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Paolo Volponi

MEMORIALE

Garzanti, Milano

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I personaggi e i fatti di questo romanzo sono immaginari; i luoghi e i paesi
esistono. La «città industriale» non ha identità, anche perché l’autore non vuole che,
con la pretesa di riconoscere una città o una fabbrica, si giunga ad attribuire
soltanto a questa le cose narrate.

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*1*

I miei mali sono cominciati tutti alcuni mesi dopo il mio ritorno dalla prigionia
in Germania, quasi che la terra materna, dopo tanto e così crudele distacco, mi
rigettasse. Io sono nato il 12 marzo 1919 ad Avignone, in Francia; ma sono
italiano e di genitori italiani, padre piemontese e madre veneta, nata nella
campagna fra Padova e Treviso, in luoghi assai belli, ella mi ha sempre detto, che
io non conosco. Oggi che scrivo ho già compiuto trentasei anni e i miei mali sono
arrivati a un punto tale che non posso fare a meno di denunciarli. Scrivo, stando
a casa mia, a Candia, nel Canavese, in provincia di Torino. Questa casa è fuori
del paese, verso il piccolo lago di Candia; ma un poco spostata a sinistra, tra
paese e lago, verso la collina; è una casa di campagna con un poco di orto, la sua
loggia di mattoni rossi, il fienile e la stalla abbandonati, dove vivono in disordine
alcune galline, due galli e una famiglia di conigli, quasi selvatici. Io non curo la
terra né gli animali da cortile, perché sono un operaio di una fabbrica in città; di
una fabbrica grande più della stessa città.
I miei mali sono cominciati alla fine del 1945, poco prima di Natale, negli
ultimi giorni di dicembre, i primi nevosi di quell’anno. Aspettavo la neve e Natale
per sentirmi con più agio finalmente a casa mia; per sentirmi confortato dalla
nascita del bambino Gesù e di nuovo accolto nella famiglia cristiana, avuti i
sacramenti e cominciato l’inverno in pace, con qualche soldo del Distretto
militare, qualche provvista in casa e la speranza di tutto l’avvenire. Era un tempo
in cui avevo molta speranza. Pensavo anche che la neve, bella e pura sui
boschetti intorno al lago e bianca anche intorno a casa mia, mi avrebbe dato
serenità, cancellando dalla mia terra ogni cattivo ricordo.
La sera in cui nevicò stavo proprio rientrando a casa e non volli ripararmi, né
volli togliere la neve davanti alla porta; mi scrollai soltanto il cappotto ed, entrato,
aprii le imposte della mia finestra, lasciando chiusi i vetri, per dormire nel
chiarore. Dormii bene e, proprio come volevo, mi svegliai presto ma a giorno fatto.
La notte era trascorsa come nei campi di concentramento e come in Francia, nella
mia infanzia, in un grande silenzio; in un silenzio che però era soltanto per me e
che finiva appena fuori del mio sonno, come io avvertivo, nel mormorio dei
compagni o dei genitori o della strada; un mormorio bianco perché anche da
bambino tenevo le imposte aperte, non tanto per paura quanto per non isolarmi
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del tutto e avere argini al sonno, quasi uno spazio dove rigirarmi e tentare
qualcosa con una mano.
Non avrei mai creduto, vedendola, che quella fosse la mattina dei miei dolori;
la prima mattina del mio travaglio. Non era caduta molta neve ma mi bastava,
anche se non mi commuoveva come avevo pensato. La neve stava sui boschetti e
quasi, entrava nell’acqua del lago, che era ferma; ma toccava appena la mia casa
e la piccola salita.
Salutai mia madre e le accostai la sedia con i suoi panni; presi una sciarpa
dal cassettone e scesi a lavarmi, dal rubinetto in cucina. La mia è una delle poche
case in campagna con l’impianto dell’acqua. Lo fece fare mio padre tornato dalla
Francia, e in parte lo sistemò con le sue mani di bravo muratore. L’acqua, come
tutte le acque quando fuori è nevicato, era meno fredda del solito ed aveva un
sapore di radice. Questo sapore da principio m’ingannò; credetti cioè che fosse un
sapore dell’acqua anche quello che invece era della mia bocca e che sentii poi
meglio crescere a poco a poco nella sua dolce consistenza. Quando mi rialzai
dall’acquaio per asciugarmi sentii un dolore al petto, come una piega difficile da
distendere, ed anche una forte infiammazione alla gola ed allo stomaco. Non feci
grande caso a questi sintomi e li misi in conto alla prigionia; in buon conto alla
prigionia, madre di tante disgrazie, e in nessun conto alla mia vita futura, che
invece sarebbe dovuta diventare, per colpa di questi mali e di altri e delle insidie
di uomini malvagi, un’altra prigionia o agonia.
Non mi ricordo bene come passai le giornate successive dopo il tradimento
della neve e i primi dolori; soprattutto da solo o con mia madre e a casa mia, dove
riverniciai le porte e le finestre. Mia madre parlava poco, e insisteva solo a dirmi
di non prendere moglie, cosa della quale non avevo alcuna voglia, perché ero solo
e incerto e la mia vita ancora avrebbe dovuto sistemarsi.
Leggevo molti giornali, pieni allora di fatti di sangue, di rivolte e di lotte
politiche. Io ho sempre votato per la Democrazia Cristiana, per rispetto della
Chiesa, che non mi aveva mai abbandonato nemmeno in prigionia, e per venerare
la croce di luce che splende la notte sulla chiesa di Candia e che mi ha sempre
tenuto compagnia, anche ora quando non dormo. Non credevo agli uomini della
mia condizione, o ancora peggiore, che si davano le arie negli altri partiti. Pensavo
che l’uomo dovesse acquistare autorità, migliorando serenamente e cancellando i
propri mali contro l’avversità dei maligni con le buone ragioni e la virtù; altrimenti
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i paesi si riducono come la Germania, che ci tenne prigionieri uccidendoci a
milioni, o come la Russia che aveva i soldati più ignoranti e le terre senza strade.
I miei mali fisici andavano e venivano sovente o a distanza di tempo, proprio come
un cambiare e rimettersi del tempo che dobbiamo subire e che non possiamo
modificare. Ogni tanto mi davano pensiero, anche perché il mangiare che mia
madre mi preparava mi piaceva sempre meno e non più come una volta che i suoi
pranzi erano la mia festa, in Francia e in Italia. Ma mia madre mangiava
volentieri ed io la guardavo e la seguivo; anche se ero disturbato dalla sua
voracità. Avevo detto a mia madre dei miei dolori e lei mi aveva detto di pregare e
di andare dal medico, o di dormire dopo mangiato e di trovare un lavoro.
Dal medico ero stato al Distretto militare come tutti i reduci. Eravamo tutti in
fila come sempre sotto l’esercito; ma senza ridere e scherzare e molto in fretta,
con alcuni ex prigionieri assai malati ed altri assai fiacchi di spirito, che
guardavano male ciascuno ed ogni cosa. Per principio, nella fila, non feci passare
nessuno di questi davanti a me, anche perché dovevo tornare a Candia prima di
sera. Il medico militare, al mio turno, mi bussò la schiena e le spalle e mi toccò il
ventre. Allora io gli denunciai con chiarezza i miei mali, uno per uno con grande
precisione, citando l’ora e la data, tutte le date, del loro manifestarsi dalla prima
volta. Il capitano medico mi guardò con interesse e stupore, facendo un passo
indietro, come per vedermi meglio in tutta la persona, e prima di parlare lasciò
cadere piano piano il braccio con il quale mi aveva bussato, fino alla posizione di
riposo.
Io guardai il movimento di quel braccio bianco e militare come se stesse
compiendo un’operazione magica su di me, mentre aspettavo le parole dalla bocca
del medico. Le parole vennero frettolose e dettate da quel risentimento e disprezzo
che da sempre un medico militare nei confronti di un soldato malato. Il discorso
fu che io mangiavo troppo, dopo i digiuni della prigionia, e che il mio stomaco,
non essendo più allenato, soffriva per digerire, dilatandosi e contraendosi fuori
del normale.
L’infiammazione alla gola era poi dovuta, secondo il medico militare,
all’incontinenza nel fumare. Io non dissi al medico che non fumavo e che non
avevo mai fumato in vita mia, nemmeno da soldato, giacché sapevo bene che
quella visita, né per me né per lui, aveva lo scopo di accertare lo stato della mia
salute; che la visita era soltanto un obbligo militare per entrambi. Io avevo
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denunciato i miei mali perché ero abituato a farlo mentalmente; perché il farlo
costituiva ormai un fatto quotidiano o almeno frequente della mia vita;
un’operazione che mi consentiva, allora, di sollevare i miei mali un momento dal
mio corpo e dalla mia anima e di vederli distinti, lontani, come sopra un
davanzale dal quale fosse poi possibile farli sparire o magari riprenderli, secondo
la mia volontà.
Mi ricordo che rivestendomi ero contento che quel medico militare non li
avesse scoperti; ma insieme avevo il timore che fossero improvvisamente
scomparsi. I miei mali avrebbero dovuto essere riconosciuti e combattuti in altra
sede e dopo che io stesso fossi stato ben sicuro di loro, di tutta la loro quantità,
frequenza e qualità, in modo che, vincendoli, avrei potuto vincerli sino in fondo,
sino a restituire al mio corpo una perfetta integrità.
Uscendo dal Distretto stavo bene e potevo andare in gran fretta per lasciare
Torino, correndo alla stazione di Porta Nuova a prendere il treno per Candia. Mi
toccava infatti prendere il treno, assai più scomodo e lento dell’autobus, perché il
Distretto riconosceva gratuito il viaggio di andata e ritorno soltanto in ferrovia. Il
treno partiva verso sera ed era un treno operaio che fermava a tutte le stazioni.
Era affollato come una tradotta militare, soprattutto da operai che lasciavano le
fabbriche di Torino. Molti di quegli operai avevano l’aria di star bene, con le loro
berrette, il giornale sottobraccio, il cestino o la borsa delle vivande, i loro discorsi
ad alta voce; altri pareva sentissero freddo, in aprile e in mezzo a quella calca,
mortificati per di più dalla sporcizia dei loro indumenti. Alle stazioni scendevano
a gruppi, ridendo e insultandosi. Mi sembrava che scendessero sempre quelli con
l’aria allegra e ben portante e che restassero, per il viaggio più lungo e per la
notte, i più tristi e sporchi. Non avevo cercato di sedermi, sbalordito dal chiasso e
dalla frenesia dell’ambiente; ma quando si accese nello scompartimento la luce
vidi alcuni posti liberi e mi accomodai. Sedetti vicino a un operaio che aveva un
bel volto, con un naso affilato e ben fatto, acuto ed equilibrato come fosse il primo
dei suoi strumenti di precisione. Egli mi disse che lavorava da diciassette anni
alla Fiat, come aggiustatore alla «grandi motori». Il lavoro che gli era comandato
era interessante e richiedeva impegno da parte sua. Suo padre era ancora un
contadino con la terra a sud del fiume, vicino a Chivasso. Secondo lui la vita del
contadino era bella ma difficile e ingrata; bella per conto suo ma non in rapporto
agli altri, tanto che per questa sua famiglia contadina una ragazza di Torino non
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aveva voluto sposarlo. Quel giovane simpatico scese in silenzio a Chivasso e con
due salti entrò nella stazione. Prima che il treno ripartisse mi sembrò nel buio di
vederlo svoltare in bicicletta dietro la casa della stazione, curvo ma sicuro e senza
quell’aria eretta e sbadata che hanno i contadini quando vanno in bicicletta e
quel senso di grande pena come se sempre pensassero a come fanno le ruote a
stare in equilibrio e a camminare sotto i pedali.
Allora accesi la sigaretta che mi aveva offerto a un certo punto del discorso e
che io avevo preso per non disturbarlo con un rifiuto. Guardavo la campagna e
fumavo; il fumo che usciva dal finestrino, tra la luce del treno e la notte azzurra,
diventava una cosa viva, un animale che dovesse nascondersi tra i campi e le
fratte. Io non potrei vivere in città, pensavo, dove mi sento solo e dove vedo
benissimo che la gente è cattiva, troppo furba e interessata. In città c’è da stare
attenti con chi si parla, perché può sempre capitare l’incontro con un ladro, un
pazzo, un assassino, una donnaccia o con truffatori e maghi. L’aria stessa della
città mi stanca e mi fa sudare, soprattutto la schiena, i piedi e le mani. In città
possono vivere le ragazze che hanno da passeggiare e possono lavorare nei negozi,
dietro i banchi e le vetrine, meglio che nelle fabbriche o nei campi; e poi, come
dicevo, ladri e altri malvagi oltre agli studenti e agli operai condannati; oltre a
carceri, ospedali e medici, caserme e carabinieri e molti caffè e cinema per i ladri,
le loro donne e i poveri derelitti. Trovare una strada è una fatica e così sapere
dove andare. Io amo la campagna che dice prima, con strade e viottoli, che cosa si
deve fare e che si fa vedere tutta, onestamente. Amo la campagna più ancora del
mio stesso paese; ma non l’amo come un contadino perché il contadino ha, di
fronte alla campagna, un formicolare interessato e zappa e taglia ogni giorno
come certi animali che rovinano il legno. Se la campagna fosse lasciata rigogliosa
e sola oltre ad essere più bella darebbe anche più frutti, da raccogliere con
giudizio. Non vorrei, io, nemmeno possedere terra perché uno finisce per sentirla
propria e vorrebbe poi custodirla e difenderla e tagliarla dal resto del paese e
vorrebbe governare i mutamenti del tempo sui suoi alberi e campi e magari
scacciare i corvi e gli altri animali. La terra è forte e non può essere dominata da
nessuno e ripara da se stessa ai suoi mali. Così pensavo nel treno, mentre il
viaggio finiva verso gli alberi del lago di Candia ed io fumavo la sigaretta
dell’operaio, una delle prime della mia vita.
Sceso dal treno, m’incamminai dritto verso casa; andavo adagio per
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assaporare la campagna in rispetto dei discorsi e dei pensieri di poco prima. Mi
fermai un attimo, colpito dal profumo di un ceppo di rosmarino, così buono e
sottile da indurmi a guardare in alto il cielo stellato, che nelle sere d’aprile,
quando la luna è ancora poca ma in crescenza, è molto luminoso, con strane
strade di chiarore, che sono le occhiate che i santi si rivolgono da un capo
all’altro del cielo. Ringraziai la divina Provvidenza, contento di essere di nuovo a
casa, dopo la città e il viaggio, e soprattutto dopo il pericolo di essere inviato in
un ospedale militare. Mi fermai in cucina a mangiare la frittata che mia madre mi
aveva lasciato al caldo tra due piatti e a bere un bicchiere di vino, metà prima e
metà dopo il pasto. Mentre salivo la scala per le stanze da letto e la soffitta,
speravo che mia madre fosse ancora sveglia e mi chiamasse.

*2*

Nei giorni seguenti d’aprile e per tutto maggio e i primi di giugno, piovve
sempre: poco o molto ma continuamente. Quelle piogge mi davano languore e mi
rendevano silenzioso; sempre a casa mia, dove restavo molto volentieri, sotto la
loggia o nella stanza da letto.
Mi sdraiavo a pensare come sarebbe stata la mia vita quando in buona salute
e pieno di tutte le mie forze avessi potuto veramente cominciare a fare qualche
cosa.
Prima della guerra io avevo frequentato una scuola di avviamento industriale,
dai salesiani, senza arrivare al diploma di terza per pochi mesi a causa della
morte di mio padre e anche di una pleurite. Sul letto, in quei giorni di pioggia,
pensavo a che cosa avrei potuto fare; ma non trovavo nessun mestiere adatto a
me, soprattutto alla mia nuova vita. L’acqua scendeva davanti alla finestra ed io
la guardavo sferzare il lago con violenza e finivo sempre per distrarmi dai miei
pensieri. Il lago cresceva a vista d’occhio, proprio al centro, dove l’acqua
s’aggiungeva all’acqua, e poi s’allargava penetrando le rive, sommergendo a poco
a poco le melme. Toccavo le mie spalle come da ragazzo durante la malattia e
masticavo un sapore di me stesso, un filo della mia gioventù.
In quei giorni arrivò una lettera di mia cugina di Francia, che si era trasferita
da Avignone a Parigi. Ci dava sue notizie e quelle dei suoi, spariti o morti durante
la guerra, e ci chiedeva se sarebbe potuta, desiderando conoscere l’Italia e noi,
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unici suoi parenti che appena ricordava dall’infanzia, venire a casa nostra
durante l’estate e un poco di settembre. Fui molto contento di quella lettera e in
seguito, sedendo, specie le sere più calde, sulla porta di casa, speravo che dalla
strada di Candia arrivasse questa cugina di Francia.
Arrivò anche altra posta; una lettera dell’Associazione Reduci che mi diceva a
che punto era la pratica per il riconoscimento della pensione e un’altra,
dell’Ufficio di Collocamento, che m’invitava a presentarmi in città per vedere se
potevo essere incluso negli elenchi dei reduci da avviare al lavoro nell’industria.
Mi dispiacque che l’Associazione Reduci fosse a conoscenza del mio indirizzo,
sembrandomi così che la prigionia m’avesse seguito dalla Germania per tutto il
ritorno e ritrovato nella mia casa. Anche la proposta di pensione mi preoccupava,
giacché se mi avessero dato una pensione sarei stato ancora una vittima della
prigionia, con il segno di una malattia perenne. L’altra lettera, che veniva da un
ufficio nuovo e sconosciuto, non poteva dispiacermi anche se mi metteva ancora
con i prigionieri. Riguardava l’avvenire – «avviare a un lavoro nell’industria» – e
poteva quindi essere un segno di liberazione e un passo avanti.
Mi presentai il 16 giugno del 1946 all’Ufficio municipale di Collocamento. Da
pochi giorni la repubblica aveva vinto e anche se io avevo votato per la monarchia
questa vittoria mi aiutava dando a tutte le cose un senso di novità. Gli uffici
funzionavano lo stesso, anch’essi per aiutare. All’Ufficio di Collocamento, tutto
veniva sistemato di qua o di là, sul tavolo o sul davanzale della finestra,
dall’impiegato che si muoveva in fretta, azzeccando sempre la carta giusta, con
molto buon umore sparso dappertutto come la cenere delle sue sigarette.
«Saluggia Albino fu Ernesto, da Candia, classe 1919, se vuole può presentarsi
all’Ufficio di Collocamento di X, con questo foglio che io dato e timbro», e fece,
servendosi di ambedue le mani, queste operazioni in fretta tanto da non
interrompere il discorso, «per essere incluso nella quota reduci del contingente di
manodopera da avviare al lavoro nella grande industria di X». Mi consegnò il
piccolo foglio e aggiunse: «Il giorno 22 giugno prossimo e venturo... cioè fra sei
giorni... e auguri».
Assentii in silenzio, convinto di tutto. Ripiegai il foglietto ormai mio e, uscito
nella piazza di Candia, andai a comprare un pacchetto di sigarette.
L’Ufficio di Collocamento di X era più grande, più sporco e maltenuto di
quell’unica stanza di Candia. Mi presentai il 21 giugno e non il 22, per andare a
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vedere com’era l’ambiente e anche spinto dall’idea di poter anticipare qualsiasi
inganno, prevenendo quei preparativi che potessero essere in corso per sviarmi; o
magari solo per evitare un appuntamento troppo preciso o comunque qualcuno o
qualcosa che mi aspettasse e che potesse aspettarmi poi tutti i giorni dopo il 22.
In questo modo l’iniziativa diventava quasi mia ed ero io, con le mie volontà e
forze, a decidere i primi fatti della mia vita.
Quanto speravo allora dalla vita nuova! Tanto da non sapere nemmeno
figurarmela in qualche modo. Allora non sapevo fino a che punto potesse arrivare
la cattiveria umana e come sia inutile cercare di crescere con le proprie forze ed
andare avanti da solo; come sia impedito qualsiasi scampo e come ogni uomo sia
all’altro nemico, tanto da piagarlo come un Cristo o un san Sebastiano, giovani
legati nudi a colonne e torturati sino alla rottura del loro bel corpo e a tutti i
dolori delle loro madri.
Ero così fiducioso che forse quel giorno sbagliai semplicemente la data per la
fretta di arrivare. Oggi la cosa mi sembra diversa perché il male che mi hanno
scatenato contro ha guastato ogni mia speranza, tanto che giudico con la paura e
la remissività di oggi anche quella poca vita che ho trascorso con la mente legata
dalla gioventù. Oggi mi è difficile perdonare, anche se scrivo tutto sui miei mali e
su chi me li ha inferti non per costituire un’accusa. Neanch’io, forse, mi sentivo
accusato in quei giorni del giugno 1946, prima all’Ufficio di Collocamento e poi
all’Ufficio Personale e Manodopera della grande industria.
All’Ufficio di Collocamento, l’impiegato dietro il bancone si scomodò con
indifferenza: «Torna domani, che domani è il 22». Senza riprendere il foglio che mi
porgeva, gli chiesi spiegazioni.
«Su questo foglio c’è poco da dire. Noi dobbiamo registrarlo e timbrarlo, e tu lo
presenterai alla ditta». Intanto stava eseguendo quello che diceva, guardandomi di
traverso e guardando di fianco il gruppo di persone in coda allo sportello. Uno di
quelli si accorse di queste occhiate e del movimento dei timbri, e protestò.
«C’è posto per tutti», rispose il mio impiegato, «per tutti quelli che hanno gli
stessi diritti», e mi restituì il foglio.
Dunque per me l’impiegato si era comportato in modo particolare. Questo
pensiero mi spaventò ma fui pronto a dominarlo ricordando che ero stato io
stesso ad andare avanti. Oggi so che avrei dovuto dare più corda al pensiero sul
modo particolare, collocarlo all’inizio come un segno, come una mosca sui vetri
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alla fine di febbraio che, pur tra la neve, è sbucata da chissà dove a condannare
l’inverno.
Poco dopo ero davanti alla grande fabbrica dove, trascorsi altri cinque giorni,
mi sarei dovuto presentare. La mia curiosità fu ripagata dal più profondo mistero.
La fabbrica, grandissima e bassa, ronzava indifferente, ferma come il lago di
Candia in certe sere in cui è il solo, in mezzo a tutto il paesaggio, ad avere luce.
Nemmeno in Germania avevo visto una fabbrica così grande; così tutta grande
subito sulla strada, senza recinti e cancellate dove la gente potesse lavorare
avanti e indietro, tra il chiuso e l’aperto. Io pensavo che una fabbrica avesse
bisogno di movimento e quindi di cortili e di spazi, un poco come le officine dei
meccanici, dove gli operai in tuta trafficano sempre tra il banco, le macchine e la
strada.
Le porte di queste officine reggono chiavi, martelli, tubi, e servono a provare le
vernici e i fuochi. La fabbrica era invece immobile come una chiesa o un
tribunale, e si sentiva da fuori che dentro, proprio come in una chiesa, in un
dentro alto e vuoto, si svolgevano le funzioni di centinaia di lavori. Dopo un
momento il lavoro sembrava tutto uguale; la fabbrica era tutta uguale e da
qualsiasi parte mandava lo stesso rumore, più che un rumore, un affanno, un
ansimare forte. La fabbrica era così grande e pulita, così misteriosa che uno non
poteva nemmeno pensare se era bella o brutta. Ed anche a tanti anni di distanza,
dopo tanti anni durante i quali vi ho lavorato, non so dire se la fabbrica sia bella
o brutta, perché per tanti anni questo interrogativo anche se mi è venuto in
mente non è mai stato decisivo, proprio come per una chiesa o per un tribunale.
Oggi posso dire che la fabbrica è sempre stata in un ordine perfetto anche
durante i lavori d’ampliamento o di riparazione, sempre pulita e sempre
sconosciuta. Questo vuol forse dire che la fabbrica è bella; ma io non posso dire
che la fabbrica sia bella, guardandola da fuori o da dentro: cioè bella davanti a
me, come una casa o un albero. Nel corso di tanti anni, qualche volta mi è
sembrata bellissima; ma ero io a giudicare dentro di me quasi senza vederla.
Quel giorno mi avvicinai sperando di entrare, almeno per un tratto, a
guardare dentro. Potei entrare ma subito una guardia mi fermò. Mostrai il foglio
dell’Ufficio di Collocamento, avvertendo che mi sarei dovuto presentare dopo
cinque giorni. La guardia, ben vestita e gentile, mi disse di ripassare allora dopo
cinque giorni, la mattina verso le otto, a quella portineria che mi indicò. Uscii
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senza sentirmi respinto perché la guardia e il suo discorso erano perfetti come
l’ordine della fabbrica e restai fermo sulla strada, poco oltre le porte. Decisi di
aspettare l’uscita degli operai, a mezzogiorno, per poterli vedere da vicino
tutt’insieme e per parlare, se fosse stato possibile, con qualcuno di loro. Non
molto lontano dalla fabbrica, all’angolo della strada che svolta per la città, c’era
ed ancora c’è, un caffè, un odorosissimo caffè, tutto rivestito di legno, che sa di
caffè, di menta, di trementina e di un altro odore penetrante che allora non potei
distinguere ma che oggi so essere della fabbrica, cioè degli olii e delle macchine,
dei metalli e degli operai. Più che un caffè è un’osteria, con dietro un’altra stanza,
nuda alle pareti e arredata di tavoli e seggiole Mi sedetti e ordinai un vermouth.
Al tavolo accanto al mio erano seduti tre operai; erano di sicuro tre operai, che
aspettavano, oggi posso dirlo, il loro turno di lavoro, a mezzogiorno. Non
parlavano né di lavoro, né della fabbrica; non parlavano di niente, fumando e
guardando fuori. Erano vestiti come me e uno aveva addirittura un cappello in
testa. Un altro operaio arrivò, comprò della liquerizia, salutò gli altri e uscì
dicendo: «Vado a vedere i giornali». Quali giornali? Mi ricordo che pensai e mi
ricordo che finii per concludere che i giornali fossero bollettini di lavoro o fogli
d’istruzione o anche libri di conti. Pensai anche che quello fosse un giovane
qualificato, responsabile di qualche lavorazione complicata. Gli altri tre non mi
sembrava che avessero particolari qualità, tanto che il vederli come me o come
quelli di Candia mi impediva qualsiasi curiosità che potesse farmi trovare gli
argomenti per un discorso.
Entrarono nel caffè altri operai, più giovani o più anziani, alcuni vestiti in
tuta. Avevano tutti l’aria di star bene, pur essendo molto riservati, dominati da
un pensiero. Credevo che fosse la responsabilità del lavoro tanto delicato che
nella fabbrica dovevano compiere. Apparivano tutti molto calmi e avevano mani
comuni e ferme, non pesanti e sporche come quelle dei meccanici, né nodose e
spaccate come quelle dei contadini. Soltanto quando il gruppo di gente riempì il
caffè ed io mi sentii confuso con gli altri ebbi il coraggio di interpellare uno degli
operai, non il più vicino e nemmeno uno di quelli appena arrivati, perché il mio
gesto non sembrasse incerto.
«Scusi», gli dissi, «ha visto Manero?»
L’operaio mi rispose di no con l’aria di uno abituato a non stupirsi molto.
«Manero è uno che lavora nella fabbrica», continuai io a mentire.
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«Non conosco nessun Manero, almeno nei miei reparti. È difficile
rintracciarlo».
«Grazie», dissi io, «aspetterò il signor Manero all’uscita».
Il «signor», aggiunto al falso Manero, doveva servire a far cadere il discorso e
qualsiasi altro tentativo di ricerca e a pormi ad un livello diverso da quello della
gente del caffè. Oggi posso dire che non fu certo per quel «signor» che il discorso
cessò ma per la fretta che a quell’ora di mezzogiorno prende tutti coloro che
debbono uscire o entrare nella fabbrica.

*3*

Ricordo bene tutti questi fatti, accaduti in quei giorni di giugno, un giugno
nuvoloso e caldissimo; anche quelli meno importanti, certamente meno
importanti di altri che poi mi accaddero nella fabbrica o fuori. Credo che questa
mia memoria sia dovuta al fatto che in quei giorni io ero ancora fuori, aspettavo
ancora che le cose accadessero e quindi tutto acquistava maggiore importanza.
La vita della fabbrica mette poi le cose un po’ lontano da noi, le caccia quasi in
fondo alla mente, che non va più dietro, passo a passo, al lavoro e a tutte le altre
vicende, ma resta sopra, libera, a seguire pensieri che poco hanno da guardare in
quanto sta succedendo. Mai come durante il lavoro io ho pensato alla prigionia, a
casa mia o alla salute di mia madre e sempre di più alle cose che sarebbero
potute accadere che a quelle che in realtà mi accadevano, anche se da queste
ultime le prime traevano origine.
Mi ricordo esattamente com’era il selciato davanti alla fabbrica: quelle pietre,
una per una, quadrate e lucide, sulle quali camminavo aspettando l’ora
dell’uscita degli operai; non ricordo altrettanto bene le facce di tanti compagni di
lavoro, che ebbi, per esempio, dopo il primo cambio di reparto. Quelle pietre del
selciato, pesanti e dure sotto il passo da far male alla caviglia; l’aria calda di
giugno, più calda e malata intorno alla fabbrica come davanti a un forno, mi
spingevano a fuggire, a non aspettare ancora e nient’altro, a tornare a casa mia.
La fabbrica mi sembrava un edificio senza senso e sentivo che una parte del mio
cervello stava facendo violenza su di me per trattenermi in quel luogo ostile e
innaturale.
Improvvisamente la gente cominciò a uscire; una folla invase la strada ma non
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mi sembrò che fosse composta di tremila persone, quante ne lavoravano nella
fabbrica.
Molti si buttavano sulle biciclette e sui motoscooter; altri andavano a piedi di
qua e di là sui marciapiedi, sicurissimi per una direzione che sembravano aver
preso a caso. Era gente varia, di tutte le età, come quella che può capitare su un
treno o in un mercato. Era una folla che andava via veloce, senza alcuna
stanchezza. Pensai che il lavoro di ciascuno dovesse consistere nel manovrare la
leva di una macchina o in qualcosa di simile. Io mi sentivo più stanco di tutti
loro, un poco intontito dal vermouth. Rientrai di nuovo nel caffè, dove parecchi
questa volta parlavano. Presi un caffè e mi sedetti un momento a guardare quegli
operai. Guardai più di ogni altra cosa la borsa di vimini che una donna anziana
teneva in terra, a fianco della seggiola.
Uscendo pensavo che non avrei saputo essere come quegli operai e che non
avrei saputo seguirli. Faceva un caldo fortissimo: era un giorno malato, a pezzi
sui metalli della fabbrica. Verso il fiume si vedeva brillare un’aria diversa. Il caldo
mi infastidiva. Mi colpiva un senso di sporco e mentre tentavo di camminare
come dentro un bicchiere i miei dolori si svegliarono tutt’insieme e mi afferrarono
allo stomaco. Il dolore al petto non iniziò insieme agli altri; sentivo invece le spalle
vibrare sotto il caldo, tremare per conto loro come certe volte capita a una gamba
lasciata a lungo in posizione morta.
Tornai a casa mia angustiato e digiuno, dopo molta fatica. La campagna alle
due del pomeriggio aveva molto da pensare a se stessa per seguirmi e per potere
recarmi qualche aiuto; era chiusa dentro una bolla e oscillava.
Guardando i tetti di Candia e anche quelli isolati, già sulla collina, pensavo
che anche da quelle case uscivano ogni giorno operai che andavano in città.

*4*

Ho ancora oggi un lavoro, pur dopo tante sventure e i cattivi disegni dei
medici. Un lavoro che mi pesa molto ma che mi dà da mangiare. Certe sere,
specie d’inverno, esco solo dalla fabbrica già semispenta, dopo tutti gli altri. Mi
illudo di essere contento di uscire, e immagino di sentire il caldo delle case di
tutti e di essere aspettato nelle mille case della città o dei paesi vicini. A casa mia
sono anche più solo, perché mia madre ogni giorno si allontana di più da me ed
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aumenta le sue lunghe pause di silenzio.
So che un mio collega di lavoro ha a casa la madre pazza che deve chiudere a
chiave nella stanza da letto, dalla mattina alla sera, per poter venire a lavorare.
Un altro si ubriaca, insieme alla madre. Lascia la moglie e raggiunge la madre
all’osteria; trascorrono la serata bevendo e abbracciandosi come due ubriaconi.
Spesso fuggono insieme, per mesi interi: prendono una sola stanza in albergo,
bevendo sempre come matti e andando a tutti i divertimenti.
Io ho questa sorte del silenzio. Mia madre mi guarda talvolta come se non mi
riconoscesse e invece di darmi aiuto e confortarmi, piange e si nasconde. Penso
che non preghi nemmeno più per me, anche se sta intere notti seduta sul letto a
mormorare. Mi resta soltanto la lotta che ho intrapreso per la vittoria della
giustizia, perché a questo punto non credo più che potrò vincere i miei mali.
Desidero smascherare gli inganni, denunciare i colpevoli per amore di giustizia,
sacrificandomi come un ribelle.
Qualche volta nella fabbrica mi sfogavo nel lavoro ed allora montavo il mio
gruppo a una velocità incredibile e per ore intere compivo il mio lavoro
dimostrando di essere il più bravo. L’abilità mi confortava ed era una delle poche
cose, se non l’unica, che mi dava il senso di un progresso. Sapevo fare bene un
lavoro qualificato e avevo superato almeno la paura del lavoro meccanico; ma
tutto questo non servì a niente.
Ma riprendendo a narrare i fatti, debbo dire come la mia assunzione avvenne e
come furono i primi tempi del mio lavoro, sino alla conoscenza fatale dei medici.
Mi presentai dunque, la mattina del 26 giugno 1946, alla portineria della
fabbrica, dalle guardie che mi guidarono sino all’Ufficio Personale e Manodopera.
Dietro la guardia traversai velocemente una parte del pianterreno senza poter
guardare e capire dove passavo. Sentivo più forte, proveniente da ogni parte, il
rumore delle lavorazioni. All’interno era più preciso, un rumore elettrico e di tante
macchine in movimento. Ripeto però che il rumore scaturiva da ogni parte, anche
dai muri e dai pavimenti della fabbrica. Camminando non incontrai alcun reparto
di lavoro: solo per un attimo, nel vano di una porta che si chiudeva alle spalle di
un giovane, vidi un tavolo illuminato, un tavolo di vetro, illuminato di prima
mattina. A un certo punto traversai un andito immenso, un salone coperto da
grandi vetri e nervature di ferro, dal quale partivano molti corridoi e altre sale che
si spezzavano appena fuori della luce piegando verso l’interno. La guardia mi
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guidò verso il corridoio più pulito, L’unico che fosse intonacato di bianco. Dopo
averlo imboccato bisognava salire tre scalini, affrontando una luce più alta e
trovando sui due fianchi molte porte a distanza regolare. In fondo, il corridoio era
chiuso da una specie d’anticamera, dove la guardia mi lasciò indicandomi un
gruppetto di persone in attesa. Nessuno parlava e l’unico rumore era sempre
quello della fabbrica, un poco attutito. Qui si porgeva l’orecchio ad altri discorsi, a
giudicare dalle facce di tutti quelli che aspettavano. Era una pausa, in quel
corridoio bianco, illuminato, dal pavimento di linoleum, che ci veniva imposta.
Nei cinque giorni trascorsi dalla visita alla fabbrica, mi ero convinto che la
chiamata al lavoro potesse essere una cosa buona e a mio vantaggio. Non avevo
alcuna paura di essere rifiutato, perché in quei cinque giorni mi ero sentito già
presente dentro la fabbrica. Avevo persino sognato di lavorare, di dover compiere
un lavoro molto Impegnativo costruendo un complesso meccanismo, simile alla
macchina di un orologio. Mi capitava, nel sogno, che verso la fine del lavoro la
mia costruzione si mettesse a suonare, contrariamente a quelle di tutti gli altri
che in fila accanto a me facevano lo stesso lavoro. Il suono della mia macchina
non cessava se non ne smontavo un pezzo, tale da comprometterne la
completezza.
Ma d’improvviso arrivava un capo, con l’aria del giovane operaio di Chivasso, il
quale annunciava a tutti che secondo le ultime istruzioni le macchine avrebbero
dovuto effettivamente suonare.
Aspettavo soprattutto di entrare nel corpo della fabbrica, di arrivare di fronte
alle macchine, alla bocca del rumore; di mettere in atto il tentativo, ormai ben
preparato, di una vita nuova, tanto che mi sembrava crollata ogni cosa dietro di
me, la preoccupazione stessa dei miei mali. Proprio per questo avrei dovuto
immaginare le sventure che mi sarebbero accadute dopo la mia assunzione in
fabbrica.
Lo stesso senso di vuoto e insieme l’attesa sicura della novità io li avevo
provati molti anni prima, quando con mio padre e mia madre lasciai la Francia.
Allora io non volevo partire, con la volontà accanita che può dominare un ragazzo
di tredici anni. Non volevo tornare in Italia e mio padre cercava di convincermi
con discorsi da adulto, che mi ripugnavano del tutto. Mio padre diceva di sentirsi
stanco e anche malato e di non avere alcuna sicurezza in terra straniera. Diceva
che l’Italia era cambiata e che con il fascismo era diventata un paese ricco, pieno
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di possibilità per un lavoratore e più ancora per l’avvenire di un ragazzo. Tutto
questo servì soltanto a rendermi più angosciosi gli ultimi giorni di permanenza ad
Avignone ed a svuotarmi d’ogni pensiero e ricordo dell’infanzia trascorsa sino a
quel momento. In ultimo mi prese una grande frenesia di tornare in Italia; a
Candia, che mio padre aveva descritto come un bellissimo paese. Alla stazione di
Avignone, nel momento di partire, mi sentivo come nel corridoio di fronte
all’Ufficio Manodopera: non mi restava nulla dei dodici anni trascorsi ed
aspettavo soltanto il treno per l’Italia, l’arrivo a Candia, nella casa sul lago.
Invece, da quel momento nella stazione, in cui il mio distacco e il mio viaggio si
compivano come se immediatamente e con un passo solo avessi potuto valicare la
distanza tra Avignone e Candia Canavese, cominciarono molti miei dolori: la
morte di mio padre, l’iscrizione in ritardo di due anni all’Avviamento industriale,
la solitudine per tutta la gioventù e poi la guerra e la prigionia.
Proprio per questo avrei dovuto capire che dalla mia esagerata aspettativa,
dalla mia sicurezza d’entrare nella fabbrica, sarebbero cadute su di me disgrazie
nuove e ben tristi.
Posso incolpare con sicurezza quei momenti smemorati di fronte all’Ufficio
Personale.
Riguardando la mia vita posso vedere che il male ha sempre lottato contro di
me dal giorno in cui sono partito da Avignone e che da allora si è servito dei fatti
più attesi e più innocenti, delle mie stesse speranze, per colpirmi facilmente e con
forza.
Se quell’Ufficio Manodopera si fosse presentato come uno strumento del male,
io sarei fuggito o l’avrei vinto con tutta la mia forza. Invece io fui ingannato per
quanto ero indifeso. Entrai in quell’ufficio senza pensare affatto che la mia vita
avrebbe potuto esserne sconvolta; entrai senza alcuna eccitazione con la speranza
di essere immediatamente avviato al lavoro.
«Accomodati», mi disse un vecchio signore dalla testa bianchissima e
grossissima, vestito di scuro, con una camicia grigioverde e una cravatta nera. Mi
disse di accomodarmi di nuovo, quando ancora non avevo potuto vedere se
dall’ufficio partivano le porte per i reparti di lavoro.
L’ufficio era piccolo e bianco con una lampada verde ed una porta gialla. Vi
erano dentro due o tre scrivanie, più piccole e più grandi, tra le quali il vecchio si
muoveva come se dovesse sceglierne una e come se la scelta dovesse decidere
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anche il discorso. Il vecchio era però sicuro, con l’aria affettuosa proprio d’un
vecchio. Io mi sedetti mostrando il mio foglio. Egli stirò lentamente la bocca sotto
le guance grasse e commentò: «Prigioniero, prigioniero in Germania. Bravo
soldato, fedele alla patria». Questo discorso mi sorprese e mi mise per un attimo il
sospetto di un inganno; che stessero per rifiutarmi ciò che ormai era il mio
diritto? Ma il vecchio proseguì:
«Vuoi dunque lavorare», e si alzò da una scrivania per prendere da un
armadietto chiuso a chiave soltanto una matita. «E che lavoro sai fare? Eri uno
specialista dell’esercito? In che arma eri? Dove sei stato fatto prigioniero?»
«Ho fatto due anni di avviamento industriale ma non ho mai lavorato.
Nell’esercito ero soldato di fanteria, del 62 reggimento e sono stato fatto
prigioniero con tutti gli altri vicino a Zagabria. Voglio lavorare in fabbrica. In
Germania ho lavorato in una fabbrica di radio».
In verità, in quella fabbrica abbandonata andavo a prendere, insieme ad altri
prigionieri, dei residui di carbone, che erano ammonticchiati a pianterreno.
Dentro quella fabbrica non c’era niente e non si capiva nemmeno che cosa vi
avessero mai costruito. Una volta trovai tra il carbone un piccolo tornio a pedale
che ancora funzionava. Lo portai nella baracca e ci servì per lavorare, adagio
adagio, un’infinità di cose senza senso. Ricordavo benissimo quel piccolo tornio,
con il quale alla fine un prigioniero aveva rotto la testa di un altro. La grande
testa del vecchio assentiva, poi si fermò piegata a sinistra, verso la finestra. Il
vecchione, che tutti nella fabbrica hanno sempre considerato un cretino ed anche
deriso per il suo grado militare di maggiore a quella età da generale, riprese ad
interrogarmi:
«Quanti siete in famiglia? Sei sposato, hai figli? E tua la casa dove abiti?»
Risposi esattamente sì o no a tutte le domande ed aggiunsi di saper parlare un
poco il francese.
«Ah! bravo. Dunque tu verrai assunto, almeno così penso io, dopo una visita
medica e dopo che altri del mio ufficio», ed accennò alla porta gialla, «avranno
esaminato le tue capacità. Tu hai fatto il soldato per molti anni e conosci il valore
della disciplina e dell’ubbidienza. Queste due virtù sono basilari anche nella
fabbrica. Avrai un salario regolare, secondo la legge; così l’assistenza, i permessi e
le ferie. Devi venire puntualmente a fare il tuo dovere».
Era un discorso giusto ma m’infastidiva perché mi allontanava ancora dal
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lavoro, mi diceva di aspettare ancora che altri potessero decidere. Questo discorso
mi mise anzi addosso un sentore di disgrazia. Mi sembrava che il vecchio
intendesse chiaramente farmi capire che mi sarebbe capitato qualcosa di grave e
di brutto, pur cercando insieme, con le sue belle parole, di nascondermi che cosa.
Da troppo tempo, mi misi a pensare, non accadeva nulla e la mia casa stava
ferma e in silenzio, ad aspettare un padrone; anche solo una notizia che potesse
rendere viva la luce delle sue finestre. O io avevo il lavoro o almeno la sicurezza di
averlo, o un’altra cosa e non buona sarebbe capitata a me o a mia madre.
Il testone del vecchio era fermo e mi sembrava ravvicinato da una grande
lente, con tutti i suoi capelli bianchi e folti, attaccati distintamente uno per uno
sulla fronte. La gente dalla testa grossa mi ha sempre fatto del male, a cominciare
da mio padre. Quella testa bianca, poi, mi dava un grande disagio, quasi paura,
pur avendo pronunciato il vecchio il suo bel discorso. Rimasi tanto male, con i
miei presagi, che il vecchio capì di dovermi aiutare:
«Si tratta di aspettare altri due o tre giorni. Stasera puoi fare la visita medica,
o domani».
«Domani allora». Uscii subito da quell’ufficio e dalla fabbrica, ancora con il mio
foglio ripiegato e ancora con un appuntamento.
Allora pensavo di avere qualcosa da temere soltanto da me stesso, cioè da quei
mali che avevo avvertito un po’ dentro e un po’ fuori del mio corpo e dalle loro
parentele di presagi. Solo una vita nuova, solo il lavoro e un progresso sicuro,
giorno per giorno, avrebbero potuto giovarmi, anche fisicamente. Bisognava che io
mi salvassi, che io riuscissi a mettermi nella condizione di vivere, di liberarmi
d’ogni triste conseguenza della vita precedente, finita con la prigionia. Volevo
correre a casa, mettermi a letto e riposarmi e individuare uno ad uno i miei mali
in modo da intimorirli per il giorno dopo. Trovai subito, quasi di fronte al caffè, un
pullman per Torino che mi avrebbe portato sino al bivio della strada per Candia.
Il pullman era di quelli delle linee per Torino, in partenza dai giardini pubblici a
varie ore durante la giornata. Non era uno di quelli delle linee operaie della
mattina o della sera, che partono dal piazzale di polvere della stazione. Aveva
sedili comodissimi ed era affollato di persone tranquille; c’erano molte donne,
giovani signore o ragazze.
Ero stato fortunato a prendere quel pullman, che mi consentiva di riposare.
Guardavo le ragazze e i loro giornali illustrati e fuori del finestrino la campagna in
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pieno sole, sdraiata in posizione di riposo, come me. Sembrava anche che sulla
campagna, tutta in pianura, aleggiasse un grande pensiero, che però non toccava
né prati, né alberi, né fiori, come il mio pensiero triste non muoveva le mie mani,
allontanandosi sempre più anche dalla mia testa. C’era solo una piccola nuvola in
fondo, dove la pianura si versa in molte altre distese non visibili; e soltanto alcuni
colombi bianchi e scuri si levavano in volo dai campi di grano. Le ragazze che
viaggiavano erano composte e la loro fresca compagnia mi confortava. Io mi sarei
dovuto presentare alla visita altrettanto sereno e riposato, all’inizio di una vita
felice come la loro.
Al bivio scesi, dopo il buon viaggio, che mi sentivo meglio. E la strada da fare a
piedi, tra il bivio e casa mia, mi avrebbe ancora giovato, se l’avessi percorsa
adagio guardando il lago crescere a poco a poco sotto i miei occhi nella salita
verso la mia casa. A un certo punto il lago sarebbe stato completamente sotto di
me, come sotto il volo dei rondoni, in giro dal castello di Candia alle sponde. E
così sotto di me tutti i tetti del paese, rossi e ordinati come se non albergassero la
cattiveria umana. Il tragitto a piedi andò bene: cominciavo a riposare il mio corpo
e la mia mente per il giorno dopo. Non volli nemmeno ricordare che quella
mattina, facendo la strada in senso contrario, ero sicuro di cominciare la vita
nuova del lavoro. Arrivai a casa verso le undici e mezza. Mia madre era nell’orto e
stava diritta a guardare le cipolle per sceglierne una. La salutai dicendole soltanto
che sarei dovuto tornare in fabbrica il giorno dopo. Non volevo richiamare alla
mente i dispetti della sorte. Pregai mia madre di prepararmi da mangiare poche
cose e leggiere e mi ritirai nella mia stanza, per affrontare il mio cuore e i miei
dolori. Mi coricai sul letto, che da tanti anni è il mio. Mi slacciai le scarpe e mi
tolsi la giacca. Il posto di questo letto è il mio, l’unico mio posto, anche se io ho
dormito da soldato, in guerra e in prigionia e poi nei sanatori, in tanti letti. Il mio
letto ha il suo posto, proprio per me, bianco, discosto un palmo o meno dal muro.
Qui io trovo conforto o pena; ma sempre un conforto o una pena più acuti e più
irriducibili; più riconoscibili e più sicuri anche se spesso vengono da lontano,
dalla mia età di ragazzo appena rimpatriato, che è appunto l’età del mio letto.
Dapprincipio il letto mi dette un’impressione di fresco con la sua coperta di
cotone. Poi, dilagando per tutta la stanza, il caldo mi assalì; un caldo
insopportabile, che non aveva rapporto con la stagione. Contro la mia finestra il
lago di Candia specchiava il sole del mezzogiorno. Con quel caldo non avrei
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potuto distendermi e riposarmi e certo i cattivi pensieri sarebbero tornati
trovandomi ancora più prostrato e così, ad uno ad uno, tutti i miei mali mi
avrebbero assalito e vinto. Allora smontai il mio letto di ferro – e mia madre non
capì, se si mise a piangere vedendomi attraversare la casa con la lettiera – e lo
trasportai nel fienile abbandonato, che resta in ombra e più fresco. Lì mi sdraiai
con sollievo, in attesa di mangiare. Oltre che fresco, c’era un forte odore di erba e
di terra, uguale a quello del lago, e la sua compagnia mi aiutò a calmarmi e a
riflettere. E così le macchie e i buchi sul muro, i mattoni che apparivano e la rete
della calce che li teneva insieme, in infinite strade ordinate. Forse mi
addormentai, inoltrandomi per quelle strade. Dopo la pausa ebbi un attimo di
ripresa e cominciai la lotta con i miei mali o, se volete, un discorso.
Allora non conoscevo i miei mali come ora, soprattutto li sentivo e li temevo;
oggi sono così chiari in me e dappertutto, che qualsiasi mio gesto è in relazione
con essi. Allora cominciai con il sentirli salire sul mio corpo tutt’insieme, come un
branco d’insetti che poi scegliessero ciascuno il proprio punto. «Miei mali», dissi,
«voi siete il frutto della mia vita difficile. Voi vi accompagnate a me come degli
sconosciuti durante un viaggio. Forse è anche giusto che la mia gola s’infiammi e
che il mio stomaco bruci riscaldandomi tutto il petto. È giusto perché serve a dire
e a provare a tutti che io sono stato maltrattato, che la giustizia è stata offesa
insieme a me. Ma questo mio viaggio è finito e voi dovete andarvene, perché io
possa in pace cominciare un’altra vita. La mia gola può dolere perché tante volte
da militare io ho bevuto, sudato, acqua gelata e perché in prigionia dormivo con
una sola coperta, stringendomi con un nodo sulla gola una sciarpa corta, più di
polvere che di lana. Il mio stomaco soffre perché non mangiavo o mangiavo cose
da dare ai cani. Il mio sangue circola male nel petto per tutte le paure di tanti
anni in cui non si sapeva mai dove andare e che cosa sarebbe successo un attimo
dopo. In quale parte della terra o sotto quale cielo ci stavano conducendo quegli
ufficiali pazzi, chi alto e chi basso? Passavano i mesi senza senso; con il fucile in
mano e la divisa, senza sparare un colpo. Andavamo sempre più a nasconderci
nelle terre straniere, in certi paesi sconosciuti allo stesso nemico. Chi avrebbe
potuto ritrovarci?
I compagni del battaglione erano poveri soldati, senza vere parole e con molta
ignoranza. Sapevano solo essere prepotenti e fare scherzi: molti scherzi a
Saluggia, quando la sera non si sapeva dove andare a dormire. ‘Saluggia,’
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dicevano, ‘dormiresti con una ragazza? Saluggia, coglione, chi te l’ha fatto fare a
tornare dalla Francia?’
Io resistevo cercando di mantenermi sempre cosciente di quanto mi capitava;
di farmi un giudizio sulle cose e sulla gente e di comportarmi come un uomo per
quanto questo potesse essere sopportato dalla disciplina. Rischiai due volte di
finire sotto processo militare: la seconda mi tolsero dalle mani di un sergente che
mi stava massacrando. Fui accusato di insubordinazione. Quando il sergente, di
nome Vattino, mi urlava contro, agitandomi per un braccio, io guardandolo fisso
negli occhi avevo pregato: ‘Padre mio, perdona loro che non sanno quel che si
fanno.’ Questo aveva scatenato la belva Vattino, che voleva distruggermi. Ma io
resistevo; quando i colpi e l’ignoranza infierivano maggiormente, mi allontanavo
un poco dagli altri, e, se era possibile, mi sedevo a pensare. Pensavo alla Francia,
alle strade di Avignone dove correvo da ragazzo. O pensavo alla scuola
d’avviamento, al bene che mi voleva padre Caligaris che sovente m’invitava nella
sua stanza e che una volta mi regalò delle pere che venivano dal suo paese del
Monferrato. Oppure pensavo che tutto sarebbe finito; che forse io solo sarei
tornato a casa, guidato dalla giustizia. E tutto sarebbe finito, tutto era già finito,
se non foste arrivati voi, all’ultimo, come certi ordini che arrivavano, dopo tutte le
decisioni, a seminare il terrore.
«Se le ragioni, oltre che i fatti, di tutti i miei patimenti sono ormai cadute,
passate da molto tempo, perché voi, come tante piccole formiche, ormai che il
tronco è bruciato, volete insistere e cercate ancora di annidarvi dentro di me? Io
sto per diventare un altro e quindi dovete abbandonarmi. La notte dormo sereno e
se non dormo per un qualunque motivo, sento il respiro di mia madre o gli alberi
che frusciano su per questa collina di casa mia. Quindi dovete lasciarmi, ritirarvi
da qualche parte e magari aspettare di giudicare la mia seconda vita. Se sbaglierò
o se altri sbaglieranno contro di me ed io dovrò essere scelto quale ostaggio della
giustizia, allora potrete ritornare, potrete più facilmente riassalirmi e con maggior
gravità. Sono sicuro che oggi non siete gravi; non siete altro che un ricordo,
un’ombra. Mi sono riposato e nutrito; non ho commesso alcuno stravizio. La mia
gola sta certamente bene e così il mio stomaco, ed io non ho febbre. Nei momenti
di sconforto, quando dispero della mia nuova vita e non ne vedo i disegni, tornano
sul mio corpo e nel mio spirito le ombre dei mali trascorsi; soltanto le ombre di
quei mali che nel momento in cui mordevano veramente, in Croazia e in
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Germania, io non conoscevo, distratto dalla mia volontà di resistere. Quindi siete
destinati a sparire. Io saprò scrollarvi dal mio corpo e già domani starò bene, sarò
pronto al lavoro. Altrimenti questa volta non saprò resistere, proprio perché sono
a casa mia e perché dovrei lottare per la seconda volta e senza più speranza. In
Croazia o in prigionia sapevo che ci sarebbe stata una fine; ma ora quale fine
posso anche soltanto immaginarmi? Allora ero più giovane, ero un soldato, cioè
uno che deve soffrire. Allora avevo la forza di una lotta giusta contro l’esercito e
contro la cattiveria dei compagni. Allora ero uno straniero due volte, nell’esercito
e nel paese dove mi trovavo, e questo in qualche modo mi confortava e
giustificava la mia solitudine, il sedermi sugli scalini di una casa altrui, con il
fucile sulle ginocchia. I paesi erano tutti uguali e subito fuori avevano delle
macchie folte, dove io andavo a sedermi pur contro il divieto del reggimento. Fu in
una di queste macchie che mi trovò una sera, due ore dopo il coprifuoco, la
squadra guidata dal sergente Vattino. Io avevo sentito che mi cercavano, in otto,
armati fino ai denti e preoccupati, e mi ero ancora di più nascosto. Soltanto dopo
un’ora cominciai a scendere per lo stradino della macchia. La belva Vattino, che
già altre volte mi aveva offeso, l’ho perduto di vista in Germania. Rimase tra i
malati del primo campo. In quel primo campo io stavo abbastanza bene e
resistevo, perché dentro di me ero contento della disfatta dell’esercito e che quella
odiosa disciplina e tutta l’organizzazione fossero state infrante dai tedeschi in un
solo minuto. Il campo era vicino a un fiume, sul quale passava regolarmente un
battello quattro volte al giorno. Mi accorsi dopo un po’ di tempo che i battelli
erano due, uguali, che trasportavano sempre botti, o fieno o casse. Aspettavo con
pazienza il passaggio dei battelli e cercavo di riconoscere le facce di coloro che
navigavano. Facevo in tempo, seguendoli per tutto il tratto, a contare le botti o le
casse e quando trasportavano fieno contavo i minuti che i battelli impiegavano,
una volta apparsi, a percorrere il tratto del fiume. Ogni tanto, una volta al mese o
anche più raramente, immaginavo che un battello spuntasse tutto dipinto come
una nave e procedesse più veloce.
Avvicinandosi, avrei dovuto scoprire che vicino al timoniere era seduta mia
madre.
«Allora, mali, voi mordevate e mordevate di più nel secondo campo, quando
sul mio letto piovve per più d’una settimana. I cartoni che trovavo e che riuscivo a
sistemare contro la fessura del tetto s’imbevevano subito d’acqua e cominciavano
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a spappolarsi. Quel posto, sotto la fessura, fisso, legato alla parete della baracca e
a tutto il castello dei letti, era il regalo dei miei compagni. Io non rubavo cose da
mangiare ma i miei compagni non me ne davano certo. Una volta, di sera,
uscendo da una visita, trovai di fronte alla porta dell’infermeria una scatoletta di
carne. Non mi sembrava vera, raccogliendola tra il fango, e pensavo che fosse un
altro orribile scherzo. Divisi la carne fra tutti i prigionieri ammalati, senza
nemmeno assaggiarne un poco. Allora sì, miei mali, che voi mordevate anche se
io resistevo. Ora le vostre ombre debbono andarsene, lasciarmi in pace. Altrimenti
questa volta io non potrò resistere e voi finirete con me. Non posso resistere a
casa mia, di fronte a mia madre, nel momento stesso in cui dovrei cominciare a
stare bene e a vivere come un uomo civile».
Parlavo nel fresco del fienile, mentre il sole girava sul lago di Candia. A un
certo momento, a un momento, per quanto prevedibile, improvviso e non un
attimo prima o dopo, il sole avrebbe girato la collina verso le montagne e
abbandonato il lago. Forse allo stesso modo sarebbero potuti cadere i miei mali e
scendere dalle mie braccia o almeno diminuire come la luce solare e lasciarmi in
pace per il giorno dopo.
Tra le macchie e i disegni che i mattoni componevano sul muro del fienile e
che per molti anni della mia gioventù, dopo il ritorno da Avignone, mi furono
familiari, ritrovai presto la faccia dell’indiano con un turbante alto e di color
marrone, lucido come una bella seta. Questo mi spinse immediatamente a
ricercare più in alto, nell’ultimo tratto di una vecchia. scialbatura sotto il tetto, il
disegno dello scarpone. L’indiano aveva sempre costituito per me una specie di
favola: anzi l’inizio di una favola che metteva in moto la mia fantasia a creare
tante favole o storie, o, meglio, tante conclusioni alla favola dettata dal
ritrovamento sul muro e dentro di me della figura dell’indiano. Lo scarpone, alto e
gonfio sulla punta, aveva sempre avuto un’aria lieta di buon compagno, che mi
rallegrava e confortava con suggerimenti del tutto reali, come il ricordo di certe
belle feste dell’infanzia o di belle giornate pasquali o primaverili, di abiti nuovi, di
soldi. Il ritrovare dopo molti anni queste due figure, e il riconoscerle ancora più
fresche sul muro e dentro di me, avrebbe dovuto essere di buon augurio. E così
allora pensai, affidandomi subito alle fantasie dell’indiano e insieme ai reali e
dolci ricordi dello scarpone. Le fantasie e i ricordi si sostenevano a vicenda e io ne
fui preso tanto da dimenticare, nelle ultime ore di luce prima della notte, i miei
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mali.
Fra tutti gli altri che mi assalirono, colmandomi tutta la testa e gli occhi e gli
orecchi, a poco a poco si schiarì e prese il sopravvento il ricordo della mia prima
comunione, forse per un segno della Provvidenza. Anche allora ero molto
preoccupato. In Francia i miei genitori non praticavano la religione. Non
andavano quasi mai in chiesa e non avevano pensato alla mia educazione
religiosa, così che tornato in Italia a dodici anni compiuti io non ero stato ancora
cresimato. In Italia, i miei ripresero quasi subito, insieme a tutte le amicizie ed
abitudini, ad andare in chiesa e si preoccuparono di farmi prendere i sacramenti.
Andavo dal parroco, don Achille Giglio Chion, alla dottrina, da solo, dopo pranzo
verso le due.
A quell’ora lui si svegliava dopo un’ora di sonno in sacrestia, con la tunica
sbottonata e l’orologio ciondoloni sul petto. Ero quasi sempre io a svegliarlo con la
mia entrata dalla porta piccola, dietro l’abside. Andavo da solo, perché ero ormai
grande e non potevo più essere ammesso alla squadra della dottrina.
«Albino», diceva don Giglio Chion, «c’è un solo Dio, come questo orologio», che
si prendeva sul petto, caricava e ricacciava dentro, allacciandosi la tonaca con i
piccoli bottoni neri di stoffa. «C’è un solo Dio e diviso in tre parti come questo
orologio; il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: la cassa, il meccanismo, le lancette.
Un solo Dio, un solo tictac, una sola legge. Noi siamo tanti che guardano
l’orologio, che debbono ispirarsi alla sola legge, sentire il tictac».
«Quanti sono i sacramenti?» mi chiedeva subito dopo alzandosi in piedi e
sputando dal finestrino della sacrestia uno sputo orribile, fabbricato nella gola e
nella bocca insieme alla sacra parola; uno sputo che rimbalzava fuori, sul
selciato, come una moneta. Poi chiudeva il finestrino e mi sorrideva, per
cominciare la lezione. Fu ucciso dai tedeschi, una notte che andava a trovare i
partigiani della Val d’Aosta, con un colpo solo sparato da lontano.
La mattina della comunione, a maggio, io ero agitato e mortificato di dovermi
accostare ai sacramenti già grande e con i calzoni lunghi, che mi erano stati fatti
per l’occasione. Mi vergognavo di essere tanto grande, insieme a molti bambini,
ed ero preoccupato come nel fienile quella sera prima della visita medica nella
fabbrica.
Temevo che qualcosa non dovesse andar bene, che uno spirito maligno alla
fine dovesse respingermi, proprio per il mio turbamento. Ero il solo ad avere i
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calzoni lunghi, fra tutti gli altri bambini con le gambe nude: le gambe rosa
allineate sull’altare che erano il segno della loro purezza. Fui comunicato per
ultimo e per mancanza del vescovo non fui cresimato.
Questo ricordo mi rasserenò e mi suggerì l’idea di comunicarmi il giorno dopo,
la mattina prima d’andare alla visita medica. Ormai era notte e sentivo appena
quel leggiero rumore che il lago fa muovendo piano le acque verso le sponde e,
più forte, sentivo le raganelle, i grilli e, ogni tanto, qualche motore e voce di
comitiva che veniva dalle strade. La luna era nel cielo e senza vederla ne capivo lo
splendore dei tre quarti dalle canzoni degli usignoli, nei boschetti più folti verso il
nord. Vidi la luna uscendo dal fienile con sulle spalle il letto, che riportavo nella
mia stanza. La luce invadeva la cucina e imbiancava la tovaglia ancora
apparecchiata del pranzo leggiero che mia madre mi aveva preparato. Rifeci il mio
letto e scesi a mangiare con la serenità che era ormai nel mio spirito. I miei mali
erano lontani da me come il sole di mezzogiorno e mi sembrava che non
dovessero più risorgere da nessuna parte del mio orizzonte. L’indomani sarebbe
cominciata la vita nuova e la mia sistemazione con un lavoro. La notte fu
brevissima e senza disturbi.
Uscii poco dopo l’alba del 28 giugno 1946, vestito con il mio abito migliore,
forse poco adatto al caldo della stagione; ma lasciai il colletto della camicia aperto
fuori della giacca. Mi diressi alla chiesa e vi giunsi che era ancora chiusa. Provai
a passare dalla sacrestia; ma era chiusa anche la porticina posteriore. Scesi verso
il centro del paese, per la strada del lago. Non incontrai nessuno. Davanti
all’ultima casa, che era già una casa di campagna, sedeva un vecchio, piegato
sopra un bastone, con una coperta sulle spalle.
Quando ritornai su, la chiesa era aperta, con il portone spalancato e dentro vi
erano gia quattro donne, che parlavano forte fra di loro. Chiesi al parroco di
confessarmi ed egli si inginocchiò subito all’altare indicandomi di fare la stessa
cosa. Le donne abbassarono la voce ed io cominciai a confessarmi guardando i
grossi candelieri d’oro sui quali scendeva la polvere della prima luce.
Non avevo molti peccati da confessare e non volevo nemmeno raccontare i
miei mali e le mie preoccupazioni per il timore di ritirarmeli addosso. Accennai
alla mia paura della visita medica e fu l’unico istante in cui il parroco voltò gli
occhi verso di me. Dissi che qualche volta perdevo la fiducia in una vita migliore e
che mi sembrava, ogni tanto, di odiare mia madre e la sua vecchiaia. Il parroco
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mi disse di avere più confidenza con lei e di farla partecipare alla mia vita e mi
domandò se fossi fidanzato e se avessi intenzione di fare un matrimonio cristiano.
Restai per un momento sorpreso e risposi di no; ma poi, per non dare alla mia
risposta un tono troppo categorico ed anche per un poco di vergogna, aggiunsi:
«No, non ci ho ancora pensato».
Fui assolto ma non completamente in pace, perché l’ultima domanda era
rimasta sospesa dentro di me e non placata dalla mia risposta. Ascoltai la messa
e mi comunicai insieme alle donne. Le guardavo e vedevo che erano tutte anziane
e brutte, vestite allo stesso modo, di cotonina nera o scura. Una soltanto era
ancora carica nel corpo, nel petto e in altre parti. Pensavo come potesse un uomo
vivere per tanti anni, per tante notti e mattini, con la stessa donna senza averne
alla fine ribrezzo.
Scacciai da me questi pensieri prima di comunicarmi e, finita la messa, uscii
per primo. Ridiscesi verso il paese per andare a prendere il treno. Per non farmi
rioccupare da qualsiasi pensiero comperai un giornale e una rivista illustrata e
per non avere disturbi dalla gente che si incontra salii sull’ultima carrozza. Mi
sedetti con le spalle verso la locomotiva e cominciai subito a leggere. Ogni tanto
guardavo dal vetro dell’ultima porta del vagone la campagna tagliata dalla ferrovia
e, in fondo, i binari lucidi e in fuga come due assassini.
Arrivai a X e andai subito all’infermeria, che mi fu indicata da una guardia.
Un’altra guardia mi ricevette e mi introdusse in una sala d’aspetto, che aveva una
grande finestra con il vetro verniciato di bianco. Quante altre volte sono entrato
in quella sala d’aspetto! Quante altre volte ho sentito quell’odore di medicina e di
dispetto, in questi anni di traversie! Io allora aspettavo senza sapere niente e gli
altri che aspettavano con me, ignari o già dominati dalla cricca dei medici, non mi
dissero niente.
Quella mattina, un’infermiera con gli occhi lucidi mi chiamò e tirandomi per
un braccio mi portò davanti a un tavolino. La valanga delle sue domande mi
sgominò e l’odore delle medicine cominciò a farmi bruciare la gola e tremare la
schiena.
In fondo trovai un’altra sala d’aspetto, più piccola, dove bisognava stare in
piedi. Lì cominciava la vera agonia. A quel punto io sono sempre giunto fuori di
me e senza quasi più la forza di ribellarmi. Ho sempre tentato, tutte le altre volte,
di andare diritto dal medico, di entrare nella stanza della visita direttamente dal
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corridoio e non da quella tomba. Qualche volta m’è riuscito, altre volte le
infermiere mi hanno spinto via urlando come se avessi osato varcare la soglia del
mistero. I medici invece reagivano appena, il dottor Tortora o il dottor Steffenino o
lo specialista di nessuna specialità, il truffatore numero uno, il professor
Bompiero; e non hanno mai fatto grande caso se io entravo da una o dall’altra
delle porte, a meno che non avessero un altro infelice sotto le loro mani.
«Avanti, avanti», dicevano, «vediamo, vediamo come va, Albino Saluggia..».
Il nome Saluggia diventò un segno per loro; il segno che dovevano infierire,
pur con il sorriso, nel peggiore dei modi.
«Saluggia, il reticente..». oppure: «Ah, Saluggia, il nostro collega..».
Quella mattina del 28 giugno 1946 nella piccola anticamera dell’infermeria
c’erano due giovani che aspettavano la visita del dottor Tortora. Uno lavorava già
nella fabbrica; l’altro, come me, aspettava la visita d’assunzione a petto nudo,
coperto d’una coltre nera di pelo per tutto il petto, la schiena e le spalle sino ai
gomiti. Aveva peli nel naso, dentro e fuori, nelle orecchie, una barba rasata ma
nera e capelli folti e lucidi. Era anche un po’ grasso e aveva due labbra gonfie,
rosso scure. Rideva fiducioso e quando parlava pareva che le due labbra non si
toccassero mai. Era il mio amico Francesco Pinna, un marinaio sardo, che si era
sperduto a Genova nel 1943.
Era stato partigiano in Liguria e a Cuneo. Prigioniero dei tedeschi a Torino,
era riuscito a fuggire. Non ricordo cosa dicesse; entrò per primo e dovette uscire
dall’altra porta, poco dopo, perché quasi dietro di lui fu chiamato l’operaio.
Rimasi solo, spaventato dall’attesa, con la paura che tutti i mali stessero per
atterrarmi definitivamente. Mi fermai un momento, con gli occhi chiusi.
Sentii che un altro era entrato dietro di me, e indovinai che anche lui era a
petto nudo, forse dal fatto che appena entrato si era fermato, anche lui intimorito.
Poco dopo sentii aprire la porta del medico e la bella voce del dottor Tortora mi
interpellò: «S’accomodi; qui davanti a me, alla luce, per favore; qui vicino alla
finestra. Lei è... sì, Saluggia Albino». E cominciò la sua visita, spostandomi tra la
luce della finestra e il lettino. Io tremavo che sentivo le mie ossa battere tra di
loro. Il dottor Tortora era serio e gentilissimo, mi toccava con due dita grosse e
linde un po’ dappertutto, più sovente sul petto. Volle che mi spogliassi ancora di
più.
«Come mai è così preoccupato?» mi domandò. «Non si sente bene?»
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«Questa notte non ho dormito», risposi.
«È stata dura per lei la prigionia», continuò il medico, «molto dura. Le sue
condizioni non sono certo floride. Ha spesso tosse o qualche linea di febbre? Ha
appetito?»
Così cominciò il dolce interrogatorio del dottor Tortora; colui che si mostrava
l’uomo più premuroso del mondo e che sarebbe stato, dopo non molto tempo, uno
dei miei carnefici. Allora mi lasciò capire che avrebbe consentito la mia
assunzione soprattutto per i gravi torti che io avevo sempre subito e per
permettermi di ricominciare; così che mi sembrò inviato dalla Provvidenza a
riparare tutte le ingiustizie che avevo fino allora subito, con il suo lungo camice
immacolato, la camicia celeste fuori dai polsi e dal bavero, la cravatta a fiori. Nel
taschino del camice teneva un guanto di gomma, il grande e bello dottor Tortora,
l’amore di tutte le infermiere e di molte malate.
«Forse lei entrerà a lavorare... ne sono quasi sicuro; ma... um..» e si muoveva
tra la finestra e il lettino tutto premuroso, convinto della grande azione che stava
facendo, tenendo sostenuto il suo petto sotto il camice e un poco ricurvo il capo,
proprio come un piccione che cammini avanti e indietro sulla grondaia del
municipio a Candia.
«Non che ci sia niente di grave, qualche controindicazione specifica che possa
impedirle di lavorare; ma... ma... la sua condizione è un poco fiacca, cioè il suo
organismo è debole, non debolissimo ma debole. Ma lei è ancora giovane, può
riprendersi. Se entrerà a lavorare... sì, sì, ex prigioniero, reduce, entrerà,
entrerà... se entrerà forse le gioverà una vita regolata, il lavoro... Chi ha a casa?...
la mamma? Oh! allora la mamma saprà rimetterla in forze. Mangi molto e dorma
regolarmente».
Intanto scriveva il primo dei suoi fogli contro di me; il primo di quei fogli che
in tanti anni hanno invaso la mia vita e tutta la regione del Piemonte, sì da
negarmi la pace e qualsiasi giustizia. Ero troppo fiducioso allora per capire il
primo segno, per vedere in quella penna, che il medico teneva impugnata a metà
calzandola sul foglio, la spada dei miei dolori. Il dottor Tortora rilesse il suo foglio
e chiamò l’infermiera Ravetta. L’infermiera Ravetta è la più buona dell’infermeria
e già allora lo dimostrò.
«Intesti una scheda personale a questo signor Saluggia Albino», disse il mio
cognome senza incertezze, senza pensarci un momento, come se l’avesse già
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fermato nella sua mente per il progetto diabolico delle mie sofferenze. «La
fotografia gliela farà più tardi». Rivolgendosi a me e porgendomi la mano con vera
gentilezza: «Arrivederci Saluggia, arrivederci perché ci rivedremo certamente.
Collaboreremo perché lei possa riprendersi del tutto».
Lo ringraziai commosso. Invece avrei dovuto ritirare la mia mano ed uscire
inorridito, perché quelle dolci parole erano l’inizio della mia rovina. Arrivederci
dottor Tortora, dico oggi io, arrivederci il giorno in cui ciascuno dovrà rendere
conto di tutta la sua vita. Allora non ci saranno medici e ammalati, dirigenti e
operai: ciascuno arriverà nudo con il suo petto in modo che tutti gli altri ne
contino e riconoscano le piaghe. Allora Tortora, non più dottore, vedrai che le
caverne dei miei polmoni sono le tue, a sinistra; a destra, del professor Bompiero.
Mentre mi rimettevo la camicia nello spogliatoio dell’infermeria, si avvicinò
l’infermiera Ravetta che mi disse: «La sua scheda è pronta», e me la mostrò, gialla
e nuova. Da allora hanno dovuto aggiungerne altre due per tutte le diagnosi, i
referti, i passaggi, i segni, le date che hanno dovuto scrivere sui miei poveri mali.
La prima è ridotta che non si riconosce più: tutta sporca, lercia, a brandelli. La
mia fotografia si sbiadisce sempre più, come se seguisse la mia sorte cattiva.
«Questo vuol dire che inizierà a lavorare. Stia tranquillo», e mi avvertì che
subito mi sarei dovuto presentare all’Ufficio Manodopera. Fuori dell’infermeria
incontrai Francesco Pinna, il sardo peloso della sala d’aspetto, e quasi non lo
riconoscevo, perché vestito, senza tutto quel pelo, sembrava più giovane. Anche
lui si avviava all’Ufficio Manodopera e lo seguii. Rifeci la strada del giorno prima,
risalii gli scalini e mi sedetti ad aspettare. Pinna rimase in piedi, appoggiato al
muro.
Dovetti aspettare molto tempo prima di essere ammesso nell’ufficio del signor
Ducati, l’uomo che oggi comanda tutto il personale e che assiste alla mia rovina.
Quando entrai io, Pinna stava già parlando con la sua voce rotonda come la
bocca e diceva di essere macchinista provetto, elettricista e radiotelegrafista. La
marina, ma forse di più la sua fantasia di meridionale, gli aveva dato tante
specialità. Quando arrivai davanti a Ducati vidi che aveva già un’intera cartella
intestata al mio nome. C’era perfino il libretto di lavoro richiesto dalla ditta
all’Ufficio di Collocamento. Insieme dovevano esserci uno scritto del vecchio
maggiore dalla testa grossa, un altro del medico, e, pensai, anche altri scritti dei
carabinieri, del sindaco e del vescovo. Chissà se avevano chiesto niente al
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Distretto militare. Trovai tutto questo giusto, perché, in fondo, si trattava di una
cosa molto importante; per me di ricominciare la vita.
Dopo altre cose di nessun conto, Ducati in persona mi chiese se ero stato
bravo a scuola, all’avviamento, e se mi ricordavo qualcosa di matematica e di
geometria. Mi chiese anche, con grande rispetto e senza fare alcun commento
sulle mie risposte, se avessi mai lavorato e se avessi in mente qualche lavoro
preciso da fare, se cioè avessi preferenze, e, alla fine, se avessi mai visto una
fresatrice. Io risposi a tutte le domande con sincerità e dissi soltanto grazie
quando Ducati mi assegnò la matricola 3743. Fu poi Francesco Pinna che mi fece
notare che la somma dei numeri della matricola dava 17, numero disgraziato.
Rideva con il suo vocione e fra i due labbri che non si toccavano brillava un filo di
saliva. Io ero così fiducioso che non diedi retta e anzi dissi che 3743 era un
numero fortunato, perché cominciava e finiva con 3 e perché 7 meno 4, i due
numeri di centro, dava ancora 3.
Egli rise di più e ridendo si accompagnava con un saltellino del ginocchio
destro. Aveva due mani piccole rispetto al corpo: se le fregò e se le passò sulla
faccia.
Intanto seguivamo una guardia verso l’interno delle officine. C’era dovunque lo
stesso odore acre, l’odore dell’olio, e dovunque un rumore schietto, diverso dal
rumore che si sentiva fuori della fabbrica. Era il rumore dell’aria compressa e
quello di centinaia di stantuffi. Dal fondo dell’officina che attraversavamo veniva il
rumore alterno e schiacciante delle presse. Dopo il primo momento s’avvertiva il
rumore continuo dei torni e dei trapani e poi, chissà da dove, lo squillo di un
metallo. Bisognava aspettare per sentire il rumore degli uomini; appena entrati si
vedeva che parlavano e si muovevano senza però che a tali gesti si potesse
attribuire un suono invece più tardi si sentivano i rumori delle voci, dei passi, dei
gesti di lavoro.
Ora posso dire che a differenza dei sanatori dove, fra tutte le voci accanite, il
rumore di una macchina, di un rubinetto o di un cesso prende il sopravvento e
attira l’attenzione di tutti, nella fabbrica, tra il grande frastuono delle macchine,
l’orecchio finisce per scegliere le voci degli uomini, il loro brusio; una risata,
anche alla mattina alle dieci e mezza quando il lavoro corre più forte e fa tremare
tutta la fabbrica e niente più del lavoro esiste anche in tutti gli uomini e le donne,
diventa il rumore più forte e verso la sua parte si voltano, anche solo per un
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attimo, tutte le facce del reparto; quelle centinaia di facce, sbigottite dal lavoro,
che si levano tutte insieme.
Scrivo del rumore, perché la prima volta che uno entra nella fabbrica il
rumore è la cosa più importante, e più che guardare uno sta a sentire e sta a
sentire senza volontà quel gran rumore che cade addosso come una doccia.
«Che rumore», disse Pinna, «sembra di essere nella sala macchine d’un
incrociatore».
Guardai la guardia che ci precedeva temendo che lo rimproverasse; ma vidi
che non aveva dato alcun peso alle sue parole. Il rumore era forte e le officine
erano impressionanti. Erano grandi già allora che la fabbrica era un terzo di
quello che è oggi. Grandi, pulite e ordinate, con molta luce. Ciascuno aveva il suo
posto di lavoro e ciascuno agiva per conto suo, con grande sicurezza.
Sembravano tutti molto bravi e importanti. Mi stupì il fatto che non ci fossero
lavori da fare in gruppi: un gruppo tutt’insieme che si dà una mano e tira e
spinge di qua o di là o batte martelli o alza una grande macchina.
Tutte le macchine erano per un uomo solo e un uomo poteva manovrarle
comodamente.
Quasi a mezzogiorno la fabbrica era in gran parte illuminata e ogni uomo
poteva disporre della sua luce Non c’era alcun disordine: né mucchi di materiali
nei cantoni, né macchine ferme. Il soffitto era quasi tutto coperto di tubi di ferro
di varia dimensione, che andavano anche al di là del reparto. Ogni tubo era di un
colore diverso, così che uno poteva seguirlo fino in fondo e sulla testa non sentiva
un nodo o una maglia confusa e minacciosa. Appoggiata sopra una macchina vidi
una fotografia di Fausto Coppi. Gli uomini – quei reparti delle officine che
attraversavamo erano di soli uomini – si muovevano liberamente, non
allontanandosi però dal loro posto, e parlavano sempre più tra di loro Qualcuno
anzi cominciava a muoversi e a fare un lavoro diverso dagli altri. Stava fermando
e pulendo la sua macchina per l’intervallo di mezzogiorno. Poi uno si staccò dalla
macchina e si diresse verso una porta di vetro sul fianco del reparto. Fu come un
segnale e molti altri cominciarono a camminare. La nostra squadra di nuovi, di
quattro più una guardia, era l’unico gruppetto che si muovesse compatto in
quella parte della fabbrica. La guardia ci disse di fermarci e si avvicinò a un uomo
che stava curvo a guardare il motore di una macchina. Mentre guardava basso,
con una mano alta, a sinistra sul fianco della macchina, girava con dolcezza una
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manopola. La macchina strideva piano e perdeva in una bacinella un olio, un
latte, e sembrava che in realtà soffrisse come un animale ferito. L’uomo era il
capo Michele Grosset. La guardia disse: «Signor Grosset, questi sono i nuovi.
Possono cominciare anche oggi», e se ne andò. Grosset si pulì le mani, ci guardò
tutt’insieme con uno sguardo preciso e poi guardò in alto l’orologio: «Non certo
ora», disse, «e oggi potrà cominciare chi sa già lavorare alle fresatrici. Questa è
l’officina A della fabbrica, cioè la prima, e questo è il reparto fresatrici. Io sono il
capo reparto e mi chiamo Michele Grosset. Chi lavora alle frese è un operaio
qualificato; chi lavora bene. Oggi alle due vedremo chi sa lavorare, gli altri
dovranno impararlo da me. Adesso è mezzogiorno, la fabbrica smette. Alle due
tornate qui, cinque minuti prima. Se volete, potete andare a mangiare alla mensa,
o a casa. Tu», disse a un operaio, «accompagnali, per favore, all’uscita».
Io seguii Grosset, che non parlò più. Si tolse il grembiule nero e vidi che sotto,
pur con il caldo che faceva in mezzo a quell’olio, aveva la camicia con il colletto
chiuso, la cravatta e le maniche chiuse ai polsi con dei gemelli d’oro. S’infilò la
giacca, che tolse da un piccolo armadio di ferro, e dal cassetto di una scrivania
quadrata e tutta dipinta di grigio prese due giornali: La Stampa e l’ Avanti.
Ripiegò il secondo dentro il primo, se li mise sottobraccio e si diresse verso la
mensa, caricando l’orologio. Per circa un anno tutti i giorni di lavoro ho visto
Grosset fare queste operazioni, sempre allo stesso modo e con la stessa faccia;
almeno tutte le volte che restava a mangiare alla mensa. E questo capitava dopo
una lite con la moglie e quindi spesso. La moglie a casa non gli preparava da
mangiare; restava a letto fino a tardi e poi s’imbellettava e si nutriva di latte e
frutta. Non era Grosset a litigare con la moglie; era la moglie che ad ogni nuovo
amante, tutti per qualche giorno, anche operai del reparto fresatrici, o ad ogni
nuova avventura al lago di Viverone o a Saint Vincent o dopo una fuga a Torino,
l’insultava o lo cacciava di casa. Era costretto a rientrare a casa tardi, all’ora della
chiusura dei cinema o ancora più tardi. Spesso la moglie gli preparava un letto
nel sottoscala, portando qualcun altro a dormire nella stanza matrimoniale. Un
nemico, che forse ha dormito in quella stanza matrimoniale, dice che in questi
casi Grosset non sale nemmeno al piano superiore e che quindi è costretto a
lavarsi alla meglio alla presa d’acqua del giardino, senza potersi fare la barba e
cambiare la camicia. Lo stesso nemico dice che una volta Grosset stette senza
cambiarsi la camicia per più di una settimana e che dopo qualche giorno prima di
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lavorare se la toglieva, infilandosi il camice nero sulla maglia.
Seguendo Grosset, giunsi alla mensa. Con tutti i miei piatti intorno cominciai
a mangiare, seduto due tavoli dietro il mio capo reparto. Sentivo una grande
tranquillità guardando i miei cibi; ma insieme sentivo ostilità e invidia per tutti gli
altri, setteottocento persone che già erano nella fabbrica e che sapevano cosa
fare. Alla fine del pasto mi si avvicinò Pinna. Accettò volentieri un bicchiere del
mio vino. Insieme, seguendo ancora Grosset da lontano, ci avviammo dopo il
pranzo verso i campi da bocce della fabbrica, sotto l’ombra di molti alberi. Lì
aspettammo il primo suono della sirena.

