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Questo forse è un libro di magia e di

buffoneria, dove i maghi e i buffoni,


però, non vengon da fuori, non vengono
dal mondo delle fate, non vengono dal
mondo del cinema, in 3D o in 2D (se si
dice così). No. I maghi e i buffoni, qui,
sono i grandi. E, per scoprire chi sono,
delle volte basta guardare nell’
armadietto delle scope
Paolo Nori è nato a Parma, che è un
posto tra Milano e Bologna dove fanno il
prosciutto di Parma, il salame di Parma
e il formaggio di Parma (il parmigiano),
e abita a Casalecchio di Reno, che è un
posto vicino a Bologna dove ci passa un
fiume che si chiama Reno. Di mestiere
scrive dei libri per grandi, questo è il
suo primo libro per bambini; siccome
non sapeva come si scrivono, i libri per
bambini, ogni favola che scriveva la
leggeva a una bambina di sette anni per
capir se era bella. Se a lei la favola non
piaceva, Paolo Nori (che, vi dico un
segreto, sono poi io) la buttava via. Se le
piaceva, la metteva dentro. Allora quella
bambina (che, vi dico un segreto, è mia
figlia) è per quello, che adesso dice che
le favole che ci sono qua dentro son
tutte belle; lui (cioè io) Paolo Nori, è
convinto che ce n’è finita anche una
brutta.
TREDICI
FAVOLE BELLE
E UNA BRUTTA
TREDICI
FAVOLE BELLE
E UNA BRUTTA

PAOLO NORI
Illustrazioni Di Yocci
Progetto grafico di Mariagrazia Rocchetti
© 2012 RCS Libri S.p.A., Milano

Prima edizione digitale 2012 da edizione Rizzoli


Narrativa agosto 2012

ISBN 978-88-58-63353-3

La favola “A Comprare la città di Stoccolma” di Gianni

Rodari è tratta
da Favole al telefono

© 1980, Maria Ferretti Rodari e Paola Rodari


© 1991, Edizioni EL S.r.l., Trieste
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto
d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non
autorizzata.
Tutte quelle canzoni che
uno impara
da ragazzo cosa le
impara a fare?
Per cantarle da grande a
sua figlia
per farla addormentare.
FAVOLA DI LUISELLA E
DEL SUO PAPÀ

C’era una volta, tanto tanto tempo


fa, una bambina che si chiamava
Luisella che aveva due genitori che
non abitavano insieme. Luisella
abitava con sua mamma, in una
piccola casetta in pianura, ai piedi
di una collina sul cucuzzolo della
quale abitava il babbo di Luisella,
che di mestiere faceva l’avvistatore
di nuvole e passava tutto il giorno
alla finestra con un occhio dentro
un cannocchiale a vedere se si
vedevano le nuvole per avvisare
quelli che facevano le previsioni
del tempo.
Luisella, a cominciare da quando
aveva compiuto quattro anni,
andava dal suo babbo un po-
meriggio alla settimana, la portava
la mamma in macchina fin sul
cucuzzolo della collina. Il babbo la
faceva entrare, la metteva su un
tappeto, le ro-vesciava davanti un
sacco pieno di giochi e tornava alla
sua finestra e al suo cannocchiale.
Dopo una volta, Luisella, dopo
tre ore che era lì che giocava, le
era venuta sete, era andata da suo
babbo gli aveva detto: «Papà, ho
sete.»
Il babbo, senza neanche staccare
gli occhi dal cannocchiale, le aveva
risposto: «Vai dal prete.» Luisella,
si era guardata intorno, non c’era
nessun prete. Aveva pensato un
po’, poi era tornata a giocare si era
tenuta la sete fino a quando non
l’era venuta a prendere la mamma,
alla sera.

Un’altra volta, Luisella, dopo


quattro ore che era lì che giocava,
le era venuto sonno, era andata da
suo babbo gli aveva detto: «Papà,
ho sonno.»
Il babbo, senza neanche staccare
gli occhi dal cannocchiale, le aveva
risposto: «Vai dal nonno.» Luisella,
si era guardata intorno, non c’era
nessun nonno. Tra l’altro, il nonno,
abitava lontano, vicino al mare,
come faceva, Luisella, a andare dal
nonno, a piedi, oltretutto aveva
anche sonno.
Allora aveva pensato un po’, poi
era tornata a giocare si era tenuta
il sonno fino a quando non l’era
venuta a prendere la mamma, alla
sera.
Un’altra volta, Luisella, dopo
cinque ore che era lì che giocava, le
era venuta fame era andata da suo
babbo gli aveva detto: «Papà, ho
fame.»
Il babbo, senza neanche staccare
gli occhi dal cannocchiale, le aveva
risposto: «Vai dal cane, che ti taglia
una fetta di salame.»
Luisella, si era guardata intorno,
non c’era nes-sun cane. Suo babbo
non aveva nessun cane. E anche se
ce l’avesse avuto, a lei comunque
non piaceva il salame, lei non
aveva fame di salame, aveva
magari fame di banane, o di choco
pops, se li avevano già inventati
non sono sicuro.
Allora Luisella aveva pensato un
po’, poi era tornata a giocare si era
tenuta la fame fino a quando non
l’era venuta a prendere la mamma,
alla sera.
Dopo una volta, la mamma di
Luisella era dovuta andare a
Macerata a una fiera di mamme,
che era dovuta star via una
settimana, e aveva lasciato Luisella
al babbo per una settimana.
Be’, quella volta lì, dopo tre ore
che Luisella era lì sul tappeto, le
era venuta sete. Solo che non
voleva fare ancora la figura della
stupida, e a suo babbo, che era
sempre alla finestra attaccato al
suo cannocchiale, non aveva detto
niente, né il primo, né il secondo,
né il terzo, né il quarto giorno e il
quinto giorno, d’un tratto, era
morta di sete.
Il babbo di Luisella, che si
chiamava Giulio, aveva sentito un
rumore di una cosa che cadeva sul
tappeto, si era alzato, era andato,
aveva visto Luisella riversa sul
tappeto, le aveva tastato il polso,
“Ma guarda” aveva pensato.
Ecco. Però c’è un però. Il però è
che dovete sapere che il babbo di
Luisella, che nel mondo normale
era un avvistatore di nuvole e si
chiamava Giulio, nel mondo della
magia era un grande mago che si
chiamava Aristofan e di mestiere
faceva il grande mago. Allora
questo Giulio Aristofan era andato
in cucina, aveva aperto un
armadietto bianco come di quelli
che ci si tengon dentro le scope, ne
aveva tolto un cappello blu scuro
da mago e una palandrana blu
scura da mago stellata con tutte le
stelle del firmamento. Era tornato
nella stanza di Luisella, aveva
alzato le mani sopra la testa, aveva
detto, guardando per aria: «Spiriti
della tormenta e della sofferenza,
risuscitate per cortesia questa
bambina che è morta di sete per
distrazione.» E sopra il corpo di
Luisella si era concentrata come
una specie di nuvola nera che
aveva mandato due tuoni e due
fulmini e poi, d’un tratto, sopra di
lei, eran piovuti su di lei gli spiriti
della tormenta e della sofferenza in
forma di pioggia ristoratrice che
era talmente ristoratrice che
Luisella, che era morta, non
dimentichiamolo, si è svegliata
tutto d’un tratto che stava
benissimo, non aveva né fame né
sete né sonno era in perfetta
forma.
Il babbo di Luisella l’aveva
guardata le aveva detto: «Ma
Luisella, ma sei morta di sete, ma
perché non me l’hai detto, che
avevi sete?»
«Perché avevo paura che poi mi
dicevi di andare dal prete. E anche
tu, poi, perché non me l’hai detto,
che eri un mago?»
«Be’» aveva risposto il babbo,
«bastava che guardavi
nell’armadietto delle scope te ne
accorgevi da sola.»
FAVOLA DI KEVIN

C’era una volta un bambino che si


chiamava Kevin che tutti i
pomeriggi giocava a pallone con
dei suoi amici, in un campetto nel
parco che c’era vicino a casa sua,
in un paese che si chiama
Casalecchio di Reno, che è
vicinissimo a una città che si
chiama Bologna che ci sono due
torri una più alta dell’altra che
magari vi capiterà di andarci, una
volta o l’altra, se non ci siete già
stati.
Allora, a Kevin piaceva molto
giocare a pallone.
Era anche molto bravo.
Era talmente bravo che era il
capitano della squadra dei bambini
di sei anni, che quando andavano
al parco si mettevano tutti una
maglietta bianca, e giocavano tutti
nella stessa squadra, la squadra
delle magliette bianche.
Adesso: ho detto che a Kevin
piaceva molto gio-care a pallone,
non sono sicuro.
Cioè gli piaceva, però gli piaceva
di più vincere.

