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Shmor al profil namuch

Nel dicembre del 1982 è arrivata la fatidica chiamata alle armi. In quel
periodo, Cinzia, io e Simone, il nostro primogenito, abitavamo in affitto ad
Ein Karem, un villaggio di un migliaio di abitanti, per lo più Yemeniti e
Marocchini. Dovevo presentarmi al centro reclutamento di Tel Aviv per
passare la visita di leva. Conscio del fatto che per mia natura sono
naturalmente portato a complicarmi la vita ho pensato bene di chiedere
consiglio su come comportarmi in questo frangente al mio amico del
cuore: Sergio. Vale la pena raccontarvi come l’ho conosciuto e come,
grazie a lui, ho conosciuto Cinzia. Nel periodo di cui parlo, subito dopo
aver divorziato per la seconda volta da Aviva, vivevo nel quartiere
Musrara, un quartiere popolare a pochi passi dal centro di Gerusalemme.

Mi ero inventato, viste le mie conoscenze pratiche di camera oscura,


dovute alla scuola di papà, di fare il fotografo, devo dire con discreto
successo. Giravo per Gerusalemme, su una bicicletta bianca, al collo due
Nikon, pronto a documentare la vita di strada. Le foto le vendevo a un
giornale locale che usciva settimanalmente, lo Ieruscialton. Inoltre
fotografavo tassisti, negozianti del mercato all’aperto, soldati e
soldatesse, etcetera. Mi precipitavo nel laboratorio che avevo allestito a
casa e nel giro di un paio d’ore tornavo dai possibili clienti con
ingrandimenti in bianco e nero 30x40. Potete immaginare lo
sbalordimento dei miei soggetti che raramente resistevano alla
tentazione di comprarsi la foto. Nel giro di poco tempo, anche grazie alla
pubblicazione delle foto sul giornale, ero diventato abbastanza
conosciuto e famoso al punto che ho pensato di tentare il “salto di
qualità”. Ho preparato, come si dice tecnicamente, un book e fiducioso
sono andato alla redazione del Jerusalem Post, l’unico giornale in lingua
inglese a tiratura nazionale di Israele. Non è stato poi così complicato
parlare con il capo redattore che alla fine del nostro incontro, dopo aver
scoperto che ero Italiano mi ha detto che il loro linotipista era un certo
Sergio, un Italiano di Livorno, che da anni aveva fatta “Alià”, cioè era
“salito” in Israele da Livorno. E dove lo trovo questo Sergio, mi piacerebbe
conoscerlo. Sergio era in pausa pranzo, seduto nel “misnon”, in quel
piccolo bar ristorante che c’è in Israele in tutte le ditte e gli uffici
commerciali e pubblici. Lo ricordo bene, stava mangiando con gusto uova
al tegamino e shakshuka (uova che vengono delicatamente
affogate in una miscela bollente di pomodori, peperoni, cipolle
e aglio. Alcune spezie calde e alcune erbe fresche completano
questo piatto unico!).
Soliti convenevoli….come ti chiami, da dove vieni, da quanto
sei in Israele, sei sposato, figli….Sergio è livornese, Chasan
(cantore) del tempio, a vent’anni ha deciso di fare l’ Alià.
Quando ci congediamo, avendo saputo che faccio il fotografo,
“ mi servono le fototessera per rinnovare il passaporto, me le
fai tu”? Due ore dopo bussano alla mia porta, è lui, venuto in
bici da corsa. E’ l’inizio di una bellissima amicizia che porterà,
grazie a lui, all’incontro con Cinzia, livornese doc e di scoglio,
basta che ci sia un filo di sole che va al mare, anche d’inverno.
Sergio è un veterano della guerra del Kippur (giorno
dell’espiazione, la ricorrenza religiosa ebraica che celebra il giorno
dell'espiazione), a chi chiedere, se non a lui, come comportarmi
durante la tironut (addestramento militare) ?
“tishmor al profil namuch”. (tieni un profilo basso).
E che sarà mai? Niente di più facile.
Tel Aviv, centro reclutamento, abile e arruolato per un
addestramento di tre mesi. In Israele, per coloro che hanno una
certa età, sposati e con figli, la leva, obbligatoria per TUTTI, dura
tre mesi invece dei tre anni che toccano ai giovani.
Nel primo pomeriggio, insieme ad una trentina di Ebrei provenienti
da tutto il mondo: francesi, inglesi, Russi, Georgiani, Polacchi,
Americani, Tedeschi, Argentini, etcetera, ci fanno salire su un
camion e si parte per il campo base di addestramento sperduto
sulle colline di Beer Sheva. Arriviamo al tramonto, ci fanno
scendere dal camion e un caporal maggiore ci fa disporre per tre.
Io, che ho stampata in testa l’idea del profilo basso procuro di
essere nell’ultima fila. Ancora in borghese, ricordiamo la compagnia
di partigiani della canzone di Dario Fo:
“Voi mi parete un pò strapenati parete zingari e non dei solda'
C'è chi ha il berretto, e chi ha il purillo
c'è chi ha il panizza, chi non ce l'ha
la giacca a vento ce l'hanno in quattro
due col giaccotto tre col paltò
lui coi calzoni alla zuava di velluto a coste larghe tipo quelli dei magut
lui coi bragoni cavallerizza lui quelli corti lui non ce li ha
tre con le scarpe da militare due coi scarponi da montagnan'
uno coi sandali di gomma lui con scarpe di vernice con le ghette da
lifrock.