*5*

Alle due meno dieci minuti eravamo al posto di Grosset. Io avevo paura di
questo inizio, soprattutto paura che la fabbrica potesse assomigliare all’esercito.
Mi tranquillizzava appena la differenza tra Grosset e il sergente Vattino e mi
trascinava il pensiero del lavoro da imparare. Adesso che stava per cominciare
non pensavo più alla vita nuova. Aspettando per pochi minuti Grosset guardavo
la macchina che egli prima stava riparando.
Forse proprio quella sarebbe capitata a me: lo speravo, lieto che anch’essa
dovesse ricominciare dopo un guasto. Una parte che poteva essere la sua testa
era scoperchiata e questo aumentava la mia confidenza e la sua arrendevolezza.
Grosset arrivò puntualmente; ripose i giornali, riprese il suo camice e ricompose
con il suo sguardo la nostra squadretta di nuovi. Intanto arrivavano alla
spicciolata tutti gli altri operai, con aria indolente e quasi ribelle: sembrava che
tornassero nei reparti per prendere qualcosa che vi avevano lasciato. Con animo
ben diverso, io, di fronte a Grosset, mi accingevo al lavoro.
«Questa è una fresatricepialla a ciclo automatico», disse indicando proprio la
macchina guasta; «viene costruita dalla nostra officina meccanica e si chiama FP
3. Serve a lavorare una serie di pezzi di dimensioni medie. Pensate a una pialla
comune che un falegname adopera su una tavola e pensate poi allo scalpello che
lo stesso falegname debba adoperare per fare qualche taglio o incavo nella stessa
tavola. Questa fresatricepialla fa le stesse cose sul ferro e sulla ghisa. Invece della
mano del falegname la spinge la forza industriale».
Grosset ci spiegò adagio e molto bene ogni pezzo della FP 3, facendola ogni
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tanto funzionare e invitandoci a vedere il lavoro degli operai del suo reparto per
chiarirci meglio qualche dettaglio, specie di quegli operai che avevano bisogno
della sua guida o per il funzionamento della fresatrice o per qualche particolare
problema del pezzo in lavorazione. Ogni operaio doveva fare trenta pezzi all’ora,
cioè un pezzo ogni due minuti: prendeva il pezzo dalla cassetta dei grezzi che gli
arrivava dalla fonderia ogni mezza giornata, lo lavorava e lo metteva poi nella
cassetta dei finiti; tutto in due minuti. Il lavoro era molto, tanto che il pezzo finito
sembrava diventato d’argento. Gli operai erano tutti uomini seri che andavano
avanti bene e con calma. Anche quando smettevano un attimo per regolare il
mandrino portaattrezzi o la presa dell’aria compressa erano calmi e non si
preoccupavano di perdere tempo. Avevano tutti press’a poco la mia età, forse
qualche anno di più, ad eccezione di un giovanissimo e di due sui cinquant’anni.
Nel reparto di Grosset erano ventitré e con noi sarebbero stati ventisette,
costituendo il reparto forse più grosso di tutte le officine. Vestivano tutti allo
stesso modo, o così mi sembrava per l’uniformità dell’ambiente, delle macchine e
del lavoro che poteva annullare le piccole differenze.
Alle cinque, noi quattro nuovi avevamo avuto la prima spiegazione di Grosset
e potevamo incominciare qualche esercizio pratico. Prima di ogni altro il modo di
stare di fronte alla fresatrice, in tutte le posizioni necessarie per impostare il
lavoro, per avviare la forza motrice e seguire le lavorazioni. Grosset mise in moto
la macchina e poi la fermò e volle che ciascuno di noi ripetesse i suoi gesti. Tutto
andò bene. Io mi sentivo bene, anche se lavoravo con il mio abito buono e
pesantissimo che mi faceva sentire molto caldo; ma Grosset non mi disse mai di
togliermi la giacca. Quando si trattò di fare il primo esercizio con una fresa
innestata, Francesco Pinna si fece avanti dicendo che toccava a lui giacché la
macchina si chiamava come lui, F.P. Io riuscii nel primo esercizio come gli altri
tre, anche meglio. Grosset disse che avremmo potuto cominciare a lavorare con
l’allenatore dopo una settimana e dopo un’altra settimana forse già nel reparto
per la produzione.
Un quarto d’ora prima dell’orario di chiusura, il capo ci rimandò all’Ufficio
Personale. Lì ci consegnarono la cartolinaorologio indicandoci dove custodirla e
come servircene. Ci dissero di andare allo spaccio interno per l’acquisto degli
indumenti da lavoro. Io comperai una tuta, a due pezzi come un abito borghese.
Uscii dalla fabbrica con il mio pacchetto sotto braccio, molto stanco e, appena
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l’aria di fuori m’investì con un caldo diverso, molti problemi s’affollarono nella
mia mente. Ebbi paura, una fortissima paura, di aver sbagliato tutto e di essere
tornato nelle disgrazie dell’esercito. Mi sembrava di essere lontanissimo da
Candia e da casa mia e di non poter trovare la strada per tornarci, tra tutta
quella gente che usciva e che si salutava con un ultimo discorso, a voce alta e con
una confidenza che non era per me e che mi allontanava ancora di più da tutti
loro. Non presi nemmeno il pullman operai, nell’incertezza di rivolgermi a
qualcuno per chiedere da quale punto preciso partivano le linee per Candia e
Caluso e dove potevo trovare il capocorriera. Decisi di prendere ancora il treno,
ma quello delle 20 e 12, meno affollato di gente della fabbrica. Così arrivai a casa
che era già notte.
Trovai mia madre in cucina, seduta al buio; appena mi vide cominciò a
piangere. Io la tranquillizzai su tutto e le dissi che avevo un lavoro, un buon
lavoro con un salario di circa quarantamila lire, la mensa, le corriere e tutto il
resto.
Lei mi diede da mangiare verdure del nostro orto, che ancora, alla fine di
luglio, dava piselli e fagiolini oltre ai pomidori, nel pezzo dietro casa, a nord, più
umido e riparato da due alberi di noce. Io le mostrai la divisa di lavoro che avevo
acquistato e lei volle subito, mentre io mangiavo, rinforzare tutti i bottoni con un
filo più grosso.

*6*

La notte fu brevissima anche se il mio sonno fu spezzato due o tre volte da un


sentimento di paura. Ma esso non doveva essere vivo nella mia coscienza perché
appena svegliato riuscivo a controllarmi e la sua mano lasciava subito la presa
dentro di me. Subentrava un senso gelido d’attesa che mi faceva pensare
lucidamente alle cose che stavano per succedermi; all’ingresso in fabbrica, al
mettermi insieme a tanti altri a lavorare, al viaggiare, al guadagnare e allo
spendere un salario. Queste cose nel giro di un momento mi apparivano
inevitabili e sicure come per una predestinazione o come se dovessi ripeterle dopo
che erano gia avvenute nella mia vita. Il senso di gelido di questi attimi di
risveglio io sentivo anche per tutto il corpo e mi spingeva a tirarmi il lenzuolo
addosso, a godere del tepore del letto, a riprendere sonno. E mi riaddormentavo
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sicuro sulle prove del giorno dopo, che avrebbero seguito d’un passo il mio
risveglio, senz’altra attesa o confusione.
Tutto avvenne così ed entrai nella fabbrica, limpido come un vetro. Nello
spogliatoio mi cambiai in un attimo e vestito con la tuta raggiunsi il mio reparto.
Davanti a Grosset mi sentivo tenero e ben disposto come un bambino. La
fresatrice che mi affidò non era quella che egli stava riparando quando lo
conobbi. Per i primi quindici giorni non ebbi una macchina mia e come gli altri
nuovi lavoravo a intervallo su macchine diverse.
Questo mi teneva in agitazione perché sentivo che qualcosa mancava alla mia
vita nuova; mi pareva quasi di non poter regolare le mie forze, di non avere un
punto fermo. In questa condizione il lavoro mi angustiava e mi stimolava a un
grande accanimento. Mi sentivo stanco soltanto alla sera quando salivo sul
pullman. Allora la mia stanchezza mi cadeva tutta addosso anche per il gran
chiasso che gli operai viaggiatori facevano. Erano tutti dei paesi intorno al lago di
Candia; dei paesi dell’interno, lontani dalla strada nazionale e dalla ferrovia.
Sembrava che il ritrovarsi insieme e il viaggiare verso casa li rianimasse,
restituendo loro lingua e occhi.
Nella fabbrica non avevo mai visto esplosioni come quelle che avvenivano non
appena gli operai appoggiavano le scarpe sui gradini della corriera. Qui, se
parlavano della fabbrica ne parlavano come gente che, finalmente liberatasi, non
avrebbe dovuto farci più ritorno; anche quelli che vi lavoravano da più di
vent’anni. Parlavano con impeto, quasi con violenza, e si disponevano al viaggio,
eccitandosi, come a una sbornia paesana.
Qualche sera, in quel primo mese di luglio, se il tempo minacciava di
cambiare, parlavano della campagna, dei covoni di grano o della vigna. In questi
discorsi si calmavano e trovavano una profonda serietà; guardavano dai finestrini
verso le Alpi e poi verso la pianura e la Dora, commentando la luce e le arie e
sovente concludevano nel silenzio. Nella fabbrica ogni discorso era più difficile – e
così ho potuto sentire anche più tardi – e finiva sempre in risate, in malignità o in
sfoghi di risentimento e di disprezzo. Io, nella fabbrica, anche se ancora
aspettavo, sentivo il bisogno di qualcuno sincero, il bisogno di parlare con
qualcuno che potesse aiutarmi; ma nel reparto non avevo ancora visto un
compagno in grado di farlo.
Non correva una vera amicizia e i discorsi andavano su cose trascurabili e si
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fermavano sulle barzellette e sulle maldicenze. Il più gentile con me era sempre
Pinna, che però spesso non mi capiva. Non aveva capito nemmeno Grosset, e
insieme a tutti gli altri rideva quando Manlio, il più vecchio del nostro reparto,
andava a parlare con Grosset davanti alla scrivania facendo le corna con la mano
dietro la schiena.
Questa storia cominciò il terzo giorno che noi quattro nuovi eravamo arrivati
al reparto fresatrici e mi mise subito in uno stato di diffidenza nei confronti di
tutti i miei compagni. Anche il più giovane, che aveva soltanto diciassette anni,
rideva e siccome era il più vicino alla scrivania, rideva senza far chiasso, tutto
rosso, con la testa cacciata tra la tavola della macchina e i morsetti. Io sentivo la
bontà e la bravura di Grosset e mi dispiaceva che lo deridessero a quel modo.
Così non potevo accettare i discorsi volgari e a doppio senso fatti con le ragazze,
alla mensa e per i corridoi, nei quali Pinna era un maestro, uno di quelli con
maggior successo.
Ma della fatica, nessuno parlava mai; voglio dire del lavoro. Del lavoro si
parlava con il capo o con qualcuno del reparto in difficoltà che andava a
domandare agli altri. Così nei sanatori sempre poco ho sentito parlare della
malattia o delle cure: tranne in quei momenti in cui, per la morte, l’arrivo o la
partenza di qualcuno, esplodevano i discorsi sulla malattia fatti da tutti,
tutt’insieme e ognuno per conto suo e con accanimento, come se una febbre
nuova avesse invaso l’ambiente. Ritengo che per questo il lavoro fosse più pesante
per tutti. Non era poi giusto pensare che il lavoro fosse una condanna caduta su
chi era nella fabbrica, come molti volevano far credere con i loro rimbrotti, perché
tutti quelli che vi lavoravano avrebbero dovuto in ogni caso lavorare, o dentro o
fuori. «Si lavora per un padrone», mi rispondevano quasi tutti. Questo argomento
chiudeva qualsiasi discorso ed io non reagivo; osservavo però che questa
giustificazione non tranquillizzava del tutto nemmeno coloro che la davano con
tanta veemenza.
Il giorno in cui cominciai a lavorare da solo alla fresatrice, più del padrone,
odiavo tutti i compagni. Speravo che le loro macchine s’inceppassero e tagliassero
malamente i pezzi. Questo odio m’aiutava a lavorare e mi dava l’ambizione di
riuscire a fare meglio degli altri. Prendevo il grezzo dalla cassetta come fosse un
nemico da sgominare e lo riponevo finito che ormai gli ero affezionato come a una
parte di me stesso. Il rumore della fresatrice mi tirava nella lotta e più la sentivo
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mordere più m’infervoravo nel lavoro. Il suo rumore, i suoi tagli, mi convincevano
aspramente di saper lavorare; davano alle mie mani una forza che non avevano
mai avuto, anche se mi ero accorto che le mie mani più che guidarla erano
trascinate dalla macchina. Grosset si avvicinava spesso al mio posto. Un giorno
mi guardò per qualche secondo e poi passandomi una mano sulla spalla, mi
disse: «Vai calmo, Saluggia». Lui capiva la condizione in cui mi trovavo. «Non
prendere il lavoro come un nemico», soggiunse, «o non durerai a lungo. E non
farne nemmeno l’unica ragione della tua vita».
Siccome la sua benevolenza andava oltre la sua confidenza, per non sentirmi
troppo in debito, dissi anch’io:
«Si lavora per un padrone». «Per più d’uno», rispose Grosset, «ma siccome il
lavoro è per forza una parte della tua vita, cerca di non rovinartela». E se ne andò,
senza guardare nella cassetta la qualità dei pezzi finiti.
Ancora non lavoravo a cottimo ma certamente in quei giorni superavo il cento
per cento. Ad un certo punto m’accorsi che il pezzo cambiando sotto le frese, un
attimo prima d’essere finito, assumeva il colore opaco del lago di Candia. Questa
fu una grossa rivelazione tanto che da allora per molto tempo, anche se non per
tutta la giornata, svolgevo il mio lavoro per arrivare ogni volta al punto in cui
compariva il colore del lago; la frazione di lavoro successiva, necessaria per finire
il pezzo, era diventata per me come l’ultimo tratto di una strada, diversa da quella
vera, tra il lago e casa mia: di una strada diversa e più facile, dove sarebbe dovuto
capitarmi qualcosa, la rivelazione, il segno del mio nuovo destino.
Intanto la mia macchina funzionava bene, aveva solo il motore della tavola un
poco più rumoroso del normale.
Mentre i motori andavano, m’immaginavo qualche volta che si stesse
effettuando una corsa automobilistica, nella quale ero in gara con una macchina
di mia costruzione.
Immaginavo sempre di essere in testa, con il numero 17, il numero che mi era
stato attribuito da Pinna e che io mantenevo perché la mia corsa era proprio una
sfida lanciata contro il destino avverso e contro la congiura ordita a mio danno da
tutti gli altri concorrenti. Nel culmine della corsa la mia macchina subiva un
guasto e solo la mia abilità le impediva di fermarsi. Continuavo la gara con il fiato
sospeso per gli ultimi giri, guardando i miei compagni di lavoro come se
veramente stessero per superarmi con le loro fresatrici e poi, con un ultimo sforzo
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di volontà, riuscivo a vincere. Un altro giro e la mia macchina si sarebbe
incendiata. Seguendo questi pensieri potevo ugualmente controllare bene il mio
lavoro e procedere senza la noia di dover numerare uno ad uno i pezzi finiti.
Passavo le ore, che gli orologi nelle officine segnano a migliaia partendo
dall’inizio delle diverse lavorazioni.
Quando io sono entrato nella fabbrica, l’orologio della nostra officina segnava
l’ora 1227. Anche il tempo, come gli uomini, è diverso nella fabbrica; perde il suo
giro per seguire la vita dei pezzi. Trascorrevano le ore, anche con qualche
sigaretta che fumavo, le visite di Grosset e ogni tanto un discorso di Pinna, che
borbottava quasi sempre, anche da solo.
Il rumore mi rapiva; il sentire andare tutta la fabbrica come un solo motore mi
trascinava e mi obbligava a tenere con il mio lavoro il ritmo che tutta la fabbrica
aveva. Non potevo trattenermi, come una foglia di un grande albero scosso in
tutti i suoi rami dal vento. La gente non esisteva più ed io pensavo che per
quanto nella fabbrica si lavori tutt’insieme, stretti nei reparti, con le fresatrici su
tre file ad intervalli regolari, e così i torni e le presse, o tutt’in fila nelle catene di
montaggio o nei controlli, o si mangi in tanti alla mensa e si viaggi tutti sulle
corriere, è difficile poter avere delle compagnie e degli aiuti dagli altri. Io non
potevo mischiarmi, come faceva Pinna, ai gruppi che parlavano in quel tempo di
un aumento di venti lire orarie, perché se io avessi parlato dei poveri contadini o
dei disoccupati mi avrebbero voltato le spalle. Pinna entrava in quei gruppi, non
so bene perché; non parlava quasi mai o si limitava a ripetere le parole degli altri.
Pinna si cacciava dappertutto ed io non capisco perché lo sopportassi come
amico, con quel suo testone nero e quello sputarello sempre tra le labbra.
Continuava a farsi ammirare per il suo coraggio di partigiano e per la sua fuga
dal terzo piano di un albergo di Torino dove i tedeschi lo tenevano prigioniero in
attesa di fucilarlo. Pinna mi aveva addirittura proposto di iscrivermi al Partito
Socialista e ai sindacati della C.G.I.L.; sempre ridendo naturalmente e
aggiungendo: «Vedrai poi, vedrai poi..». Io vedo chiaro ora, caro Pinna», gli avevo
detto, «e non mi iscrivo a niente. Io non ho niente da spartire con nessuno. « Ma
Pinna aveva riso, facendo saltare la sua gamba più del solito: «Vedrai che aiuto ti
daranno i preti..».
Tutto sommato, compresa la mia solitudine o meglio la mia differenza dagli
altri, i primi giorni di lavoro non furono brutti giorni; anzi molte cose mi
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piacevano e mi confortavano: così la mensa, gli spogliatoi, le docce, i grandi
corridoi, le luci al neon dentro e fuori, il veder passare alti e silenziosi tanti
ingegneri e dirigenti che mi facevano sentire al sicuro, in una fabbrica ben
governata. Pensavo con piacere, anche se con il timore di non esserne degno, di
far parte di un’industria così forte e bella e che la sua forza e la sua bellezza
fossero in parte mie e pronte ad aiutarmi, così come la fabbrica mi scaldava e mi
dava luce.
Amavo a poco a poco la fabbrica, sempre di più man mano che m’interessava
meno la gente che vi lavorava.
Mi sembrava che tutti gli operai avessero poco a che fare con la fabbrica, che
fossero o degli abusivi o dei nemici, che non si rendessero conto della sua
sovrumana bellezza e che proprio per questo, lavorando con più fracasso del
necessario, parlando e ridendo, la offendessero deliberatamente. Mi sembrava che
si divertissero a guastarla e a sporcarla, a voltarle le spalle ogni momento. La
fabbrica mi appariva sempre più bella e mi sembrava che si rivolgesse
direttamente a me, come se fossi l’unico o uno dei pochi in grado e ben disposto a
capirla.
Il lavoro andava avanti bene, dico il mio e anche quello degli altri, pur se
irriguardosi; in certi momenti di maggior lena sentivo il lavoro andare e mordere
nel ferro della fabbrica come un trattore che ara in un campo o come una
automobile che corre sull’autostrada. E mi sembrava di essere io ad arare o a
guidare; che la forza del rumore e del rendimento dipendesse da un acceleratore
legato al mio lavoro: quando io aumentavo, aumentava tutta la fabbrica e quando
rallentavo sentivo qualcosa cadere dall’unisono del lavoro di tutti, qualcosa come
aprirsi una porta, nascere una voce, una finestra aperta richiamare attenzione.
Questo lavoro, figlio della fabbrica, mi piaceva e mi dava soddisfazione tanto che
andando a mezzogiorno verso la mensa allungavo il giro per passare al reparto
imballaggio, dove le macchine nuove, miracolosamente lucide e complete dopo
essere passate per tante mani e catene, aspettavano in fila di essere custodite
nelle casse e spedite, con la loro faccia piena di denti, in tutto il mondo.
Perché tutti non amavano questo lavoro, e molti addirittura lavoravano e
vivevano nella fabbrica dimenticando questo frutto del loro lavoro, dimenticando
l’esistenza dell’ultima porta della fabbrica? Se avessi una risposta a questa
domanda potrei sapere anche perché alcuni malvagi hanno sempre agito contro
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di me, ribelli ad ogni legge morale, colpendo me forse per colpire la legge ordinata
della fabbrica, dove prosperavano; proprio come le malattie si rivoltano contro il
corpo che le ha nutrite.
Passati quasi due mesi di lavoro nella fabbrica mi accorsi però di non aver
guadagnato o perduto niente. Voglio dire che m’accorsi di essere la stessa
persona di cinquanta giorni prima, la stessa da tanto tempo, e che niente era
cambiato dentro o fuori di me nelle cose importanti della mia vita, che cioè la mia
vita era rimasta uguale, senza nemmeno mostrare i segni di una prossima
trasformazione. Lasciavo ogni giorno casa mia, viaggiavo, lavoravo, andavo alla
mensa, incontravo migliaia di persone, imparavo a lavorare, tornavo a casa; ma
dentro di me dopo due mesi non era cambiato niente. Dovevo convincermi a
pensare: «Sono un operaio, lavoro in una grande industria, entro dentro la
fabbrica», e anche pensandole, queste cose non muovevano niente dentro di me.
Soltanto mi tornava in mente il mio armadietto nello spogliatoio, con il suo
numero scritto a fuoco e il lucchetto che aveva sotto le mani un sapore diverso da
tutti gli altri metalli che toccavo nel corso della giornata; la sua dolce nichelatura
dava alle mie mani un senso di sollievo che arrivava alla mia coscienza come il
segno che il lavoro era finito. Lasciavo nell’armadietto la mia tuta e le scarpe da
lavoro e alcuni libretti che l’Ufficio del Personale mi aveva consegnato il primo
giorno.
Lo spogliatoio era invaso dall’aria umida delle docce, dal puzzo dei gabinetti e
dei magazzini, dal caldo delle caldaie da una parte e dall’altra dal freddo che
veniva con un vento diretto dalle cataste di materiali e di acciai, bianche e verdi.
Ma lì ritrovavo il segreto di quel contatto con gli altri, eccitante e commovente,
che in passato avevo avuto nei dormitori del collegio o delle caserme, anche se
sempre in silenzio e senza che mai riuscisse a farmi stabilire dei rapporti continui
con gli altri. Questo perché io ho sempre guardato dietro la faccia della verità.
Come è bello e innocente un dormitorio con i letti fatti, tutti in ordine, con i
bianchi cuscini gonfi di amore e di. buoni sentimenti e le cassette delle scarpe in
fondo ai letti; o i giacigli dei soldati, le brande con gli occhielli di ferro, i castelli,
gli zaini e le baionette sulle rastrelliere. E così è anche bella la fabbrica, con i suoi
vetri e metalli, con le grandi arcate azzurre e tutte le macchine in fila, quando è
deserta e sembra che tutti gli uomini che lavorano a quei posti puliti, vicino ai
banchi e alle manopole, debbano naturalmente essere sinceri e coraggiosi.
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Invece la fabbrica si riempiva di gente di tutte le specie.
Un senso di confusione, appesantito da una fumosa tristezza, da quella luce
pallida che negli angoli facevano gli olii scintillando sulla corrente, mi prendeva a
sentire anche che tutti andavano ripetendo gli stessi discorsi.
Anche delle ferie, vicine, parlavano tutti allo stesso modo. Anche noi appena
arrivati potevamo stare a casa due settimane; ma noi senza paga. Se volevamo la
paga potevamo venire a lavorare; potevamo metterci a disposizione e l’Ufficio del
Personale ci avrebbe assegnato a quei lavori che dovevano continuare. Fece tutto
Pinna, anche per me, e scelse i turni di notte della guardia alle cabine elettriche.
Debbo dire che lavorare a quell’ora, entrare nella fabbrica misteriosa, lucente pur
senza rompere il buio come un pezzo di stella caduto, girare nel vuoto dei reparti
con l’impressione di camminare nel sonno di tutti quelli che nel giorno erano stati
in quei posti, toccarne gli attrezzi o spostarne le sedie, proprio con l’impressione
di camminare nel loro sonno, a casa loro, nelle loro teste, come un mago e vivere
nel silenzio, in un silenzio assurdo in quella matrice di rumore, e vedere ferme
quelle macchine e tutti i nastri trasportatori, era bello e affascinante. Con lo
stesso stupore entravo nella chiesa del collegio di notte dopo il riposo, portando
vasi di fiori e di erbe per preparare il sepolcro del Giovedì santo.
Entravamo nella cabina chiudendo dietro di noi una porta enorme e
pesantissima, ci avvicinavamo ai trasformatori, mettevamo le giacche sulla
seggiola e tiravamo fuori i gelati. Passavamo delle bellissime notti, con l’aria che
veniva dalle finestre muovendo le tende e prendendoci per i polsi. La nostra
amicizia si allargava in quelle correnti come la nostra fantasia. «Siamo nella cella
della sedia elettrica», diceva Pinna, io stendevo le gambe e mi rovesciavo sullo
schienale della seggiola; così arrivavo a vedere la luna bassa sulle colline e
attribuivo alla sua faccia i rumori dell’elettricità al novemila. «Meglio qui che alle
fresatrici», diceva Pinna. «Di notte», rispondevo; «di giorno non starei qui, fermo.
Non farei questo lavoro, come di notte non lavorerei alle frese».
Le due settimane passarono in un lampo e ci ritrovammo nel nostro reparto
con l’orario normale. Ricominciare a lavorare la mattina, in mezzo al reparto
completo e a tutta la frenesia della fabbrica, non mi dispiacque e anzi per qualche
giorno mi sembrò di aver ritrovato una buona compagnia.
A settembre cominciarono a circolare le voci che il nostro reparto sarebbe
stato trasformato. Sarebbe stata costituita una specie di officina della ghisa, dove
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avrebbero lavorato insieme fresatrici, trapani multipli, trapani sensitivi, torni e
pulitrici.
Verso la fine del mese Grosset ci avverti ufficialmente della trasformazione
dell’officina e ci disse che di ventisette frese ne sarebbero rimaste sedici. Dopo il
suo discorso cominciarono i malumori e i sospetti; nessuno aveva capito se
conveniva restare o essere trasferiti, tanto più che non si sapeva dove. I pareri
erano diversi ma alla fine la gente si riconosceva e si raggruppava, i più anziani, i
qualificati, quelli della città. Io e Pinna non sapevamo cosa dire, anche se Pinna
pendolava tra un gruppo e l’altro e parlava sempre.
La mattina del 30 settembre Grosset decise tutto e indicò quelli che sarebbero
rimasti con lui, tra i quali io e Pinna. Rimanevano i qualificati meno anziani e i
nuovi.
Per questo, tutti pensarono che restare fosse una specie di sacrificio se non
una punizione; gli anziani erano infatti convinti che per loro l’azienda avesse
conservato i posti migliori. Se ne andarono quindi contenti, in due o tre giorni,
portandosi dietro le loro macchine verso le tre officine alle quali erano destinati.
Anche i qualificati erano contenti perché a loro volta erano sicuri che restare con
Grosset fosse un riconoscimento, tanto più che si doveva iniziare un lavoro nuovo
impiantando addirittura un’officina per la lavorazione completa della ghisa.
Il giorno dopo arrivò una fresatrice nuova, appena fatta. Grosset ci chiamò e
ce la mostrò e ci disse subito di non spaventarci: «È uguale all’altra; anzi è più
facile», e ci spiegò perché, illustrandoci soprattutto la comodità dell’aspiratore.
«Non vi rovinerete più i polmoni». Io assaggiai nella mia saliva il sapore della
limatura che ormai mi piaceva, come certi sapori che si ricercano da ragazzo,
succhiando il cannello, erbe o pezzi di ferro e di cuoio. Quel sapore era diventato
una compagnia della mia vita di operaio.
Dopo una settimana, ampliata l’officina sino alle scale del montaggio, tutti i
reparti erano sistemati: le frese, i trapani, i torni e le pulitrici in fondo, con metà
donne e metà uomini. Vi erano donne anche ai trapani multipli, che lavoravano
avanti e indietro con le mani e con tutta la testa. Tutta l’officina era ordinata
secondo una linea continua di lavoro: i pezzi arrivavano a noi dalla fonderia,
passavano ai trapani, ai torni e alle pulitrici e quindi salivano al montaggio.
Un interrogativo correva sui cottimi. Come sarebbero stati regolati? Gli altri
reparti avevano indici diversi dai nostri, più alti o più bassi. Per due settimane
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non successe nulla, nell’incertezza; ed anche i capi erano incerti nel valutare il
lavoro. Poi arrivò la notizia: un cottimo comune per tutti; non più il cottimo
diretto ma un cottimo per tutti i reparti; diviso il totale del cottimo, a ogni reparto
toccava un indice più alto. L’officina non poteva accettare. I vari reparti si
guardarono l’un l’altro con sospetto, non era ancora cominciato il lavoro ma già si
erano create le divisioni. Come potevamo noi far dipendere il nostro rendimento,
cioè la nostra paga, dal lavoro delle donne dei trapani o dei vecchi delle pulitrici?
In ogni reparto corsero gli stessi pensieri e tutti, per paura di fare inutilmente di
più degli altri, lavorarono meno. Si doveva lavorar meno anche se si faceva il
pensiero contrario, concludendo che il proprio vuoto poteva essere colmato dal
lavoro degli altri. I capi cercarono di giustificare le decisioni della Direzione ma
erano poco convinti loro stessi.
«In questo modo», dicevano, «i guadagni saranno distribuiti più equamente e
sarà divisa anche la responsabilità della produzione che diventerà meno
assillante».
«Ma così», dicevano i gruppi, «chi lavora di più guadagna di meno e ognuno
diventa la guardia dell’altro per vedere che lavori e che lavorando non faccia
scarti che tutti debbono scontare. Noi non vogliamo rimetterci per i buchi delle
donne».
Le donne stavano zitte o parlavano tutte insieme scagliandosi contro gli
uomini «Ecco che cosa vuole la Direzione», disse uno dei nostri, «vuole dividerci e
metterci gli uni contro gli altri».
Intanto i quattro gruppi ridussero il rendimento e interessarono, ciascuno per
conto suo, la Commissione Interna. Tutti chiedevano il cottimo diretto, stabilito
sulla media dei vari cottimi precedenti. La Direzione disse di no. Allora i reparti
chiesero cottimi di gruppo.
Io guardavo Grosset durante tutte queste trattative e vedevo che era quello
che soffriva di più e che parlava di meno. Non cercava di convincerci in nessun
modo e ci chiedeva conto soltanto del lavoro. Anche Grosset mi guardava spesso e
si avvicinava al mio posto; ma senza dirmi una parola.
A forza di sentire tutti i discorsi intorno io ero disorientato e fui quasi contento
quando la Direzione troncò ogni trattativa. Guardavo le donne e le vedevo
lavorare come gli uomini, con gli occhi ancora più sbarrati. Un giorno alcuni
proposero lo sciopero e la C.I. accettò.
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Era un sabato mattina e la proclamazione fu rinviata al lunedì. Pinna con altri
due mi domandò se anch’io avrei scioperato. Gli risposi di no. Non rispondevo a
lui ma agli altri due che erano stati fra quelli più agitati. Uno dei due era del
reparto dei torni ed io l’avevo notato sin dal primo giorno per la sua aria di
prepotente.
La domenica confortai la mia decisione in tanti modi ed ebbi sempre risposta
favorevole a tutte le mie domande, in chiesa, dallo scarpone, dall’indiano e anche
dal lago. Il lago conservò sino al tramonto, come gli avevo chiesto, la sua striscia
azzurra di luce, più nitida di un sì, tesa al centro tra le due sponde. Non si lasciò
turbare da quelle macchie chiare che il vento o qualche corrente sotterranea
spande verso sera intorno alle rive.
Il lunedì lo sciopero fu revocato. Quel giorno cominciò a piovere e molte cose si
calmarono dappertutto, anche nei reparti. Piovve per molti giorni e il
cambiamento d’umore andava dietro al tempo; i reparti erano ormai tranquilli
come il cielo tutto grigio e senza contrasti. Le donne stavano bene; sembravano
rinfrescate come un boschetto di acacie e sorridevano di qua e di là come se quel
venticello di ottobre le spingesse dolcemente.
Preoccupato era Pinna, che aveva un solo abito. E gli occorreva vestirsi, con
quell’autunno scuro che andava stabilendosi. In quell’officina che aveva preso un
tono compatto e duro, illuminata di verde, non era più possibile niente di
particolare: nemmeno un’amicizia, o una parola che non fosse riposta nei
pensieri, che non lievitasse dalla testa come un fumo. Io andavo avanti nel lavoro
abbastanza bene e la mia parte di ghisa la sfittucciavo.
Successe che tolsero due capi, quello dei torni e quello dei trapani. Grosset
ebbe frese e trapani; l’altro rimasto, torni e pulitrici. Le donne sembrarono
contente di questo e ci guardarono con maggior simpatia, noi che avevamo il loro
stesso capo. Pinna mi disse che si era messo a corteggiarne una. Era la più nera
che poteva trovare, con tanti nei sui sopraccigli e sopra le labbra che la facevano
sembrare sempre corrucciata. A me, ancora, non succedeva niente. Ma aspettavo
Natale. La sera della vigilia, mentre uscivamo dalla fabbrica, nevicava. Era
cominciato un’ora prima, quando tutti stavano smettendo di lavorare. Le donne
avevano alzato gli occhi verso i finestroni ed avevano emesso un lungo oh come
una scolaresca.
All’uscita, la neve aveva già coperto le strade e cadeva fortissimo nella luce dei
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fanali e delle porte della fabbrica. Battevo i miei passi anch’io come uno scolaro.
Andavano, andavamo tutti a casa: tutti si fermavano a bere un liquore o un
punch nel caffè d’angolo o in quelli più avanti, vicini alla stazione. Da ogni caffè e
bar usciva un’aria azzurra, un raggio di luce che odorava d’arancio e di
mandarino. La neve in questo raggio volteggiava in tutti i sensi e s’agitava come
uno scialle. Anch’io entrai a bere e sotto la luce, nell’attimo prima d’entrare, vidi
le mie spalle coperte di neve, vidi cioè il mio cappotto scuro e mi riconobbi in
quella festa, sentii il mio corpo e la mia gioventù sotto il mia cappotto. Bevvi a
piccoli sorsi il punch al mandarino, guardando il bicchiere imperlato di vapore
che rifletteva tutto il chiasso e tutta la festa.
L’alcool mi bruciava la lingua e la gola e per questo lo bevvi più avidamente;
quel bruciore era un altro modo di partecipare alla festa. Tutti intorno bevevano e
si scaldavano con l’alcool, tutti respiravano alzando la gola.
Eravamo stretti nel caffè e gli odori delle bevande si mescolavano in un caldo
da soffocare. Eppure mi piaceva scottare la mia lingua e la mia gola con
quell’alcool giallo. Anche gli altri facevano la stessa cosa con sincerità, con tutto il
loro cuore. Mentre bevevo un altro punch, l’alcool mi fece tossire: un’esplosione
che scosse tutto il gruppo. Continuai a bere a sorsi più larghi e la tosse mi
ritrovava sempre in mezzo agli altri apposta per battermi sulle spalle. Il caldo e la
tosse mi facevano sudare come quei bicchieri di punch appena tolti dal getto di
vapore. Ero felice e quel sudore grondava come la confessione della mia felicità.
Pensavo che a casa, nel buio della notte nevosa, sopra il lago, nel buio come a
stare con la faccia dentro la piega di un suo vestito scuro, per annullarmi e
sentire soltanto battere i miei polsi contro quella sicurezza dura delle sue gambe,
mia madre mi aspettava.
Mi tolsi il cappotto e uscii dal locale; la tosse mi accompagnò anche fuori, dove
non fu più tanto acuta e si involtolò un pochino tra la neve che scendeva. Sudavo
ancora nel treno e tossivo. Stavo attento al finestrino se la neve continuava a
cadere. Nevicava più piano e sembrava nevicare lontano dal treno, nell’ultima
fascia di luce prima della grande intimità nera della campagna. Anche la mia
tosse andava calmandosi e mi scuoteva molto internamente, per cui potevo quasi
tossire con la bocca chiusa. Continuavo anzi a tossire per far continuare il tempo
a nevicare. Avevo il pensiero che se avessi smesso di tossire il tempo avrebbe
smesso di nevicare. Alla stazione di Candia nevicava ancora e io tossivo, un colpo
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o due con sicurezza, ogni quaranta, cinquanta passi.
Aspettavo la notte di Natale, quei primi minuti quando sotto la neve sarei
entrato con mia madre nella chiesa per la messa di mezzanotte. Arrivai a casa,
tossii sotto gli alberi e la mia voce rimbombò come se gli alberi fratelli avessero
tossito insieme a me; mi accostai alla porta, aspettando le parole festose di mia
madre. Mia madre invece era a letto per una storta a un piede. Non fece altro che
lamentarsi e non mi domandò niente di nessuna cosa. Mi lavai a petto nudo; misi
soltanto una maglietta e la giacca del pigiama, aprii la finestra e respirai l’aria
fredda. La neve se ne andava per conto suo e così la mia festa. Non tossii più e mi
misi a letto. Mia madre passò tutte le feste senza poter uscire e io mi accontentai
di qualche cinema al pomeriggio.
Dopo quei giorni e i pensieri che li avevano accompagnati, anzi la piega di
tutta la mia mente, riprendere il lavoro non fu né facile né difficile. Mi sembrava
soltanto una cosa che non avesse senso; io insieme a tanti altri, a dover agire,
vivere e quasi pensare come tanti altri.
Pinna con le sue sciocchezze mi veniva intorno ma intanto mi distraeva dai
miei pensieri e dalla mia solitudine. Pensando a lui riuscivo subito a capire che
poteva esserci e che c’era un legame tra lui e la fabbrica e tutti gli altri. Per me
invece si trattava soltanto di andare avanti; mi distraevo, mi arrabbiavo, mi
mortificavo e lavoravo ormai di malavoglia, anche se la malavoglia non disturbava
né la fresa né i pezzi e nemmeno Grosset, che forse se ne accorgeva nei giri che
veniva a fare intorno a me. Fuori cadeva un brutto inverno, nero e nevoso; di una
brutta neve sempre marcia e tra le nebbie. La fabbrica rimaneva pulita, con le
sue porte luminose e profonde e i suoi angoli nei quali né l’inverno né la notte
riuscivano ad attaccare niente. Solo io in tutta la fabbrica facevo caso a
quell’inverno ostile e più ancora vuoto e inesistente; forse anche qualcun altro,
quando li vedevo con gli occhi fissi e le mani per aria. Allora io cominciavo una
certa mia musichetta invernale, il vento, la neve, la pioggia, lo scricchiolio del
freddo, ritrovandone le note in tanti rumori e suoni della fabbrica. Così portavo e
lasciavo passare la mia invernata. La neve me la passavano le donne con i piccoli
e smarritelli suoni d’argento dei loro trapani. Potevo sentire anche il lago che
scendeva con i suoi rumori sopra la mia testa dai piani superiori del montaggio.
Spesso la sera, verso l’ora di uscire, sentivo caldo, un caldo estenuante come
quello di una stufa troppo violenta, un caldo che faceva un rumore di vetro, il
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rumore di una rapidissima fusione alle mie orecchie. Pensavo di spegnere quella
stufa accesa in quella mia casa invernale; ma mi riusciva poco. Riprendevo più
fiato e più fresco negli spogliatoi, infilandomi la camicia con la porta aperta. Ma
non era febbre e non ero ammalato. Infatti pensavo di fare un viaggio per Pasqua
in Francia, a ricercare quella bella campagna di Avignone e quel gran fiume
deserto, sulla cui riva più bassa s’andava a mangiare il lunedì di Pasqua. Ci
traghettava una barca, che verso l’altra sponda, dove l’acqua era poca, veniva
rimorchiata da un grosso cavallo; un cavallo grossissimo con la coda chiara,
chiara. Dopo pranzo mio padre si toglieva la giacca e la camicia e restava con una
maglia pesante e irsuta, color terra. Le maniche gli arrivavano poco dopo le spalle
e gli uscivano braccia bianchissime, scosse dalle ombre e dai fasci di muscoli
enormi. Le braccia avevano un pelo rado e nerissimo, che a me indicava una
malattia antica sulle spalle di mio padre. Vedevo il suo collo entrare nella maglia
pallido e nero con due grandi solchi: in quel punto mio padre aveva un neo con
un lungo ciuffo e altro pelo che gli usciva dall’orlo.
Capivo che mio padre era malato anche se lui rideva e continuava a bere. Così
sapevo di non essere io ammalato, con quel caldo che alla sera mi prendeva nella
fabbrica. Era la voglia di uscire, anche da quelle sere lunghe di febbraio e marzo
che chiudevano tutte le finestre della fabbrica con grandi tende d’aria umida.
Vedevo rimbalzare tutte le luci della fabbrica, come vedevo che dall’altra parte
deviavano le luci e i rumori della città e anche gli uccelli, che viravano sempre
verso l’alto. Era proprio un muro, che mi faceva sentire prigioniero e con una
gran voglia di viaggiare. Viaggiare verso una terra e un paese che fossero veri, più
veri della fabbrica con tutte le sue macchine, gli strepiti e la gente. Uno che ha
voglia di viaggiare non è malato, anche perché io non cercavo l’avventura, né di
ritornare da qualche parte. Capivo che quel manto di fuoco e d’aria che si
stendeva sulle finestre dilatate era irreale, e quindi volevo andarmene, fuggire
ogni pericolo per una vita vera. Oppure qualche volta pensavo che quel tetro
inverno che s’arroventava alla sera davanti alla fabbrica e dentro di me e quella
primavera umidiccia, tutta sbalzi, con quegli enormi ventagli di nuvole su tutta la
pianura e quei tagli verdi, azzurri, neri nel cielo verso la Val d’Aosta, fossero gli
scenari dai quali dovesse entrare finalmente, come un’ora rotonda dell’alba, la
mia vita nuova, un segno, una chiamata, una persona. E vedevo questa persona
arrivare sempre da un viaggio, oppure partire dopo aver dato uno sguardo alla
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mia terra, che nemmeno io riconoscevo più. Una sera, tra maggio e giugno,
guardavo dal mio orto il lago e la campagna, appunto come se fossero nuovi.
Avevo cenato e fumavo. Dalle mie boccate s’alzava una corrente di fumo
tranquilla, che andava dietro le mie spalle come verso un altro mondo. Io
guardavo il lago e ne rivedevo tutte le punte; ma questa volta una per una, non
tutt’ insieme, e ognuna con i suoi particolari, la riva, l’ombra notturna, gli alberi e
una striscia di paesaggio dietro, in profondità fino alle colline. A un tratto, sicura,
scese dalla finestra della sua stanza, dietro e sopra di me, la voce di mia madre.
Mi prese intorno al collo come una sciarpa, come se avesse potuto cingermi con
una mano, per quanto fosse distesa e profonda come tutta la notte:
«Che cosa fai, Albino. Pensi?»
Fui sorpreso ma il risentimento della sorpresa si addolcì quando sentii il tono
della sua voce. Forse perché non vedevo il volto di mia madre, la sua voce mi
sembrò giovane e gentile come tanti anni prima. Aveva cominciato a parlare forte
e con chiarezza come chi per un momento si sia preparato a farlo e abbia studiato
l’attacco e il tono.
«No, non penso», le risposi. E infatti nel momento in cui la sua voce mi aveva
raggiunto cadde ogni incertezza dentro di me e capii che non pensavo a nulla, che
avevo guardato soltanto e che la notte, tutta in giro per la campagna e vuota a
destra per un chiarore sopra il paese e verso la strada provinciale, cominciava in
quel momento.
«Bella notte», disse mia madre.
«Sì», risposi io.
«Che cosa ricordi?»
«Niente. Guardavo».
«Che profumo fanno quei fiori dell’orto!»
Me ne accorsi in quell’istante: lo trovai subito fra tutta la fascia dei sensi che
la notte muoveva davanti a me.
«Sì», risposi. Davo le risposte senza voltarmi; per non rompere l’incanto e per
poter essere libero delle mie espressioni, come lo si è quando si parla da soli con
se stessi, in quella comunione in cui uno può ridere delle cose più serie, o fare
smorfie e gesti perché insieme all’attimo e al pensiero delle cose che dice ci sono
tanti altri attimi e pensieri della sua vita, in una completezza perfetta. In quel
discorso con mia madre io non ero solo quello delle risposte, io seduto sulla
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seggiola; ma mi affacciavo intenerito su tutto me stesso. E quelle ondicelle chiare
che il lago muoveva, le sentivo anche dentro di me, fresche e mosse come tanti
giorni piccoli, tante cose fatte bene. Mia madre disse qualche altra parola e poi si
ritirò. Io arrivai fino in fondo all’orto, guardai i fiori, e ritornai.