E tutti i pomeriggi, siccome


giocavano contro una squadra di
bambini di otto anni, con le
magliette blu, che vincevano
sempre loro, quelli di otto anni,
non perché eran più bravi, perché
eran più grandi (cioè forse erano
anche più bravi, ma sicuramente
erano più grandi), tutti i
pomeriggi, dicevo, Kevin tornava a
casa che piangeva.
Gli veniva un nervoso, a perdere
tutti i pomeriggi, che a guardarlo ti
veniva il dispiacere: stavi male per
lui.
Be’, insomma, dopo un po’, ma
dopo un mese, circa, dopo una
ventina di partite che finiva
sempre così, con la squadra delle
magliette blu che vinceva cinque a
due, o quattro a uno, o sette a zero,
o dieci a tre, dopo venti partite
tutte così, che eran tutte finite con
Kevin che tornava a casa
piangendo e singhiozzando, il
capitano della squadra delle
magliette blu, che si chiamava
Luigi, aveva deciso, la volta dopo,
di parlare coi suoi compagni di
squadra e di mettersi d’accordo per
fare qualcosa.
Così, il lunedì successivo, al
pomeriggio, quando si eran trovati
lì al campetto, la prima azione,
Luigi aveva passato la palla al suo
portiere che aveva fatto finta di
farsela passare sotto le gambe e la
squadra con le magliette bianche
era passa-ta in vantaggio per la
prima volta nella storia dei
campionati del campetto di
Casalecchio di Reno.
E Kevin, era contento come una
pasqua.
Non solo; l’azione dopo, Luigi
invece di passare il pallone a un
suo compagno di squadra l’aveva
passato a Kevin, che era corso fino
all’area avversaria, voleva tirare
fortissimo, solo che era troppo
agitato, e aveva colpito, insieme al
pallone, anche un po’ di terra,
allora la palla era partita
pianissimo, un tiro di quelli tutti
sbilenchi, da bambino piccolo, solo
che il portiere, invece di prenderlo,
se l’era fatto passare anche quello
sotto le gambe.
Due a zero per le magliette
bianche.
Kevin avrebbe dovuto essere
contentissimo.
E un po’ era contento, ma un po’
gli eran venuti anche dei dubbi.
E quando, l’azione dopo, il suo
amico Ruggero, della sua squadra
della magliette bianche, aveva
rilanciato dalla difesa e la palla era
arrivata dall’altra porta e il
portiere delle magliette blu invece
di prenderla con le mani se l’era
fatta passare sotto le gambe anche
quella e i bianchi stavan vincendo
già tre a zero, Kevin aveva capito
che quelli lì facevano apposta.
Allora aveva cominciato a
giocare al contrario, a provare a
far gol al proprio portiere, e in
cinque minuti ne aveva fatti
quattro.
Sarebbero stati quattro a tre per i
blu, se non fosse che Luigi, che
aveva visto che Kevin aveva capito
tutto, in quei cinque minuti aveva
fatto due gol nella sua porta, e il
primo tempo era finito cinque a
quattro per i bianchi.
Quando era cominciato il
secondo tempo, si eran messi tutti
a giocare al contrario.
Cioè i bianchi tiravan nella porta
dei bianchi, e i blu tiravan nella
porta dei blu.
E siccome i blu eran più forti,
avevan fatto più gol, cioè più
autogol, e quindi in un certo senso
avevano vinto i blu, dodici a otto.
Solo che Kevin, quella volta lì,
anche se aveva perso, non aveva
poi pianto.
E dal giorno dopo, tutti i giorni
avevano cominciato a fare così, che
ognuno provava a far gol nella
propria porta, e l’altro difendeva la
porta avversaria.
Era la stessa cosa, anche i
portieri, cominciavano vicino a
una porta e poi, la prima azione,
correvano dalla porta avversaria e
si mettevano a difendere la porta
avversaria perché non si fidavano
del portiere avversario, che le
avrebbe fatte passare.
Non era cambiato niente;
vincevano sempre i blu: otto a
quattro, nove a due, dieci a sei.
Non era cambiato niente. Cioè
qualcosa era cambiato: Kevin non
piangeva più.
Perdeva come prima, ma non
piangeva più.
Chissà perché.
Lo sapete, voi, perché?
Io non lo so.
Se lo sapete, mi fate un favore?
Me lo scrivete? Mi mandate una
cartolina dove ci scrivete: Kevin
non piangeva più perché… e poi ci
mettete il motivo. Il mio indirizzo
è: Via Porrettana, 156, Casalecchio
di Reno.
È una casa proprio dietro al
campetto dove gioca Kevin con i
suoi amici.
Che voi potreste pensare:
“Chiedilo a lui.” Avete ragione, ma
mi vergogno.
Facciamo così, se lo sapete, me
lo dite voi.
Bisogna che mettiate anche un
codice, si chiama codice di
avviamento postale, ed è diverso
per ogni paese italiano. Quello di
Casalecchio di Reno è: 40033.
Allora grazie.
Se sapete il motivo.
Se non lo sapete, è lo stesso.
Non lo so neanche io.
Se non lo sapete grazie lo stesso.
E dopo, così, con questo fatto che
è lo stesso, questa favola è finita.
FAVOLA DI MARTINA

Martina era una bambina che,


nella sua famiglia, era la più
piccola, e, fin da quando era
piccola, ogni giorno, tutti i giorni,
suo babbo, sua mamma, i suoi sei
zii, i suoi sette cugini e i suoi
quattro nonni, le facevano un
regalo.
Martina era molto contenta,
aveva dei regali di tutti i tipi,
soprattutto degli animali, alcuni
dei quali rarissimi, come regali.
Un koala australiano? Lei ce
l’aveva.
Una cicogna rosa di Cagliari? Lei
ce l’aveva.
Una mucca olandese? Lei ce
l’aveva.
Un topo di fogna? Ce ne aveva
dodici.
Martina era molto invidiata dalle
sue amiche, che quando andavano
a giocare a casa sua non credevano
ai loro occhi e quando tornavano a
casa piangevano sempre, per due
motivi; primo, perché avrebbero
voluto restare ancora a giocare con
i giochi di Martina, secondo,
perché i loro genitori, e i loro zii, e
i loro nonni, e i loro cugini, non
facevano loro un regalo tutti i
giorni, come a Martina.
Martina, invece, bisogna dire,
stava benissimo.
Piangeva poco, e ogni volta che
piangeva suo babbo, sua mamma, i
suoi sei zii, i suoi sette cugini e i
suoi quattro nonni le facevano un
regalo, anche se quel giorno
gliel’avevano già fatto.
C’è da dire, però, che non
andava tutto benissimo, nella vita
di Martina. Prima di tutto, quando
Martina voleva giocare con un
regalo, era difficilissimo, da
trovare, in mezzo agli altri regali;
delle volte lei, con sua mamma, e
suo babbo, e i suoi sei zii e i suoi
sette cugini e i suoi quattro nonni
ci avevano messo tre settimane a
trovare un pipistrello che era
andato a finire per sbaglio nel
mucchio degli orsi bianchi.
E poi c’è da dire che dopo un po’,
quando Martina aveva ormai sette
anni, e faceva la seconda
elementare, la sua stanza, ormai,
era così piena di regali, che faceva
fatica a andare a letto.
Anzi, una volta, che Martina
aveva preso la scarlattina, e era
stata a letto tre giorni di seguito,
dopo che la erano passata a
trovare per tre giorni di seguito i
suoi sei zii, i suoi sette cugini e i
suoi quattro nonni, e ciascuno le
aveva fatto ogni giorno un regalo,
quando il quarto giorno si era
presentata la sua zia Gianna con
un elefante di latta africano
azzurro carta da zucchero che era,
c’è da dire, bellissimo, la zia
Gianna, che era un po’ grassa,
aveva provato a arrivar fino al
letto per darlo a Martina ma non
c’era riuscita.

