distrutto e poi
rigenerato. Sarà preceduto dal Fimbulvetr, un inverno terribile della durata
di tre anni. Durante la battaglia, l’Yggdrasill, l’albero cosmico, sarà scosso.

Yggdrasill, l’albero del mondo, attorniato da diversi animali: sulla som-


mità c’è un’aquila e tra i suoi occhi un falco, quattro cervi balzano tra i
rami, mangiandone le foglie. Tra le radici si muovono delle serpi, tra cui
Níðhöggr, “colui che colpisce con odio”. Sulla cima di Yggdrasill c’è anche
Víðópnir, il gallo dorato il cui canto annuncerà il Ragnarök, la fine del
mondo.

Una kenning (plurale: kenningar), molto diffusa fra i vichinghi, era una
“frase poetica” che sostituiva, con una metafora, un nome. Per esempio, il
mare era seġl-rād (“strada delle vele”) e la “danza del verme della rugiada
del massacro” la battaglia (“la rugiada del massacro” è il sangue, “il verme
del sangue” è la spada, e la “danza delle spade” è la battaglia).

Il telo funebre che ricopriva la mummia di Cangrande fonde in un intrec-


cio le figure di un oca, di un coniglio e di un leone. Quando l’occhio si
ferma su uno degli animali disegnati, l’altro sembra scomparire.

La Porta Alchemica, detta anche Porta Magica o Porta Ermetica o Porta


dei Cieli, è un monumento edificato tra il 1655 e il 1680 da Massimiliano
Palombara marchese di Pietraforte (1614-1680) nella sua residenza roma-

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na. Fra le epigrafi: horti magici ingressum hesperus custodit draco et sine alcide
colchicas delicias non gustasset lason (Il drago esperio custodisce l’ingresso
del magico giardino e, senza – la volontà di – Ercole, Giasone non potreb-
be gustare le delizie della Colchide) e si sedes non is: il motto può essere
letto da sinistra a destra (“Se siedi non procedi”) e da destra a sinistra (“Se
non siedi procedi”).

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