*7*

Il caldo in fabbrica era insopportabile. Anche i rumori si dilatavano. Facevo


una grande fatica a lavorare e per tutto il pomeriggio andavo avanti tirato dalla
rabbia.
Mi faceva rabbia anche che le donne dei trapani si mettessero a gambe aperte
e con molti bottoni del grembiule slacciati. Non potevo guardarle, con i corpi
segnati e tanti gesti addosso, sulle bretelle, sui bottoni e anche più intimi, che mi
sorprendevano per la loro brutalità. Una più di tutte le altre mi dava fastidio, una
rossa un po’ anziana che portava ancora le calze e le sottovesti colorate.
Grosset si accorse della mia fatica e un giorno in cui era più caldo del solito
mi consigliò di andare all’infermeria a farmi dare qualche sciroppo o pastiglia. Lui
stesso prendeva tutti i giorni una pastiglia che scioglieva in un bicchier d’acqua,
pronto sulla sua scrivania.
La mattina del 7 giugno mi misi in nota all’infermeria.
Alle nove fui chiamato e inviato alla visita del dottor Tortora. Mi accolse con
un bel sorriso, tanto che pensai d’essere stato riconosciuto e di trovare ancora
l’uomo premuroso della visita di assunzione. Dissi il mio nome ma il dottore girò
la testa dimostrando che io ero per lui uno sconosciuto qualunque. Andò a
prendere la mia cartella fra quelle che gli erano state preparate sul tavolo. La
sfoderò con le sue stesse manone d’un colpo solo come se fosse stata un organo
del mio corpo. Mi visitò rapidamente, buttandosi soprattutto sul mio petto e sulla
mia schiena. Ascoltò appena le parole che io gli dicevo sulla mia stanchezza. Non
mi domandò nulla; guardò solo sul mio corpo e sulla mia schiena con
l’accanimento di un animale che debba cominciare a scavare una buca.
Mi mandò a rivestirmi e chiamò l’infermiera. Le disse che doveva farmi fare le
lastre e tenere il mio caso in evidenza. Finalmente parlò con me per ordinarmi
una cura di pastiglie e di iniezioni e per dirmi di tornare da lui dopo quindici
giorni. La settimana dopo mi avvertirono in reparto di andare a fare la lastra.
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Passata un’altra settimana ancora, il medico mandò a chiamarmi per le risposte.
La buca doveva essere pronta. Mi dichiarò malato grave, bisognoso di cure e di
riposo. Io stavo zitto e lui parlava, parlava per convincermi, in tutti i modi. Si
appellò allo specialista, professor Bompiero, e a un certo punto mi mostrò la
lastra, un pezzo di scheletro trovato chissà dove. Mi propose di lasciare il lavoro,
di stare a casa fino a dopo le ferie; intanto lui e il professor Bompiero avrebbero
fatto altre lastre ed altri esami.
Perché cercava di convincermi?
Però nella fabbrica faceva meno caldo ed io stavo meglio. Guardavo quel
bicchiere d’acqua che Grosset teneva sul tavolo dalla mattina e la sua presenza
mi aiutava come il segno di un’amicizia. Quell’acqua prendeva la luce del reparto
e diventava anch’essa un metallo, una creatura della fabbrica come lo eravamo
anche noi esseri viventi. La sua compagnia mi consolava per tutta la mattina
come può consolare nella cucina di una casa una rosa in un bicchiere o il
profumo delle verdure. Potevo stare in fabbrica fino alle ferie, andare avanti
insieme a tutti gli altri. Nelle ferie avrei potuto riposarmi bene e magari sarebbe
arrivata la mia cugina di Francia e avrei fatto con lei un viaggio e i bagni nel lago.
Dissi al dottore che non lasciavo il lavoro. Egli finse di mostrarsi sicuro della mia
obbedienza. Si mise a parlare di altre lastre e di tomografie ma intanto mi
guardava come se avessi sciolto qualcuno di quei lacci che sostenevano tutto
intorno a lui. Pensai che non avrei fatto altre lastre e in silenzio uscii.
Che cosa dicono, in silenzio, quegli uccellini che a giugno vengono a posarsi
sulle strade e a riflettere muovendo il capo e la coda grigionera? Quelli con le code
lunghe e grigionere che incontravo in quei giorni nella strada di casa mia non
potevano vivere in gabbia, nemmeno fare la tomografia, e parlavano con me,
guardando intorno. Tutto a casa era calmissimo sotto la grande ruota rossa del
sole ormai tagliata da una parte; da quella parte andava in discesa, più ripida con
l’ombra, la strada provinciale dove si buttavano a capofitto i motori di chi
viaggiava. Mia madre innaffiava l’orto e il getto dell’acqua faceva il rumore sottile
di una bicicletta a ruota libera. Mi sembrava che tutto il nostro paese
cominciasse a viaggiare, dai boschi della Serra sino alle colline dietro Candia,
scivolando come una barca su quelle prime ombre. Per ognuna di quelle sere fino
ad agosto, ogni giorno sarei tornato a stancarmi in fabbrica.
Quando al ritorno arrivavo sulla porta di casa, mia madre chiudeva il getto,
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così io avevo più acqua e più fresca per lavarmi in cucina. Poi tendevo le mani e
mia madre mi passava un asciugamano.
Arrivarono le ferie ma io non avevo fatto alcun programma. Capii che arrivare
alla chiusura era stata una conquista difficile il momento in cui l’ultima sera salii
sul treno. Non avevo parlato con gli altri e avevo appena sorriso a Grosset. Mi
rimase solo la voglia di viaggiare ma assolutamente fuori d’ogni preciso pensiero:
per una terra, o un angolo di terra e di città quasi deserte, di colore chiaro
appena verde o celeste come un metallo; un pezzo di terra o di città come mi
capitava di vedere passando con i treni della mia prigionia, in quei momenti in
cui quasi mi piaceva che mi portassero via.
I primi giorni delle ferie li passai a casa; poi, anche perché non c’erano novità,
accettai di fare con Pinna un viaggio di quattro giorni, venerdì sabato domenica e
lunedì, a Genova e nei centri vicini della riviera. Pinna aveva noleggiato una
motocicletta e passò a prendermi a casa la mattina presto.
«Anche noi in riviera», disse buttandosi giù con la moto che urlava ma che non
andava forte, trattenuta da una marcia bassa e impennata ogni tanto da strappi
al gas. «Anche noi, operai dell’industria, metalmeccanici provetti, anche noi»,
urlava con la sua bocca rotonda e il solito sputarello che l’aria gli tratteneva e
imbiancava all’angolo delle labbra. Volle passare per Torino pur di fare un pezzo
più lungo di autostrada, che gli sembrava, fra tante macchine, un segno di
distinzione, l’esercizio di un diritto della sua condizione di operaio e della sua
vacanza.
Dopo Torino, ormai verso le nove della mattina, cominciò a fermare ogni tanto,
per scendere a stiracchiarsi e a prendersela con il motore o con le gomme: dopo
un calcetto alla gomma di dietro finiva per dirigersi verso un bar, di quelli nuovi
ai margini delle strade. Alternava caffè a cappuccini, cioccolate a caramelle, a
mandorle in sacchetti, a pastine: faceva queste spese freneticamente, sprecando a
metà le cose acquistate, come un bambino che abbia rubato una somma troppo
grossa dalle tasche del padre.
Verso mezzogiorno, in vista del mare, Pinna sudava come una fontanella e mi
dava un senso di ribrezzo aggrapparmi a lui con le mani sulla schiena bagnata e
grassa. A forza di continuare a bere dappertutto e a mangiare quelle cose, quando
mettemmo piede sulla strada del porto, a Genova, per dire che eravamo arrivati,
Pinna aveva un gran mal di stomaco, sudori freddi e caldi una bava fitta e si
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squagliava come un cattivo gelato, ad occhi bassi. Diede la colpa alla velocità, alla
tensione nervosa di guidare tanto, al tubo di scappamento della motocicletta. Fu
preso dalla diarrea e dovetti trascinarlo in un bar della via, appena in tempo. Era
un bar deserto, ancora non pulito e ancora greve dell’aria viziata della notte
prima. Lì Pinna appoggiato ad uno sgabello del banco, di traverso e con la
camicia sbottonata sulla pancia, bevve una limonata.
Pian piano si riprese; almeno frenò i sussulti e cominciò a parlare, ancora
però con il tono della vittima. Che buffone questo Pinna, pensavo io, e mi sentivo
annoiato di averlo vicino; ma insieme capivo che non l’avrei abbandonato, giacché
era ancora più debole di me, più solo e più sbandato e senza il mio orgoglio e il
mio continuo allarme di fronte alle cose del mondo. Dopo un po’ di tempo riuscì a
venire fuori dal bar, socchiudendo gli occhi sotto il sole bianco delle due del
pomeriggio. Attraversammo la strada che aveva l’aria appena mossa da qualcuno
come noi e ci dirigemmo per sederci lungo le mura del porto. Guardavamo le navi
e le altre piccole imbarcazioni bianche o nere, ferme sopra l’acqua densa.
Le navi bianche erano deserte e sembravano un disegno dell’estate. Sembrava
sotto quel caldo, con quel colore, con quelle corde grosse di canapa inerti lungo i
fianchi, che avrebbero potuto viaggiare solo d’estate e solo verso l’Africa o verso le
isole dell’Equatore.
Pinna ronzava come un insetto. Guardava le navi e il mare con gli occhi
socchiusi al di sopra delle stesse cose.
Alzò di più la testa un momento e disse: «La Sardegna», e poi guardandosi
intorno e più vicino disse: «Quante tonnellate?»
Parlava così poco e con un tono che non gli era naturale, almeno per quello
che io conoscevo di lui, e non capivo se parlasse così per il disagio e per la
stanchezza o per un qualche imbambolamento del mare. Parlò dei marinai;
dell’essere marinaio, come lui lo era stato, che significava essere liberi o matti; ma
liberi in un modo che si finiva per essere soli. Poi sotto il sole si addormentò. Il
grande Pinna mi diede proprio l’impressione di essere un bambino e un
bamboccio; se mi mettevo a guardarlo con un po’ di cattiveria o di amarezza nel
confronto con me non potevo vederlo che addormentato.
Nel resto dei nostri tre giorni e mezzo di vacanza, Pinna ritrovò il suo buon
umore e soprattutto la sua confusione nel pensare e fare le cose, per cui
sembrava sempre che inciampasse casualmente anche in quelle che invece aveva
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pensato in tutti i particolari; anche nel dire «permette signorina?» e nel riuscire,
tra la calca della gente a passeggio, a mettersi a fianco di una ragazza. Solo una
volta riuscimmo ad accompagnare di corsa e quasi senza parlare due ragazze che
tornavano in fretta all’albergo dove lavoravano.
Durante quelle ferie io stavo abbastanza bene, anche se il tempo mi sembrava
sprecato e se le giornate mi sembravano occupate a custodire Pinna o per lo
meno imprestate a lui e alle sue decisioni. In quel tempo non mio mi consolava la
vista dei bei giardini profumati e foltissimi e mi piaceva fare i bagni di mare, in
poca acqua tra gli scogli in modo da sedermi o sdraiarmi ogni tanto sulla pietra
salata. Mi veniva un sonno dolce, che si consumava lentamente senza che io
dovessi dormire. Nei sanatori dopo le lunghe iniezioni endovenose mi è capitata
spesso la stessa cosa, di sentire il corpo invaso da un caldo confortevole e un
odore d’alcool arricciarmi il naso e i pensieri e un sonno nel letto che si perdeva
senza consumarsi come di notte un’orina che abbandoni le membra.
In quei momenti io riuscivo sempre a pensare a me stesso e ai miei mali con
estrema dolcezza e con grande compatimento; pensavo alle mie ossa come a delle
canne leggiere ancora non sradicate, ancora toccate dal sole e vive anche se non
per molto, vive in quel momento; e così le altre mie parti anch’esse vive e forse di
più, perché dolorose e dolenti; levigate, accarezzate dal dolore, che diventava il
mio tempo, come una nuvola definita che duri per tanti giorni in una parte del
cielo. Allora sulla riviera, guadagnare il mio spazio ove raccogliermi in quei
pensieri, come nei sanatori il letto o una veranda, era più difficile perché vi era
molta folla e Pinna invadente e il pensiero di tornare a casa, della fabbrica e del
lavoro da riprendere. Pensavo anche che a casa avrei trovato la mia cugina
francese, venuta in visita, e la preoccupazione di mia madre sola così diminuiva.
Ma era più forte la parte di pensare proprio a lei, a mia cugina; di immaginare
una bella ragazza scura nella mia casa, che silenziosa si lava, facendo solo un
rumore gentile con l’acqua spruzzata e che poi chiude la porta, scende le scale e
si presenta in cucina con i capelli sul collo, ancora bagnati vicino alle orecchie.
Da mia cugina andavo con la mente alla fabbrica, trasportatoci dalle figure di
quelle ragazze che passano senza guardare nessuno quando vanno al gabinetto.
Avevo voglia di tornare presto in fabbrica, di riprendere il lavoro e finalmente
incontrare la prova delle mie forze.
Niente di tutto questo. La fabbrica era come prima; bella e un poco più
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deserta. Mia madre stava bene e mia cugina non era arrivata. Nessun’altra
notizia. Passò settembre. Ottobre fu meglio per il tempo meno caldo; ma i
pomeriggi avevo lo stesso le mani sudate e un senso di sfinimento che mi faceva
appoggiare alla fresatrice.
Controllavo la macchina solo alla fine del pezzetto di lavoro e ogni volta con
fatica.
Intanto intorno avvenivano strani movimenti. Mi sembrava, andando a
lavorare o a mangiare in mensa, che ogni giorno qualcosa mutasse e che la
fabbrica e tutti quelli legati a lei, della città o dei paesi e della campagna dei
dintorni, mi nascondessero sempre qualcosa.
A casa mia madre viveva come una vecchia, fra l’orto e la cucina. La domenica
l’accompagnavo alla messa camminando lentamente per la strada. Ci fermavamo
ogni tanto nelle curve o vicino a un albero. Poi io andavo a sentire la radio per le
partite di calcio. Leggevo giornali e riviste e anche qualche libro. Mi buttavo nella
lettura e mi specchiavo in dolori e fatti atroci; ma senza ricavarne forza per me,
senza riuscire a considerare migliore la mia situazione. I giornali vecchi che si
accumulavano nella mia stanza mi avvilivano, come se le facce rovinate dalle
pieghe si fossero mostruosamente ammalate, deformate in mia compagnia come il
loro guardare con un occhio solo o con un occhio più in alto dell’altro e con la
bocca spezzata. Le donne poi, nell’angolo della mia stanza, si accostavano
decomponendosi. Il parroco mi esortò a fare letture migliori. Così andai nella
biblioteca della fabbrica. Era un bel locale anche se io, dentro, a guardare
migliaia di libri mi sentivo confuso e pensavo di non trovare la strada per uscire
libero come prima, come quando ero entrato.
Negli intervalli di lavoro frequentavo spesso la biblioteca e il cinema a passo
ridotto. Mi iscrissi anche a un corso di lingua francese e a un altro di storia del
Risorgimento italiano.
Parecchi erano i giovani che venivano in biblioteca e a questi corsi; giovani
nuovi e strani, che facevano sempre molte domande di chiarimenti e scuotevano
la testa per dire di sì o no o per ascoltare, un poco come fanno i preti. Al cinema
m’accorsi che veniva anche qualche vecchio operaio, soprattutto per dormire. Io
stavo bene nell’oscurità, mi divertivo.
Una volta nelle sale della biblioteca incontrai sorridente come sempre il dottor
Tortora. Usciva da una lezione, con intorno un gruppo di ragazze. Aveva l’aria
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gentile di chi è privo di preoccupazioni e di cattivi pensieri e di chi è convinto di
poter avere sempre la stessa serenità. Egli non mi vide; ma giunto alla porta si
voltò verso l’angolo dove io mi ero appartato; strizzò gli occhi, smettendo di ridere,
e guardò dalla mia parte con cattiveria. Poi con un gesto rabbioso della mano, che
si cacciò nella tasca del camice, se ne andò. Mi aveva visto e riconosciuto? Gli
dispiaceva che io frequentassi quel posto per ritrovare un poco della mia forza?
Dopo circa un mese andai io stesso in infermeria perché mi usciva sangue dal
naso. Un’infermiera mi fece sedere, mi diede del cotone e una bacinella d’acqua
con una medicina rosa e mi lasciò solo davanti al lavandino di un gabinetto.
Nessun medico si fece vedere e non tornò nemmeno l’infermiera. Stagnato il
sangue e riposatomi uscii senza che nessuno mi vedesse, tanto che provai quasi
la colpa di fuggire. Perché Tortora non aveva preso l’occasione di incontrarmi
ancora? Mi sentii quasi deluso che non l’avesse fatto.
Ma seppi presto il perché, ai primi di dicembre.
Grosset mi avvertì che mi sarei dovuto presentare in infermeria il giorno dopo
per una visita schermografica di controllo. Mi spiegarono i compagni che la visita
era quasi una formalità e che doveva essere fatta. Però l’unico predestinato ero io,
perché era quella l’occasione che Tortora aspettava. Voleva agire con precisione,
cioè quando l’aveva deciso lui, e per colpire con maggior sicurezza aveva rifiutato
perfino le occasioni incerte, come quella del sangue dal naso.
La mattina stabilita diedi uno sguardo alle macchie dell’indiano e dello
scarpone. Se loro resistono, pensai, anch’io resisterò e stasera sarò anch’io, qui a
casa, come questi muri. Questo lago che mi guarda sarà certamente ad
aspettarmi. Pregavo; ma questi pensieri mi insinuavano una piccola fiducia che
riusciva a distrarmi dalla preghiera.
Durante il viaggio tutto era normale. La fabbrica mi apparve tranquilla.
L’inganno era ben nascosto in fondo all’anima dei congiurati. I vetri della fabbrica
non lo specchiavano, come specchiavano la strada umida di dicembre, ancora
una pioggia del giorno prima e un debole vento che ci accompagnava di corsa ad
attraversare la strada verso l’infermeria, uscendo a gruppi di tre o quattro dopo
aver timbrato la cartolina. Mentre io andavo, Pinna rientrava. Non ricordo quelli
che erano con me: mi pare che fossero giovani, che ridessero e che non mi
guardassero, raccolti con il mento dentro il bavero della tuta per ripararsi dal
freddo della strada; ma anche perché ai misfatti odiosi debbono mancare
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testimoni e perché quelli che vedono assumono anch’essi una parte di colpa.
In infermeria, per l’andare e venire continuo della gente, si capiva dove
bisognava presentarsi per il controllo schermografico. In un locale del secondo
piano, in fondo al corridoio, dalla parte senza finestra. Bisognava denudarsi il
petto e aspettare che l’infermiera dicesse di entrare. Le infermiere erano due: una
aveva le cartelle personali e chiamava per nome, poi aiutava l’altra che doveva
fare funzionare la macchina e sistemare l’uomo da vedere. Non c’erano medici,
almeno nel momento in cui passai io dietro la macchina. Preferivano non vedermi
di persona, ormai che avevano deciso ogni cosa nei miei confronti. La prima
infermiera segnò il mio nome e la data e poi tirò fuori dal mucchio la mia cartella.
Se allora l’avessi bruciata o se avessi avuto il coraggio di leggerla svelando
ogni inganno! portandola subito al vecchio maggiore dell’Ufficio Personale o alla
Presidenza o al Commissariato! Invece aspettai il mio turno e feci ordinatamente i
miei passi verso la macchina. La seconda infermiera aveva uno sguardo deciso,
lontano dalle persone che trattava, attento alla macchina e alle luci. Eseguì le
operazioni necessarie e mi rimandò via in un attimo. Voltò subito la faccia e gridò
un numero all’altra che intanto mi faceva segno di rivestirmi e uscire. Uscii
mentre il flusso di persone alla visita ancora continuava, regolare e innocente.
Ero pensieroso non so di che cosa, perché non mi pare che pensassi alle
conseguenze della visita.
Queste si verificarono venti giorni dopo, la mattina del 22 dicembre, quando
mi chiamò il professor Bompiero. Il responso era la tubercolosi in tutti e due i
polmoni. Tubercolosi grave, aperta, contagiosa.
«Perché non ha detto niente; perché ha sofferto così; da quanto tempo si sente
male? In questa fabbrica, a casa sua, certamente avrebbero fatto tutto». Questi i
discorsi che il professor Bompiero mi faceva, con le mani giunte e l’ipocrisia
nascosta da una lampada verde, accesa davanti alla sua faccia alle dieci della
mattina. Quella luce verde che si diffondeva sul suo camice lasciava in ombra il
suo volto e si posava sulle sue mani, quando egli le muoveva per rendere il
discorso ancora più grave.
Le sue mani verdi diventavano esse la tubercolosi che frugava nei miei
polmoni; nelle loro grosse vene viveva un sangue acido e cattivo, pericoloso per il
mio.
«Da quanto tempo?» ripeteva il professor Bompiero.
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E il tempo in quel momento per me diventava unico; dall’inizio alla fine, tutto
il mio tempo si concludeva in quell’inganno. «Sempre, sempre», avrei dovuto
gridargli spegnendogli la luce e rompendo ogni trama. «Sempre ho sofferto e mai è
stato vero che io dovessi soffrire. Oggi siete voi, medici di questa infermeria, i miei
carnefici.
Voi alla vigilia di Natale m’impedite di rinascere e addirittura volete farmi
morire. Morire di pena e di disperazione». Non volli nemmeno sedermi e rifiutai di
farmi visitare. Sentivo il cuore battermi fortissimo, perché cercava da solo di
tenermi in piedi. Come se un grosso taglio mi fosse stato aperto sotto la testa
sentivo il sangue cadermi sul collo e lungo la schiena. Le mie mani si gonfiavano
e non potevo quasi piegarle. Bompiero a questo punto sbagliò la sua recitazione
infame, perché l’interruppe per un attimo e si accese una sigaretta. Lo vidi tirar
fuori un bel pacchetto e una bellissima sigaretta, rotonda e dorata. Se la mise in
bocca e accese un fiammifero. La fiamma contro la luce verde prevalse e alzò un
piccolo fumo nero. Tutto ciò mi diede un senso della verità e mi fece svegliare dal
brutto sogno. Mi venne la decisione immediata di fuggire e mentre Bompiero si
alzava per venirmi incontro mostrandomi il lettino, mi voltai e la mia voce
proruppe come un tuono: «No», dissi, «no, no», più forte, mentre fuggivo dalla
porta.
Rientrai nel reparto e mi buttai a capofitto nel lavoro.
La macchina mi assecondava come se capisse la mia disperazione. Alla mensa
mi appartai e andai a mangiare nei tavoli occupati da quelli dei montaggi e dalle
donne, per poter decidere soltanto dentro di me cosa fare. Pensavo tanto che
mangiavo accanitamente e senza accorgermene. Decisi che non dovevo prestarmi
al giuoco di Tortora e Bompiero. Non potevano staccarmi dal lavoro; non potevano
mentire al punto di arrivare a violentare la mia volontà. Se resisto, pensavo,
riuscirò a salvarmi. Per resistere bisognava prima di tutto evitarli ed evitare i colpi
delle loro macchinazioni. L’inganno era chiaro: la lastra malata non era la mia,
oppure la mia era stata falsificata. Siccome la fabbrica non faceva più assunzioni,
Tortora voleva cacciarmi per far entrare qualcun altro al mio posto. Oppure aveva
bisogno di far vedere che lui, con i suoi dottoroni, riusciva a scoprire e a curare
malati gravi; e tutto questo per fare ancora più impressione sulle infermiere e
sulla fabbrica. E per stabilire l’importanza dell’infermeria.
Per tutto il tempo di lavoro dopo mezzogiorno non feci che ordinare i miei
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pensieri, molti, e montare le mie decisioni. Intanto riuscii a non parlare con
nessuno, altrimenti il diffondersi della voce, cosa che sarebbe capitata anche se
mi fossi confidato con Pinna, avrebbe assecondato i piani di Tortora e Bompiero
perché certo la gente e anche i compagni l’avrebbero accettata, convalidando così
la mia malattia. Forse Grosset era l’unico che avrebbe potuto mantenere il segreto
e aiutarmi; ma anche lui mi faceva dubitare per il suo scrupolo di capo legato alle
decisioni della fabbrica.
Ancora una volta quindi tutti i miei discorsi dovevano restare dentro di me, fra
la mia testa e il mio cuore, ed io dovevo cercare di contenerli per non esplodere
insieme a loro.
Uscii dalla fabbrica pronto a mettere in atto la prima decisione: smentire
Tortora con il parere contrario, dato in rispetto della verità, del più bravo dei
medici. Mi recai a casa del professor Giordano, che avevo incontrato una volta a
Candia, quando era venuto per organizzare il centro dell’Azione Cattolica. Allora
avevo saputo che il professore Giordano era il più bravo medico di X e di tutta la
regione, ex primario dell’ospedale ed invocato come medico dei poveri. Il professor
Giordano era in pensione e riceveva a casa sua solo per consulti. Il suo studio,
dove fui guidato dal suo cane, era grandissimo e sembrava deserto anche con la
presenza del professore che stava in un angolo, a fianco di un piccolo tavolo nero.
C’erano altri tavoli neri intorno, che portavano dei vasi con dentro organi umani.
La vista di questi vasi riportò su di me tutti i miei mali perché io li dichiarassi,
uno per uno e tutti insieme, dove sembrava che i teschi e i piccoli feti mi fossero
parenti. Lo studio era su tre lati foderato di tende, senza luce dall’esterno o
rumori; nelle pieghe delle tende e sui tappeti brulicavano i ricordi dei malati.
Il professor Giordano stava immobile vicino al suo tavolo; si piegò un attimo
per scrivere il mio nome su un foglio con una calligrafia tanto grande che io da
lontano e nella semioscurità riuscii a distinguere tutte le lettere, una per una
come il professore le scriveva. Ascoltava ciò che gli raccontavo guardandomi fisso.
Quando arrivai al nome del dottor Tortora fece un sobbalzo.
«Come», mi disse, «lei lavora nella fabbrica di...?» Risposi di sì. «Ebbene, perché
viene da me? Avete tutto laggiù; tutto ciò che la scienza medica può inventare, ed
avete i vostri servizi sanitari ed ogni assistenza. Fra la medicina del lavoro e la
mutua ciascuno di voi ha almeno quattro medici. Nessuno è più libero di
scegliersi il suo medico e le sue malattie e quindi nessuno deve farlo. Almeno non
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con me. Non voglio essere trascinato nella medicina sociale, io. Mi dispiace, ma
debbo rifiutare la sua richiesta..».
«Ma io sto male», gli dissi, «ed è Tortora che mi rovina». Sulla sorpresa di
questa denuncia ebbi la forza di seguitare a raccontargli della lastra falsificata e
della diagnosi di tubercolosi. Il professore rimase in silenzio e poi disse: «Io non
posso e non voglio entrarci. Vada da un tisiologo, dal professor De Saint Martin;
se accetterà di visitarla, sarà come se la vedessi io».
Ripensai per tutto il viaggio di ritorno a casa al professor Giordano e capii che
non aveva voluto farsi complice in nessun modo dei medici che avevano
complottato la mia fine. Così rafforzai la mia decisione di non farmi più vedere da
loro.
Un solo pensiero s’illuminò dentro di me quando scoprii il lago bianco nella
notte: la forza dei miei mali.
Il professor Giordano mi aveva detto a un certo punto: «Ma una diagnosi così
radicale dovrebbe riscontrare in lei molta sofferenza, e da tanto tempo. Una
sofferenza così grave che non dovrebbe certo sorprenderla ora».
Erano dunque i miei mali di tanti anni che ritornavano. Erano mai cessati? I
medici mi dichiaravano malato perché sapevano quanto io soffrissi e come certe
volte, ogni giorno, durassi fatica a resistere, ad andare avanti.
E loro invece di aiutarmi a prevalere sui miei mali, li rafforzavano per
sgominarmi del tutto. Io potevo vincerli, se li tenevo dentro di me, anche
ignorandoli; ma se altri li mettevano fuori di me e contro di me, non avrei più
potuto dominarli e batterli.
Quel richiamo innocente di Giordano era però bastato ad allinearli di nuovo
tutti contro di me. Salendo a casa mi sentivo come appena tornato dalla
prigionia. I dolori e lo scoraggiamento m’impedivano di vedere la facciata della
mia casa, di riconoscere la strada, i posti.
Sulla porta, anche per non farmi vedere da mia madre abbattuto e sofferente,
potei appena confortarmi ricacciandomi dentro la decisione di ignorare i miei mali
e i medici della fabbrica.

*8*

Passai Natale in pace, il terzo dopo la prigionia e con poca neve. Anche questa
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volta la neve non seppe nascondere nulla, né darmi conforto. Andavo
regolarmente in fabbrica nei giorni in mezzo alle feste; ma non successe nulla.
Nessuno mi chiamò più. La fabbrica sembrava tutta presa dalle feste e vi era
un’aria particolare anche nei giorni di lavoro: meno caldo e meno rumore e
sembrava che il numero dei pezzi fosse più basso e meno pesante.
Dopo Natale tutti erano presi dai balli, dai progetti di andare a ballare in
questo o in quel paese e di finire l’anno. Cominciava il 1948, l’anno delle seconde
elezioni; a me, scacciato dalla fabbrica e da casa mia, sarebbe toccato di votare in
sanatorio.
Natale e le altre feste le passai con mia madre, nemmeno sereno con lei. Una
sera mia madre mi diede da portare la fede nuziale di mio padre. Una domenica
andai a Torino a vedere una partita di calcio. Presi molto freddo e per scaldarmi
andai in un cinema tanto affollato che era difficile entrarci. Dopo essere stato in
piedi alla partita ero stanco e mi appoggiavo dove potevo, di qua e di là, anche
addosso alla gente. Poco dopo essere entrato, sentivo un caldo violento che mi
estenuava ancora di più. Avevo la bocca piena di un alito greve come una
bevanda e il fiato mi arrivava appena in fondo alla gola.
Ero così stanco che anche appoggiare per un momento la schiena contro il
muro o una persona vicina mi dava dei piccoli sollievi, come delle pause di sonno.
Mi sembrava che tutto il mio corpo fosse ridotto così a poco da poter dormire per
un attimo e riposarsi sulla spalla di un estraneo. Nei momenti in cui mi
appoggiavo mi sembrava di amare teneramente quelle persone e la loro forza.
Dovevo ammettere di essere ammalato e solo, ma l’ammettevo dentro quella
sconosciuta compagnia che mi dava l’idea di proteggermi anche dall’attacco del
dottor Tortora. Anche in quel momento non mi arrendevo a lui che non voleva
aiutarmi; ma la debolezza mi scoraggiava e mi faceva pensare che i miei mali
potessero avere il sopravvento. Questo pensiero mi accompagnò sino alla ripresa
del lavoro dopo l’Epifania, quando nella fabbrica si spense ogni clima di festa.
Il lunedì successivo mi telefonarono in reparto dall’infermeria: dovevo
presentarmi la mattina stessa.
Dissi subito a Grosset che non ci sarei andato. Quando ritelefonò per avvertire
della mia decisione fu invitato lui stesso ad andare a parlare con i medici. Andò
appena suonato mezzogiorno e lo vidi ritornare in mensa verso i tre quarti. Prima
di prendere posto guardò in giro tra la gente; ma io riuscii a nascondermi tra un
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gruppo di turnisti. Alla ripresa del lavoro Grosset non mi disse niente.
Verso le quattro, quando mi capitava vicino e s’accendeva una sigaretta,
facendo queste cose come sempre, mi guardò più stretto e mi disse: «Non vuoi
parlarmi?»
Non gli risposi ed egli, andandosene, mi disse ancora:
«Credo che il medico abbia fatto il suo dovere dicendomi tutto».
Poi, per l’intero pomeriggio, non aggiunse più nulla. I medici lottavano contro
di me secondo il piano che io avevo scoperto; siccome non avevo diffuso la voce
per non far credere veramente agli altri di essere malato, erano loro che la
diffondevano.
Il giorno dopo non andai a lavorare. Rimasi a letto quasi tutta la giornata
discorrendo con lo scarpone e l’indiano che nell’umidità di dicembre erano meno
chiari, tanto che lo scarpone poteva anche essere un cane e l’indiano addirittura
senza alcuna fisionomia. Dissi a mia madre che mi sentivo male.
Per quanto le mie decisioni fossero chiare, i miei pensieri, come le macchie, si
allargavano e si deturpavano con tante frange e svolgimenti a catena. Mi perdevo
in questa irrequietezza e le mie stesse decisioni finivano per sembrarmi piccole e
irreali e di un’ostinazione poco cristiana. Mi toccavo il petto e le braccia e mi
sembrava che la carne si sfaldasse nel sudore. Mi sembrava che sotto il costato si
potesse veramente avvertire con le mani il caldo delle piaghe. Se mi reclinavo sul
mio corpo, un gusto perverso mi tornava dai tempi del collegio, insieme al
desiderio di essere veramente ammalato, a letto, senza compiti e senza lavoro,
curato da mia madre, in dolce armonia, come un buon figliolo, contento della
protezione. Mi faceva reagire a questa tendenza soprattutto il fatto che questa
volta fossero altri a decidere per me e in modo così letale, così feroce contro tutte
le speranze che mi spingevano. Avevo però paura di cedere per i segni che
riscontravo in me o tante erano le mie sofferenze che non riuscivo più a
contenerle. Mia madre, portandomi il cibo, mi passò lentamente una mano sulla
fronte, per sentire la febbre e anche per asciugarmi.
Se almeno mi lasciassero a casa per le cure, pensai, e questa possibilità mi
rese ancora più sconfortato di fronte alle mie decisioni. Avevo l’impulso di reagire,
di andare da Tortora per smascherarlo; di correre da lui e da Bompiero e di
avvertirli chiaramente, alla presenza e con l’aiuto di Grosset, della mia
conoscenza dei loro raggiri. Avrei voluto che Tortora si presentasse subito a casa
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mia, a capo del mio letto, in modo da potergli dire tutto immediatamente: «Ah se
venisse», pensavo girato sul cuscino per conservare, come la mia stessa voce, la
forza del mio desiderio, «se venisse subito, subito qui».
Decisi di tornare in fabbrica il giorno dopo, per vedere che cosa era successo
durante la mia assenza e se i medici mi avevano cercato o mi cercavano. L’ansia
di questa risposta mi tenne sveglio sino a tardi ma poi riuscii a dormire fino
all’ora giusta per prendere la corriera.
Appena Grosset mi vide entrare in reparto mi venne incontro e mentre
potevano udire anche gli altri mi chiese come stavo; poi trattenendomi un
momento mi disse che si sentiva molto preoccupato e che avrebbe dovuto
parlarmi. «Se non vai dai medici; forse avvertiranno l’Ufficio Personale. Anche per
la salute degli altri».
Questa è la frase con la quale mi lasciò di sasso, perché pensai subito al
contagio e mi sentii finito, di nuovo solo ed escluso come ai tempi di Vattino e
della prigionia.
Eccomi pronto, pensai.
La conclusione era così perfetta e disperata, così sicura nell’incastro del mio
tempo, da apparire come il compimento di un disegno tirato sulla mia pelle. Il più
avverso dei destini non sarebbe potuto essere così crudele e preciso; soltanto gli
uomini, gli uomini.
La ribellione mi spinse dritto all’infermeria. Bompiero non c’era. Potei essere
ricevuto da Tortora, che mi disse di essere stato informato da Bompiero per
ragioni d’ufficio. Mentre io negavo ogni cosa, mi fece portare un bicchierino di
liquore per calmarmi e farmi riprendere fiato. Rifiutai quest’altro imbroglio e mi
feci dare solo un po’ di acqua e volli che la prendessero dal rubinetto del
lavandino in mia presenza. Ma Tortora non si smascherò e continuò a parlarmi.
Alla fine disse che non poteva accettare il mio rifiuto; soprattutto per il mio
interesse più che per quello degli altri. In ogni caso avrebbe potuto aiutarmi solo
se mi fossi curato e se avessi cominciato da quello stesso pomeriggio vedendo
insieme a lui il professor Bompiero. Qualche mese di ricovero, una buona cura,
un bel periodo di convalescenza e poi, ben guarito e forte, di nuovo in fabbrica,
sempre aiutato da lui e dall’infermeria. Queste furono le conclusioni del bel
Tortora, i cui occhioni vedevano tutto bello e buono.
«Alle quattro, oggi pomeriggio», finì per dire mentre io uscivo, «e non c’è
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bisogno che riprenda a lavorare».
Uscii e non tornai in reparto. Andai camminando intorno alla fabbrica ed
arrivai, dopo tutte le costruzioni industriali, verso la campagna. Laggiù
preparavano un terreno per una costruzione. Nel freddo di gennaio, di un gennaio
senza neve ma molto freddo, ero all’aperto e solo, minacciato di morte. Due
scavatrici lavoravano ai lati del terreno con grande rumore; ruotavano e si
dirigevano l’una contro l’altra. Si fermavano, facevano un altro giro, giravano in
alto la pala, l’affondavano nella terra, rifacevano un giro e riprendevano a
muoversi in senso contrario. Guardavo questo lavoro seduto su un attrezzo,
all’orlo della strada. Il rumore che si perdeva nella campagna. mi distraeva dai
pensieri della malattia e di Bompiero e mi riportava altre preoccupazioni, più
familiari. Le due macchine andavano e sembrava che oltre a lavorare dovessero
fare tutto il rumore per la campagna, per il cielo e per aiutare i miei pensieri.
Sentii che una aveva aumentato i giri del suo motore al massimo e vidi che si
scuoteva freneticamente. Si lamentava al centro del suo spazio di terra, senza più
riuscire a muoversi. Non riusciva più a muoversi nella terra friabile e ghiacciata e
i suoi cingoli mordevano a vuoto.
Vidi l’uomo che la guidava, con le mani guantate più grandi della faccia, che si
sporgeva dalle due orbite quadrate. Aumentò i giri del motore, scosse da ogni lato
come poté la scavatrice gialla, che con un tonfo addirittura si fermò. Dopo un
attimo il suo motore riprese al minimo, come se tutta la macchina si fosse arresa.
Intanto l’altra scavatrice continuava il suo lavoro.
Io mi sentivo completamente libero: libero e senza corpo come il rumore e
quella mattina. Mentre il motore della prima andava al minimo, l’altra guardò
indietro lasciando riposare la pala. Capì subito; voltò e si diresse verso la
compagna. Si avvicinò con il suo corpo giallo a quello dell’altra. Quando furono
insieme sospesero per un momento ogni rumore. Poi una, la prima, cominciò a
strepitare regolarmente, quasi cantando; l’altra la seguì più piano. I rumori
aumentarono insieme e le due macchine si abbracciarono, sempre più strette.
Capii che l’una aiutava l’altra e che insieme facevano forza nella stessa direzione.
Con la sua pala, una spingeva l’altra sotto il sedere e la rincalzava al fianco.
Finalmente furono libere, si voltarono le spalle e ripresero il loro lavoro.
Tutto questo aveva un’aria di presagio in quella mattina che sembrava aver
sollevato il suo cielo di gennaio per il soffio delle due macchine; sperai veramente
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che qualcuno potesse aiutare anche me e pensai, trattandosi anche per me di
lavoro, che questo aiuto potesse recarmelo Grosset.
Alla mensa l’aspettai e gli chiesi di poter mangiare vicino a lui. «Ho bisogno del
suo aiuto», dissi piano per non farmi sentire dai vicini, che per fortuna erano tutti
di altri reparti. Mentre parlavo per spiegargli la mia situazione egli mangiava
lentamente, scartando il sugo dalla pasta e dalla carne. Sceglieva nel piatto
attentamente, come se lì cadessero le mie parole.
«Capisco tutto», disse, «tu hai forse ragione; ragione per il passato e per tutta
la tua vita; ma questa volta c’è una verità precisa, tua o non tua, che non puoi
trascurare».
«Quale realtà, signor Grosset», pensavo e dicevo «la realtà dell’inganno che è
riuscito ad impadronirsi anche della sua coscienza? La realtà di dichiarare i miei
mali vincitori?»
E feci un discorso, confuso dalle mie stesse visioni, per dire che io dovevo
abbandonare le bende che mi soffocavano e non dovevo farmene mettere altre,
fino al sepolcro.
«Nessuno ti perseguita», disse Grosset.
«Sì, tutti; Tortora per primo e tutti gli altri; li vedo come mi guardano, come mi
considerano, come ascoltano i miei discorsi».
Grosset mi guidò fuori della mensa verso gli alberi dei campi di bocce e le
panchine. Camminavo soffrendo, perché la sua convinzione, che non riuscivo a
vincere, mi dava il senso che tutto ormai intorno a me era compromesso.
Nemmeno gli alberi o i corridoi o le porte o le scale o la fuga potevano più
aiutarmi; tutto ormai, tutta la terra specchiava una verità non mia.
Feci un altro inutile discorso che mi strappò anche le lacrime; minacciai tutti i
medici e la stessa fabbrica e dissi a Grosset che lui stesso stava per diventare un
complice.
«Dovresti calmarti, perché sei malato», disse Grosset duramente.
«Lei allora è cornuto», gli urlai alla fine e mi buttai a piangere sulla panchina.
Egli mi seguì e cominciò a camminare sul vialetto avanti e indietro; vedevo i
suoi piedi che sembravano non avessero udito ciò che io avevo detto.
Avevo offeso Grosset per abbracciarmi a lui, per tenerlo ancora con me;
l’ultimo insieme a me, egli stesso infelice e oltraggiato. Non avrebbe mai dovuto
lasciarmi e io volevo proprio dirgli che lui era come me e che quindi non poteva
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lasciarmi.
Si fermò e mi disse: «Soffri molto, Saluggia. Mi dispiace. Vedi tu che cosa puoi
fare. Fuggire non ti serve».
E se ne andò; egli, bravissimo nel reparto, non capiva la mia sorte perché i
medici e l’Ufficio Manodopera l’avevano ormai definita in un certo modo.
Non c’era nessun altro nella fabbrica che potesse aiutarmi, che potesse
sostenermi per non farmi considerare malato per sempre. Grosset era fuggito ed
io ero molto pentito di averlo offeso; pentito e pronto ad offenderlo di nuovo e
ancora di più, per fargli capire la nostra uguaglianza.
In giro per il parco non c’era nessuno e dentro la fabbrica si vedeva soltanto
qualche luce, nel grande acquario dei vetri che specchiava la morte di gennaio. Mi
sentii più lontano che in prigionia; solo, come se tutti fossero partiti lasciandomi
in quella barca di vetro. Mi dispiaceva di aver offeso Grosset e sentivo uno stimolo
ad offenderlo ancora di più, ad aggredirlo nel reparto di fronte a tutti. Uno
scandalo forse mi avrebbe salvato. I comunisti mi avrebbero salvato oppure
avrebbero cercato subito di perdermi; ma questo avrebbe messo dalla mia parte
gli altri e forse gli stessi medici.
Mi alzai per andare in reparto a dire forte ogni cosa contro Grosset.
Uscii dai prati e dai vialetti e presi una delle strade più brevi. Al secondo piano
dovevo percorrere un tratto di montaggio e poi, a sinistra, prendere il breve
corridoio che portava al mio reparto. Quando arrivai a metà del corridoio, Grosset
sbucò con una guardia e alzò l’indice verso di me. Non feci in tempo a dire niente:
la guardia mi raggiunse e disse che avrebbe dovuto accompagnarmi in infermeria.
Ero tradito e consegnato alle guardie. Sentivo appena Grosset che diceva di
non potermi riprendere in reparto e di avere il dovere di costringermi a curarmi.

*9*

Infatti fui ben curato e solo la divina Provvidenza e la mia cristiana credenza
nel dolore mi hanno sino ad oggi sorretto e guidano ancora la mia mano in questa
scrittura.
Quella volta all’infermeria tutti mi guardavano: le infermiere uscivano dalle
loro stanze per vedermi e i piantoni mi giravano intorno, come i contadini intorno
a una bestia che tira calci. I medici non si facevano vedere.
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Dalla scala si affacciò la più piccola delle infermiere che mi disse, quasi
urlando: «Saluggia, salga, venga su».
Quando attraversai la porta, di sopra, Tortora e Bompiero erano già insieme.
Insieme mi sorrisero, mi parlarono e si diressero verso di me. Poi Tortora tirò una
delle tende verdi della finestra e vidi davanti un platano immobile. Posai su di
esso i miei occhi e il mio cuore e attesi. Alla fine volarono alcuni passeri, quando
già avevano deciso di inviarmi in sanatorio. Telefonarono subito e Tortora si
arrabbiò per potermi trovare un posto.
Io guardavo i passeri e pensavo che era incredibile che fossero così vicino alla
cattiveria umana, a quella infermeria, a quegli strumenti; che non fossero
spaventati dalle parole e che non fuggissero lontano da quella fabbrica di ferro.
Il 25 gennaio 1948, ricorrenza della caduta di san Paolo sulla strada di
Damasco, io entrai nel sanatorio di... dall’altra parte del lago, di fronte al mio
paese.
«Così sua madre potrà venire spesso», aveva detto Tortora. «A casa no; ma
vicino, vicino..».
Dal sanatorio non arrivavo a vedere il lago e nemmeno, più in alto, la mia
casa. Certe volte la notte mi pareva di sentire il rumore dell’acqua e della strada
provinciale: gli stessi rumori di casa mia. Allora mi veniva in mente di cercare
l’indiano, con il suo turbante, e lo scarpone.
Mi sarebbe bastato trovare quel muro; il muro del fienile con tutte le strade
che i miei occhi e i miei pensieri vi avevano percorso. L’idea che fosse così vicino e
non visibile mi angustiava ancora di più, perché mi faceva pensare che non per la
distanza io ne ero privato ma proprio per un altro impedimento; per un’altra
malattia, tra tutti i miei mali la peggiore.
In sanatorio mi fu assegnata una piccola stanza del reparto isolati, che vuol
dire contagiosi. Appena arrivato con la corriera, come uno qualunque e sano, con
la valigia, appena consegnato il foglio del mio ricovero, fui preso e quasi sollevato
da un infermiere. Costui doveva essere stato avvertito e istruito dal dottor
Tortora. Faceva tutto come se io fossi malato assai gravemente e nelle condizioni
di non reggermi in piedi. Mi fece passare in un bagno dove, per le mie insistenze,
si limitò a rinfrescarmi le mani e la faccia; mi spogliò accuratamente e mi rivestì
con i panni del sanatorio. Quella divisa addosso mi diede le lacrime; quel bagno
sembrava lontano da mia madre e da casa mia quanto la luna, e l’acqua che
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sgocciolava nella vasca si perdeva inutilmente come il mio dolore.
Appena messo il pigiama, il mio corpo non era più il mio; era già quello di un
malato, magro e storto, coperto malamente dalle cuciture e dalle grosse tele e
sembrava avere ormai altre strutture sotto le pieghe del pigiama.
Anche l’odore del mio corpo non era più il mio. Solo le pantofole erano quelle
che mia madre aveva preparato e che era riuscita a passarmi da sotto la porta del
bagno.
Nel corridoio avevo già l’aspetto di uno in sanatorio da molti anni. Tortora mi
aveva sistemato. Ormai i miei mali non avevano più ostacoli e mi avevano attirato
a casa loro. Solo la mia volontà poteva resistere; ma io ero impegnato a pensare
come i medici avessero fatto ad acquistare alla loro triste causa anche
l’infermiere. Egli sapeva già tutto e durante le sue premure meticolose aveva
detto: «Eh, la prigionia... lei almeno è tornato, mio fratello no».
I medici avevano capito che questo suo sentimento d’amore poteva mutarsi in
odio per tutti quelli che erano riusciti a sopravvivere dove suo fratello era morto e
per questo mi avevano fatto affidare proprio a lui.
In fondo al corridoio dove si voltava per il reparto degli isolati c’era una statua
celeste della Madonna. I suoi occhi, tra le luci accese, mi guardavano lucidi di
commozione e dicevano «povero Albino». La mia stanza aveva un piccolo letto di
ferro bianco, un comodino uguale, un tavolino appoggiato alla parete di fondo,
due seggiole di ferro bianco e a fianco del letto, verso la finestrabalcone, un
lavandino; ma più vicino al letto un catino sostenuto da un treppiede. «Se vuole
sputare», mi disse l’infermiere.
«Perché dovrai stare a letto immobile per un po’ di tempo», disse un medico
che stava entrando, con accento meridionale, «perché se ti viene un altro sbocco
di sangue, non so come potrai cavartela».
Sapeva già tutto. Tortora li aveva informati che io avevo perduto sangue dalla
bocca una sera a casa e un’altra volta andando verso la mensa a causa di una
corsa che Pinna mi aveva fatto fare spingendomi per le scale e dandomi botte
sulle spalle.
Solo mia madre aveva detto quante volte ai bambini esce sangue dal naso, che
poi va in gola, e quante altre volte le gengive possono perdere sangue.
Mi toccava rimanere immobile in quel piccolo letto e nel mio sudore. Veniva
un infermiere, quasi sempre lo stesso custode e guardiano, ad aprire e chiudere
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le finestre, a darmi da bere. Avevo solo da pensare; potevo soltanto pensare e lì,
nei miei pensieri, Tortora non aveva messo piede con la sua cattiveria. Ma
pensando meglio capivo che anche tutti i miei pensieri erano mossi dalla sua
cattiveria e le giravano intorno. Pensare di lottare contro i mali, di sconfiggerli, di
trovare il modo di guarire, di uscire, di tornare a lavorare. Pensare alla mia
cugina di Francia, che forse veniva per carnevale, quando ancora io sarei stato da
quest’altra parte del lago. Pensare al lago che di febbraio è ancora diverso, più
stretto, più silenzioso, fino a quando una notte arrivano le anatre. Passano sulla
mia casa venendo dal nord, dritte come stelle, ed entrano nell’acqua muovendo
appena il colore della superficie. Pensare alla fabbrica e di nuovo a Tortora, a
Vattino, all’infermiere, a padre Caligaris, all’indiano, a Pinna, alla mensa, alla mia
fresa lontana dalle mie braccia. Guardare e muovere piano le mie braccia, che
sembrano più pelose, le mie mani dove le unghie sono diventate più grosse.
Oppure immaginare dai rumori la vita del sanatorio.
Attraverso le canne del rubinetto correvano spesso dei rumoracci e sembrava
che i malati si mettessero sempre a soffrire sul lavandino. Giungevano voci
dolorose, scrosci, gorgoglii, tutta una rete di comunicazioni oscene, da essere di
sicuro quelle dei malati. Dal corridoio veniva solo il rumore di qualche passo e le
voci delle donne della pulizia. Dalla finestra invece venivano molte voci, anche
queste femminili e anche chiacchierate normali, con toni più alti e risate.
Una volta, mi pare che fosse già primavera, arrivò sulla mia persiana un
sassolino; ma non capii bene cosa capitava perché era appena dopo pranzo e io
dormicchiavo. E c’era il sole che entrava e il sole porta sempre qualcosa alle
finestre o fa rumore da sè. Io dormicchiavo come mi capitava spesso dopo pranzo,
per l’accanimento che mettevo nel mangiare. Mangiare mi faceva bene e mi
aiutava a sconfiggere il dottor Tortora. Mi immaginavo anzi, per avere più lena,
che il dottor Tortora fosse vicino al mio vassoio e come un piccione vorace
minacciasse di beccare il mio pranzo e di entrare nei piatti a sporcare tutto con le
zampe e le ali Bisognava quindi che io lo anticipassi mangiando in fretta,
mangiando una cosa insieme all’altra. Alla fine mangiavo la frutta che avevo
nascosta sotto il cuscino e bevevo l’acqua e l’aranciata che proteggevo coprendo il
bicchiere con un piatto. Mangiavo molto e le pietanze non erano nemmeno
cattive, soprattutto il formaggio americano dal gusto molto forte, che riuscivo a
sentire pur mangiando tanto in fretta.
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I medici erano contenti che mangiassi molto e il medico meridionale rideva
ogni volta che mi faceva le endovenose e che mi dava le medicine. «Rifiorisce il
nostro Saluggia», diceva e, uscendo, immancabilmente continuava: «Fra un
mesetto andiamo in fabbrica e alziamo a polso una macchina da un quintale e poi
andiamo in infermeria a sfottere il dottor Tortora e con un pugno gli spacchiamo
la scrivania». E chiudendo la porta per andarsene faceva il rumore della scrivania
che si spaccava.
Solo l’infermiere sembrava contrariato dalla mia decisione di mangiare tutto e
ogni volta che veniva a ritirare i piatti commentava: «Anche oggi hai mangiato
tutto, eh..». Fu lui infatti che un giorno di maggio, verso la metà, introdusse nella
mia stanza il dottor Tortora. Tortora mi guardò, volle sollevare le coperte, mi toccò
le braccia e il petto e mi disse: «Avevo ragione? In autunno, in autunno». E uscì in
fretta, senza dire altre parole, certamente contrariato dai miei progressi. Il sollievo
della sua uscita e soprattutto del suo rammarico fu però presto sopraffatto dal
ronzare nell’aria delle sue parole «in autunno, in autunno».
Dunque fino all’autunno egli non mi avrebbe ripreso in fabbrica; fino
all’autunno non avrei potuto essere completamente guarito. Sarei dovuto
rimanere in sanatorio ancora tanto tempo. Però questo non mi dispiaceva del
tutto, perché in sanatorio, superate ormai le trappole di Tortora, potevo riuscire a
ritrovare ogni vigore e potevo continuare quelle letture e quei rapporti appena
iniziati e che mi sembravano buoni.
Si era da poco votato e continuavano ancora le discussioni. Prima del 18
aprile io non avevo mai potuto scendere in giardino. Votai dal mio letto e votai per
la DC, in tutte due le schede, e pregai perché il mio voto fosse moltiplicato come
la forza di Sansone. Dopo la grande vittoria della DC io avevo un gruppo di amici
fra i quali il cappellano, che pure aveva litigato con mia madre quando non
volevano lasciarla entrare, e, sempre, il medico meridionale. Gli altri erano amici
malati che spesso non potevano venire in giardino e che, anche quando venivano,
parlavano poco; erano attirati dal tempo bello, dallo splendore delle siepi, dagli
insetti, dal sole; dal sole che inseguivano girando le seggiole, i tavoli, le schiene, e
dalle parole di chi parlava di più, di chi stava meglio di loro e poteva passeggiare,
raccogliere sassi, mangiare caramelle, fumare. Questi erano i segni che si era
ormai fuori dalle condizioni più gravi e quindi chi poteva fare queste cose le
faceva accanitamente.
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Nel mio gruppo si stava più composti e in silenzio e non si parlava tanto di
sport e di donne come negli altri.
Gli altri addirittura si portavano verso la siepe che chiudeva il giardino delle
donne e lì confabulavano tra gli alberi, fischiavano e tiravano sassi; alcuni non
venivano in giardino per affacciarsi dalla terrazza del refettorio, al primo piano,
che guardava nel giardino delle donne. Le voci che correvano parlavano di donne
giovanissime e bellissime, di slave uscite dai campi di prigionia e rimaste in Italia,
di un’attrice del cinema rovinata dalle passioni.
Questo era l’argomento preferito, anche per i più malati: ogni volta tutto finiva
nel discorso sulle donne. Alcuni superavano le siepi per incontrarle o tiravano
biglietti. Il cappellano era molto preoccupato, specie per quelli che uscivano in
libertà ad accompagnare i parenti o in giro per il paese a mandare cartoline e a
fare acquisti. Tornavano sempre accoppiati e molto tardi, tanto che il prete
pensava che ci fossero delle intese. Mi diceva che avevano dovuto mettere
l’isolamento in quella brutta parte dell’edificio, al limite del reparto femminile,
proprio per separare i dormitori maschili da quelli femminili.
«È una malattia che dà questi cattivi pensieri», diceva il cappellano.
Nel nostro gruppo a turno uno leggeva un libro e lo raccontava agli altri,
oppure un altro leggeva forte e gli altri ascoltavano. In questo io ero considerato il
più bravo e venivano a sentirmi anche dagli altri gruppi, da quelli più anziani.
Allora finiva in politica e io raccontavo che cosa avevo visto in Russia. Non c’ero
mai stato ma mi sembrava giusto dire quello che avevo visto dei russi e
immaginare il loro paese, continuando dalla Polonia sempre verso l’inverno e
l’ignoranza. Raccontavo della campagna nera e senza strade, delle foreste, dei
paesi di fango senza scuole e ospedali, della mancanza di chiese. Le torture che
facevano a noi soldati; la fame che soffrivano.
C’era un vecchio che cercava di smentirmi ma che non ci riusciva anche se
raccontava di essere stato in Russia per tredici anni.
«A Mosca, a Mosca», gli dicevano, «tu sei stato Mosca e non hai visto come
soffre il popolo nei paesi e nelle campagne».
Dopo questi racconti la sera non riuscivo a prendere sonno e continuavo a
immaginare la mia vita in Russia, i viaggi tra la neve, la scoperta di paesi, alcuni
bruciati, altri abitati da comunisti che mi davano la caccia. Il vecchio una volta
per contraddirmi aveva parlato della gentilezza delle donne e questo mi era
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rimasto in mente, per cui ogni tanto, nei racconti che immaginavo, facevo entrare
una giovane, buona, religiosa, che mi aiutava a fuggire dalla caccia delle guardie.
Mi riparava a casa sua, mi nutriva e mi nascondeva nel suo letto, e con le trecce e
una grande camicia bianca, seduta sul letto per nascondermi, rispondeva alle
guardie.
Una volta avevo veduto tra le malate una ragazza così vestita che attraversava
un corridoio, verso la sala operatoria. Una sera che tardavo a dormire e che
pensavo a una storia sulla Russia, sentii battere nel muro di fronte al mio letto.
Pensai alle guardie comuniste e alla ragazza che doveva salvarmi. Sentii poi una
voce, nell’angolo della stanza verso la finestra. Era notte tardi e si sentiva
abbastanza bene.
«Siete uomini?» diceva la voce di donna.
«No», risposi io.
«Come no?» disse la voce.
«Sono solo», dissi io, che intanto mi ero alzato e coprendomi mi dirigevo verso
l’angolo.
«Peccato», disse la donna, «siamo due», e proseguì,
«ma è una stanza quella?»
«Sì».
«Allora c’è un letto?»
«Sì».
«Grande per tre?»
«No, è per uno».
«Scherzavo», disse la donna, «perché qui con me c’è una bella ragazza. Si
chiama Vera; ma non è vero».
«Cosa non è vero?»
«Il nome».
«Perché?»
«E se tu sei un infermiere?»
«No, io mi chiamo Albino».
«Io mi chiamo Falsa e quest’altra Vera», e le sentivo ridere.
«Ma non siete a letto?»
«No. Questo è il gabinetto. Siamo venute per parlarti».
«Mi conoscete?»
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«E come no, tu sei il più bello, quello che porta a spasso nel giardino un cane
da signore».
«Che cosa volete?»
«Parlare, caro. Sta’ tranquillo, non ti tocchiamo».
«Ma non sentite freddo?»
«Che cosa? Hai paura della pleurite?»
«Quanti anni avete?»
«Io diciotto e la mia amica sedici; ma non è vero».
«Io ne ho ventinove».
«Sì, compiuti?»
«Sì».
«Vienci a trovare e portaci da fumare».
«Come, come faccio?»
«Apri la finestra e vieni dal cornicione, poi sulla terrazza scavalca la prima
finestra a destra. Devi arrampicarti ma noi ti aiuteremo».
«Ma non si può».
«Hai paura da solo? Prendi un amico».
«Ma sono solo. Non ci sono amici».
«Da quanto tempo sei qui?»
«Da quattro mesi».
«Allora non conosci nessuno. Non sei mai venuto dalle donne?»
«No».
«Trovati un amico e vieni, che qui c’è una ragazza per te».
«Non posso trovare un amico».
«Parla a qualcuno che è qui da un po’ di tempo e digli che c’è la Marina.
Vedrai come viene».
«Ma che cosa veniamo a fare?»
«A fare, sì a fare».
«Cosa?»
«Davvero hai ventinove anni?»
«Sì».
«Dove ti sei ammalato?»
«In prigionia, ma ora sto bene».
«Ah sì, certo che stai bene, se ti riguardi così. Ma eri un soldato?»
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«Sì».
«O che passione, bell’albero verde! Vieni domani sera. Preparati e cerca un
amico, giovane e non dell’isolamento, se è possibile. Vieni domani sera. Quando
arriviamo, bussiamo noi; voi venite senza parlare. Vieni anche da solo. Nel
giardino noi siamo quelle sotto l’albero di ciliegio».
Rimasi ancora ad ascoltare e mi pareva che il muro fosse leggero leggero; che
la finestra aperta sulla notte fosse già sui campi, libera; che io potessi uscire,
passare dal muro, parlare dal rubinetto; che il sanatorio fosse un posto irreale,
che non vi fossero malati né malattie; che tutto fosse un dolce sogno e che quella
notte fosse la vigilia di una grande felicità. A letto non pensai più alla Russia,
preso da un grande sentimento d’amicizia anche per il vecchio comunista. Mi
scaldavo in questa scoperta e sentivo che il mio sangue correva pulito e libero per
tutto il mio corpo, ritrovandosi orgoglioso nella schiena e nel petto. Stringevo le
mie mani attorno ai miei fianchi e l’abbraccio mi proteggeva e mi sollevava d’ogni
affanno; mi allontanava dai vecchi mali. Solo verso la fine di questa veglia,
quando il sonno stava per vincermi, ebbi per un momento paura che qualcuno
avesse potuto sentire il mio discorso con le donne; ma, mentre il sonno penetrava
dentro la mia testa, potei ancora capire che questa paura era mossa più che dal
sospetto di aver fatto qualcosa di illecito dal pensiero che qualcuno, avendo
sentito, potesse il giorno dopo scavalcare le terrazze e prendere il mio posto o
continuare da qualche altro muro i discorsi con le donne che nel giardino stavano
sotto l’albero di ciliegio. Questo albero di ciliegio, nel sonno che arrivava, me lo
figuravo bellissimo e carico di frutti, e diventava il segno della verità del discorso,
un segno sicuro, che mi avrebbe portato fortuna.
Il giorno dopo, appena svegliato, mi tornò in mente tutto il discorso e la mia
contentezza aumentò quando pensai che nelle ore di libertà in giardino avrei
potuto restare anche solo, sulla terrazza del refettorio, per vedere l’albero di
ciliegio e le donne sotto. Non pensavo che fossero belle; ma mi veniva la
convinzione che la più giovane fosse quella incontrata nel corridoio della sala
operatoria. La bellezza di questa ragazza era anzi un inciampo ai miei pensieri; si
ingigantiva per conto suo a discapito della storia e me la bloccava con una strana
paura. La paura di questa bellezza diventava pian piano la paura di vederla, di
affacciarmi dal terrazzo, di essere notato e deriso e che tutto finisse in un atroce
scherzo. Per tutta la mattina continuai a essere combattuto da questi pensieri e
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siccome era domenica la vicinanza delle donne alla messa mi turbò ancora di più.
Quasi senza volerlo notai che la ragazza in camicia non era presente; scartai tutte
le altre, infervorandomi nella preghiera.
Quando fu l’ora della libertà non ebbi il coraggio di scendere, di andare sul
terrazzo, e restai nella mia stanza dove chiamai il cappellano. Molto addolorato e
fra le lacrime gli dissi che quel giorno avrei accettato di vedere mia madre. Da
quando ero in sanatorio non avevo mai voluto vederla; ma per non rattristarla
ancora di più ed anche per non esporla al rischio del contagio. Pianse molto, pur
incontrandomi in parlatorio tra molta gente.
Mi disse che stava bene, che dalla fabbrica aveva avuto dei soldi che le
consentivano di vivere senza problemi e che aveva ricevuto una visita di Pinna.
Quando mia madre se ne andò, io ero molto stanco e avevo ormai rinunciato a
scendere in giardino e a vedere le donne. Era l’ultima domenica del campionato di
calcio e restai a sentire tutti i risultati e i commenti sportivi.
Alla fine, quando fui nel mio letto, ero rattristato, convinto di aver offeso le
due ragazze, che non si sarebbero fatte sentire. Se l’avessero fatto, non sarei stato
gentile con loro e magari le avrei rimproverate di svegliarmi.
Finché mi addormentai senza sentire nulla. A metà della notte mi svegliai di
soprassalto, disperato di aver perduto l’appuntamento; con le orecchie tese
sentivo soltanto battere il mio cuore e qualche colpo di tosse in giro per le scale. Il
muro era bianco e compatto, inanimato; dalla finestra non giungeva luce ma i
vuoti delle persiane erano chiari e piatti, ritagliati sulla luce dell’alba che già
doveva muoversi dalla parte del lago.
L’indiano e lo scarpone a casa mia erano di sicuro ormai chiari, fuori del
colore di tutto il muro; lì nel sanatorio io ero solo e non potevo sperare nell’aiuto
di nessuno. Anche il cappellano nella storia con mia madre non aveva capito
niente e si era mostrato quasi sempre dalla parte contraria alla mia; il medico che
mi curava era bravo ma era pur sempre un meridionale: cento parole oggi e altre
cento domani ma tutto restava uguale; fra un mese, fra un mese... «autunno»,
aveva detto Tortora e autunno sarebbe stato.
Però la notte di martedì, un’ora dopo del silenzio, verso le undici, sentii
bussare al muro, piano piano, quasi strisciare, tanto che non riuscii a capire
subito che c’erano le donne.
«Qui è la Marina, con tutti i suoi cannoni. Siamo in tre, venite».
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«Sono solo».
«Vieni, che una se ne va subito».
«È meglio parlare».
«È meglio fumare».
«C’è Vera?»
«Sì, è qui; ma vieni, è facile».
«Come state?»
«Oh, bene, e tu?»
«Perché non siete venute le altre sere?»
«Boh. Ma tu che vuoi? solo discorrere?»
«Perché?»
«Allora è per questo che t’hanno dato la stanza più vicina. Sei il più fesso,
amico».
«Non posso saltare perché non so la strada».
«Nessuno la sapeva».
«Ma poi?»
«Insomma ti piace questa Vera?»
«È bruna?»
«Fa’ il piacere; avverti qualcun altro, qualche uomo che da qui può passare.
Togliti di mezzo e resta a succhiare le pillole».
Sentii che bisbigliavano fra di loro e pensai che Vera non fosse contenta del
modo di parlare di Marina.
«Apri la finestra che vengo io a trovarti», disse Marina, un attimo dopo.
Mi rimisi a letto per non subire un’imposizione così grave. Spensi la luce ma
rimasi ad occhi aperti; dalle vene delle braccia mi saliva fino al petto e alla gola il
rumore della rete del letto ed anche i piccoli colpi che il letto, prendendoli dal mio
cuore, passava sulla parete.
Mi pareva di sentir cadere la polvere di calcina dal muro, di sentirne il sapore
in bocca. Dall’altra parte del muro continuava il bisbiglio, poi venne lo scroscio
d’acqua d’un gabinetto, molto forte, provocato per coprire un altro rumore che
alla fine si sentì distinto.
Quest’altro rumore continuò, poi cambiò timbro, all’aperto sulle terrazze.
Dopo, dalla finestra che aveva sempre le persiane chiuse, venne come un alito,
come il respiro notturno di un animale. Questi rumori mi aggredivano e
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veramente pensavo a un animale che stesse per saltarmi addosso.
Sentii il passo strisciare sul cornicione e poi la mano sulla finestra. Sentii
battere le nocche forte e la voce:
«Apri vigliacco, vuoi farmi cadere? Apri e accendi la luce del comodino».
Non potevo più resistere e accesi la luce. «Apri vigliaccone, apri, e non
spingere le persiane».
Scesi dal letto e feci tutto come la donna diceva. Tornai verso il letto e dovetti
stringere le coperte per non urlare mentre vedevo la figura della donna apparire
contro il vano della finestra. Scavalcò il davanzale con la vestaglia aperta ed
appoggiò un piede sul pavimento della mia stanza. Ancora non le avevo visto il
volto, che per entrare teneva basso.
Lo vidi quando s’appoggiò, ormai dentro la stanza.
Respirava e mi guardava. Era una donna molto alta, vestita a quel modo del
sanatorio fino ai piedi. Era pallidissima, con i capelli bianchi e neri, gli occhi
nerissimi e le labbra nere. Aveva un neo sulla guancia e una mano fasciata, con
la quale teneva una sigaretta. Mi metteva paura, una paura così debole contro il
suo coraggio che non mi spingeva a fare nulla. Non si muoveva, non avanzava
nella stanza; guardò un attimo fuori, muovendo solo la testa e con una mano
accostò le persiane.
«Non c’è un amico?» disse guardando verso la porta.
«No».
«Perché hai tanta paura? Qui dobbiamo aiutarci».
«Sì».
«Allora chiama un amico, se tu non vuoi».
«Non c’è nessuno».
«Fammi venire nel tuo letto. Ho freddo».
Feci per scendere e lei disse: «Non così, salame».
«Perché sei in isolamento?» continuò.
«Non lo so, sto meglio».
«Tu sei forse quello che piangeva sempre nel dormitorio e che hanno dovuto
rimettere nell’isolamento?»
«No, sono sempre stato qui».
«Ah, sei quello ! Adesso capisco tutto. Povero salame».
«Parli piano».
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«Dammi altre sigarette».
«Non ne ho».
«Cosa hai?»
«Niente, niente. Parli piano».
«Hai mai visto questa?» e si diede la mano sulla vestaglia, in fondo ai bottoni.
«Cosa campi a fare. Vuoi guarire? Mangia questa che ti ridà fiducia nella vita. Se
la vedi muori, soldato».
«Se ne vada».
Avanzò verso la porta; l’aprì piano piano e guardò nel corridoio.
«È brutto», disse. Si rivoltò verso di me: «Cosa hai?»
«Ho dei dolci e del formaggio».
«Niente mangiare, non si deve mangiare. Cosa vuoi guarire, salame? Cosa hai
da bere? Nemmeno da bere. Sei proprio piemontese... e non sei nemmeno brutto.
Ti piace Vera? Te la porto qui, se tu non vuoi venire. Basta che chiami un altro, o
dieci altri, e che metti sigarette. Cosa speri? d’uscire? Organizzati, salame. Me ne
vado. Dammi i dolci per Vera e aiutami a passare la finestra».
L’aiutai e vicino a lei sentii forte l’odore che in sanatorio hanno le lenzuola
appena cambiate o l’acqua delle brocche sul comodino o i corridoi quando le
finestre non sono ancora aperte. Brontolò dentro di sè e scese oltre il davanzale.
La sentii avanzare, entrare nella terrazza e poi contro il muro sentii riprendere la
voce delle altre. O era già la sua? Dopo un poco disse: «Buona notte, salame.
Chiama un amico, un altro, che veniamo in due».