Anzi, Martina proprio non si


vedeva.
Aveva provato a chiamare, erano
arrivati anche il babbo e la
mamma, e dopo gli altri zii e i sette
nipoti e anche i quattro nonni e
tutti chiamavano: «Martina,
Martina» e non rispondeva
nessuno. Allora uno zio di Martina
che faceva il muratore aveva
telefonato a un suo fornitore e
aveva affittato un bobcat, che è un
piccolo escavatore, per provare a
scavare sotto quelle montagne di
regali e trovarla, Martina.
Dopo qualche ora l’escavatore
era arrivato solo che non entrava
in ascensore, Martina abitava al
terzo piano.
Allora il babbo di Martina aveva
chiamato i pompieri, che, con le
loro scale rosse da pompieri, erano
arrivati fino alla finestra e
l’avevano aperta, ma prima ci
avevano messo sotto uno di quei
teli elastici rossi da pompieri, che
sono dei teli che anche se uno salta
giù dal terzo piano e ci cade sopra
non si fa male, rimbalza.

I pompieri avevan paura che,


aprendo la finestra, insieme a un
po’ di regali ammassati lì contro la
finestra, magari cadeva giù anche
Martina e si sfracellava, che allora
sarebbe stato meglio se stavano a
casa, i pompieri, piuttosto che
andare a casa di Martina e aprir la
finestra e farla sfracellare giù dal
terzo piano.
Avevano messo il telo, avevano
aperto la finestra, e sul telo eran
caduti:
sei coniglietti;
tre lepri;
centodue Hello Kitty;
centosettantacinque versioni
diverse di Ben Ten con ventinove
orologi;
una tribù di orsi polari che eran
trentanove o quaranta;
un pipistrello;
neanche una Martina.
Allora, i pompieri, con molta
cautela, avevano bonificato la
stanza, cioè avevano tolto tutti i
regali, e mano a mano che li
toglievano li immagazzinavano in
ordine in un container che avevano
fatto venire apposta dal magazzino
provinciale dei container a spese
del tribunale, che sulla sparizione
di Martina aveva aperto
un’inchiesta per indagare su
eventuali responsabilità
nell’eventuale scomparsa di una
bambina così fortunata e così
sfortunata nello stesso tempo.

A bonificare la stanza di
Martina, cioè a togliere tutti i
regali e a catalogarli, i pompieri ci
avevano messo dodici ore, erano
settanta pompieri che avevano
lavorato in regime di orario
continuato, cioè non erano andati
neanche a mangiare.
Quando avevan finito, la stanza
era vuo-ta. Sul letto c’era un
bigliettino, e nel bigliettino c’era
scritto: “Mi sembra di stare un po’
meglio, vado a dormir
nell’armadio.”
E avevano aperto l’armadio, e
Martina era lì, nell’armadio, che
teneva stretto un serpente di pezza
che lei chiamava Carotide. Nessuno
aveva mai saputo come mai lo
chiamava così. Dopo che l’avevan
svegliata, che le avevan dato la
colazione, che le avevan provato la
febbre, il capo dei pompieri, che
era rimasto per verificare che
Martina si fosse ripresa per bene,
aveva pensato che gliel’avrebbe
chiesto, come mai il suo serpente lo
chiamava Carotide, solo che, un po’
era contento che tutto era finito
bene, un po’ era stanco, un po’ era
uno che così, anche come carattere,
era distratto, se l’era scordato, di
chiedere a Martina come mai il suo
serpente lo chiamava Carotide.
FAVOLA DI MIRCO

C’era una volta un bambino che si


chiamava Mirco che aveva sei anni
e andava in prima elementare.
Sembrava che si trovasse bene,
con i suoi compagni di classe, e
sembrava che non avesse paura né
dei maestri, né dei bidelli, né della
scuola, né dei suoi genitori, né dei
suoi nonni, né dei vicini di casa, né
degli estranei, sembrava un
bambino sereno, piangeva
raramente, quando non lo
lasciavano fare una cosa che
voleva molto fare, ma i suoi
genitori eran molto contenti, aveva
imparato fin da piccolo a dormire
da solo, a fare la cacca da solo, a
lavarsi, vestirsi e mettersi le scarpe
da solo, sapeva legarsi i lacci delle
scarpe con il doppio nodo, si
ricordava tutte le sere di lavarsi i
denti, sapeva anche cantare,
cantava anche bene, l’unico
problema era che non riusciva
benissimo a imparare l’ordine dei
numeri, confondeva soprattutto il
sette con l’otto, non sapeva mai se
veniva prima il sette, o l’otto.

