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Riassunto “Antropologia dei social media”

Internet presenta tre aspetti strettamente intrecciati:

- è incorporato nei contesti di vita degli individui (embedded)


- è parte di noi, del nostro corpo, dal momento che essere online non è un’esperienza separata ma è
un’estensione del modo in cui siamo e agiamo: come una protesi, amplia il nostro pensare, comunicare,
agire (embodied)
- è presente nella vita di tutti i giorni, ovunque (everyday)

Nuovi strumenti di comunicazione

L’introduzione e la diffusione di un nuovo strumento di comunicazione sono sempre state accompagnate da un


importante dibattito: è avvenuto per l’introduzione della scrittura nelle culture orali, per l’invenzione della stampa a
caratteri mobili nel Quattrocento, poi con l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione di massa nel Novecento e oggi
con la diffusione dei cosiddetti new media.

I mezzi di comunicazione emergenti non sostituiscono mai completamente i vecchi ma piuttosto vi si affiancano: la
scrittura non ha sostituito il disegno, la stampa non ha sostituito i libri, la radio non ha sostituito la stampa, la
televisione non ha sostituito la radio, il computer non ha sostituito la televisione e la radio.

Scrittura. L’avvento della scrittura separa progressivamente la parola dall’uomo, trasformandola fa flatus vocis,
“evento”, in dato oggettivo e rendendola così passibile di osservazione, riflessione e interpretazione: con la scrittura
la parola – destinata a svanire nel nulla nel giro di pochi istanti – viene fissata su un supporto materiale durevole. È
possibile prenderne le distanze, rivalutarla a distanza di tempo, riflettere su di essa.

Se il mondo della tradizione orale è un mondo “acustico”, fuggevole, in cui la trasmissione del sapere – attraverso il
racconto – sollecita tutti i sensi e induce a una comprensione collettiva emotivamente partecipata, il mondo del testo
scritto, invece, è dominato dalla vista che legge il segno, osserva, astrae, indirizza, progressiva, in direzione dello
sviluppo di un processo cognitivo individuale e interiorizzato. In una cultura orale la conoscenza è un bene prezioso e
faticoso da ottenere: occorrono elaborate mnemotecniche, basate sulla semplificazione, la riduzione, la ripetizione,
l’assonanza, per favorire la memoria. Le culture orali sono necessariamente cultura dell’economia culturale
(trattengono solo il sapere necessario) e della conservazione (si concentrano sulla ripetizione più che
sull’innovazione).

L’autentico sapere, secondo Platone, si produce quando è possibile ricordare “dal di dentro”, senza affidarsi a
supporti esterni, utilizzando la propria capacità di riflessione, per generare una conoscenza non superficiale ma
assimilata.

L’invenzione della stampa. Fino al Cinquecento i libri venivano copiati a mano negli scriptoria: erano pochi ed
estremamente costosi, riservati a studiosi ed eruditi. La produzione avveniva all’interno di strutture religiose e
questo consentiva una severa forma di controllo sulle forme e sui contenuti.

Se per il Medioevo si parla comunemente di una scarsa circolazione di libri, nel Cinquecento molti intellettuali si
lamentano con un certo smarrimento dell’eccesso di libri. Lutero si si preoccupò: la proliferazione di libri non
spingeva forse i suoi contemporanei a una lettura superficiale?

Stampa moderna. Con l’affermazione dell’ipervisualismo della stampa moderna, l’uomo esce definitivamente dalla
dimensione partecipativa con il mondo naturale e cambia il suo approccio: si pone, anziché “in esso”, “di fronte a
esso”, per conoscerlo e dominarlo. Il testo tipografico abitua a un’indagine oggettiva e distaccata, in cui vengono
sollecitate e potenziate le capacità cognitive piuttosto che la partecipazione emotiva.

Si teme un impoverimento della trasmissione del sapere basato sulla sproporzione tra l’enorme quantità di
informazioni accessibili e le capacità di selezione, scelta critica, comprensione a disposizione degli utenti. Questa
sovrabbondanza di riferimenti dell’uomo contemporaneo comporterebbe per paradosso, secondo alcuni critici, una
sua perdita di memoria storica
“Difetti”. I “nuovi” mezzi di comunicazione – che si tratti della scrittura o dei new media - sono sempre stati accusati
di:

- non riuscire a trasmettere una vera conoscenza e causare un generale impoverimento del sapere
- determinare un deterioramento delle capacità cognitive individuali (memoria e apprendimento)
- produrre un eccesso di circolazione delle informazioni, difficilmente gestibile e potenzialmente dannoso
- alterare i rapporti tra le generazioni e gli equilibri sociali
- attentare alla conservazione della memoria storica

Non si può essere tanto ingenui da ritenere la tecnologia uno strumento sostanzialmente neutro il cui senso viene
determinato unicamente dall’uso sociale che ne viene fatto, come capita spesso di sentire in espressioni quali “gli
strumenti in sé non sono né buoni né cattivi, conta l’uso che se ne fa”. Affermazioni come questa sembrano basarsi
sull’idea che gli strumenti siano solo il mezzo per raggiungere i nostri scopi e non tenere in considerazione il fatto che
la tecnologia non è mai neutrale ma incorpora le specifiche forme di organizzazione del potere di una società e
predispone verso certe forme di relazione sociale (*pag. 21) / Una tecnica non è né buona né cattiva ma neppure neutra
(*pag. 22)
/ Non si può dire che il mezzo sia neutro, dal momento che, indipendentemente dall’uso o dall’abuso che se ne
fa, è entrato a far parte anche delle più piccole pratiche quotidiane. I confini sono sfumati, Umanesimo e tecnica
sono fusi insieme in un blocco unico. Non esiste scelta, azione e comunicazione che, presa singolarmente nella
realtà, non abbia effetto nel virtuale – e viceversa. Oggi capita sempre più spesso di vedere litigi aprirsi a cielo aperto
e protrarsi entro lo schermo di un dispositivo – e, a loro volta, ritornare, mediati dalla tecnologia, rimpastati nella
realtà. Società e tecnologia sono un blocco unico, dunque. Alle promesse non resta che trarre una conclusione:
l’educazione è compito degli esseri umani. È a loro che ci si deve rivolgere. La tecnologia non si educa da sola. /
L’educazione è ciò può convertire i lati negativi della tecnologia in lati positivi. Va però capito cosa convertire, quindi
chi sottoporre a esercizio di educazione: l'essere umano, non la tecnologia. Perché il primo può modificare il
secondo, e quest’ultimo, una volta modificato, non ha più potere di cambiare il primo.

