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SVEVO

Prefazione
Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi
s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica.
Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il
mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità.
Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia
fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei
risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul piú bello non si fosse sottratto alla cura
truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti
onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se
stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha
qui accumulate!… DOTTOR S.

Preambolo

Vedere la mia infanzia? Piú di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se
la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni
e qualche mia ora.

Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose
per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Ma un po’ d’ordine pur dovrebb’esserci e
per poter cominciare ab ovo , appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo lascia
Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico-analisi. Non è difficile
d’intenderlo, ma molto noioso.

Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La
mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me.
Io lo vedo. S’alza, s’abbassa… ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo
compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta
di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato.

Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finí nel sonno piú profondo e non ne ebbi altro
risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa
d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre.

Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre che non
possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle
innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui!

Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivar a ricordare la prima
infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei essere io quello? Non mi
somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto
vedere quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi tanto grandi. Povero bambino! Altro
che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza
di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe
bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto,
inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti
avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È
impossibile tutelare la tua culla. Nel tuo seno – fantolino! – si va facendo una combinazione misteriosa.
Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i
tuoi minuti possono essere puri. Eppoi – fantolino! – sei consanguineo di persone ch’io conosco. I minuti
che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono.

Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani.

La morte del padre

Quando mi levai, Maria andò a coricarsi ed io restai accanto a mio padre insieme all’infermiere. Ero
abbattuto e stanco; mio padre piú irrequieto che mai.

Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che gettò lontano lontano la sua
ombra, che offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne il dolore, fu d’uopo che ogni mio
sentimento fosse affievolito dagli anni.

L’infermiere mi disse:

– Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta importanza!

Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in quel momento,
ansante piú che mai, l’ammalato s’era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per
mezz’ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?

Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con
mano vigorosa poggiata sulla sua spalla, gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non
moversi. Per un breve istante, terrorizzato, egli obbedí. Poi esclamò:

– Muoio!

E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli
poté sedere sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al
trovarsi – sebbene per un momento solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche
l’aria di cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno
sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva
comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di
là sul pavimento. Morto!

Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo, aveva
voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino
punito, gli gridai nell’orecchio:

– Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato! Era una bugia. Poi,
ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo piú:

– Ti lascerò movere come vorrai.

L’infermiere disse:

– È morto.

Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo piú provargli la mia
innocenza!
PIRANDELLO

Maledetto sia Copernico

Tutto sudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala e viene a prendere una boccata d'aria
nell'orticello che ha trovato modo di far sorgere qui dietro l'abside, riparato giro giro da stecchi e spuntoni.
- Eh, mio reverendo amico, - gli dico io, seduto sul murello, col mento appoggiato al pomo del bastone,
mentr'egli attende alle sue lattughe. - Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo.
In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello:
Maledetto sia Copernico! - Oh oh oh, che c'entra Copernico! - esclama don Eligio, levandosi su la vita, col
volto infocato sotto il cappellaccio di paglia. - C'entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava... - E
dàlli! Ma se ha sempre girato! - Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per
tanti, anche adesso non gira. L'ho detto l'altro giorno a un vecchio contadino, e sapete come m'ha risposto?
ch'era una buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi scusate, non potete mettere in dubbio che
Giosuè fermò il Sole. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, e l'uomo, vestito da
greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della
propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi particolari.
Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m'avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per
raccontare e non per provare? - Non nego, - risponde don Eligio, - ma è vero altresì che non si sono mai
scritti libri così minuti, anzi minuziosi in tutti i più riposti particolari, come dacché, a vostro dire, la Terra s'è
messa a girare. - E va bene! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise... La signora
contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola... Teresina si moriva di fame...
Lucrezia spasimava d'amore... Oh, santo Dio! e che volete che me n'importi? Siamo o non siamo su
un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gita e gira,
senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire
ora un po' più di caldo, ora un po' più di freddo, e per farci morire - spesso con la coscienza d'aver
commesso una sequela di piccole sciocchezze - dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don
Eligio mio ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla
nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo, con tutte
le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle
nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai le nostre. Avete letto
di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico
polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d'impazienza, e ha sbuffato un po' di fuoco per una delle
tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che
non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo
innanzi. Chi ne parla più? Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che per quanti sforzi facciamo nel
crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene,
non ci riusciamo. Per fortuna, l'uomo si distrae facilmente. Questo è vero. Il nostro Comune, in certe notti
segnate nel calendario, non fa accendere i lampioni, e spesso - se è nuvolo - ci lascia al bujo. Il che vuol dire,
in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte,
come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e
volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci
per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che
siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.
Lo strappo nel cielo di carta

Uno strappo nel cielo di carta

“La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! – venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. –
Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero
cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis”.

“La tragedia d’Oreste?”

“Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente ! Se, nel
momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del
padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica
lei”.

“Non saprei”, – risposi, stringendomi ne le spalle.

“Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo”.

“E perché?”

“Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione,
ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi si
penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta
la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo
di carta”.

E se ne andò ciabattando.

Dalle vette nuvolose delle sue astrazioni il signor Anselmo lasciava spesso precipitar così, come valanghe, i
suoi pensieri. La ragione, il nesso, l’opportunità di essi rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodoché
difficilmente a chi lo ascoltava riusciva di capirci qualche cosa.

L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella
mente. A un certo punto: ”Beate le marionette,” sospirai, “su le cui teste di legno il finto cielo si conserva
senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono
attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in
pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è del
tutto proporzionato.