I suoi genitori, che erano


abituati, c’è da dire, un po’ male,
perché avevano un bambino che
piangeva raramente, e che aveva
imparato fin da piccolo a dormire
da solo, a fare la cacca da solo, a
lavarsi, vestirsi e mettersi le scarpe
da solo, e che sapeva legarsi i lacci
delle scarpe con il doppio nodo, e
si ricordava tutte le sere di lavarsi i
denti, e sapeva cantare, e cantava
anche bene, i suoi genitori erano
molto preoccupati, per questo fatto
che Mirco non riusciva mai a
ricordarsi se veniva prima il sette o
l’otto, e avevan deciso di portarlo
da un medico che c’era allora nella
loro città e che era un luminare,
cioè era uno che aveva fatto delle
scoperte importantissime e che
avevano illuminato la strada anche
a tutti gli altri, in quel campo
specifico lì che lui se ne occupava,
che era il campo della mente
matematica ma anche della mente
in generale.
Allora questo luminare, che si
chiamava professor Trombetti,
Anselmo Trombetti, e era un
signore molto alto, altissimo, con
degli occhiali molto grandi,
grandissimi, e con un vestito nero,
nerissimo, e una camicia bianca,
bianchissima, e due bretelle rosse,
rossissime, questo luminare aveva
visitato Mirco, e gli aveva tastato
la testa con le sue dita fredde, non
freddissime, fredde, e poi aveva
detto che sì, si poteva cambiare il
cervello di Mirco con un cervello
matematico e che lui ne aveva uno
lì in frigorifero e se avevano tempo
lo potevano fare anche subito, era
una cosa semplice, ci volevan
cinque minuti, e era vero. Perché
lui, il professor Trombetti, aveva
scoperto, nascosta nel cranio, una
specie di cerniera, che se tu davi un
colpetto in un punto segreto, che
aveva scoperto sempre lui e che si
era chiamato, da quel momento,
Punto Trombetti, veniva fuori dal
cranio una specie di, non so come
dire, come il pirolino che c’è nelle
cerniere, chiamiamolo così,
pirolino, veniva fuori questo
pirolino e tu lo tiravi e il cranio si
apriva, e il professor Trombetti
diceva al suo paziente: «Si chiuda il
naso con due dita e tenga chiusa la
bocca» e poi velocissimo gli
toglieva il cervello vecchio gli
metteva quello nuovo, poi
richiudeva il cranio, tirava indietro
la cerniera, dava un colpetto sul
punto Trombetti che il pirolino
rientrava dentro, fatto, il paziente
aveva il cervello nuovo che era, a
seconda dei casi, un cervello
artistico, per chi voleva per
esempio dipingere dei quadri più
belli, un cervello gastronomico, per
chi voleva far da mangiare meglio,
un cervello botanico, per chi
voleva far crescere bene i fiori, un
cervello matematico per chi voleva
conoscere bene i numeri, come i
genitori di Mirco volevano che
fosse Mirco.
Così, il professor Trombetti
aveva cambiato il cervello a Mirco
e poi aveva detto: «A posto», e il
babbo di Mirco aveva guardato
Mirco, gli sembrava uguale a prima
aveva detto: «Ma è sicuro?»
E il professore aveva detto: «Stia
a sentire.» Poi si era rivolto a
Mirco gli aveva detto: «Bambino,
quanto fa 12 per 12?»
«144» aveva risposto Mirco.
«Accidenti» aveva detto la
mamma di Mirco.
«Vacco mondo» aveva detto suo
babbo.
«E non è tutto, guardate» aveva
detto Trombetti. «Bambino» aveva
detto, «quanto fa 1427 per 389?»
E Mirco aveva detto: «555.103.»
Che la mamma di Mirco aveva
detto: «Accidenti» e il babbo di
Mirco aveva detto: «Aspettate un
attimo», poi aveva preso il
cellulare, era andato alla funzione
Calcolatrice, aveva digitato 1427
per 389 e il risultato era stato
555.103.
«Vacco mondo» aveva detto il
babbo di Mirco.
Allora niente, avevan salutato il
professor Trombetti, si eran fatti
dar la fattura dalla segretaria, il
cervello matematico costava 200
euro più Iva 21 per cento, «Quanto
fa in tutto?» aveva chiesto il babbo
di Mirco, «242 euro» aveva detto
Mirco, «Accidenti» aveva detto la
mamma di Mirco, «Vacco mondo»
aveva detto il babbo di Mirco, e
aveva pagato e la segretaria, che si
chiamava Carmela, e era una
signora di origini svizzere con un
vestito verde, alzando un dito con
un’unghia laccata di nero aveva
detto: «Attenti, il cervello si può
restituire soltanto entro tre giorni.»
«Sì sì» aveva detto il babbo di
Mirco, con un tono come per dire
che non lo restituivano di sicuro,
un cervello così preciso, e uscito
dall’ambulatorio il babbo di Mirco
era così contento che si era messo a
cantare e aveva cantato anche in
macchina aveva smesso di cantare
quando erano arrivati a casa
sapete cosa cantava? Cantava una
canzone che cominciava così: «Non
piangerò mai sul denaro che
spendo, ne riavrò, na na na na nà,
forse più.»
Non cantava benissimo, bisogna
dire, il babbo di Mirco, ma non
importa, quello che importa è che
quando erano arrivati a casa,
prima ancora che scendessero dalla
macchina, Mirco aveva detto:
«Papà, ti posso dire una cosa?»
«Dimmi» gli aveva detto il suo
babbo.
«Lo sai che nella strada che
abbiamo fatto adesso,
dall’ambulatorio a qui, hai
superato per sette volte il limite di
velocità per più di cinque
chilometri all’ora, e per tre volte
per più di quindici chilometri
all’ora, e che, secondo me, nelle
pros-sime settimane ti arriveranno
a casa cinque multe di settanta
euro ciascuna e tre multe di
centoventi euro ciascuna e ti
toglieranno diciotto punti dalla
patente? Cioè, in totale,
settecentodieci euro? Più diciotto
punti in meno nella patente? Lo
sai?» aveva detto Mirco.
E suo babbo aveva detto: «Vacco
mondo.»
«Poi» aveva detto Mirco
indicando le gomme della
macchina, «lo sai che quelle gomme
lì, a ve-derle da qua, gli mancano
otto-dieci millibar di pressione, e
vuol dire che ogni cento chilometri
che fai, consumi un litro di benzina
in più, quindi, immaginando che tu
faccia trentamila chilometri
all’anno, questo vuol dire che
spendi, per non gonfiar le gomme,
più di cinquecentocinquanta euro
in più di benzina per niente, più i
mille e passa euro che prenderai di
multa per non stare attento ai
segnali (settecentodieci solo oggi)
fanno in tut-to migliaia di euro che
potresti comprare dei giochi per far
contento tuo figlio, che ti dà così
tante soddisfazioni, e invece tu li
butti via così?»
E suo babbo aveva guardato
Mirco gli aveva detto: «Rimonta un
attimo in macchina.»
E aveva rimesso in moto la
macchina, aveva fatto inversione,
era tornato all’ambulatorio.
Per strada era andato
pianissimo, il babbo di Mirco, e era
arrivato che il professor Trombetti
stava chiudendo l’ambulatorio.
«Professore! Pro-fessore!» aveva
gridato. «Vogliamo indietro il cer-
vello di prima!»
Il professore, che era lì davanti
alla porta, con le chiavi in mano, li
aveva guardati, aveva scosso la
testa aveva detto: «La strada della
scienza è una strada difficile.»
Poi aveva riaperto l’ambulatorio,
aveva fatto entrare Mirco e il
babbo di Mirco, gli aveva detto:
«Accomodatevi» che voleva dire che
si potevan sedere su due poltrone
che c’erano lì in anticamera, e loro
difatti si eran seduti, e una volta
che si eran seduti, il professor
Trombetti aveva guardato Mirco,
poi aveva guardato il babbo di
Mirco, poi aveva guardato ancora
Mirco, poi aveva guardato ancora
il babbo di Mirco poi aveva detto:
«Dunque, il cervello di prima, io
l’ho venduto.»
«Zio canta» aveva detto il babbo
di Mirco.
«Eh» aveva detto il professor
Trombetti, «subito dopo che siete
andati via voi, è venuto un
bambino con capelli rossi che suo
babbo e sua mamma erano molto
dispiaciuti che lui, a sei anni, non
sapeva ancora farsi il nodo nelle
scarpe, “Non avete un cervello che
sia capace di allacciarsi le scarpe?”
mi ha chiesto suo babbo. “Eccome”
gli ho detto io, “ne è appena
entrato uno che non solo sa
allacciarsi le scarpe, ma non ha
paura né dei maestri, né dei bidelli,
né della scuola, né dei suoi
genitori, né dei suoi nonni, né dei
vicini di casa, né degli estranei, e
piange solo quando non lo lasciano
fare una cosa che vuol molto fare,
ma in generale è molto bravo, ha
imparato fin da piccolo a dormire
da solo, a fare la cacca da solo, a
lavarsi, vestirsi e mettersi le scarpe
da solo, si ricorda tutte le sere di
lavarsi i denti, sa anche cantare e
canta anche bene, è un cervello
d’occasione ma è quasi nuovo, non
ha neanche sette anni vi faccio un
buon prezzo” gli ho detto, e loro
l’hanno comprato» aveva detto il
professor Trombetti, e in quel
momento s’era spalancata la porta
dell’ambulatorio si era sentito:
«Professore, professore» e si era
affacciato un signore coi capelli
rossi, ma rossi rossi, che teneva per
mano un bambino coi capelli rossi,
ma rossi rossi rossi, e che aveva
detto: «Vogliamo indietro il nostro
cervello.»
Eh. Sapete chi erano? Erano
quelli che avevano comprato il
cervello di Mirco. E sapete cosa era
successo? Che si erano accorti che il
cervello che avevan comprato non
riusciva a contare fino a dieci,
quando arrivava al sei, non sapeva
mai come continuare, se con il
sette o con l’otto, e allora, siccome
quel bambino lì con i capelli rossi,
ma rossi rossi rossi, è vero che non
sapeva allacciarsi le scarpe da solo,
però aveva anche dei pregi, che a
scuola per esempio era bravissimo,
in matematica era il primo della
classe, e, in prima elementare, era
l’unico della sua classe che sapeva
fare le divisioni, solo le divisioni
per uno, è vero, ma di qualsiasi
numero, sette diviso uno, sette,
nove diviso uno, nove,
centoventinove diviso uno,
centoventinove, duemilatrecentosei
diviso uno, duemilatrecentosei, un
miliardosettecentoquarantanovemila
diviso uno, un
miliardosettecentoquarantanovemila
era bravissimo, e allora, i suoi
genitori, quando si erano accorti
che, con il cervello nuovo, non
sapeva l’ordine dei numeri neanche
fino a dieci avevan preso paura
erano tornati di corsa nello studio
del professor Trombetti ci avevan
trovato Mirco con suo babbo che
aveva detto, il babbo: «Vacco
mondo.» E poi si eran messi
d’accordo che il cervello di Mirco
l’aveva preso Mirco, e il cervello
matematico l’aveva preso quel
bambino lì coi capelli rossi, ma
rossi rossi rossi rossi, credo, non
sono sicuro, perché io, quel
bambino lì coi capelli rossi, non
l’ho mai conosciuto, invece Mirco
lo conosco, abita vicino a me, e lui
ha il suo cervello che è il cervello di
un bambino che certe cose sa farle
molto bene per esempio le scarpe
ce le ha sempre allacciate
benissimo, che io tutte le volte che
lo vedo penso che io, quando ero
piccolo, non ero capace, di
allacciarmi le scarpe, ho perso
tanto di quel tempo a fermarmi per
strada a allacciarmi le scarpe, io,
nella mia vita, che se imparavo a
allacciarmele così bene come Mirco
fin da quando ero piccolo, avrei
potuto imparare una lingua
straniera, in tut-to quel tempo lì,
chissà che lingua avrei scelto, voi
che lingua scegliereste, se poteste
imparare una lingua straniera?
FAVOLA DEI GIGANTI E
DEL VEGETARIANO