I mezzi di comunicazione hanno intrinseche qualità politiche

Sia la costruzione di autostrade sia la costruzione di network televisivi sono atti fortemente politici.

I nuovi media digitali sociali

La novità di questi media rispetto a quelli del passato consiste nella loro particolare attitudine al modellamento: i
nuovi media si presterebbero a processi di appropriazione, “addomesticazione” e adattamento, da parte di chi li usa,
inediti nella storia della comunicazione umana.

I nuovi media o media digitali hanno la caratteristica di essere pervasivi (influenzano i processi produttivi, sociali,
identitari e politici) e hanno avuto una velocità di penetrazione straordinaria (sono passati da poche migliaia a diversi
miliardi di utenti in vent’anni). I nuovi media digitali sono:

- Convergenti, dal momento che diversi tipi di contenuto convergono in un unico supporto
- Ipertestuali: si caratterizzano per la presenza di rimandi ad altri testi e contenuti
- Interattivi: tutte le criticità legate alla comunicazione di massa – la passività, l’omologazione… - vengono
teoricamente a cadere di fronte alla possibilità di una comunicazione bidirezionale basata sull’interattività

Per queste caratteristiche, i nuovi media sono costitutivamente sociali. / I nuovi media sono costitutivamente sociali
fino a un certo punto. Perché l’informazione resta monopolio di chi gestisce le piattaforme, di chi ha i mezzi
(economici, tecnologici…) per mantenere ben saldo il timone tra le mani (*+ pag. 176 libro Semiotica dei nuovi media, Cosenza). I social
hanno dato ai deboli l’illusione della forza e ai potenti ancora più potenza.

L’espressione “social network” identifica uno spazio digitale che permette la realizzazione di reti sociali virtuali nelle
quali gli utenti possono condividere contenuti testuali, immagini, video e audio e possono interagire tra loro. I social
network rendono possibili diverse azioni:

- Uso relazionale: gestire ed ampliare la propria rete sociale


- Uso espressivo: definire liberamente la propria identità sociale, selezionando e rendendo pubblici aspetti
particolari del sé
- Uso esplorativo: analizzare l’identità sociale degli altri membri della rete
Un altro aspetto nuovo che caratterizza i social consiste nella loro capacità di permettere la creazione di reti sociali
ibride, costituite contemporaneamente da legami reali e legami virtuali, dando vita ad un nuovo spazio sociale,
l’interrealtà, che fonde reti reali e reti virtuali mediante lo scambio di informazione tra di esse.

I social media inducono trasformazioni determinanti nei nostri processi cognitivi e relazionali?

Studi sulla neuroplasticità mettono in evidenzia il fatto che gli strumenti che usiamo quotidianamente non sono
semplici protesi ma, stimolando o inibendo specifiche attività mentali, modellano la struttura e il funzionamento
della mente. Il cervello, cioè, si modifica attraverso il loro uso; rafforza certi circuiti mentali e ne indebolisce altri.
ogni invenzione quindi comporta, insieme ai benefici, una diminuzione di alcune capacità cognitive dell’uomo,
impone delle limitazioni mentre schiude delle possibilità.

I media digitali:

- indebolirebbero la nostra capacità di lettura approfondita dei testi


- la divisione dell’attenzione (multitasking) richiesta dai prodotti multimediali ridurrebbe la capacità di
apprendimento e di comprensione e la creatività, abituandoci alla superficialità e rendendoci “appassionati
di irrilevanza”
- L’esternalizzazione della memoria favorita dai media digitali, poi, metterebbe a rischio le capacità di
autoriflessività e la conservazione della tradizione culturale (*pag. 31)

Una ricerca condotta da Clifford Naas mostra che gli adolescenti che usano maggiormente i social media hanno più
difficoltà a decifrare le emozioni umane. La capacità di provare empatia cresce grazie a un continuo, spontaneo
esercizio interpretativo faccia a faccia. L’assenza di questi elementi nelle interazioni comunicative genererebbe una
vera atrofia emotiva. Gli adolescenti che passano troppo tempo online piuttosto che faccia a faccia non fanno
sufficiente pratica nell’osservare ed esperire dal vivo le emozioni. Di conseguenza, sarebbero meno capaci di
affrontare il mondo delle relazioni umane. Stiamo perdendo alcune competenze importanti, come la capacità di
interpretare la comunicazione non verbale.

La comunicazione via web annulla la cesura tra tempo lavorativo e riposo (perché siamo di fatto a disposizione di
questo apparato onnipresente, che si infila in ogni momento della nostra esistenza), manipola le nostre emozioni e i
nostri desideri (perché per vendere servizi e prodotti le aziende attingono silenziosamente dalle informazioni
contenute nei nostri profili e dalle tracce lasciate durante le nostre navigazioni), modifica la nostra sensazione del
fluire del tempo (perché l’abitudine al multitasking ci induce a sfruttare tutto il tempo a disposizione), portandoci ad
una interiorizzazione della logica della prestazione. Una logica che si esprime pressappoco in questo modo: “io sono
se sono sempre visibile, connesso e prestante”.

Prensky sostiene che con il diffondersi delle nuove tecnologie digitali è completamente cambiato il modo di pensare
e comunicare, e che si è aperta una voragine tra il linguaggio dei giovani e quello della scuola e dei sistemi educativi.
È alimentata la convinzione che la difficoltà educativa possa essere risolta con una semplice delega ad uno
strumento. Occorre invece riflettere sul fatto che nessuno strumento genera automaticamente apprendimento. La
visione dei media digitali come strumenti che in sé generano apprendimenti è alimentata dal mito del progresso; un
mito tale per cui quello che la scienza e la tecnologia ci permettono di fare, automaticamente produrrà un
miglioramento delle nostre condizioni di vita. Il nuovo viene a confondersi con il progresso.

Attraverso i social media noi modifichiamo la realtà?

