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Gabriele d’Annunzio

Meriggio

Si ritiene sia stata composta nell’agosto del 1902, poi aggiunta alla raccolta Alcyone.
È composta da 4 strofe libere, di 27 versi ciascuna; il componimento è poi chiuso da un
verso isolato(libera e fitta è la trama di rime e di assonanze).

La fusione fra elementi umani e naturali(ricorente in Alcyone), è il massimale del cosi


detto “Panismo D’annunziano”.
D’Annunzio si trova sulla foce dell’Arno; qui osserva la natura che lo circonda; tutto è
avvolto nella calura del “meriggio”, termine che sta per mezzogiorno, ma che più
ampiamente e genericamente, indica le ore intorno al mezzodì, quelle più calde,
quando il sole è più alto all’orizzonte. È in queste ore di piena estate – il momento
“panico” – che il “poeta superuomo”, nella solitudine e nel silenzio più assoluti, grazie
all’estasi panica, può fondersi con la natura, diventare un tutt’uno con essa; il poeta è
in una dimensione divina, superumana come l’ultimo verso, solitario, fa intendere
chiaramente («E la mia vita è divina»).

La foce è come salso Bonaccia, calura, E la mia forza supina


si stampa nell'arena,
A mezzo il giorno stagno. Del marin colore, per ovunque silenzio.
per mezzo alle capanne, L'Estate si matura diffondesi nel mare;
sul Mare etrusco e il fiume è la mia vena,
per entro alle reti sul mio capo come un pomo
pallido verdicante che pendono dalla croce che promesso mi sia, il monte è la mia fronte,
degli staggi, si tace. che cogliere io debba la selva è la mia pube,
come il dissepolto la nube è il mio sudore.
Come il bronzo sepolcrale con la mia mano,
bronzo dagli ipogei, grava pallida verdica in pace che suggere io debba E io sono nel fiore
quella che sorridea. con le mie labbra solo. della stiancia, nella scaglia
la bonaccia. Non bava della pina, nella bacca,
Quasi letèa, Perduta è ogni traccia
di vento intorno obliviosa, eguale, dell'uomo. Voce non suona, del ginepro: io son nel fuco,
segno non mostra se ascolto. Ogni duolo nella paglia marina,
alita. Non trema canna in ogni cosa esigua,
di corrente, non ruga umano m'abbandona.
su la solitaria d'aura.La fuga Non ho più nome. in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
spiaggia aspra di rusco, delle due rive E sento che il mio vólto
si chiude come in un cerchio s'indora dell'oro nelle vette lontane.
di ginepri arsi. Non suona di canne, che circonscrive meridiano, Ardo, riluco.
E non ho più nome.
voce, se acolto. l'oblío silente; e le canne e che la mia bionda
non han susurri. Più foschi barba riluce E l'alpi e l'isole e i golfi
Riga di vele in panna e i capi e i fari e i boschi
i boschi di San Rossore come la paglia marina;
verso Livorno fan di sé cupa chiostra; sento che il lido rigato e le foci ch'io nomai
ma i più lontani, con sì delicato non han più l'usato nome
biancica. Pel chiaro che suona in labbra umane.
verso il Gombo, verso il Serchio, lavoro dell'onda
silenzio il Capo Corvo son quasi azzurri. e dal vento è come Non ho più nome nè sorte
Dormono i Monti Pisani il mio palato, è come tra gli uomini; ma il mio nome
l'isola del Faro è Meriggio. In tutto io vivo
coperti da inerti il cavo della mia mano
scorgo; e più lontane, cumuli di vapore. ove il tatto s'affina. tacito come la Morte.
forme d'aria nell'aria,
l'isole del tuo sdegno, E la mia vita è divina.
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.

Parafrasi
A mezzogiorno sul Mar Tirreno, pallido e di color verde, come gli oggetti di bronzo disseppelliti dalle
tombe etrusche. Non soffia un filo di vento sull'atmosfera. Non si muove la canna solitaria sulla
spiaggia, di piante selvatiche e di ginepri bruciati dal sole. Se provo ad ascoltare non sento alcun
suono 727g68h . La fila si navi bianche stanno ferme verso Livorno. Nel chiaro silenzio vedo le isole
del Faro, di fronte alla costa Toscana e ancor più lontano, appaiono come forme d'aria, isole da te
tanto odiate, o Dante, la tua Capraia e la Gorgogna.
Le Alpi Apuane appaiono come un insieme di grande montagne dalle quali si estrae il marmo, che
regnano orgogliosamente.