L’umorismo: L’avvertimento del contrario

Vediamo dunque, senz’altro, qual è il processo da cui risulta quella particolar rappresentazione che si suol
chiamare umoristica: se questa ha peculiari caratteri che la distinguono, e da che derivano: se vi è un
particolar modo di considerare il mondo, che costituisce appunto la materia e la ragione dell’umorismo.
Ordinariamente, – ho già detto altrove, e qui m’è forza ripetere – l’opera d’arte è creata dal libero
movimento della vita interiore che organa le idee e le immagini in una forma armoniosa, di cui tutti gli
elementi han corrispondenza tra loro e con l’idea– madre che le coordina. La riflessione, durante la
concezione, come durante l’esecuzione dell’opera d’arte, non resta certamente inattiva: assiste al nascere e
al crescere dell’opera, ne segue le fasi progressive e ne gode, raccosta i vari elementi, li coordina, li
compara. La coscienza non rischiara tutto lo spirito; segnatamente per l’artista essa non è un lume distinto
dal pensiero, che permetta alla volontà di attingere in lei come in un tesoro d’immagini e d’idee. La
coscienza, insomma, non è una potenza creatrice, ma lo specchio interiore in cui il pensiero si rimira; si può
dire anzi ch’essa sia il pensiero che vede sé stesso, assistendo a quello che esso fa spontaneamente.

E, d’ordinario, nell’artista, nel momento della concezione, la riflessione si nasconde, resta, per così dire,
invisibile: è, quasi, per l’artista una forma del sentimento. Man mano che l’opera si fa, essa la critica, non
freddamente, come farebbe un giudice spassionato, analizzandola; ma d’un tratto, mercé l’impressione che
ne riceve. Questo, ordinariamente. Vediamo adesso se, per la natural disposizione d’animo di quegli
scrittori che si chiamano umoristi e per il particolar modo che essi hanno di intuire e di considerar gli
uomini e la vita, questo stesso procedimento avviene nella concezione delle loro opere, se cioè la
riflessione vi tenga la parte che abbiamo or ora descritto, o non vi assuma piuttosto una speciale attività.
Ebbene, noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non
resta invisibile, non resta cioè una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira;
ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene: ne scompone l’immagine; da questa
analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e
che io difatti chiamo il sentimento del contrario.

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta
goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il
contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e
superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del
contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova
forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché
pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé
l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto
la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più
addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario.
Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico.

Uno nessuno e centomila: l’inizio

– Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio. – Niente, –
le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino. Mia
moglie sorrise e disse: – Credevo ti guardassi da che parte ti pende. Mi voltai come un cane a cui qualcuno
avesse pestato la coda: – Mi pende? A me? Il naso? E mia moglie, placidamente: – Ma sí, caro. Guàrdatelo
bene: ti pende verso destra. Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio
bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile
ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la
sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta
improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo. Vide forse mia moglie
molto piú addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d’essere in
tutto senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí... – Che altro?
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano
attaccate male, una piú sporgente dell’altra; e altri difetti... – Ancora? Eh sí, ancora: nelle mani, al dito
mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino piú arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un
pochino. Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora, scambiando certo
per dolore e avvilimento, la maraviglia che ne provai subito dopo la stizza, mia moglie per consolarmi
m’esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo. Sfido
a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che come diritto ci è stato prima negato. Schizzai
un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver motivo né d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna
importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant’anni ero vissuto senza
mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle
gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver conto che li avevo difettosi. – Uh che maraviglia! E
non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito. Ecco, già – le mogli, non nego. Ma
anch’io, se permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca
che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giú per
torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne paresse nulla. – Si vede, – voi
dite, – che avevate molto tempo da perdere. No, ecco. Per l’animo in cui mi trovavo. Ma del resto sí, anche
per l’ozio, non nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano ai miei affari
dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era
riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questo sí, giovanissimo; forse con la
speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover’uomo, neppur
questo aveva potuto ottenere da me. Non già, badiamo, ch’io opponessi volontà a prendere la via per cui
mio padre m’incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci camminavo. Mi fermavo a ogni
passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre piú da vicino a girare attorno a ogni sassolino che
incontravo, e mi maravigliavo assai che gli altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel
sassolino che per me intanto aveva assunto le proporzioni d’una montagna insormontabile, anzi d’un
mondo in cui avrei potuto senz’altro domiciliarmi. Ero rimasto cosí, fermo ai primi passi di tante vie, con lo
spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelli che m’erano
passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero in sostanza piú di me. M’erano passati avanti,
non si mette in dubbio, e tutti braveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato
un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo
nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente piú di loro; ma andare, non
sapevo dove andare. Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella
riflessione che dunque – possibile? – non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie che piú
intimamente m’appartenevano: il naso le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne
l’esame. Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di
corpo cosí misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi
trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene.

Uno nessuno e centomila: la fine

Anna Rosa doveva essere assolta; ma io credo che in parte la sua assoluzione fu anche dovuta all’ilarità che
si diffuse in tutta la sala del tribunale, allorché, chiamato a 200 fare la mia deposizione, mi videro comparire
col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio. Non mi sono piú guardato in uno specchio, e
non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio
aspetto. Quello che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare
dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché
il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato cosí diverso da quello di prima, che
avrebbero potuto risparmiare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto
turchino, la pena d’obbligarlo a voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse. Nessun
nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in
noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come
cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe
funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli piú. Non è altro
che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo.
La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono
quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il 201 vento che bevo. Tutto fuori,
vagabondo. L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora
voglio serbare lo spirito cosí, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora
del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese
plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere piú larga e chiara nella grana d’ombra ancora
notturna, quella verde piaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle
prode. E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in
questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore a
schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraje qua,
tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’aria è
nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere
piú nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Cosí soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per
attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane
costruzioni. La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma
ora quelle campane le odo non piú dentro di me, ma fuori, per sé sona202 re, che forse ne fremono di gioja
nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento
nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensa alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo
bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho piú questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e
rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori.