Una volta ero lì, a Casalecchio di


Reno, che bevevo un succo di
frutta, e prendevo il sole, nel parco
che c’è dietro casa mia, e mi
riposavo, che ero anche un po’
stanco, in un giardinetto, lì, che
c’erano dei signori, e delle signore,
un po’ anziani, era una specie di
centro anziani, quello dove ero lì a
riposarmi, c’era anche un chiosco
che vendeva i succhi di frutta, e
delle altre bibite, a un certo punto,
uno di questi signori, un signore
con i ca-pelli bianchi, e un cappello
blu da marinaio, e un maglione
azzurro, e gli occhi azzurri quasi
come il maglione, viene da me e mi
dice: «Buongiorno.»
«Buongiorno» gli dico io.
Aveva in mano una bottiglia di
tè deteinato. Chiusa.
«Non sta mica bene?» mi chiede
lui.
Io lo guardo, «No, no, sto bene»
gli dico. «Sono solo un po’ stanco.»
«Eh» mi dice lui, «non lo dica a
me, io sono stanchissimo, io son
così stanco che se potessi mi
butterei per terra a dormire qua.»
Io ho guardato per terra, c’era
tutto pieno di foglie, un po’ di
fango, anche, eravamo in ottobre,
già, chissà l’umidità, se dormiva per
terra, che idea, dormire per terra, e
poi, quel signore lì, a guardarlo,
non sembrava stanco, aveva una
cosa, negli occhi, come se fosse
anzi un po’ agitato, secondo me se
andava a letto non riusciva a
dormire, “Forse per quello” ho
pensato, “prende il tè deteinato”, e
avrei voluto dirgli di non dormire
per terra perché altrimenti
prendeva dell’umidità e che in
fondo, poi, a guardarlo, non
sembrava così stanco e gli avrei
detto così, se fossimo stati in
confidenza solo che, non lo
conoscevo, non sapevo cosa dire,
ero anche un po’ imbarazzato
allora ho fatto una cosa che faccio
ogni tanto quando non so cosa dire
l’ho guardato negli occhi gli ho
detto: «Eh.»
«Sì» mi ha detto lui, «guardi, non
me ne parli.»
Io, a quel punto lì, ancora, cosa
potevo fare, l’ho guardato un altro
po’ negli occhi gli ho detto ancora:
«Eh.»
«Sì» m’ha detto lui, poi mi ha
guardato anche lui, aveva il mento
un po’ lungo, quel mento, non so
come dire, un po’ lungo, che uno si
immagina che quando piove gli
piove un po’ in bocca. «Scusi» mi
ha detto, «adesso io son stanco e ho
i miei motivi per essere stanco, ma
lei, come mai è stanco?»
Ecco.
Adesso lì, io avrei voluto
guardarlo negli occhi rispondergli
“Eh”, solo che lì, secondo me non
bastava, allora ho fatto un sospiro,
mi sono passato una mano sopra la
faccia, mi son messo a pensare a
come mai ero stanco, ho pensato
che, in quei giorni, io avevo
appena scritto tre o quattro favole
una dopo l’altra allora per quello,
forse, ero stanco, e ho fatto proprio
così, l’ho guardato negli occhi gli
ho detto: «Eh, ho appena scritto tre
o quattro favole una dietro l’altra
si vede che ne ho scritte troppe.»
«Eh» mi ha detto lui, «non lo dica
a me, io ne ho appena scritte
trecento o quattrocento sono
stanchissimo son così stanco che se
potessi mi butterei qua per terra a
dormire qua.»
«Be’» mi è scappato detto a me,
«trecento o quattrocento,
addirittura.»
«Non ci crede?» mi ha detto lui.
«Ma» gli ho detto io, «no, no,
cioè, non lo so, mi sembran
tantissime.»
«Sì» mi ha detto lui, «guardi, non
me ne parli, io ho tutte queste
favole che mi vengono fuori una
dopo l’altra, non so cosa fare, ma
sono belle, sa, solo che sono
troppe, io un giorno feriale» mi ha
detto, «mediamente, io son capace
che mi vengono fuori
centossessantatré
centossessantaquattro favole al
giorno, non parliamo poi del
sabato e della domenica, il sabato e
la domenica è festa una volta sono
arrivato anche a
milleduecentoquaranta.»
«Eee» gli ho detto io,
«addirittura.»
«Non ci crede?» mi ha detto lui.
«Facciamo una prova? Guardi» mi
ha detto, e s’è messo a tossire, «ha
visto?» mi ha detto.
«Cos’ho visto?»
Lui ha tossito ancora ha detto
ancora: «Ha visto?»
Io mi son guardato intorno non
c’era niente, «Cos’ho visto?» gli ho
detto.
«Ah» mi ha detto lui, «ma lei, ma
lei… scusi» mi ha detto poi dopo,
«ma lei non scrive delle favole?»
«Eh» gli ho detto io, «sì, scrivo
delle favole.»
«E le scrive senza tossire?»
«Eh» gli ho detto io, «sì, le scrivo
senza tossire.»
«Ma pensa» mi ha detto lui.
«Chissà che favole strane che
scrive.»
Che, lì, lo so che non dovevo, ma
mi è un po’ venuto il nervoso, a
sentire che secondo lui scrivevo
delle favole strane. «Perché» gli ho
detto, «le sue invece sono
normali?»
«Le mie?» ha detto lui, e poi ha
tossito. Una tosse secca, cattiva.
«Sì» ha detto poi dopo aver
tossito, «sono normali. Cioè» ha
detto, «dipende, alcune normali
alcune mica tanto normali» ha
detto, e poi ha tossito ancora
sempre quella tosse secca che è
andato avanti tanto, questa volta,
sembrava che non dovesse più
smettere invece poi ha smesso e
come ha smesso mi ha detto: «Ecco,
son pronto, la vuole sentire?»
«Che cosa?» gli ho detto io.
«Una delle mie favole» mi ha
detto lui.
«Certo» gli ho detto io, «che la
voglio sentire.»
«Una volta» mi ha detto lui,
«tanto tanto tempo fa, ma tanto,
eh?, forse mille anni fa, c’era una
bambina, che era figlia di un
carbonaio, un signore molto
povero, e della moglie del
carbonaio, che era una signora
buonissima che stava benissimo.
«Questa bambina, che si
chiamava Neraneve, non era tanto
buona, c’è da dire, e quando ha
avuto, quanti anni avrà avuto,
sedici anni, è scappata di casa.
«I suoi genitori erano molto
preoccupati e han no mandato a
cercarla un loro amico, che di
mestiere faceva il vegetariano, solo
che Neraneve se n’è accorta, che il
vegetariano la seguiva, e allora è
scappata nel fitto del bosco e
cammina cammina, in mezzo agli
animali, alle piante, a un bel
momento, nel bel mezzo del bosco,
in una specie di radura, si è
imbattuta in una casetta molto
signorile, una specie di villetta a
schiera, con dei gerani alle finestre,
molto pulita, molto ordinata, ed è
entrata, c’era una tavola, con sette
seggiole, e sette stanze da letto, e
sette bagni, e sette… non so cosa, e
lei, Neraneve, era così stanca, che
s’è buttata per terra, sopra un
tappeto, s’è messa a dormire.
«Era la casa, devi sapere, dei
sette giganti, che erano sette
giocatori di pallacanestro che si
chiamavano Dottone, Gongolone,
Eolone, Cucciolone, Brontolone,
Mammolone e Pisolone.
«In quel momento lì, i sette
giganti erano in palestra, a
lavorare, solo che dopo poi di sera
eran tornati avevan trovato
Neraneve che dormiva sul tappeto
l’avevan svegliata le avevano
chiesto che cosa faceva lì, e
Neraneve aveva detto che era
scappata di casa se la potevan
tenere con loro che la loro casa a
lei le piaceva moltissimo che, se
loro le permettevan di restare, lei
gliela metteva un po’ in disordine,
e loro ci avevan pensato un po’ e
poi avevano detto: “Massì, abbiam
proprio bisogno di un po’ di
disordine.”
«E dopo allora erano andati
avanti così per un po’, che loro
andavano a giocare a
pallacanestro e Neraneve restava a
casa in pigiama a fumare e a
mangiare delle merendine, delle
girelle, dei buondì, delle cose così,
mangiava un sacco di yogurt, una
volta era passata una vecchia, da
quelle parti, Neraneve le aveva
offerto uno yogurt, solo che lo
yogurt era scaduto la vecchia era
stata male era morta, allora
Neraneve l’aveva seppellita
nell’orto che aveva paura che
qualcuno le desse la colpa che non
era sicura, che era stata male per
lo yogurt, che secondo lei era stata
male così, perché era vecchia, che
va be’ che lo yogurt era scaduto,
però morire, per uno yogurt
scaduto, le sembrava un po’
troppo, però non si sa mai, l’aveva
seppellita sul retro della casa e poi
una volta, una mattina, Neraneve
davanti a casa aveva visto un
principe morto, dentro una tomba
di cristallo, l’aveva baciato il
principe era risuscitato le aveva
detto: “Che bello, sposiamoci, che
diventi la mia regina e viviamo
tutti felici e contenti!”, e Neraneve
ci aveva pensato poi aveva detto:
“Sai cosa? Io preferisco star qui a
mangiar degli yogurt”, e così
finisce la favola, ti piace?» mi
aveva detto il vecchio.
E io l’avevo guardato, avevo
scosso la testa avevo detto: «Eh.»
FAVOLA DI ROSA E DEI
DUE MARIOLINI