Network individualism: l’individuo contemporaneo tende ad appartenere a una moltitudine di reti sociali
indipendenti, in ognuna delle quali può agire e mostrare un aspetto particolare della sua identità (*pag. 38)

L’appartenenza multipla a diversi network (networked individualism) permette di creare strategie personalizzate di
relazione centrate sui propri interessi personali; tuttavia mette a rischio la costruzione di un senso di appartenenza a
una comunità e, di conseguenza, aumenta l’incertezza, soprattutto in età adolescenziale. Da qui l’esigenza di un
maggior controllo sulle relazioni, sia nella forma di comportamenti comunicativi messi in atto per controllare gli altri,
sia attraverso la sensazione di essere controllati da altri (*pag. 113)

Non è più il gruppo l’elemento fondamentale della conoscenza sociale, bensì l’individuo e la sua rete di contatti tra
individui. La socialità si struttura sempre più su relazioni scelte individualmente e non su gruppi di riferimento (la
famiglia, la scuola, il quartiere). La società è un groviglio di network. L’appartenenza multipla a network diversi
permette di creare strategie personalizzate di relazione centrate sui propri interessi personali

Etnografia della comunicazione dei media digitali

La funzione fatica del linguaggio (detta anche “funzione di contatto”) si esprime in tutti i messaggi e le azioni
comunicative che non hanno principalmente lo scopo di informare, descrivere o riferire qualcosa di preciso ma che,
invece, servono per ristabilire, prolungare o mantenere legami sociali.

Il caso etnografico: il talanoa

Il talanoa è un tipo di conversazione – o meglio attività comunicativa – parte del territorio comunicativo della
comunità di parlanti hindi delle isole Figi. Il talanoa rientra nella categoria più generale di gossip. Inizia la sera, dopo il
lavoro, quando gli uomini siedono con amici o parenti a bere. Il gruppo è ristretto, mai più di quattro persone; nel
caso dovesse aggiungersi qualcun altro, magari non intimo, l’argomento cambierebbe immediatamente. Non ci sono
punti riferimento, non viene mai detto perché si racconta proprio quella storia. Un aspetto interessante del talanoa è
la frequenza con cui occorre la parola bole (“dice che…”). L’effetto è quello di distanziare il parlante da ciò di cui
parla; non è il proprio resoconto ma quello di qualcun altro; consente di negare sempre.

Le conoscenze che contano per esprimere la propria appartenenza alla comunità sono quelle quotidiane, personali e
locali, essere al corrente di ciò che accade. Attacchi troppo diretti ai propri avversari potrebbero pregiudicare future
riconciliazioni, dare adito a vendette. Per questo, il tratto saliente della comunicazione talanoa a Bhatgaon è la
mancanza di direzione: raramente si dice esattamente ciò che si pensa; più di frequente i parlanti ricorrono alla
metafora, all’ironia, al doppio senso per segnalare che intendono più di quanto dicono.

Il talanoa è uno strumento di controllo sociale: se c’è qualcuno che si mette troppo in evidenza, che ha delle
ambizioni che contrastano con l’ideologia egualitaria della comunità, può diventare un bersaglio di talanoa. La
preoccupazione principale rispetto all’argomento è che i commenti non producano danno o offese irreparabili. La
responsabilità è comunque condivisa con gli altri, il che è uno scudo contro possibili vendette.

Come nel talanoa, anche nei social si mantengono due livelli paralleli di relazioni:
- Tra i partecipanti e l’argomento di conversazione
- Tra i partecipanti stessi

Come per tutti i generi comunicativi ad alta componente fatica, l’investimento emotivo ed affettivo è molto alto;
nella comunicazione social si giocano, a dispetto delle superficialità dei contenuti, aspetti molto importanti
dell’identità personale.

Nuove forme di ideologia linguistica

Ideologia linguistica: ciò che il parlante pensa sia corretto dire nel contesto in cui si trova; quelle che ritiene essere le
giuste competenze linguistiche; ciò che si autorizza a fare con la lingua, in termini di presa di parola, registro
utilizzato, scelte lessicali. Non è un concetto statico ma viene quotidianamente risignificata nelle pratiche
comunicative.

I testi prodotti e scambiati sui social producono nuovi generi e stili comunicativi che danno forma a nuove idee di
spazio comunicativo e nuove rappresentazioni delle funzioni sociali della comunicazione e del ruolo dei parlanti.
Nessun ceto avrebbe scritto e imbucato, trent’anni fa, una lettera per chiedere ad un docente universitario in che
aula si sarebbe svolta la lezione del corso che avrebbe dovuto frequentare il giorno dopo; la rapidità del mezzo posta
elettronica consente di farlo e anche di aspettarsi una risposta. Al tempo stesso la possibilità di farlo – di mantenere
aperto un canale di comunicazione rapido, semplice e poco dispendioso in termini anche di investimento personale –
ha indubbie ripercussioni sulla percezione che lo studente a poco a poco incorpora e naturalizza del suo ruolo, così
come del ruolo del docente e della distanza educativa.

Performatività digitale

Molte pratiche comunicative hanno il potere di agire come rappresentazioni culturali delle relazioni sociali proprio
mentre le costituiscono. Ogni performance comunicativa crea (o si svolge entro) una scena di negoziazione,
rappresenta e attua un modello cultuale di socialità. La performatività è anche la capacità del linguaggio di andare
oltre il piano puramente descrittivo e referenziale per “far cose”, agire, produrre effetti sul contesto d’interazione.

Agire nello spazio della rete tramite post, immagini, video significa attivare la performatività della comunicazione:
non solo trasmettere un certo contenuto secondo un modello di interazione che abbiamo assimilato, ma anche, dato
che comunque ci si muove in uno spazio diverso, costruire, produrre (o riprodurre) un modello per l’interazione
sociale. Una delle principali novità introdotte sulla scena dell’interazione sociale dai social media consiste in una
progressiva trasformazione dei limiti e dei dispositivi di controllo delle attività comunicative in termini di creazione di
modelli di azione. Sono cresciuti il potere e il raggio d’azione dei parlanti sia in termini di accesso alla presa di parola,
sia in termini di ampiezza dell’audience, sia in termini di possibili effetti generati dalle parole nello spazio pubblico. Al
tempo stesso la comunicazione online ha creato nuove gerarchie di potere e prodotto nuove forme di disuguaglianza
tra chi agisce (cioè è produttore di testi e video attraverso i quali acquisisce a vario titolo notorietà, potere e
ricchezza e costruisce attorno a sé consenso) e chi, invece, subisce (in quanto fruitore passivo, più o meno attrezzato,
di contenuti prodotti da altri). / Tutti questi aspetti comportano indubbiamente un ripensamento del tema della
responsabilità di parola. Lo spazio della rete, come ogni spazio pubblico, non è infatti uno spazio neutro, un semplice
sfondo dell’interazione, come comunemente si tende a pensare. È uno spazio normato come tutti gli altri spazi
pubblici: esso seleziona, consente e disciplina comportamenti possibili.

