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Al fronte nella guerra di secessione

Di Bill Wilson.
Era il 6 giugno 1864, il giorno prima era stato il mio compleanno di 21 anni, ed io uscii di casa
per fare un giro a cavallo tra le vie di San Louis. La mia passeggiata fu però interrotta da alcuni
miei amici che volevano farmi un festeggiamento posticipato invitandomi al saloon,
fortunatamente riuscii a non ubriacarmi, come spesso succedeva a me e ad altri cowboy.
Mi ero comunque divertito, ma la mia allegria finì quando tornai a casa e vidi mia madre che
piangeva. Mi avvicinai a lei e le chiesi cosa fosse successo, lei mi porse una lettera che diceva:
Per il signor Bill Wilson,
voi siete stato chiamato in guerra nell’esercito unionista.
Il treno per Fort Brave parte dopodomani a mezzogiorno e mezzo.
Sarete soldato semplice nel 7° cavalleria.
Il colonnello
Martin Katlon
Ora avevo capito il motivo per cui mia madre piangeva, ed ero triste pure io, non sapevo che
dire e pensavo che avrei fatto una gran fatica ad addormentarmi quella notte, infatti andò
proprio così, ero tormentato da pensieri di ogni tipo e cercavo di trovare tutti i lati positivi, ma
ne trovai solo due: il primo era che comunque avrei combattuto nell’esercito nordista, ero
completamente contrario a ciò che pensavano i confederati dato che ero affascinato dalle idee
di Lincoln, avevo letto “La capanna dello zio Tom” e conoscevo anche alcune persone di colore
che mi stavano simpatiche.
Il secondo lato positivo era che forse avrei rincontrato mio fratello maggiore Jonathan Wilson
che era partito in guerra due anni prima e non avevamo sue notizie da tre settimane.
Mio padre Mike Wilson invece era purtroppo morto in uno scontro su una diligenza contro
alcuni Pawnees, mia madre Luisa Ladkore Wilson era rimasta vedova badando a me e a miei
fratelli più piccoli: Mary e Jack, ma ora me ne sarei andato anche io.
Il giorno dopo feci un giro di saluti, preparai le valigie e infine andai a fare una passeggiata
poco fuori città portandomi il fucile per sicurezza.
Neanche l’incantevole paesaggio dei dintorni di San Louis riuscì a farmi rallegrare, la guerra
doveva essere proprio un inferno, almeno così pareva dalle lettere che Jonathan ci mandava
fino a tre settimane fa.
Quando poi rientrai in città erano le quattro del pomeriggio così decisi di andare al cimitero
per salutare papà .
Mentre tornavo a casa vidi da lontano due uomini ben armati e in divisa blu, erano dei soldati
unionisti che stavano picchiando un uomo che professava di essere uno schiavista, certo
facevano bene a picchiarlo, ma quel pestaggio mi parve un po’ esagerato. Mi allontanai e dopo
poco sentii una sparatoria, io comunque sapevo che quelle cose ad un certo punto avrei
dovuto farle pure io.
Arrivato a casa cenai e poi andai a dormire, ma feci una gran fatica anche quella notte.
Il giorno dopo mi svegliai alle undici, avevo solo un’ora e mezzo per prepararmi e correre alla
stazione. Feci un ultimo saluto a mamma, Mary e Jack, poi corsi alla stazione che era poco
distante da casa mia.
Sul treno salirono circa trecento uomini, tutti con aria molto triste, nei vagoni merci furono
caricate più o meno novecento casse con su scritto: MUNITION, saranno state piene di
proiettili, moschetti, fucili henry, carabine e colt. L’odore nel nostro vagone (ma penso anche
negli altri) era nauseante. Partito il treno io sospirai guardando San Louis che diventava
sempre più lontana e quando la città divenne minuscola e invisibile a occhio nudo, la vista
venne persuasa dai meravigliosi colori della prateria nord americana, piccoli ranch si
scorgevano in lontananza, a rovinare il paesaggio c’erano però i pali del telegrafo che
comunque non davano molto fastidio. In tutto il viaggio vidi pure una lunghissima carovana,
notai anche alcuni minatori in viaggio, ma rimasi molto più stupito quando scorsi un’enorme
mandria di bisonti e degli indiani Cheyennes che tiravano loro frecce e lance. Gli indiani li ho
sempre trovati interessanti, anche se con i Pawnees è come se avessi un debito visto che li
collego ad un episodio di cui preferisco parlare il meno possibile.