TOZZI

Con gli occhi chiusi: 1

Masa, essendosi capovolto il suo lume ad olio, perché il chiodo era venuto via, attendeva che le accadesse
una disgrazia. Si sedé sul focolare spento, la cui pietra era ancora calda; torcendosi le mani dentro le
sottane affondate tra le cosce, stropicciandosi le ciglia, toccandosi lo stomaco dove sentiva un grande
ingombro. Udendo i passi di Orsola, la moglie di Carlo, la chiamò; quantunque volesse stare zitta: - Sapete
che cosa ho fatto? - No. Che cosa avete fatto? Masa mosse le labbra, senza parlare. - Ditemelo; non mi
tenete in apprensione. Perché m'avete chiamata? - Ho versato l'olio. - Dite per scherzo? - Non son mica
come voi! Su queste cose non posso scherzare io! - Né meno io, del resto. Badate! Masa le avrebbe tirato
uno schiaffo. Orsola rifletteva, a volto in giù, quale disgrazia potesse avvenirle. - Ed io credo di non aver
fatto niente di male. - Ma queste cose non rispettano nessuno, lo sapete. Vi ricordate di quando la volpe
straziò la chioccia che m'ero scordata di chiudere in casa? Allora, io avevo versato l'olio. E il mio marito mi
voleva picchiare, come se non bastasse! Masa si sdrusciò con il palmo di una mano una guancia; Orsola si
grattò il petto, smuovendo con il pugno tutto il giacchetto dinanzi. Poi disse: - Non ve la prendete. Venite a
dirmi quello che vi succederà: sono curiosa di saperlo anch'io. E la lasciò. Masa andò incontro a Giacco e a
Ghìsola, per assicurarsi che non erano morti nel campo. Ma a Giacco, per non essere rimproverata, non
disse nulla. Ghìsola ne provò un terrore superstizioso; e non volle entrare in camera al buio, a cambiarsi il
grembiale. Ma avendo preso, su un pioppo dove s'era arrampicata da sé, un nido con cinque passerotti, se
lo mise su le ginocchia; e cominciò a riempire di briciole le loro bocche spalancate. Li voleva far crescere;
ma invece le venne voglia di ucciderli, eccitata dal suo terrore. Qualcuno chiudeva gli occhi; un altro
all'improvviso alzava le ali, e invece ricadeva; sotto, uno pigolava sempre di seguito. Allora, schiacciò con le
dita la testa a tutti; e li cosse dentro il padellino del soffritto; mentre Masa, che non volle assaggiarli,
cercava invano di distrarsi; raccomandandosi al crocifisso nero di fumo. Si sedeva, scuoteva la testa,
metteva il capo fuori dell'uscio. Toppa entrò sotto la tavola, e fiutò tutte le sedie una per volta; sbattendo la
coda alla tovaglia di canapa; poi uscì. Che cosa significava quel giro dentro la stanza? La nonna e la nipote si
guardarono negli occhi. Ma la disgrazia non avvenne; ed Orsola, dopo cena, disse a Masa: - Ora non c'è più
pericolo. Ne fu invidiosa; e, accertatasi che l'olio era stato versato da vero, pensò: - Tutte le fortune sono le
sue! Ghìsola si mise alla finestra; tirando sputi, di quando in quando, sopra una cosa che per l'oscurità non
riusciva a distinguere. Poi guardava un poco verso il cielo, dove era venuta sempre qualche altra stella. Una
striscia umida di nuvole color della seppia divideva esattamente dal cielo turchino l'orizzonte lucente di
raggi serotini. Le chiome degli olivi sembravano un solo velo trattenuto e avvolto ai rami aperti di ciascun
albero. I cipressi dell'aia erano neri. I moscerini e le farfalle bianche rasentavano la fronte della giovinetta; e
una fragranza ignota s'avvicendava con il fetore caldo della stalla di sotto. Una cicala fece uno strido da un
pesco, i cui fiori erano mollicci e resinosi: come se avesse sognato.

Con gli occhi chiusi: 2

Pietro, gracile e sovente malato, aveva sempre fatto a Domenico un senso d'avversione: ora lo considerava,
magro e pallido, inutile agli interessi; come un idiota qualunque! Toccava il suo collo esile, con un dito sopra
le venature troppo visibili e lisce; e Pietro abbassava gli occhi, credendo di dovergliene chiedere perdono
come di una colpa. Ma questa docilità, che sfuggiva alla sua violenza, irritava di più Domenico. E gli veniva
voglia di canzonarlo. Quei libri! Li avrebbe schiacciati con il calcagno! Vedendoglieli in mano, talvolta non
poteva trattenersi e glieli sbatteva in faccia. Chi scriveva un libro era un truffatore, a cui non avrebbe dato
da mangiare a credito. E intanto Pietro gli aveva fatto spendere le tasse tre anni di seguito per la scuola
tecnica! Dopo averlo guardato, a lungo, su un orecchio o su la nuca debole e vuota, faceva gesti belluini,
mordendosi il labbro di sotto, piantando all'improvviso un coltello su la tavola e smettendo di mangiare.
Pietro stava zitto e dimesso; ma non gli obbediva. Si tratteneva meno che gli fosse possibile in casa; e,
quando per la scuola aveva bisogno di soldi, aspettava che ci fosse qualche avventore di quelli più
ragguardevoli; dinanzi al quale Domenico non diceva di no. Aveva trovato modo di resistere, subendo tutto
senza mai fiatare. E la scuola allora gli parve più che altro un pretesto, per star lontano dalla trattoria.
Trovando negli occhi del padre un'ostilità ironica, non si provava né meno a chiedergli un poco d'affetto.
Ma come avrebbe potuto sottrarsi a lui? Bastava uno sguardo meno impaurito, perché gli mettesse un
pugno su la faccia, un pugno capace d'alzare un barile. E siccome alcune volte Pietro sorrideva tremando e
diceva: - Ma io sarò forte quanto te! - Domenico gli gridava con una voce, che nessun altro aveva: - Tu?
Pietro, piegando la testa, allontanava pian piano quel pugno, con ribrezzo ed ammirazione.