Il povero caporal maggiore cerca tra blandizie e imprecazioni di


zittirci e farci stare in fila poi ci dice che deve scegliere uno di noi
per fare il caporale di giornata e presentare la truppa, al nostro
comandante che arriverà a ispezionarci a breve, dando l’attenti.
E’ cominciato un teatrino dell’assurdo, il prescelto si metteva
davanti a noi schierati e cercava di dare l’attenti fra lazzi e risate. E’
andata avanti così per un bel pezzo, ogni volta sostituendo il
selezionato, con gli schiamazzi e le risate che di volta in volta
aumentavano. Ormai faceva buio. Buio e freddo ed io, prima ancora
di rendermi conto di quello che facevo, mi sono offerto volontario.
Mi sono piazzato a gambe divaricate di fronte alla truppa, sono
rimasto silenzioso per qualche tempo, e i miei commilitoni,
incuriositi, si sono zittiti probabilmente chiedendosi - e adesso che
succede? - , poi, impersonando il sergente maggiore di full metal
jacket, con sicurezza e voce stentorea: “ Sono il caporale di
giornata, Lorenzo Lovisolo, vostro capo istruttore, da questo
momento potete parlare soltanto quando vi verrà richiesto, e la
prima e l’ultima parola che dovrà uscire dalle vostre fogne, sarà
SIGNORE, tutto chiaro luridissimi vermi?” AC SCEV. (A ttenti). E
tutti come un solo uomo, tra lo stupore del caporal maggiore, dritti e
impalati come i soldati del Giusti in “vostra eccellenza che mi sta in
cagnesco”. Ve la faccio breve….sono stato nominato seduta stante
caporale di giornata e quando è arrivato il tenente ho dato
orgogliosamente l’attenti. Ahiaiahi. Altro che profilo basso. Mi è
bastato un solo giorno per capire che razza di compito infame è
quello del caporale di giornata, anzi, una notte. Il caporale di
giornata è continuamente pressato dai superiori e disprezzato dalla
truppa, in particolare quella poco o per nulla avvezza alla disciplina.
Il mio primo compito quella sera stessa era assegnare i posti nelle
6 tende da campo a nostra disposizione e stabilire i turni di guardia.
E’ andato tutto bene fino a quando non sono arrivato all’ultima
tenda dove si erano piazzati i sei Grusinim (Russi della Georgia)
della compagnia. Il capo, Eli, mi aspetta all’entrata della tenda, è
tarchiato, i capelli biondo sporco tagliati corti, un toro, vicino a lui,
suo braccio destro, Ioshua, un gigante magrissimo, con la bocca
piena di denti marci, glia altri, sdraiati, stravaccati sulle brande.
Puzzano di alcool tutti e due, sul tavolino da campo, al centro della,
in bella mostra, una bottiglia di wodka. So che è severamente
proibito introdurre alcolici nel campo, ma taccio. Non è affar mio,
penso. Quando gli dico che sono venuto a prendere un nome per il
turno di guardia della notte, mi ride in faccia e mi dice che loro la
guardia non la fanno. Non insisto ma scorrendo l’elenco che mi ha
dato il caporale, assegno l’ultimo turno di guardia a uno dei sei, non
so quale e me ne vado a dormire. Il mattino dopo all’appello ho
scoperto che , non so se con minacce o, più probabilmente con
promesse di bevute o altri benefici, erano riusciti a farsi sostituire
all’ultimo turno di guardia. Mi sono avvicinato ad Eli e gli ho detto
che così non andava bene per niente. Manco avevo finito di parlare
che mi ha sparato un cazzotto che sono fortunatamente riuscito a
deviare, mi ha preso solo di striscio. Un attimo dopo eravamo
avvinghiati per terra e ce le davamo di santa ragione con tutta la
squadra che tifava per l’uno o per l’altro. Il bailame era tale che
sono arrivati di corsa caporal maggiore e tenente e con non pochi
sforzi sono riusciti a separarci. Quando il tenente mi ha chiesto le
ragioni della rissa ho raccontato quello che era successo ed il
tenente, senza neanche sentire le ragioni di Eli e compagni che
protestavano gli ha detto che il venerdì prossimo sarebbero rimasti
tutti quanti consegnati al campo base mentre gli altri avrebbero
usufruito della licenza per trascorrere lo shabbat (il sabato, giorno
festivo), in famiglia. Alla fine dell’appello, passandomi accanto Eli