Dopo un po’ iniziò il deserto, incantevole come la prateria ma è sempre preferibile osservarlo
dal treno. C’erano cactus, saguari, mesas e canyon, vidi anche alcuni coyotes e dopo un po’ una
scena un po’ macabra: la successione di uno stampede*, c’erano un sacco di buoi morti e
tantissimi avvoltoi che banchettavano. Fortunatamente non mi impressiono molto per queste
cose.
Dopo un po’ il treno si fermò in una cittadina chiamata Cactus ville e venne caricato di altri
cento uomini, poi continuò il suo viaggio fino ad una piccola stazione con di fianco alcune
rozze casette di legno e un enorme fortino, alla stazione c’era un cartello con su scritto:

FORT BRAVE
Capii che ero arrivato a destinazione, così scesi e mi diressi assieme ad altri uomini verso il
grande fortino. Arrivato lì vennero alcuni soldati e uno di loro iniziò un lungo appello.
Finito l’appello ci recammo in massa verso un locale del forte, ed è lì che ci diedero le divise,
poi ci mostrarono le stanze e infine ci lasciarono liberi di visitare il fortino, c’era un’alta torre
col tetto a piramide sulla cui punta era posizionata la bandiera dell’Unione, lì in cima sostava
la vedetta.
Il saloon del forte non era male , c’era un lungo bancone e una dozzina di tavoli rotondi su cui
erano già posizionate le carte da poker e su alcuni c’era perfino una bottiglia di whisky. Su
quasi tutto il perimetro del fortino c’erano delle passerelle e sotto erano posizionati 56
cannoni. C’era anche un grande recinto con molti cavalli.
Dopo un po’ fece buio e andammo tutti a dormire, fu una notte orribile, i letti erano
scomodissimi e gli altri soldati facevano un chiasso infernale, un gruppetto vicino a me si mise
a chiacchierare fino a tardi, altri tossivano fortissimo e quelli che già dormivano russavano in
una maniera esagerata, penso di essermi addormentato alle 4 di notte e dato che il giorno
dopo mi sarei dovuto svegliare presto mi sono sentito stanchissimo.
A colazione scrissi una lettera a mia madre in cui dicevo:
Cara mamma,
qui al forte si capisce subito che la vita è dura, non hai idea di come ho
passato la notte, però c’è un lato positivo, si mangia divinamente, ieri sera
alla mensa c’era carne di bisonte abbrustolita e fagioli, che almeno
secondo il mio parere era tutto buonissimo, nel momento in cui ti scrivo ci
stanno servendo la colazione.
Ho appena socializzato con un altro soldato, si chiama Amos Woolker.
Salutami Mary e Jack.

Billy

Fort Brave 9/6/1864


Stavo per fare colazione quindi non avevo tempo di raccontare a mia madre tutto quanto, poi
riuscivo a malapena a scrivere dato che mi ero addormentato alle quattro di notte e mi sono
svegliato alle 5:55 del mattino, avevo scritto a mamma cose che non erano vere per non farla
stare in pensiero, in verità il cibo faceva pena e Amos Woolker non era molto simpatico.

Dopo colazione bisognava fare ginnastica, all’inizio c’era da camminare sul posto per venti
minuti, poi cinquanta addominali e infine quaranta flessioni. Seguì l’addestramento all’uso
delle armi, ma io mi avvicinai al tenente dicendo che sapevo già usare il fucile o il revolver, ma
egli mi rispose: “In tutta la mia carriera militare tantissime reclute sono venute a dirmi di
saper già sparare, ci sono poi sempre nuovi trucchi da imparare, non credo neanche che voi
sappiate usare il cannone, insomma siamo in guerra, lo capite o no? È una guerra civile, ehm,
poi chi vi ha detto di allontanarvi dal gruppo? Tornate al vostro posto soldato, è un ordine!”.
L’addestramento fu molto duro, ricordo di un tale che era completamente distratto e non
stava capendo niente di ciò che gli veniva detto, così a un certo punto il maggiore gli si
avvicinò e gli tirò uno schiaffone fortissimo di cui gli rimase il segno per qualche giorno.
