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Un itinerario: la storia
Non è possibile dire così, semplicemente, che Dio è là. È per noi que-
stione di assoluto, di verità, di un Infinito. Si tratta di qualcuno o qualcosa
che non è determinabile, che non può essere detenuto, che non è «sor-
montatile». Perciò lo si può chiamare anche «l’al-di-là», ma questo al-di-là
non è più in alto, o più in basso, o più a destra, o più a sinistra. E l’al-di-là
perché è sempre più lontano di là dove lo cerchiamo. Non possiamo affer-
rarlo da nessuna parte, ma apprendiamo che è infinito dal cammino inde-
finito che lo cerca dopo averlo accolto o che lo chiama dopo averlo perce-
pito. L’infinito per noi è lo spirito di questo itinerario indefinito. Noi non
possiamo mai circoscrivere nei nostri concetti, nella nostra affettività, nel-
la nostra esperienza comune o individuale colui che, per definizione, è al
di là.
Certi testi della tradizione musulmana ci dicono giustamente: Dio è
«più grande». Non si può dire che Dio è grande, perché la qualifica di
«grande» è il risultato di un computo, si situa il qualificato in un ordine
che è il nostro: un certo numero di cose sono grandi, ma è falso dire che
Dio si situa tra quelle grandezze. Non possiamo neppure dire che Dio è «il
più grande», come se noi possedessimo tutta la gerarchia delle grandezze
e potessimo designare e disvelare, da qualche luogo di osservazione che ci
offra il panorama intero delle cose, il vertice di questa piramide. Dire: «il
più grande» varrebbe a dire che noi conosciamo l’insieme. Il che non è ve-
ro. Ma ci è possibile dire, e l’esperienza ce lo insegna: Dio è «più grande».
Vale a dire: egli non cessa di rivelarsi a noi, dal momento che è a ogni
istante, e rispetto a ogni conoscenza, più grande delle concezioni, delle
esperienze sociali o individuali che noi abbiamo di lui. Questo comparati-
vo illimitato traduce ciò che noi abbiamo indefinitamente da riconoscere.
In altre parole, l’infinito è sperimentabile unicamente attraverso un passo
in più, per effetto di uno scarto relativo a ciò che noi conosciamo o perce-
piamo già di lui.
È sotto questo aspetto che nell’esperienza spirituale interviene la mor-
te. Che cos’è la morte se non questa tensione che non cessa di svelare che
il desiderio è tratto in inganno dall’oggetto che lo soddisfa? Non appena ci
fermiamo a una tappa della vita spirituale, non appena vogliamo «tratte-
nerci là», noi siamo ingannati, cosicché vi è un legame essenziale tra
l’apertura all’infinito e una discreta ma permanente prossimità della mor-
te, tra la ricerca della verità e l’impossibilità di possedere una «casa pro-
pria», di avere un «rifugio familiare» dove sarebbe finalmente possibile
fermarsi.
Nulla di inquietante in tutto questo. L’inquietudine e l’angoscia non
sono caratteristiche dell’esperienza spirituale. La verità è tutto l’opposto.
Questo movimento è pacificante, perché un tale itinerario corrisponde a
ciò che vi è di più essenziale nella nostra vita e forse anche di più essen-
ziale nella natura di Dio (per quanto se ne possa parlare). La coincidenza
fra le partenze ricominciate, i luoghi attraversati e, d’altra parte, il nostro
essere stesso (noi siamo sempre al di là di noi stessi) definisce precisa-
mente una pace. L’essere si trova donandosi. La libertà si costituisce ri-
schiandosi. L’uomo nasce nel suo al-di-là.
La vera pace non è una fermata. Come diceva già lo Pseudo-Dionigi, è
una «quiete brutale», un riposo senza sosta, un camminare abitato dalla
continuità del desiderio. Questa pace spirituale noi possiamo intravederla
in Gesù, l’uomo pacificato, nel momento stesso in cui moriva per «far po-
sto» ai suoi successori, alla sua chiesa, a coloro che in ogni parte del mon-
do erano da lui attesi. Questo legame tra la nostra morte e ciò che essa
apre ad altri è anche assicurazione nella violenza, perdita che pacifica cia-
scuno.