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Michel de Certeau

MAI SENZA L’ALTRO


Intermezzo
[1. Il luogo] – 2. L’itinerario – [3. La presenza dell’Altro]

Un itinerario: la storia

Un secondo aspetto dell’apertura progressiva all’infinito è rappresen-


tato da una forma del tutto diversa, quella dell’itinerario. Non appena ab-
biamo l’esperienza di quel momento, non appena (per riprendere il para-
gone appena usato) alla svolta della strada di casa crediamo di vedere
l’oceano, non appena ha luogo un simile sprigionamento, noi pensiamo di
poterci fermare là, di identificare quel momento con la Verità, di conside-
rare quell’irruzione come Dio stesso, di fare di quell’esperienza momen-
tanea l’esperienza assoluta, l’infinito. Ma non è possibile. Il secondo tempo
ha un aspetto negativo. Questo «dato» che ha fatto in qualche sorta irru-
zione diventa il punto di partenza di un cammino. Siamo chiamati, da
quell’istante particolare, a un itinerario indefinito.
Si può considerare il primo momento privilegiato come una vocazione,
lo si può ritenere come una missione o una conversione. Poco importa. Lo
si può anche considerare come l’origine di tutto un mutamento, o il risul-
tato di un lavorio segreto, forse, o di un’ascesi. Ma c’è un rapporto neces-
sario fra ciò che quel momento ci insegna e ciò che ci chiede di fare. Ciò
che è accolto è una verità da fare o più esattamente da cercare. Ciò che è
stato dato diventa il punto di partenza di una ricerca, di un lavorio che
non è assolutamente una dinamica di possesso, bensì il travaglio di un de-
siderio che non cesserà di imparare che viene tratto in inganno da ognuna
delle sue espressioni. Il desiderio non cessa di andare al di là di ciò attra-
verso cui si esprimeva finora. Comincia un viaggio. Finalmente appren-
diamo in questo secondo tempo che il primo momento aveva per senso,
per significato, una sola parola: «Parti, vattene!». È l’inizio di un itinerario.
«Bisogna che io vada in altre città» (cf. Mc 1,38; Lc 4,43).
Nell’Antico Testamento gli ebrei, volendo entrare nella città di Gerico,
suonarono le trombe e ricominciarono sei volte di seguito lo stesso giro,
rimettendo i propri passi là dove già li avevano messi, ripetendo quella
ricerca processionale, estenuante, facendo in altro modo ciò che avrebbe-
ro poi fatto i monaci di cui parlavo più sopra. Essi si spostano avanzando a
passo lento. Quegli ebrei ci indicano ciò che ha di ripetitivo eppure di in-
ventivo il cammino inaugurato da un momento iniziale.
Il luogo e l’itinerario sono strettamente connessi. L’esperienza cristia-
na non può essere ridotta né all’uno né all’altro. Senza un momento privi-
legiato non vi sarebbe un cammino. Il luogo, come una partenza, rende
possibile l’itinerario della ricerca. Ma non si può restare attaccati a quel
luogo, fissarvisi e ricondurre l’esperienza a uno di quei momenti. Con il
suo primo termine, il luogo, questa tensione raggiunge l’aspetto propria-
mente mistico della tradizione spirituale: Dio è là, Emmanuele, dato e ri-
cevuto nella luce di un giorno. Con il suo secondo termine, l’itinerario, es-
sa ristabilisce il significato escatologico dell’esperienza cristiana, il supe-
ramento di ogni oggettività: Dio non è là, «egli viene», atteso fino
all’ultimo giorno, sorprendendo sempre i desideri che lo annunciano.
Non si può ricusare il riferimento a un evento, a un kairós ben preciso,
a una Scrittura circoscritta, con il pretesto che c’è un al-di-là necessario. Il
momento è proprio ciò che rende possibile il seguito. Ma il senso non può
essere confuso con la lettera di un testo o con l’oggettività di un fatto: altri
momenti e altri testi rendono intelligibile il primo. L’esegesi spirituale at-
testa questo rapporto fra lo scritto che dà accesso ai movimenti dello Spi-
rito e certe liberazioni, certe innovazioni, persino certi momenti di nega-
tività chiamati da quest’apertura stessa. Né chiuso né soppresso, il testo
primitivo è nella posizione spirituale di ciò che permette e richiede altri
testi rispetto ad esso; è con queste alterazioni e con questi superamenti
che manifesta il suo vero senso. Lo stesso avviene per il rapporto con un
momento nell’esperienza personale, o per la relazione con Gesù nella sto-
ria spirituale del cristianesimo.