Comunicazione, identità, potere all’epoca dei social

Possedere un telefono cellulare significa essere culturalmente sincronizzati con la modernità. Essere “tecnologici”,
nell’uso popolare che si fa del termine, significa essere abili, svelti.

Una concezione del comunicare fortemente evolutiva, basata su una grande narrazione decisamente egemone che
pone in successione l’emergenza del linguaggio, l’alfabetizzazione, l’invenzione della stampa, i media elettrici e poi
elettronici come tappe del percorso teleologico di continuo e inarrestabile miglioramento delle nostre capacità
cognitive e comunicative. Queste, grazie appunto a supporti sempre più efficaci, potenti, performativi, si farebbero
sempre più vicine alla “natura razionalità” umana. / Strumenti sempre migliori permettono di elevare l’uomo fino
alla più alta razionalità umana.

La posizione totalizzante che i social media e i dispositivi elettronici hanno acquisito nella nostra vita sociale,
comunicative e, in un futuro ormai vicinissimo, anche cognitiva si spiega dunque pensando alla capacità di questi
strumenti tecnologici di esprimere perfettamente il modello ideale dell’attore sociale comunicativo-cognitivo.

Il superamento progressivo della dicotomia comunicazione/contesto che approda all’Homo digitalis sembra avere
però un rezzo. In termini di perdita di alcuni elementi da sempre considerati essenziali della nostra “autentica
umanità” sulla base della convinzione che la comunicazione faccia a faccia sia comunque più ricca (meno mediata?)
della comunicazione che impiega le tecnologie digitali.

Perdite e acquisizioni

Comunicare non significa solo e semplicemente trasmettere contenuti referenziali tramite astratti sistemi di codici o
trasmissione di messaggi delimitati, ma è interazione creativa di individui o gruppi in contesti specifici. A dispetto di
ciò, le dimensioni contestuali appaiono come secondarie, un “rumore” da eliminare, in tal senso anche
controproducenti. Il sovrappiù emotivo del tatto, le cadenze della voce, la percezione visiva dei gesti appaiono
qualcosa di supplementare. Il linguaggio e la conoscenza ideali dovrebbero dunque essere privi di ogni associazione
contestuale ed emotiva, poiché ciò che conta sono l’astrazione e la decontestualizzazione. L’immagine mittente-
messaggio-ricevente è molto influente. La trasmissione a distanza di messaggi che i media e i new media consentono
e spingono esprime pienamente questo modello ideale. Un messaggio non è un’entità distinta che può essere
analizzata indipendentemente dall’autore e dal pubblico. L’attenzione per il ruolo dell’esperienza e del contesto è
almeno pari a quella dedicata ai significati decontestualizzati.

Un livello elevato di mediazione non soddisfa, lascia comunque un senso di mancanza, di perdita, di desiderio di
tutte quelle componenti parte dell’interconnessione umana concreta, personale, multisensoriale.
I social media sono sociali. Questo significa che tutto ciò che le persone fanno online sono sempre e comunque si
intreccia, deriva, rimanda a quello che fanno offline e viceversa. La rete non si sviluppa in un ambito separato e a
parte, cresce dentro l’offline.

Secondo Miller: “I social e tutte le interazioni che realizziamo per loro tramite, sono parte della nostra vita
complessiva, proprio come le conversazioni telefoniche, che nessuno si sognerebbe di considerare ormai come un
ambito a parte e separato rispetto alle conversazioni faccia a faccia”. Allo stesso modo è normale oggi cercare una
notizia online, trovarla e inviarla via e-mail a un amico, acquistare la spesa o effettuare un pagamento o
programmare un viaggio via Internet: sono attività online che si intrecciano, senza nessun “salto” in un altro mondo,
con la nostra vita offline.

Il potere trasformativo dei media

L’aggiunta di nuovi modi di comunicare trasforma anche quelli precedenti. Le nostre azioni comunicative, infatti, si
trasformano in conseguenza dell’arrivo di nuove tecnologie che consentono nuove azioni comunicative. Questo è il
potere trasformativo dei media.

(Esempio). prima dell’invenzione del telefono, per comunicare con persone distanti si poteva scegliere o di mandare
una lettera oppure di spostarsi fisicamente. Dopo il telefono, se decido di scrivere una lettera o di recarmi in visita
dalla persona con cui voglio comunicare, invece di fare una telefonata, effettuo una scelta che conferisce alla mia
azione un significato ulteriore, che prima non aveva.

Se decido di recarmi in visita di persona, per parlare faccia a faccia, anche questo indica che l’argomento che voglio
trattare è delicato, richiede un apparato semantico complesso, che solo la totalità della persona in presenza può
attivare: lo sguardo, la vicinanza, la possibilità di dosare i tempi, di misurare le parole a seconda delle reazioni
dell’interlocutore, l’eventualità che si renda indispensabile una stretta di mano o un abbraccio e così via. Servono
cioè quelle dimensioni della comunicazione che Finnegan sottolinea in termini di perdita rispetto agli avanzamenti
della tecnologia.

Le capacità cognitive stimolate, attivate e implementate avvengono in modo specifico per ogni strumento di
comunicazione. Parlare e scrivere non sono la stessa attività, dal punto di vista cognitivo. Scrivere a mano sulla
carta, scrivere a macchina con una Olivetti Lettera32, scrivere su Pc, scrivere (o digitare) su uno smartphone non
sono la stessa attività dal punto di vista cognitivo. Leggere un libro, un quotidiano, su supporto cartaceo, e leggere
un sito Internet, ancora, non sono la stessa attività cognitiva. Un medium nuovo agisce non solo sulla nostra
sensorialità, ma anche sul nostro modo di pensare. Ciò significa che viene coinvolta differentemente la nostra mente.