Bestie: il Maggiolino

La primavera è proprio da per tutto, anche dove non ce n'è bisogno. Anche tra i sassi del muro franato
l'erba è voluta crescere. Per i sentieri più scoscesi, tra i tronchi degli alberi che furono abbattuti con l'ascia ,
con un'ambizione di farsi vedere che pare perfino ingenua . La primavera assomiglia, questa volta, un poco
alla stanza che la nostra amica, aspettandoci, ha adornato di fiori comprati a posta . C'è uno sciupio di
gemme e una voglia di fiorire che pare una di quelle accoglienze da segnare poi nel nostro calendario. La
primavera in tutti gli stili, perfino roccocò ; con certe manie di fare effetto per forza. E pensando a tutto
questo lusso, ci si prova ad essere contenti. Le margherite bianche, quelle dei prati, fanno di tutto per darvi
nell'occhio ; e gli stessi prati si sono lisciati con la rugiada e il fresco che pare perfino bizzarria e voglia di
divertirsi. I pini mettono fuori la loro resina come se volessero regalarvela a tutti i costi, e ci si avvicina a
loro per guardarli meglio; mentre anche l'azzurro rimane lì per lì un poco rintontito , quasi non sapesse che
fare, e, forse, vergognoso di non odorare né meno quanto una violetta. E c'è modo, del resto, per tutti di
far qualche cosa.

Ma perché, proprio ora, un maggiolino morto?


MORAVIA
GADDA

La cognizione del dolore

Nel 1928 si era detto dalla gente, e i signori di Pastrufazio, per primi, che egli fosse stato per morire, a
Babylon, in seguito alla ingestione d’un riccio, altri sostenevano un granchio, una specie di scorpione
marino ma di colore, anziché nero, scarlatto, e con quattro baffi, scarlatti pure essi, e lunghissimi, come
quattro spilloni da signora, due per parte, oltre alle mandibole, in forma di zanche, e assai pericolose loro
pure; qualcuno favoleggiava addirittura di un pesce-spada o pescespilla; eh, già! piccolo, appena nato;
ch’egli avrebbe deglutito intero (bollitolo appena quanto quanto, ma altri dicevano crudo), dalla parte della
testa, ossia della spada: o spilla. Che la coda poi gli scodinzolò a lungo fuor dalla bocca, come una seconda
lingua che non riuscisse più a ritirare, che quasi quasi lo soffocava.

Le persone colte si rifiutarono di prestar fede a simili barocche fandonie: escluso senz’altro sia l’ittide che
l’echinoderma, ritennero di dover identificare l’orroroso crostaceo in una aragosta del Fuerte del Rey,
stazione atlantica assai nota in tutto il paese per l’allevamento appunto delle aragoste.

Il figlio la salutò appena, come ogni volta, stanco. Neppure le sorrise. Ella non insisté a cercarne lo sguardo,
non chiese del viaggio, né dell’uragano. Il cuore le martellava nella incertezza, si fece a preparare, sulla
tavola, la lucernetta a petrolio. Ma non vi riuscì subito, anzi vi si impigliò: con zolfanelli umidi: tossì, ad
accenderne alcuno: che subito si spegneva contro la cimasa annerata del lucignolo. Le sue mani rigide,
quasi inerti, non arrivavano a prendere con esattezza; le riuscì difficile d’insinuare il cilindro di cristallo nella
sua ghiera precisa, di ottone lucido, come una trina dei costumi desueti: e questa invece lo doveva ritenere
alla base. Si sarebbe seduta, tremava… ma bisognò pensare al figliolo… Quando la lampada poté rischiarare
la stanza, alfine, le parve di dover cadere… L’ultimo sguardo del crepuscolo, già lontanissimo, abbandonava
il mobilio, con riflessi radenti e freddi sulla credenza, su qualche vassoio di metallo. Quel pallore della
lucerna, invero, non ci aveva aggiunto dimolto. Richiuse i vetri come le riuscì; ch’era molto alta finestra, sul
terrazzo; abbrividendo.

Il figlio, di sopra, stava a lavarsi: a riporre una spazzola in un tiretto. Ella ne udiva il passo, ammorzato,
sopra la soffittatura.

Andò in cucina a preparargli qualcosa da cenare. Era assolutamente necessario, anche a dimostrazione
della validità funzionale della villa: tanto più, poi, che la villa era sprovveduta di cuoca o d’una qualunque
fante. Altrimenti egli avrebbe colto quel pretesto ad accendersi circa la inanità della campagna: e sarebbe
incorso nelle peggiori bizze ed ubbìe: (la cosa, oramai, un triste rito: la povera madre lo sapeva bene).
Avrebbe ripetutamente scorbacchiato e rimaledetto la villa, insieme col mobilio, coi candelieri, con la
memoria del padre che l’aveva costruita; incoronando di vituperî osceni tutti i padri e tutte le madri che lo
avevano preceduto nella serie, su, su, su, fino al fabbricatore di Adamo. Sarebbe trasceso alle bestemmie,
ch’ella non poteva udire: ad accuse troppo vere, forse, per essere udibili: coinvolgendo nella turpitudine
pazza che lo animalava in quei momenti financo il sacro nome di Pastrufacio (il Garibaldi del Maradagàl) e il
Prado, e Lukones, ed Iglesia, e i rispettivi campanili, con le campane, i sindaci, i parroci, i cocchieri, e via via
tutto il Serruchón maledetto e testa di càvolo (così, o press’a poco, si esprimeva); tutte le infinite ville del
Serruchón, i calibani gutturaloidi della Néa Keltiké, lerci, ch’egli avrebbe impiccato volentieri, se potesse,
dal primo all’ultimo.