Questa è una favola che è successa


tanti anni fa, cioè non tantissimi,
sessanta. C’era una volta, sessanta
anni fa, un bambino che si
chiamava Mariolino, che era un
bambino che stava benissimo
aveva solo un problema.
Dovete sapere che sessant’anni
fa, i babbi, i papà, o come li
chiamate, i genitori, quelli maschi,
i padri, no?, be’, insomma, i babbi,
i papà, i genitori maschi, i padri,
sessant’anni fa, quando compivano
gli anni, che i bambini gli facevano
i regali, che glieli compravan le
mamme, però poi facevano
scrivere un biglietto e lo facevano
firmare ai bambini “Tanti auguri,
papà”, be’, sessant’anni fa, i regali,
ai babbi, si facevano praticamente
solo del-le cravatte, come regalo.
Tutti gli anni, una cravatta. E
allora, direte voi, che problema
c’è? In generale nessuno, vi
risponderò io, se non fosse che il
babbo di Mariolino non aveva il
collo.
Era uno di quei babbi, o di quei
papà, come li chiamate, o di quei
genitori, quelli maschi, o di quei
padri, no?, che non hanno il collo.
Ogni tanto succede, che uno vien
fuori senza collo.
Uno vien fuori molto alto, uno
vien fuori con le orecchie a
sventola, uno vien fuori prognatico
(che vuol dire con il mento in fuori,
che quando piove sembra che gli
piova in bocca), e uno vien fuori
senza collo. Allora Mariolino, lui
non diceva niente, però un po’ gli
dispiaceva, che il suo regalo, suo
babbo, o il suo papà, o suo padre
eccetera eccetera non l’usava mai.
Come faceva a usarlo, non aveva il
collo.
Allora sapete cosa ha fatto,
Mariolino, quando è diventato
grande?
Quando suo babbo compiva gli
anni, tutti gli anni, lui, Mariolino,
sapete cosa gli regalava, che lui
oramai era grande poteva decidere
lui che regali fare? Tutti gli anni gli
regalava un salame, che a suo
babbo gli piacevano moltissimo i
salami, ed erano tutti contenti,
compreso Mariolino, che anche da
grande stava benissimo aveva solo
un problema.
Che lui Mariolino, quando è
diventato grande, ha avuto una
figlia, che ha chiamato Rosa, e
Rosa, quando era piccola, a suo
babbo, che compiva gli anni, anche
lei gli faceva un regalo.
Dovete sapere che quarant’anni
fa, i babbi, i papà, o come li
chiamate, i genitori, quelli maschi,
i padri, no?, be’, i babbi, i papà, i
genitori maschi, i padri,
quarant’anni fa, quando
compivano gli anni, che i bambini
gli facevano i regali, che glieli
compravan le mamme, però poi
facevano scrivere un biglietto ai
bambini “Tanti auguri papà”, e lo
facevano firmare a lei a Rosa, be’
quarant’anni fa, i regali, ai babbi,
si facevano praticamente solo dei
dopobarba, come regalo. Tutti gli
anni, un dopobarba. E allora,
direte voi, che problema c’è? In
generale nessuno, vi risponderò io,
se non fosse che il babbo di Rosa,
Mariolino, si faceva crescere la
barba.
Era uno di quei babbi, o di quei
papà, come li chiamate, o di quei
genitori, quelli maschi, o di quei
padri, no?, che si fanno crescere la
barba. Ogni tanto, succede, che
vien fuori uno che si fa crescere la
barba. Uno vien fuori molto alto,
uno vien fuori con le orecchie a
sventola, uno vien fuori prognatico
(che, come sapete, vuol dire con il
mento in fuori, che quando piove
sembra che gli piova in bocca), uno
vien fuori senza collo, ogni tanto
vien fuori uno che si fa crescere la
barba.
Allora Rosa, lei non diceva
niente, però un po’ le dispiaceva,
che il suo regalo, suo babbo, o il
suo papà, o suo padre eccetera
eccetera non l’usava mai. Come
faceva a usarlo, se si faceva
crescere la barba? Allora sapete
cosa ha fatto, Rosa, quando è
diventata grande?
Quando suo babbo, Mariolino,
compiva gli anni, tutti gli anni, lei,
Rosa, sapete cosa gli regalava, che
lei oramai era grande poteva
decidere lei che regali fare? Tutti
gli anni gli regalava un salame,
che a suo babbo gli piacevano
moltissimo, i salami, ed erano tutti
contenti, compresa Rosa, che anche
da grande stava benissimo aveva
solo un problema.
Che lei, Rosa, quando è
diventata grande, ha avuto un
figlio, che ha chiamato Mariolino, e
Mariolino, quando era piccolo, a
sua mamma, che compiva gli anni,
anche lui le faceva un regalo.
Dovete sapere che vent’anni fa,
le mamme, le mammine, o come le
chiamate, i genitori, quelli
femmina, le madri, no?, be’, le
mamme, le mammine, i genitori
femmina, le madri, vent’anni fa,
quando compivano gli anni, che i
bambini gli facevano i regali, che
glieli compravan i babbi, però poi
facevano scrivere un biglietto ai
bambini “Tanti auguri mamma”, e
lo facevano firmare a lui, al
bambino, be’, vent’anni fa, i regali,
alle mamme, si facevano
praticamente solo delle rose. Tutti
gli anni, un mazzo di rose. E allora,
direte voi, che problema c’è? In
generale nessuno, vi risponderò io,
tanto più che a Rosa piacevano
moltissimo, i mazzi di rose. Solo
che Mariolino, non era sicuro che
andasse bene, regalare delle rose a
una che si chiamava Rosa.
Allora, una notte, quando aveva
nove anni, si era messo lì sotto le
coperte aveva evocato lo spirito dei
regali di compleanno gli aveva
detto: «Spirito spirito dei regali di
compleanno, ho bisogno ho
bisogno di te, vieni vieni per
favore, se hai tempo, grazie.» E lo
spirito si era presentato, lì sotto le
lenzuola, con la sua bella divisa da
spirito, rossa, dovete sapere che
vent’anni fa gli spiriti si vestivano
di rosso, velluto rosso, bruttissimo,
secondo me, ma allora, era la
moda, si era presentato e gli aveva
detto: «O Mariolino, Mariolino, mi
hai evocato evocato, qual è il tuo
problema problema?»