Affordance

Affordance: indica una sorta di “invito all’uso” che gli oggetti ci rivolgerebbero

Il potere della lingua di orientare la nostra visione del mondo in tutti i suoi aspetti sensoriali, cognitivi e comunicativi
è la matrice concettuale della riflessione attuale su media e social media. Tale potere aumenta via via che la
tecnologia che lo supporta si fa più sofisticata, perché una tecnologia sofisticata aumenta l’affordance dei dispositivi
che usiamo per comunicare.

Dispositivi e piattaforme troppo rigidi possono pagare tale rigidità in termini di gradimento e diffusione (e quindi di
successo commerciale e culturale) perché le persone, gli utenti, non amano eccessi di prepotenza, per così dire, da
parte degli oggetti che possiedono e che usano, ma amano poter “piegare” gli oggetti, e ancora di più i media,
secondo i loro desideri. È evidente che, rispetto al televisore, uno smartphone consente un grado molto più alto di
partecipazione e di agency all’utente, non più semplice spettatore passivo ma anch’egli produttore attivo di senso.

I media sono di certo strettamente legati all’esperienza quotidiana e contribuiscono a formarla, ma non va
dimenticato che le persone usano i media secondo le proprie abitudini, preferenze, esigenze, e quindi li cambiano.
Questa possibilità di trasformazione aumenta il rapporto al grado di flessibilità del dispositivo e della tecnologia che
lo supporta. I social, più che cambiare il mondo, sono modificati dal mondo. / Da un lato i media ci cambiano,
imponendoci percorsi, processi mentali, pratiche; dall’altro, anche noi li cambiamo, piegandoli, o cercando di farlo,
alle nostre abitudini, ai nostri valori, alle nostre esigenze.
Spazi rimodulati (*pag. 75)

Le barriere fisiche che dividevano la società in spazi di interazione separati (e inaccessibili, quasi segreti, gli uni agli
altri) sono praticamente crollate. Questo venir meno delle barriere di separazione, dei confini tra sfere private e
sfere pubbliche, provoca una riorganizzazione degli ambienti sociali. I media e soprattutto il mondo in cui sono
utilizzati, da chi li gestisce e da chi ne è utente, tendono a eliminare le barriere fisiche di separazione e a riunire tutti
negli stessi luoghi mediatici, confondendo ruoli sociali un tempo distinti.

Ricerca sul campo e nuovi media

Il fattore metodologico che ha a lungo bloccato lo sviluppo dell’antropologia dei media: l’impossibilità di contenere il
fenomeno mediatico, un’argomentazione legata alla dimensione “micro” specifica dell’etnografia, che opera
tradizionalmente entro contesti ristretti e ben delimitati. La scala molto estesa su cui si espande l’azione dei media è
a lungo apparsa incompatibile con l’approccio etnografico. Fare etnografia dei media non significa niente di
particolarmente diverso del fare etnografia: le persone agiscono e interagiscono con e tramite i media nel corso della
loro vita quotidiana. E questo è l’oggetto dell’etnografia.

Gli antropologi possono fare almeno tre cose per segnare la differenza rispetto agli studiosi dei media più
consolidati, per così dire (per esempio i sociologi):
- Etnografie dense: gli etnografi, infatti, studiano gli usi di media e new media dentro più ampie attività sociali
- Decentramenti: gli antropologi di solito fanno etnografia anche in aree più o meno remote, e non sempre nei
centri
- Nuove teorizzazioni

L’etnografia della rete in prima approssimazione emerge come analisi dei contenuti (culturali) che le persone, gli
utenti dei social e di Internet, producono e trasmettono o fanno circolare in circuiti teoricamente globali pur stando
dentro contesti locali.

In generale l’etnografia della vita online si basa sull’osservazione dei modi in cui nelle comunità virtuali e sulle varie
piattaforme disponibili agli utenti si producono forme di negoziazione e riproduzione delle identità di classe, di
genere, di origine, tra i partecipanti, o forme di socialità.

Così come il telefono e la televisione stanno dentro le case delle persone, Internet e i dispositivi elettronici per
accedervi non stanno a parte rispetto al mondo, ma dentro il mondo, quindi non sono esenti da condizionamenti,
limiti e controlli. Le stesse aziende o gli stessi centri pubblici o privati che controlla(va)no i media e le notizie offline
tendono a farlo anche con le nuove fonti basate su internet. Internet è più incastrato dentro le pratiche esistenti e
dentro le relazioni di potere. / Sarebbe un grave errore metodologico partire da una distinzione netta fra comunità
virtuali e comunità reali, e pensare anche che l’etnografia delle prime debba radicalmente differire dall’etnografia
delle seconde: le attività che si svolgono in vari modi nelle comunità online non possono essere comprese senza
considerare il contesto offline e ciò che lì avviene.

Principi per un’etnografia digitale

I principi per un’etnografia digitale:

- Il campo: è un costrutto fluido, emergente e non delimitabile entro dimensioni fisse, offline o online. Una
sorta di agency etnografico che si esplica in una interpretazione continua di un campo sempre contingente,
che vede lo studioso aperto verso aspetti non previsti di costruzione di significati e verso l’emergere di nuove
forme di connessione. Non esistono confini precostituiti o precostituibili: l’etnografo può esplorare
connessioni e disconnessioni fra politiche e pratiche, media e quotidianità. Non c’è un’unica dimensione, ma
diverse pratiche di costruzione del significato intorno a un Internet frammentario, dipendente dagli
strumenti, incorporato nelle culture, in continuo cambiamento, e costituito di tante piattaforme
- L’etnografo deve attendersi incertezza

Che cosa significa concretamente fare etnografia di/in internet? Osservare ciò che le persone, per esempio con i siti
web o nel partecipare a discussioni online, pensano di fare.