La madre, viceversa, fin da quando i muratori ci accudivano nel ’99, aveva incorporato in sé, subito, –
avvampante splendore di giovinezza – il trionfo serpentesco della «sua» villa sopra le rivali keltikesi che non
credevano alla possibilità di una villa: (degli spelacchiatissimi Pirobutirro).
E quell’orgoglio, quel tirso di brace che le era venuto fatto, in un giorno lontano, di potersi infilare a metà
dell’anima alla facciazza delle pseudo-cognate e delle pseudo-nipoti, quello poi era cresciuto ad ebbrezza e
ad onnipotenza raggiante, dentro un evo fulgido, allucinato, senza più misura né termine: l’idea del
possesso e della supposta vittoria tracannata come un cognac di fuoco e di vita a ogni nuovo mattino, a
ogni giorno splendido.

Quello le era bastato, durante quarant’anni, a scongiurare la disperazione, ad acculare al di là d’ogni strazio
e d’ogni miseria, d’ogni sdrucita maglia de’ suoi bimbi, d’ogni scampanìo, d’ogni gloria, d’ogni tenca, lo
sporco sogghigno della morte. La Idea Matrice della villa se l’era appropriata quale organo rubente od
entelechia prima consustanziale ai visceri, e però inalienabile dalla sacra interezza della persona: quasi
armadio od appiccapanni di De Chirico, carnale ed eterno dentro il sognante cuore dei lari. A quella pituita
somma, (1) recòndita, noumènica, corrispondeva esternamente – gioiello o bargiglio primo fuor dai confini
della psiche – la villa obbiettiva, il dato. Operando in lei, durante quarant’anni, gli ormoni infaticabili della
anagènesi: ciò che donna prende, in vita lo rende: quella costanza imperterrita, quella felice ignoranza
dell’abisso, del paracarro, sicché, dàlli e dàlli, d’un cetriolo, arrivano a incoronar fuori un ingegnere; la
formidabile capacità di austione, di immissione dello sproposito nella realtà, che è propria d’alcune meglio
di esse: le più deliberate e di più vigoroso intelletto. Tali donne, anche se non sono isteriche, impegnano
magari il latte, e la caparbietà di tutta una vita, a costituire in thesaurum certo, storicamente reale, un
qualsiasi prodotto d’incontro della umana stupidaggine: il primo che càpiti loro fra i piedi, a non dir fra le
gambe, il più vano: simbolo efimero di una emulazione o riverenza od acquisto che conterà nulla: diploma
grande, villa, sissignora, piumacchio. C’è poi da aggiungere che il più degli uomini si comportano tal’e quale
come loro. Ed è una proprio delle meraviglie di natura, a volerlo considerare nei modi e nei resultati, questo
processo di accumulo della volizione: è l’incedere automatico della sonnambula verso il suo trionfo-
catàstrofe: da un certo momento in poi l’isteria del ripicco perviene a costituire la loro sola ragione
d’essere, di tali donne, le adduce alla menzogna, al reato: e allora il vessillo dell’inutile, con la grinta
buggerona della falsità, è portato avanti, avanti, sempre più ostinatamente, sempre più inutilmente,
avverso la rabbia disperata della controparte. Sopravviene la tenebra liberatrice, che a tutte parti rimedia.

Impotente rabbia era in lui, nel figlio: dàtole un pretesto, subito si liberava in parole, tumultuando, vane e
turpi: in efferate minacce. Come urlo di demente dal fondo di un carcere.

Qualcosa da cenare! La madre, cercando riprendersi, guardò per la cucina, vuota e fredda, schiuse un’anta
della credenza dove l’ombre s’erano addormite su quel po’ di sentor di lardo e d’avanzi: in cucina non v’era
quasi nulla, da potergli preparare nemmeno un ovo.

La povera madre aveva lentamente compreso. Ora ella vedeva il buio di quell’anima. Lentamente, per aver
lottato a lungo nella sua speranza così vivida, nella sua gioia: prima di abbandonarsi a comprendere. Un
sentimento non pio, e si sarebbe detto un rancore profondo, lontanissimo, s’era andato ingigantendo
nell’animo del figliolo: quel solo che ancora le appariva, talvolta, all’incontro, sorridendole e chiamandola
«mamma, mamma», se pur non era sogno, sulle vie della città e della terra. Questa perturbazione dolorosa,
più forte di ogni istanza moderatrice del volere, pareva riuscire alle occasioni e ai pretesti da una zona
profonda, inespiabile, di celate verità: da uno strazio senza confessione.

Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover
ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d’una vita, più greve
ogni giorno, immedicato. Forse il «male invisibile» di cui narra Saverio López: dettogli da moribonde parole
dello Incas: e ne dice, con licenza de’ superiori, al capitolo estremo de’ suoi Mirabilia Maragdagali.

Pace non conosceva, Gonzalo, né conoscerebbe: la madre, accudendo in quelle stoviglie, le parve di dover
disperare: il viso di lui, sconvolto, denunciava, a certi momenti, ch’egli non poteva aver ragione del suo
delirio.