* 10 *

Ero stanco dopo questa avventura, molto stanco. Anche questa però era
un’avventura per modo di dire, perché si sistemava così bene nella mia vita come
un’altra manovra dei miei mali da prendere un carattere del tutto ordinario.
Debbo dire che allora, insieme alla stanchezza, e forse per il suo effetto, stava
entrando in me la speranza ingenua che Vera fosse veramente tale, e che io
potessi incontrarla, sul punto di guarire. Incontrarla avrebbe dovuto essere una
liberazione, per me e per lei: uscire insieme dal sanatorio, chiudere insieme una
brutta vita e cominciarne un’altra sani e liberi. Il pensiero di incontrarla e di
come fare a vederla e a parlarle, mentre me la raffiguravo brunetta e con i capelli
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lunghi, gli occhi grandi e spaventati dalla malattia, vinceva ogni diffidenza che
potesse essermi dettata dalla sua amicizia con Marina e dalla sua presenza nei
gabinetti. Tutt’al più questo aumentava la mia tenerezza per lei con un
sentimento di protezione, che avrebbe dovuto darmi forza addirittura nei
confronti della sfacciataggine di Marina. «Vieni pure, Marina invadente, offendimi
e avviliscimi; ma i miei occhi non ti vedono e cercano al di là del muro la giovane
creatura che spaventi e che io debbo salvare».
Quella Marina doveva essere una complice del dottor Tortora e soci, inviatami
per rovinarmi del tutto proprio nel momento in cui riuscivo a servirmi del
sanatorio per riprendermi e rafforzarmi. Come mai sapeva che io piangevo nella
camerata comune e che non avevo voluto starci? Io l’avevo fatto per non subire
contagi, per non essere troppo controllato da tutti e per non essere distratto dalla
ricostruzione accanita del mio fisico e del mio morale; da solo mi sarei salvato
meglio, dormendo di più, senza disturbi, nel mio letto, con la mia finestra e la mia
aria, e mangiando tutto senza che i miei cibi e piatti si confondessero con quelli
degli altri. Era come se Marina cercasse di offendermi con il suo intervento in
modo che io, intimidito, tornassi magari nel reparto comune. Chiaramente poi
cercava di contagiarmi chissà con quali malattie incurabili ed anche di
scoraggiarmi nel mangiare, guarire e uscire dal sanatorio. Invece, più che i suoi
cattivi artifici, nella sua faccia bianca e nera portava la speranza di Vera; la
speranza per me di incontrare una povera ragazza con i miei stessi mali e
bisognosa anche lei di aiuto. Per questo non rifiutai mai i discorsi dietro il muro,
molte sere, e gli insulti che Marina mi indirizzava perché non la raggiungevo e
perché non avvertivo altri uomini. Lei, di persona, non ardì più venire nella mia
stanza. Qualche volta sentivo ridere Vera e la sentivo aggiungere e intramezzare
qualche parola a mezza voce e, immaginavo, con rossore. Andavo convincendomi
che ormai venissero solo per me; a fumarsi una sigaretta e a scambiare qualche
discorso con me. Pensavo che Vera non avesse il coraggio di venire da sola e che
per questo si facesse ancora accompagnare da Marina.
Intanto la mia vita in sanatorio andava bene e la protezione del cappellano mi
tratteneva ancora nell’isolamento, per quanto i medici volessero rispedirmi nelle
corsie. Non avevo quasi più febbre ed ero aumentato di otto chili. Non erano
successe cose nuove; era solo uscito verso la fine di agosto il vecchio comunista.
Venne a salutarmi e quando io mi rallegrai con lui come se stesse uscendo
80
guarito: «Gente come noi non guarisce», mi rispose.
Era in verità più pallido del solito, in contrasto con il vestito scuro che
portava. Mi dissero che non era guarito ma che lo allontanavano per tutti i fastidi
che aveva dato nei giorni dell’attentato a Togliatti.
Dopo il primo giorno d’anarchia io ero rimasto a letto. Avevamo appreso la
notizia dopo il riposo, nei giardini e per le scale. Dapprincipio la notizia era più
forte di ogni altra cosa e di tutti quelli che la ricevevano; era così forte che
dapprincipio era presa solo come notizia e quasi con il compiacimento di
apprendere un fatto tanto grave. Questa soggezione e questo compiacimento
furono rotti proprio dal vecchio comunista, il quale cominciò a urlare in fondo alle
scale, correndo verso il giardino: «Vigliacchi, vigliacchi, lo hanno ucciso! Ma non
capite perché gli hanno sparato, perché?! Sono loro, al solito, loro». I suoi allievi e
compagni gli furono subito vicino. Anch’essi cominciarono ad urlare. Mi videro
fermo a metà della scala, quasi contemporaneamente tutti.
I loro occhi si assestarono un momento sopra la mia persona. Poi le loro
bocche si aprirono e uno urlò più degli altri: «Sì, sì, sono loro, eccone uno». In
gruppo cominciarono a muoversi verso di me. «No, no, non capite», disse il
vecchio dalla porta del giardino. «Sono loro, i grossi. Loro, coloro che ci calpestano
e che ci tengono qui. Sono loro, sempre loro..».
Questo fermò un attimo gli altri, che non capivano.
Guardavano in giro, verso le scale e sul soffitto. Non potevano sfogarsi e si
urtavano nel gruppo, guardando il vecchio, aspettando da lui un’indicazione più
precisa.
Il vecchio disse che io ero soltanto un altro tubercoloso per miseria, un
disgraziato come loro, anche di più perché non avevo capito niente della realtà
delle cose ed ero anche bugiardo. Accompagnò quest’ultima parola con uno
schiaffo a metà, che mi diede malamente fra l’orecchio e la nuca. Io capii che lo
schiaffo, che poi nessuno vide e che in realtà fu più che altro una spinta a mano
aperta, era un risentimento del vecchio per i miei discorsi sulla Russia, perché
egli sapeva che quel che dicevo erano soltanto bugie. Capii che il vecchio non mi
riteneva colpevole. E fu proprio questo a darmi un senso di colpevolezza: l’essere
dalla sua parte, dalla parte dei più. Così risalii le scale e ritornai nella mia stanza.
Uno del gruppo mi guardò minaccioso e mi disse:
«Perché stai all’isolamento..».
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Sì, pensai, perché stavo, all’isolamento potevo ancora non essere come loro.
Perché stavo all’isolamento non combinai quello che combinarono loro, compresi
tutti i pasticci con le donne.
Fu forse in quei tre giorni, ora che rivedo le cose da lontano, che Marina
combinò i suoi incontri con quei tre, che poi vennero a cercarla nella mia stanza.
Accadde infatti, dopo non molto tempo, che una sera nuovamente Marina
bussò al muro. Prima di risponderle attesi qualche istante per farle capire il mio
risentimento per quei giorni di dimenticanza.
«Sei solo?» mi disse quando m’accostai.
«Sì».
«Come stai?»
«Bene».
«Mi avevano detto che stavi male».
«No, sto bene».
«Sai, se stai male è meglio che resti a letto. Puoi peggiorare. Vera ti saluta, ti
saluta molto e spera che tu possa rimetterti presto. Così verrai a trovarci. Intanto
sta’ a letto».
Proprio nel mezzo di tante premure, bussarono alla porta; anzi l’aprirono
direttamente perché non feci in tempo ad allungare le mani verso il lavandino, per
simulare un bisogno, che già tre uomini giovani, di cui due vestiti per intero e
uno in pigiama e vestaglia, erano in mezzo alla mia stanza.
«Siamo amici», dissero subito e sorrisero.
«Dobbiamo andare di là dalle donne e questo è l’unico posto per passare. Sta’
zitto, per piacere. Noi stiamo per uscire e dobbiamo combinare alcune cose. Sono
loro che ci hanno chiamati». Si avvicinarono alla finestra.
«Da che parte dobbiamo andare?»
Ma in quel momento si sentì la voce di Marina. Ascoltarono, risero tutti e tre e
sparirono dalla finestra. L’ultimo mi disse: «Chiudi pure. Se ripasseremo di qui,
busseremo sulle persiane».
Certo che chiudo, pensai, e non vi riaprirò. Mi cacciai nel letto e spensi le luci.
Mi rialzai per un attimo a far correre un po’ d’acqua nel lavandino, perché di là
dal muro la compagnia potesse sentire che io ero indifferente e che tranquillo
attendevo alle mie faccende. Tornai a letto, tossii, spensi la luce, trovai il posto
giusto, rimossi il cuscino e cominciai lentamente a piangere.
82
«Cara mamma», piangevo, «tu mi avevi avvertito. Tu mi avevi detto ogni cosa
sugli inganni femminili. Tu che sai di questo tradimento. Vicino a te c’è la mia
stanza, il mio vero letto. Intorno a te stanno scuri e mansueti gli armadi delle
nostre cose. Le mie camicie, i miei vestiti, i miei panni, il mio sacco. Tu ordini le
mie cose e quasi le sistemi sulle mie spalle, le indossi insieme a me. La tua bocca
le anima e le tue mani le indirizzano. Sento che tu mi chiami come in prigionia, io
ti rivedo giovane come eri nel giardino della nostra casa ad Avignone.
«Era un piccolo giardino, tutto circondato dai muri di una vecchissima chiesa,
di cui la nostra casa con i soffitti bassi doveva essere stata l’abitazione del
sagrestano.
Nel giardino, d’estate, tu preparavi da mangiare per alcuni muratori italiani,
che venivano portando fiaschi di vino. Venivano la sera e io avevo il compito di
aiutarti ad apparecchiare la tavola e di accendere la luce, che sospesa all’unico
albero arrivava con il suo piatto bianco e azzurro sopra la tavola. Io dovevo anche
mettere intorno al piatto una carta per tener lontane le vespe che volavano da
altri giardini più grandi e dalla campagna. Ad una certa ora papà aveva sonno e
s’addormentava sullo scalino o più spesso tornava nella vostra stanza. Gli altri
restavano di più e alla fine c’era sempre un giovane, con la giacca sulle spalle,
che continuava a parlare con te. Tu mi dicevi d’andare a letto e io sentivo dentro
di me che tu volevi rimanere con lui, che ti faceva parlare e ridere.
«Anche adesso questo ricordo mi turba e mi fa male.
Il giovane muratore era molto simpatico e io avevo paura di questo sentimento
perché pensavo che doveva aver preso anche te. Ero tentato di spiarvi; ma avevo
paura che ciò che pensavo potesse essermi rivelato dalla realtà.
Ancora oggi ho paura e sono pentito di non aver guardato perché se vi avessi
visto soltanto parlare oggi sarei tranquillo.
«Questa sera sento ogni cosa come se fossimo ancora ad Avignone ed io salissi
la scala per la mia stanza voltando il capo per non vedere il giardino dalla
finestra; forse perché sono avvilito dal fatto che Vera dietro il muro si incontra
con gli uomini che sono passati nella mia stanza. Lei c’è di sicuro perché ho
sentito la sua risatina e ho capito che non è ingenua ma sottomessa e maliziosa.
«Anche questo è un altro colpo dei miei mali ed io non debbo farmi vincere.
Non ho mai visto Vera, penso solo di averla riconosciuta, e quindi non debbo
prendermela con lei; debbo solo pensare a guarire».
83
Era agosto e pensavo che solo due o tre mesi mi rimanevano da passare in
sanatorio per tornare guarito a casa e in fabbrica.
Poi avrei subito scritto alla cugina di Francia, invitandola per le feste dei Santi
e dei Morti. A novembre la nostra campagna è molto bella e anche la nostra casa.
Il lago sembra più tranquillo ed è più composto nelle sue rive.
Chiusi il rubinetto del lavandino e tossii ancora. A letto sentivo la febbre ed
allora accostai i vetri della finestra; poi dovetti addormentarmi per qualche
istante, porgendo sempre l’orecchio ai rumori che potevano venire da dietro il
muro. Così sentii subito quando bussarono alle persiane. Li feci bussare un’altra
volta prima d’aprire. Erano solo in due, uno vestito e l’altro con la vestaglia.
Fumavano tutti e due e mi dissero di non dire niente a nessuno e di aspettare il
loro compagno che ancora doveva finire.
«Non tornate più», dissi io e mentre indugiavano sulla porta li spinsi via. Mi
rimisi a letto e cominciai a cercare le parole per rispondere bene a Marina se
ancora mi avesse parlato da dietro il muro. Dormii sino alla mattina e il terzo non
si fece vivo; forse era passato dai corridoi.
Purtroppo tornarono ancora per molte sere e non erano nemmeno gli stessi;
capii che tutta una camerata di dieci letti partecipava a quegli incontri. Marina
non mi parlava più dal muro e solo una volta o due cercò di offendermi: «Sta’
attento al traffico, metti il rosso che non ci sta più nessuno». Non mi accennò più
a Vera. Io una volta le dissi che aveva rovinato Vera e che avrebbe dovuto ben
pagare quello scandalo. «Quale Vera? Salame! Tutte sono vere. E io ho pagato,
tutto e bene, anche per il futuro».
Non dissi mai niente né al medico né al cappellano.
La storia, proprio perché continuava, mi dava un senso di distinzione
assoluta, che non volevo compromettere.
Una notte uno dei soliti mi disse: «Marina dice che vuol ricevere anche te».
Uno che lo accompagnava si sorprese: «Come, lui non c’è mai stato?» e mi guardò
fisso. Il suo sguardo mi ripagò di tante umiliazioni, perché in fondo agli occhi gli
lessi un senso d’ammirazione, il riconoscimento di una superiorità. Conservai il
suo sguardo senza muovermi, senza scendere dal letto e con sicurezza gli ordinai:
«Chiudi la porta». Egli obbedì, sparendo nel corridoio.
Pensavo ogni tanto che Vera non ci fosse e che non fosse quella che io
credevo, giovane e bruna; quella incontrata nel corridoio della sala operatoria.
84
Sapevo però che le donne erano certamente due, due ogni sera, e che in tutto
dovevano essere quattro o cinque a darsi il cambio.
Un giorno rimasi più a lungo in refettorio per affacciarmi dalla terrazza a
guardare in giardino, sotto l’albero di ciliegio. Volevo vedere in faccia le amiche di
Marina, quelle del suo gruppo, per poter riconoscere Vera e leggere nel suo volto
la colpa o l’innocenza. Avanzai lentamente verso la balaustra; il sole era molto
forte e penetrava tra le tende stese sulla prima terrazza, come una lamiera. Ero
solo ed ebbi l’impressione, quando giunsi sulla seconda terrazza senza tende e
cosparsa di catrame, quando fui nel fuoco abbacinante del sole, di essere in un
luogo sconosciuto e senza la possibilità di tornare indietro. Mi affacciai alla
balaustra e ancora il paesaggio mi pareva nuovo: la terrazza era ingigantita dal
caldo e portata in avanti verso le colline in un modo del tutto irreale, come un
volo. Anche perché io ero emozionato.
Dovetti accomodare bene gli occhi per guardare nel giardino. C’era pochissima
gente o almeno così mi parve dal poco movimento e da qualche voce solitaria,
sotto le tende verdi e gli ombrelloni. Era difficile distinguere i posti e
raccapezzarsi nei giri del giardino, pur essendo l’altezza del mio osservatorio solo
di qualche metro. Poi capii che ero sopra la parte delle donne. Cercai e trovai,
nell’angolo più lontano, l’albero di ciliegio, piantato accanto alla siepe. Proprio
sotto non c’era nessuno; qualche passo più avanti, all’ombra dell’edificio, c’era un
gruppo di ombrelloni aperti. Mi avvicinai di più e riconobbi la voce di Marina.
Sempre presente, lei, e sempre riconoscibile, come un segno del male. Da sotto
l’ombrellone più vicino al suo, spuntavano due gambe di ragazza. Stavano ferme e
discoste; solo per un momento vidi all’altezza di un ginocchio l’ombra di una
mano. La gamba sinistra cambiò appena la sua posizione, stringendosi verso
l’altra. La destra, dopo un’altra pausa, si mosse con indolenza, restando un
momento sospesa, abbandonata, poi si accavallò sulla sinistra. I discorsi intanto
proseguivano nella monotonia, o così mi pareva per la distanza che annullava i
toni, e con delle sospensioni che a me sembravano di noia o d’indifferenza, forse
perché non potevo vedere le espressioni che le accompagnavano.
Tutto il cerchio di discorsi e di corpi, nella luce sotto gli ombrelloni, aveva un
senso fisico, qualcosa di vivo anche se fermo, come un animale che dorme e
digerisce al sole.
Quelle gambe mi facevano capire che la ragazza era colpevole; indolente e
85
certamente complice, succube di Marina nella giostra serale con gli uomini. Dal
modo in cui era tanto vicina a Marina e con le gambe direttamente rivolte a lei
capii anche che la ragazza era Vera, senza alcun dubbio. Il fatto di non vederla in
viso confermava la mia impressione. Era chiaro perché io non dovessi vederla; per
non turbarmi e per non avere ancora maggiore umiliazione ed anche perché il suo
peccato nascondeva ormai irrimediabilmente, almeno per me, il suo volto.
Tornai in refettorio più tranquillo; la curiosità e ancora quel poco di pretesa
che mi avevano spinto ad affacciarmi sul giardino erano cadute.
La sera chiusi la porta della mia stanza a chiave e non aprii quando gli uomini
bussarono. A Marina che raspava dietro il muro dissi semplicemente che se non
la smetteva avrei chiamato le guardie. Non replicai ai suoi insulti e chiusi bene
anche i vetri delta mia finestra. Per qualche giorno in giardino mi feci vedere poco
e sempre vicino o in compagnia di un infermiere.
La sera chiudevo la porta e la finestra, anche se questo mi faceva soffrire dal
caldo. Non diedi più retta ai rumori dietro il muro. Speravo che una volta mi
chiamasse Vera e ogni sera ripassavo la risposta che le avrei dato. Questa attesa
mi confermava nei miei propositi e mi faceva resistere al caldo ed alle altre ansie
della situazione in cui mi avevano cacciato.
Ormai pensavo a uscire dal sanatorio e chiedevo ogni giorno notizie ai medici.
Mi sentivo abbastanza bene e potevo addirittura mangiare meno. Mi guardavo
lungamente allo specchio e mi consolavo ritrovando la mia faccia in buone
condizioni, abbronzata dal sole. Ai primi di ottobre cominciarono a cadermi molti
capelli e ormai, al centro della testa, sotto la lampadina del lavandino, si vedeva
che stavo per diventare calvo.
Scrissi una lettera alla Direzione della ditta perché mi riprendessero al lavoro
senza preconcetti ed anche per metterli in guardia contro l’atteggiamento del
dottor Tortora. Dopo tre giorni ebbi una risposta in cui mi si diceva di stare
tranquillo, di attendere serenamente al recupero delle mie forze, che poi la ditta
senz’altro avrebbe considerato il mio caso con la massima benevolenza. Mi
avvertirono infine di guardare con fiducia all’attività del dottor Tortora, la cui
condotta era superiore a qualsiasi sospetto, e che tutti gli equivoci e i malintesi si
sarebbero risolti con completa soddisfazione mia e di tutti.
Fui molto contento, più che per le speranze suscitate, per la certezza che in
ditta si fossero accorti dell’enorme sbaglio e anche della cattiveria del dottor
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Tortora nei miei confronti.
In quei tempi in cui stavo per lasciare il sanatorio mi accorgevo di tante cose
che prima, nel corso dei mesi, non avevo mai visto. Decisi di visitare il sanatorio
attentamente, reparto per reparto. In uno di questi giri incontrai il primario, il
professor Coltorti.
«So che lei vuole uscire quanto prima. Io non voglio vietarglielo ma la
consiglierei di rimanere qui ancora per tutto l’inverno, almeno per finire la prima
applicazione di pneumotorace. L’anno venturo sarà un altro uomo. A casa ha la
possibilità di essere ben curato e di continuare il pneumotorace?» Rispose per me
il medico napoletano, che gli disse dove abitavo e dove lavoravo e che la ditta
avrebbe certo avuto delle attenzioni particolari e altre cose a bassa voce. «Almeno
non prima di Natale», concluse il professore.
Tornai nella mia stanza senza rispondere e senza attendere altri discorsi dei
medici e del medico meridionale.
Pensavo che il professor Coltorti, al quale per telefono si era diretto il dottor
Tortora dal suo studio il giorno che decise di mandarmi in sanatorio, aveva pronti
quei cattivi discorsi già da quello stesso momento. Mi piaceva poco anche il
discorso del dottore che prometteva cure della ditta. Una volta uscito, io non
volevo aver bisogno di alcuna cura della ditta, per non ricadere nelle mani del
dottor Tortora e dei suoi. Aspettare allora sino a Natale; uscire, magari, la sera
della vigilia. Questi altri pensieri sui discorsi del professore e del medico
annullarono in gran parte tutte le gioie che erano nella mia attesa di uscire da un
giorno all’altro: guardavo la porta e il cancello del giardino ormai con sicurezza e
vedevo che erano aperti e mi sentivo la forza di camminare per quel pezzo di
strada che si vedeva oltre la siepe. Dopo, la sicurezza dovevo ritrovarla dentro di
me, perché il cancello mi riappariva ancora duro e la sua soglia chiaramente
segnata.
Riuscii a tirare avanti, con l’aiuto del cappellano, al quale servivo la messa
nella chiesa deserta del sanatorio.
Egli mi disse: «In questa malattia ci sono molti segni di ribellione al Signore. E
anche di ribellione contro se stessi».
Quando l’ago del pneumotorace si infiltrava tra le mie costole ero alla fine di
tutto e non sapevo più che cosa pensare. Non ero nemmeno più convinto di non
essere malato o di essere, come ormai potevo ammettere, sul punto di guarire da
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una malattia che però non aveva mai avuto la cattiveria cercata dal dottor
Tortora. Mi sentivo molto solo; più confusamente di oggi che sono sicuro di
esserlo ma anche allora con un dolore che non veniva spento dalla speranza di
poter infine guadagnare un destino migliore.
Oggi scrivo questa lettera a tutti e a nessuno ma so che è diretta, prima che a
ogni altro, a me stesso di quel tempo; a me stesso ancora giovane e ancora
fiducioso pur uscendo dal sanatorio la vigilia di Natale contro il parere dei medici.
Uscii di sera, quasi a notte, per aver aspettato di fare un altro pneumotorace.
Camminavo adagio e temevo che l’essere uscito fosse stato uno sbaglio e se
m’avessero richiamato, chiunque l’avesse fatto, sarei tornato indietro. Poi capii
che quel dolore, il solito dolore, l’avrei ritrovato, fatte le scale, nella stanza,
subito, riappoggiando la valigia sulla seggiola. Allora tirai dritto verso casa mia.
Trovai la macchina mandata dalla fabbrica che m’aspettava in fondo allo stradone
del sanatorio. Il sanatorio era tutto illuminato, più del paese; stava sul fianco
della collina verso i campi e poi i boschi di Masino, quasi ansante, vivo; pronto,
sembrava, a camminare in qualche direzione, sotto le stelle.
Francia, collegio, prigionia, fabbrica, sanatorio, tutto mi sembrava nel mio
tempo non fisso; mobile, in moto, a destra e a sinistra, ruotante almeno come il
cielo di una improvvisa stagione.
Gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio del 1949 li passai andando due volte
alla settimana in città per fare il pneumotorace presso il Dispensario
antitubercolare.
Non ho vergogna di dirlo perché lì mi curava con molto affetto il professor De
Saint Martin. Vedevo e sentivo che mi curava bene, senza dare alla malattia una
importanza tale da farla prevalere nei confronti della mia vita.
Infatti già verso aprile mi aveva dichiarato guarito e aveva detto di continuare
ancora per poche settimane, in modo da togliere ogni dubbio anche ai medici più
accaniti di qualsiasi fabbrica. Così a metà maggio mi disse che la cura era finita,
che io stavo bene, che potevo tornare a lavorare e che ero come qualunque altro
giovane in buona salute, capace di vivere a mia discrezione.
Lo stesso giorno, in città, prima ancora di rimettere piede in fabbrica, mi
presentai al Commissariato di Pubblica Sicurezza. Al funzionario che mi ricevette
comunicai subito che ero completamente guarito e gli mostrai tutte le carte
rilasciatemi dal Dispensario per chiudere la mia pratica con l’INPS. Gli chiesi di
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prenderne atto, anche perché ero guarito da una malattia che non avevo voluto,
che cioè mi era stata gettata sulle spalle da altri.
La sera a Candia avvisai il parroco e il giorno dopo, di mattina, il maresciallo
dei carabinieri. Tutti assentirono e mi fecero molti complimenti e auguri. A tutti
dissi: «Se ora un medico dicesse che io sono malato o lo dicesse anche fra qualche
tempo, che cosa direste voi? Direste, se siete buoni cristiani, che quel medico
mente e attenta alla mia vita. Sì, fatemi gli auguri ma soprattutto proteggetemi,
ricordandovi di questo che vi ho detto».
Il giorno 20 di maggio, quando ripresi la corriera per tornare in fabbrica, ero
molto spaventato. Spaventato quanto contento. Era così la sera che lasciai il
sanatorio e anche i giorni delle feste di Natale. Quella mattina mi sembrava che la
corriera andasse molto veloce. La strada era bagnata da una breve pioggia che io
avevo sentito all’alba arrivare improvvisamente e poi dileguarsi prima del sole. Mi
aveva portato un senso di sgomento o meglio me l’aveva ridestato dalla sera,
giungendo a svegliarmi, come se anche essa fosse rimasta in sospeso durante
tutta la notte. Era stata una piccola pioggia, caduta soltanto per me, come
un’incertezza del dormiveglia e un rumore singolare. Mi aveva preso a casa per
dirmi di restarci, di non uscire, di rimanere sicuro dentro me stesso e la mia
casa, tra le mie cose di tanti anni. Ma era necessario non perdere la corriera; era
necessario vestirsi perché i miei abiti erano già preparati sulla seggiola, ai piedi
del letto. Ritrovavo la pioggia sulla strada, perché tutta la campagna e il lago
erano fermi come se non l’avessero ricevuta. Le sue tracce, solo sulla strada, e in
certi sfilacci di nuvole chiare nel cielo, annullavano tutta la forza delle circostanze
che mi aveva obbligato a vestirmi, a prendere i documenti e a uscire per andare a
ripresentarmi in fabbrica.
Ma in quel momento la corriera andava veloce e io non potevo scendere.
Arrivato davanti alla fabbrica non potevo più tornare indietro; anzi dovevo
proseguire e con aspetto sicuro per non far vedere a nessuno la mia incertezza e
per mostrarmi forte del mio buon diritto.
Arrivai così all’Ufficio Personale. Fui ricevuto quasi subito ma con altrettanta
fretta l’impiegato che mi ascoltava mi interruppe per dirmi che prima dovevo
andare assolutamente in infermeria per i controlli e per misurare la mia
adattabilità fisica a un lavoro o a un altro. «Ma il mio lavoro è alle frese», obiettai,
senza parlare dell’infermeria e della mia repulsione ad andarci, per non
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insospettirlo.
«Era, alle frese, e può darsi che lo sia ancora. Ma il medico deve dirmi che è
adatto».
Capii che in quel momento non bisognava avere più reticenze. «Allora il dottor
Tortora è più bravo del professor De Saint Martin? E il professore di persona che
mi ha curato e che mi ha dichiarato abile a qualsiasi cosa. Che c’entra il medico
della fabbrica? Chiedete al capo e non al medico e fatemi lavorare. Venite poi a
contarmi i pezzi».
«Eppure è necessario che lei passi prima all’infermeria. Poi io potrò assegnarle
il nuovo posto di lavoro».
Chiamò una guardia e senza più rivolgersi a me, disse:
«Lo accompagni, per favore, in infermeria. Dica che è urgente».
Dico subito che in infermeria fu lo stesso Tortora a visitarmi. Fu molto
sbrigativo; ammise la mia guarigione e certificò che potevo riprendere il lavoro
subito.
«Alle frese?»
«Sì, sì, anche. Ma lei è specializzato?»
«No, aspettavo la qualifica, quando lei mi mandò in sanatorio».
«Allora? è indifferente il tipo di lavoro. Potrebbe andare in montaggio o ai
magazzini o..».
«No, voglio tornare da Grosset, alle frese».
«Bene. Io scrivo di sì. Però riterrei opportuno anche una visita di controllo del
professor Bompiero, domani o dopodomani. In fondo è lui che l’ha curata».
Ecco, pensai, ecco che ricominciano con i controlli; ecco che uno mi manda
dall’altro; ecco che mi rifanno i discorsi mettendo ciascuno una parola, una
parola sempre più cattiva, sempre più cattiva, fino alla fine.
Arrivato di nuovo all’Ufficio Personale, era ormai mezzogiorno. Cessò il rumore
della fabbrica e cominciò quello delle voci, dai corridoi e dalle officine. A quell’ora
alcuni venivano a comunicare qualche cosa all’Ufficio Personale; arrivavano in
silenzio, si sistemavano sulle sedie della sala d’aspetto ed evitavano l’un l’altro di
guardarsi. Pensione, cambio di posto, aspettativa, assunzione al lavoro di
congiunti, lotte con i capi, erano i motivi che li portavano su quelle sedie, in quel
silenzio Alcuni si presentavano regolarmente una o due volte alla settimana o al
mese, come se gli bastasse parlare. Prendevano tutti i pretesti per andare a
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parlare, specie se questo poteva avvenire in orario di lavoro; chiedevano
informazioni per la malattia, per la scuola dei figli o facevano domanda di un
alloggio, di un prestito, di un aumento, di un vitto speciale, di un trasferimento.
Uno di questi diventò Pinna, che cominciò tutta una serie di traffici sugli asili,
sulle colonie, sulle mense, sulle case, al punto da diventare noioso, forse anche
per se stesso. Alla fine non faceva un passo senza chiedere qualcosa a qualcuno e
finì addirittura per cancellarsi dal Partito Socialista. Altri invece andavano a
dichiarare i torti subiti, e di questi fui io, che più di tutti parlai e che meno venni
ascoltato. A cominciare appunto da quel 20 di maggio.
Dovetti tornare nel pomeriggio, non prima delle cinque.
Allora, l’impiegato della mattina mi assegnò temporaneamente a un reparto di
fresatrici diretto dal capo Manzino. Io dissi che volevo tornare da Grosset, che lì
era il mio posto. «Starei fresco», rispose e mi comandò di presentarmi il giorno
dopo da Manzino all’officina C.
Non obiettai più e uscii sulla strada. Aspettai Grosset e riuscii a rintracciarlo
che stava salendo su una topolino.
Gli raccontai ogni cosa e gli chiesi di prendermi nel suo reparto. Egli fu
contento e mi accompagnò al caffè dell’angolo dove mi offrì da bere. «Perché non
hai voluto vedermi in sanatorio?» mi chiese. Mi accompagnò al treno e mi promise
di interessarsi per riavermi con sè.
Durante il viaggio di ritorno mi sentivo poco bene, per l’agitazione in cui avevo
trascorso tutta la giornata e per quel vermouth che avevo bevuto e che mi ballava
tra lo stomaco e la bocca. Tanto più che a mezzogiorno non avevo mangiato per
restare ad architettare i miei discorsi per l’Ufficio Personale; i discorsi che non
avevo potuto fare e che mi rimanevano in gola come il vermouth, con tutte le idee
che avevo così ben ordinato e che invece erano state sovvertite dalle conclusioni.
L’ultima speranza era Grosset, anche se proprio lui mi aveva consegnato alle
guardie. Pensavo poi che il suo rispetto per il lavoro gli avrebbe impedito di lottare
contro la fabbrica anche se per fare un piacere a me.
Come sempre, mi consolai camminando per la strada verso casa mia. Sul lago
erano sospese, né alte né basse, delle nebbie azzurre; solo sul lago, come un
fumo. Il cielo era sereno e già aveva alta, sotto i veli del giorno, una piccola luna.
«Vedi Albino», pensavo, «se tutti i tuoi mali fossero come quelle nebbie che la luna
a mezzanotte avrà sicuramente consumato.
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Ancora prima di coricarmi, infatti, vidi dalla finestra che tutto era sereno e che
la seta dell’indiano luccicava sul muro del fienile. Era tardi, perché mia madre mi
aveva trattenuto. Mi sentivo afflitto dal fatto che lei in giorni come quelli, per me
decisivi, mi avesse parlato solo dei soldi, dei soldi che l’assistenza avrebbe dovuto
darmi. Eppure per mezzo del cappellano io le avevo fatto avere dal sanatorio una
delega firmata per poter riscuotere tutti i contributi che mi venivano. In sanatorio
ero fra i più poveri e dovevo leggere i giornali e i libri degli altri. I dolci che
conservavo per Vera erano quelli che mi avevano mandato dalla fabbrica.
Dalla finestra veniva il chiarore della notte, che pur con la sua anima
silenziosa mi teneva compagnia giocando sul davanzale. Ma dovevo dormire per il
giorno dopo.
Il giorno dopo ripresi la corriera della fabbrica; mi accettarono ma dovetti
restare in piedi. C’era sulla corriera gente che non avevo mai visto, molti giovani e
molte donne, ragazze. Non volli rispondere alle occhiate di tutti e non volli
prendere nessun atteggiamento.
Mi presentai a Manzino Pier Mario, perito industriale, simulando una
tranquillità che non potevo avere.
Egli mi ricevette con grande gentilezza, mi strinse la mano e mi disse di essere
franco con lui che mi avrebbe aiutato in tutti i modi. Per ogni cosa, se
naturalmente l’avessi voluto, avrei potuto parlargli direttamente e in qualsiasi
momento; meglio però a pezzo finito e riposto e a macchina ferma, meglio ancora
negli intervalli. Una cosa non poteva soffrire Manzino, sempre a suo dire, il
disordine nel lavoro, l’affanno, la sporcizia, le chiacchiere fuori posto. «Sono i
ciabattini, brutti e malvestiti, che bestemmiano e sputano e che hanno la barba
lunga e i capelli in disordine. Non noi che lavoriamo in un’industria come questa.
Sul panchetto, per favore, non tenete fotografie, giornali, vasetti con fiori, e il
recipiente dell’olio riponetelo nell’apposito scaffalino, sotto il mandrino porta
attrezzi. Andremo d’accordo».
Voleva la tuta sempre pulita e le scarpe e non gli zoccoli di legno. «Per un
principio antinfortunistico», diceva, «e per il rumore orribile. Non siamo lattai».
«Siamo rotti nel c..». disse tra i denti uno dei più alti del reparto, Gualatrone,
con l’aria di aver sentito molte volte il discorso di Manzino e di averne capito
anche la sostanza nascosta.

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* 11 *

Quella mattina che cominciai a lavorare fui interrotto due volte da Manzino:
«Se stai più alto con la testa, segui meglio con l’occhio la linea d’uscita del pezzo».
«Più piano sul motore, leggermente. Va benino, va benino».
Capii presto perché Gualatrone e molti altri non potevano soffrire Manzino.
«Un giorno o l’altro l’abbranco nel cesso... « diceva Gualatrone per sfogarsi e allora
rideva e poteva riprendere il lavoro. Gualatrone purtroppo era un altro comunista
della fabbrica.
«E cosa se no? E, chiaro come il sole, come il sole», e s’illuminava tutto come
se davvero in quei momenti di fede gli spuntasse davanti un sole luminoso.
Manzino era molto riservato con Gualatrone, secondo quello che lui stesso
diceva. «Non contesto niente.
Non voglio però che lavori in canottiera e che parli troppo».
Gualatrone e Manzino passavano per essere due fra i più belli della fabbrica.
Manzino era appena più alto e lo sembrava ancora di più con il suo camice grigio
accollato, e stretto. Molte ragazze passavano dal nostro reparto per vedere
Manzino e Gualatrone. Per questo Manzino aveva messo il suo tavolo di lavoro in
cima al reparto, verso i corridoi, e aveva sistemato Gualatrone in mezzo alle file,
dove era più difficile arrivare a scoprirlo.
Questa storia era la vita del nostro reparto: non si poteva parlare, non si
poteva tenere il giornale, ci si poteva muovere poco. La vita del reparto erano le
ragazze che si facevano vedere, i versi di Gualatrone e i discorsi imbarazzanti di
Manzino, che chiedeva confidenza e che era sempre intorno a domandare sì o no.
Il lavoro però andava bene e c’era anche il vantaggio, almeno per me, che noi del
reparto non stavamo uniti; non avevamo cioè cose e discorsi in comune. Quando,
uscendo e entrando, Gualatrone sulla soglia del reparto aveva finito di fare i suoi
discorsi, ci separavamo e non c’incontravamo più. Forse anche perché Manzino ci
chiedeva proprio il contrario.
I primi giorni andavo sempre da Grosset a chiedergli notizie del trasferimento,
finché mi disse che la cosa poteva essere vista solo dopo le ferie.
Incontravo Pinna raramente; era sempre lui che veniva a cercarmi perché
molta della mia amicizia per lui era caduta quando nel rivedermi dopo il sanatorio
mi aveva abbracciato e baciato, come nessuno, che gli altri forse avevano ancora
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paura del contagio, ma mi aveva anche detto: «Pensa, diciassette mesi, Albino, ed
eri sano! Se stavi male davvero, quanto tempo ti avrebbero tenuto?»
Non mi piacque lo spirito della sua zucca. Il peso di quel «se» mi cadde dentro
e batté sul coperchio dei miei pensieri, mi fece venire in mente un’altra misura.
Due giorni dopo che lavoravo nel reparto di Manzino fui chiamato
dall’infermeria per la visita di controllo del professor Bompiero. Non contento di
avermi bussato, guardato, rigirato, l’illustre professore voleva rifare una serie di
lastre. Adesso ricominciano, pensai; ricominciano a sentire, ad accanirsi contro di
me. La sera, invece di ripartire subito, tornai dal Commissario di Pubblica
Sicurezza e gli lasciai un messaggio: «Il professor De Saint Martin mi ha
dichiarato guarito a tutti gli effetti in data 16 maggio 1949. In data successiva di
pochi giorni, durante i quali è da escludere che possa essersi riaperto un
processo patologico a carico dei miei polmoni, il professor Bompiero
malignamente vuol operare altri controlli allo scopo di pescare nel torbido. Cosa
ne pensa la P.S.? Chiedo la sua protezione».
Lo stesso discorso feci la sera a Candia al maresciallo dei carabinieri.
Solo questi interventi e la protezione assicuratami poterono darmi tranquillità
e la forza di presentarmi a fare le lastre. Speravo anzi, dentro di me, che il giuoco
di Tortora e Bompiero si scoprisse, che avessero il coraggio di dire subito che le
lastre mi fotografavano di nuovo malato, e che di nuovo essi proponessero di
allontanarmi dalla fabbrica. Allora sarebbe scattata la trappola; ma per loro, con
l’irruzione della P.S. e dei carabinieri di Candia. Purtroppo, come ho accertato
solo in seguito, anche questi, almeno i capi, erano già, come lo sono ancora,
complici di Tortora e forse quella sera stessa avevano provveduto ad avvertirlo.
Cosicché Bompiero si piegò, e dovette accontentarsi di dire «instabile» e poi per
la sua cattiveria naturale «sì, sì, instabile» e ancora perché la sua bocca non
tradisse l’amarezza del suo cuore «molto instabile».
Non ascoltai tutte le premurose raccomandazioni che mi faceva, le istruzioni
che mi dava. Lo guardavo attentamente pronto a chiudergli la bocca. Non disse
quel che temevo; disse solo «periodo di precauzioni». Avendo capito che potevo
uscire e che il suo discorso non mi avrebbe impedito di continuare a lavorare,
almeno per il momento, accettai ogni cosa senza reagire, senza gridargli niente di
quello che mi ero preparato.
Tornai in reparto sollevato di molte preoccupazioni.
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Sorrisi io stesso a Manzino e passai le mani, come per la prima volta, sulla
fresatrice. Era dello stesso modello di quella che avevo usato da Grosset; più
nuova e meno rumorosa ed era disposta in modo che lavorando non si era
disturbati dagli altri della fila. Questo mi consentì di riprendere a lavorare senza
fare lo sforzo di modificare il mio atteggiamento, potendo io continuare a essere
solo con la mia soddisfazione. Non avevo bisogno di acconciarmi per gli altri,
tanto più che nessuno poteva conoscere la mia vicenda e venirmi a chiedere
notizie come invece avrebbero potuto fare Grosset e Pinna.
Dietro il motore della fresa andavo ordinando i miei pensieri; ma, come
sempre, l’ordine peggiorava la mia situazione perché i miei pensieri in fila
s’indirizzavano fatalmente verso i miei mali. Così, anche allora, giorno di vittoria
per me, i miei pensieri si moltiplicavano, prima in una oscurità che confondeva
ogni mia sicurezza e tranquillità di vittoria e poi in una prospettiva più chiara alla
fine della quale, come un altare, si ergeva il grande colonnato dei miei mali. Come
potevo infatti considerare sconfitto Bompiero? Se egli aveva già avuto la
spudoratezza di mettere in dubbio, a pochissimi giorni di distanza, il referto
sicurissimo e provato del professor De Saint Martin, che cosa non avrebbe avuto
il coraggio di dire e fare contro di me una volta che fossero passati soltanto dei
mesi?
Cercai di tranquillizzarmi, stabilendo tre punti fermi per la mia condotta:
evitare le visite in infermeria; rivolgermi spesso per controlli al professor De Saint
Martin; tenere avvertiti i carabinieri e la polizia. In più, lavorare bene per non
avere incidenti e storie nella fabbrica, vivere in pace con mia madre e pregare.
Ero invece incerto sulla mia intenzione di tornare da Grosset. Là almeno due
sapevano della mia malattia e così potevano tenerla in vita e potevano cedere più
facilmente agli attacchi dei medici, ritirando fuori, all’occasione, la storia
precedente; e Grosset e Pinna l’avevano perfettamente creduta, come avevano
dimostrato con le loro attenzioni, le visite in sanatorio, i doni di frutta e di
cioccolata.
Di qua ero assolutamente nuovo e forse Manzino avrebbe potuto veramente
aiutarmi in caso di bisogno, come era pronto a promettere in ogni discorso.
Grosset però indirizzava e aiutava nel lavoro con una occhiata, mentre Manzino
veniva intorno troppo spesso, con tutti quei suggerimenti che confondevano
soltanto. Manzino era più antipatico e pesante ma aveva il vantaggio di non
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sapere nulla della mia malattia, e anche quello che il suo reparto era disunito,
senza compagnie e curiosità. Mi conveniva quindi lasciare andare la mia richiesta
per conto suo e rivederla caso mai, come aveva detto Grosset, dopo le ferie. Nel
frattempo mi sarei potuto rendere conto di ogni convenienza. A questo punto
cessò il rumore delle macchine e Manzino, che si era già tolto il camice, mi
chiamò per invitarmi a smettere il lavoro.
Mentre gli passavo davanti mi domandò che cosa volevano in infermeria.
Fu il primo segno che non ero perdonato, il primo di tanti segni che la
fabbrica non perdona; non perdona chi è solo, chi non si arrende al suo potere,
chi crede alla giustizia umana e invoca la sua clemenza; la fabbrica non perdona
gli ultimi.
Ebbi il coraggio allora di rispondere a Manzino che in infermeria avevano
voluto da me soltanto delle informazioni. Servivano al professor Bompiero per
chiudere la mia pratica, con tutte le righe di una completa guarigione.
Manzino mi guardò ancora sorridendo: «Bene», mi disse, «sono contento. Il
personale deve essere in buona salute per poter lavorare con buon rendimento e
sua soddisfazione. I malati non li accetto; non è giusto. Chi è malato ha diritto di
stare a casa».
Oggi conosco bene il diritto di stare a casa; so che cosa vuol dire aspettare di
guarire, o, meglio ancora, aspettare ogni giorno, ogni mattina che il treno entra
nella galleria sotto la collina, di essere ripreso a lavorare; di poter uscire,
scendere dal letto, vestirmi, andare a lavorare.
Il diritto di stare a casa è già l’inizio della morte. Allora però mi impressionò di
più la dichiarazione di Manzino che non voleva malati. Mi sembrò diretta contro
di me, già legata alle intenzioni di Tortora e Bompiero.
Mi salvò in quel momento Gualatrone che mi domandò, con una forza che non
mi consentì certo di rimanere a parlare con me stesso, se Manzini andava
cercando di crearmi qualche fastidio. «È il tipo, quello, che per sentirsi importante
ha sempre bisogno di attaccarsi a qualcuno».
Vicino a Gualatrone mi sentivo protetto. Gli invidiavo le mani che si lavava
sotto il rubinetto; si lavava il collo e le spalle e si gettava con le mani l’acqua sotto
le ascelle, che erano profonde e strette fra la massa dei muscoli. Profumava
dolcemente, in modo sempre più forte, e aveva davvero quel modo di essere
bagnati e di brillare che hanno i garofani. Per timidezza non mi accompagnai a lui
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per andare alla mensa; trovai una scusa e presi un’altra strada.
Con Gualatrone potevo stringere una buona amicizia; ma nella fabbrica ho
perduto anche quella.

* 12 *

Passarono quelle settimane prima delle ferie senza altri incidenti. Faceva
molto caldo e io lo soffrivo in modo visibile anche agli altri. Gualatrone mi fece
una bella spirale di cartoncino che si muoveva sopra la fresa: mentre lavoravo mi
sembrava una torre, una bandiera. Mi ricordava però la terrazza del sanatorio, a
giugno e luglio dell’anno prima, dove il vento leggero muoveva le tende del
refettorio; verso le due il rumore delle tende era l’unico che si sentiva.
Alla metà di luglio fui chiamato all’Ufficio Assistenza.
Conoscevo già quell’ufficio, perché aveva dato soldi a mia madre durante il
mio ricovero. Anzi mia madre, quando ripresi a lavorare, mi spinse più di una
volta a tornare all’Assistenza per chiedere sussidi. Io ci andai una volta sola ed
ebbi un piccolo aiuto. Ricordavano appena il mio nome e sapevano di avermi
aiutato per necessità familiari a seguito di malattia. Tornai quindi in quell’ufficio
senza preoccupazioni. L’impiegato mi disse che il mio nome era nelle liste,
preparate dall’infermeria, di quelli che potevano andare in ferie in montagna a
spese della ditta. Il suo tono era così sbrigativo, che anch’io potei subito
chiedergli: «Che liste sono?»
«Sono le liste dei malati, dei convalescenti, che prepariamo in base a un
punteggio dell’infermeria».
«Sappiate che io non sono malato e non sono convalescente perché non sono
mai stato malato. Non ho bisogno di alcun punteggio, né di soggiorni climatici in
sanatorio. Io sto bene e nelle ferie starò ancora meglio, a casa mia».
«Debbo solo dire che non si tratta di sanatorio, ma di un albergo in Val
d’Aosta, libero a tutti».
Dissi che io non potevo accettare di essere di nuovo incluso nelle liste dei
malati; altrimenti avrei anche richiesto un sussidio. Non ero malato e l’infermeria,
cioè il dottor Tortora, doveva smetterla di trovare ogni mezzo per farmi credere
tale a me stesso e agli altri.
«Rinuncia?» mi chiese l’impiegato, senza quello stupore che mi sarei aspettato
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per il mio gesto, e non perché fosse ribelle o inconsueto ma perché era giusto e
preciso contro gli inganni di Tortora. L’impiegato dimostrò di non capire niente e
quando gli risposi di sì abbassò la testa sul suo tavolo e tirò una riga rossa sul
mio nome; alla fine della riga scrisse una erre maiuscola, rossa, l’unica del foglio.
L’idea di quella lettera rossa, sola nel foglio, mi perseguitò per alcuni giorni. E
se i medici avessero preso a pretesto la mia rinuncia per ricominciare con gli
interrogatori e le visite? Capivo di aver trasgredito alle regole che avevo io stesso
deciso per la mia condotta, tali da non lasciare ai medici e a nessun altro il più
piccolo degli appigli. E se l’Ufficio Personale o lo stesso, solerte Manzino, avessero
equivocato sui motivi della mia rinuncia, sino a pensare che io, per mia precisa
volontà o per i miei personali problemi, non mi sentivo completamente a posto
nella fabbrica e nel lavoro? Non sarebbe stata questa un’altra spinta alle
intenzioni di Tortora e della sua cricca? Finché tre giorni dopo decisi di telefonare
all’Ufficio Assistenza per annullare la mia rinuncia e per dichiararmi pronto a
passare le ferie nell’albergo del soggiorno climatico.
Mi risposero che il mio posto era stato occupato da un altro e che non
potevano riammettermi in nessun modo. Chiesi allora di non essere più
considerato rinunciatario e che cancellassero dal mio nome la riga rossa e la erre;
dissi che in realtà io non rinunciavo più, come poco prima avevo affermato, e che
se non andavo al soggiorno climatico dovevano considerare a questo punto che
erano stati loro dell’ufficio a escludermi. Quindi cancellassero almeno la erre.
Purtroppo il mio intervento fu inutile. Qualche giorno dopo, quando io
cominciavo a tranquillizzarmi per come ero riuscito a sistemare le cose, Tortora
mi chiamò in infermeria. Non mi presentai ma lo stesso pomeriggio qualcuno
telefonò a Manzino, qualcuno di cui non occorre fare il nome, per avvertirlo di
quel che succedeva.
La fabbrica con tutta la sua organizzazione si era rimessa in moto contro di
me. Dopo la telefonata Manzino mi chiamò presso il suo tavolo. «Il dottor Tortora
vuol vederti», mi disse, «e tu devi andarci; non puoi rifiutarti in nessun modo. Il
dottore è medico di fabbrica e può a sua discrezione, nell’interesse della fabbrica
e tuo, disporre visite, controlli, ecc... Vuol rendersi conto delle tue capacità».
«Ma tra la fabbrica e il medico c’è differenza».
«Che cosa vuol dire? Non c’è nessuna differenza. Il dottor Tortora decide certe
cose per conto della fabbrica».
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«Ma la fabbrica ce l’ha con me? Ha qualche motivo di farmi male?»
«No».
«Invece Tortora sì. Tortora ha deciso di rovinarmi. Dal primo giorno, in tutte le
occasioni. La fabbrica non centra niente, anzi dovrebbe aiutarmi».
«Perché Tortora ce l’ha con te?»
«Non lo so, per cattiveria, forse».
«Non ci credo. In ogni caso tu devi andare da lui e dichiarare francamente le
tue ragioni. E poi puoi sempre ricorrere alla Presidenza».
«Alla Presidenza?»
«Sì, alla Presidenza della ditta. Lì potranno anche distinguere tra la fabbrica e
il medico. Ricordati intanto che il dottor Tortora ti aspetta domattina alle nove.
Vuol solo parlarti. Io ti dico che se non andrai da lui non potrò riprenderti a
lavorare».
Tornai al mio posto e già sentivo sulle mie spalle prossima la fine, la fine di
tutto. Gualatrone mi guardò; si mosse intorno alla sua macchina per potermi
guardare e mi fece un segno con tutte due le mani, come di prendermi in braccio,
di sollevarmi, un segno di aiuto. Continuai a lavorare, guardando spesso le mie
mani e le mie braccia, per convincermi di essere presente. All’ora di smettere il
lavoro Manzino tornò da me e mi disse: a
«Allora ricordati del dottor Tortora domattina, e sta’ tranquillo che le tue
buone ragioni potranno essere ascoltate».
Al ritorno, in treno, venne a sedere accanto a me Giuliana, una delle ragazze
che servono alla mensa. La conoscevo poco. Sapevo soltanto, oltre il suo nome,
che abitava dalle mie parti. Oggi so benissimo che cosa già volesse fin da quella
sera con i suoi discorsi sul lavoro, sulla vita della fabbrica e su quella dei paesi.
Mi stette vicina per tutto il viaggio, tanto che la sua borsetta batteva anche sulle
mie ginocchia. «È caldo», diceva, «è caldo. Alla mensa il caldo è insopportabile.
State meglio voi altri nei reparti. In che reparto è lei? La vedo ogni tanto con
Gualatrone. Ma da quanto tempo mangia in mensa lei?»
I suoi discorsi mi sembravano gentili e mi distraevano dalla mia paura
d’incontrare il giorno dopo il dottor Tortora. Guardavo le sue braccia che uscivano
dalle maniche della blusa, belle e rosa, di bionda più nella carne che nel colore
dei capelli. Di biondo fra i capelli aveva un ciuffo ricciuto che, parlando, si
toccava e si accomodava ogni tanto per ripetere le parole. Così muoveva spesso le
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mani che poi posava sulla borsetta vicino ai miei ginocchi. Erano anch’esse molto
colorite e avevano le unghie spezzate. Sembravano le mani di un ragazzo intorno
ai quattordici, quindici anni; mani veloci, né di uomo né di donna. Nessuno
avrebbe potuto pensare che quelle mani avrebbero un giorno cercato di
avvelenarmi.
Quando il treno arrivò a Candia, strinsi la mano alla ragazza e mi avviai verso
il paese. Volevo di nuovo avvertire il parroco e il maresciallo dei carabinieri di
quello che stava succedendo; ma non riuscii a trovare né l’uno né l’altro. Alla fine
pensai che era meglio avvertirli l’indomani, dopo aver parlato con Tortora. Così
sarei stato al corrente dei suoi disegni.