E Mariolino gli aveva spiegato


che lui si sentiva un po’ a disagio, a
regalare delle rose a Rosa.
E lo spirito gli aveva detto: «O
Mariolino, Mariolino, regalale dei
gerani gerani.»
E allora l’anno dopo Mariolino
aveva fatto così, aveva parlato con
suo babbo le avevano regalato dei
gerani. Solo che a Rosa, i gerani,
non eran mica piaciuti tanto.
Allora, una notte, quando aveva
dieci anni, Mariolino si era messo lì
sotto le coperte aveva evocato lo
spirito dei regali di compleanno gli
aveva detto: «Spirito spirito dei
regali di compleanno, ho bisogno
ho bisogno di te, vieni vieni per
favore, se hai tempo, grazie.» E lo
spirito si era presentato, lì sotto le
lenzuola, con la sua bella divisa da
spirito, rossa, dovete sapere che
diciannove anni fa gli spiriti si
vestivano di rosso, velluto rosso,
bruttissimo, secondo me, ma allora,
era la moda, si era presentato e gli
aveva detto: «O Mariolino
Mariolino, mi hai evocato evocato,
qual è il tuo problema problema?»
E Mariolino gli aveva spiegato
che, come lo spirito gli aveva
consigliato, invece che delle rose
lui aveva regalato a Rosa dei
gerani, ma a Rosa i gerani non
erano piaciuti tanto.

E lo spirito gli aveva detto: «O


Mariolino, Mariolino, regalale
delle padelle padelle.»
E allora l’anno dopo Mariolino
aveva fatto così, aveva parlato con
suo babbo le avevano regalato
delle padelle. Solo che a Rosa, le
padelle, non eran mica piaciute
tanto.
Allora, una notte, quando aveva
undici anni, Mariolino si era messo
lì sotto le coperte aveva evocato lo
spirito dei regali di compleanno gli
aveva detto: «Spirito spirito dei
regali di compleanno, ho bisogno
ho bisogno di te, vieni vieni per
favore, se hai tempo, grazie.» E lo
spirito si era presentato, lì sotto le
lenzuola, con la sua bella divisa da
spirito, blu, dovete sapere che
diciotto anni fa gli spiriti si
vestivano di blu, velluto blu, non
tanto bello, secondo me, ma allora,
era la moda, si era presentato e gli
aveva detto: «O Mariolino
Mariolino, mi hai evocato evocato,
qual è il tuo problema problema?»
E Mariolino gli aveva spiegato
che, come lo spirito gli aveva
consigliato, invece che dei gerani
lui aveva regalato a Rosa delle
padelle, ma a Rosa le padelle non
erano piaciute tanto.
E lo spirito gli aveva detto: «O
Mariolino, Mariolino, regalale dei
profumi profumi.»
E allora l’anno dopo Mariolino
aveva fatto così, aveva parlato con
suo babbo le avevano regalato un
profumo. Solo che a Rosa, i
profumi, non eran mica piaciuti
tanto.
Allora, una notte, quando aveva
dodici anni, Mariolino si era messo
lì sotto le coperte aveva evocato lo
spirito dei regali di compleanno gli
aveva detto: «Spirito spirito dei
regali di compleanno, ho bisogno
ho bisogno di te, vieni vieni per
favore, se hai tempo, grazie.» E lo
spirito si era presentato, lì sotto le
lenzuola, con la sua bella divisa da
spirito, blu, dovete sapere che
diciassette anni fa gli spiriti si
vestivano di blu, velluto blu, non
tanto bello, secondo me, ma allora,
era la moda, si era presentato e gli
aveva detto: «O Mariolino
Mariolino, mi hai evocato evocato,
qual è il tuo problema problema?»
E Mariolino gli aveva spiegato
che, come lo spirito gli aveva
consigliato, invece che delle
padelle lui aveva regalato a Rosa
dei profumi, ma a Rosa i profumi
non erano piaciuti tanto.
E lo spirito gli aveva detto: «O
Mariolino, Mariolino, regalale
delle rose rose.» E Mariolino aveva
guardato lo spirito gli aveva detto:
«O spirito spirito, mi prendi in
giro?» E lo spirito aveva guardato
Mariolino gli aveva risposto: «O
Mariolino Mariolino, no.»
E allora l’anno dopo Mariolino
aveva fatto così, aveva parlato con
suo babbo le avevano regalato, a
Rosa, un mazzo di rose. E a Rosa,
le rose, eran piaciute moltissimo. E
dopo basta.
FAVOLA DI VALERIO E
DEL SUO BIS-BIS-
BISNONNO

C’era una volta, tanto tempo fa,


cioè non tantissimo, trent’anni fa,
un bambino che si chiamava
Valerio, che fin da piccolo lui
pensava che quando era grande, di
mestiere avrebbe fatto l’architetto e
avrebbe costruito una città dove
non ci sarebbe stata neanche una
strada.
Non si sa perché gli era venuta
in mente questa cosa.
Suo babbo, di Valerio, che si
chiamava Alessio, una volta aveva
fatto un incidente in macchina che
si era spaccato tutte e due le
gambe. Perché suo babbo, di
Valerio, di mestiere vendeva i
formaggi, e andava sempre in giro
con un furgoncino azzurro a
vendere i formaggi su tutte le
strade della provincia.