Quer pasticciaccio de via Merulana

Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e
di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello
d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche
teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo
udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. così quei rapidi enunciati, che facevano sulla
sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente
a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio.
«già!»riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.»Sosteneva, fra l’altro, che le
inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa
al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo,
verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o
groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le
causali, la causale»gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che
bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa»quale avevamo dai filosofi, da Aristotele
o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente:
una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone
di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il
quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia»abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della
faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero piceo della parrucca. così, proprio così,
avveniva dei «suoi»delitti. «Quanno me chiammeno!... già. Si me chiammeno a me... può sta
ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero... de sberretà...»diceva, contaminando napolitano,
molisano, e italiano.

PAVESE

Adesso bisognava scendere nel cortile della casa e dargli quel piacere. Ma sapevo che avrebbe dovuto
sturarmi una bottiglia e poi la bottiglia pagarla ai mezzadri. Gli dissi ch’era tardi, ch’ero atteso in paese, che
a quell’ora non prendevo mai niente. Lo lasciai nel suo bosco, sotto i pini. Ripensai a questa storia le volte
che passavo per la strada di Gaminella, al canneto del ponte. Qui ci avevo giocato anch’io con Angiolina e
Giulia, e fatto l’erba per i conigli. Cinto si trovava sovente al ponte, perché gli avevo regalato degli ami e del
filo di lenza e gli raccontavo come si pesca in alto mare e si tira ai gabbiani. Di qui non si vedevano né San
Grato né il paese. Ma sulle grandi schiene di Gaminella e del Salto, sulle colline piú lontane oltre Canelli,
c’erano dei ciuffi scuri di piante, dei canneti, delle macchie – sempre gli stessi – che somigliavano a quello
del Cavaliere. Da ragazzo fin lassú non c’ero mai potuto salire; da giovane lavoravo e mi accontentavo delle
fiere e dei balli. Adesso, senza decidermi, rimuginavo che doveva esserci qualcosa lassú, sui pianori, dietro
le canne e le ultime cascine sper54 IX. Adesso bisognava scendere nel cortile della casa e dargli quel
piacere. Ma sapevo che avrebbe dovuto sturarmi una bottiglia e poi la bottiglia pagarla ai mezzadri. Gli dissi
ch’era tardi, ch’ero atteso in paese, che a quell’ora non prendevo mai niente. Lo lasciai nel suo bosco, sotto
i pini. Ripensai a questa storia le volte che passavo per la strada di Gaminella, al canneto del ponte. Qui ci
avevo giocato anch’io con Angiolina e Giulia, e fatto l’erba per i conigli. Cinto si trovava sovente al ponte,
perché gli avevo regalato degli ami e del filo di lenza e gli raccontavo come si pesca in alto mare e si tira ai
gabbiani. Di qui non si vedevano né San Grato né il paese. Ma sulle grandi schiene di Gaminella e del Salto,
sulle colline piú lontane oltre Canelli, c’erano dei ciuffi scuri di piante, dei canneti, delle macchie – sempre
gli stessi – che somigliavano a quello del Cavaliere. Da ragazzo fin lassú non c’ero mai potuto salire; da
giovane lavoravo e mi accontentavo delle fiere e dei balli. Adesso, senza decidermi, rimuginavo che doveva
esserci qualcosa lassú, sui pianori, dietro le canne e le ultime cascine sper54 dute. Che cosa poteva esserci?
Lassú tra incolto e bruciato dal sole. — Li hanno fatti quest’anno i falò? – chiesi a Cinto. – Noi li facevamo
sempre. La notte di S. Giovanni tutta la collina era accesa. — Poca roba, – disse lui. – Lo fanno grosso alla
Stazione, ma di qui non si vede. Il Piola dice che una volta ci bruciavano delle fascine. Il Piola era il suo Nuto,
un ragazzotto lungo e svelto. Avevo visto Cinto corrergli dietro nel Belbo, zoppicando. — Chi sa perché mai,
– dissi, – si fanno questi fuochi. Cinto stava a sentire. – Ai miei tempi, – dissi, – i vecchi dicevano che fa
piovere... Tuo padre l’ha fatto il falò? Ci sarebbe bisogno di pioggia quest’anno... Dappertutto accendono il
falò. — Si vede che fa bene alle campagne, – disse Cinto. – Le ingrassa. Mi sembrò di essere un altro.
Parlavo con lui come Nuto aveva fatto con me. — Ma allora com’è che lo si accende sempre fuori dai
coltivi? – dissi. – L’indomani trovi il letto del falò sulle strade, per le rive, nei gerbidi... — Non si può mica
bruciare la vigna, – disse lui ridendo. — Sí, ma invece il letame lo metti nel buono... Questi discorsi non
finivano mai, perché quella voce rabbiosa lo chiamava, o passava un ragazzo dei Piola o del Morone, e Cinto
si tirava su, diceva, come avrebbe 55 dute. Che cosa poteva esserci? Lassú tra incolto e bruciato dal sole. —
Li hanno fatti quest’anno i falò? – chiesi a Cinto. – Noi li facevamo sempre. La notte di S. Giovanni tutta la
collina era accesa. — Poca roba, – disse lui. – Lo fanno grosso alla Stazione, ma di qui non si vede. Il Piola
dice che una volta ci bruciavano delle fascine. Il Piola era il suo Nuto, un ragazzotto lungo e svelto. Avevo
visto Cinto corrergli dietro nel Belbo, zoppicando. — Chi sa perché mai, – dissi, – si fanno questi fuochi.
Cinto stava a sentire. – Ai miei tempi, – dissi, – i vecchi dicevano che fa piovere... Tuo padre l’ha fatto il
falò? Ci sarebbe bisogno di pioggia quest’anno... Dappertutto accendono il falò. — Si vede che fa bene alle
campagne, – disse Cinto. – Le ingrassa. Mi sembrò di essere un altro. Parlavo con lui come Nuto aveva fatto
con me. — Ma allora com’è che lo si accende sempre fuori dai coltivi? – dissi. – L’indomani trovi il letto del
falò sulle strade, per le rive, nei gerbidi... — Non si può mica bruciare la vigna, – disse lui ridendo. — Sí, ma
invece il letame lo metti nel buono... Questi discorsi non finivano mai, perché quella voce rabbiosa lo
chiamava, o passava un ragazzo dei Piola o del Morone, e Cinto si tirava su, diceva, come avrebbe 55 detto
suo padre: – Allora andiamo un po’ a vedere – e partiva. Non mi lasciava mai capire se con me si fermava
per creanza o perché ci stesse volentieri. Certo, quando gli raccontavo cos’è il porto di Genova e come si
fanno i carichi e la voce delle sirene delle navi e i tatuaggi dei marinai e quanti giorni si sta in mare, lui mi
ascoltava con gli occhi sottili. Questo ragazzo, pensavo, con la sua gamba sarà sempre un morto di fame in
campagna. Non potrà mai dare di zappa o portare i cavagni. Non andrà neanche soldato e cosí non vedrà la
città. Se almeno gli mettessi la voglia. — Questa sirena dei bastimenti, – lui mi disse, quel giorno che ne
parlavo, – è come la sirena che suonavano a Canelli quando c’era la guerra? — Si sentiva? — Altroché.
Dicono ch’era piú forte del fischio del treno. La sentivano tutti. Di notte uscivano per vedere se
bombardavano Canelli. L’ho sentita anch’io e ho visto gli aeroplani... — Ma se ti portavano ancora in
braccio... — Giuro che mi ricordo. Nuto, quando gli dissi quel che raccontavo al ragazzo, sporse il labbro
come per imboccare il clarino e scosse il capo con forza. – Fai male, – mi disse. – Fai male. Cosa gli metti
delle voglie? Tanto se le cose non cambiano sarà sempre un disgraziato... — Che almeno sappia quel che
perde. — Cosa vuoi che se ne faccia. Quand’abbia visto che nel mondo c’è chi sta meglio e chi sta peggio,
che cosa 56 detto suo padre: – Allora andiamo un po’ a vedere – e partiva. Non mi lasciava mai capire se
con me si fermava per creanza o perché ci stesse volentieri. Certo, quando gli raccontavo cos’è il porto di
Genova e come si fanno i carichi e la voce delle sirene delle navi e i tatuaggi dei marinai e quanti giorni si
sta in mare, lui mi ascoltava con gli occhi sottili. Questo ragazzo, pensavo, con la sua gamba sarà sempre un
morto di fame in campagna. Non potrà mai dare di zappa o portare i cavagni. Non andrà neanche soldato e
cosí non vedrà la città. Se almeno gli mettessi la voglia. — Questa sirena dei bastimenti, – lui mi disse, quel
giorno che ne parlavo, – è come la sirena che suonavano a Canelli quando c’era la guerra? — Si sentiva? —
Altroché. Dicono ch’era piú forte del fischio del treno. La sentivano tutti. Di notte uscivano per vedere se
bombardavano Canelli. L’ho sentita anch’io e ho visto gli aeroplani... — Ma se ti portavano ancora in
braccio... — Giuro che mi ricordo. Nuto, quando gli dissi quel che raccontavo al ragazzo, sporse il labbro
come per imboccare il clarino e scosse il capo con forza. – Fai male, – mi disse. – Fai male. Cosa gli metti
delle voglie? Tanto se le cose non cambiano sarà sempre un disgraziato... — Che almeno sappia quel che
perde. — Cosa vuoi che se ne faccia. Quand’abbia visto che nel mondo c’è chi sta meglio e chi sta peggio,
che cosa 56 gli frutta? Se è capace di capirlo, basta che guardi suo padre. Basta che vada in piazza la
domenica, sugli scalini della chiesa c’è sempre uno che chiede, zoppo come lui. E dentro ci sono i banchi per
i ricchi, col nome d’ottone... — Piú lo svegli, – dissi, – piú capisce le cose. — Ma è inutile mandarlo in
America. L’America è già qui. Sono qui i milionari e i morti di fame.