La foce è come uno stagno salato del colore del mare, in mezzo alle capanne, dentro le reti che
prendono dagli staggi che formano una croce. Come il bronzo delle tombe, è verde pallido e in pace
sorrido, quasi come le acque del fiume Lete, portatore di calma, non evidenzia segno di corrente o
piega d'aria. I due fiumi si chiudono come in un cerchio di canne che circoscrive con una totale
dimenticanza silenziosa, e le canne tacciono. I boschi scuri di san Rossore formano un cupo recinto,
ma quelli lontani verso il gombo e verso il Serchio sono quelli più azzurri. I monti Pisani sono coperti
dalla nebbia, dal colore e dappertutto c'è silenzio.

L'estate sta maturando sulla mia testa come un frutto che mi è stato promesso , colto con la mia
mano e che succhio con le mie labbra. Ogni traccia d'uomo è perduta. Se ascolto, non c'è voce. Ogni
dolore umano mi abbandona. Non ho più nome, e che la mia barba brilla come la paglia marina; sento
che il lido rigato con il leggero lavoro dell'onda e dal vento è come il mio palato, è come il cavo della
mia mano dove tutti si affinano.

E la mia forza distesa si stampa nell'arena, diffondendosi nel mare, il fiume è la mia vena, il monte
la mia fonte, la selvaggina il mio pube, le nubi il mio sudore. E io sono nel fiore della stiancia, nella
scaglia del pino, nella barca del ginepro: io sono nel fuco, nella paglia marina, in ogni esigente,
immateriale, nella sabbia continua, nelle vette lontane. Bruco e risplendo. Non ho più nome. Le alpi,
le isole, i golfi, i capi, i fari, i boschi, le foci non hanno più il loro nome che viene pronunciato dalle
labbra umane. Non ho più nome ne destino tra gli uomini; ma il mio nome è pomeriggio. In tutto io
vivo, silenzioso come la morte. E la mia vita è divina.
Analisi
La lirica Meriggio è inserita in Alcyone, terzo libro delle Laudi, in questo libro prevale
una disposizione più equilibrata, nel senso che Alcyone segna un venir meno della
tensione che ha caratterizzato tutta la fase superomistico-tribunizia, è un momento
di Tregua: è significativo che così si intitoli la lirica che apre la raccolta. Attenzione
però, non è la tregua dal superuomo ma è la tregua del superuomo.
Meriggio è la lirica più rappresentativa di quell’atteggiamento che ispira tanta parte
della produzione dannunziana e che è stato definito panismo (da Pan, il dio pagano
che nella calura meridiana vaga per la campagna) e che consiste in una accentuazione
della dimensione istintivo-sensoriale allo scopo di realizzare una comunione con la vita
della natura. Non è però un’osmosi né un’iterazione dinamica
dove l’uomo realizza un’equilibrata comunione con la natura. Questo connubio esclude
ogni accento mistico, non c’è religiosità, si risolve invece in una apoteosi, in una
pagana celebrazione del corpo che domina la natura. La
poesia è divisibile in due parti. La prima (vv. 1-54) descrive un meriggio estivo in
Versilia, con il mare che fa da contorno ad un paesaggio immerso in una natura
assolata. Il vento non soffia: la spiaggia, le canne i ginepri,
tutto è silenzioso e in lontananza le bianche vele giacciono immobili, attorno a Livorno.
Il poeta vede Capo Corvo e l’isola del Faro e ancora più lontano le isole di Capraia e
Gorgona di dantesca memoria.
Il poeta continua nella descrizione delle Alpi Apuane e del mare e della spiaggia dove
sorgono sparse capanne di pescatori.
Ecco che dal verso 55 autore reale ed autore implicito si mescolano, il poeta si fa uomo
e scende in mezzo a questa natura ( mio capo) (mia mano) (mie labbra).
Gradatamente le sue sembianze assumono i colori della natura che lo circonda:
perduta è ogni traccia dell’uomo.
Non è una mistica ascesi, semmai un’amplificazione delle proprie capacità sensoriali: il
tatto si affina, il fiume è la sua vena, il monte la sua fronte.
Come in un crescendo, la dimensione umana si eleva alla potenza, in un gigantismo
che culmina in una panica fusione con la vita dell’universo: in tutto io vivo… E la mia
vita è divina. Così cade il confine tra uomo e natura, e l’uomo
diviene Dio.

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