* 13 *

Tortora mi ricevette subito. «Buon giorno», mi disse, «come va? come si sente?
E contento del lavoro? Perché si comporta con me, con i medici, in questa
maniera?»
Io tacevo, non avevo certo l’intenzione di cadere nelle trappole del caro dottore.
Insisteva con la sua bocca rotonda, con le sue dieci dita enormi che batteva sul
tavolino. «Adesso perché non vuol andare in montagna?
Cos’è quest’ultima novità? Fanno a gara, cercano di imbrogliarci in tutti i
modi per poter andare a villeggiare a spese della ditta e lei lo considera un torto.
Ma perché mai? Io cerco in coscienza di agire nel suo interesse. Lei era malato;
oggi, dopo tutte le cure sta meglio, quasi bene, e proprio nel periodo più delicato
della convalescenza lei si tira indietro. Ora lei deve essere franco con me; deve
dirmi quale oscuro pensiero la fa dubitare, la tormenta al punto da renderla
sospettoso, incerto».
Non potevo dire i miei pensieri; nel momento stesso in cui l’avessi fatto mi
avrebbero cacciato dalla fabbrica.
Gli dissi soltanto: «Io sto bene e non ritengo necessario curarmi di mali che
non ho. Io posso continuare a lavorare tranquillamente».
«Questo dobbiamo dirlo noi, caro ragazzo, se lei sta bene o sta male. E noi
abbiamo fatto più analisi e lastre per lei che per un reparto intero. Ma non debbo
certo giustificare il mio operato e quello del professor Bompiero. I nostri risultati
sono indiscutibili. Non debbo giustificarmi. Anzi la prego di non mettere in giro
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voci malevole sul mio conto o sull’infermeria perché allora non potremo essere più
amici. Ho qui il bigliettino che lei ha lasciato tempo fa al Commissariato. Loro
stessi hanno ritenuto, nell’interesse di tutti, di chiarire in tal modo le cose e di
lasciarmi arbitro della situazione.
Avrebbero potuto farle passare un brutto quarto d’ora: diffamazione, ecc..».
«Ma il professor De Saint Martin?»
«Va bene, ecco il grande nome! Allora le dirò tutto.
Sa che il professor De Saint Martin lavorava in questa infermeria prima del
professor Bompiero? e sa che, data la sua età, non fu ritenuto adatto a svolgere
una mole di lavoro tanto grande e nel rispetto di termini precisi come la fabbrica
impone? Questo vuol dire che De Saint Martin oggi è risentito e che dice,
purtroppo e, voglio credere, in buona fede, bianco dove noi diciamo nero e
viceversa. Se noi l’avessimo trovato sano egli l’avrebbe subito definito malato.
Dimetta, quindi, ogni incertezza; si fidi di noi e vada in montagna. Penserò io a
farle ridare il posto. Dopo la montagna noi dovremo ancora rivederla e con il
nostro aiuto..».
Cosa potevo rispondere a un discorso come questo?
Ne sentivo la falsità in ogni parola e nella dolcezza del tono. E proprio per
questo non potevo reagire. E non potevo reagire neanche per convenienza; egli
aspettava che io dicessi la verità. Infatti tutta la situazione era cosi basata sulla
menzogna, come tutta la fabbrica, ormai intorno a me, che il dire la verità mi
avrebbe immediatamente messo fuori.
Non dissi nulla e accettai di andare in montagna, a Valtournanche, in Val
d’Aosta. Non era un sanatorio; era un albergo, dove noi della fabbrica
occupavamo tutto un piano. Dormivamo in due per stanza e mangiavamo
benissimo, dalla prima colazione, al pranzo, alla merenda, alla cena. Facevamo
delle brevi passeggiate; ma non tutti.
Io passeggiavo la mattina e la sera; il resto del tempo dormivo o leggevo. Prima
di partire avevo preso alcuni libri in biblioteca, in italiano e in francese, per
tentare di riprendere un poco la lingua della mia infanzia. Avevo preso anche un
libro proprio sulla Val d’Aosta: Le lépreux de la cité d’Aoste. Questo libro, che
leggevo lentamente, cominciò ad appassionarmi tanto che molto spesso piangevo
insieme al povero lebbroso, comprendendo quanto la sua sorte fosse crudele e
quanto la mia potesse ancora diventarlo. Quando fui alle pagine in cui la sorella
101
del lebbroso muore, non riuscii a trattenere la mia commozione e sentii terribile
la mia solitudine, tanto che la notte stessa, d’accordo con colui che dormiva
nell’altro letto della stanza, lasciai l’albergo e il paese per tornare a casa.
Giunsi a casa con una grande felicità, con il cuore aperto su ogni cosa, dal
viale agli alberi, alle imposte.
Mia madre mi ricevette stupita, con delle domande così ordinarie che
avvilirono parecchio del mio slancio. Pensavo anzi, guardandola e vedendola
vecchia e ingorda, diffidente di tutto, se proprio per lei io ero sceso dalla
montagna camminando tanto prima di giungere al treno e, dopo tanto guardare,
non riconoscevo in lei quasi nessuna di quelle immagini che mia madre aveva
dentro il mio cuore. Il giorno stesso tornai a Valtournanche e arrivai che gli altri
stavano andando a dormire. Il mio compagno di stanza che, come al solito, era
andato a letto subito dopo cena, doveva aver fatto credere agli altri che io mi ero
assentato per una storia di donne.
Ero molto avvilito. Andai a letto e tenni con me il libro del povero lebbroso.
Il tempo in montagna passò presto e le piogge degli ultimi giorni mi calmarono
molto, mettendo il mio cuore in quella stagione calma e affettuosa che è per me
l’autunno.
In città però c’era ancora una brutta estate e il lavoro era ancora assai
faticoso. In giro parlavano che avrebbero ristretto i tempi del cottimo e che i
sindacati avrebbero chiesto un aumento della paga oraria. Manzino era tornato
dal mare tutto abbronzato e con i capelli tagliati più corti. Gualatrone ce l’aveva
con il cottimo e con Scelba. «Più lascerete governare Scelba e più vi accorceranno
i tempi», diceva, chiudendo il discorso con una bella risata. «Va là», gli disse
Manzino una volta che lo sentì uscendo dal reparto. «Va là che Scelba non sa
nemmeno che cosa sono i tempi del cottimo». «Bell’ignorante, allora», rispose
Gualatrone.
Quello stesso giorno dovetti presentarmi a Tortora.
Mi disse che il soggiorno mi aveva fatto indubbiamente bene e che non
riteneva necessario aggiungere nessuna cura, caso mai un poco di vitamina C
prima dell’inverno per premunirmi contro i mali di stagione. Ma tutta la sua
bontà, come sempre, si scoprì prima della fine, quando mi annunciò che verso
novembre sarebbe stato opportuno che Bompiero mi rivedesse. Avevano tracciato
la pianta dei loro disegni e andavano avanti gradualmente, con una cattiveria che
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non poteva mancare il successo finale. Allora tentai anch’io una carta e,
seguendo quanto prima delle ferie mi aveva detto Manzino sulla Presidenza,
scrissi una lettera sul dottor Tortora e sul suo modo di comportarsi. Ritenni
giusto scriverla in quel momento di pausa, quando tra Tortora e me non c’erano
questioni, in modo che non fosse interpretata come una difesa.
Ero stato ammaestrato anche dal bel modo di agire della P.S. che aveva
passato il mio biglietto proprio a Tortora. Quindi la mia lettera diceva: «E se un
medico di fabbrica sbaglia? e se ci sono pareri contrastanti? Chi può stabilire la
verità su un certo caso anche in modo che l’autorità non possa essere esplicata
come un arbitrio o per calcoli o tornaconti personali o, peggio ancora, per
perseguitare altri del nostro prossimo di operai?»
Dopo tre giorni ebbi una risposta che ancora conservo.

Caro Sig. Saluggia,


rispondiamo alla Sua lettera per incarico diretto del Presidente, che ci ha
invitati anzitutto a dichiararLe il suo rammarico di non poterlo fare di persona, a
causa di tutti gli impegni del suo lavoro, resi ancora più pesanti e urgenti
dall’imminenza di un lungo viaggio in America.
Possiamo dirLe che il Presidente ha considerato con la massima attenzione
quanto da Lei espostogli e che alla fine ha espresso stupore per la sostanza della
sua lettera e rincrescimento per la condizione di disagio che certamente glieLa ha
dettata. Possiamo precisarLe che in via di principio la nostra organizzazione,
basata su un sicuro sistema di controlli, che per altro non toglie a nessuno in
qualsiasi grado della gerarchia aziendale il senso e la responsabilità del proprio
lavoro, esclude che possano verificarsi casi di prepotere o, peggio, essere emessi
giudizi comunque lesivi della libertà di chi partecipa alla vita delle nostre
fabbriche, espressi poi per una deliberata intenzione di offendere e di nuocere.
Esiste pertanto sempre la possibilità di adire ai diversi gradi del potere aziendale
che hanno proprio la funzione di correggere eventuali errori o difformi
interpretazioni delle norme stabilite, per la tutela di tutti e di ciascuno.
In sede tecnica, come quella medica, i giudizi possono essere controllati da
supervisori e consulenti, come appunto nel suo caso, sul quale si è espressa
l’autorità scientifica del professor Bompiero.
Vogliamo poi dirLe che, anche al di fuori delle vie normali di comunicazione
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previste dalla nostra organizzazione, non ci è mai giunta notizia men che
rassicurante sulla capacità e sull’equanimità dei nostri medici, specie del dottor
Tortora, per il quale il nostro Presidente nutre la più completa fiducia.
Speriamo che questa nostra lettera possa ridarLe quella tranquillità possibile
per tutti coloro che lavorano nella nostra Azienda, e La invitiamo a mettersi con
assoluta fiducia nelle mani del dottor Tortora e dei suoi consulenti, della cui
attività anche nei suoi confronti noi stessi ci rendiamo garanti.
Con i migliori saluti.
Firmato: dottor Oscar Carpusi
Segreteria della Presidenza

Lessi questa lettera molte volte, sempre con più paura. Mi sembrava che le
parole stesse con i loro significati, con i loro circoli, virgole, a capo, fossero
un’altra catena di Tortora e che tutte gli assomigliassero, non so bene dove ma
che di sicuro gli assomigliassero. Mi veniva di leggere la lettera con la sua
pronuncia.
Il Presidente, che avrebbe dovuto rispondermi, era soltanto nominato due
volte, all’inizio e alla fine, per dire che aveva fiducia nel dottor Tortora. Se la
fabbrica aveva ormai deciso di schierarsi contro di me, chi avrei potuto avere
dalla mia parte? Nessuno o solo il mio dolore, me stesso, le preghiere, la giustizia.
La giustizia che ancora oggi mi fa resistere.
Due giorni dopo ero convinto che il segretario della Presidenza aveva bloccato
la mia lettera per ordine e suggerimento del dottor Tortora.
Ormai sapevo che Tortora era amico di Carpusi e che per arrivare a chiedere
giustizia avrei dovuto battere un’altra strada. Il vescovo, forse.
Ma Tortora per un bel pezzo non si fece vivo. Io continuavo a lavorare, a fare i
miei viaggi tutti i giorni, a stancarmi. Mangiavo ogni volta in mensa, quasi
soltanto le minestre. L’estate continuava anche dopo settembre e io vedevo dalle
mie finestre che il lago era molto piccolo. Lo guardavo la sera, ancora limpido con
la luna alta e la domenica mattina quando aspettavo che mia madre preparasse il
pranzo.
Arrivarono i giorni dei Santi e dei Morti e ancora dall’infermeria non venivo
chiamato. Capitava che il 1 novembre, festa, fosse in quell’anno di venerdì;
lavorativo il 2 sabato, il 3 domenica festa, il 4 novembre festa ancora. La fabbrica
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fece il ponte, cioè fece festa anche il sabato. In quei quattro giorni dopo tanto bel
tempo cominciò a piovere e piovve sempre più forte. Io sotto la pioggia davo una
sistemata all’orto, perché si riprendesse bene. Scrollavo gli alberelli, i pomidori, le
erbe dalle pieghe dell’estate, e li alzavo perché prendessero bene la prima acqua e
mentre lavoravo pensavo sempre alle mie faccende e a quelle della fabbrica. È
sempre capitato che in fabbrica io mi dimenticassi di casa mia e perfino di mia
madre e mai che a casa io potessi dimenticarmi della fabbrica e del dottor
Tortora. Così, dopo aver pensato e prese alcune decisioni, il 5 novembre andai di
nuovo da Grosset a chiedergli di essere trasferito nel suo reparto e gli feci la
stessa domanda anche per Gualatrone, che era stanco di Manzino.
Grosset disse che non era possibile e che con le ultime disposizioni tutti i
trasferimenti e cambi di posto dovevano essere fatti da un apposito ufficio.
Rividi Pinna allegro come sempre. Mi annunciò che aspettava la qualifica e
che sarebbe presto passato all’attrezzaggio. Gualatrone quando lo seppe disse:
«Dagli altri reparti passano. Qui Manzino ci tiene tutti fermi».
Infatti l’impressione che potevamo dare, e che avevamo noi stessi, era di
essere tutti fermi, l’intero reparto.
Lavoravamo e ci muovevamo ma il modo in cui Manzino ci faceva lavorare,
l’ordine, il silenzio, gli sguardi divisi, la grande pulizia, il suo stesso modo di
parlare, di venirci incontro, di vestirsi e di chiederci le cose sembrava finto, tutto
finto e fermo.
Gualatrone in mezzo reagiva, si affannava, ruotava i suoi braccioni ma anche
lui era sempre uguale e finiva per far parte del quadro. Con lui si parlava meglio
fuori del reparto; mentre tutti gli altri sparivano e non s’incontravano più dopo il
lavoro, Gualatrone appena metteva le mani sotto l’acqua del rubinetto degli
spogliatoi prendeva un altro colore e diventava più bello.

* 14 *

Durante tutto il mese di novembre, mentre aspettavo ancora di essere


chiamato da Bompiero, pensavo anche a quel modo di lavorare nel reparto.
Cominciai a capire che una grande noia ci stava prendendo tutti, anche me che
pure nella fabbrica avevo il mio campo di battaglia.
La fabbrica mi piaceva meno; era meno bella, più usata, più calda e gli stessi
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ingegneri e dirigenti, che una volta passavano nei corridoi come la luce delle
vetrate e sempre quando non passava nessun altro, ora capitava di incontrarli
agli ascensori e di sentirli parlare e ridere.
Anche il lavoro cominciava a piacermi meno e la macchina non
m’entusiasmava più: il suo stesso rumore era pesante. Se non fossi stato io a
manovrarla avrebbe potuto girare a vuoto, per un’intera giornata, senza mordere
il ferro, senza finire alcun pezzo. Questo, certo, lo sapevo anche il primo giorno
ma cominciava a farmi male solo allora. Così tutto diventava più pesante e anche
la macchina era un peso che dovevo portare. I pezzi da fresare poi, tutt’insieme
nella cassetta, davano subito un senso di spavento e dopo di fastidio. Quanti
erano: ognuno uguale all’altro, irriconoscibili; quale sarebbe stato il primo e quale
l’ultimo e perché? Quante volte avrei dovuto fare avanti e indietro, innestarli,
avviare il motore, chinarmi, soffiare, rimetterli a posto? All’inizio, quando i pezzi
finiti erano ancora pochi sembravano nella cassetta tanti poveri orfanelli, vestiti
di grigio con le bocche aperte e i loro denti; quelli da finire, ancora molti di più,
erano prepotenti e sembravano un reggimento di soldati armati di spade. Sulle
spade si creava equilibrio tra le due cassette e un continuo andare e venire.
Alla sera, quando si doveva smettere, quella dei pezzi finiti era brillante sotto
la luce: avevano vinto e sembravano tanti ufficiali orgogliosi e lustri, di fronte ai
pochi sopravvissuti dell’altro popolo. Qualche sera, per non farli splendere troppo
di una gloria immeritata e inutile, lasciavo cadere sopra di essi un poco d’olio
della macchina. Una volta mi vide Manzino e mi disse, sempre sorridente, che
non occorreva che io lo facessi perché i pezzi non avrebbero avuto il tempo di
arrugginire; passavano direttamente al montaggio, la mattina dopo, e non
avevano bisogno di tanta premura. Non aveva capito niente e non capiva che
anche io avrei voluto seguire la cassetta dei pezzi per arrivare in un altro reparto.
Magari con la qualifica.
Così andava la mia giornata dietro la cassetta dei pezzi. Questo misurava il
mio tempo e stabiliva con la sua luce diffusa su ogni pezzo della fabbrica, come in
una visione, che dietro quelle cassette andava la mia stessa vita. C’erano molti
che da vent’anni lavoravano allo stesso modo, ed erano ancora giovani. Il lavoro
non era pesante, ma metteva addosso un tremito, per la lotta che si doveva fare
con il tempo; non con quello della fabbrica ma con tutto il tempo, in generale.
I giorni di vacanza sono fatti per aspettare altre cassette di pezzi. Anche quelli
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che si lamentano dell’alto numero dei pezzi o del rumore o del caldo scrollano
inutilmente la testa contro questi pretesti: la fatica era di usare tanto tempo nella
fabbrica, nello stesso posto, nella inutilità del lavoro.
Quelli che all’inizio mi sembravano i vantaggi della fabbrica a poco a poco
erano diventati i suoi dolori. Coloro che lavoravano nelle officine di Candia
andando avanti e indietro, mettendo in moto i motori e sbattendo gli sportelli, e
che provavano le vernici sulla porta e sui muri, stavano molto meglio. Li vedevo
qualche volta all’osteria che bevevano e parlavano; quelli della fabbrica non li
vedevo più.
Pensai che ottenere la qualifica avrebbe potuto mettermi in un’altra parte e
fuori di questa situazione. Intanto andavo scoprendo meglio gli altri, i miei
compagni. Li vedevo proprio nei loro gesti di lavoro, chi con una spalla più alta,
chi più bassa, chi piegato e chi dritto, tutti con le mani in avanti come a
scaldarsele e a proteggersi.
E come davanti a un fuoco molto forte tutti avevano una smorfia sul viso.
Tutti avevano un muscolo tirato, o le labbra strette, o gli occhi socchiusi o le
sopracciglia aggrottate. Vuol dire che tutti avevano un pensiero che batteva
dentro le loro teste e rimbalzava su tutta la fabbrica e ancora batteva. La fabbrica
non dava distrazioni a tale pensiero: un albero, un uccello, una parola, un
passante. Non bastava levar gli occhi dal lavoro e muoverli in giro: non c’era nulla
che non fosse un pezzo della fabbrica.
Il lavoro stesso non dava alcun aiuto; non richiedeva l’accompagnamento del
pensiero, andava avanti per conto suo tirando le nostre mani perché nella
fabbrica non era possibile fare altro. I discorsi che si facevano erano anch’essi
un’abitudine, sempre gli stessi. Solo quando il lavoro stava per finire e s’aspettava
l’uscita pulendo le macchine e riordinando i posti, si allentavano le smorfie e i
discorsi diventavano diversi, più larghi, anche se solo di due parole.
Soltanto dopo l’uscita sembrava di vedere nella fabbrica finalmente degli
uomini; erano quei pochi che andavano alla mensa della sera, o erano i turnisti
che rimasti soli potevano lavorare meglio. Non si può lavorare tutti insieme, tutti
nello stesso minuto, in quattromila.
Per questo bisognava che io ottenessi la qualifica.
La sera uscivo lentamente dalla fabbrica perché non avevo voglia di correre
ancora a prendere il treno, a ricacciarmi in questa altra fabbrica: scendere,
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salutare ancora dei compagni e poi mangiare a casa, subito. Tanto più che in
quel tempo mia madre dimostrava di non capire nessuna delle mie
preoccupazioni. Uscito dalla fabbrica andavo adagio verso il centro della città;
passavo un momento in biblioteca, sceglievo a lungo ma senza riuscire a trovare
un libro che mi piacesse e camminavo fermandomi davanti a tutti i negozi. C’era
un bar che aveva ancora i gelati, fino a Natale. Entravo un momento a sedere e
prendevo un gelato da cinquanta lire. Spesso era la mia cena perché non avevo
voglia di andare in mensa. Dopo andavo al cinema. Mentre facevo il biglietto
sentivo l’odore del buio e il riposo della sala. Mi mettevo in un angolo, nelle file
davanti, dove c’era di solito poca gente. Lì i miei pensieri si placavano. Finalmente
mi riposavo e m’istruivo. Uscivo dal cinema verso le nove e tre quarti, ripassavo
davanti al bar, prendevo un caffè e andavo dritto alla stazione. Alla tabaccheria
della stazione compravo il pacchetto di venti sigarette che doveva bastarmi fino
alla sera dopo alla stessa ora. Mi faceva piacere al cinema cercare senza guardare
nel pacchetto semivuoto le ultime sigarette.
La sera, quando dalla stazione salivo verso casa, il freddo era già forte e
sentivo il vento sulla mia pelle come sul lago, che già cominciava a correre con le
sue acque da una riva all’altra. Io non portavo ancora il cappotto e mia madre
piangeva perché prendevo freddo; mi domandava ogni volta perché arrivavo così
tardi. Ma io già sentivo addosso un lungo brivido di sonno e di caldo e senza
rispondere andavo a letto.
Indossai il cappotto il 4 o il 5 dicembre, lo stesso giorno in cui dall’infermeria
Bompiero mi chiamò per i controlli. Proprio nel momento in cui avevo quasi
convinto Manzino a chiedere la qualifica. Avevo parlato con lui tre volte, a lungo;
l’avevo accompagnato una sera a casa dicendogli come la mia vita sarebbe
mutata con la qualifica.
Ma la qualifica me la tolse Bompiero. «Torni a lavorare dopo l’Epifania. Se va
avanti così, non finisce l’inverno senza aggravarsi. Mi dia ascolto».
All’uscita mi aspettava l’infermiera più brava insieme a una signorina,
l’assistente sociale.
«Stia tranquillo», mi diceva l’assistente sociale, «non verrà aperta una pratica
INPS. Lei starà a casa come un malato qualunque; anzi come uno che abbia
bisogno di riposo. Interverrà l’INAM e noi le daremo un’integrazione che la porterà
a percepire l’intero salario».
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Io per tutto quel mese di dicembre e per tutte le feste andai ogni pomeriggio al
cinema a Torino; partivo alle tre del pomeriggio da Candia e alle otto e mezza ero
di nuovo in stazione. Due volte sole andai a X, proprio per vedere la fabbrica.
Natale passò senza neve.
Il 7 gennaio tornai a lavorare e andai subito da Manzino a chiedergli la
qualifica. Mi rispose che non era il momento. Tornai dopo quindici giorni e mi
respinse ancora. Sorrideva sempre e io gli dissi: «C’è poco da ridere. Poco assaie»,
aggiunsi, chissà perché, in napoletano.
Senza farmi tornare in reparto mi mandò dall’ingegnere capo officina,
l’ingegner Pignotti. L’altissimo ingegnere passeggiava fumando e quando mi
avvicinai mi guardò incurvandosi come fanno i polli. Quando seppe ogni cosa,
disse: «Torna da me tra dieci giorni». Fui riammesso in reparto e ripresi il mio
lavoro; forzavo deliberatamente il motore con la voglia di spaccarlo. Manzino non
mi diceva niente, perché non se ne accorgeva.
Con quel rumore un altro capo sarebbe arrivato subito.
Questo pensiero mi spinse a ricercare Grosset. Gli raccontai tutto e gli chiesi
ancora di essere trasferito.
«Farò tutto il possibile», mi rispose. «È ancora più difficile ora che c’è di mezzo
anche l’ingegnere Pignotti. Sta’ attento a lui». Mangiammo insieme alla mensa e
lui mi invitava a finire la carne e mi raccomandava di curarmi; che lo star bene
aveva molta più ragione che la qualifica.
Gli risposi che non era per i soldi ma per cambiare.
«Non cambia niente», disse lui. «Quante volte vorrei cambiare anch’io. Sarei
andato con Saragat, che ha tante ragioni. Ma perché lasciare il sindacato, perché
dividerci dentro queste fabbriche? Per vivere qui dentro bisogna avere una grande
forza, in ogni senso».
Era la prima volta che Grosset mi parlava di politica e che parlandomi mi
teneva gli occhi addosso, riuscendo a vincere quella vergogna che altre volte lo
distraeva.
Questa confidenza di Grosset mi consolò e arrivai al giorno in cui dovevo
presentarmi all’ingegner Pignotti.

* 15 *

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L’ingegner Pignotti mi disse subito che si ricordava di me e che aveva pensato
al mio caso e disse ancora che il reparto di Manzino e tutta una grande parte
dell’officina erano per lui un’incognita, un’isola scura nella fabbrica.
«Ma veniamo a noi. Perché tu hai risposto male a Manzino? E uno dei capi
migliori di tutta la fabbrica e credo che vi tratti bene. È proprio questo che con voi
non si capisce; se un capo vi tratta bene e con buone maniere lo chiamate
ipocrita e lo prendete in giro, se uno vi tratta con fermezza allora è un
presuntuoso quando non diventa un aguzzino o un servo del padrone; poi finite
per mettervi dalla parte di certi capi ancora più severi degli altri. Questo è un
altro dei misteri dell’officina. Comunque, per questa volta, io non ti darò
punizioni. Ma m’interesserebbe sapere perché hai risposto male a Manzino. Sei
stato istigato? sono stati i discorsi contro la Direzione che girano in quei reparti a
farti pensare che fosse possibile assumere un tale atteggiamento?»
Non mi diede il tempo di parlare, che da dietro la scrivania e poi
sopravanzandola con i gomiti, fece di nuovo cadere la sua vociona: «I discorsi
vanno fatti fuori e anche lì con giudizio».
Alla fine non avevo capito che cosa volesse l’ingegner Pignotti. Io non avevo
potuto parlare; avevo appena accennato alla qualifica che Pignotti aveva detto:
«La qualifica è niente. Si può avere e non si può avere. Non è la qualifica che..».
Tutto il discorso per me era rimasto in quella frase ambigua, che poteva darmi
modo di dubitare chissà per quanti altri giorni. Ma il giorno dopo fui chiamato
ancora da Pignotti. Questa volta fu più concludente. Partendo da tutti i punti
della mia vita, dalla prigionia alla fabbrica, dalla malattia a mia madre, arrivò a
chiedermi di fare la spia nel reparto. Oggi, avendo capito tante altre cose, posso
esprimermi così; ma allora restai molto confuso e quasi mi rifiutai di capire le
conclusioni delle sue parole. Erano difficili anche perché quanto contenevano di
sottinteso e di allettante le rendeva confuse.
Pignotti rimase male alla fine del suo discorso. Guardava di qua e di là dalla
scrivania, dondolando il capo.
Voleva delle informazioni che potevano servirgli per sapere come meglio
dirigere i reparti, informazioni sugli umori, sui discorsi, sulla gente. «Ha sempre
conto quel che si dice». A quel punto i discorsi inutili contavano e contava anche
la qualifica, perché Pignotti disse subito:
«Nel giro di un paio di mesi, se continuerai a lavorare bene ti farò avere la
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qualifica».
Debbo dire che uscii da quell’ufficio quasi orgoglioso dell’offerta anche se non
mi sentivo subito disposto ad accettarla. Mi convincevo che tutto sarebbe stato
nell’interesse di tutti. Forse sarei riuscito anche a far trasferire Gualatrone. Ma a
poco a poco mi prese una grande tristezza e capii che Pignotti era ancora peggio
di Tortora. Anche lui mi aveva prescelto e in modo ancora più vile. Non ero certo
io l’ultimo operaio che gli era capitato tra le mani e nemmeno il primo. Non mi
conosceva, né qualcuno dei suoi amici mi aveva raccomandato a lui. Perché
dunque voleva che proprio io facessi la spia?
Aveva citato molte delle mie disgrazie e aveva dimostrato di conoscere bene la
mia storia; aveva anche detto «non preoccuparti di Tortora, ci penso io». Che cosa
c’era in me di vile che poteva dare a lui l’appiglio o l’impressione che io potessi
servirlo in quel compito? Pensai che la mia solitudine potesse essere interpretata
da lui come vigliaccheria e come risentimento; ma se aveva così poco capito della
mia storia quanto basso era l’altissimo ingegner Pignotti.
Con questi dubbi ed anche con la speranza che uno migliore di me e più colto
potesse meglio vedere nei discorsi e nelle intenzioni di Pignotti, mi rivolsi in
confessione al parroco di Candia. Questo giovane prete che stimavo cominciò a
dire che tutto gli appariva serio ma non tanto grave come il mio primo giudizio
glielo aveva prospettato. «Sai, Albino, il governo degli uomini è sempre una cosa
difficile. Non possiamo giudicare. E se l’ingegnere lo facesse a fin di bene? E
necessario battere il comunismo, ritrovare ordine e buoni principi; sistemare bene
ogni cosa. La fabbrica è un punto difficile e tu lo sai bene. In fabbrica germoglia il
seme dell’indifferenza verso Dio. Sai che i miei parrocchiani dopo poco tempo che
sono assunti non vengono quasi più in chiesa? Le donne diventano più libere e gli
uomini più orgogliosi.
Forse Pignotti si riferiva proprio a queste cose, che vanno affrontate. Giudica
secondo la tua coscienza. Non allarmarti in anticipo. Prova a riparlargli e cerca di
capire meglio il suo scopo».
«Ma lui vuole che io faccia la spia».
«Eh! che parola grossa! C’è forse in fabbrica la guerra che a qualcuno
occorrono delle spie?»

* 16 *
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«Sì! c’è la guerra», disse subito Grosset quando gli riferii ogni cosa. «C’è proprio
la guerra e Pignotti ci farebbe lavorare con le bastonate se appena potesse. A che
punto siamo ricaduti in pochi anni. Il caro ingegner Pignotti subito dopo la
liberazione sembrava il più mansueto degli agnelli, anzi verso la fine ci aveva
anche aiutati a fabbricare i mitra. Si vede che tutte le vecchie ambizioni l’hanno
ripreso. Vuol comandare, vuol comandare a tutti i costi. C’e proprio la guerra;
finché le fabbriche non saranno di tutti non ci si lavorerà mai in pace. E anche
allora bisognerà stare attenti. Tu però va’ ogni tanto da Pignotti e raccontagli
qualcosa. Digli che la gente dice male della mensa e che si lamenta per i salari, e
basta».
Io non ebbi nemmeno il coraggio di fare questo e non andai più dall’ingegner
Pignotti. Dopo un paio di mesi si diceva che avesse inventato una nuova
macchina e non fu più possibile vederlo; si parlava di lui quasi come del
Presidente. Dopo qualche mese ancora lasciò la fabbrica e l’Italia per andare a
dirigere delle miniere in Brasile. Nessuno lo rimpianse, solo Manzino una volta
disse che Pignotti era un grande organizzatore ed anche Pinna un’altra volta,
ricordando che proprio lui gli aveva fatto ottenere la qualifica.
A quale prezzo, caro Pinna? avrei voluto chiedergli e vorrei chiedergli ancora
oggi che fa lo specializzato; ma io non sono cattivo e non voglio nemmeno pensare
male.
Tutta la storia di Pignotti mi lasciò triste, con dei grossi pensieri su tutta la
fabbrica e la sua vita. Non mi bastavano nemmeno i discorsi di Grosset, che
tagliava tutto in due e che finiva per non dare alcun significato al lavoro.
Gualatrone era sempre un buon amico e qualche volta m’accompagnava al
cinema. Una sera, anzi, che nevicava molto forte, non mi lasciò tornare a Candia
e mi portò a dormire a casa sua.
Lui dormiva in un piccolo letto contro il muro che appena lo conteneva, con le
braccia fuori, come d’estate.
Avevo visto che prima di mettersi a letto, aveva fatto in fretta e male un
piccolo segno di croce, baciandosi un dito. Nell’altro letto mi sentivo protetto e più
forte che a casa mia. Il sonno di Roberto, il nome di Gualatrone, era così pulito
che a me sembrava di tornare ragazzo, ai tempi di Avignone.
Tre giorni dopo fui chiamato dall’assistente sociale.
112
Voleva solo sapere come stavo e se durante la malattia avevo avuto
regolarmente i soldi. Quando stavo per uscire mi chiese se sarei tornato a casa
con il treno subito dopo l’uscita dalla fabbrica. Le dissi di no, perché dovevo
andare al cinema. Lei si stupì e voleva cominciare un altro discorso, ma io le dissi
subito che dovevo andare al cinema. Ed era proprio così.
Nel reparto facevo lo stesso lavoro, sempre senza qualifica. Mi affaticavo,
adesso, moltissimo, e mi pesava anche la fatica che mi pareva di leggere
chiarissima nel viso di tutti gli altri. Mi dispiaceva poi che Gualatrone stesse
portando avanti una storia poco pulita con una segretaria d’officina, sposata e
anziana. Lui stesso me lo aveva detto e mi aveva accennato anche agli orari dei
loro incontri, che avvenivano quasi tutti in fabbrica. Si incontravano nei gabinetti,
un giorno la mattina e l’altro al pomeriggio, a ore combinate e sempre diverse.
Quando lo vedevo allontanarsi per quei convegni io sentivo un grande dispiacere e
mi sembrava di vedere che Manzino ridesse sotto i baffi, sicuro che a quel modo
Gualatrone si sarebbe rovinato.
Un giorno, nella fila della mensa, riuscii a dare all’amica di Gualatrone, che
mi precedeva tutta piena di sorrisi e con un gran sedere splendente sotto la seta
nera del grembiule un grosso pestone sui piedi nudi nei sandalini.
Diventavo sempre più irascibile, di umore cattivo e così aspro tanto che
nemmeno i miei mali lo condizionavano più. Succedeva anche con mia madre, ma
soprattutto nel lavoro. Mi arrabbiavo per tante cose e le arrabbiature, ripeto, non
avevano alcun legame con i miei mali; mi allontanavano anzi da essi e mi davano
un’altra personalità e altre preoccupazioni; ma questo non poteva essere giovevole
e alla fine mi avrebbe ridotto ancora più indifeso.
Le feste di carnevale e quella ambigua atmosfera che avevano portato in
fabbrica esasperarono ancora di più il mio stato d’animo. Prendevo spesso a calci
la cassetta dei pezzi rovesciandola e la cascata rumorosa del metallo era come un
avvio, un incentivo a distruggere, a fare ancora cose più sconvenienti; così
rompevo tutto quello che potevo, dalla catena dei gabinetti alle maniglie, ai
bicchieri degli spogliatoi. Rispondevo male ai miei compagni e se appena lo avessi
potuto li avrei picchiati. Il lavoro mi andava male; cominciavo a scendere nelle
percentuali del cottimo e più andavo in basso più il gusto dell’umiliazione mi
spingeva a fare ancora meno.
Forse tutto questo accadeva perché le mie aspirazioni alla qualifica non erano
113
state soddisfatte; ma anche per la stanchezza che il lavoro ormai mi dava e per la
fatica di essere sempre nello stesso posto: la mia vita nella fabbrica non
procedeva secondo quello che io avevo sperato all’inizio, anzi era ancora ritardata
da molti di quei problemi che avevo avuto nel periodo militare e nella prigionia e
da altri motivi, gravi quanto la mia età ormai comportava.
A carnevale i miei compagni di lavoro accentuarono ancora di più quell’aria di
sopportazione che avevano nei miei confronti e che mi offendeva più di qualsiasi
affronto diretto: erano sorrisi, mezze parole, gesti, tanto che io per uscirne tirai
un martello dietro a un vecchio cretino di Borgofranco. L’aria di timore che si
diffuse in tutto il reparto e la falsa generosità con la quale tutti si adoperarono
per nascondere l’accaduto furono ancora più insopportabili, al punto che io sentii
l’impulso di ripetere la scena proprio nel momento in cui stava entrando Manzino.
Così qualcosa capitò. Fui mandato all’Ufficio Personale e fu aperta una
inchiesta. Trovai così il modo di essere ascoltato e dissi tutto dall’a alla zeta, da
Tortora alla qualifica. L’Ufficio Personale mi diede un’ammonizione scritta ma
nessuna risposta a tutti i miei interrogativi.
Ancora peggiori furono i giorni seguenti. Non riuscivo più a sopportare gli
sguardi dei miei compagni, che mi sembravano curiosi e allarmati fuori posto.
Manzino, quando poteva, rifiutava di parlarmi e io cercavo allora ogni pretesto per
uscire e per andare a parlare con chiunque altro potesse ascoltarmi, dalle guardie
all’Ufficio Personale. Lì chiedevo sempre qualifica e trasferimento; purtroppo non
potevo essere appoggiato dal capoofficina perché non volevo più rivolgermi
all’ingegner Pignotti. Più volte fui tentato di farlo e proprio con l’intenzione precisa
di servirlo; ma ogni volta tutti i miei risentimenti crollavano e io tornavo indietro e
sempre con l’immagine del sergente Vattino, malato, in campo di
concentramento, che mi salutava con le lacrime agli occhi e mi sembrava che alle
parole vere che aveva detto allora, adesso aggiungesse che quello non si poteva
fare, che la spia era una cosa indegna.
All’Ufficio Personale avevano promesso di cambiarmi il posto e stavano essi
stessi aspettandone uno buono da potermi offrire.
L’assistente sociale era quella che ascoltava con maggior interesse i miei
discorsi, li discuteva, chiedeva spiegazioni e mi chiedeva anche dei fatti accaduti
prima della mia vita in fabbrica. Non voleva però ricevermi più di una volta alla
settimana e dopo un mese e mezzo o due disse che avrebbe potuto ascoltarmi
114
solo una volta ogni quindici giorni, perché ormai conosceva tutta la storia ed era
importante soltanto vedere gli elementi nuovi e come portarla avanti. Io mi
preparavo ai colloqui addirittura con un librettino dove segnavo le novità; ma
debbo confessare che erano ben poca cosa perché i miei discorsi riguardavano
sempre la mia vita e i suoi veri problemi: i mali, la falsa malattia di Tortora, la
qualifica, il trasferimento.
Così giungemmo un’altra volta alle ferie e un’altra volta accettai di andare in
montagna per il soggiorno climatico.
Nell’autunno m’aspettavano i più grossi dolori e cominciò la mia caduta nella
fabbrica.
Adesso posso dire che a forza di pensare a me e alla fabbrica ho fatto molte
riflessioni che mi sembrano giuste, anche per tutti gli altri che lavorano con me.
Solo ora capisco che i problemi della paga oraria, del cottimo, del posto qui o là,
contano relativamente poco e non sono quelli che dispongono della nostra vita
nella fabbrica. L’importante è che le fabbriche, così come sono fatte oggi,
annullano piano piano per tutti quelli che vi sono il sentimento di essere su
questa terra, da solo e insieme agli altri e a tutte le cose della terra. Così si
dimentica qual è il destino degli uomini e subentra un orgoglio sempre più
profondo per l’organizzazione nella quale si è, per le macchine e per tutto
l’ingranaggio che riesce a fare cose mai viste e pensate da un uomo. Addirittura ci
si può spingere a pensare, con una certa convinzione, che gli uomini possono
arrivare ad essere diversi persino nelle loro storie e nei loro sentimenti e ad avere
conseguenze diverse da quelle di accontentarsi di vivere bene, tutti insieme e
liberi. Ci si può spingere a pensare a un uomo non più fatto a somiglianza di Dio,
nella sua terra; ma più somigliante e legato alle macchine, addirittura a una
razza diversa. Posso io dire, a questo punto, dopo aver tentato tante strade
all’interno e fuori della fabbrica, dopo tanti dolorosi fallimenti, che il problema è
quello dell’industria in generale, tutta, dalle sue città e quartieri ai treni e ai
pullman che la servono, alle sue fotografie sui giornali, ai suoi operai, tanti come
un esercito, come il mio lago, che batte la testa sempre sulla stessa sponda. Tutta
l’industria, cioè, deve essere controllata, o invece di essere un mezzo per stare
bene su questa terra, potrà essere il fine di starci male o il mezzo di uscirne.
Questo orgoglio prende gli uomini che nelle fabbriche hanno fortuna e stanno
meglio; costoro sono alla fine più infelici. Vi sono invece altri che cadono, che non
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riescono a seguire l’industria, che lavorano con pena fino al momento in cui sono
scacciati o fino alla ribellione; comunque meglio per loro che restano uomini!
Ho voluto dire queste cose che oggi so ma che all’inizio di quell’autunno
ancora non sapevo. I molti discorsi che allora ho fatto, e che adesso scriverò, sono
arrivati spesso, o almeno quando sembrava che il mio caso non potesse avere una
via d’uscita e una soluzione pratica nell’ambito della fabbrica, a intravedere
conclusioni come quelle che adesso ho dato; ma allora, sotto la forza diretta dei
miei mali e dell’ingiustizia, non potevo io stesso accettarle, anzi le rifiutavo. né
potevano arrivare a capirle e a definirle chiaramente coloro che pure le
accennavano, perché la loro stessa posizione nell’industria glielo impediva.
Avrebbero dovuto tradire la loro funzione, che è sempre stata quella di far cercare
le strade dove non ci sono e la giustizia dove l’ingiustizia è il principio effettivo sul
quale tutto è fondato. E certo costoro, assistente sociale, capo reparto, Ufficio
Personale e sindacato, non potevano almeno davanti a me scoprire tutto il giuoco.
Il più bel fico del canestro poi, fu l’avvocato Polverini di Milano, consulente e
supervisore, al quale mi rivolsi attirato proprio da queste sue qualifiche. Dopo
due o tre volte e dopo che lui stesso aveva cercato di fare del mio caso un caso
generale e di vederne tutti gli aspetti e gli addentellati, le situazioni complesse,
ecc. ecc., dopo cioè che si era avvicinato a dire che l’industria è di per sè cattiva e
che lo star male non riguarda soltanto me, concluse, cercando di convincere me e
tutti quelli che di me gli parlavano, che io non ero malato, con buona pace del
dottor Tortora, ma matto.
Ma è il caso che io riprenda a dire come si svolsero le cose.
Avevo ricominciato a lavorare e a riandare al cinema dopo tutto il mese delle
ferie che non ci andavo, quando fui chiamato dall’assistente sociale. Manzino mi
disse: «per comunicazioni» e mi disse che se non volevo, potevo benissimo non
andarci. Ma perché avrei dovuto rinunciare a delle comunicazioni, cioè a delle
notizie, a delle novità che mi riguardavano? L’incertezza di Manzino mi fece
pensare che le comunicazioni potessero riguardare la storia del mio trasferimento
o la mia posizione nel reparto e quindi mi spinse ancora di più ad andare
dall’assistente sociale, con la quale poi avevo numerose questioni in sospeso da
prima delle ferie. Mi ricordo che l’assistente sociale era ancora vestita per l’estate
e che questo mi indispose un poco, perché io invece mi ero ormai buttato verso
l’autunno a capofitto, con le serate al cinema.
116
* 17 *

Le comunicazioni non c’erano; erano solo domande che la signorina mi faceva.


Come stavo, come ero stato in montagna, come stava mia madre. E glielo dissi:
«Ma queste sono domande!»
«Perché?» rispose lei.
«Perché Manzino mi ha detto che lei avrebbe dovuto farmi delle
comunicazioni».
«Sì, questo è il termine. Ma ormai ci conosciamo bene e io ho creduto naturale
informarmi della sua salute e su di lei. Lo faccio direttamente, con lei, e quindi
non sono curiosità indebite».
Risposi poco e malvolentieri, anche se le domande riaprivano molte delle mie
piaghe e ridavano certo più a me che a lei la spinta di riparlare dei miei mali e del
mio trasferimento.
Il riposo delle ferie stava per essere tutto consumato nel dispetto del lavoro
uguale a prima e già dopo un mese tutto ricominciava da capo. E poi quel caldo
che non accennava a diminuire. Ogni mattina e ogni sera guardavo il lago per
vedere se cominciava a vestirsi di nebbia e a chiamare la pioggia; ma era sempre
scintillante e piccolo.
Uno dei primi giorni di ottobre, nel pomeriggio, scoppiò un temporale con
molti tuoni, grandi per tutto il cielo e scrosci di pioggia a raffica. Eravamo ancora
al lavoro e il temporale sembrava un guasto enorme della fabbrica, anche perché
era saltata la corrente elettrica.
Tutte le vetrate vibravano ed avevano preso un colore rosso di fuoco;
all’interno un buio verde avvolgeva le macchine e i reparti. I lampi facevano
risaltare i telai del soffitto, i cavi, gli ingranaggi. Il temporale ci faceva vedere il
corpo orribile della fabbrica, indifferente, alto, costruito e in piedi non per noi.
Nessuno diceva niente, come se per la prima volta tutti fossimo capitati
insieme, alla rinfusa, in quell’ambiente o per la prima volta ne capissimo, senza
poter far niente, la mostruosità.
Quella sera non andai al cinema e tornai a casa con gli altri. Durante il viaggio
tutti parlavano del temporale che dall’imbocco della Val d’Aosta, dove era esploso,
si era buttato nella pianura, verso il vercellese. Camminando dietro il suo
117
percorso, dal treno tutti guardavano i danni nei campi. Dovevano essere a terra il
granoturco e le viti dilaniate sulle colline di Masino e di Caluso. Così anche a
Candia, come potei vedere andando a casa; ma il lago era appena increspato e
appena meno splendente.
Mia madre vedendomi arrivare presto si commosse in un modo che mi fece
venire rabbia; non ero un bambino e tornare a casa alle otto o alle undici avrebbe
dovuto essere la stessa cosa Nella fretta di preparare la cena cucinò male e io
dovetti arrabbiarmi ancora. Ero pentito di essere tornato a rivedere mia madre e il
mio orto come se il temporale avesse potuto cambiare qualcosa, oltre che nella
campagna, anche dentro di me; ero pentito di essere tornato prima e non riuscivo
nemmeno a ricordare i motivi per cui l’avevo fatto: me ne restava soltanto un
senso di fastidio.
Il viaggio però era stato abbastanza buono e avevo visto Giuliana, con un
grande sorriso, al suo posto in fondo al vagone.
Mia madre venne ad appoggiarsi accanto a me sul davanzale della finestra;
prima stette in silenzio, poi accennò alla campagna e alle disgrazie del temporale,
alla fortuna invece di avere un posto sicuro in fabbrica. Non risposi e fissai più
intensamente il lago perché non volevo darle un posto nei miei pensieri. Mia
madre continuò dicendo che io dovevo cercare di conservare una tale fortuna. Io
ero seccato dal suo discorso e non capii chiaramente che cosa poi aggiunse
sull’assistente sociale.
Dei complimenti o dei ringraziamenti, come se l’avesse personalmente
conosciuta. Non cercai di capire o di chiederle la verità del discorso e andai a
chiudermi nella mia stanza; mi spogliai e cominciai a leggere un libro della
biblioteca che avevo da alcuni mesi. Smisi presto la lettura e, mentre cercavo di
prendere sonno, in un angolo della mia mente erano in piedi mia madre e
l’assistente sociale; ma non riuscivo bene a vedere in che rapporto fossero tra di
loro ed erano un enigma, se non volevo pensare che fossero un’altra strada dei
miei mali.

* 18 *

I giorni seguenti, assicuratomi che tutto fosse tranquillo intorno a me nella


fabbrica, chiesi di poter parlare con l’assistente sociale. All’appuntamento
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stabilito non mi presentai, per vedere che cosa avrebbe fatto e per indurla a
scoprirsi. Dopo una settimana mi chiamò nel suo ufficio. Fu un incontro
brevissimo, durante il quale decidemmo di riprendere regolarmente i colloqui
come prima delle ferie.
Non mi preoccupavo dello scopo che lei potesse avere; io intendevo sapere
tutto su mia madre, se cioè mia madre, a mia insaputa, si fosse rivolta all’ufficio e
avesse comunque richiesto il loro aiuto o parlato di me con loro. Risultò che gli
scopi erano proprio gli stessi, da ambo le parti, e già al terzo colloquio l’assistente
sociale si riferì chiaramente a mia madre. È vero che io avevo fatto di tutto per
portarcela e avevo sempre resistito alle sue domande, cercando di farle credere di
essere appoggiato a mia madre e di trovare in lei il conforto per tutti i miei mali.
È strano che in tutti questi discorsi intorno a mia madre io me la figurassi
sempre come negli ultimi tempi di Avignone, come nel cortile, come la prima volta
che entrammo nella casa di Candia, quando mi parve che l’ingresso fosse solo di
noi due e che noi due avremmo dovuto continuare da soli. Era quella l’unica
figura di mia madre della quale mi riusciva di parlare.
Per questo non potevo intendermi molto con l’assistente sociale, che vedeva
tutto un altro volto di mia madre.
«Lei dovrebbe tornare presto a casa, la sera, come tutti gli altri, anche per
poter riprendere con sua madre rapporti più sereni».
«Ma io e mia madre ci vogliamo molto bene e i nostri rapporti sono molto
sereni».
Disse qualcosa sul fatto che ci volevamo bene ma disse anche che mia madre
era molto preoccupata dal mio comportamento. Negai e continuai a negare quasi
tutto, mentre sentivo in me trepidare uno strano sentimento che mi induceva a
mentire, anche perché capivo che quelle verità erano insufficienti. La mia
menzogna lievitava una verità molto più grossa, dentro di me da tanti anni, e che
stava venendo fuori insieme al gusto di offendere, con le menzogne, mia madre e
me stesso insieme; insieme, anche se sotto la menzogna o meglio sotto
un’apparenza non più corrispondente alla realtà.
«Non dica bugie. Lei oggi evita sua madre e cerca di farle male in tutti i modi»,
questo disse l’assistente sociale e queste parole mi diedero una grossa
soddisfazione anche se non completa; ma mi apparvero vere, più intimamente
vere e mi diedero quasi la gioia di essere stato capito e di essere di nuovo a
119
contatto con mia madre come da ragazzo. Volevo però che l’assistente sociale
dicesse ancora di più e immaginavo che quest’altro terribile e dolce colloquio
potesse avvenire alla presenza di mia madre. E così anche allora negai, con la
speranza che la mia immaginazione potesse realizzarsi.
L’assistente sociale continuò a parlare quasi arrabbiata; ma riducendo sempre
più quel che aveva detto come se si fosse pentita.
«Lei deve essere più gentile con sua madre. Capisco che sua madre sia un po’
noiosa... anche per la sua età».
Questo mi dispiaceva; di me doveva parlare, solo di me.
«Lei non si libera della soggezione che ha sempre avuto per sua madre; lei non
può reagire al suo carattere tanto autoritario e invadente in questo modo. Lei
deve discutere con sua madre». Non avrei dovuto subire e poi lottare e poi aver
rimorso e quindi ancora lottare, cercare di allargare sempre di più il male come
un abbraccio, diceva ancora l’assistente sociale.
Io pensavo che lei era debole come me se poteva capire tante cose e che anche
lei, proprio per questo, sarebbe caduta prima o poi vittima della fabbrica. Allora
volli aiutarla e darle l’esempio della mia forza e della necessità di combattere da
soli, senza compromessi.
La lasciai terminare il suo discorso, che andava sempre più spegnendosi, mi
alzai in piedi e dissi: «Non posso accettare quello che lei dice. Io sono solo, con la
mia coscienza. Amo e rispetto mia madre che può dirmi tutto quel che vuole. La
fabbrica non c’entra per niente e deve soltanto lasciarmi tranquillo. Io sono un
lavoratore».
Le mie parole fortificarono l’assistente sociale che mi parlò di nuovo, con più
decisione. «Perché in sanatorio non ha mai voluto vedere sua madre? Perché non
torna a casa? Perché non parla? Ha perfino nascosto i vestiti di sua madre per
impedirle di venire a parlare con noi».
Era vero; ma era vero in un modo più profondo di quello che risultava nel
discorso dell’assistente sociale; era vero e giusto in un modo che soltanto io
potevo capire.
Sentii che ero solo con la mia verità e con la mia lotta ma che da quel
momento non sarei potuto più esserlo in tutte le diverse circostanze che ancora
avrei incontrato.
L’assistente sociale fece una pausa per guardarmi fisso; ma io non mi mossi.
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Aspettavo che dicesse altre cose.
Così avrei finalmente saputo che mia madre aveva ricevuto tutti i miei torti,
che li aveva subiti e magari ne aveva pianto raccontandoli all’assistente sociale.
Ma non venne fuori nient’altro; solo una piccola morale che non mi dava né
soddisfazione né aiuto.
«Non deve subire sua madre e poi cercare tutti i modi di offenderla. Cerchi di
comprenderla. Evitandola, come fa ora, aumenterà soltanto l’incomprensione».
Negai ancora ogni cosa; ma l’assistente sociale non insisteva più. Non sapeva
altre cose da potermi rimproverare o le aveva dimenticate, perché mi sembrava
impossibile che mia madre non le avesse raccontato tutto, arrivata a quel punto
delle sue confidenze. Non reagii; ma l’assistente sociale non disse nient’altro.
Tornai da lei altre tre volte nel corso di quel mese ma rimasi sempre deluso
perché non seppi nient’altro di nuovo. Sembrava che mia madre avesse
inghiottito molti dei miei dispetti o che non se ne fosse accorta. Pensando meglio
e sentendola parlare, capivo però che era l’assistente sociale a non ritenere
importanti certi fatti che invece lo erano e che io avrei voluto risollevare dalla mia
coscienza.
Intanto i rapporti con mia madre continuavano come sempre; non avevo
mutato le mie abitudini e a casa rimanevo quasi sempre silenzioso e senza
prendere nulla di punta anche se sentivo ormai fisicamente come alla sera, più
che aspettarmi e guardarmi, mia madre mi spiasse.
Qualcosa notai verso la fine di ottobre, riprendendo ad andare, la domenica
mattina, alla messa delle otto insieme a lei. Decisi di farlo per far vedere a tutti e
al parroco come andavamo d’accordo io e mia madre ed anche perché mi accorsi
la prima domenica, quando la mia intenzione era soltanto buona, nella vicinanza
delle feste dei Santi e dei Morti, che mia madre prendeva la mia compagnia come
un altro dispetto. La domenica dell’Avvento mi confessai. Il parroco dimostrò di
non sapere nulla di queste cose e quando io gli dissi che temevo un accordo ai
miei danni tra mia madre e l’assistente sociale raccontandogli anche dei miei
colloqui, precisò soltanto che le confessioni su tutti i problemi di coscienza, che
sempre riguardano la fede, dovevano essere fatte soltanto a lui. «Lo dirò anche a
tua madre», concluse.
Questo mi fece piacere e capii di aver ancora di più isolato e protetto mia
madre.
121
* 19 *