mi ha sussurrato tra i denti “ata cvar met” – sei già morto. E in quel
momento ho realizzato in che razza di casino mi ero ficcato. Era
lunedì e fino al venerdì mattina ho passato quattro notti in branda,
cercando di stare sveglio, ma addormentandomi di continuo
nell’aspettativa che mi arrivasse una coltellata. I Grusinim sono
circondati da una pessima fama, in generale, ed io me li ero
inimicati tutti fin dal primo momento. Nel corso delle giornate mi
capitava di incrociare lo sguardo di Eli che mi guardava come una
pantera guarda la sua preda, mi faceva dei cenni, ed io, spaventato
mi immaginavo scenari sempre più terribili. Se Dio vuole venerdì
mattina ho lasciato il campo per tornare a casa ma senza alcuna
gioia. Già immaginavo il ritorno alla fine del sabato e quanto
sarebbero stati incazzati i miei rivali vedendo tutti quanti ritornare
dalla licenza. Che fare, come risolvere la questione? Sergio, Sergio
è la mia ancora di salvezza. La sera stessa l’ho invitato a cena e gli
ho raccontato tutta la storia. Mentre raccontavo lui rideva fino alle
lacrime e diceva “profil namuch, ah ah” e giù un’altra risata
oceanica. Ascolta bene mi ha detto: ” devi fare una sulcha”. (Parola
araba entrata nell’usanza ebraica, è un rituale di riappacificazione).
Domattina vai a Machanèi Yehuda ( il mercato pubblico all’aperto di
Gerusalemme), e compra due bottiglie della migliore qualità, una di
wodka ed una di arak, poi, appena rientri al campo vai nella loro
tenda, gli dici che vuoi fare sulcha e tiri fuori le due bottiglie” .
E così ho fatto. Sono entrao nella tenda, erano tutti sdraiati nelle
brande, tirando furi le bottiglie dallo zaino ho detto ad Eli che volevo
fare sulcha, e miracolo, invece di massacrarmi si sono alzati dalle
brande e passandosi le bottiglie di mano in mano ridevano eccitati e
commentavano la qualità del liquore e quanto doveva essermi
costato. Via il tappo alla prima bottiglia, Eli mi si avvicina con un
bicchiere e mi fa “chamiscim” (cinquanta) “o mea” (cento)? Ho
capito immediatamente che si riferiva alla quantità in grammi e
naturalmente, senza pensarci un istante, per mostrare quanto ero
“forte” e come reggevo bene l’alcool, ho detto mea. Ho bevuto d’un
fiato e così hanno fatto loro che si erano nel frattempo serviti.
Bicchiere vuoto, subito riempito con la domanda rituale: cinquanta o
cento? Cento, cento, sempre cento, Ho bevuto 3 bicchieri uno
dietro l’altro, oltretutto a stomaco vuoto e mi sono ritrovato in
paradiso. La tenda da relativamente piccola ora mi sembrava
gigantesca, bellissima, le ombre proiettate sulle pareti dall’unica
lampadina centrale prendevano le forme di animali mitici, e loro, i
Grusinim, altro che delinquenti e violenti….erano amici cari,
simpatici, affettuosi, ridanciani e allegri che mi davano abbracci e
pacche sulle spalle. Abbiamo cominciato a ballare e cantare
infischiandocene di essere scoperti. Come dice il proverbio? Dalle
stelle alle stalle, qui è forse più appropriato dire dal paradiso
all’inferno. Malfermo sulle gambe e cominciando a sentirmi male mi
sono sdraiato su una branda, nausea, un principio di mal di testa,
non ero abituato a bere e poi a stomaco vuoto. Papapapà,
parapapà, suona l’adunata ed io devo correre all’appello, non provo
neanche ad alzarmi. Eli e Yoshua, che sono perfettamente sobri, o
meglio, sono ubriachi ma lo reggono benissimo, mi prendono uno
per parte sottobbraccio e mi portano a vomitare l’anima nel punto
più buio del campo, poi mi trascinano alla mia tenda, mi spogliano,
mi mettono in branda, si assicurano che mi senta meglio e poi
vanno di corsa all’appello. Il mattino seguente ho scoperto che mi
hanno “coperto” dicendo che avevo una febbre da cavallo, ho
anche scoperto, con mio enorme sollievo, cheil compito di caporale
di giornata è a rotazione e cambia ogni settimana.
Eli, per i tre mesi dell’addestramento è stato il mio miglior amico.

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