Una ricerca etnografica su giovani e social network


Dal momento che tutti lo usano, il cellulare è, per eccellenza, un oggetto che marca un’appartenenza, un importante
elemento di aggregazione nel gruppo. L’identità individuale si costruisce in una continua interazione online e offline,
nell’ambito della quale i social appaiono utilizzati in funzione del rafforzamento identitario per selezionare persone
simili o mantenere amicizie esistenti anche offline, piuttosto che per cercare di conoscere nuove persone o
impegnarsi nel multitasking identitario fingendo identità diverse dalla propria. L’identità digitale porta spesso a
selezionare e frequentare persone omogenee per interessi e hobby, dando luogo a una certa chiusura – o meglio a
una stabilizzazione – delle reti sociali anziché a una loro apertura. Internet, da finestra sul mondo, sembra diventare
una finestra su un giardino tagliato su misura dei propri gusti personali in cui gli individui tendono a gravitare verso
amici e persone familiari.

I giovani trovano nella strategia retorica generazionale (“noi, i nativi digitali”) – che li contrappone alla generazione
dei genitori e degli insegnanti – un forte segno di appartenenza. I nuovi media costituiscono la sfera pubblica
all’interno della quale è possibile dire “noi”, resistere alle rappresentazioni che gli altri elaborano e produrre a
propria volta delle rappresentazioni delle altre generazioni. Insomma, i social forniscono le risorse per leggere e
giudicare il mondo esterno a partire da un “noi”.

I social sono considerati un segno del progresso che migliora e facilita l’esistenza, sono naturalizzati nello stile di vita
adolescenziale. La richiesta di farne a meno appare come la richiesta di privarsi di una medicina se malati o delle
scarpe per camminare.

Il mondo online pare essere un contesto dominato dalla velocità e dall’effimero, dove la dimensione dell’impegno,
della progettualità, appare lontana e inutile, dove non sembrano esserci regole e per il quale non è richiesta una
formazione o una competenza. Ma il mondo social sembra anche un mondo dove ruoli e valori si sovrappongono e
si confondono, senza nessuna connotazione etica.

Senza social: come occupare il tempo?

Poter dire e fare velocemente è sinonimo di dire e fare meglio; vivere una vita veloce è senza ombra di dubbio
vivere una vita migliore. Perdere la possibilità di vivere l’attimo nel ritmo incalzante degli scambi comunicativi
significa perdere la capacità di agire e quindi di essere riconosciuti come persone. La necessitò di essere veloci si
lega alla necessità di riempire tutti i tempi vuoti e l’angoscia prende la forma della noia e della paura della noia.

La noia dipende dall’abitudine a un continuo flusso di connessioni, informazioni, distrazioni, senza il quale si ha
l’impressione di un vuoto impossibile da colmare. Scrive Elisabeth Cohen: “La via online sta generando quello che
David Levy chiama cervello popcorn – un cervello così abituato alla costante stimolazione del multitasking elettronico
da non essere più adatto alla vita offline, dove le cose scoppiano a ritmo molto più lento.”

I social network si rilevano funzionali alle esigenze di una generazione che è cresciuta con l’idea che ogni
momento vuoto debba essere riempito, che fare un consumo continuo di beni, esperienze, relazioni sia ciò che
aggiunge valore alle nostre vite, ma che non è stata dotata a sufficienza dei criteri di scelta, valutazione e
selezione delle esperienze. I social diventano così un comodo “tappabuchi” nel corso della giornata – disimpegno,
pratico, relativamente a basso costo – a cui ricorrere tutte le volte che c’è un momento di inattività.

Il tempo che si dedica ai social sembra non essere un tempo che da impiegare in altro modo; pare piuttosto un
tempo da consumare banalmente, fuori dalla logica dell’impegno e del progetto, un tempo d’evasione.

Oltre alla noia, sono presenti almeno tre ulteriori elementi:


- La sensazione di dipendenza (ironizzata, rifiutata, confessata con un certo senso di colpa)
- Il senso di solitudine
- Il bisogno di controllo delle relazioni a cui i social abituano
- La presa di consapevolezza del controllo esercitato da altri

Sembra che la connessione continua sia legata a uno svuotamento del peso delle relazioni: una comunicazione
veloce, in cui non si è mai un peso e si è certi di non disturbare, affinché altri non disturbino noi. La costruzione di
relazioni basate sulla sfiducia – che richiedono una certa esposizione e un certo impegno – lascia il posto alla
necessità della connessione, basata sul divertimento. Sembra un’affettività non impegnativa, autogratificante, alla
ricerca di un benessere emotivo immediato.
[Nell’esperimento di stare una settimana senza social] Chi ha ceduto e ha utilizzato i social lo ha fatto perché
“doveva”, “non poteva farne a meno”, “è stato solo un piccolo sgarro”, “era necessario”. Spesso l’argomentazione
finisce lì e non è l’inizio di una riflessione più approfondita o più seria sulle ragioni alla base del loro agire. Prevale
la tendenza, comunque sia, di assolversi.

Dalla relazione alla connessione

Se privati dell’accesso ai social, i giovani ricorrono a due principali rappresentazioni culturali per far fronte, motivare
e motivarsi il disagio e l’angoscioso senso di solitudine che provano:
- l’identificazione generazionale oppositiva nei confronti di un mondo di adulti che non li capisce e che vuole
costringerli a tornare “all’età della pietra”: la richiesta di “mettere via quel telefono” è semplicemente
insensata in quanto i social sono un chiaro segno del progresso e, da che mondo è mondo, l’uomo
progredisce e non regredisce. Chi chiede una riflessione critica, per il solo atto di “mettere in dubbio”, è
esponente di un’altra generazione e perciò stesso “altro”
- il tema della dipendenza

I processi educativi e di socializzazione oggi in Italia, basati sulla strutturazione dei tempi e sull’iperofferta formativa
personalizzata, il mercato delle attività pomeridiane e la diminuzione del tempo libero a disposizione dei bambini
(per il gioco libero) e delle famiglie (per stare semplicemente insieme) hanno creato nuove generazioni abituate a
pensare la quotidianità come occupazione di ogni spazio vuoto. I social network sono il prolungamento di questo
clima culturale. Permettono in qualsiasi momento di fare qualcosa, immediatamente, a basso costo, con scarso
impegno, senza troppi pensieri. Non sembra che queste generazioni siano state abituate a progettare i propri spazi
e il proprio tempo e a convertire gli spazi vuoti in momenti di creatività individuale o in spazi di libertà; piuttosto
ricercano spontaneamente un’immediata e gratificante modalità di consumo, divertente e poco impegnativa.
Vivono il tempo libero (ribattezzato con la parola “noia”) come qualcosa di angoscioso di cui sbarazzarsi il più in
fretta possibile. / I giovani ribattezzano il “tempo libero” con la parola “noia” / Sembra mancare la consapevolezza
che il tempo potrebbe essere non riempito, speso, perso o consumato, ma vissuto, progettato, investito altrimenti