Tornando a casa vedevo per la campagna e intorno al lago un bellissimo


autunno. La stagione non sembrava alla fine e il sole ancora forte e un’aria dolce
facevano pensare che nelle vigne ci fossero ancora i grappoli. Le vigne erano folte
di pampini colorati, specie intorno e verso il lago, e nel cielo fischiavano ancora
fringuelli, molti, e senza la paura che in genere a quel tempo accompagna i voli di
quelli rimasti, molti di meno di quell’anno. Mi prese una grande voglia di stare in
campagna, di accudire all’orto, di passeggiare per le strade più nascoste, di
cercare funghi; di andare poi felice a Torino alla partita e al cinema.
La fabbrica mi sembrava lontanissima, addirittura inesistente sopra una terra
come quella che andavo ammirando, e solo il dolore che seguiva il pensarla anche
per un attimo mi restituiva la sua presenza e la sua minaccia contro la mia vita.
Erano il lavoro e poi gli uomini, Manzino, Tortora, le squadre sconosciute, la folla,
che mi davano quel senso di dolore e non la fabbrica vera, la sua faccia di vetro,
le porte.
Questo vuol dire che se avessi trovato altra gente nella fabbrica avrei potuto
starci benissimo, come in quella campagna dove nessuno mi dava fastidio. Decisi
di tornare al lavoro il lunedì, soprattutto per chiedere in modo definitivo a
Manzino ed anche all’Ufficio Personale la qualifica. Se non me l’avessero concessa
o non mi avessero fatto promesse sicure mi sarei dato ammalato almeno per una
quindicina di giorni.
Il giorno dopo, verso le nove, mi rivolsi a Manzino.
Mi ricevette sorridendo e mi fece subito notare che le interruzioni, nel lavoro,
sono dannose. Gli dissi di lasciar perdere il ritmo e di dirmi quando avrei avuto la
qualifica. Si irrigidì e fece un giro della sua brutta scrivania. «Sono io in questo
reparto a sapere quali cose vanno lasciate perdere. E un giorno dirò che cosa
posso lasciare e perdere senza alcuna incertezza; e non sarà tanto tardi. Le
qualifiche non le concedo io; io posso fare le proposte ma nel suo caso non
ritengo opportuno farla per ragioni che riguardano il suo rendimento e
l’organizzazione del mio reparto».
Rimasi per un attimo in silenzio perché dovevo dominare la voglia di fuggire.
«Va bene», dissi, «mi dia il permesso per andare a parlare con l’Ufficio Personale e
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con la Presidenza». Manzino si guardò intorno e dovette accorgersi che molti lo
stavano osservando; mi fissò e capì che io ero forte in quel momento che
consideravo estremo.
Mosse un braccio come per fare un discorso minaccioso ma disse: «Vada pure,
se crede di trovare altrove gente più comprensiva di me».
Uscii nel corridoio ma quando giunsi alla scala non avevo più la forza di
convinzione per andare all’Ufficio Personale; anche io, come Manzino, sentivo
qualcosa che era più forte di me e dei miei sentimenti. Sentivo tremare i vetri
della fabbrica ed ebbi un’altra volta la voglia di fuggire. Domani, pensai. Andai a
bere e prima di tornare nel reparto feci due volte il percorso del corridoio.
Manzino non mi guardò mentre mi avviavo al mio posto; Gualatrone m’interrogò
alzando gli occhi e la testa ma io ripresi a lavorare. I pezzi che facevamo erano
piccoli ed io mi misi a considerarli con attenzione. Per tutto l’orario di lavoro
continuai a guardarli in tutti i modi e in tutte le dimensioni: alcuni crescevano
come montagne, dove le rigature diventano strade; e altri s’impicciolivano,
animandosi per comporre tutt’insieme delle creature sconosciute, o come vermi
sopra un animale.
Uscii dalla fabbrica senza altri problemi e senza incontrare nessuno. Andai al
cinema e dopo viaggiai tranquillo, meditando il discorso che avrei fatto a mia
madre. Dovevo convincerla a presentarsi due giorni dopo presso l’infermeria a
dire che io ero malato e a chiedere il certificato regolare della mutua. Perché
accettasse volli darle l’occasione di andare dall’assistente sociale, per dire anche a
lei che io ero malato. Mia madre non capì e a un certo punto si mise a piangere
ma io non cedetti e riuscii a convincerla. Così il giorno dopo fui in libertà e la
mattina andai al lago. Ma non avevo le soddisfazioni che mi ero immaginato la
domenica. «Il primo giorno» pensai. Ma anche gli altri giorni non cambiarono
molto.
Custodivo l’orto malvolentieri, scoraggiato da tutte le difficoltà che si
presentavano per un lavoro ben fatto.
Andai al cinema a Torino e trovai la città disabitata.
Quel deserto aumentava il mio disagio ed io sentivo la colpa di non essere al
lavoro come tutti. Per confortarmi pensavo che la mia assenza non era dovuta a
me ma alla necessità di fuggire i colpi che l’organizzazione nemica aveva
predisposto a mio danno.
123
Così si riaccendeva il mio risentimento, con una violenza più forte che nella
fabbrica. Non trovavo pace e dopo qualche giorno, anche perché il tempo era
peggiorato, passavo a letto quasi tutta la mattina. Riuscivo a calmarmi soltanto
sulla soglia del cinema, a Torino.
Quando uscivo ero subito preso dallo sgomento del viaggio e di perdere il
treno.
Verso l’inizio della seconda settimana d’assenza, un pomeriggio che ero
proprio a Torino, si presentò a casa mia un messo dell’infermeria, che secondo lui
passava da quelle parti per un altro compito, e chiese di me per farmi alcune
comunicazioni del dottor Tortora. Era chiaro che l’avevano mandato a spiarmi.
Fui quasi contento che non mi avesse trovato, così chi lo mandava poteva capire
la forza della mia libertà. Il timore che tornasse mi impedì però di andare anche
gli altri giorni a Torino, e così le mie pesanti giornate si allungarono. Fui assalito
da una apatia completa, che non mi lasciava nemmeno a letto e che mi toglieva
perfino la forza di affidare i miei occhi e i miei pensieri all’indiano e allo scarpone,
che l’umidità delle piogge cadute proprio in quei giorni faceva spiccare tra le altre
macchie dell’intonaco. In questo stato, il tornare a lavorare mi appariva come una
liberazione da una pena ancora più accanita di quelle procuratemi da Tortora e
soci. Lunedì 14 novembre tornai in fabbrica.
Manzino mi fermò all’ingresso del reparto. Non aveva avuto il certificato di
guarigione e non poteva riammettermi a lavorare. Dovevo presentarmi al dottor
Tortora.
L’inganno per catturarmi era stato ancora una volta trovato.
Tortora mi fece attendere a lungo. Ogni anno puntualmente verso dicembre,
per un motivo o per un altro, mi toccava di passare da lui. I suoi disegni erano
così precisi che ancora una volta erano stati rispettati; per quanto questa volta
potesse sembrare a me stesso che l’iniziativa fosse stata la mia, con l’idea di
darmi ammalato.
Tortora mi accolse con aria imbronciata, tentennando l’enorme testa e
guardando lontano da me. Mi fece una visita sommaria. Mi disse che avrebbe
emesso il certificato di guarigione per rimandarmi a lavorare, anche se non era
stato lui, nella circostanza, a dichiararmi malato ed anche se le mie guarigioni
erano tutte incomplete o comunque non in pace con le minacce più gravi e
persistenti della mia salute.
124
«Noi cerchiamo di aiutarla, onestamente; ma lei? Volevo sapere qualcosa di
più sulla sua malattia di quanto mi disse sua madre; ma la prima volta non si
fece trovare dal mio inviato e la seconda non gli aprì nemmeno la porta. Cambi
modo di comportarsi o si troverà male».
Pronunciò quest’ultima frase lavandosi le mani ma lui era più colpevole di
Pilato e con gli occhi sullo specchio del lavandino quella frase avrebbe dovuto
dirla a se stesso: «Cambia modo di comportarti, Tortora, o Saluggia si troverà
sempre più male».
Nell’ingresso dell’infermeria trovai Franco Robino, l’uomo che era venuto due
volte a cercarmi a casa. La seconda volta l’avevo visto dalla finestra e avevo visto
che non si era accontentato di attendere la risposta: aveva bussato anche con i
piedi, aveva fatto il giro della casa ed era entrato nel fienile. Perché adesso mi
aspettava in fondo alla scala? Non aveva nulla da fare ed era lì certamente
chiamato da Tortora ancora per spiarmi. Lo rividi a mezzogiorno che mangiava in
mensa due tavoli più avanti del mio, voltandomi le spalle per non farsi
riconoscere. Lo vedevo scuotersi per masticare e rovesciarsi indietro per bere.
Mentre Giuliana serviva un tavolo vicino lo vidi voltarsi a parlarle con grande
confidenza e a prenderla per un braccio. Aspettavo quasi che se la tirasse
addosso. Dopo una piccola confessione sotto voce risero entrambi girando gli
occhi verso di me. Che cosa voleva dire? Anche Giuliana era contro di me?
Rimpiangevo di essere tornato a lavorare e rimpiangevo il mio letto, difficile
per tanti pensieri ma mio, lontano dalla fabbrica e da tutte le brutte facce. Ruppi
il motore della macchina e poi mi accaddero una serie di altri incidenti.
Uscii dal reparto e non volli tornarci. Ero deciso a tutto anche perché Manzino
mi aveva rimproverato l’assenza. Era molto stupido e cattivo a punirmi e non
avrebbe dovuto farlo; avevo così sofferto stando fuori, lontano dal lavoro, che
avevo già avuto una grossa punizione. Anche per questa ripicca mi allontanai.
I giorni seguenti successero altri incidenti. Ormai che tutto era compromesso
io stesso provavo un gusto che riusciva a superare e a nascondere il mio dolore e
i miei soliti mali e quindi spingevo al contrario. Venne una prima chiamata
dall’Ufficio Personale, dove però non seppero che cosa dirmi.
Passato Natale, alla seconda chiamata, mi comunicarono che Manzino mi
aveva messo a disposizione.
Per attendere il nuovo reparto dovetti restare alcuni giorni lontano dal lavoro.
125
Andavo in biblioteca, al cinema del mezzogiorno e ai corsi di lingue: ovunque
potessi sentirmi legato alla fabbrica.
«Non licenziano, non bastonano, non tolgono il cottimo, non cade il mondo.
Capiscono che non sei un gran lavoratore e allora ti danno più assistenza e più
benevolenza e tu puoi fare più assenze. I capi ti lasciano correre e arrivano a dire
che sei bravo per farti trasferire e così ti aumentano la paga. Conosci più fabbrica
e parli con più gente. C’è solo il rischio di non riuscire più a liberarti di loro, di
trovarteli persino a casa». Aveva parlato un uomo vicino a me, un certo Cimatti o
Rimatti, un fannullone che diceva di scrivere poesie e di discendere da una nobile
famiglia romagnola. Capitò in reparto insieme a me. Aveva la specialità di bere
molto e spesso non faceva in tempo ad arrivare al gabinetto.
Siccome io, come il primo giorno, non gli rispondevo mai, cominciò a
disturbarmi, a chiamarmi «pensatore», a raccontarmi storie volgari come la sua
stessa faccia.
Finché un giorno, poco dopo arrivati in quel reparto del montaggio, allungò le
sue mani sporche verso di me, come se volesse pizzicarmi o accarezzarmi,
bofonchiando qualcosa tra la saliva. Mi vinse soprattutto la repugnanza della sua
bocca e lo colpii con un pugno ancora pieno dei pezzi da montare. Lo curarono in
infermeria e rimase ferito per molti giorni, il nobile Cimatti o Rimatti, poeta della
merda.
Ebbi un’ammonizione scritta e tre giorni di sospensione. Andai ad Aosta a
vedere le mura e la torre del povero lebbroso. La neve e la nebbia di quell’inverno
rendevano la città confusa e quasi invisibile, per cui tutto fu come se fossi andato
a trovare il lebbroso ancora vivo e nascosto.
Tornai più calmo e disposto a dare minor peso alle cose, tanto che non posso
raccontare come si svolsero tutte le pratiche di quei giorni e tutti i discorsi
all’Ufficio Personale. Mentre li ascoltavo pensavo che chi è lebbroso è lebbroso.
Nel nuovo reparto, a parte Cimatti, non mi trovai male, almeno all’inizio.
Cambiare lavoro mi aveva fatto bene; non avevo più la macchina, stavo seduto in
fila e dovevo montare uno strano pezzo con due braccetti da avvitare a una
rotella. Quelli che lavoravano intorno a me non davano fastidio; ogni tanto
emettevano un sospiro e allungavano le gambe sotto il tavolo. Eravamo quasi
cento a fare lo stesso lavoro. Lavoravamo al secondo piano della fabbrica, con la
possibilità di guardare un gruppo nero di querce che spuntavano alte sopra i
126
capannoni. Tutti quelli che lavoravano erano diversi, magri e grassi, alti e bassi,
giovani e anziani, e visti tutt’insieme, pur vestiti uguali, non sembravano un
gruppo di lavoratori che dovevano fare lo stesso lavoro. Nelle cassette
formicolavano i pezzi e tutt’insieme facevano un ronzio, come tanti nidi d’insetti.
Era forse il pavimento che vibrava, scosso dalle macchine dei primi piani.
Il capo reparto stava in fondo e si vedeva di rado. I pezzi arrivavano sui nastri
trasportatori, contati e controllati; tanti pezzi all’ora. Dopo una settimana riuscivo
a seguire il ritmo del lavoro e avevo tempo ogni tanto per alzare la testa. Alzare la
testa come se potessi farlo contro i miei mali e le tristi congiure.
Fuori l’inverno correva e si arrampicava su quelle querce, sopra i capannoni.
La sera lo vedevo sul lago bianco e stretto.
Fino a tutto gennaio neve non tanta ma sovente, ogni due o tre giorni, senza
attaccare. La guardavo dalla fabbrica e capivo che era inutile e che non avrebbe
resistito.
Intanto continuavo il mio lavoro in mezzo agli altri, in silenzio, senza amicizie.
Pinna non lo vedevo quasi più e Gualatrone lo incontravo qualche volta alla
mensa; ma era molto impegnato per l’amore e il partito. L’assistente sociale, dopo
il trasferimento e la punizione, non l’avevo più vista. Non andavo più al cinema
tutte le sere, perché a ora tarda era troppo freddo, anche con il cappotto.
In quel reparto del montaggio tutto mi sembrava nuovo e io stesso non avevo
più i risentimenti di prima.
Soffrivo ma con più calma. Tutto l’ambiente, più largo e più luminoso,
sembrava un posto inesistente, che dovesse sparire presto. Eravamo una massa
confusa, che non chiedeva nulla, nemmeno a ciascuno di noi.
Eravamo tutti distratti anche se i nostri pensieri si accanivano. A certe ore nel
reparto suonava la musica. Io l’ascoltavo e mi faceva bene. Spesso però mi
ricordava il sanatorio, dove i malati cominciano ad aprire la radio alla mattina
presto. Quando suonava la musica, il capo si alzava e cominciava a camminare
su e giù nel corridoio in mezzo ai tavoli. Non guardava e non diceva niente a
nessuno. Si chiamava Salvatore e faceva collezione di francobolli. In tutto il tempo
che stetti con lui mi parlò soltanto due o tre volte, quando doveva farmi qualche
comunicazione dell’infermeria o dell’Ufficio Personale.
Accompagnava le parole con un biglietto. Ricordo che per firmare impuntava
la penna un attimo prima della esse maiuscola. Il suo silenzio era come tutto
127
quello del reparto e nei suoi occhi non si leggevano intenzioni.
Così rimasi a lungo in quel posto senza seccature e ormai non m’importava
più nulla della qualifica e del lavoro.
Montare i pezzi era noioso ma anche faticoso, di una fatica che mi prendeva e
mi accompagnava per tutta la giornata come un cattivo umore.
A maggio incominciò il caldo che a giugno fu molto forte. A giugno un biglietto
di Salvatore mi diceva di presentarmi alla visita di controllo. Non trovai Tortora
ma il dottor Steffenino, il secondo medico della fabbrica. Ero contento perché non
mi sentivo tanto bene e pensavo che con una piccola cura di un medico nuovo
tutto si sarebbe sistemato. Ma anche lui mi rimandò dal professor Bompiero.
Altro biglietto di Salvatore con la nota «indispensabile».
Alla fine di giugno, Bompiero disse: «Non può sopportare l’estate in queste
condizioni. Lei ha febbre tutte le sere, sta male, ed io le propongo un altro
ricovero o una cura molto rigida sotto il mio personale controllo.
Ma prima di tutto bisogna che veda le lastre».
Non era cambiato nulla. Dopo la lettura delle lastre, per la quale impiegò
quindici giorni in modo che ogni trucco fosse ben studiato e architettato, voleva
ancora farmi stare a casa, se non in sanatorio. «Quando potrò avere una risposta
più precisa?» dissi, cercando di rimandare questa conclusione. Faceva un caldo
orribile e tra quindici giorni avrebbero dato le ferie.
«La risposta è questa ed è precisa. Lei non può lavorare, non deve, per sè e per
gli altri. Deve curarsi o non farà più in tempo».
Mi feci il segno della croce e cominciai a recitare il Pater Noster.
«Che commedia è questa? Gli esorcismi non valgono».
«Perdona loro che non sanno quel che si fanno».
Bompiero mi cacciò dallo studio. Non tornai in fabbrica e cercai il tenente dei
carabinieri. Non c’era e fui ricevuto da un maresciallo. Cercai di spiegargli ogni
cosa. «Ma qual è l’accusa? qual è l’accusa che si può fare a questi dottori?»
Dovetti uscire anche da lì sconsolato e scesi per la città dalla parte opposta
della fabbrica, verso il fiume, tra le ombre degli orti.
In fabbrica mi cercarono e poi a casa. Ero a letto quando arrivò l’assistente
sociale e non mi mossi mentre la sentivo parlare con mia madre. La sera mia
madre entrò nella mia stanza, accese la luce e mi parlò. Secondo tutti la mia
malattia era grave. Potevano però curarmi lasciandomi a casa, nel mio letto. Dopo
128
due o tre mesi mi avrebbero mandato in montagna ma non in sanatorio.
All’inizio dell’inverno sarei tornato a casa per altre cure, sino alla guarigione.
Intanto la ditta mi avrebbe dato, oltre a pagare le cure e le medicine, un salario
quasi normale. Così avvenne; nel mio letto. Spesso pensavo che in quel modo io
andavo distruggendo la mia vita. In montagna non mi mandarono, perché dopo la
metà di ottobre il clima non sembrò più adatto.
Era ormai la metà di novembre di quell’anno così scorrevole nel mio animo,
anche se le cure erano state riprese con crudeltà, quando tornavo la sera da
Torino dove ero andato di nuovo al cinema.
Da X, dopo il pneumotorace al Dispensario, avevo continuato direttamente per
Torino senza fermarmi a casa, per lo scoraggiamento ormai di riuscire a vincere,
più che i miei mali, coloro che li istigavano. Siccome Bompiero aveva scosso la
testa, proseguii per il cinema.
Tornavo come sempre verso le otto e un quarto quando nel treno che correva
sotto la pioggia vidi uno stirarsi, fare dei gesti e sbadigliare davanti al finestrino.
Per combinazione, mentre guardavo quell’uomo, si andavano scaricando grossi
fulmini che si vedevano benissimo perché la luce nel treno era bassa. Ma non
erano fulmini, era qualche scarica di corrente lungo gli impianti della ferrovia.
Quell’uomo accese una sigaretta e, alla luce del cerino e delle scariche, mi
sorrise in un modo che non dimenticherò mai. I suoi capelli lunghi, spettinati e
ricci, brillavano sul suo sorriso ed anche i suoi denti, quei quattro o cinque
d’argento che aveva davanti. Sorrise ancora e mi salutò; mi offrì anche una
sigaretta e cominciò a parlare.
Si muoveva sempre e ogni tanto si alzava senza smettere di parlare e senza
guardarmi. Ma quando tornava a sedere sorrideva ancora e la sua faccia era
sempre più confortante.
A un certo punto, cercando le sigarette nella tasca:
«Non ho soldi», cominciò a dire, «non ho quasi più soldi. Fra tre giorni non
avrò più una lira. Addio soldi miei.
E come farò senza soldi? E pensare che son venuto quassù per i soldi».
Temevo che volesse chiedermene ed ero già pronto a darglieli, perché la sua
sincerità non ammetteva resistenze.
«Possedevo una bella casa di mio padre e l’ho venduta; ero tornato dopo la
guerra a Gubbio, al mio paese.
129
Intanto avevo capito la lezione. Qui inglesi e polacchi il comunismo non lo
vogliono e nemmeno la chiesa. La monarchia cade e comanda la chiesa. Allora mi
misi a trafficare in paramenti sacri, cera, quadri e messali. Ma lì sbagliai, perché
proprio nel momento in cui stava per prendere il comando, la chiesa voleva dar
prova di umiltà e non comprava niente. I preti non compravano niente. Dovetti
vendere io, tutta la sacrestia. M’ero anche sposato per dare più fiducia al clero.
Feci un altro ragionamento. Chi ha vinto la guerra? L’America, l’industria. Altro
che i poderi dei signori di Gubbio! La fortuna è l’industria. E mentre tutti i
contadini andavano a Roma, io andai a Milano. Volevo mettere su una fabbrica di
medicinali ma non avevo soldi abbastanza.
Ho salvato soltanto le ricette segrete di mia moglie; che mia moglie ha avuto
da un russo, uno scienziato internato in un paese sopra Gubbio. Ma poi si seppe
che era un mezzo tedesco di Bolzano. Da Milano andammo a Varese, a Novara, a
Vercelli, a Trino Vercellese, ridotti a curare i contadini delle risaie con le nostre
medicine miracolose. A mia moglie è apparsa più volte in sogno la Vergine
d’Oropa per dirle che il suo lavoro è benedetto e che le sue medicine possono
vincere ogni dolore. È stata la Vergine Nera a consigliarle il trasferimento a X e
l’unione con il dottor Fioravanti. Fu una combinazione, perché il dottore lasciava
Torino proprio in quei giorni.
E oggi ha inventato il siero X3 che cura anche il cancro e la tubercolosi. Tutte
le malattie provengono da un centro e verso quel centro la nostra medicina è
benedetta. Non può esserci scienza senza religione e fede, altrimenti si curano i
cani o si fanno le bombe atomiche. Ma siamo alla fine, senza soldi. E il professor
Fioravanti è perseguitato dai medici, come tutti i veri scienziati. Mia moglie dà
anche consigli, legge il futuro».
Questo fu il suo discorso, più lungo perché quando finì ero arrivato a Candia.
«Mi chiamo Virgilio Palmarucci, e abito in via del Distretto, 27. Un bel palazzo
antico. Chieda di mia moglie, la signora Eufemia».
Ero commosso dall’incontro e sentii dentro di me che era stata la Vergine
d’Oropa a mettermi sulla strada della liberazione. Il dottor Fioravanti perseguitato
dagli altri medici perché è onesto e cura la gente. La medicina e la religione.
Questa sarebbe stata la mia salvezza. Feci la strada quasi di corsa. La porta di
casa era aperta e illuminata. Dentro c’era un’aria di bella sera e tutto era
apparecchiato. Mia madre era tranquilla e io l’abbracciai con le lacrime della
130
felicità. La notte non riuscivo a prendere sonno e il mio letto era dolce e caldo
come da ragazzo.
Sarei certamente andato in via del Distretto e mi sarei presentato al professor
Fioravanti. Ma la mattina ero incerto e con l’animo sospeso, anche perché nella
notte non avevo sognato la Vergine Nera. Questi pensieri avevano il vantaggio di
scacciare quelli sulla fabbrica, sui medici e i professori congiurati per la mia
rovina. Pensavo che il professor Fioravanti fosse un uomo ancora giovane,
piccolino e gentile.
Avrei dovuto andare in città, presto, e allora sarei andato a casa dei
Palmarucci, palme della resurrezione. Mi sentivo meglio e stavo quasi sempre a
letto; mi alzavo per vedere mia madre preparare i pasti e la tavola e per stare
vicino ai fornelli come un gatto. Aspettavo con ansia di andare in città e il terzo
giorno non ne potevo più.
Andai in chiesa a comunicarmi prima di partire e volli che mia madre venisse
con me.
Il parroco mi domandò come stavo ed io gli risposi che stavo meglio e che
avevo una grande fiducia nella divina Provvidenza. «Bravo. Devi ubbidire», mi
disse ed io capii che dovevo ubbidire alla volontà della Vergine d’Oropa. Ero
fiducioso anche se non l’avevo mai sognata e se non avevo ricevuto alcun
avvertimento diretto.
Ma quella nuova volontà di guarire, quella pace, pensavo, non erano già un
segno di protezione e di benevolenza?
Il 20 novembre, nella stagione in cui di solito le mie disgrazie mi avevano
sempre portato dal dottor Tortora, andavo in città con una grande speranza. Non
ero tranquillo e il mio braccio tremava nelle mani dell’infermiera del dispensario
che doveva farmi le iniezioni. Il mio braccio era bianco, peloso, magro, con una
macchia azzurra a metà che era quella delle mie vene. Sembrava veramente il
braccio di un malato e mi sembrava di vederlo per la prima volta, così sfinito; una
parte di me abbandonata, dove la mancanza di una resistenza autonoma, come
quella del pensiero, aveva permesso alla malattia di entrare e di annidarsi sotto la
pelle. Era necessario ormai che un medico come il professor Fioravanti mi
concedesse il suo aiuto. Finite le due iniezioni rimasi per una mezz’ora seduto
sulle panche del dispensario.
Le campane di mezzogiorno suonavano tra le nuvole quando passavo la soglia
131
della casa di Palmarucci. Dopo l’atrio e tre larghi scalini di pietra chiara, c’era la
porta.
Era aperta e bisognava entrare. Dietro trovai subito Palmarucci che lavorava
in cucina. Aveva la sigaretta accesa tra le labbra come se non l’avesse mai
lasciata dalla sera della nostra conoscenza e ancora mi sorrise. Ma non che
m’avesse riconosciuto.
«Benvenuto», mi disse, «s’accomodi pure. Vuol vedere la signora Eufemia?»
Chiesi del professor Fioravanti. «Il professor Fioravanti non c’è. È a Torino per
una conferenza all’Università. Voleva un consulto? Ma parli pure con mia moglie».
E la moglie arrivò subito.
La signora Eufemia era tutta nera e non riuscivo a vederla nel buio della
cucina; intravidi il suo collo e la lunga scollatura con una collana bianca. Fumava
come il marito e nel corridoio il suo alito mi faceva quasi tossire. Mi guardò e mi
prese per mano per condurmi nelle sue stanze.
Dal corridoio buio si passava in stanze molto grandi, con finestre alte. I soffitti
erano altissimi, dipinti in oro e con cordate di angioletti e rose che andavano a
scendere sino a metà della parete. Nella parete in fondo, alle spalle della signora,
c’era una fotografia di Palmarucci in abito da sera, sempre con la sigaretta.
Accanto, la fotografia di un bambino, che doveva essere morto. Era appoggiato
come un malato alle gambe di una donna, che non si vedeva. Spuntava una
mano che gli carezzava la testa. Guardando meglio si vedeva che quella mano
aiutava la testina a stare diritta davanti al fotografo. Quante volte ho guardato
quel bambino e quante volte ho pensato che mi somigliava; cioè che io ero come
lui, per la mia sorte. La madre, la donna della mano, era misteriosa, perché la
fotografia la tagliava al busto.
La signora Eufemia mi fece sedere, mi girò intorno toccandomi le spalle e si
accomodò nella sua seggiola, assestando bene tutto il suo corpo e la scollatura.
Poi si rialzò per chiudere un battente della finestra. «Lei soffre», mi disse, quando,
rimessasi a sedere, cominciò a guardarmi, «soffre molto. Tanto che non so
nemmeno se potremo aiutarla. Guardi questo specchio. Si riconosce? Che le
sembra di avere? Mi dica, come vorrebbe vedersi?»
Io ero stupito, non sapevo cosa dire e pensare e veramente guardai nello
specchio. Ero io e non c’era trucco, anche se la mia faccia mi appariva distante. a
«Voglio vedere il dottor Fioravanti. Sono malato». Perché dissi subito e per la
132
prima volta: sono malato? Perché tutta la mia faccia mi era sembrata intristita
come il mio braccio del dispensario?
«Si vede che è malato. Perché non porta la fede?»
«Ma io non sono sposato».
«Sì, lo so. E questo è uno dei motivi della sua malattia. Con tante buone
ragazze intorno... sua cugina..».
Cosa sapeva di mia cugina? Disse poche altre parole che non udii. Come
aveva potuto parlare di mia cugina?
Avevo paura e pensavo che Palmarucci o Fioravanti venissero ad aggredirmi;
ma ero soggiogato proprio come di fronte a una inevitabile aggressione.
La signora Eufemia mi guardò più da vicino: «Chi è che non vuole? è sua
madre?» Come poteva dire queste cose? Io ne ero turbato fino a pensare in quel
momento che mia madre avesse scritto a mia cugina di non venire o mi avesse
nascosto le sue lettere dalla Francia.
«Deve proprio curarsi per poter risolvere meglio ogni cosa».
«Sì», dissi.
«I suoi mali sono pesanti, molto pesanti. La campagna non l’aiuta, le fatiche...
Dove sente male? Soprattutto, alle ossa, alle gambe, alla schiena? oppure ha mal
di testa?»
Confessai che i miei mali avevano un’origine incerta e che premevano
soprattutto sul mio spirito e sul mio petto, dentro e fuori. Dissi che i medici
avevano congiurato di dichiararmi tubercoloso e di farmi ammalare di tale
malattia. Dopo aver resistito ero ormai a tale fine e per questo cercavo il professor
Fioravanti.
«Non dubiti, domani incontrerà il professore. Ma mentre lui curerà la malattia
con il suo ritrovato io aiuterò lei a rifiorire. Farò ringiovanire il suo corpo e il suo
spirito e le svelerò i segreti e i piani di coloro che hanno congiurato contro di lei.
Mi porti le fotografie di tutti i suoi familiari, cominceremo a cercare di lì».
«Io non accuso nessuno», dissi.
La signora mi guardò: «Dobbiamo trovare la porta.
Non bisogna aver paura. Deve accusare, non deve risparmiare alcun dolore né
a sè né agli altri. Occorre mettersi le dita fino in fondo alla gola per vomitare.
Quando poi avremo trovato la persona, ci penserò io».
Chiesi ancora del professore. «Il professore conosce le mie cure. Lui guarirà il
133
suo corpo solo con iniezioni e massaggi. Mi porti le fotografie... prima i parenti e
le donne».
A quel punto entrò Palmarucci con due tazzine di caffè, una per mano, e ce le
offrì. La signora bevve il suo caffè tutto d’un fiato, e anch’io mandai giù il mio non
avendo avuto il coraggio di rifiutarlo. Quel bere insieme, senza conoscerci, aveva
l’aria di un patto. Le stregonerie erano cominciate sotto gli angiolini e le rose.
«Posso andare? se no, faccio tardi alla mensa», dissi.
Risposero insieme di sì e Palmarucci, guidandomi nel corridoio, disse qualcosa
sulla fortuna della mensa che non capii bene perché la moglie dietro mi stava
fissando gli appuntamenti e l’incontro con il dottor Fioravanti.
In fondo al corridoio Palmarucci sparì e la signora Eufemia mi fermò con le
sue mani. «Non stia soprapensiero», mi disse, «vedrà che risolveremo tutto.
Fioravanti la guarirà ed io l’aiuterò. Venga da me fiducioso come un innamorato».
Mi strinse le mani e continuò a guardarmi chiudendo adagio la porta.
Fuori pioveva e la strada del Distretto era già piena di pozzanghere. C’era un
odoraccio di vino che veniva dalla Cantina Popolare. La strada era una delle più
brutte e vecchie della città, abitata da immigrati meridionali o da vecchi
pensionati. Nessuno di quelli della fabbrica ci avrebbe abitato e molte case infatti
cadevano abbandonate. Ma nemmeno questo mi aprì gli occhi sulle persone che
avevo incontrato; pensavo anzi che, perseguitate dai medici, si trovavano come
me in una triste condizione.
Dell’ambulatorio del professor Fioravanti avevo visto la porta, altissima e
chiusa, a metà del corridoio, con incollata una croce rossa di carta. Pensai a
quella porta per gran parte del viaggio di ritorno ma non mi riuscì di fissare se ne
avevo paura o se mi attirava. Ero incerto su tutto e debole. E quella madama
Eufemia mi aveva reso ancora più debole con le sue domande e con la sua stessa
presenza. Avevo voglia di rivederla, di risentirla interessarsi di me, guardarmi,
sedersi per me accomodandosi con gentilezza, muovere verso di me le sue
braccia.
La notte, verso l’alba, smise di piovere. Io avevo dormicchiato e non avevo più
sonno. Mi affacciai alla finestra senza aprire i vetri e vidi di fianco, alta sopra i
tetti di Candia, una luna enorme e chiara. Intorno al paese e su tutto il lago
c’erano delle nebbie bianche, come una trincea o un’onda; il vento leggiero ne
muoveva la schiuma in alto. Sembrava che il paese e il lago fossero isolati e sul
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punto di essere inghiottiti da quella nebbia viva, che non avrebbe lasciato nulla,
sparendo poco dopo. Io ero l’unico testimonio di questo miracolo che stava per
compiersi e che era sospeso al chiarore della mia finestra come se dipendesse da
me, dal mio pensiero. Mi sentivo forte, un re, con la mia coperta sulle spalle, e
decisi di lasciar fare alla luna, che era ritornata vivida a segnare l’inizio della mia
liberazione. Era l’ultima luna piena dell’autunno.
Cominciarono le mie notti di poco sonno e di magia, in cui tutto mi parlava. I
sonni brevi mi davano pause di una lucidità entusiasmante: risolvevo
immediatamente tutti i miei problemi; ma poi alla mattina non ricordavo in che
modo.
Quella prima notte sognai, quando ripresi sonno sotto la luna dell’alba, la
signora Eufemia. L’incontravo davanti alla fabbrica; scendendo dal pullman la
vedevo chiaramente nei riflessi del finestrino; ma poi non era lei, era una donna
sconosciuta che mi invitava a seguirla; la vedevo da dietro e non la riconoscevo.
Andava verso l’infermeria. Dove dovevano essere gli scalini dell’infermeria
cominciava invece una siepe e poi una strada di campagna, polverosa e fiorita
come in un dipinto. Io pensavo: questa polvere, da dove viene questa polvere?
La polvere si posava e brillava sulla campagna. Intanto la strada saliva e la
donna davanti a me si trasformava; le sue vesti mutavano ma soprattutto la sua
figura, il suo collo, finché si voltò a guardarmi ed io potei riconoscere la signora
Eufemia. Mi sorrideva con un’aria molto dolce. Poi cominciò a salire una scala
senza camminare, sfiorando gli scalini. Le sue vesti e la sua figura mutavano
ancora finché quasi disparvero. Poi la vidi per un attimo ferma e con il volto non
più umano, senza espressione. Era un volto di metallo, un volto sacro che
brillava. Poi tutta la figura apparve come quella della Vergine di Oropa, nera e
splendente. Mentre cercavo di pregare, abbacinato, dentro una esplosione che
m’impediva perfino le parole, quella donna tornava ad essere la signora Eufemia,
con meno luce, sfuggendone la maggior parte in tanti raggi dalle finestre della sua
casa. Tutto perdeva l’aspetto sacro di prima. La signora mi sorrise e mi porse una
mano. Io non riuscivo a raggiungerla perché ero lontano. Allora la signora
Eufemia andò più lontano, verso un angolo, dove cominciò a spogliarsi. Io ero
offeso dalla sua indecenza, offeso e turbato; ma poi in un attimo tutto sparì. Alla
fine del sogno, mentre stavo per svegliarmi, ebbi netta la paura che andasse a
tradirmi con un altro uomo. Anzi fu questo sentimento che mi svegliò.
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Il sogno mi tolse ogni dubbio sull’andare a curarmi e da sveglio lo completai
con la porta crociata del professor Fioravanti. In fondo al cuore, dove restava
l’impressione del sogno, mi sembrò però che proprio con il professor Fioravanti la
signora Eufemia andasse a nascondersi per tradirmi.

* 20 *

La signora Eufemia mi accolse la seconda volta a casa sua sorridendo e piena


di complimenti come da tempo la gente non usava più con me. Volle le fotografie
ed io gliene diedi soltanto una, di mia madre giovane, che lei non seppe
riconoscere, confusa dal vestito e dall’enorme treccia girata sulla testa. Quando
seppe che era mia madre disse che non c’era da temere da lei niente di male,
almeno in quel momento, e che certe piccole cattiverie del passato, fatte a fin di
bene, erano ormai svanite.
Mi chiese altre fotografie, anche di gruppi, e poi cominciò a interrogarmi sulla
mia gioventù e sull’amore.
La stanza era molto fredda e fuori pioveva a scroscio.
Venne un momento Palmarucci a portarci un braciere che la signora si
accostò alle gambe. E fece segno anche a me di accostarmi per arrivare al fuoco.
Eravamo così vicini che io non muovevo le mie gambe per non toccare le sue. La
signora accese una sigaretta sulla brace e continuò a parlarmi. Teneva una
coperta di lana sulle spalle ma era sempre scollata ed io vedevo i suoi merletti. Mi
domandava come erano andate e come andavano le mie faccende d’amore e si
scaldava nel discorso perché io avevo poco da dire e non le raccontavo le cose che
lei pensava. Io accettavo quella sua civetteria che mi copriva con una curiosa
complicità. Era una coperta che mi faceva vincere il freddo, in quella stanza
sconosciuta.
Ogni tanto la signora Eufemia mi toccava inavvertitamente con un ginocchio e
io capivo che quel gesto era un incitamento al discorso, a prendere dentro di me
la spinta, a riportare avanti il fuoco che secondo lei avevo avuto e perduto
malamente, per conto mio.
Tornò Palmarucci con il caffè e mi disse che Fioravanti mi aspettava. Lo trovai
nel corridoio dove ancora parlava con un cliente. Era alto quasi come Tortora, più
magro e più pallido. Aveva due mani lunghe, tutte uguali, come due tavolette.
136
Fumava e sempre lo vidi fumare, anche durante tutte le visite, e in seguito,
mentre mi faceva le iniezioni endovenose, appoggiava la sigaretta sul tavolo vicino
al mio braccio.
Mi fece entrare nella sua stanza. C’erano due scaffali di vetro pieni di
bottigliette e di ferri e un altro scaffale di vetro dipinto di blu, messo al centro
della stanza, dove veniva conservato il famoso siero X3.
Girando gli occhi vedevo un lavandino in un angolo, un lettino bianco coperto
da un paravento, un tavolino tutto ingombro di libri e di ferri e alla fine del giro
un grande divano blu. Nella stanza c’era un odore molto forte e disgustoso. Era
meno freddo che nella stanza della signora Eufemia, anche perché c’era una
stufetta elettrica ed erano ben chiusi gli scuri delle finestre.
C’erano due lampade accese, una al centro, in alto, e un’altra sopra il lettino
bianco. Il fumo del dottor Fioravanti era abbondante e azzurro e consumava tutta
l’aria della stanza. Fioravanti mi sorrise e si sistemò dietro il tavolo. Quando
cominciò a parlarmi da vicino sentii che il suo alito sapeva di dentifricio. Mi fece
spogliare fino ai calzoni e cominciò a toccarmi. Alla fine di una visita silenziosa
disse che non c’era dubbio che il suo siero avrebbe potuto guarirmi. Mi chiese chi
era il mio medico curante e io gli risposi: «Il dottor Tortora».
«È sconosciuto», disse, «almeno nell’ambiente universitario e delle cliniche. Ma
sarà certo un ottimo medico» Poi disse che il malato stesso deve scegliere la cura;
che la sua intelligenza e spirito di conservazione vengono guidati dalla malattia
alla scoperta del rimedio. Così l’anima e il corpo si uniscono per la difesa e il
medico deve soltanto interpretare la scelta del malato, confortarla e basta.
Era tutto vero, quello che diceva. Sulla mia malattia non si pronunciò; guardò
nel mio costato il buco del pneumotorace e scosse la testa. Fuori la signora
Eufemia mi sorrise e Palmarucci mi accompagnò parlando.
Quante volte mi disse che io non sapevo vivere, come tutti qui intorno, e che le
terre qui intorno erano troppo tristi. Fumava, tutti fumavano in quella casa, e mi
parlava appoggiandosi ai vetri di qualche finestra, mentre io aspettavo.
Aspettavo spesso che la signora Eufemia fosse libera e che il professor
Fioravanti tornasse dall’Università.
La signora mi sorrideva e mi toccava; mi avvolse con la sua stessa coperta per
tutto l’inverno.
Fioravanti mi fece molte iniezioni di siero X3. Mi davano caldo alle labbra,
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entrando nelle mie vene con la loro magia. La mia testa si alzava e tutti i miei
pensieri andavano via a frotte come gli storni, di qua e di là nel cielo, aguzzi e con
ogni logica a posto, proprio come tutte le ali che battono nel branco senza
impicciarsi.
Passavo sempre anche al dispensario ma dopo tre mesi Fioravanti mi disse di
non andarci più.
«Ti senti tubercoloso?» mi diceva.
«No», gli rispondevo.
«E allora? basta pneumotorace».
A casa le cose non mi andavano male; stavo molto a letto, leggendo e
ascoltando la radio. Litigavo apertamente con mia madre quando mi occorrevano
i soldi per pagare il professor Fioravanti e la signora Eufemia.
La cura della signora Eufemia era un’aggiunta a quella di Fioravanti ed era
quella che mi dava la forza di litigare con mia madre. Una volta alla settimana
facevamo dei discorsi sul mio destino, stretti intorno al braciere, e ogni mattina io
dovevo prendere a digiuno un liquore di erbe.
Anche questa era un’altra stregoneria che serviva per tenermi legato, per farmi
pagare soldi, soldi come una banca. Non c’era volta che Palmarucci non me ne
chiedesse, magari qualche centinaio di lire per sè. Una volta si mise a piangere
per chiedermi ancora denaro e accusò la moglie di cattiveria. La signora arrivò e
lo cacciò in cucina; mi prese sottobraccio sorridendo e mi accompagnò nella
nostra stanza. Ogni tanto andava a staccare le valvole perché la stufa di
Fioravanti non consumasse troppo. Verso la metà di febbraio ci sedevamo sul
letto per avere più caldo, sempre stretti nella coperta. Lei si sdraiava e io
rimanevo seduto, con le scarpe penzoloni fuori del letto.
«Sono nata in Africa», diceva soffiandosi il naso, «sento tanto freddo», e si
portava una delle mie mani sulle spalle e poi sui fianchi. Più tardi sul petto.
Un’altra volta, piangendo e ubriaco, Palmarucci mi disse di stare attento che
sua moglie voleva prendermi come amante e rovinarmi e chiudermi dentro una
stanza come il povero professor Fioravanti, che per questo aveva rotto la sua
carriera di primario. Ma io tenevo soltanto le mani sotto i vestiti della signora e la
stringevo a me per non farle prendere freddo. In quei momenti interrompeva i
discorsi presa come da un singhiozzo.
Intanto l’inverno era sempre più freddo e bianco.
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Sembrava un tempo che non dovesse finire più e anche io m’abbandonavo
all’idea di quelle cure, per sempre, ormai lontano dalla fabbrica. Era una dolce
scuola senza esami; giorni di letto e giorni a casa Palmarucci, con i caffè, le
iniezioni che mi facevano stare bene e quell’aria che mi faceva sentire lontano da
tutti i vecchi problemi, perfino dalla città in cui ero presente. Abbracciavo la
signora sul letto e godevo dolcemente dentro di me, senza parlare, in un giuoco
meraviglioso.
«Attento che Fioravanti è geloso», mi disse una mattina Palmarucci con gli
occhi rossi come un coniglio.
Entrai nell’ambulatorio e trovai Fioravanti che si stava lavando. L’odore era
insopportabile, più di ogni altra mattina. Il letto d’angolo era sfatto e come
sempre sul tavolo bruciava una sigaretta. «Esca», mi disse e chiamò Palmarucci:
Trovai la signora Eufemia che piangeva nella sua stanza, vestita a metà. Tornai
nel corridoio e incontrai Palmarucci che portava via un vaso da notte. Arrivò
un’altra donna, un’altra cliente che entrò subito da Fioravanti. Aspettai finché
Palmarucci ricomparve; era pieno di soldi, se li mise ordinatamente nel portafogli,
prese un ombrello e uscì. Quella mattina la signora Eufemia mi domandò quando
avrei ripreso a lavorare. Leggeva chiaro nel futuro perché due giorni dopo trovai a
casa un invito di Tortora. Dovevo presentarmi. Non mi ripresentai e dissi tutto a
Fioravanti, che mi consigliò di farlo e di farmi dare le lastre.
Quando mi ripresentai, Tortora mi mandò da Bompiero, al dispensario.
Bompiero aveva preso anche quel posto, appena De Saint Martin era andato in
pensione.
Mi disse che stavo meglio ma che avrei dovuto continuare a curarmi. Dissi di
sì e gli chiesi le lastre. Rispose che non le aveva lui. Io insistetti ed egli mi disse di
chiederle all’infermeria. Andai lo stesso giorno all’infermeria e, dopo alcuni giri e
attese, capitai da un’infermiera. Salì le scale di malavoglia, guardandomi storto.
Tornò dicendo che le lastre erano al dispensario, dal professor Bompiero. Io allora
le chiesi di scrivere e firmare la sua risposta per presentarla a Bompiero, perché
proprio lui mi aveva mandato a cercare là le lastre. L’infermiera cercò di
svignarsela e alla fine mi fece accompagnare da Tortora. Il medicone sospirò:
«Possibile che tutte a lei debbano capitare?» Ma io ero forte. Egli si sedette e fece
un’orribile fatica a scrivere un biglietto che mi consegnò. Per il professor
Bompiero. Uscendo incontrai l’infermiera che correva con un pacco sottobraccio.
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Andava certamente al dispensario a portare le mie lastre. La seguii; ma dovette
accorgersene perché all’angolo della strada salì su un autobus. Ma ero sicuro che
portava le mie lastre.
Corsi dalla signora Eufemia per raccontarle tutto. Nessuno mi aprì. Bussai
ancora e poi uscii a guardare le finestre dalla strada. C’era una luce debole ma
nessuno rispondeva.
Il giorno dopo ebbi le lastre al dispensario ed erano piegate proprio nella forma
del pacco che l’infermiera portava sottobraccio. Lo stesso Bompiero me le
consegnò dicendomi: «Non voglio chiederle che cosa ne farà.
E suo diritto. Ma stia all’erta, amico mio, che con la sua malattia si scherza
poco. Continui a stare a letto in questa stagionaccia e venga qui due volte alla
settimana per le cure. Anche il pneumotorace».
Uscii felice perché mi pareva di aver buttato all’aria almeno una parte dei
piani di Tortora e Bompiero riuscendo a farmi dare le lastre.
La stagionaccia era una bellissima primavera, leggiera leggiera. La terra si
svegliava adagio, con qualche ora di sole e qualche pioggia sulle foglie e sui fossi.
C’era un cielo grandissimo e veloce, con dei venti che lo gonfiavano e che si
rituffavano per la campagna spargendo l’aria celeste.
Il lago era tutto irrequieto e così i pioppi e le betulle intorno. Sembrava la
primavera di un anno coraggioso ed io speravo tanto che fosse l’anno della mia
vittoria.
Sembrava anche un anno molto favorevole per la campagna e bello soprattutto
nei paesi, stretti e puliti nel verde, con il sole sui tetti e sulle facciate a posto, con
gli stradoni aperti verso il vento dei campi. Anno difficile in fabbrica! più lavoro
nei campi, più libertà in campagna, più tardi alla sera nei paesi.
Anche in città c’era l’aria di quel bel marzo, mentre andavo con le lastre da
Fioravanti. Egli le guardò prima alla finestra e poi con quelle sue mani gialle
contro la luce sul letto.
«Niente di preoccupante», disse, «almeno per il mio siero. Molte cicatrici. Vita
di collegio, vita militare. Ma per non subire rappresaglie, continua pure il
pneumotorace». Poi mi fece una iniezione di siero ed io uscii ubriaco e libero.
Andai a passare davanti alla fabbrica. Stava male sotto il sole, sporcandosi
come un vetro rotto. Era già pronta a scaldarsi, a gracidare come una raganella
d’estate. Non trovai nessuno; ma pensando meglio capii che non cercavo
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nessuno, che non mi interessava di incontrare nessuno, nemmeno di quelli che
conoscevo.
Andando a casa guardavo dal treno, semideserto a quell’ora del pomeriggio, i
contadini nei campi e il granicello verde alto una spanna. C’era un contadino
seduto sopra una pietra.
Due giorni dopo Palmarucci venne ad aprirmi con un cappello da prete in
testa. «Abbiamo l’apostolica benedizione su tutti i ritrovati e sull’intera
compagnia, se io ci sono compreso».
Un prete andava a trovare la signora Eufemia. Da Fioravanti c’era la donna
dell’altra volta. Aspettai e presi il caffè in cucina con Palmarucci. Non parlai con
lui perché avevo la preoccupazione di dover tornare al Dispensario per il
pneumotorace. Mi fidavo di Fioravanti ma avrei voluto una lotta più aperta con
Bompiero piuttosto che sottostare, anche solo per comodità, alle sue prescrizioni.
Il prete uscì parlando pianissimo e Palmarucci origliò alla porta per sentirlo
nel corridoio mentre la signora lo guidava. Quando il prete doveva già essere
fuori, la signora mi disse di aspettarla ancora un momento. Poi tornò e aprì la
porta sorridendomi. Nella sua stanza si sedette sul letto e mi disse: «Sta per
capitarci una grossa fortuna. L’autorità religiosa s’interessa alle nostre medicine e
vuol adoprarle nei suoi ospedali e darle per l’assistenza ai malati poveri». Mi
guardò meglio e mi disse:
«Come stai bene, caro Saluggia, quando finirai le cure?»
Queste sue parole mi diedero l’impressione di un tradimento e infatti la
signora non mi fece, come le altre volte, sedere sul letto e si accomodò su una
seggiola di fronte a me. «Albino carino», e si accese una sigaretta e ne fumò una
metà. «Non hai mica paura di tornare in fabbrica?» Mi sentii ancora di più
abbandonato. «Perché proprio tu dici queste cose. Tu sai bene che non ho paura,
che sono gli altri ad aver paura di me. Proprio tu che sai tutto. Se non la smetti ti
butto sul letto». Non avevo mai dato del tu alla signora, che alla fine del discorso
mi guardò sorridendo.
«Bravo Albino. Ti decidi quando ormai è tardi. Siamo stati tante volte sul
letto... Sempre quando è tardi vi decidete. Non arrabbiarti, che nessuno
t’abbandona.
Vieni qui, dammi un bacino. Albino carino», e mi fece il segno di baciarla su
una guancia. Io rifiutai quella stupidaggine. Avevo voglia di bastonarla, di
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abbracciarla e di non lasciarla più. Si alzo, mi prese sottobraccio e mi
accompagno verso la porta. Fioravanti mi aspettava.
Contro la porta la signora mi abbracciò. «Dammi un bacio», mi disse. Non ebbi
più sdegno e la baciai sulla guancia come prima aveva chiesto. Rise prendendomi
per le mani e mi spinse fuori. «Albino, Albino, cosa vuoi fare, se non sai far
niente?» Palmarucci mi guardava dal fondo del corridoio.
Entrai da Fioravanti. Fumava guardando fuori. Si sedette dietro il tavolo e fu
la prima volta che lo vidi seduto. «Sto per esaurire le scorte di siero. Ho dovuto
mandare molti campioni in Vaticano e in Svizzera. Per rifabbricarlo mi occorrono
organi di animali vivi che difficilmente si trovano. Spero che mi costruiscano uno
stabilimento in Svizzera. Ora se lei vuol finire la cura deve prenotarsi. Debbo
essere sicuro. Se si prenota deve versarmi centocinquantamila lire; centoventi
sono per le iniezioni che le ho già fatto, trenta come anticipo per il resto della
cura».
Finito il discorso si alzò di nuovo. Ancora mi stava scoprendo il braccio per
fare l’iniezione. Mi guardo e disse: «Sì, sì, oggi possiamo farla ancora. Però entro
la settimana o centocinquantamila per continuare la cura o centoventicinquemila
per quella fatta; cinquemila sono per oggi».
L’iniezione mi ubriacò più del solito ed alla fine promisi tutti i soldi. Il dottore
segnò la mia risposta sul suo diario e mi disse: «A Palmarucci non c’è bisogno che
gli dia niente».
Palmarucci lo ritrovai vicino alla porta, in piedi; mi accompagnò fuori per un
tratto e poi sparì nella Cantina Popolare salutandomi con una mano.
Lo ritrovai spesso sui banchi di quell’osteria mentre aspettavo che Fioravanti e
la signora Eufemia tornassero da Roma, dove erano andati a sottoporre i loro
progetti in Vaticano.
Erano partiti qualche giorno dopo che io avevo portato per intero le
centocinquantamila lire a Fioravanti.
Più lire venticinquemila alla signora per le sedute e il liquore di erbe. Avevo
avuto i soldi in prestito dalla assistente sociale. Avevo lottato molto ma li avevo
avuti.
Avevo chiesto duecentomila lire perché intendevo fare un regalo alla signora
Eufemia; ma non glielo feci più quando mi domandò le venticinquemila lire. Mi
aveva visto rimettere in tasca i fogliettoni rosa e gli occhi le erano usciti dalla
142
testa. Avuti i soldi, mi aveva guardato con la vecchia aria dei singhiozzi. Poi erano
partiti insieme, qualche giorno dopo, senza dirmi niente. Ma non dovevano aver
avvertito nemmeno Palmarucci.
In quei giorni di attesa, nella città sempre vuota durante le ore di lavoro della
fabbrica, finivo spesso al cinema o per sedermi a fianco di Palmarucci. Egli
beveva e si lamentava continuamente. Non stava bene in Piemonte. «È una città
questa? Non c’è nemmeno il corso dove la gente vada a passeggio e si possa
vederla. E dove sono i caffè con i gruppi d’amici? Nelle osterie ci sono solo i
vecchi, con catarri lunghi fino ai calzoni. Non si fanno due parole. Anche le donne
sono brutte. A Gubbio a quest’ora ci sono almeno cinque caffè pieni di gente e
cento tavoli di ramino o tresette. Tutti uomini, studenti, commercianti,
possidenti, impiegati, avvocati, dottori. Qui ci sono tre vecchi che bevono più
sputo che vino. Stanno tutti dentro la fabbrica, che non si vede nemmeno. È
messa fuori, come da noi i carceri o i cimiteri. A passarle davanti mette paura. In
giro ci sono solo donne, vecchi e malati. La domenica poi, non c’è più nessuno.
Non ho nemmeno capito da che parte siano le chiese. Meglio un paese; un paese
qualunque dalle mie parti. C’è più vita all’Osteria del Gatto. Almeno la gente sa
dove andare. Anche il vino nostro sembra più buono.
Tanto decantata questa barbera, che si mette sullo stomaco come un cazzotto.
Guardali, questi bevitori, sono più i singhiozzi che le bevute».
Mi pareva che il discorso di Palmarucci fosse vero e la sua verità mi dava la
voglia di tornare a casa e di ritrovarmi protetto nella vita di Candia. Anche questa
non era come diceva Palmarucci; ma il ripensarla da quell’osteria e in quel
disordine della città, dove non sapevo nemmeno che cosa cercavo, me la riportava
tranquilla e confortevole, con una strada più grande delle altre, i due caffè aperti,
la piazza del comune e la chiesa, e da ogni parte la discesa verso gli orti e il lago,
o la salita verso le vigne e le boschine dei castagni.
Se avessi fatto il contadino e fossi rimasto a Candia, pensavo, non mi sarei
ammalato. Avrei potuto comperare altra terra, prendere un trattore e mettere su
una stalla. Avrei potuto vivere per conto mio e decidere ogni giorno il mio lavoro
libero per i campi. Le stelle segnano le stagioni e si sa quando seminare, rivoltare
la terra, mietere e tagliare i fieni. Le piogge gonfiano i semi e aprono i solchetti al
sole che viene dopo. Avrei potuto cambiar strada dietro una lepre o risalire i fossi
del confine. Scuotere gli alberi da frutta o sedermi e dare una voce a quelli degli
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altri campi. Fare un lavoro mio, completamente; risparmiare, scegliere le scorte,
la legna, i mangimi. Lasciare le cose per l’inverno; usare poco i soldi. Invece ho
accettato il lavoro della fabbrica. Mi è stato imposto dai progetti degli altri, che mi
hanno scelto come la loro vittima. Lavorare a ore, un minuto dietro l’altro, una
mano dietro l’altra, una schiena dietro l’altra, nelle grandi officine. Dipendere da
altri, senza nemmeno conoscerli ed essere confuso tra tutti gli altri. Tutti i
conforti della fabbrica diventano alla fine, come per me, dei motivi di pena. E
soprattutto subire l’ingiustizia. A questo punto mi alzai. Palmarucci parlava
ancora, rivolgendosi alla gente di un altro tavolo. L’odore del vino era troppo forte
per me ed aveva una vena di acidità che mi fece ricordare l’odore di certi posti
della fabbrica.
Uscii e mi diressi lentamente verso il Dispensario.
Quel giorno avrebbero dovuto farmi soltanto l’iniezione. Trovai sulle panche
dell’attesa le solite persone; non le conoscevo e non so nemmeno se fossero
sempre quelle che incontravo. Ma lì dentro tutti ci assomigliavamo; forse perché
non riuscivamo mai a rompere quel silenzio che l’ambiente imponeva. Pareva
sempre che le voci e i rumori non avessero nulla a che fare con le persone.
Ero impaziente e più del solito convinto dell’inutilità di quelle cure. Ancora
una volta posai sul lettino il mio braccio nudo e la sua nudità, come qualche volta
accadeva, mi fece compiangere e affezionarmi a me stesso come a un bambino.
Ero agitato e mi fecero tre buchi prima di trovare la vena. Sentivo il liquido
entrare dentro di me e dopo un attimo i denti allegati e con una particolare
sensibilità come se avessero cambiato posto sulle gengive. Tutto questo mi dava
anche un senso di peccato, d’impudicizia. Uscii quindi in fretta e mi buttai
velocemente per la strada. Mi accorsi dopo di essere diretto verso la fabbrica.
Capii che era per abitudine e forse anche per un desiderio, la cui scoperta non
mi dispiacque. Quando alzai gli occhi per vedere bene e per rompere del tutto
l’incanto, vidi Pinna che attraversava la strada. Cercò subito di fare dei discorsi
banali ma io lo fermai. «Anch’io vorrei stare all’aria aperta», disse, «all’aria aperta».
Io gli chiesi solo che novità ci fossero in fabbrica.
«Nessuna», rispose, «nessuna. Si lavora sempre di più, ecco la novità e c’è
sempre più gente».
«Ma tu», gli dissi, «come riesci a vivere in città?» Mi guardò seriamente e tirò
un grande sospiro per riflettere. «Con i debiti», disse e tutto il suo peso parve
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aumentare. Fu la sua tristezza a impedirmi di dirgli che non aveva capito niente.
Ma poi disse una cosa che poteva servirmi. «Malattia o no, cerca di tornare a
lavorare più tardi che puoi».
Davanti alla fabbrica non c’era nessuno e mi tornò in mente il discorso di
Palmarucci. Però vedendo Pinna rientrare di corsa lo invidiai.
Tornato a casa dissi a mia madre che sarebbe stato meglio se avessi fatto il
contadino. Ella non mi capì.
«Chi ti avrebbe curato e pagato? Abbi più fiducia e riguardati che a quest’ora
potresti essere guarito. Perché vai sempre in giro tanto tempo?»
Mangiai senza rispondere, masticando la risposta parola per parola e
pensando amaramente il modo di farle più male. Di sopra cominciai a scriverle
una lettera anonima. «Dove va vostro figlio? Va sempre in giro e si è messo nelle
mani di alcune donnacce. Così rovina la sua salute e spende i suoi soldi. Colpa
anche vostra che non rinnovate il vostro linguaggio».
Decisi di spedirla qualche giorno dopo dalla città.
Così avrebbe capito che i miei problemi meritavano più attenzione e che tutto
era più grave di quanto lei immaginava e di quanto le sue parole composte, e una
per una attaccate, potevano rappresentare.
Qualche giorno dopo tornarono da Roma la signora Eufemia e il dottor
Fioravanti. La signora era pettinata diversamente, con una testa piena di ricci. Mi
sorrise e mi abbracciò. Accese una sigaretta, mangiò un cioccolattino e uno me
ne diede, e cominciò a chiedermi come stavo. Dopo un poco, e sempre lei aveva
parlato, disse che le cose non erano andate come speravano. Il Vaticano voleva
delle prove che loro non potevano dare. Altri medici avevano tramato contro
Fioravanti. Cominciò a piangere stringendomi e dicendomi tra le lacrime che mi
capiva, che vedeva meglio la mia difficile situazione e gli inganni di cui i medici
erano capaci. Fioravanti aveva proposto di curare il Papa con il siero; ma non
glielo avevano lasciato fare. Milioni sarebbero occorsi per corrompere i medici e
per dare al siero il nome di Gesù guaritore.
Ci buttammo sul letto abbracciati e io aspettai che si calmasse. Fioravanti
dopo mi fece l’iniezione di siero con la solita indifferenza da scienziato. Io
guardavo in giro e vidi sul divano tre camicie nuove.
«A maggio, verso la metà, la cura sarà completamente finita. Vedo già dalle
reazioni che lei è quasi guarito.
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Non tutto il siero viene assorbito».
La promessa della guarigione così vicina non mi rallegrò molto. Ero sicuro di
guarire presto fin dal giorno in cui Bompiero aveva dovuto consegnarmi le lastre.
Anzi, dover aspettare la metà di maggio per avere una cosa che era già mia da
tempo mi dava fastidio. Ma i giorni sarebbero passati, con la primavera e con la
Pasqua, e per farli passare bene avrei dovuto imparare qualcosa per rientrare in
fabbrica con sicurezza e ritrovarmi di fronte i medici, il lavoro e chissà quale
reparto. Il fastidio di dover aspettare un giorno lontano e reale per una cosa mia e
già dentro di me, sfumò nel sospetto che Fioravanti volesse risparmiare il siero e
toccò la paura di essere abbandonato da lui proprio alla fine, sul punto della
redenzione completa...
Gli chiesi allora se fino a metà maggio avrebbe continuato a farmi le iniezioni.
«Sicuro», disse, «e sempre con la stessa dose». Gli chiesi anche se i medici
avrebbero dovuto considerarmi guarito. «Sicuro», disse, «ma prima di tutto la
guarigione vale per te. Non farti fare altre lastre. Oggi debbono giudicare
clinicamente».
L’iniezione mi ubriacò più del solito e uscii barcollando, con il piacere della
mia leggerezza su una gamba e sull’altra; le mie gambe fedeli di cui sentivo
l’intera compagnia. Andavo proprio come un uccellino di primavera che sbanda
vicino alle fratte, curioso di ogni foglia.
Palmarucci mi chiamò dall’osteria e gli risposi di no con una mano. Ero solo,
stavo bene e godevo la giornata. Mi abbandonarono ad un tratto le gambe ma
cominciò la faccia fino alle orecchie a intrattenermi con ogni lineamento evidente
per conto suo. Li sentivo come se potessi tenerli nelle mani, davanti a me, volta a
volta il naso, la fronte, le guance, le labbra. Pensavo che in quel modo mi stavo
ricomponendo e riconoscendo. Ormai nessun Tortora avrebbe potuto tradirmi.
Davanti alla stazione mi ricordai della lettera per mia madre. Decisi di rileggerla
prima di spedirla. Non mi convinse più molto, forse perché non avevo in quel
momento il motivo di offendere. Mi piacque la parte sul linguaggio e capii che era
veramente l’ora di parlare in un altro modo, non solo per lei ma anche per tanti
altri. Non spedii la lettera e la rimisi in tasca, per altri momenti o meglio come
memoria sulla necessità di far capire agli altri di cambiare linguaggio, perché altri
momenti di risentimento contro mia madre non mi sembravano più possibili, con
tutta quella tenerezza che avevo di essere guarito e di correre ad abbracciarla.
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Arrivò una Pasqua molto dolce. Io mi ero ben preparato, anche con un vestito
grigioazzurro che mi ringiovaniva. Comperai un fazzolettino di seta e un profumo.
In cielo c’erano molte nuvole, immense e bianche, che facevano piccola la
terra e splendente. Pur con tante nuvole, il sole trovava sempre un passaggio ed
arrivava chiaro e vibrante dappertutto.
Alla messa di mezzogiorno a Candia vidi Giuliana, con un velo in testa che le
dava un’aria domestica, molto più gentile di quella della fabbrica. Mi vide anche
lei e mi sorrise. All’uscita era accompagnata da due donne più anziane e tutte tre
svoltarono per la strada bassa del lago, fuori del paese. Pensai che Giuliana
abitasse in campagna, sull’altra sponda del lago, in quelle parti più ombrose e
folte, esposte a nord. Dalla finestra di casa mia guardai quei posti e vidi, appena
toccata dal sole, una casa che poteva essere la sua. Giuliana poteva forse
scendere dal treno alla stazione dopo Candia e fare, tagliando in basso la collina,
un mezzo giro di ritorno per arrivare a casa, ancora prima che da Candia,
attraverso la stradina fangosa perduta nella sua curva intorno al lago.
Nel pomeriggio tornai in paese sicuro di incontrare Giuliana di nuovo; era la
giornata felice, il suo sole, a darmi quella sicurezza. Invece no. Fui deluso per un
paio d’ore, girando da un posto all’altro. Meglio così, oggi posso dire. In quei
giorni però, oltre al mio indiano e al mio scarpone, guardavo anche la casa di
Giuliana.
Queste cose mi confortavano nell’attesa del 15 maggio, data della mia
guarigione.
Le cure al dispensario erano sempre più pensati. Temevo che Bompiero non
volesse considerarmi guarito, respingendo le conclusioni di Fioravanti. Come la
guarigione si avvicinava, cioè la mia ripresa dai colpi degli altri, aumentavano i
miei dubbi sul lavoro della fabbrica.
Nella fabbrica bisogna starci giorno per giorno, avvelenarsi gradatamente; se
uno se ne libera anche per un breve tempo riesce a vederne tutti gli orrori. Mi
attirava però l’idea di farmi riconoscere vivo, guarito e non vinto; di far capire a
Tortora, a Manzino, che c’era qualcuno in grado di resistere alle loro prepotenze.
A farmi rivedere, sarei stato più forte di Pinna, avrei vinto nel carattere qualsiasi
altro di tutti quelli legati al reparto e al lavoro con rassegnazione, senza le
battaglie che io avevo combattuto. Ma insieme a queste idee, altre ne avevo di
abbandonare la fabbrica, di aprire un negozio, una tabaccheria. O pensavo di
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prendere una campagna sulla sponda del lago, irrigarla e coltivarla a verdure per
i mercati di X e di Torino; di tenere anche delle mucche da latte e dei vitelli. La
tabaccheria sarebbe stata più adatta per me e ancora oggi rimpiango la vita libera
e comoda che avrei potuto farci. Però allora la primavera mi faceva trionfare e il
primo maggio volli andare a passarlo proprio a X. La città era deserta; c’era stato
un comizio della C.G.I.L. alle 9,30 e poi tutti erano partiti per le campagne o i
piccoli laghi d’intorno.
Davanti alla fabbrica c’era solo un’auto e un’aria bianca, più bianca che su
tutto il resto del paesaggio; un enorme cubo d’aria più luminosa, con un tono
metallico e falso. La stessa fabbrica stava sulla terra come se vi si fosse posata
pochi attimi prima. Questa impressione si aveva anche quando la fabbrica
lavorava e intorno vi formicolavano gli uomini; ma quel mattino fu folgorante, con
il suo silenzio innaturale e quell’aria strana. Allontanandomi sentivo con
precisione che sarei tornato nella fabbrica, che non era ancora finita la mia lotta
anche perché non avevo ottenuto la vittoria che meritavo.
Mi venne poi il pensiero che mai tanto bene fisicamente come quel giorno io
mi ero sentito di fronte alla fabbrica. La mia salute vinceva ogni dubbio o paura.
Infatti tre giorni dopo, al dispensario, lo stesso Bompiero mi sorrise e mi fece
capire, con un gesto involontario, che la mia guarigione era in porto. Fioravanti
disse che non poteva accadere diversamente, a quel punto, quando mancava una
sola iniezione di siero. Andai a salutare la signora Eufemia, in fretta, dalla porta;
ormai le sue arti non mi convincevano più e lei nemmeno tentò di adoperarle.
A casa fissai l’ora dell’ultima settimana. Decisi di non dir niente a Bompiero
sino al giorno dopo del 15, dovendo allora ripresentarmi per le solite cure. In
quegli ultimi giorni studiai molto mia madre, per non avere sorprese dopo,
tornato in fabbrica e ripresa la mia vita.
Mi domandò se mi ero curato bene secondo me ma anche secondo i medici.
Lei sarebbe caduta nei loro tranelli, questa era la differenza tra di noi; ci sarebbe
caduta tanto da trascinare anche me. Non era nemmeno possibile convincerla del
suo sbaglio e ogni discorso avrebbe risuscitato contrasti e lacrime. Quindi
l’assicurai anche sul parere dei medici.
La mattina del 15, presi dall’armadio i soldi che vi avevo nascosto per pagare
Fioravanti, indossai il vestito nuovo, mi feci due smorfie allo specchio e uscii per
andare a fare l’ultima iniezione. Il tempo era come doveva essere. La corriera era
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semivuota e il viaggio fu veloce.
Presi un caffè nel bar più bello di X, e il farlo era una cosa prodigiosa e
fortunata; l’aroma del caffè colmava la mia anima e profumava tutto intorno a
me; profumava come la mia gioia. Camminai verso la via del Distretto senza mai
fermarmi e senza riconoscere le strade. Solo alla fine la porta di Palmarucci mi si
parò davanti con la sua realtà e fu un’altra gioia, come un poco di sole che
schiariva la vernice e addolciva l’ottone dei battenti.
Il mio braccio era tranquillo e Fioravanti mi fece l’iniezione fumando; ma
anche sorridendo, quell’ultimo giorno. Gli avevo consegnato i soldi senza
rammarico, contento di pagare. La signora Eufemia venne a salutarmi
nell’ambulatorio e a invitarmi da lei. Nella sua stanza c’era ancora un’aria fredda,
per quanto il sole fosse alla finestra e su tutte le spazzole e le boccettine dei suoi
capelli. La signora Eufemia mi disse che io ero ormai un uomo felice e che avrei
dimenticato lei e le sue cure; che mi sarei sposato con fortuna perché ero un
giovane che non si era sciupato. Intanto il sole delle undici e mezza, sottile e
silenzioso, batteva sulla sua vestaglia e sul suo collo e faceva apparire vecchio
persino il suo corpo, oltre alla sua faccia e ai suoi capelli. Tutto sembrava come
una frutta invernale, tolta dalla vetrina. E così appariva a me ogni cosa di
quell’ambiente, legata alle brutte giornate dell’inverno, a quel letto spiegazzato,
alla stufa.
Diedi alla signora gli ultimi soldi e uscii per la strada.
La primavera mi accolse con le sue tele di sole che scendevano dai tetti e mi
accompagnò con un odore di cucina per le strade vecchie della città, fin quando
non arrivai nelle piazze del lungofiume, già calde e abbacinate.
Il giorno dopo mi presentai al dispensario; ma feci solo le cure, perché
Bompiero era assente. Proprio quel giorno, maggio cambiò e riprese nebbia e
pioggia dalla Val d’Aosta, una nebbia molto fitta che camminava veloce sotto gli
squarci di luce. La pioggia aveva già lo sporco e gli odori delle piogge d’estate.
Quel tempo mi stancava e mi diede ancora qualche brivido lungo le spalle. Fu
così facile alla malafede di Bompiero di dirmi che ancora dovevo curarmi, anche
se per poco e solo per alcune cure di consolidamento.
«Per la fabbrica non c’è fretta. Dopo le ferie?»
«No», dissi io, «prima».
«Va bene, prima. Come vuole lei».
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Come potevo fidarmi di un medico con il quale potevo contrattare la data della
mia guarigione? Ma ormai non avevo più alcuna incertezza ed ero contento di
riprendere il lavoro; per orgoglio. Ero contento di ricominciare prima delle ferie, in
modo da riavere presto un periodo di vacanza che mi avrebbe consentito di
riposare e vagliare le reazioni alla ripresa del lavoro.
Scrissi una lettera al vescovo, chiedendo il suo aiuto contro i malvagi e decisi
di andare a parlare con Grosset. Scese a incontrarmi vicino all’ufficio delle
guardie, dentro la fabbrica. Alla fine di un lungo discorso nel quale mi confortò a
riprendere il lavoro – «o dentro o fuori» – mi diede la notizia che adesso era lui a
sentirsi poco bene. Allora questo mi fece dispetto e lo considerai una scusa per
cercare di non capire fino in fondo la mia situazione; mi sembrò anche una
mancanza di riguardo nei miei confronti, una specie di scherzo poco amichevole.
Dopo il colloquio con Grosset andai a trovare l’assistente sociale. Feci bene
perché mi prenotò subito il posto in montagna per il mese delle ferie.
A casa, in quei giorni, girellavo di stanza in stanza, senza restare, come avevo
quasi sempre fatto, il più del tempo a letto o alla finestra, nei miei colloqui con lo
scarpone e l’indiano. L’indiano andava cambiando fisionomia e mi sembrava
veramente che invecchiasse.
Avevo problemi così reali in quegli ultimi tempi che spesso erano proprio lo
scarpone e l’indiano a guardarmi in silenzio mentre io correvo tutt’intorno al lago
con i miei pensieri. Sorprendevo il loro sguardo nei momenti di pausa, quando
qualcosa nel paesaggio si muoveva rompendo la mia fissità e la catena dei miei
pensieri. Allora intravvedevo le due vecchie fisionomie sempre al loro posto e
sempre rivolte verso di me, pronte a cominciare.
Girellando per le stanze avevo tanti suggerimenti e idee concrete che mi
occupavano in attesa degli ultimi giorni di Bompiero.
La mia ansia così si placava o soltanto diminuiva d’intensità allargandosi su
tutto. Cominciai a guardare la casa come non avevo mai fatto, pensando di
ripararla, cambiare mobili, cambiare la scala, allargare le finestre.
Così incontravo spesso mia madre e mi rendevo conto della sua giornata.
Parlavamo poco, anche se dopo il primo incontro ciascuno di noi seguiva l’altro
ogni momento, con tante reticenze, con finte e agguati. Dietro ogni parola avrebbe
voluto esserci un discorso e dietro ogni occhiata tanti ricordi e allusioni. Quando
non ne potevo più, uscivo nell’orto. Avevo ripreso a fumare e questa era un’altra
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cosa che dava fastidio a mia madre.
Ogni volta che uscivo o che usciva lei, trovava la forza maligna di iniziare sotto
voce un discorso brontolone del quale mi giungeva appena il tono.
«Parla forte», le dissi, «fatti capire».
«È inutile parlare, tanto non vuoi capire».
«Cosa?»
«Tutto. Perché fumi di nuovo e perché non ti riguardi?» Non erano queste le
sue preoccupazioni; ma queste poteva urlarle e con una parvenza di giustizia.
«Di’ la verità», le dissi.
«Quale verità? Non ti curi. Dove hai buttato tutti i soldi? Tu vai con le
donnacce e lì hai rovinato la tua salute».
«Io sono guarito e presto riprenderò a lavorare».
Questo le dissi l’ultima volta, il giorno prima di andare da Bompiero.
La mattina trovai il vestito nuovo ben stirato e ogni altra cosa preparata. Mia
madre mi aspettava in cucina.
Io aprii la porta e feci colazione guardando l’orto. Mentre mangiavo mia madre
piangeva in silenzio; poi volle abbracciarmi. La colazione mi aveva fatto bene,
perché anche in città il mio stomaco era pieno e caldo e non si torceva, come le
altre volte, per l’emozione, e questa era la più grande che avessi avuto nell’attesa
del responso di Bompiero. Insieme mi dava conforto il bel tepore della stagione ed
io mi sentivo tranquillo in un dolce imbambolamento. Al dispensario mi sedetti
nell’anticamera silenziosa, insieme a tutti gli altri. Non lasciavo trasparire nulla
dal mio viso o con qualche parola, per discrezione; per un delicato sentimento di
discrezione che mi faceva comunicare ancora meglio con gli altri.
Fui chiamato e vidi Bompiero tutto nuovo e lucido con le maniche rimboccate
e i polsi neri e pelosi. Mi guardò dritto in faccia, mi sorrise e fece un breve
discorso anticipando una speranza.
«Sono sicuro di essere guarito», dissi.
Mi visitò accuratamente, toccando punto per punto la mia schiena e il mio
petto. Mi guardò in gola, gli occhi, le mani. Tastò il mio stomaco e la mia pancia.
Si alzò e guardò fuori. Alzò poi le mie braccia e le riabbassò. Provò i riflessi dei
miei ginocchi. Mi cavò sangue e lo passò all’infermiera. Mi fece anche orinare in
un bicchiere. Poi mi fece sdraiare. Accese una sigaretta. Io sentivo il mio cuore
sicuro e pulito battere sul lettino. Il mio cuore era più tranquillo di me. Bompiero
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mi tenne qualche momento sul lettino, mentre illuminava le lastre. Poi mi fece
rialzare e mi passò alla radioscopia. Liberatomi dalla macchina mi chiese di
denudarmi del tutto e cominciò a guardarmi la schiena e a toccarmela fino alle
gambe. Con una matita mi faceva segni lungo la spina dorsale e mi ordinava di
curvarmi o di stare diritto. Alla fine mi guardò la gola.
«Sì», disse, «sta meglio. Qualche altra settimana di iniezioni e riposo e poi in
fabbrica».
«Due settimane», dissi io. Bompiero mi guardò fisso; ma un’incertezza lo vinse.