Alle 12:30 si pranzava, poi ci si riposava dormendo, giocando a poker, chiacchierando davanti
a una bottiglia o lanciando le freccette su un ritratto del generale Lee. Ma io preferivo incidere
immagini o scritte come: LA CONFEDERAZIONE È UNA CRETINATA oppure I SUDISTI SONO
TUTTI BASTARDI, e cose del genere, però mi divertivo molto insieme ad altri sparando alle
bottiglie vuote, anche se il colonnello non era molto d’accordo visto che diceva che si potevano
riutilizzare versandoci altri liquidi, così dopo un po’ iniziammo a farlo clandestinamente.
Dopo l’intervallo si continuava il durissimo addestramento, poi si cenava alle 19:00, e le due
ore prima delle 21:00 venivano dedicate alla preparazione per andare a dormire, c’erano
anche alcune vasche da bagno per chi ne aveva bisogno, poi la notte era sempre un incubo.
Andò avanti così per una dozzina di giorni senza che nessuno ci attaccasse, ma la mattina del
21 giugno 1864 alle 6:43 la campana sulla torre iniziò a suonare, subito dopo il trombettiere
fece la sua parte e tutti noi ci preparammo velocissimamente e poi uscimmo fuori in fretta e
furia con le armi in mano, i cannonieri si erano già disposti, noi ci mettemmo dietro alle mura
del forte pronti a sparare, poi il cancello si aprì per far uscire tutti gli uomini a cavallo che
subito si scaraventarono contro i confederati che ci stavano attaccando.
Alcuni di questi riuscirono a raggiungerci, così si sentì la prima cannonata, poi un’altra e poi
un’altra ancora e così via, intanto noi avevamo già iniziato a sparare, vedevo dei miei
compagni cadere all’indietro in terra con delle ferite impressionanti, qualcuno era morto con
una pallottola in testa, dalla fronte usciva un fiume di sangue, le clavicole di alcuni soldati, sia
del nord sia del sud, erano completamente frantumate. Io ritiro ciò che ho detto riguardo al
fatto che non mi impressiono davanti alle scene macabre, perché in quel momento mi venne la
nausea, infatti vomitai addosso a un confederato, quest’ ultimo subito cercò di spararmi dal
basso.
Pochi secondi dopo un proiettile mi colpì di striscio la tempia, lasciandomi una ferita poco
profonda ma che comunque mi fece svenire.
Quando rinvenni mi ritrovai in infermeria con la ferita bendata, mi alzai dal lettino
dell’infermeria e andai a fare un giro tra gli infortunati che urlavano come pazzi, alcuni di loro
avevano delle ferite gravissime ed erano consapevoli che non avrebbero vissuto a lungo.
In quei giorni aveva fatto caldissimo, ma il 23 giugno sentii una goccia d’acqua cadere dal cielo
e dopo poco si mise a piovere e l’aria si rinfrescò , finalmente sulla mia faccia e su quella di
quasi tutti i soldati apparve un sorriso di cui da tempo non c’era neanche l’ombra, decisi
quindi di scrivere al mio più caro amico, Grant Carson, dicendo:
Caro Grant,
ti sono mancato? Qui al forte la vita è durissima, l’atro ieri abbiamo subito un attacco
da parte dei sudisti, non ho assistito a tutta la battaglia perché ad un certo punto sono
svenuto a causa di pallottola che mi è arrivata di striscio
alla tempia. Le urla e gli odori che ci assalgono sono indescrivibili e fino a ieri ha
fatto un caldo bestiale, poi
finalmente ci siamo rinfrescati grazie alla pioggia.
Come stanno Jordon, Sam e Kit? Tanti saluti.
Billy
23/6/1864

Passarono i giorni e dopo un po’ era un mese che stavo a Fort Brave, quindi mi ero abituato,
ma poi avvenne qualcosa di spiacevole, il colonnello Katlon iniziò a sentirsi le gambe deboli e
dopo poco non riuscì più a camminare, fu così che lo portammo in infermeria e il chirurgo del
forte disse che era cancrena. Dovette quindi amputargli entrambe le gambe ma il colonnello
morì dopo qualche giorno. Lo seppellimmo nel mini cimitero del forte. Ogni soldato scrisse
una frase in suo onore la mia era: Qui giace il colonnello Martin Katlon, assassinato dalla
sfortuna…
Dopo un po’ di tempo presi parte ad una spedizione verso gli stati del sud, così assieme al
sergente Miller e altri cinquantacinque uomini partimmo a cavallo verso la Virginia seguiti da
sette carri, certo non potevamo accamparci in quello stato così ci fermammo al confine, era
quasi mezzanotte, montammo le tende e andammo a dormire, ero distrutto, infatti mi
addormentai subito.