La connessione continua di questi ragazzi bilancia una sorta di mancanza di fiducia nelle relazioni o nella costruzione
di relazioni durature, stabili e capaci di resistere anche in loro assenza. I legami devono essere mantenuti in vita
attraverso contatti continui non perché vissuti come straordinariamente importanti e profondi o gratificanti e
neanche perché bizzarri, anomali o artificiosi, quanto piuttosto perché i legami, anche quelli con i compagni di
classe o gli amici intimi, sono sentiti come fragili, precari, minacciati da una continua erosione che può essere
arginata solo con continui sforzi. Sono legami ai quali non ci si può permettere di chiedere troppo e che mal
sopportano di essere messi alla prova.

Nelle esperienze di questi giovani la prossimità fisica legata all’interazione faccia a faccia perde progressivamente il
significato ad essa attribuito dalle generazioni precedenti, perché lo spazio di relazione è ormai dominato dalle
connessioni; al tempo stesso, però, l’assenza di ancoraggio (ad un luogo fisico, ad una comunità faccia a faccia, ad
un evento aggregativo) genera ancora una dispersione dell’identità è un’insicurezza che porta a richiedere
continue conferme (“chi sono?”, “per chi ho valore?”, “quanto valgo per gli altri?”).

Comprendiamo la tensione che vivono le nuove generazioni strette tra due opposte forme di soggettivazione: da
una parte, il disciplinamento imposto da una società che richiede competenze, certificazioni, efficienza e,
dall’altra, la pressione alla flessibilità, alla creatività e alla quotidiana reinvenzione del sé e del proprio progetto di
vita proposte dai nuovi media; il controllo dei corpi, dei tempi e delle prestazioni che le istituzioni tradizionali (la
scuola e la famiglia) tentano di esercitare ancora e le sensazioni di libertà assoluta che questi strumenti
consentono.

L’uso dei social network da parte di questi giovani, più che rinviare a una supposta difficoltà relazionale, è una
strategia adattiva a un contesto sottoposto a rapide accelerazioni che ha, al contempo, generato una forte sfiducia
nei confronti di ciò che non è controllabile e un bisogno di conferme e rassicurazioni; e ci sembra di poter concludere
che la ricerca di connessione continua, più che segno di narcisismo ed esibizionismo, sia espressione del desiderio di
trovare vie di uscita dall’individualismo del contesto in cui sono nati e cresciuti.
(*Appunti)

Lo spazio, inteso come una distanza che richiede un certo tempo per essere percorsa, risulta annullato, generando,
in quasi tutto il pianeta, una sensazione di immediatezza e simultaneità (*pag. 18)

Favoriscono uno stile di vita always on (continuamente online) che ha progressivamente fatto venir meno la
differenza fra online e offline, giacché le attività online sono una parte della vita quotidiana e i profili sui social sono
una parte dell’identità delle persone (*pag. 28)

Ciò che rende i social unici non è il fatto che consentono agli individui di incontrare persone sconosciute ma piuttosto
che permettono agli utenti di esprimere e rendere visibili le loro reti sociali. Questa caratteristica – rendere visibili le
proprie reti sociali – permette di creare legami definiti “deboli”, cioè legami superficiali e casuali ma ampi e
diversificati, che connettono persone di ambienti sociali differenziati (*pag. 29)

La diffusione di un nuovo medium comunicativo comporta un cambiamento radicale nell’organizzazione della vita
della società, dal momento che essa modifica non solo il nostro modo di comunicare ma anche il nostro modo di
pensare, conoscere, trasmettere e diffondere conoscenze e valori

“Nativi digitali”, “Net generation” (…) queste formulazioni tendono a sottolineare la familiarità e la maggiore
competenza con cui i giovani si relazionerebbero alle nuove tecnologie, naturalizzandone in questo modo l’utilizzo e,
di fatto, legittimandolo (*pag. 35)

Clifford Stoll, autore del libro Silicon Snake Oil, già nel 1995 paragonava i computer a scuola con i video utilizzati in
passato. In un’intervista al New York Times dichiarava: “A noi piaceva guardarli, perché per un’ora non dovevamo
pensare. Agli insegnanti piacevano, perché per un’ora non dovevano fare lezione e ai genitori piacevano perché
dimostravano che i figli frequentavano una scuola all’avanguardia. Però non imparavamo niente”. Adesso è il
momento dei media digitali (*pag. 37)

L’interazione con i social, eliminando il ruolo della comunicazione non verbale, accresce la componente di ambiguità
e di indeterminatezza, la possibilità del malinteso. Possiamo anzi dire che in molti casi la comunicazione con i social
strutturalmente si basa sul malinteso ed è portata avanti proprio perché il malinteso diventa pretesto per alimentare
relazioni che altrimenti non avrebbero modo di essere (*pag. 49)

Luciano Di Gregorio sottolinea come la facilitazione della connessione immediata a distanza tra le persone
indebolisca la capacità di fare memoria degli affetti, di usare le risorse della mente per costruire simboli
compensativi dell’assenza – simboli che sono alla base della capacità umana di tollerare la distanza e la separazione.
La tendenza oggi dominante è quella di ricorrere subito all’azione (fare una chiamata, mandare un messaggio, una
foto) per tamponare il disagio o l’ansia legati alla lontananza di una persona cara. L’ipertrofia della comunicazione,
nella sua componente fatica, in funzione rassicurante e consolatoria, finisce per indebolire quell’esperienza
importante che è la capacità di immaginare – mantenere vivo nella mente – ciò che non si può avere a disposizione.
Anziché agire sul piano simbolico, si ricorre immediatamente all’utilizzo di un dispositivo tecnologico, a detrimento
della propria capacità di agire in modo immaginativo e creativo.