* 21 *

Dopo due settimane esatte aspettavo davanti all’Ufficio Personale. Ero solo e
sicuro e ogni cosa era al suo posto. Non sentivo intorno a me l’aria di congiura
delle altre volte. Il colloquio con l’impiegato fu breve; non poteva mandarmi da
Grosset e mi destinò al montaggio.
Dieci minuti dopo ero sul posto di lavoro. Il capo, signor Milione, mi domandò
dove avevo lavorato prima.
Il nome di Grosset gli fece stirare le labbra. Mi comandò di sistemarmi in
fondo alla fila. Nel reparto erano quasi tutte donne; era un reparto famoso per
questo, per la bellezza di alcune e per le chiacchiere di altre. Dopo i primi giorni
sentii dire che Milione, quando andavano al cesso le più belle, le seguiva e si
arrampicava a guardarle da sopra i muri divisori. Cosicché veniva chiamato «il
Milione di carta igienica», oppure «tira la catena». Decisi subito di restare fuori da
queste storie e di fare mio lavoro senza altri impicci.
La fase di montaggio era semplice e il tempo abbastanza largo. Entrai nella
media comodamente, senza forzare. Solo che quel lavoro mi sembrava indegno
per un uomo e per le mie qualità. Io mi sentivo la forza e la voglia di costruire
seriamente qualcosa. Ma non era quello il momento di dire niente a nessuno. Le
donne del reparto mi guardavano con curiosità, senza chiedere niente. Anche gli
altri uomini erano isolati e quindi non prendevano iniziative e non pretendevano
niente. Milione compiva qualche giro, salutava e non faceva osservazioni. Il
reparto era al margine della fabbrica e nell’intervallo, andando in mensa,
bisognava attraversare molte officine già deserte.
Alla mensa incontrai Pinna e Gualatrone che venne a cercarmi. Pinna era
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vestito bene e come sempre sorridente con la sua bocca rotonda; mi disse che si
interessava di sport e che voleva fare un corso per arbitri. Gualatrone era sempre
molto bello; portava una tuta celeste e un fazzoletto rosso nel taschino. Pettinava
i capelli corti sulla fronte e mangiando leggeva il giornale. Lavorava ancora nel
reparto di prima; non più sotto Manzino, che era stato promosso e passato
all’Ufficio Tempi.
Gualatrone si era fidanzato con una ragazza di Viverone, figlia di un
albergatore. Mi mostrò la fotografia e mi disse che era incerto sulla data delle
nozze. Pinna e Gualatrone mi chiesero poche notizie sulla mia vita e sulla mia
salute. Furono loro anzi a concludere in fretta per me che stavo bene e che
dovevo lavorare tranquillo.
Alla mensa non vidi mai Grosset e una volta andai a cercarlo nel reparto
subito dopo mezzogiorno. Si stava mettendo la giacca e mi salutò
affettuosamente. Piegò i suoi giornali e disse che da qualche tempo andava a
mangiare a casa, perché non digeriva più i cibi della mensa. Doveva mangiare
poco e riposarsi un momento.
Uscendo non chiuse la sua scrivania e non si voltò a dare una occhiata alle
macchine.
«Sta’ tranquillo, se hai ripreso a lavorare», disse anche lui, ma con un tono
diverso da quello degli altri. Arrivai alla mensa tardi e al banco mi servì Giuliana.
Fece un cenno per dire che non poteva parlarmi. Dopo la mensa andai a sedermi
nel parco, sotto gli alberi, come sempre. Mi alzavo soltanto alla seconda sirena
perché tornavo in reparto per una strada breve, un passaggio chiuso, davanti ai
depositi di infiammabili. Così rimanevo di più all’aperto e non dovevo seguire tutti
gli altri.
Questa piccola libertà mi dava un grande sollievo. Spezzavo il pomeriggio di
lavoro in tre modi, regolarmente.
Fin verso le quattro lottavo contro il sonno e il caldo lavorando poco, sotto la
media, pensando a tante cose e preparando i progetti per ottenere in ditta un
posto migliore e una qualifica. Ogni gruppo da montare lo rigiravo sul banco e lo
facevo anche dondolare come un passatempo; intanto fumavo tre sigarette. Verso
le quattro andavo al gabinetto e ci stavo dai cinque ai dieci minuti: mi lavavo
ripetutamente le mani e la faccia e percorrevo il corridoio a passi piccolissimi,
dietro ogni distrazione, anche un chiodo sul muro. Dopo, riprendevo a lavorare
153
con un ritmo molto alto, che mi consentiva di riportarmi nella media del cottimo e
andavo avanti così per un’ora.
Per un’ora facevo un lavoro vorticoso senza stancarmi; seguivo il lavoro con
dei pensieri velocissimi però inarticolati e quasi senza senso. Per lavorare a quella
velocità era necessario avere in moto anche la mente; se però nei pensieri mi
entrava qualcosa di possibile, se cioè nel groviglio si formava una combinazione
reale, questo per un momento mi faceva pensare sul serio e allora interrompeva il
mio ritmo. Dopo quest’ora di lavoro mi alzavo per andare a prendere un’aranciata.
Ne bevevo tre sorsi vicino al distributore e il resto me lo portavo al posto, anche
per avere la scusa di camminare piano, per non rovesciarla. Consumavo poi la
bibita a intervalli nel giro di un quarto d’ora, mentre guardavo fuori ogni
cambiamento del cielo per le prime cadute della luce; veniva qualche nuvola o
scia o corrente o si stendeva un metallo compatto e inattaccabile che sembrava
un’altra parte della fabbrica. Arrivavo così a un’ora dall’uscita. Con il lavoro ero in
pari e cominciavo a sentire il sollievo della libertà ormai prossima. Continuavo a
lavorare seguendo tutta la vita del reparto, a quell’ora animata e piena di voci.
Già qualche donna si alzava dai banchi, girellava, si pettinava o faceva dei segni a
un’amica. Dopo mezz’ora quasi nessuno lavorava più; tiravano fuori borse e
giornali, specchi e pettini e si componevano anche dei gruppi. Qualche ragazza
dietro il banco si tirava su le calze e s’aggiustava la sottoveste sotto il grembiule.
Le più sfacciate o le più interessate facevano questi piccoli gesti con civetteria
davanti a Milione, che camminava su e giù per tutto il reparto. Io continuavo a
lavorare con queste distrazioni e non provavo noia e nemmeno l’ansia di vedere la
sfera dell’orologio scendere lentamente a destra e raggiungere le sei e mezzo.
Alle sei e mezzo meno cinque minuti riponevo l’ultimo pezzo, stendevo le
gambe un attimo, passavo le mani sul banco e mi alzavo. Accendevo una
sigaretta e la fumavo lentamente per tutta l’uscita dal reparto fino a gettarne la
cicca nel momento di prendere la cartolina per il timbro di chiusura. Mi vestivo in
fretta nello spogliatoio e mi lavavo le mani e la faccia, e in fretta andavo alla
stazione per prendere il treno delle 18,40. Era difficile trovare posto ed io restavo
nel corridoio a guardare un paesaggio che conoscevo ormai come una cosa mia;
ma questo era sempre meglio che parlare stupidamente negli scompartimenti.
La sera del mio incontro con Grosset vidi che in treno viaggiava anche una
ragazza del mio reparto, in piedi a gambe aperte in fondo al corridoio. La vidi poi
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quasi tutte le sere, sempre con le gambe aperte o con una gamba alzata o, se era
seduta, con le gambe accavallate e la sottana tirata sopra il ginocchio. Non si
poteva evitare di vedere le sue gambe, e lei stessa molto spesso se le guardava o le
agitava come per esprimersi. Insieme alle sue gambe parlavano i capelli, che lei
scrollava quasi continuamente. Tutti i suoi gesti erano imperiosi e lei era davvero
bella. Non aveva bei colori, gentilezze, rossetti e altre minuzie della bellezza
femminile; ma uno più la guardava e più s’accorgeva della sua bellezza, accanita
e seria; una bellezza che appariva sempre più forte. Io cercavo ogni sera di
incontrarla e la guardavo senza salutarla. Lei mi riconosceva e mi guardava a sua
volta con un tono interrogativo, sorpresa dalla mia aria di sfida. Aveva sempre
molti mosconi intorno che non trattava né bene né male; una volta mi accorsi che
aveva la fede di maritata. In tutti quei giorni fino alle ferie del 28 luglio non
incontrai mai sul treno Giuliana, né la vidi scendere alla stazione.

* 22 *

Le ferie le passai in montagna, nel turno di convalescenti della ditta. Gli altri
mi diedero fastidio, i primi giorni, con la pretesa della compagnia. Andavo a
passeggiare da solo e visitai tutti i paesi vicini, anche con la corriera.
La montagna mi faceva bene: dormivo, mangiavo e passeggiavo. Bevevo anche
moltissima acqua ferruginosa di una fonte vicina. I pensieri erano pochi e non
riguardavano né i medici, né la fabbrica; soprattutto pensavo a mia madre con la
speranza di poter riavere con lei un’intesa completa. Sapevo che pensavo una
cosa impossibile e che lo facevo con una chiara riserva; io, nel mio intimo,
continuavo ad avere sempre buoni rapporti con mia madre e continuavo a
figurarmela sempre dolce; così nella realtà proprio io non potevo accettare che
fosse brontolona ed anche invecchiata e quindi reagivo e l’offendevo e più
l’offendevo più si apriva con dolore l’occhio sul passato, sull’immagine custodita
di noi due più giovani e affettuosi.
Tutte queste cose non avevano nulla a che fare con il lavoro che sentivo tanto
importante nel momento stesso in cui rientravo in fabbrica. Infatti nei giorni
successivi, e così per tutto il resto dell’anno, la fabbrica fu la cosa che mi
interessò di più; la mia vita divenne quella del mio lavoro. Accanitamente cercavo
il mio posto e mi convincevo della bellezza della fabbrica; della sua immutabilità
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mentre anche l’autunno scendeva e tutta la campagna si impoveriva e si allargava
di squarci, si adagiava sotto le acque delle piogge mentre dai grandi varchi
avanzavano il freddo e la nebbia e la miseria dei contadini.
L’unico difetto, che a quel tempo però mi appariva come la prova di una
particolare bellezza, era che il mio rapporto con la fabbrica era unico, soltanto
mio e muto, e non avveniva tramite la compagnia del reparto o di altri. La
fabbrica rimaneva insensibile, lasciava a me ogni iniziativa e conclusione; mi
incantava e mi faceva farneticare come un ragazzo. Allora cercai di osservare
come gli altri stavano nella fabbrica e che cosa questo volesse dire per loro. Quasi
tutti subivano la fabbrica; lavoravano e basta, cercando di ottenere il massimo di
soldi e di benefici. La loro vita era di fuori; oppure avevano nella fabbrica un’ altra
vita, di circostanza. Perché tanti, io compreso, continuavano a vivere in
campagna?
Forse le ragazze, e meglio ancora quelle della città, avevano un
comportamento naturale; ma anche il loro tono era molto sbrigativo, come non si
usa trattando con qualcosa che interessi realmente. Insomma per tutti la fabbrica
era come un passaggio, per giunta sempre quello. Io invece cercavo ancora le
ragioni di una vita completa, forse perché ero il più lontano di tutti dal poter
averla. Non avevo amici e non vivevo particolarmente in nessun paese, era quindi
ben giusto che cercassi il mio ambiente in fabbrica. E coloro poi che pensavano di
avere la loro vita fuori, che cosa più delle loro vecchie abitudini e nostalgie
potevano dare a quella vita? Cigliano, l’uomo che stava davanti a me nella fila,
diceva spesso: «Conosco di più questa ragazza», e indicava la sua compagna di
banco, «che mia moglie, dalla quale ho avuto tre figli».
Pensavo anche a quello che l’ultima volta mi aveva detto l’impiegato dell’Ufficio
Personale: «Deve far conto che la fabbrica sia un paese, del quale un uomo deve;
accettare le leggi e nel quale per vivere deve circolare, fare le sue amicizie, ecc..».
Come potevo considerare la fabbrica un paese? A Candia io avrei potuto vivere
in tanti modi ma in fabbrica nell’unico modo comandato. A Candia avrei potuto
scegliere le mie amicizie, variarle, parlare secondo i miei pensieri, in fabbrica no.
Queste conclusioni erano chiare dentro di me, eppure continuavo a cercare il
modo di vivere meglio nella fabbrica, il filo di un legame più stretto. Forse questo
accadeva perché avevo paura più degli altri che la fabbrica mi respingesse di
nuovo e perché in quel legame, forse, io cercavo una rivincita contro tutte le
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ingiustizie subite. In ogni caso doveva essere difficile per tutti dividersi tra la
fabbrica e fuori.
Anche la bella ragazza del treno viveva con le sue gambe una strana vita nella
fabbrica. Era tra le più seguite e corteggiate. Nella fabbrica, nella mensa o nel
treno aveva sempre intorno gente abbastanza importante, disegnatori e capi.
Molte volte la vedevo in soggezione davanti all’interessamento di quelle persone e
la vedevo reagire sorridendo mestamente. Quando scendeva alla stazione di
Candia molti la salutavano dai finestrini, lei camminava con quel sorriso mesto e
con l’aria sempre imperiosa; ma il suo sorriso si spegneva subito e già nel buio
fuori della stazione non agitava più i capelli. Per molte volte la vidi appartata con
un giovane dal cappotto giallo, uno del Centro Studi. La sera egli scendeva per
accompagnarla e riprendeva il treno in corsa; per questo viaggiavano nel primo
vagone, il più deserto e dal quale si scendeva un poco fuori della stazione, oltre la
fontanella, nascosti dalle piante alte di rose.
Una sera verso la fine di ottobre la ragazza scese con il suo giovanotto e io
dietro di loro. Egli le tirò un momento i capelli spingendola verso l’oscurità. Ella
sorrise e lo guardò risalire sul treno in moto, tenendo le mani congiunte. Dovetti
seguire la ragazza anche per uscire dalla stazione. Sulla porta un uomo giovane e
alto le si accostò e la salutò chiamandola per nome. Era il marito, un contadino
alto e bruno. Sorrideva e parlava ma mi accorsi che si sforzava. La moglie aveva
incupito la sua bellezza e perduto quel tono di mestizia che rischiarava i suoi
occhi. Il suo volto era accanito, teso e dritto come quello delle contadine vecchie.
Aveva irrigidito anche la testa e i capelli non ondulavano più; cadevano soltanto
sulle sue spalle. Io seguii la coppia per circa duecento metri, sulla mia stessa
strada. Da principio la moglie stava zitta; entrambi andavano in silenzio. Poi
sentii che la ragazza parlava. Diceva al marito di non andare a prenderla alla
stazione, di aspettarla alla motocicletta; più chiaramente gli disse di non farsi
vedere. Capii dalla mortificazione del marito, che stava nel buio proprio come un
altro albero della sera campagnola, che quel discorso era già stato fatto altre volte
e che il marito soffriva e che la moglie soffriva: tutti e due di vergogna.
Io continuavo a guardare la fabbrica: il montaggio era un posto uniforme,
senza ambizioni e iniziative, pieno di donne. Io ero l’unico con una pretesa di
lavoro; gli altri uomini erano quasi degli scarti, messi a lavorare al più semplice
dei montaggi proprio insieme alle donne che non fanno più di una fase. C’era
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gente in quel reparto che vi lavorava da vent’anni, al punto che non vedevano e
non giudicavano più il lavoro: la fabbrica era il loro grembiule nero; non facevano
nemmeno discorsi sulla paga, sugli avanzamenti e le valutazioni, stavano nella
fabbrica e basta. Non c’era nessun affiatamento e correvano soltanto i più inutili
pettegolezzi. Ciascuno se ne infischiava del lavoro degli altri. Le ragazze più
giovani stavano per conto loro; le più belline ancora di più. Io soffrivo ma mi ero
proposto di presentare all’Ufficio del Personale una richiesta di trasferimento
soltanto dopo un anno.
Arrivato dicembre con i suoi giorni brevissimi, finiva la giornata ma non
l’orario di lavoro e fu molto pesante passare in fabbrica le due ore e più di
oscurità che precedevano l’uscita. Era come immergersi con tutta la fabbrica nel
buio che diventava umido per i riflessi del neon al margine degli edifici e pesante
per tutti i rumori che cadevano. Nel buio tutto sembrava senza fondo. La fabbrica
era già riscaldata ed io respiravo con fatica, avvertendo un’infinità di
contaminazioni, più ancora che nell’estate, quando tutto acquistava un senso di
acidità; si sentivano gli odori che rimanevano fermi, specialmente quelli umani.
Sentivo gli odori delle ragazze che si alzavano a tratti da sotto le maglie.

* 23 *

Già si aspettava il Natale, quando Pinna venne a cercarmi. Era stravolto ma


sorrideva e la paura dava al suo sorriso un tono più sfacciato. Avrei voluto
alzargli le labbra come ai cani per vedere cosa nascondeva tra i denti. Proprio il
suo sorriso mi dava quella voglia fisica di dileggiarlo per fargli capire come la sua
sicurezza non ingannasse altri che il suo testone ed anche perché sembrava che
proprio tra i denti dovesse brillargli la magagna che voleva nascondere. Gli occhi
gli luccicavano come le labbra.
Cominciò a dirmi che io dovevo essere ricco, pieno di soldi, anche perché stavo
dalla parte dei preti. E qui cominciò ad agitare la sua gamba per un’allegria che
non c’era. Ma capì subito che lo scherzo non reggeva. «Aiutami, Albino. Prestami
denaro». Gli occorreva mezzo milione. Sparito il sorriso, lo vedevo attendere
davanti a me come un cane, con il labbro che si era veramente sollevato. Per
quanto non potessi avere dubbi sulla mia risposta perché non avevo denaro:
«Torna dopodomani», gli dissi, a bassa voce, quasi dentro di me. «Come?» e
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intanto non aveva reagito; aspettava sempre. «Vedrò», gli dissi, «torna
dopodomani». «Non posso; dammeli domani».
Appariva troppo vero quello che diceva. Per un gusto di rivincita e per fargli
scontare la sua grossolanità io gli avevo dato quella risposta ambigua. Volevo
farlo aspettare per farlo soffrire: un giorno! io che aspettavo e soffrivo ormai da
vent’anni. Perduta dopo questo calcolo la possibilità di ricavare un minimo di
soddisfazione dai disastri di Pinna, mi restò l’apprensione per la sua sorte.
Anche perché la mia superiorità era sancita dal fatto che nessuno in due
giorni avrebbe potuto sciogliere i miei mali, pur impiegando qualsiasi somma di
denaro. Pinna vagava e le sue labbra erano una più grossa dell’altra, più
attaccate dalla saliva. Riprendeva ogni tanto a ridere e far ridere i suoi occhi; ma
era un ipocrita. Si seppe che aveva tentato di rubare per pagare tutte le cambiali
che si era fatto per la sua bella vita e per tutte le comodità.
Più di un milione di cambiali e aveva anche altri debiti; doveva rendere conto
di quattrocentomila lire riscosse tra un gruppo di operai per l’acquisto collettivo
di indumenti. Ma lui non aveva mai pagato il grossista e aveva distribuito tra i
soci solo la metà della roba stabilita. Era sull’orlo della galera. Il sindacato lo
espulse; ma la fabbrica lo salvò.
«Gli hanno già cambiato reparto», mi disse Gualatrone, «l’hanno mandato al
controllo e sta’ sicuro che lì finiranno per promuoverlo operatore. Fanno troppo
comodo alla direzione i venduti come lui». Ero andato a cercare Gualatrone per
trovare insieme il modo di aiutare Pinna. Rimasi male; ma lui con semplicità
aggiunse:
«Non hai ancora capito? La classe operaia va frantumata e ogni ambizioso,
ogni ladro, ogni imbecille diventa comodo».
La sicurezza di Gualatrone mi sgomentò; mi tolse cioè ogni preoccupazione su
Pinna ma me ne accese altre e più confuse su me stesso. Perché io non riuscivo a
capire con quella chiarezza? Proprio mentre questa domanda si era composta
nella mia mente, Gualatrone disse una frase che poteva essere la risposta: «Ma tu
stai sempre per conto tuo».
Mi attaccavano dunque perché ero solo? Anche il sergente Vattino mi
considerava solo. «Non posso vederti, sempre così solo», mi aveva detto al centro
del cortile, in mezzo a mille soldati.
Forse Tortora aveva capito o saputo che ero solo e allora aveva cominciato le
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operazioni per la mia sorte. Ma come potevo trovare compagnia in mezzo a quei
reparti? Una compagnia sincera e completa in mezzo a tanta gente che si
accontentava di stare insieme per un rumore o per un capo? I loro discorsi
andavano avanti come il montaggio, rispettandone perfino la velocità; le loro facce
sfuggivano, si smembravano sulle macchine e sul pezzi o cadevano in sorrisi che
sapevano di falso come le luci stesse dei reparti. Anche i più gentili si illudevano
di avere compagnia e di conoscere qualcuno all’interno delle fabbriche; gli
capitava di convincersene e basta.
Forse l’uomo del mio reparto che aveva confrontato la moglie con la compagna
di lavoro non conosceva più la prima ma nemmeno la seconda; si illudeva,
vedendola per otto, nove ore al giorno al suo fianco, biondiccia, pallida, con le
mani gonfie; ne sentiva l’odorino di cipria, ne ascoltava il respiro, gli sternuti; le
poche parole, sempre quelle, sempre quelle. In realtà il mio compagno di lavoro
non conosceva più nessuno, nel senso di conoscere bene, cioè fare e rimandare
dei discorsi convinti, dividere in coscienza qualcosa ma prima di ogni altra cosa la
coscienza stessa; non conosceva più nessuno né dentro né fuori la fabbrica. E
così tutti gli altri. Io solo però non mi accontentavo della finzione e quindi mi
staccavo come quei pulcini che isolati dal branco tentano di salire gli scalini dei
granai.
Il giorno stesso andai a cercare Grosset ma era ammalato, a casa. Eravamo
vicinissimi a Natale e io avevo questi pensieri e questi pensieri mi davano molto
fastidio anche sulla malattia; riaccendevano cioè alcuni dolori o i dolori erano
riapparsi perché mi erano rivolati in mente, tra tutti i rami dei miei pensieri, tanti
timori a proposito dei medici. Poteva chiudersi l’anno senza che Tortora, come
tutti gli anni scorsi, intervenisse a guastarmi il nuovo?
Arrivai a casa di Grosset e venne ad aprirmi la moglie.
Molto svagata, disse poche parole. Era bella ma dipinta in viso senza
convinzione, quasi a casaccio; aveva una lunga vestaglia e dalle maniche e sui
piedi uscivano i merletti bianchi di una più lunga camicia. Mi accompagnò dal
marito, che era sdraiato in un salotto pieno di divani e cuscini; in più c erano due
seggiole a sdraio e due poltrone. La moglie si avvicinò a Grosset e lo scosse come
se dovesse svegliarlo; continuando il gesto gli portò via da vicino un pacchetto di
sigarette. Egli la seguì con lo sguardo, contento come se stesse godendo di una
grossa cortesia. Partecipò anche a me la sua soddisfazione e sembrò trovare sulla
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poltrona un posto più comodo.
«Come stai? Sei l’unico che sia venuto a trovarmi». Io gli risposi che non stavo
molto bene.
«I soliti mali?»
Dissi che ne avevo anche altri.
«Sempre per colpa dei medici?»
«Dei medici e della fabbrica», gli dissi.
«Ma cosa cerchi ancora nella fabbrica? In che reparto sei?»
Non gli risposi con precisione e infatti la mia risposta non lo convinse.
«Nella fabbrica non devi cercare tutto; solo il lavoro e il salario. Migliorare
l’uno e l’altro». Gli parlai allora del paese. «I contadini stanno peggio di te». Gli
dissi che intendevo tutto il paese.
«E che cosa vuol dire? Tu parli sempre in generale e invece credo che i tuoi
mali siano proprio personali. Il paese, la fabbrica, il lavoro; pensa a te stesso
davanti a queste cose. Lo so che la fabbrica è cattiva; ma non si deve morire per
questo; si cerca di governarsi dentro e fuori, lavorando pulitamente, andando al
sindacato, divertendosi la domenica, leggendo. Anch’io sto male e allora? non
dovrei prendere le medicine? Tu sei cattolico. Va’ alla messa, confessati, iscriviti
ai sindacati bianchi».
Gli dissi che ero solo.
Grosset. fece un lungo discorso e apparvero molti concetti tra le sue parole ma
confusi come non gli era mai capitato. Faceva discorsi più lunghi e con maggior
calore ma aveva perduto la lucidità di quando, nei reparti, era il Grosset di poche
parole. Diceva che la storia dell’essere soli era vecchia come il mondo e che non
c’era nemmeno più il gusto e forse verità a dire che è solo chi si sente tale. «Non
bastano i sindacati, non basta nemmeno tutta la Russia a non farti sentire solo»,
concluse. «È dall’interno, è dal punto in cui sei tu».
E si accalorava tutto, con un sorriso nel quale dimostrava la sua convinzione.
Gli dissi che io ero sempre stato ben disposto ma che mi avevano attaccato i
medici.
«Non ho mai capito perché. È vero che i medici sbagliano; sono i tecnici più
ignoranti di tutte le scienze. Io so di avere un cancro all’intestino ma loro dicono
di no e non mi operano. Ma questa sera glielo dico: o mi guardano dentro o
smettono con le medicine. Che roba strana mi capita. Dodici ore esatte di dolori e
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dodici di requie e di stanchezza; ogni giorno, puntualmente».
La moglie intanto si era accostata alla porta e ascoltava fumando. Mi chiese:
«Lei è del reparto di mio marito?» Egli si voltò e la guardò sorridendo, con amore.
«Siedi», le disse. «No, non è del mio reparto. Si chiama Saluggia».
La moglie uscì un attimo e tornò con una bibita per il marito e con un
vermouth per me. Grosset bevve; per un momento alzò il viso e disse: «Io sono
socialista e so bene quanto le fabbriche siano cattive, eppure avrei voluto
diventare dirigente».
In quel momento la moglie accese la luce e io vidi dissolversi lo sguardo di
Grosset; forse nemmeno lui era convinto di riuscire ancora a guardare qualcosa:
infatti stemperava ogni suo sguardo, che non riusciva a sostenere il significato del
discorso, in un sorriso debole come un’acqua. Vidi anche il suo pallore e il suo
corpo mi sembrò già deposto, affondato nei cuscini, rotto dall’angolosità della
morte. Mi disse altre cose sui medici e mi raccomandò di non aver paura, di non
temere quello che non esiste; ma io non potetti dar retta ai suoi discorsi in
presenza della sua morte.
La moglie per la scala me lo confermò. «Povero Grosset», disse, «l’hanno
lasciato solo. E morirà, poveretto, morirà».
La sorte di Grosset mi rattristò fortemente e m’introdusse in uno degli inverni
più brutti di questi anni. Andai a vedere io stesso nell’officina che al posto di
Grosset c’era un altro capo. Vennero senza alcuna risonanza dentro di me le feste
di Natale e Capodanno. La mia solitudine aumentò e anche nel reparto non
salutavo quasi più nessuno. Un giorno mi raggiunse Gualatrone per invitarmi alla
festa di fine d’anno nell’albergo della sua fidanzata. Lo faceva per amicizia, pur
pensando che io non mi sentivo molto propenso alla compagnia. Infatti rifiutai.
«Cercati una ragazza», mi disse Gualatrone. «Cerca di parlare con qualcuno e
di divertirti. Tira fuori la testa da sotto l’ala». Lo lasciai salutandolo con un cenno
della mano.
Passai Natale a pensare che con quel cenno non avevo saputo dargli una
risposta. L’ultima domenica dell’anno avanzai a piedi oltre il paese per la strada
che avevo visto imboccare da Giuliana. Speravo di arrivare a casa sua e di
incontrarla. Speravo di trovarmi davanti un cancelletto e di vedere lei alla
finestra. Da anni non prendevo da quella parte e la passeggiata diventò subito
misteriosa. Intanto il lago cambiava fisionomia; sembrava più piccolo ma più
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colmo d’acqua e molto meno luminoso. Il terreno era squadrato da tanti pioppi,
spogli e alti, con poche foglie scure, accartocciate sui rami delle cime, che
sembravano uccelli; dappertutto sulle cime un branco fermo e silenzioso di
uccelli. Il terreno era gelato, verdissimo e scuro con il barbaglio delle gocce di
brina rimaste nella palma delle foglie cadute; soltanto il mio passo mutava quel
tappeto che sembrava immobile da anni.
Avevo voluto abbandonare la strada per evitare il giro lungo a mezza costa,
calcolando di ritrovarla di fronte dopo aver attraversato in linea retta i terreni
bassi vicino alle sponde. Questi terreni erano fatti a terrazze e io mi ero,
spingendo il passo per i bordi più facili, inavvertitamente abbassato verso le rive.
Cominciai a trovare molti canaletti dove le acque si purificavano tra le barbe
delle radici e filtravano tra le terre granulose. Nei punti cavi e ombrosi
scintillavano costruzioni di ghiaccio. I canali non erano profondi più di un metro
ma con le piccole cascate, le erbe, le radici le grotte di terra, i ghiacci, i movimenti
dell’acqua, avevano un aspetto misterioso così convincente che si ingigantivano ai
miei occhi. Ero così preso dalla magia che potevo pensare di essere travolto da
una cascata di gocce e di fili d’erba o di cadere in una spelonca di ghiaccio.
L’aria chiara, le acque pulite e i ghiacci mi davano anche una voglia
spasmodica di bere, di assorbire quegli elementi. A un tratto, vidi un guizzo
rapido in un canale: avevo sorpreso un luccio grosso come un braccio d’uomo che
aveva azzannato un altro pesce. Il luccio era fermo un attimo per finire la sua
preda; lo vedevo quasi emergere dalla prima superficie. Il suo occhio era dritto nel
mio ed era l’occhio di un assassino sorpreso, che non ritira il coltello. Prima di
fuggire doveva inghiottire l’altra creatura, della quale in quell’attimo rimasero
appena le scosse nell’acqua. Per un altro attimo il luccio rimase fermo, con il suo
occhio nel mio, con la sua bocca dentata che respirava aperta per la fatica.
La scena mi spaventò e quell’ambiente e quel cielo pallido e lontano, sul quale
non si poteva leggere né scrivere niente, mi dichiararono ancora più solo e
spaventato Non c’era nulla da fare, anche per me; anch’io muovevo soltanto
l’acqua, destinato alla fine. Intanto tutto procedeva come un sogno e la mia
passeggiata era perduta. Davanti avevo un canale più grande che non potevo
superare. Piegai verso la collina ma incontrai molte difficoltà per una vegetazione
bassa, color viola, rigogliosa e pungente. Mi districai a fatica ma trovai di nuovo
l’acqua, addirittura il lago. Capii che mi ero spinto in una specie di penisoletta e
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riuscii a figurarmela come poteva essere, vista dalla mia finestra.
Il paesaggio era nuovo e il lago fermo, bianco; così rimasi un momento a
guardare, soprapensiero. Sentii un rumore alto, che riempì la fine della giornata:
gracchiavano centinaia di corvi che tornavano a branchi dalla Val d’Aosta per
buttarsi a pernottare nei campi e nei pioppeti. In alto il loro cantare era bello e in
alto restava senza cadere a spegnersi; i corvi andavano oltre il lago dove la
pianura era completa.
Dal lago venne un altro rumore ed era quello di una chiatta che un uomo in
piedi guidava lungo la riva. Procedeva piano guardando fisso davanti a sè; non
aveva attrezzi, né pesca. Dietro la sua barca avanzava la sottile nebbia del freddo.
Emisi un grido di richiamo, improvviso e netto come un altro elemento naturale;
era la paura di essere solo e di restarci per sempre. Solo come da ragazzo, come
in un sogno, e mi sembrò nel momento in cui gridai che tutta la mia vita
sbagliata avesse sempre mirato a tale sorte.
L’uomo della barca si avvicinò alla mia sponda e nascose la faccia per piegarsi
a remare con maggior forza; approdò quindi come uno sconosciuto e, anche
quando vidi il suo volto, tale rimase, contrariamente alla speranza insensata che
proprio il suo mistero, insieme all’aiuto che stava porgendomi, aveva fatto nascere
dentro di me.
Non era nessuno di quelli che nella vita mi avevano aiutato o potevano farlo.
Salii sulla sua barca in silenzio mentre l’uomo diceva soltanto le parole
necessarie per aiutarmi nell’imbarco fra le cannicce e i vuoti del terreno sotto i
ponti d’erba.
In piedi dietro di lui guardavo le sue spalle e sentivo l’odore della sua giacca di
lana, un odore paterno. Come aveva fatto a capire che volevo il suo aiuto soltanto
dal mio grido? Appariva tanto chiaro, anche a chi non guardava, che io ero solo e
perduto! Egli era un uomo giusto e tagliò dritto il lago verso Candia; al suo posto
un malvagio, Tortora, m’avrebbe lasciato nella palude.

* 24 *

L’ultima sera dell’anno cominciò a nevicare. Dalla parte del lago non si vedeva
niente; si sentivano le anatre selvatiche: forse si mischiavano due branchi o si
preparavano a partire. Insieme al loro grido sentivo ancora, fermo sul lago, il mio,
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perché la neve conserva i rumori e le tristezze, come la paura.
Nevicò fin dopo l’Epifania e la neve alta rese difficili i viaggi, anche in ferrovia.
Il treno, la mattina e la sera, faceva ritardi persino di mezz’ora. La folla viaggiava
in una condizione assurda, o era tutta agitata o completamente silenziosa.
Durante questi viaggi mi capitò sempre di incontrare Giuliana. Portava una
sciarpa di lana azzurra stretta intorno alla testa e i suoi occhi azzurri sembravano
più grandi. Una sera scese a Candia. Indossava, sotto la sciarpa e sotto il
cappotto, un paio di pantaloni stretti alla caviglia e delle scarpe bianche con un
risvolto azzurro di pelo o di lana. Questi vestiti strani denunciavano
improvvisamente la sfacciataggine di Giuliana, e mi pareva di scoprirla in un
gesto intimo; che fosse anzi lei ad offrire una parte nascosta del suo corpo.
Non fui sorpreso quando una sera un uomo sortì dall’ombra degli ultimi alberi
davanti alla stazione, fuori del traffico di quelle persone che andavano a casa.
Avanzò di qualche passo verso Giuliana e poi si fermò ad aspettarla. Lei fece
gli ultimi passi di corsa e si avvicinò all’uomo con un braccio alzato come per
porgergli qualcosa. Sentii la voce di lui mentre lo vedevo passarle un braccio
intorno alla vita. Presero a camminare lungo l’ombra, indifferenti come l’ombra
stessa o gli alberi, senza mai voltarsi indietro o guardarsi attorno. La voce di lui
scendeva sulla neve e vi restava viva per un attimo come se fosse stata una luce.
Io dovevo seguirli per andare verso casa mia; ma lo facevo anche perché ero
attirato dalla loro sicurezza, dalla loro indifferenza. La strada era deserta e a un
certo punto dopo la curva, quando non si vedeva più la stazione, cominciarono a
camminare spingendosi di qua e di là da un margine all’altro.
Giuliana aveva aperto il suo cappotto e l’uomo aveva tuffato le mani
nell’interno. Si spingevano l’un l’altro e poi si abbracciarono e si baciarono in
mezzo alla strada, rischiando di cadere perché lei cedeva sotto la spinta
dell’uomo. Non parlavano più; udivo soltanto a tratti i sospiri e le brevi risate di
lei. Sembrava che tutta la strada, sotto la notte, si scaldasse e si illuminasse per
quanto nel cielo non vi fossero né stelle né luna. Io ero esaltato da una strana
voglia di intervenire e di urlare perché la smettessero; ma questa voglia mi
devastava all’interno e mi impediva qualsiasi gesto che non fosse quello di seguire
le due figure e di guardarle. D’improvviso l’uomo si gettò sul greppo nevoso e si
tirò Giuliana addosso. Poi lei si staccò e corse per qualche metro fino al muretto
di un ponticello dove si fermò, appoggiandosi con le mani.
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L’uomo tardò un attimo a riemergere dall’ombra del greppo e lo fece adagio.
Avanzò sempre adagio verso di lei, fermandosi anche ad accendere una sigaretta.
Arrivato vicino a Giuliana gettò la sigaretta in mezzo alla strada; si tolse il
cappotto e lo mise con cura sul muretto; prese Giuliana per mano e se la tirò
dietro scendendo la scarpata per entrare sotto l’arco nero del ponticello. Quando
arrivai sul posto trovai ancora la sigaretta accesa in mezzo alla strada. Mi
appoggiai sul ponte dalla stessa parte dalla quale erano scesi. Tenevo le mani
vicino al cappotto dell’uomo. Sporsi appena la testa e li sentii. Sentivo il rumore
dei loro baci immondi, il risucchio dei sospiri e li sentivo agitarsi e devastarsi.
L’uomo taceva nel rumore ma non Giuliana. Allungai le mani sul cappotto
dell’uomo e cominciai a stringerlo per dispetto; era di una stoffa pesante e ruvida
in contrasto con le fodere leggiere e lisce; intanto sentivo sotto che si
sovrapponevano le ansie dell’uomo e della donna. Ascoltai sino alla fine con
quella voglia di urlare che però si consumava tutta dentro di me. Per la prima
volta sentivo che dentro le mie viscere si era creato un ponte di sensazioni fra la
gola e lo stomaco attraverso il ventre sino alle mie membra di uomo. La fine si
compì chiaramente; l’uomo, due metri sotto di me, sembrò urtare contro
qualcosa, sembrò perdere il ritmo del suo respiro e poi scostarsi, alzarsi o cadere.
Sentii Giuliana scivolare e vuotarsi come un vaso; la sua voce si perdeva
lentamente. Io mi appoggiavo solo con le ginocchia e tenevo il cappotto dell’uomo
nelle mie mani.
Intanto sotto avevano ritrovato la voce; sentivo i loro piedi cercare nel buio un
posto. Mi ritrassi e lasciai il cappotto. Ormai parlavano e ridevano e risalivano il
greppo. Cominciai a camminare molto adagio, senza paura di farmi vedere,
perché mi sentivo esaltato quanto loro, anche di più. Furono infatti loro a ritrarsi:
erano saliti parlando e appena sulla strada, proprio perché mi videro tanto vicino
e camminare sicuro avanti senza voltarmi, tacquero e si fermarono. Io non mi
voltai; ma sentii Giuliana e l’uomo scartare sulla strada e avviarsi nel senso
contrario al mio.
Speravo che Giuliana mi avesse visto, anche se nello stesso tempo temevo che
un tale incontro potesse far nascere qualche imbarazzo; ma avrebbe capito che io
ero migliore di quell’uomo, più onesto, e che non l’avrei portata nelle fogne.
Giuliana mi aveva visto e riconosciuto e si comportò assai bene di conseguenza,
come potei capire qualche tempo dopo.
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Proseguii per casa mia nauseato da quell’incontro eppure così esaltato da
averne ancora un’ansia vera. Vidi mia madre uscire dal fienile portando nelle
mani alcune uova, bianchissime nel buio, più bianche della neve che la notte
nascondeva sotto tutte le altre cose, alberi, sterpi, palizzate, sassi. Solo in cima
alle colline v’era una striscia di neve quasi luminosa che segnava il piccolo
confine del gran deserto del cielo.
Il giorno dopo, in fabbrica, cercai di Gualatrone.
Avevo voglia di raccontargli tutto; ma dopo alcuni discorsi incerti gli chiesi
soltanto quante donne avesse ancora. Sorrise dichiarandosi stufo di ogni impiccio
tanto da essere deciso a sposarsi, pur temendo la mentalità della famiglia della
fidanzata. «Sarebbe meglio continuare in giro, liberamente», disse contro quello
che aveva asserito un attimo prima. Ma non potemmo proseguire con quei
discorsi perché io fui preso da pudore e perché da parte sua Gualatrone cominciò
a inseguire; alcuni pensieri che dovevano essere tristi. Così uscimmo dalla
fabbrica in silenzio.
Proprio sulla porta intravidi Giuliana; stava uscendo di corsa come se avesse
una grave incombenza da sbrigare; teneva una mano sul petto per sostenersi il
cappotto non infilato. Non capii nemmeno se mi aveva visto; tanto la sua faccia
era dominata dal pensiero che la incalzava. A quell’ora avrebbe dovuto cominciare
a servire in mensa e invece stava correndo fuori della fabbrica. Il suo cappotto
svolazzò sulle scale dell’infermeria dove ella entrò di slancio. Perché all’infermeria,
a quell’ora?
Avrei voluto aspettare di vederla ma Gualatrone avanzò verso il giornalaio,
chiamandomi con sè. Poi volle vedere chi c’era al caffè e infine mi disse che
m’avrebbe accompagnato alla mensa.
«Ma tu come fai con le donne?» mi chiese, preso dagli stessi pensieri di prima.
Io stavo pensando a Giuliana e la sua domanda mi parve così vera da
spaventarmi. E un altro spavento più forte e diffuso batté il mio spirito quando
vidi Giuliana servire alla linea. La sua faccia non era più agitata ma ferma,
attonita come il quadrante di una macchina. I suoi occhi andavano regolarmente
su e giù dalle mani di coloro che venivano serviti ai piatti in fila sotto il banco.
Giuliana serviva la linea opposta alla mia. Gualatrone andava avanti e io lo
seguivo; parlava e rideva e mi raggiunse al mento con una bollicina di saliva.
Quella bollicina fresca sulla pelle mi diede il senso di un’altra realtà, del tutto
167
diversa da quella che mi stava stritolando. Giuliana non era più colei che anche
un attimo prima mi aveva tradito in infermeria; anzi mi sorrideva e mi aiutava a
traversare i binari della stazione; mi chiamava verso il lago. Una realtà nella
quale io ero un caposindacalista avversario di Gualatrone, più preparato e più
ascoltato. Liberavo la gente dalla fabbrica dando a ciascuno il suo posto e
aiutando molti a tornare in campagna. Anche Giuliana in campagna.
Quando stavo per arrivare a prendere i piatti dietro Gualatrone che allungava
il naso sulla pastasciutta, vidi Giuliana girare intorno al pilastro che chiudeva e
divideva le due file e venire a servire dalla mia parte. Il piatto che aveva in mano
finì sul mio vassoio. Un piatto di minestra. Poi servì le altre cose senza
guardarmi. La seconda realtà intanto mi impediva di essere del tutto presente
nella prima e di averne coscienza e di resisterle, giacché le sue circostanze
valevano molto di più e nella loro calma luce io mi muovevo sicuro con una età
diversa, più giovane. Ma forse io stesso continuavo a tessere inganni così dolci
ma anche così trasparenti sulla verità terribile delle cose per poter subire tutto
con rassegnazione, per avvilirmi fino in fondo; fino al punto di pensare: «Lo so che
mi state rovinando, lo vedo; sono più intelligente di voi e sono io che vi lascio fare,
io che se non volessi rovescerei tutte le vostre pentole». Ero sicuro che Giuliana
tentasse di avvelenarmi, così sicuro che aspettavo se ne accorgesse anche
Gualatrone. Se fosse stato lui, la sua denuncia avrebbe avuto un peso ben
maggiore della mia. Ma dietro Gualatrone non trovai posto per sedermi, egli si era
cacciato tra due ragazze bionde così stretto che non aveva posto per appoggiare il
vassoio.
Rimasi più di un momento in piedi dietro di lui, aspettando che la gravità
della faccenda lo riportasse in sè. Mangiava nei piatti delle due ragazze per
dimenticare che un altro stava per essere avvelenato nel suo stesso piatto. Allora
me ne andai da un’altra parte. Mangiai solo tre cucchiaiate della minestra in
modo da poter mostrare le prove di un leggiero avvelenamento e da conservare il
resto del veleno nel piatto. Ma per forza mi strapparono i piatti e mi cacciarono
dalla mensa. Intanto il mio stomaco bruciava. In infermeria, dove la cosa; era
stata preparata, trovai il solito messo che m’impedì d’entrare; timoroso della mia
vita, dovetti correre al caffè e bere molto latte come controveleno. Questi
tradimenti, uno dietro l’altro, mi diedero il tempo ed anche la forza di reagire.
Decisi di denunciare tutti. Allora, leggendo un’altra volta il mio pensiero, i medici
168
mi chiamarono.
Subito, il giorno dopo, il dottor Tortora mi invitò ad andare a trovarlo. Prima di
presentarmi corsi durante l’intervallo alla ricerca del dottor Fioravanti che
potesse onestamente provare l’avvelenamento. Già la sera prima l’avevo cercato
ma la porta di via del Distretto era chiusa. Quel giorno trovai tutto spalancato,
anche le porte dell’appartamento e delle stanze, persino quella della signora
Eufemia, dove entrai avanzando senza trovare più il letto e le fotografie. La porta
dello studio di Fioravanti era chiusa, ancora più stretta e alta. Mentre ero fermo
davanti alla porta sentii un rumore dentro la stanza, come uno che svolgesse un
giornale adagio adagio o un pacco di roba da mangiare. Bussai e il rumore cessò.
«Dottor Fioravanti», chiamai. «Apritemi, per carità, ho bisogno del vostro
aiuto».
Dopo un momento dalla stanza venne la voce di Palmarucci che mi spaventò:
«Vattene Albino, vattene. Siamo tutti malati. Gli altri se ne sono andati. Vattene
anche tu. Io sono il più grave; non posso aprire, sono contagioso».
«Quando tornerà Fioravanti?»
«Gli stanno capitando grandi cose; si è iniettato una malattia. Non so quando
tornerà, forse alla fine della settimana». Per me era finito ogni aiuto. La voce di
Palmarucci intanto diceva con quell’aria di trecento anni prima che lui sapeva
darle: «Allora sarete tutti liberi... e chi libero è sempre stato come me..».
Uscii di corsa per la strada e d’istinto mi diressi verso la caserma di P.S. In
mezzo al selciato della piazza, che spiccava ripulito dalla neve, ricordai la faccia
del brigadiere, il suo duro panno, e ricordai che subito Tortora l’altra volta era
stato informato. Tanto valeva andare dritto da lui; così lasciai le pietre della città
vecchia e presi la strada d’asfalto verso la fabbrica. Non c’era quasi più neve.
Suonava la sirena e il suo terrore dentro di me arrivava alla fine. «Basta», dicevo.
«Basta. Questa volta, questa volta..». Era come se fossi andato sempre, ogni
giorno, da Tortora e come se ci fossi andato sempre chissà per quale mia strana
voglia. Come se ci andassi volentieri per affermare me stesso, le mie ragioni e
condannare ogni inganno contro di me; ci andavo sì e ci sarei andato ogni giorno.
«Dottore», dissi, «qualcuno ha voluto avvelenarmi e lei sa chi è. Chiami la
persona, E ora di farla finita. Non dirò niente a nessuno se confesserete, se
finalmente vorrete liberarmi. È tutto in questi limiti. Comincia da mia madre.
Questa catena deve spezzarsi. Io sto bene. Io debbo star bene. Anche Bompiero
169
mi ha giudicato guarito. E lo Spirito Santo prima di tutti».
Sentii aprirsi una porta ma invece di Giuliana pentita apparve un’infermiera.
Si ritirò a un cenno di Tortora.
Vidi la sua grossa mano rosa, il suo polso biondo fuori della manica del
camice. «Lei, mano grossa, lei perché mi tiene con le sue mani? Le adoperi per
lenire i dolori e salvare il prossimo».
Tortora fumava sotto la luce elettrica accesa e il fumo azzurro fu rapidamente
risucchiato dalla porta che si apriva ancora. Riapparve l’infermiera: portava un
bicchier d’acqua sopra un bianco vassoio, un bicchiere colmo di un’acqua che per
la luce azzurra e per il riflesso del vassoio sembrava viva e celeste. Ebbi subito
sete, come un’ispirazione divina, e bevvi tutto il bicchiere. L’infermiera si ritrasse
e Tortora cominciò a parlare. Parlando venne a riprendermi il bicchiere dalle
mani. Io non l’ascoltavo ma ero sicuro che mi dava ragione. Così potei uscire.
Tortora mi aveva detto di stare a casa qualche giorno.
C’era poca neve sulla campagna, a chiazze, a figure, lungo i filari e i bordi dei
campi. Il lago era rotondo e torbido ma aveva tutt’intorno una grande stella di
ghiaccio composta da tutti i rivoletti, da tutte le infiltrazioni verso la terra. Alla
mattina passavano i corvi e alla sera regolarmente tornavano. Io avevo ritrovato
l’indiano e lo scarpone e così pensavo, più involtolato dentro di me del lago
stesso. Cosa potevo aspettarmi dai medici? Avevo saputo che i medici in Russia
avevano tentato con un complotto di avvelenare Stalin. Ma lì erano stati
smascherati.
Una mattina venne a trovarmi il parroco per farmi un discorso sulle ACLI.
Come sapeva che io ero a casa? Infatti finì il suo discorso invitandomi ad avere
fiducia nella fabbrica e nei bravi medici.
Tutti gli altri giorni non feci che pensare. Che cosa vuol dire fiducia nella
fabbrica? Come può un cristiano, un figlio di Dio, un uomo prezioso di carne e
sangue, rimettersi alle decisioni della fabbrica, cioè di un organismo dove
nemmeno il lavoro viene rispettato? E se la stessa fabbrica era cattiva, come
diceva Grosset, che cosa pensate dei medici? La fabbrica nega qualsiasi
soddisfazione e quindi è come se dentro di essa il tempo non passasse, il tempo
fratello degli uomini; oppure è come se passasse tutto insieme. La fabbrica è
chiusa, di ferro: dentro passa il tempo dalle sette alle diciannove; ma tutto è
fermo come tutto è di ferro. La fabbrica costruita per la velocità, per battere il
170
tempo, è invece sempre ferma perché il tempo degli uomini batte qualsiasi
artificiale velocità. La fabbrica in quel posto è costruita e in quello stesso posto
resterà; non entrerà mai nel paese, non avrà mai un mercato davanti, una fiera,
dei crocchi di persone, i fiori, le fontane, un porticato. Davanti non si fermerà
nessuno, solo chi starà male o chi lavorerà o non avrà lavoro. Ma di ciò di cui non
si può parlare si deve tacere. Quindi, i medici.
L’ultimo giorno andai da Gualatrone. Mi feci accompagnare al suo sindacato.
Un uomo pieno di capelli e molto alto si sedette insieme a me. Gli raccontai ogni
cosa.
«Il tuo è un problema individuale. Il sindacato può aiutarti, soprattutto nel
morale; ma non può far molto per la tua malattia».
«Ma io non sono malato. Il sindacato comunista deve aiutarmi contro i medici,
deve denunciarli».
«Il sindacato non è comunista, è di categoria, è operaio; affronta problemi
generali di categoria. Cosa possiamo fare per uno solo? Tante volte abbiamo detto
che i medici di fabbrica sono uno degli strumenti padronali di discriminazione e
di oppressione..».
«No. Qui i medici sono i miei persecutori personali; sparano dritto contro di
me. Tortora..».
«Lo so; ma possono sempre dire che la loro diagnosi è giusta; che tu sei
malato, che devi veramente curarti e star lontano dal lavoro. Vedi, compagno..».
«Ma che compagno! Parli anche tu come un prete e poi mi chiami compagno.
Mi dica, che cosa può fare il sindacato per me? Può far intervenire almeno la
Commissione Interna?»
«No. Possiamo soltanto farti visitare da un medico imparziale, da un medico
serio, e poi..».
La febbre che a quel punto mi aveva già preso, la febbre di una serie di mani
sul mio costato, serrate sulla mia gola, spaventò anche l’uomo del sindacato
comunista.
Cercò in un foglio bianco che aveva sotto le mani un minimo di spazio,
un’uscita per i suoi pensieri. «Allora non è possibile far niente», disse. «Ma la
nostra lotta perché le fabbriche diventino migliori vale anche per te. Alla fine se
soffri tanto potresti anche andartene, trovare un altro lavoro. È capitato a tanti
altri. Tutti in questa fabbrica..».
171
«Lei dà ragione ai medici».
«Non è vero; ma posso anche pensare che abbiano ragione».
Uscii quasi fuggendo, lasciando la seggiola, sulla quale ero stato seduto,
discosta dal tavolo, di traverso, a bocca e braccia spalancate a seguitare il mio
discorso. E in realtà ci sarebbe stato molto da dire, in quella camera del lavoro
che rimbombava come una chiesa. Quelle povere seggiole e quei due stanzoni
sapevano la verità, anche se l’uomo non voleva capirla. Il sindacato deve
difendere uno come tutti. Salutai Gualatrone che era rimasto fuori, fuori di tutto,
e mi avviai, come ogni altra volta che medici, fabbrica, dispensario, mi avevano
maltrattato, verso la stazione.
Stavo prendendo un caffelatte quando notai una donna che girava intorno
guardandomi fitto. Mosse un cenno della testa e poi mi si avvicinò con la più
grande cautela, senza dirmi niente e senza guardarmi. Nel momento in cui la sua
faccia fu all’altezza della mia: «Dottor Fioravanti», mi sussurrò. Dopo mi guardò e
si diresse verso l’uscita. Proprio sulla porta di vetro, verso i binari, che tintinnava,
si voltò e mi fece un segno sicuro di seguirla. La raggiunsi vicino alle rotaie. Tutto
era impercettibile e a frantumi; il suono dei campanelli era sottomesso, come una
preghiera frettolosa e inutile. Non aspettavo alcuna speranza, né potevo leggerne
traccia nel volto minuto di quella donna. «Io l’ho riconosciuto subito. L’ho tanto
cercato nei giorni scorsi anche in fabbrica. Sa che siamo traditi, che c’è un grosso
inganno?
Fioravanti è fuggito insieme alla signora e al marito. Sono fuggiti tutti, prima
Fioravanti e la signora e poi, ieri sera o stamattina, Palmarucci. Non hanno
salvato niente. Dieci giorni fa, dopo più d’un anno di cura, non s’accontentavano
più dei soldi, hanno voluto da me perfino una coperta. Non mi hanno finito la
cura. Li sentii una volta che litigavano e si bastonavano tutti e tre, ognuno per
conto suo, chiusi nello studio del dottore. Adesso sono fuggiti. Sono qui da
stamattina per vedere se rintraccio Palmarucci. Ieri sera era ubriaco e non si sa
se è partito. Gli altri in cura come noi, poveri cani, si sono appostati alle partenze
delle corriere, quelli che hanno potuto; gli altri sono a casa con mali ancora più
duri».
Il discorso di quella donna, che infine avevo riconosciuto, accompagnato da
quei campanelli e dal tinnire di tutta la stazione che era a pezzi sotto il vento e il
sole di febbraio, mi diceva delle cose che avevo sempre saputo; così almeno mi
172
pareva in quel momento pieno d’inganni in cui un altro inganno mi veniva
rivelato, sollevando quelle coperture della verità che io stesso avevo steso per
poter resistere contro i suoi angoli. Perché ora la cantilena di quella donna? Era
ormai giunta l’ora in cui tutto sarebbe apparso chiaro? Non temevo tanto la
caduta di ogni inganno quanto conoscere il motivo per cui Tortora e la sua cricca
si erano buttati su di me. E se questo motivo resisteva ed era ancora presente
sopra di me o dentro di me? Non che io ammettessi la malattia, cominciavo
soltanto ad averne paura.
In quell’attimo mi salvò una piccola folla, un gruppetto di persone che
traversava i binari. Mi venne di domandare: «Quanti sono?»
«Chi?» rispose la donna.
«I malati che si curavano da Fioravanti».
«Una decina».
Proprio come quei poveretti incappottati che attraversavano i binari.
«Arrivederci», dissi io sorridendo.
«E non fa niente, lei?»
«Cosa vuol fare? Riprenderlo per finire la cura? Ma se è un imbroglione! E
meglio che siano fuggiti».
«E i soldi?»
«E i mali?» dissi io e salii sul treno. La mia stessa domanda mi accompagnò
sino a casa, pronunciata a ripetizione dalla bocca della signora Eufemia, che mi
vedevo accanto tutta ricciuta come appena tornata da Roma.
A casa cercai mia madre. Vidi che dormicchiava, dopo pranzo, con un sonno
duro e rumoroso come se avesse bevuto troppo. Allora la svegliai per cercare di
parlarle. Mia madre mi accusò subito di averla svegliata con un’aria minacciosa,
quasi per picchiarla. Io la rimproverai di aver bevuto e lei, aprendo il fazzoletto e
soffiando per aria il suo alito a provare la mia bugia, cominciò a dimenarsi e a
piangere. Non c’era più rimedio ed allora andai in paese. Il paese era deserto, con
un ramo di vita fatta dai vecchi. Uno che non avesse almeno sessant’anni era
solo; anche nelle osterie e nel caffè non c’era nessuno, nessuno di diverso. Un
uomo parlava forte nel caffè e accanitamente del tempo e delle piogge che
avremmo avuto a primavera per la poca neve dell’inverno. Era solo e parlava
perché appena bevuto il suo caffè non sarebbe rimasto un altro momento nel
paese o perché parlare della primavera era già un modo di andarsene.
173
Chi poteva aiutarmi? Non avevo famiglia: mia madre non mi capiva e non si
faceva capire; non avevo amici, il paese non contava. Il parroco non era sincero e
le mie aspirazioni religiose erano quelle che lo turbavano di più e che negava con
tutta la saliva delle sue labbra strette dai digiuni.
Ero arrivato in fondo alla strada e lì rividi il vecchio paralitico che avevo
trovato sveglio prima dell’alba, il giorno in cui andavo in fabbrica per la prima
visita. Lo salutai e mi accostai al muretto del suo orticello. I suoi impedimenti gli
tenevano fissa la faccia nella mia direzione e quasi l’obbligarono a rispondere al
mio saluto. Il male gli comandava ogni cosa, anche di vivere. Gli chiesi come
stava e gli dissi che anch’io stavo male.
Non mostrò di stupirsi, sembrò anzi aumentare la sua attenzione. Aprì la
bocca. «Perché?» mi domandò.
La sua domanda mi costrinse a guardare bene dentro di me, prima di
rispondere. Non potevo accontentarmi dei soliti giri della mia stessa anima e, alla
fine, delle vecchie conclusioni: «Un gruppo di persone ha deciso la mia rovina».
«I carabinieri; vai dai carabinieri».
«È difficile spiegarsi con loro perché queste persone agiscono in modo molto
nascosto».
«Contro la volpe, i cani. Vai dai padroni, tuoi o loro. Vai dai padroni». Alla fine
mi domandò come mi chiamavo.
I giorni di febbraio erano già lunghi, almeno fuori della fabbrica, e quel giorno
mi dava ancora il tempo di svolgere una delle commissioni affidatemi dal vecchio,
quella dei carabinieri. Per non tornare dal maresciallo di Candia, d’accordo con il
parroco e con Tortora e con la Pubblica Sicurezza, decisi di andare al comando di
Caluso.
Capii subito che anche quel maresciallo capo era già stato avvertito da tempo;
ma forse non si ricordava bene le cose per cui mostrava con impazienza il senso
di fastidio che gli veniva e dal non ricordare e dall’impiccio che intravedeva dietro
i miei discorsi. Gli lessi nella faccia la determinazione di respingere ogni cosa.
Allora cambiai le conclusioni e proprio per difendermi dalla sua decisione di non
ascoltarmi, e per turbare il suo mestiere, gli raccontai la storia della truffa; tutta
la storia dei maghi.
Lo vidi tentennare; cercò di intrappolarmi tra «dottore» Tortora e «dottore»
Fioravanti ma io gli risposi nel modo più chiaro.
174
«Perché da Candia sei venuto a denunciare queste cose a Caluso?»
«Perché penso che il maresciallo di Candia sia d’accordo con i medici».
Si alzò in piedi e perché non capiva andò ad accendere tutte le luci della
piccola stanza. Si arrabbiò e mi promise il carcere. «Sempre voi delle fabbriche,
siete i più difficili», disse; ma io gli risposi che volevo firmare la denuncia Disse
che l’ora della firma l’avrebbe decisa lui e intanto mi cacciò.
Andai alla stazione di Caluso e vidi arrivare il treno operai. Guardai nella
carrozza dove io mi sarei seduto se l’avessi preso con tutti a X; la carrozza era
ormai semivuota e non aveva nessun aspetto particolare, che io ci fossi stato o
no. Ma c’era qualcosa di me negli angoli lucidi del legno, una parte viva, e lo capii
mentre il treno ripartiva. Una parte di me era anche nel sanatorio dietro la
collina; mi venne in mente preciso il punto delle scale in cui sarei stato in quel
momento scendendo per andare a mangiare. Sapevo bene che cosa avveniva in
quel momento in sanatorio ed anche quel che sarebbe passato in quel momento
dentro di me, in sanatorio.
Uscii dalla stazione, tra il cattivo odore e il buio. Era passata un’altra giornata
e brutta. Un pezzo di me in tanti posti; vivevo con dolore in tanti posti dove
lasciavo una scia come una lumaca. Quanto restava per me? Ebbi paura di
consumarmi ancora come in quella brutta giornata; ebbi paura di morire.
Passata la notte, la mattina mi trovai a vestirmi con lo stesso pensiero con il
quale mi ero spogliato e sempre con gli occhi sul davanzale della finestra; non
fuori, verso la campagna e il lago, e non dentro, sul tavolo e sulla compagnia delle
seggiole. Il pensiero era di riprendere il lavoro e di andare all’Ufficio Personale, o
addirittura in Presidenza.
Passai dall’infermeria e tornai al montaggio. Sapevo cosa dovevo fare.
Cominciai a lavorare fitto fitto; uno dietro l’altro, uno dietro l’altro tutti i pezzi.
Ripartii con la nuova cassetta e lavorai ancora più svelto. Come avevo pensato,
alle undici avevo fatto la media richiesta per la mezza giornata di lavoro. Andai
allora da Milione e gli chiesi di controllare. Mi guardò senza nessuno slancio.
«Ci credo», mi disse.
«Voglio andare a parlare con l’Ufficio Personale e lei dovrà provare quel che io
ho fatto».
«Ma cosa vuoi? che ti lincino?» mi disse, accennando a tutti quelli del reparto
che continuavano con le loro teste ad andare su e giù sopra i pezzi.
175
«Mi mandi all’Ufficio Personale».
Alzò il telefono, si guardò in giro, e chiese all’Ufficio Personale di ricevermi,
subito.
All’Ufficio Personale, a due persone dietro la stessa scrivania, dissi quello che
avevo fatto. Iniziarono scusandosi di essere in due, poi uno mi domandò che
significato davo a quello sforzo eccezionale. Risposi che l’avevo fatto per provare
di essere un buon operaio.
«Per così poco?» sorrise sempre quello. «Non è che l’ha fatto invece per qualche
interesse? Per un cambio di lavoro, per una qualifica?»
Dissi di no e che il mio interesse era proprio quello di dimostrare di essere un
buon operaio.
«Grazie», disse sempre quello che parlava. Poi cambiando tono e cambiando la
luce dei suoi occhiali mi domandò: «Si rende conto che con quello che ha fatto
può danneggiare il reparto?» Gli risposi che non m’importava anche perché
nessuno nel reparto si era mai preoccupato di me.
«Ma noi pensiamo a tutti. Noi dobbiamo pensare a tutti; la nostra giustizia
distributiva..». Dissi che non c’era giustizia e che l’avevo fatto proprio per
dimostrare che un bravo operaio era perseguitato nella fabbrica e costretto ad
agire da solo. Sempre quello disse che non dovevo considerare una persecuzione
il fatto che tempo addietro non mi era stata data la qualifica. «Per diverse
circostanze..».
Nessuna qualifica e nessuna circostanza, dissi io; ma gli attacchi dei medici,
le false malattie, il sanatorio.
Questo l’Ufficio Personale doveva considerare; punire i medici, darmi giustizia;
stabilire che la mia salute era buona e che io potevo vivere nella fabbrica senza
riserve e lavorare con tutte le soddisfazioni. Parlò l’altro e disse che il mio caso
sarebbe stato trattato fino in fondo.
«I dubbi che lei ha, anzi le accuse che lei muove, saranno vagliate
minuziosamente. Non soltanto sulla base di colloqui ma con veri e propri esami e
prove testimoniali. Anche lei sarà chiamato e anche lei dovrà sottoporsi a tali
esami».
«Altre visite mediche?» domandai io.
«Non posso ora precisare nulla. Dobbiamo ancora studiare e poi stabilire le
procedure. Stia tranquillo che lei sarà informato di tutto e che al momento giusto
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dovrà prendere, come tutti, le sue responsabilità, se vorrà un risultato giusto e
definitivo».
Il rumore della fabbrica dava a queste parole un tono che superava il discorso
e che andava al di là di loro due e di me e di tutta la stanza; mi ricordava che io
ascoltavo un pezzo della fabbrica e che il suono di quelle parole era una frazione
di tutto il rumore. Uscii quindi come se il colloquio non fosse finito; come se non
fosse possibile fermare qualcosa, mettere un punto a quel rumore che continuava
come sempre ad andare ovunque, in alto e in basso, da tutte le parti. Bisognava
che io parlassi con qualcuno che potesse decidere, conclusi, come avevo già
pensato a casa, la sera e la mattina: con la Presidenza. Se avessi scritto una
lettera quanto tempo avrebbe impiegato? si sarebbe perduta tra le altre carte?
l’avrebbe fermata il dottor Carpusi? Bisognava parlare, spiegare ogni cosa di
persona. Avevo visto qualche volta il presidente, il professor RattoFerrua, passare
davanti alla fabbrica sprofondato in un angolo della sua grande macchina nera,
dove sembrava addirittura soffrire. La sua bocca aveva sempre una smorfia ed
egli stava, come chi sente freddo, con la testa fra le spalle, sempre dentro un
bavero di pelo. Aveva una faccia larga, allargata con delle lineacce che andavano
di qua e di là della sua bocca smorfiosa. Portava sempre degli occhiali affumicati,
forse per rendere la sua figura ancora più triste e per nascondere un occhio
storto, un occhio che si celava sotto la fronte con rapidissime fughe lasciando
fuori tutto il bianco, una specie di uovo cotto con qualche mucillaggine
scomposta. Dicevano però che fosse molto buono, e che dopo i giusti rimproveri
risolvesse ogni cosa con severità e giustizia. Riceveva un operaio alla settimana.
Se mi fossi messo in nota presso la segreteria avrei dovuto aspettare il mio turno
per più di dieci anni.
Sapevo che c’era uno in fabbrica che poteva aiutarmi; il capo sala della
mensa, l’unico a comportarsi in fabbrica come se fosse libero, parlando a voce
alta, ridendo, riferendosi sempre a fiori e a piante. Quest’uomo era stato per molti
anni il servitore personale del professor RattoFerrua. Dopo aver fatto il cameriere
di transatlantico, era stato portato a X proprio dal prosore. Il professore aveva la
debolezza di scrivere poesie che il servitore, Leone, doveva imparare a memoria e
recitargli alla mattina aiutandolo a lavarsi e a vestirsi. Pinna mi aveva detto che il
professore a suo tempo aveva dimostrato anche altre debolezze per Leone. Era
stato questo Leone ad aiutare Pinna la volta del furto e a farlo parlare con il
177
professore.
Il professore aveva trattato Pinna con severità; ma alla fine gli aveva detto:
«Come sei peloso, figliolo mio».
Andai da Leone e chiesi di parlargli. «Benissimo», disse e mi tirò nel suo ufficio
davanti ai magazzini, dove fece arrivare due caffè. Prese il caffè senza zucchero,
mi mostrò ridendo le sue piantine di fiori che aveva sul tavolo e sugli scaffali e
m’invitò a parlare. Mi seguiva attentamente: «Poverino, poverino», e spesso mi
faceva ripetere per potere stupirsi ancora di più la seconda volta. «Poverino», disse
alla fine, «che bricconi ci sono in giro. Credevo di saperle tutte; ma quante ne
fanno in questa fabbrica! Poverino. E il tuo caso è tra i più difficili perché il
professore crede molto ai medici. Quel Tortora poi è sempre lì intorno con i suoi
occhioni, con pastiglie, pappe, siringhe. È difficile. Ma chissà perché Tortora ce
l’ha con te. Ha sbagliato all’inizio e poi non ha voluto più ammetterlo; oppure s’è
offeso perché tu sei sempre stato sgarbato e non gli hai mai riconosciuto autorità,
anche l’autorità di volerti bene e di salvarti.
Cosa posso dire al professore? Come fanno a sbagliare le lastre? Veramente
anch’io ho avuto un inizio di tbc e sono stato tre mesi all’ospedale di
Casablanca... Gli racconterò dei maghi, di tutti i soldi che ti hanno rubato e
intanto farò cadere qualche goccia anche sulla testa di Tortora».
Gli feci vedere la lettera di Carpusi. «Questa il professore non l’ha nemmeno
vista», disse e poi mi diede molte istruzioni che mi rinfrancarono completamente.
Due giorni dopo vidi sui muri davanti alla stazione gli annunci della morte di
Grosset. Michele Grosset, di anni quarantaquattro.
Mi sembrò che quella morte fosse avvenuta da tanto tempo, nel tempo più
crudele dei miei mali. Adesso io ero sul punto di salvarmi, di liberarmi del tempo
ostile in cui era avvenuta anche la morte di Grosset. Questo senso di distacco e il
contrasto fra quegli annunci e le giornate di liberazione che io stavo vivendo mi
fecero commuovere ancora di più e più teneramente, come per una triste
disgrazia che si ricordi d’improvviso con lo stesso animo di bambino con il quale
fu vissuta. La commozione mi portò alle lacrime; ma queste sollevarono
immediatamente il mio cuore solo per il fatto di essere state piante.