Dio «più grande»

Non è possibile dire così, semplicemente, che Dio è là. È per noi que-
stione di assoluto, di verità, di un Infinito. Si tratta di qualcuno o qualcosa
che non è determinabile, che non può essere detenuto, che non è «sor-
montatile». Perciò lo si può chiamare anche «l’al-di-là», ma questo al-di-là
non è più in alto, o più in basso, o più a destra, o più a sinistra. E l’al-di-là
perché è sempre più lontano di là dove lo cerchiamo. Non possiamo affer-
rarlo da nessuna parte, ma apprendiamo che è infinito dal cammino inde-
finito che lo cerca dopo averlo accolto o che lo chiama dopo averlo perce-
pito. L’infinito per noi è lo spirito di questo itinerario indefinito. Noi non
possiamo mai circoscrivere nei nostri concetti, nella nostra affettività, nel-
la nostra esperienza comune o individuale colui che, per definizione, è al
di là.
Certi testi della tradizione musulmana ci dicono giustamente: Dio è
«più grande». Non si può dire che Dio è grande, perché la qualifica di
«grande» è il risultato di un computo, si situa il qualificato in un ordine
che è il nostro: un certo numero di cose sono grandi, ma è falso dire che
Dio si situa tra quelle grandezze. Non possiamo neppure dire che Dio è «il
più grande», come se noi possedessimo tutta la gerarchia delle grandezze
e potessimo designare e disvelare, da qualche luogo di osservazione che ci
offra il panorama intero delle cose, il vertice di questa piramide. Dire: «il
più grande» varrebbe a dire che noi conosciamo l’insieme. Il che non è ve-
ro. Ma ci è possibile dire, e l’esperienza ce lo insegna: Dio è «più grande».
Vale a dire: egli non cessa di rivelarsi a noi, dal momento che è a ogni
istante, e rispetto a ogni conoscenza, più grande delle concezioni, delle
esperienze sociali o individuali che noi abbiamo di lui. Questo comparati-
vo illimitato traduce ciò che noi abbiamo indefinitamente da riconoscere.
In altre parole, l’infinito è sperimentabile unicamente attraverso un passo
in più, per effetto di uno scarto relativo a ciò che noi conosciamo o perce-
piamo già di lui.
È sotto questo aspetto che nell’esperienza spirituale interviene la mor-
te. Che cos’è la morte se non questa tensione che non cessa di svelare che
il desiderio è tratto in inganno dall’oggetto che lo soddisfa? Non appena ci
fermiamo a una tappa della vita spirituale, non appena vogliamo «tratte-
nerci là», noi siamo ingannati, cosicché vi è un legame essenziale tra
l’apertura all’infinito e una discreta ma permanente prossimità della mor-
te, tra la ricerca della verità e l’impossibilità di possedere una «casa pro-
pria», di avere un «rifugio familiare» dove sarebbe finalmente possibile
fermarsi.
Nulla di inquietante in tutto questo. L’inquietudine e l’angoscia non
sono caratteristiche dell’esperienza spirituale. La verità è tutto l’opposto.
Questo movimento è pacificante, perché un tale itinerario corrisponde a
ciò che vi è di più essenziale nella nostra vita e forse anche di più essen-
ziale nella natura di Dio (per quanto se ne possa parlare). La coincidenza
fra le partenze ricominciate, i luoghi attraversati e, d’altra parte, il nostro
essere stesso (noi siamo sempre al di là di noi stessi) definisce precisa-
mente una pace. L’essere si trova donandosi. La libertà si costituisce ri-
schiandosi. L’uomo nasce nel suo al-di-là.
La vera pace non è una fermata. Come diceva già lo Pseudo-Dionigi, è
una «quiete brutale», un riposo senza sosta, un camminare abitato dalla
continuità del desiderio. Questa pace spirituale noi possiamo intravederla
in Gesù, l’uomo pacificato, nel momento stesso in cui moriva per «far po-
sto» ai suoi successori, alla sua chiesa, a coloro che in ogni parte del mon-
do erano da lui attesi. Questo legame tra la nostra morte e ciò che essa
apre ad altri è anche assicurazione nella violenza, perdita che pacifica cia-
scuno.

Dal Vangelo secondo Luca


(Lc 4,38-44)

Uscito dalla sinagoga entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone


era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. Chinatosi su di lei,
intimò alla febbre, e la febbre la lasciò. Levatasi all'istante, la donna comin-
ciò a servirli.
Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni
genere li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li gua-
riva. Da molti uscivano demòni gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli
li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era il Cristo.
Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cer-
cavano, lo raggiunsero e volevano trattenerlo perché non se ne andasse via
da loro. Egli però disse: «Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle
altre città; per questo sono stato mandato». E andava predicando nelle si-
nagoghe della Giudea.

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