[Partire da una domanda] Per che motivo è diventato, negli ultimi tempi, così importante essere sempre connessi?
Perché c’è il bisogno di alimentare continuamente relazioni che diano valore a ogni esperienza (che acquista valore
proprio nel momento in cui è pubblica, cioè esibita e condivisa)? (*pag. 45)

La reputazione di un individuo è determinante per mantenere la sua posizione sociale ed è, di conseguenza,


sottoposta ad una negoziazione continua (*pag. 47)

Una serie di ricerche mette in evidenza come anche solo in presenza di un cellulare o di un personal computer sul
tavolo la qualità dell’attenzione che rivolgiamo gli uni agli altri sembra essere scadente e l’empatia riotta (*pag. 31) /
L’attenzione cala, l’empatia si riduce

Da quando esiste il mondo, esistono gli opposti. Anzi, è da loro che il mondo è formato: il giorno è tale grazie alla
notte – e viceversa; la vita esiste se contrapposta alla morte; poi luce e buio, caldo e freddo e via dicendo. Da quando
Internet è entrato a far parte del quotidiano, il pianeta si è diviso, principalmente, in due: chi a favore delle relazioni
sociali e chi dalla parte delle novità tecnologiche. Perlopiù, due schiere che non si limitano a contrapporsi, ma a
disprezzarsi l’un l’altra.

Dobbiamo partecipare quotidianamente, nel nostro piccolo, alla costruzione dell’identità.

I testi prodotti e scambiati sui social producono nuovi generi e stili comunicativi che danno forma a nuove idee di
spazio comunicativo e nuove rappresentazioni delle funzioni sociali della comunicazione e del ruolo dei parlanti.
Nessun ceto avrebbe scritto e imbucato, trent’anni fa, una lettera per chiedere ad un docente universitario in che
aula si sarebbe svolta la lezione del corso che avrebbe dovuto frequentare il giorno dopo; la rapidità del mezzo
posta elettronica consente di farlo e anche di aspettarsi una risposta. Al tempo stesso la possibilità di farlo – di
mantenere aperto un canale di comunicazione rapido, semplice e poco dispendioso in termini anche di
investimento personale – ha indubbie ripercussioni sulla percezione che lo studente a poco a poco incorpora e
naturalizza del suo ruolo, così come del ruolo del docente e della distanza educativa (*pag. 52)

Potere auto-trasformativo del linguaggio. La parola che ferisce diventa uno strumento di resistenza quando viene
nuovamente messa in campo distruggendo il territorio in cui operava. Per esempio parole come “gay” o “ebreo”,
che sono state usate in accezione dispregiativa per marginalizzare individui o classi d’individui, sono diventate oggi,
anche in seguito alle mutate condizioni storico-culturali di certi contesti, simboli di identificazione, di appartenenza e
orgoglio. La possibilità del cambiamento sociale e politico è legata e resa possibile proprio dalla performatività del
linguaggio. Le parole possono essere rimandate indietro a chi le ha pronunciate in una forma diversa; possono
essere citate in contrapposizione ai loro fini originari; è possibile mettere in atto un rovesciamento dei loro effetti
(*pag. 61)

Il più popolare dei nostri prolungamenti corporei: il cellulare (*pag. 63)

Il mezzo è il messaggio e i media sono estensione dei sensi (*pag. 69)

Non esiste comunicazione non mediata o non culturale. Quando ci incontriamo, la comunicazione faccia a faccia è
filtrata dalle convenzioni e dalle norme che regolano il comportamento dei partecipanti (*pag. 74)

I giovani possono trarre aspirazioni e motivazioni-guida con il quale regolare il loro comportamento sulla base di
culture locali (come la famiglia, il vicinato, la scuola, il gruppo di amici…) e culture digitali (i social) e visive (tv,
cinema…) (*pag. 76)

Se vita offline e online non sono ambiti separati, la possibilità di agire concretamente sulle strutture di potere deve
passare per l’una e per l’altra (*pag. 79)

La possibilità di immaginare vite diverse da quella che abbiamo, in mondi sociali diversi da quello in cui abitiamo, è
resa più forte dalla diffusione di immagini e di idee (*pag. 79)

Così come il telefono e la televisione stanno dentro le case delle persone, Internet e i dispositivi elettronici per
accedervi non stanno a parte rispetto al mondo, ma dentro il mondo, quindi non sono esenti da condizionamenti,
limiti e controlli. Le stesse aziende o gli stessi centri pubblici o privati che controlla(va)no i media e le notizie offline
tendono a farlo anche con le nuove fonti basate su internet. Internet è più incastrato dentro le pratiche esistenti e
dentro le relazioni di potere (*pag. 87)

Gli utenti non sono, come a lungo si è erroneamente ritenuto, recettori passivi di ciò che i media propongono; al
contrario, sono soggetti attivi che utilizzano le loro logiche culturali per modellare e contestualizzare i media (*pag. 84)

Il virtuale esiste solo allorché viene costruito tramite particolari insieme di pratiche culturali. Internet quindi emerge
come un insieme di artefatti culturali differenti e dipendenti dalle persone che lo usano (*pag. 92)

La tecnologia mobile è una fonte di dinamismo che modella logiche sociali culturalmente specifiche, gettando luce
sul desiderio di cambiamento sociale delle persone (*pag. 93)

L’aspetto punitivo della tradizionale punizione inflitta dal genitore al figlio disobbediente: “fila in camera tua!”!
consisteva – un tempo – proprio nell’obbligo di stare rinchiuso fra quattro mura, senza contatti con l’esterno, senza
telefono, senza televisione, costretto a meditare sulle mancanze commesse… Oggi i figli probabilmente non vedono
l’ora di poter “filare in camera”, perché quelle quattro mura sono il punto di partenza verso altri spazi, altre relazioni,
altre interazioni, fuori da ogni controllo o quasi; a condizione, ovviamente, che non vengano loro sottratti il “magico”
telefonino e la rete, un’alienazione per loro pressoché insopportabile (*pag. 95)

Il progresso è in sé un bene e tutto ciò che va contro di esso è un’inutile irrazionalità (*pag. 104)

I nuovi mezzi di comunicazione non introducono solo un nuovo modo di esprimerci ma anche nuove forme di
consapevolezza, nuovi modi di riflettere su chi siamo e come ci relazioniamo agli altri (*pag. 112)

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