FENOGLIO

Il mattino successivo marciarono a Mango, per vera sete di notizie ed inquadramento della situazione.
Marciavano fiutando l’aria che era stata di recente respirata dai loro mortali nemici e con le suole sentivano
la terra che essi avevano cosí a lungo e trionfalmente calpesta e battuta. E quel mondo collinare che
stavano attraversando gli appariva ora fittizio e provvisorio, sinistro e squallido come un teatro sgomberato
alle quattro di mattina. Essi erano venuti ed avevano spugnato, distrutto, cancellato tutto. Non si trattava
soltanto di perdita d’iniziativa, ma della piú a fondo distruzione ed eversione, la stessa natura e possibilità
del partigianato in crisi. La diserzione e la vacuità delle grandi colline era tanto lampante da ferirne gli occhi:
i fascisti li avevano ridotti da parecchie migliaia a poche centinaia. Quanto a queste migliaia, pensava
Johnny andando, dove avevano preso rifugio e nascondiglio? La terra doveva averli inghiottiti. Anche
Castino, l’antico Gran quartier generale, ora stava vacuo e squallido, come mummificato, sul suo ciglione
calcinato, spoglio d’erba. Tutto cancellato: i quartieri, i posti di blocco, le linee telefoniche, le linee di
conduzione elettrica... tutto cancellato. Quella ultraviva, colorita, blatant vita ribelle letteralmente
sradicata, come un grande, lieto e tremendo maypole.

Pierre concluse per tutti: – Vedo un futuro nero e breve, il piú breve e nero possibile. Restiamo uno per
collina ed i fascisti lo sanno e ci sistemeranno molto presto. Cinque o sei della grande guarnigione di Alba
verranno su per collina e spacceranno l’uno di noi su di essa. Cosí saremo tutti morti prima della primavera.