* 25 *

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In verità tutto, in quei giorni, trascorreva rapidamente: i viaggi, l’orario di
lavoro, la notte, e tutto era molto leggiero e senza dolore. Viaggiavo riuscendo a
guardare fuori e dentro il treno, ordinatamente uno sguardo dietro l’altro, senza
accavallamenti che mi dessero fastidio.
Ogni cosa appariva al suo posto e ogni cosa passava cedendo il suo posto alla
successiva. Tutto succedeva senza tanti significati; non come altre volte che non
riuscivo a staccarmi dalla visione di una pianta o di un paesaggio) anche se il
treno andava oltre e così soffrivo come se veramente il mio corpo venisse dilaniato
nel distacco, come se i miei occhi restassero sempre indietro. Arrivavo a X dopo
tanti strappi e mantenevo pesanti in quella memoria dolorosa delle cose di poco
prima, intraviste o non capite (che non riuscivano a passare e che non potevano
essere dimenticate subito o rifiutate) tanti particolari inutili, come il volo d’un
uccello per un attimo, la frasca di una siepe mossa dal treno, la finestra di una
casa, la forma di una nuvola non raffigurata. Entravo con questi quadri nel
reparto e lì continuavo con delle parole e con dei suoni; li sollevavo dal resto del
discorso che facevo o dei suoni che sentivo e li tenevo sospesi dentro di me sino a
quando non avevano più alcun senso. E anche io non gliene attribuivo alcuno.
Era una specie di sforzo che compivo senza volontà, una lotta fatta per non
arrendermi, pensavo, alla tristezza di quella vita vera che intanto rubava i miei
giorni.
Dopo aver parlato con Leone, tutto questo era cessato ed era cominciata una
vita più semplice, anche se molto più veloce nell’attesa di incontrarmi ancora con
lui e di avere una risposta. Mi sentivo più religioso, anche se non cercavo più il
parroco, che si era mostrato complice della fabbrica; più commosso e più
intimamente convinto della Provvidenza, della sua benevolenza nell’interesse di
Leone. Leone, intanto, alla mensa mi salutava sempre con molta simpatia, pur
essendo preso in quei momenti da un lavoro ansimante che lo faceva correre
dappertutto in punta di piedi. Qualche volta veniva a passarmi una mano intorno
alle spalle e a chiedermi come andava. Venne infine il giorno in cui la sua mano
mi strinse con maggior calore. Aveva visto il professor Ratto-Ferrua e aveva molte
cose da dirmi, alle cinque nel suo ufficio.
Riuscii a lavorare tranquillamente fino a quell’ora; se insorgeva un attimo
d’impazienza bastava che guardassi gli altri: i banchi del montaggio popolati da
una folla che sentivo diversa da me e che poteva per un attimo comunicarmi,
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attraverso tutte quelle schiene curve, la sua insensibilità. Il reparto sembrava
diviso in due dalla luce: sopra aleggiava a banchi la luce artificiale, sotto, più
cruda e limpida, quella naturale che precipitava dalle finestre. Anche questo mi
pareva un buon segno, che mi aiutava a mantenere lontano da me la mia
attenzione, richiamandomi infine alla mente quella divisione in due parti, fatta
proprio dalla luce, di tutti i quadri religiosi d’altare, ed anche di quel quadro
davanti al quale ci faceva pregare, alunni del collegio, padre Caligaris. Poi vedevo
ogni tanto arrivare, sbilanciato dal vento, qualche passero che veniva a posarsi
sul tetto della fabbrica.
Questo mi era sempre sembrato incredibile; ma quel giorno era confortante,
era un segno di gioventù e di libertà, tanti segni perché i voli erano più frequenti.
Poco prima delle cinque andai sicuro dal capo a chiedergli di poter uscire per
tutto il resto della giornata. Gli dissi che da quel giorno non avrei avuto più
bisogno di permessi né di lasciapassare per l’Ufficio del Personale o l’infermeria.
In pochi minuti mi vestii e raggiunsi l’ufficio di Leone. Anch’egli si stava vestendo.
Mi aprì e mi fece sedere avvertendomi con un segno che subito mi avrebbe
raggiunto, appena accomodata la camicia.
Prima ancora di sedersi cominciò a raccontare. «Ho parlato con il professore. È
stato difficile all’inizio perché era molto distratto e non voleva sentire novità. Mi
aveva chiamato perché dessi un’occhiata al guardaroba.
Questo inverno mite lo irrita e non sa come vestirsi, che biancheria indossare.
Ma i medici, gli ho detto, le consigliano la lana? Oh, i medici, ha risposto, di
queste cose che sono le più importanti non capiscono niente, anzi ne parlano a
vanvera. A buon conto ho detto che spesso i medici vanno a mettersi in quella
condizione. Ma lui non voleva seguitare il discorso e scantonò sulla scienza,
perché le persone, disse, sono quelle. che tradiscono ogni cosa. Eh già, gli ho
detto, la scienza è poca e i medici sono tanti. Mi ha guardato in silenzio con il suo
occhiaccio, io so che quando mi guarda senza arrabbiarsi vuol dire che è sorpreso
e che posso approfittare per andare avanti. Anzi a quel punto mi ha sempre
chiesto un bicchier d’acqua. Gli ho dato l’acqua minerale e ho continuato. Sa che
con tutta la scienza e con tutta la sua industria ci sono ancora i maghi? Lui non
ha bevuto e ha detto che i maghi sono ladri e che i ladri ci sono sempre stati e
sempre ci saranno. Infatti a un suo povero dipendente gli hanno rubato
trecentomila lire e lo hanno fatto soffrire le pene dell’inferno. Non avevo finito di
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dire queste parole, che ha fatto due discorsi. Uno: bisognerebbe licenziarlo, colui
che lavora in un’industria e che va ancora dai maghi. Due: perché non è andato
da Tortora? perché Tortora non se n’è accorto? Allora gli ho detto che tu eri stato
da Tortora, che Tortora voleva farti lasciare la fabbrica per curarti e che tu non
volevi perché eri troppo attaccato al lavoro e perché dovevi mantenere tua madre.
E lui ha detto che risolverà il tuo caso; non vuole aiutarti, vuole risolvere il tuo
caso. Chiederà ogni cosa all’assistente sociale e a Tortora; guarderà le tue lastre,
parlerà con tutti i medici. Se sei malato ti farà guarire e se stai bene ti farà
lavorare senza impicci. Gli ho detto che tu stavi benissimo e che se avesse voluto
vederti... Non sono un mago, mi ha risposto, e mi ha riconsegnato il bicchier
d’acqua. Quando restituisce l’acqua vuol dire che il discorso è finito. Adesso io, da
parte mia, posso dirti che tutto è andato bene e che ogni cosa si risolverà».
Così Leone mi raccontò tutto, dichiarando anche i suoi pensieri sui sentimenti
del professore e sulla faccenda.
«Sei fortunato», diceva ogni tanto, «sei fortunato. Se le mutande di lana non lo
pizzicavano come avrei potuto introdurre il discorso?» Vide che la mia faccia non
specchiava la sua allegria; ne fu quasi offeso e smise di parlare.
«Lei pensa che il professore parlerà con Tortora, che lo accuserà?»
Restituitagli l’iniziativa di valutare e di far contare il suo pensiero sulla
faccenda, Leone riprese la faccia di prima e continuò: «Certo che l’accuserà.
Tortora è già stato colpito. Tutto quello che ha detto su di te verrà cancellato e
dovrà rifare tutto; dovrà rifare tutto il compito e questa volta sotto gli occhi del
maestro, anzi del professore», e rise alzandosi in piedi e scuotendo il suo corpo
esattamente sino alla cintola. Non si era messo la giacca e la sua pancia magra
sussultava fra il costato e la cintola, disegnata chiaramente come in un pupazzo.
Notavo queste cose per accoppiarle al pensiero che mi era venuto in mente: «Nelle
mani di chi mi sono messo? Perché mi sono rivolto a questo che non conosco, che
vedo per la prima volta?» E così guardavo la camicia e la pancia ed ero sicuro che
non le avevo mai viste, che le vedevo per la prima volta e che erano del tutto
particolari.
Leone continuò: «Così il professore sa la tua storia.
Adesso dovrà essere informato di qualunque cosa ti capiti, dentro e fuori la
fabbrica. Se qualcuno volesse colpirti, dovrà stare ben attento».
Questo era veramente l’unico vantaggio. Però il discorso riguardava
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qualunque cosa avessi voluto fare anch’io. Non potevo così più difendermi da solo
e le difese, viste da chi non poteva conoscere, come me, tutte le loro ragioni e i
loro fini, potevano essere scambiate per degli attacchi o per dei tradimenti. Ma la
cosa che mi demoralizzava totalmente era che i medici avrebbero dovuto vedermi
nuovamente. Ancora visite, lastre, diagnosi; ancora il professor Bompiero. Ancora
questa catena di disgrazie, come tutte le giornate d’inverno, una dietro l’altra, in
cui un albero è spoglio e sta per morire, una giornata dopo l’altra; come tutti i
paesaggi dal finestrino del treno, uno dietro l’altro, sempre quelli da Candia a X.
Ancora come mia madre sempre uguale, con le stesse parole. Dove avrei potuto
trovare una strada, un’altra strada? Mi alzai e invitai Leone con me.
Non poteva; allora lo ringraziai e gli promisi che sarei tornato da lui a
informarlo di tutto quanto mi fosse capitato. Fu lui a chiedermelo ed io non potei
rifiutare.

* 26 *

Le strade dei giorni seguenti furono sempre le stesse Tutto era monotono,
come in un viaggio lungo, quando uno abbandona le gambe e si lascia
accompagnare dal loro movimento pendolare. Anche perché non vuol smettere di
pensare. Così vengono in mente dei giuochi di parole, dei ritornelli. Come ora le
parole viaggiare, accompagnare, pendolare, pensare, cominciano a prevalere nella
mia mente e ad acquistare un loro movimento, autonomo dalla mia volontà e che
anzi la domina fino al punto da renderla passiva, così alcune ricorrenze sui
medici, nemici, vestiti di camici, accompagnate dallo sbuffare in tanti «ici» o
«ciuffici», «ciuffici» del treno e il ripetersi del paesaggio, il suo correre in senso
contrario, a semicerchio, come una falce, verso un centro, un ideale stelo da
raggiungere ed abbattere che invece spariva sempre alla fine, nel momento in cui
avrebbe dovuto sorgere rivelando la sua sagoma o almeno la sua ombra, mi
impedivano di pensare o mi cullavano in un pensiero astratto sottraendomi
qualsiasi termine della realtà. Mi venivano in mente delle poesie: partivo da un
ritornello noto che s’accordava ai rumori del treno e poi aggiungevo parole mie.
Componevo queste filastrocche per tutto il viaggio ed anche per molto tempo
lavorativo. Mentre le componevo mi sembravano anche belle e suggestive, piene di
significati, specie le parole lago, soffrire, campagna, sortire, che erano le più
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frequenti. Mi capitava però ogni tanto di interrompere il giuoco, di destarmi
proprio per un rumore o per un altro incidente della realtà; allora, se rimasticavo
l’ultima poesia che il risveglio mi aveva colto sulle labbra, mi accorgevo che era
del tutto senza senso e che il senso non era nelle parole ma in un angolo buio
dentro di me, che dava loro le risonanze suggestive. Ma nel momento stesso in cui
lasciavo cadere le parole, quell’angolo buio si gonfiava e diventava sofferenza.
Così ricominciavo. Anche perché la sofferenza non era quasi più un
sentimento mio e mi spingeva alla cieca, a trovare qualsiasi scampo. Non mi
guidava nemmeno più a prendermela con qualcuno.
Uno di quei giorni, ormai di marzo, mi chiamò l’assistente sociale. La
Presidenza mi regalava centocinquantamila lire e mi comunicava di stare
tranquillo in attesa che i medici mi rivisitassero; ma in consulto, per decidere una
volta per tutte, senza inganni e malafede. La Presidenza poi avrebbe deciso sul
mio lavoro. Domandai se fra i medici ci sarebbe stato Tortora.
«Credo di sì», rispose l’assistente sociale.
«Allora io sono condannato. Bastò uno fra dodici compagni a tradire». Fui
preso da una grande commozione e piansi, anch’io nel mio piccolo orto.
L’assistente sociale mi lasciò solo; tornò dopo un momento e mi diede i denari.
Mi disse anche di non poter parlare e che voleva soltanto esprimere la speranza
che io potessi andare avanti.
Per la strada arndavo avanti, e andavo avanti tenendo una mano nella tasca
dei soldi. Li avrei dati tutti alla signora Eufemia per parlare ancora con lei, a casa
sua; per sentire ancora il caldo della sua stufa nella luce rossa che inventava un
altro tempo, tra la finestra oscura e la sponda del letto. Scendevano le rose dal
soffitto, ed erano vere quel giorno, una volta per tutte, come aveva detto
l’assistente sociale. Andai a casa prima del tempo; mia madre non c’era. Mangiai
le cose che trovai, una dietro l’altra, in piedi con la porta aperta.
Mangiavo come dopo una lunghissima vigilia ed ogni cosa era nuova, integra
nella sua specie. Dalla porta veniva una corrente forte; sentivo l’aria cambiare
sopra il lago, sentivo i tetti di Candia stendersi sotto quella luce chiara che a
marzo precede i cambiamenti di tempo.
Aspettavo anch’io il vento e mi preparavo con un brivido. Dalla pianura veniva
l’acqua; ma già sulle colline si erano addensate alcune nuvole sterili e gialle. «Le
foglie nuove», mi venne in mente e andai a guardare l’orto. Ma non c’era bisogno
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che io pensassi per loro.
Rientrai, chiusi la porta e salii nella mia stanza. Cominciò a piovere e quando
mi affacciai lo scarpone e l’indiano luccicavano insieme. L’indiano rideva: lo evitai
e mi rivolsi allo scarpone. Ma questa volta non mi suggeriva niente di reale; era
una forma che poteva assomigliare a tante cose; infatti della mia infanzia, di certi
suoi momenti brevi e intimi, caduti dentro di me come particelle insignificanti e
che veramente nell’attimo in cui li avevo vissuti non avevano costituito niente di
particolare felicità e sollievo (ed ai quali solo il ritrovarli dava un senso di gioia, di
innocenza, di dolce comunione con me stesso giovane che quasi mi sembrava di
poter proteggere e guidare per mano), non mi veniva, quel giorno, restituito
niente.
Lo scarpone luccicava, forse troppo; tanto che la sua chiarezza serviva a
illuminare anche l’inganno del suo meccanismo di ricordi e lo faceva vivere per
conto suo e non come un pretesto. La realtà era tanto crudele da non lasciare
niente nell’ordine che io avevo cercato di dare alle mie cose. Anche la luce, il lago,
la pioggia erano suoi strumenti e mi tenevano stretto. Chiusi la finestra; cercai di
prendere sonno, cullato dallo scroscio della pioggia. Non riuscivo. Sentii bussare
alla porta e capii che era mia madre sotto l’acqua; me l’aspettavo perché avevo
chiuso la porta proprio per lasciarla fuori. Scesi ad aprire sperando di poter
prendermela con lei; ma la realtà che mi dava una intenzione così precisa, a
differenza di tutte le altre volte in cui ero stato spinto contro la mia volontà da un
risentimento che si gonfiava come una tosse, mi vinse ancora mostrandomi mia
madre sofferente sotto la pioggia da apparire proprio la madre mia e di tutti i miei
dolori. Le raccontai tutto, cioè la visita che dovevo subire, e le diedi tutti i soldi
della Presidenza.
Riuscimmo a parlare di qua e di là della tavola. Mia madre mi confortava e
parlava della mia malattia come se realmente esistesse; io non reagivo, anzi
continuavo i suoi discorsi ed accettavo anch’io la mia malattia. Pensavo intanto,
senza che questo pensiero disturbasse i miei discorsi, che Tortora aveva vinto. E
questo pensiero non mi dava nemmeno le ansie e la ribellione di sempre perché
era fatto su una cosa ormai avvenuta. Tortora aveva vinto; malato o no era ormai
vero che io lo ero.
Non dormii, non mi alzai, non andai a lavorare; non feci nulla perché da parte
mia le cose erano compiute e dovevano soltanto avvenire. Dopo tre giorni venne il
184
solito messo a cercarmi a casa. Lo feci entrare e gli dichiarai di accettare l’invito a
presentarmi in infermeria.
Così avvenne, davanti a quattro medici. Tortora, Bompiero, Pietra, primario di
Torino, Gherardi, direttore di un sanatorio a Saronno. Mi visitarono questi ultimi
due. Erano come erano e si comportarono come erano. Non li avevo mai visti
prima e non sapevo niente di loro. I loro occhi e le loro mani mi apparivano
implacabili come strumenti. Sentivo le loro guance e i loro orecchi sulla mia
schiena: uno era più caldo e uno più freddo. Parlavano poco tra di loro; un po’ di
più con Tortora e Bompiero che assistevano, a due metri da me.
Pietra, di Torino, come proseguendo un discorso fatto prima e
accontentandosi quindi di qualche frase o parola, diceva che «quella» malattia è
spesso legata all’equilibrio psicologico del soggetto; è un’autopunizione, cioè la
volontà di distruggere se stesso o anche un’autodifesa, il modo di non assumere
responsabilità, di voler restare fanciullo, di accentrare su di sè i sentimenti e le
cure di altri. Tortora si entusiasmava e diceva di capire finalmente tutto. Pietra
mi parlò, a nome di tutti. Mi dichiarò tubercoloso fradicio e bisognoso di entrare
in sanatorio subito. «Se no?» dissi; ma senza voler fare una domanda. Pietra
rispose lo stesso: «Se no, via dalla fabbrica e via dalla vita; un anno, venti mesi».
«Suicidio?» domandai.
«No, la tubercolosi».

* 27 *

Il sanatorio era in Lombardia, sotto le Alpi. Mi ci condussero con una


macchina pochi giorni dopo la visita. La ditta mi diede anche un pacco di pigiami,
maglie e biancheria; molto grande, come per farmi capire che avrei dovuto
rimanere lì per molto tempo.
Sono rimasto in sanatorio più di due anni.
Non mi è accaduto mai niente. Sono stato quasi sempre solo. Pensavo molto a
casa mia, al lago, alla campagna e non riuscivo nemmeno a guardare il giardino
d’intorno e il parco e il paesaggio. Pensavo alla campagna con dolore e nostalgia e
non guardavo quella che avevo intorno come se i suoi campi e i suoi alberi fossero
diversi. Anche le stagioni non mi incuriosivano e passavo soltanto le giornate
singole, in quel sanatorio. Ogni giorno un mortorio, in quel laboratorio di morte!
185
in quell’ostensorio di morte! in quell’aspersorio di morte!
Ecco, andavo dietro alle parole: il loro suono contava più di ogni altra cosa,
più del loro senso, ed io finivo per ordinarle o per trovarle o per inventarle
secondo il suono, senza più l’ordine del significato e del pensiero. Ma così trovavo
un altro ordine pieno di emozioni e che parlava meglio il mio linguaggio. Non
andavo nemmeno più dal prete perché anche la mia anima si apriva ormai sopra
di me. Seguivo i miei discorsi immobile, con la mente, anche se gustavo le parole
tra le labbra e i denti, pronunciandole nelle ripetizioni e in tutte le rime, come
dolci catene. inventavo e cantavo le litanie dei miei dolori e della mia vittoria.
Certi giorni mi veniva in mente, al posto delle parole, un motivo musicale o un
ritornello e allora lo seguivo per tante ore, ondeggiante come un aquilone e il suo
filo si svolgeva nella mia mente e trascinava in volo i miei pensieri che si
staccavano senza farmi male, partendo dalla mia testa, continuando nell’aria la
circolazione del sangue leggiero della mia testa, senza strappare nulla dal mio
cuore, dal centro di me.

Io sono una goccia


la prima o l’ultima di un acquazzone caduta dalla grondaia
quando nell’aria
non s’aspettava pioggia,
nemmeno quella goccia.
La mia goccia s’è perduta,
nessuno l’ha goduta;
una Tortora l’ha disprezzata
e tra la polvere mischiata.
Non c’è stata l’adunata,
le altre gocce non son venute;
la mia stessa madre addolorata
le speranze ha perdute.
L’acqua liberatrice non c’è stata
le altre gocce non son venute dietro di me
ma ciascuna per sè.
Dio per tutti,
esclusi i farabutti.
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Le altre gocce sono divise,
le unioni non sono arrise.
Giuda per questo rise
e l’angelo si assise.
Le altre gocce sono divise,
ciascuna per sè
o a tre a tre
come i fucili dei soldati
che stanno in piedi appoggiati
a tre a tre,
nelle fabbriche, nei sindacati,
in tutti gli eserciti assoldati
come tanti disperati;
nelle case, nei prati,
nei sobborghi abitati,
disprezzati dai padroni
lusingati dai ladroni
sfruttati dai poltroni
derubati dai ricconi
ingannati dai pretoni
mischiati con i buoni
che soffrono per tutti
di più per i farabutti.
Nella fabbrica non nasce
erba o spiga
e neppure una capra si pasce
ma soltanto la fatica.
La fabbrica nemica
è coperta di fasce
e di tanti materiali
che nascondono i mali.
Tradimento o malattia
l’uno o l’altra che sia
a tenermi in prigionia
187
di questa lunga agonia
senza alcuna compagnia
lontano da casa mia
con la voglia che avrìa
di correre via,
prendere la ferrovia,
funivia o tranvia
traversar la Lombardia
via, cento volte via;
o volare vorrìa
sopra il lago di Candìa
riveder la terra mia
mia, cento volte mia,
piccola come una fotografia
che nel cuore mi stia,
quel poco d’erbìa,
quella siepe di gaggia,
sopra la nebbìa,
e del lago la ria.
Tradimento o malattia
l’uno o l’altra che sia,
via dalla casa mia
dall’anima mia
dalla mano mia
dalla spalla mia
via, cento volte via
i mali della prigionia,
la tristezza dell’infanzìa,
il ritorno dalla Francìa,
verso l’Italìa;
via dalla mente mia,
dalla fatica mia
dalla fabbrica mia
via ogni bugia;
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morte all’ipocrisia
di tutta la compagnia
della triste infermeria,
da Tortora alla spia
che avvelenò la vita mia,
di Fioravanti l’agenzia
mago e porcheria
e meretriceria
della falsa amica mia,
via come una cavalleria
trottando per la via
ridandomi l’allegria
di un bambino per la via
che segue la cavalleria
che trotta per la via;
via la cavalleria,
la compagnia
la fanteria
della falsa malattia.
Tradimento o malattia
via cento volte via
l’uno o l’altra che sia
via cento volte via
per il trionfo della democrazia
giardino d’armonia.

Quando non mi abbandonavo alle poesie, quando cioè ritiravo la mia mente,
riprendendola interamente per me, allora la ritrovavo acuta come una lama,
smaniosa di aprire un varco dentro di me, di ritrovare i miei pensieri. Facevo così
degli esami precisi di tutta la mia storia e della mia situazione in quel sanatorio.
In quei momenti ho ricostruito e scritto quasi tutto questo racconto, pensando
molto di più e con più ampiezza e profondità di quel che riuscivo a mettere sulla
carta. Ho scritto anche tante lettere, che non ho raccolto; lettere per l’assistente
sociale, per Tortora, per la Presidenza, per Gualatrone.
189
Intanto la mia salute andava migliorando. Mi curava una giovane dottoressa
che parlava pochissimo. Mi chiamava per nome dalla porta e poi non parlava più.
Della mia malattia disse soltanto che non sapeva se erano stati i medici a
farmela venire ma sapeva che c’era.
Accontentava così la sua onestà con questa mezza verità. L’onestà e la verità
sono alla stazione di Santhià; non possono arrivare fin qua, perché il treno non
va.
Che farà chi bisogno ha di tutta l’onestà e la verità e non si accontenterà solo
della metà? Un treno se ne va carico di verità ma non arriverà da chi non è ad A,
perché il viaggio non si fa da B ad A, perché la verità sta con chi ce l’ha già.
Siccome avevo saputo che la dottoressa non credeva in Dio, verso la Pasqua
del secondo anno, un giorno della Settimana Santa in cui ero tranquillo ed avevo
dormito a lungo, ebbi il coraggio di chiederglielo. «In Dio, no, non ci credo»; mi
guardò e come per consolare sia me che se stessa, proseguì: «ma credo nei santi.
La terra è piena di santi, specie qui dentro, ed io posso mettere più che il dito
addirittura le mani nelle loro piaghe. Credo nei santi, anche in quelli vecchi dei
mezzi mantelli, delle pagnotte, della lebbra. Ma soprattutto in quelli che vedo, che
ci sono dappertutto. Quanti ce n’erano anche nella fabbrica?»
Io pensai a Grosset. Pensai però anche alla fabbrica.

Nella fabbrica c’è un santo


con una barba bianca;
porta anche lui la tuta
e tutto il giorno aiuta
la gente che si stanca.
E un santo ottimo
per chi lavora a cottimo,
di grande pazienza e coraggio
per quelli del montaggio,
con la mano piccina
per quelli dell’officina,
con l’occhio a raggio
per quelli dell’attrezzaggio,
aiuta, aiuta
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sotto la tuta
quelli della fonderia
il piede a tirar via,
porta l’aria pura
a quelli della verniciatura
e porta via i rumori
a quelli dei motori.
Questo santo
tanto tanto
aiuta tutti quanti
sotto i grandi impianti
dietro le grandi porte
dove si soffre forte
dietro tutti i vetri
dove si sta in un metro
e non arretri
sempre in piedi
per tutte quelle ore
nel freddo e nell’ardore
dell’estate.
Lavorate, lavorate
tutti quanti
non fermate
la fatica
e quel santo par che dica
lavorate tutti quanti
lavorate;
siete stanchi? siete santi!
Non gli altari
solo i banchi
tutt’in fila
che non manchi
d’esser pari
nella fila
191
tutti uguali,
i santi mortali.
Nella fabbrica
si predica;
la preghiera
alla sera
è quella di uscire
per benedire
un altro giorno;
dopo quel forno
con una
boccata d’aria
ed una
occhiata alla luna.

E sapevo che già fuori del sanatorio circolava quell’aria fresca che tanto bene
mi avrebbe fatto, il giorno in cui ne avessi addentato le prime boccate, fuori dei
cancelli. Aria delle valli della Lombardia, che va via sopra i boschetti, lontano
dalla pianura, ferma sui tetti delle colline quasi per la paura di tramutarsi in
acqua sui laghi verso tutti i paesi dei tessili, quelli dai nomi che finiscono in «ate»
o verso le guglie di Milano. Così con l’aria uscivo sopra questa geografia. E
ricordavo le boccate che prendevo alla sera sopra il lago salendo verso casa mia.

C’è un lago
dalle parti di casa mia
verso cui drizzo l’ago
della mia nostalgia.
Rimpiango la sua riga
nell’orizzonte vago
quando l’acqua intrìga
con la terra, nel brago,
o quando il vento briga
con la voce nell’arco
serale che fumìga.
192
Scendevano uccelli nel varco
tra le colline
e si posavan nel parco
tra le boschine.
Un cacciatore all’imbarco
puntava il suo fucile
ed io vedevo il branco
alzarsi sopra il vile
e con un grido bianco
girare sul cortile
del lago e delle sponde.
Ed un colore umìle
nel petto hanno le penne
come quello dell’onde
che il vento venne
a serrar nel covile
che la riva contenne.
Anch’io volavo sul lago
e andavo come un mago
con i miei occhi a vedere
dove nascevan le sere,
come faceva l’aria
da chiara a farsi scura
recando la paura
di un’altra notte amara.
A quell’ora il paese
con le sue porte rotte
con le sue luci accese
si specchiava nel lago;
e poi affondava nel lago
lasciando sulla riva
unica impronta viva
la strada rossa dei tetti
aperta come una fossa
193
fresca tra i boschetti.
La terra si rovesciava
nel buio di quei mesetti
di primavera che andava
per i suoi sentieri stretti,
sulla notturna bava
della luna sul lago
e solo gli alberi lasciava
coi rami come un’imago
sopra l’impronta rossa.
Nel cielo salivan l’ossa
delle costellazioni
splendenti sulla fossa
delle generazioni.

Ultimo capitolo. Uscii dal sanatorio e giunsi a casa il 6 maggio 1956. Passai
l’estate curandomi ancora e aspettando tutti i temporali sul davanzale della mia
finestra.
Quando il caldo divenne più forte andavo a passare intere giornate sulla
sponda del lago. Non facevo molte cose e non avevo molti pensieri. Ormai le mie
storie erano finite. Ormai i medici e la fabbrica potevano comportarsi con me
come volevano. Non posso dire come fosse la mia vita e la vita intorno a me, in
quell’estate, che pure è la più vicina, perché non me ne ricordo più.
Potrei raccontare del lago e delle ranocchie, della luna di agosto o dei grilli; ma
io non c’entravo per nulla nella vita di queste cose che vedevo e che mi erano
vicine. Mia madre parlava, spesso; ma sempre al margine dell’orto e rivolta alle
piante e sempre quando fra me e lei c’erano almeno venti metri e quando io
uscivo e lei entrava o viceversa.
Il primo settembre mi ripresentai all’Ufficio del Personale. Non m’importava
molto di riprendere il lavoro; lo facevo senza scampo e con rassegnazione. Non era
certo come avrei voluto farlo tre anni prima, tanto più che sapevo di non poter
chiedere nulla. Infatti dovetti aspettare un mese che mi assegnassero un posto di
lavoro e alla fine mi proposero di fare il piantone. Mi misero così fuori della
fabbrica a guardare l’ombra sui muri. Un uomo ancora giovane con la consegna
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di guardare uno spigolo, nemmeno come una guardia ma come un piantone, che
non è una pianta che vive ma un paletto secco piantato. Nessuno mi avrebbe dato
un altro lavoro ed io ormai, io e le mie sventure, appartenevo alla fabbrica che
aveva sempre continuato a rovinarmi e a curarmi.
Il sentimento più vivo che mi accompagnava nelle ore di piantonamento era
proprio quello di essere diventato una proprietà della fabbrica. Anche la fabbrica
avrebbe potuto capire che, ridotto in quel modo, io pesavo soltanto e inutilmente
sopra me stesso e sopra di essa e che se avessi potuto essere più libero, la mia
libertà sarebbe stata anche la sua e m’avrebbe consentito di fare qualcosa anche
per essa. Ma è proprio quello che la fabbrica non vuole. Così guardavo l’ombra dei
magazzini. Ogni tanto un pensiero mi veniva in mente vedendo i grandi edifici
sotto il sole. Vedevo che il sole scendeva sulle fabbriche con la stessa coperta che
sugli alberi e sulle colline intorno e pensavo che nessuno come quel sole poteva
capire tutto. Nessun capo e nemmeno tutti i capi, né i medici né gli uffici, se ogni
cosa doveva avvenire sopra o contro tutti gli altri e senza che ciascuno di tutti gli
altri potesse scegliere e fare egli stesso qualcosa liberamente.
Io guardavo e vedevo i trasportatori gialli andare lentamente avanti e indietro
dai magazzini. Vedevo e sentivo la gente che da quelle porte secondarie usciva.
Dopo appena due mesi mi dispiaceva non essere uno di loro e quando li vedevo
passare mi mettevo al loro passo e cercavo di ascoltare i loro discorsi.
A casa mia madre mi diceva soltanto di stare attento, alla mattina, quando
passavo davanti alla sua stanza e prendevo la scala per scendere al pian terreno.
Mi vedeva vivo e grasso, di nuovo nella fabbrica e non pensava che mi potesse
occorrere qualcos’altro. Era sempre allo stesso punto: nella casa, nell’età, nei
discorsi. Beveva moltissimo, quasi sino a ubriacarsi ogni sera e questo la
conservava in quel punto nel quale ormai non aveva più niente; in quel punto in
cima alla scala. Non esisteva più niente intorno a lei, nemmeno la sua stanza e
nemmeno i suoi gesti di lavarsi, pettinarsi, vestirsi con la porta chiusa. I suoi
discorsi erano tutti fatti a se stessa o inutili come quelli che faceva per chiamarsi
intorno le galline all’ora del becchime e che continuava anche dopo l’ultimo acino
di granoturco, facendo un giro intorno a casa.
Ma era sempre come se non si muovesse da quel solito punto, come se mai
sparisse dietro il fienile lasciando cadere le sue parole, immettendo una pausa
che potesse far pensare a un gesto diverso, a un piccolo tentativo, al più semplice
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dei misteri che potesse ricostruire una curiosità, una verità.
Capivo che per lei avevo avuto, con tutto il mio affetto, un odio furioso e lo
capivo proprio perché in quell’ultimo tempo non lo provavo più, forse appagato
dalla sua miseria, dalla sua persona alcolizzata e basta.
Quando beveva troppo andava a vomitare nell’orto e non lo nascondeva
nemmeno più. Chiamava ancora le galline a beccare il vomito ma soltanto con
una parola o due, senza alcuna convinzione. Io le portavo spesso delle bottiglie di
barbaresco e gliele lasciavo sul tavolo.
In viaggio quelle bottiglie mi facevano compagnia; più di come possa farlo il
vino per conto suo. Diventavano la parte più gentile di mia madre, la prova
consistente e silenziosa della sua presenza e di un affetto segreto, senza alcuna
pretesa. Le lasciavo sul tavolo come avrei lasciato le mani di mia madre se ancora
tra noi fosse stato possibile un saluto. Le bottiglie restavano sul tavolo tutta la
notte e spesso mi addormentavo pensando a loro, come a mia madre giovane e
indulgente, vestita di scuro e riservata.
Da piantone, i miei pensieri non andavano a mia madre o alla mia casa;
qualche volta al lago, quando qualche mezzo pensiero vinceva gli altri, aiutato da
qualcosa come uno spigolo, una nuvola, un graffio nel cielo, oppure quando avevo
bisogno di una uscita immediata dai ricordi e dalle nuove supposizioni sul
comportamento dei medici. Di queste però non ne facevo e non ne faccio più
molte.
Da piantone ho imparato a guardar meglio la gente; la gente della fabbrica, i
manovali blu sporco, le donne comuni dal grembiule nero, gli operai azzurri, i
capi in borghese; il modo comune di sollevarsi appena fuori della porta, di
guardarsi intorno, di camminare. Riuscivo ad attribuire a ciascuno un lavoro e
questo mi portava a ricordare i reparti e ad immaginarmi quelli che non
conoscevo. Da quel posto di piantone immaginavo che ogni lavoro nella fabbrica
fosse facile, almeno fisicamente, anche se ogni lavoro mi appariva legato ad una
serie di pratiche complicate, di cose da saper fare, di norme da seguire, e
soprattutto di conoscenze da riverire, che mi facevano capire come io non fossi
adatto e come per me tutto fosse più difficile, ormai impossibile. Io non avrei mai
capito o accettato di capire come si bussa a certe porte, come si attraversano certi
corridoi; quali sono le persone da salutare con rispetto e quali da evitare; quali i
discorsi convenienti. Questa era la mia evidente disgrazia e la vedevo camminare
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subito fuori della fabbrica come la polvere in un raggio di sole, dietro i passi e le
tute degli operai più vecchi e di altri brutti e storpi, che ancora potevano stare
dentro, come a me era impedito.
Quando vedevo uscire dalle porte secondarie qualcuno, notavo sempre quel
gesto di sollevarsi che poi era abbassare la testa come per evitare o scaricare un
peso, e vedevo la faccia triste che faceva una smorfia di traverso, rapida e feroce.
Capii che non era sempre un gesto di liberazione, piuttosto d’inganno, di furberia
appagata, come quello dei ghiottoni che inghiottiscono con fatica.
Così spesso avrei voluto urlare contro gli operai che deridevano la grande
fortuna di essere dentro, uniti, con un lavoro.
Un giorno ne sentii tre che camminavano ancora più adagio del solito nella
pausa rubata tra una porta e l’altra: parlavano di scioperare. Io ero in cima al mio
paletto, nel sole, a sedere come una sentinella indiana. Vedevo le porte e più
avanti gli spigoli dei fabbricati, altissimi e di ferro. Il risentimento che provavo e
quella fortezza della fabbrica mi diedero l’idea di un assalto. Una sortita avrebbe
dovuto venire dalla fabbrica ed io avrei dovuto respingerla dal mio posto con una
mitragliatrice. Avveniva che gli operai volevano improvvisamente uscire, in rivolta
contro il movimento del vero comunismo; ma non erano nemmeno gli operai,
erano i capi, le guardie, i dirigenti e molti agenti provocatori assunti nella
fabbrica. Manzino e Pinna erano con loro, insieme a Giuliana e a tutta
l’infermeria; Gualatrone era tenuto prigioniero nel centro dell’officina, legato ad
una macchina. Io ero solo davanti a quelle porte con il compito di impedire ai
provocatori di uscire. La loro parola d’ordine era «scioperare», usata proprio per
aumentare l’inganno. Io impugnavo la mitragliatrice. Eccone due alle porte.
Facevo fuoco. Le mie labbra misuravano la mitraglia.
«Sciopero», una breve raffica. Uno portò le mani sul fianco e l’altro si piegò a
sinistra. Subito altri tre, più due, più uno. A scaglioni, per ingannarmi.
«Scioperare... scioperare»: una raffica dietro l’altra.
Poi altri ancora. Le mie raffiche aumentavano. «Sciopero... sciopero... fate
sciopero». «Scioperate, sciopero, sciopero fate». «Avanti. Sciopero, sciopero, fate
sciopero. Scioperate, scioperate». «Avanti, avanti, sciopero, sciopero, fate sciopero.
Scioperate, scioperate, avanti».
Sparavo su interi gruppi che cercavano di ripararsi in tutti i modi. Lo spiazzo
davanti alle porte era sempre pulito perché il sole divorava i morti man mano che
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cadevano sotto la mia mitraglia. Uccidevo tutti quelli che tentavano di uscire e la
mia ansia era implacabile come quella del sole che divorava tutti i cadaveri.
Potevo bruciarli, annientarli come se davvero le mie mani avvicinassero il sole.
Diventavo enorme e arrivavo dappertutto come il sole. All’uscita di mezzogiorno
tirai addirittura delle bombe e ognuno che schizzava via sulla motocicletta era
come un brano lacerato dall’esplosione.
Riuscivo a credere a ciò che facevo e avevo anche stabilito una conclusione,
un giudizio: dopo un’ora, spostandosi il sole e arrivando l’ombra, gli uccisi
ritrovavano i loro corpi e la vita. Era una danza, fra il sole e l’ombra, in quel
piazzale e appena fuori, di tutti i morti e i vivi, i morti e i vivi della fabbrica.
Quando tornai al mio posto, dopo mangiato, ero disarmato. Appena seduto,
vidi venire verso di me tre operai, tra i quali, appena dietro, un bassetto con i
capelli rossi. Fu proprio lui, il più lontano, a interrogarmi.
Voleva sapere delle cose che io non sapevo.
«Come si può scioperare così?» disse agli altri, alzando tutti e due i suoi
braccetti. Gli altri tirarono avanti ed entrarono nei magazzini. Il rosso, prima di
seguirli, si voltò verso di me e mi diede un foglio.
Giocai con quel foglio per tutto il pomeriggio. Piegandolo in tutti i modi,
seguendo con i suoi bordi quelli dell’ombra sui muri. Due parole apparvero
sull’orlo come certi passeri alla sera sul filo dell’orto. M’incuriosirono e cominciai
a leggere il foglio cercando le parole tra tutte le pieghe e dietro gli angoli come uno
che segue una scritta lungo i corridoi di un palazzo.
Lavoratrici, Lavoratori del B.MON 18, nel nostro reparto è in atto un tentativo
da parte della Direzione e in particolare dell’Ufficio Tempi di peggiorare ancora le
nostre condizioni di lavoro. Questo tentativo si sviluppa a settori per frazionare e
isolare la reazione degli operai Una volta che sia riuscito vittorioso con noi
passerà ad altri settori e in breve tempo tutti i reparti verranno investiti.
Ecco alcuni esempi:
– Le operaie del collaudo si sono viste affibbiare sei operazioni in più al giorno,
con un futile motivo (firma del cartellino).
– Gli operai del controllo, 1a linea, debbono controllare in percentuale, con un
notevole aumento del già alto ritmo Questo sistema una volta collaudato verrà
esteso alle altre linee.
– Con l’istituzione della 14 linea, i manovali, i sostituti e i riparatori avranno
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un sovraccarico di lavoro senza beneficiare di alcun aumento.
– La 2a linea, in tutti gli spezzoni, si è vista costretta ad aumentare di quattro
macchine al giorno in conseguenza dell’aumento della 1a linea; così accadrà
anche per la 3a.
Tutto ciò sta a dimostrare che vi è un’azione concertata dalla Direzione che
rende sempre più precarie le nostre condizioni di lavoro allo scopo di ottenere
sempre nuovi aumenti della produzione.
OPERAI del B.MON 18! Dobbiamo soffermare la nostra attenzione sul pericolo
che comporta per la nostra salute un ritmo di lavoro così intenso e che diventa
ogni giorno più assillante.
Quanto potranno resistere coloro le cui prospettive sono di passare tutta la
loro vita a correre dietro a tempi impossibili?
Tutti sanno che quando un operaio perde anche solo una piccola parte della
propria capacità lavorativa viene allontanato, con il pretesto della cosiddetta «non
idoneità», dal proprio posto di lavoro. Tutte queste cose debbono farci riflettere.
Continuando per questa strada ognuno di noi corre incontro alla propria rovina
fisica e psichica e viene meno alla propria dignità di uomo diventando solo uno
strumento nelle mani del padrone.
Noi denunciamo questo stato di cose, che del resto già trovò la sua
espressione nelle firme raccolte circa un mese fa, ed invitiamo tutti gli operai, al
di sopra delle tendenze di parte, ad unirsi nella lotta per migliori condizioni di
lavoro, affinché esso non diventi una insopportabile schiavitù.
Il Sindacato fiom della Fabbrica Conservo ancora questo foglio e l’ho copiato
per mostrare la verità. Allora tenevo quel manifestino nelle mani e mi pareva di
averlo scritto io, parola per parola, in tanti anni di lotta nella fabbrica, con
ognuna di quelle sante parole sgualcite e nere che venivano dalle mie notti e dai
miei pensieri. Mi consolavo anche a pensare che l’avevano scritto altri e che
quelle parole erano passate per altre teste e che quindi tanti altri erano nella
fabbrica nelle mie stesse condizioni. Non m’importava sapere che cosa sarebbe
successo. Sapevo e so che dal momento in cui ho avuto il manifestino molte altre
cose dovevano capitarmi. La sera, verso l’ora dell’uscita, guardavo il traffico che
cominciava ad intensificarsi davanti alle porte. Questo poter vedere allacciarsi la
vita della fabbrica con quella di fuori è l’aspetto positivo del fare il piantone
insieme a quel risentimento contro la fabbrica che consente di giudicare con tutta
199
la necessaria acidità.
Infatti nei reparti la smania dei premi, dei passaggi di categoria, e l’ambizione
di essere benvoluti dai capi portano sempre tutti a rimettere ogni giudizio, ad
assumere quasi la difesa dell’interesse dell’azienda anche contro il proprio e
quello degli altri che lavorano.
Quanto sbaglia la gente, ad ogni livello, che crede di diventare una parte della
fabbrica. In quel momento, la fabbrica conta per loro e più di loro; così
cominciano tutti gli sbagli che si possono fare contro la propria vita.
Meglio, allora, fare il piantone per scampare quell’influenza. Ma io contro tale
influenza ho lottato sempre e sono potuto rimanere libero anche se turbato in
ogni fibra. E proprio io dovevo avvilirmi a fare il piantone; ma io mi mettevo a
guardare di più il paesaggio che la fabbrica. Guardavo quei punti, quadrati e a
strisce, dove la campagna è attaccata dalla fabbrica e dalle case intorno agli
stabilimenti. Vedevo quanto perde la povera campagna, nata insieme all’uomo,
quanta vita le viene raschiata per le scorie, i sassi, la polvere, i metalli, le
stradacce.
E gli uomini stanno tutti proprio su quei quadrati e strisce, come
s’ammucchiano le mosche proprio sulle ferite.
Quella sera i gruppi erano più compatti e anche dopo l’uscita non esplodevano
velocemente in tutte le corse ma continuavano a spostarsi insieme, di qua e di là.
In mezzo vidi il bassetto rosso che muoveva tutti e due i suoi braccetti. Era
ancora lì mezz’ora dopo l’uscita, quando io smettevo il mio turno.
Negli spogliatoi seppi che era stato proclamato lo sciopero per il pomeriggio
intero del giorno dopo se nella mattina la Direzione non avesse dato le risposte
che si volevano. Mentre mi avviavo verso la stazione, il bassetto mi passò davanti
sulla sella di una grossa motocicletta tutta rossa. Le mani gli arrivavano appena
ai manubri ma egli guidava con grande sicurezza e il motore della moto andava
con un ritmo regolare e pieno, come il martello di un bravo fabbro.
La mattina dopo, quando arrivai, davanti alla fabbrica c’erano già le guardie.
Le guardavo dal mio posto di piantone andare avanti e indietro, due a due. A
guardarle mi annoiavo come dovevano annoiarsi loro su quella strada, senza
saperne e capirne nulla; su quella come avrebbero potuto essere su qualsiasi
altra.
In quel momento vidi che un gruppo di persone premeva verso l’uscita. Le
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guardie della fabbrica le respingevano. Le guardie di P.S. guardavano dal
marciapiede.
Mi mossi dal mio posto e mi avvicinai quanto più potei. Quelle persone erano i
rappresentanti di Commissione Interna che tutti insieme avevano confermato lo
sciopero dopo essere stati ricevuti ma non ascoltati dalla Direzione. Non so
perché volessero uscire. Urlavano tutt’insieme e non si capiva niente.
Corsero altre guardie della fabbrica e quelle di P.S. scesero dal marciapiede,
avanzando di qualche passo.
Potei avanzare anche io e riuscii a capire. Le Commissioni Interne volevano
avvertire i cuochi e tutti gli addetti della mensa di scioperare subito in modo che
la massa, non trovando il pasto a mezzogiorno, tornasse a casa e scioperasse di
più. La Direzione non voleva che la mensa fosse sobillata e che scioperasse prima
degli altri reparti, contro gli accordi presi il giorno prima per un eventuale
sciopero unitario di mezza giornata. Lo sciopero anticipato della mensa avrebbe
turbato anche il lavoro dei turnisti e degli impiegati.
Le guardie della fabbrica stavano per essere sopraffatte perché alle
Commissioni Interne si erano uniti altri del primo reparto dell’attrezzaggio che
aveva l’ingresso da quella parte. Allora le guardie di P.S. fecero due passi avanti.
Intanto era arrivata un’altra squadra, armata e con gli elmetti. Si fermò all’altezza
della porta e si schierò in parata.
Sentii gridare dall’interno: «Subito lo sciopero, in tutti i reparti. Subito lo
sciopero. Subito lo sciopero». Queste parole mi arrivarono insieme a un grande
applauso.
Per la Celere furono come un comando, avanzò di un passo più lungo e
sfoderò i manganelli. Ormai era contro la porta e il muro, su tre file. Vidi i
manganelli e alzai gli occhi verso il sole. Il mio posto di piantone era ormai
nell’ombra dello spigolo dei magazzini.
Sulla fabbrica invece il sole splendeva e soltanto nel rettangolo intorno alla
porta s’affollava l’ombra verde delle guardie, come una muffa velenosa. Dalla
porta non poteva uscire nessuno.
Allora tornai verso il mio posto e sapevo che stavo facendo un pezzo di strada
verso la mensa. Dal mio posto la strada scendeva per arrivare all’ingresso della
mensa.
Camminai spedito, superai l’ingresso e feci il giro dell’edificio, fino agli ingressi
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di servizio. Lì all’altezza del terreno s’aprivano le finestre della cucina. M’affacciai
e vidi i cuochi ormai pronti intorno alle grandi caldaie. M’affacciai e dissi: «Vi
mandano a dire di scioperare subito, subito senza preparare il pasto». Si
voltarono verso di me, uno o due, senza capire. «Dovete scioperare, scioperare
subito.
Nessuno deve mangiare». I cuochi mi ascoltavano e mi guardavano in silenzio
alzando i coperchi e spostandosi tra le cucine. Essendosi mossi dai loro posti
senza rendersene conto, accadde una grande confusione e proprio in quel
momento cominciarono a bollire tutte le pentole. Arrivò Leone e cominciò a
sbracciarsi con il suo gilè stretto.
«Vi mandano a dire di scioperare, di scioperare subito», ripetei io con più
forza, convinto da quella confusione.
Allora Leone di corsa venne sotto la finestra e cominciò ad agitarsi come un
cattivo sottufficiale, come un’altra di tutte quelle pentole che ballavano.
«Ah, sei tu», mi disse il fedele Leone, «sei tu, bell’amico. Chi è che manda a
dire di scioperare? Io, gli ordini..». Risposi subito: «La Commissione Interna, alla
quale la polizia ha sbarrato le porte».
«E tu fai il tamburino... Bella riconoscenza che hai per la Presidenza. Non date
retta a questo matto. Bella riconoscenza che ha per la Presidenza..».
I suoi cattivi argomenti e la sua stessa ira convinsero della mia verità i cuochi
e le donne che cominciarono a scoprire e a togliere le pentole e anche a spegnere
qualche fuoco. Io continuai a ripetere che dovevano scioperare per incoraggiarli e
per incoraggiare me stesso; finché una guardia mi portò via, fino all’Ufficio
Personale.
Dopo un interrogatorio di pochi minuti, mi hanno sospeso dal lavoro per tre
giorni e mi hanno detto che mi consegneranno una diffida scritta di
licenziamento.
Sono tornato a casa con un pullman per Torino, in partenza all’una dai
giardini pubblici. La strada era deserta eppure sembrava più stretta del solito e
sembrava che se ne potesse vedere di più davanti, oltre le curve.
Gli alberi avevano già perduto qualche foglia e sulla campagna si disponeva
una luce rosa, molto larga. Dai vigneti veniva qualche barbaglio, come di specchi,
e veniva dalle parti più folte dove ancora non erano arrivati a vendemmiare.
Erano quei giorni senza uccelli, quei giorni dell’anno in cui non vi sono più averle
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o quegli altri amici che stanno pensierosi sui paletti, con le code bianche e nere.
Tra i vigneti vendemmiati, quelli più in basso, si vedevano già gli spazi e i merletti
stracciati dell’autunno e quella ruggine che poi si butta sulle ultime mele. Tra
pochi giorni, come la lettera per me, arriveranno gli storni, a branchi aguzzi, i
tordi ingordi e quegli altri devastatori con il becco come un’accetta; dilanieranno
le file delle campanule intrecciate sulle viti dove si nasconde qualche grappolo
d’uva. Faranno un gran chiasso e imbratteranno tutte di sterco le foglie dei
vigneti.
Al bivio sono sceso, dopo un viaggio veloce, e a piedi mi sono diretto verso
casa mia. Guardavo, come sempre, il lago crescere a poco a poco sotto i miei
occhi, nella salita verso casa mia. A un certo punto era completamente sotto di
me, che respirava piano tra le sue sponde. E così sotto di me tutti i tetti del
paese, rossi e ordinati come se non albergassero la cattiveria umana.
Nel nitore del pomeriggio il lago era senza sfumature, senza bracci verso la
campagna e gli alberi; chiuso dentro le sue sponde. E il suo colore non brillava e
non si spandeva all’intorno.
A quel punto io ero già all’altezza dell’orto di casa mia, quando finisce la salita
e restano venti metri in piano per arrivare alla porta. A quel punto ho capito che
nessuno può arrivare in mio aiuto.

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