Alle cinque e cinquantacinque il trombettiere iniziò a suonare, così mettemmo qualcosa sotto
i denti facemmo ginnastica e poi il sergente tenne un discorso: “Soldati, ho passato la
mattinata, a studiare quale dovrebbe essere il luogo per la prossima battaglia e quando,
sfortunatamente continueremo proprio oggi la nostra marcia, i cavalli li lascerete però qui,
stavolta non dobbiamo difendere, ma attaccare. Il compito dei nordisti è infatti quello di
conquistare il territorio nemico per farlo entrare nell’unione e abolire la schiavitù ! Quindi ora
rimettetevi in forze perché fra poco partiremo” .
Cinque minuti dopo ci mettemmo in marcia e quando arrivammo al punto della battaglia non
c’era nessuno eccetto noi ma passato poco tempo, si sentì il rumore di una camminata in
massa, c’era un po’ di foschia quindi non si vedeva niente se non delle sagome umane a un
certo punto si sentì un botto e subito dopo un nostro soldato cadde a terra morto così il
sergente ordinò l’avanzata, sia noi che i sudisti corremmo gli uni contro gli altri sparando
mentre correvamo. Correndo mi scontrai per sbaglio contro un confederato, cademmo
entrambi a terra, lui si rialzò subito e mi diede un calcio, così mi alzai anch’io lui mi diede un
dritto sul naso che miracolosamente non si ruppe. Gli tirai anch’io un pugno e un calcio nello
stomaco, infine presi il fucile e glielo sbattei forte in faccia, egli cadde a terra morto, mi nascosi
dietro un albero per ricaricare il mio moschetto, fatta questa operazione mi girai e sparai. Da
tutte e due le parti iniziarono a dare cannonate. Andò avanti così per un po’ di minuti.
Sfortunatamente il nostro sergente si faceva prendere facilmente dal panico, e anche se
avremmo potuto vincere facilmente, lui ordinò la ritirata e tutti lo seguirono, mentre anch’io
me ne andavo, inciampai a causa di una radice e caddi in una fossa. Un sudista che aveva visto
la scena, arrivò con altri due uomini, mi aiutarono ad uscire, ma per un altro motivo, mi
legarono e mi portarono via. Non potevo dire niente, era ovvio che mi stavano portando in un
campo sudista per tenermi prigioniero. Arrivato lì c’erano tanti altri soldati nordisti che erano
stati fatti anche loro prigionieri. I cancelli si aprirono per farci entrare e poi vennero
immediatamente richiusi, ero molto ansioso, e sudavo come un cane, ma poi tra tutti i
prigionieri ne vidi uno che aveva un’aria familiare, molto familiare, continuai ad osservarlo
per capire chi fosse pure durante l’appello, quando lui mi vide fece anche lui lo stesso sguardo
come se adesso fossi io ad avere un’aria familiare. Alla mensa mi venne una crisi, e diedi un
brutto colpo a un confederato, così mi chiusero in isolamento, passai qualche minuto da solo
chiuso dentro a una cella piccola e angusta, ma poi la porta si aprì e un sudista disse: “Guarda
ti ho portato un amico” . E fece entrare con uno spintone proprio il soldato che aveva un’aria
familiare che disse: “Mi sono fatto rinchiudere anch’io perché ti devo parlare visto che mi
sembra di conoscerti, di’ un po’ come ti chiami?” . Io risposi: “Anche tu hai una faccia a me
conosciuta, comunque il mio nome Bill Wilson” . A lui apparve un lungo sorriso sul volto, poi
esclamò : “Billy, fratellino, quanto mi sei mancato, non mi riconosci? Sono Jonathan” . A quel
punto io lo riconobbi subito, e dissi: “John, anche tu mi sei mancato, comunque non ti avevo
riconosciuto perché sono passati due anni, poi ti è cresciuta la barba che prima ti rasavi
sempre” . Lui mi chiese: “Quindi adesso anche tu in guerra eh, come stanno la mamma, Mary e
Jack? È cambiato qualcosa a Denver? E quel mandriano mezzo ladro che vi aveva rubato quella
vacca che fine ha fatto? Ma voi pensavate che fossi morto?” . Io dovetti interrompere quella
raffica di domande che John mi stava ponendo e dissi: “frena un secondo, non dimenticarti che
siamo prigionieri in un campo sudista, dobbiamo assolutamente trovare un modo per
evadere, se nostra madre vede neanch’io le scrivo più penserà che siamo morti entrambi” . Lui
disse che era impossibile fuggire di lì, io però non mi feci scoraggiare e passai quelle due ore a
studiare un piano per evadere, poi notai che la porta della cella aveva anche una chiusura
interna così ebbi un lampo di genio, ma quel piano l’avrei effettuato dopo qualche giorno, ma
prima che potessi spiegare il mio stratagemma a Jonathan, la porta si aprì e lo stesso sudista
che ci aveva rinchiusi disse: “Allora, vi sono bastate queste due ore?” . Noi uscimmo e io riuscii
a spiegare il piano a John, poi si fece buio e ci mandarono a dormire.