PASOLINI

Una vita violenta

Fuori era già notte alta, con tutto che non dovevano essere neppure le sette. Si sentivano solo le voci di
quelli che facevano bisboccia due tre baracche piú in là. Tutto il resto del villaggio era perso nel silenzio.
Tommaso an-cora non si decideva a andare a dormire, benché fosse ridotto a un pezzo di ghiaccio: era
abbastanza sollevato, però, e gli pareva un miracolo che tutto andasse finora cosí liscio: non ci credeva
nemmeno lui. «Boh!» pensava dentro di sé. Si guardava intorno, facendo il bravo ragazzo che si fuma
l’ultima paglia prima d’andarsene a nanna: ma, di polizia, manco la puzza. Il mucchio di baracche era tutto
buio, non si distingueva dal fianco della collinetta ai cui piedi si addossava: luccicava qualche sconnessura,
qua e là, e le pozzanghere tra il fango nero. L’unica luce era la lampada elettrica sulla stradina scrostata di
Montesacro.

Anche le praterie al di là dell’Aniene, incassato infondo alle scarpate, erano perse nel buio: della luce chele
aveva investite pure dopo il tramonto, come un riverbero di riflettori, friggeva ancora una specie di
pulviscolo giallo: forse perché sopra era tutto cielo, e la pianura si stendeva a perdita d’occhio fino ai colli di
Tivoli. In alto era tutto nuvoloso, e chiaro, bianchiccio: solo qua e là c’era qualche squarcio di sereno, molto
piú cupo. In uno di questi squarci, proprio sopra il tetto, di bandoni e carta incatrarnata, della catapecchia
della sora Adele, alle cimose d’un po’ di nuvolaglia dipanata, c’era qualche stelluccia che brilluccicava sola
sola. E intorno quel misero mucchio di baracche, c’era un silenzio, una pace, una solitudine che mettevano
paura. Dopo un po’, senza che nemmeno lui se n’accorgesse, mentre se ne sta-va lí solo e avvilito,
Tommaso si sentí come una lacrima che gli spuntava. Ma subito la ricacciò in gola.

CALVINO

A Smeraldina, città acquatica, un reticolo di canali e un reticolo di strade si sovrappongono e s'intersecano.


Per andare da un posto a un altro hai sempre la scelta tra il percorso terrestre e quello in barca: e poiché la
linea più breve tra due punti a Smeraldina non è una retta ma uno zigzag che si ramifica in tortuose
varianti, le vie che s'aprono a ogni passante non sono soltanto due ma molte, e ancora aumentano per chi
alterna traghetti in barca e trasbordi all'asciutto.

Cosi la noia a percorrere ogni giorno le stesse strade è risparmiata agli abitanti di Smeraldina. E non è
tutto: la rete dei passaggi non è disposta su un solo strato, ma segue un saliscendi di scalette, ballatoi, ponti
a schiena d'asino, vie pensili. Combinando segmenti dei diversi tragitti sopraelevati o in superficie, ogni
abitante si dà ogni giorno lo svago d'un nuovo itinerario per andare negli stessi luoghi. Le vite più
abitudinarie e tranquille a Smeraldina trascorrono senza ripetersi.

A maggiori costrizioni sono esposte, qui come altrove, le vite segrete e avventurose. I gatti di Smeraldina, i
ladri, gli amanti clandestini si spostano per vie più alte e discontinue, saltando da un tetto all'altro,
calandosi da un'altana a un verone, contornando grondaie con passo da funamboli. Più in basso, i topi
corrono nel buio delle cloache l'uno dietro la coda dell'altro insieme ai congiurati e ai contabbandieri: fanno
capolino da tombini e da chiaviche, svicolano per intercapedini e chiassuoli, trascinano da un nascondiglio
all'altro croste di formaggio, mercanzie proibite, barili di polvere da sparo, attraversano la compattezza
della città traforata dalla raggera dei cunicoli sotterranei.

Una mappa di Smeraldina dovrebbe comprendere, segnati in inchiostri di diverso colore, tutti questi
tracciati, solidi e liquidi, palesi e nascosti. Più difficile è fissare sulla carta le vie delle rondini, che tagliano
l'aria sopra i tetti, calano lungo parabole invisibili ad ali ferme, scartano per inghiottire una zanzara,
risalgono a spirale rasente un pinnacolo, sovrastano da ogni punto dei loro sentieri d'aria tutti i punti della
città.
ECO

VOLPONI

Il giorno in cui cominciai a lavorare da solo alla fresatrice, più del padrone, odiavo tutti i compagni. Speravo
che le loro macchine s’inceppassero e tagliassero malamente i pezzi. Questo odio m’aiutava a lavorare e mi
dava l’ambizione di riuscire a fare meglio degli altri. Prendevo il grezzo dalla cassetta come fosse un nemico
da sgominare e lo riponevo finito che ormai gli ero affezionato come a una parte di me stesso. Il rumore
della fresatrice mitirava nella lotta e più la sentivo mordere più m’infervoravo nel lavoro. Il suo rumore, i
suoi tagli, mi convincevano aspramente di saper lavorare; davano alle mie mani una forza che non avevano
mai avuto, anche se mi ero accorto che le mie mani più che guidarla erano trascinate dalla macchina.
Grosset si avvicinava spesso al mio posto. Un giorno mi guardò per qualche secondo e poi passandomi una
mano sulla spalla, mi disse: «Vai calmo, Saluggia». Lui capiva la condizione in cui mi trovavo. «Non prendere
il lavoro come un nemico», soggiunse, «o non durerai a lungo. E non farne nemmeno l’unica ragione della
tua vita».

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