Passò circa una settimana, furono dei giorni orribili, tra lavori forzati, pestaggi durissimi, cibo
schifoso, avvenne perfino un’impiccagione di un ostro soldato, ma facemmo noi non ci
facemmo prendere dal panico e, come prevedeva la prima parte del mio piano, riuscimmo a
farci rinchiudere nuovamente in isolamento. Appena entrati in cella chiusi subito la serratura
interna e, passate le due ore, la sentinella confederata sbloccò la serratura interna ma non
riuscì ad aprire la porta, e quando meno se la potesse aspettare, sbloccai anch’io la serratura e
gli sbattei la porta in faccia, egli barcollò , così io e John come dei fulmini come dei fulmini, gli
rubammo il suo fucile, poi rientrammo in cella prima che le altre guardie potessero
intervenire, infine sparammo alle sbarre della finestra che si ruppero subito. Fortunatamente
proprio sotto la finestra c’era un carro colonico con il telo sopra che rese l’atterraggio più
morbido dato che ci eravamo lanciati giù . Non notando la presenza del cocchiere io e Jonathan
sicuri di noi iniziammo a correre più che potevamo, ma ad un certo momento sentimmo degli
spari dietro di noi, era il cocchiere della carrozza, a cui si erano uniti alcuni sudisti, corremmo
sempre più forte mentre i confederati ci inseguivano, all’improvviso vedemmo da lontano la
scuderia, ci dirigemmo lì ma senza potercelo aspettare c’erano soldati nemici anche là dentro,
presto arrivarono gli altri e noi fummo subito circondati, un militare disse arrogantemente:
“Credevate che fosse facile fuggire, non sono molto frequenti le evasioni di prigionieri,
specialmente se sono stupidi come voi nordisti, ah ah ah”. Non mi feci persuadere dall’istinto
aggressivo come invece successe a mio fratello che subito si arrabbio e disse: “Bastardo di uno
schiavista, dovresti vergognarti, sei uno stronzo, e questo vale per tutti voi, pezzi di merda”.
Mentre lui era preso con gli insulti io notai che una delle guardie aveva alzato il cane del suo
fucile, così senza esitare presi la colt che avevo rubato, e come un lampo premetti il grilletto, la
canna fece passare il proiettile che andò dritto nel corpo del sudista che stava per sparare,
nello stesso istante mi buttai spingendo anche Jonathan per terra con me e sparai ad una
fiaccola che era appesa sulla parete, essa cadde subito facendo infuocare in un attimo tutta la
paglia, il concerto di spari contro di noi iniziò subito, i cavalli impazzirono e così
approfittammo della confusione per scappare, i sudisti che si stavano occupando di noi erano
ormai circondati di fuoco, e gli altri non fecero in tempo a partire per inseguirci che noi
eravamo già lontani, pensammo di passare prima per il Kentucky, che era lo stato unionista
più vicino per andare poi nell’Ohio, dove si trovava l’accampamento in cui mi trovavo prima di
essere catturato. In questo modo avremmo evitato di essere catturati, perché andando
direttamente nell’Ohio avremmo dovuto attraversare il Virginia da nord a sud e quindi
saremmo stati presi nuovamente. Il viaggio durò un’infinità e non ci eravamo portati neanche
un po’ d’acqua, inoltre prima di arrivare nel Kentucky ci dovevamo nascondere e di
conseguenza non potevamo certo fare una sosta in qualche città . Durante il viaggio io e
Jonathan facemmo discussioni interessanti,

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