Allora c’è chi dice che l’idea di


Valerio, viene da quell’incidente lì
che ha fatto suo babbo. Quelli che
dicon così, dicon che non è che
Valerio aveva preso paura che suo
babbo moriva, Valerio era
piccolissimo, quando suo babbo
aveva fatto l’incidente, non si
ricordava neanche, solo che il
fatto, dicono, è che dopo che aveva
fatto l’incidente, per un po’ di
tempo, il babbo di Valerio non
aveva potuto guidare, e dicono che
la famiglia di Valerio, quel periodo
lì, avevano proprio dei problemi a
mettere insieme il pranzo con la
cena, cioè gli andava male, cioè
che non avevano soldi, dicono.
E allora, dicono, quando Valerio
è diventato ap-pena un po’ più
grande che ha saputo questa cosa,
gli è venuto da pensare che un
incidente stradale, in un attimo,
può rovinare tutta una famiglia, e
allora per quello, a Valerio gli è
venuto in mente che sarebbe
meglio che le città non avessero
strade, dicono.
Io, però, non ci credo.
Perché la mamma di Valerio, che
di nome si chiamava Anita, di
cognome si chiamava Garibaldi, e
era una discendente di quei
Garibaldi che sono una della
famiglie più ricche d’Italia, una
stirpe fondata, tanti e tanti anni
fa, dal capostipite, Ferito, Ferito
Garibaldi, che, insieme a Firmato
Diaz, è stato uno dei padri della
nostra nazione e, per questo, è
stato ricompensato e, fin da allora,
il nostro governo, tutti i mesi, gli
han dato un sacco di soldi che così i
suoi discendenti, tra i quali anche
Anita, la mamma di Valerio, non
hanno mai avuto nessun problema
di mettere insieme il pranzo con la
cena anche nel caso, difficile, certo,
ma che può succedere, che il
capofamiglia si spacchi tutte e due
le gambe e anche se, mettiamo il
caso, fa un mestiere che vende i
formaggi con un furgoncino
azzurro in tutta la provincia e
essendosi spaccato le gambe non
può magari andare a lavorare per
dei mesi, che son casi rari, ma
posson succedere, e al babbo di
Valerio eran successi, però la cosa
non era drammatica, perché la
mamma di Valerio, Anita, primo,
aveva un sacco di soldi, come
abbiam detto, secondo, se anche i
soldi finivano, lei aveva ancora, in
dei magazzini che avevano la sua
famiglia su a Ronco Bilaccio, un
sacco di memorie, ma non di
ricordi, di memorie nel senso di
cose, tipo dei vestiti, degli stivali
vecchi, che voi direte: “E allora? Se
anche aveva degli stivali vecchi
cosa vuol dire, non poteva mica
comprar da mangiare con degli
stivali vecchi” direte voi.
“Eh, no, cari” vi dirò io. Se
fossero stati i miei, di stivali vecchi,
o i vostri, non si può mica far da
mangiare con gli stivali vecchi miei
o vostri, ma siccome erano gli
stivali vecchi della famiglia
Garibaldi, che magari erano
appartenuti proprio a Ferito
Garibaldi, bastava che Anita
telefonava a un qualsiasi museo, la
riempivano di euro dalla testa ai
piedi, per un cimelio della famiglia
Garibaldi, cimelio vuol dire quella
cosa lì, roba vecchia di una
persona famosa, cioè che quando
uno diventa famoso, sembra,
diventa importante anche la sua
bolletta della luce, anche i suoi
calzini; uno che diventa famoso,
ma non subito, dopo un po’, dopo
che è morto, può vendere tutto,
può vendere tutto quello che vuole
che lo riempiono di euro dalla testa
ai piedi, uno che è molto famoso.
Voi direte: “E come fa a vendere
tutto se è morto?”
E io vi risponderò: “Avete
ragione.”
Difatti non era mica Ferito, che
vendeva le sue cose, era Anita, che
poi non le vendeva, perché,
secondo me, aveva tanti di quei
soldi che non aveva problemi a
mettere insieme il pranzo con la
cena per degli anni, non solo per i
pochi mesi che suo marito Alessio,
il babbo di Valerio, non poteva
lavorare perché si era spaccato
tutte e due le gambe e non poteva
guidare il furgoncino azzurro che
usava di solito per vendere i
formaggi in tutta la provincia.
Quindi, in conclusione, il motivo
per cui a Valerio gli è venuta in
mente, fin da quando era piccolo,
di fare una città senza neanche una
strada, di preciso noi non lo
sappiamo.
Però sappiamo che gli è venuto
in mente, e che la città doveva
esser fatta tutta di piazze, una
piazza con dentro una piazza con
dentro una piazza con dentro una
piazza con dentro una piazza con
dentro una piazza, e la piazza
centrale, la piazza principale, non
sarebbe stata la piazza più grande,
come succedeva di solito con le
città che costruivano quando
Valerio era piccolo, che la piazza
principale si chiamava delle volte
piazza Maggiore, come a Bologna,
o piazza Grande, come a Livorno,
no, nel progetto di Valerio la
piazza principale sarebbe stata la
più piccola, e si sarebbe chiamata
piazza Minore, o piazza Piccola, e
la gente non sarebbe andata in
macchina, nessuno avrebbe avuto
la macchina, avrebbero avuto delle
biciclette, o dei pattini a rotelle, o
sarebbero andati in autobus, che
però sarebbero stati autobus strani,
come delle funivie, e anche le piste
ciclabili, o pattinabili, sarebbero
state soprelevate, la gente che si
spostava si sarebbe spostata tutta
nel cielo, e quelli che stavano per
terra avrebbero tutti camminato,
“Perché la terra è fatta per
camminare” avrebbe detto Valerio,
che chissà come mai gli era venuta
in mente una cosa del genere.
Alcuni dicono che gli era venuto
in mente perché era stanco di
vedere dei monumenti del suo bis-
bisnonno Garibaldi, non Ferito, il
figlio di Ferito, Giuseppe, che era
uno che di mestiere faceva l’eroe e
che anche a lui il governo italiano
gli aveva dato un sacco di soldi e
gli aveva anche dedicato una
marea di monumenti, e in quasi
tutti questi monumenti Garibaldi
era a cavallo, non era mai a piedi,
e c’era un museo, il museo della
città di Modena, che come cimelio
dei Garibaldi, tutti i musei
dovevano avere almeno un cimelio
della famiglia Garibaldi, co- me
cimelio dei Garibaldi, il museo
della città di Modena aveva la
pelle del cavallo di Giuseppe
Garibaldi, avevan conservato la
pelle del cavallo di Giuseppe
Garibaldi che era una cosa, dicono,
che a Valerio gli faceva un po’
schifo, e allora dicono che lui
aveva deciso che nella sua città,
niente cavalli, solo funivie,
biciclette, pattini e piedi.

Oh, queste cose le dicono, ma


son delle ipotesi, non si sa di
sicuro, l’unica cosa sicura è che
Valerio, fin da quando era piccolo,
voleva fare l’architetto per
costruire una città senza strade.
Adesso voi mi chiederete: “Ce
l’ha fatta a far l’architetto?”
E io vi risponderò: “Sì.”
E dopo voi mi chiederete: “E ce
l’ha fatta a costruire la città senza
strade?”
E io vi risponderò: “No.”
E dopo voi mi chiederete: “E
perché?”
E io vi risponderò: “Non lo so.”
Che io, lui, non che lo conosca
bene, però un po’ lo conosco, e una
volta, qualche anno fa, in un bar di
Casalecchio di Reno, a me mi
interessava questa faccenda della
città fatta tutta di piazze e senza
neanche una strada, mi sembrava
una bellissima idea e allora una
volta gli sono andato vicino gli ho
detto: «Ascolta Valerio, ma quella
città senza strade, tutta fatta di una
piazza dentro una piazza dentro
una piazza dentro una piazza, con
la piazza centrale che si doveva
chiamare piazza Minore, ma quella
città lì» gli ho chiesto, «che fine ha
fatto?»
E lui ha cominciato tutto un
discorso complicato, di putrelle, di
calcestruzzo, di fogne, di piloni, di
autorizzazioni, di piani regolatori
che io, devo dir la verità, non ho
capito niente.
Tutto un discorso lunghis-simo
che io alla fine gli ho detto: «Ah,
grazie» che però, veramente, non è
che avessi tanto da ringraziarlo,
non si capiva niente.
Però, insomma, avevo preferito
non indagare e ho fatto bene,
secondo me, perché poi mi hanno
detto, adesso non sono sicuro, ma
mi han detto che a Valerio, questi
ultimi anni, di sera, lo va sempre a
trovare, lì in una villetta a San
Lazzaro che ci è andato a abitare
da qualche anno, lo va sempre a
trovare lo spirito di suo bis-bis-
bisnonno Ferito.
Entra nella sua villetta, a cavallo
del suo cavallo senza pelle, che la
pelle del cavallo di Ferito ce l’ha il
museo della città di Verona, scende
dal cavallo, si avvicina lentamente
alla porta (cammina scalzo, che i
suoi stivali ce li hanno, quello
destro al museo della città di Lecco,
quello sinistro al museo della città
di Crema), suona il campanello,
Valerio gli va ad aprire e gli dice,
tutte le sere: «Ah, nonno, sei te,
accomodati che ti faccio il caffè.»
E Ferito, tutte le sere si
accomoda, e Valerio gli fa il caffè e
poi Ferito tutte le sere gli chiede,
dicono, a Valerio: «Perché non hai
fatto la città senza strade?»

E Valerio dicono che tutte le sere


comincia un discorso lunghissimo
sulle putrelle, sul calcestruzzo, sulle
fogne, sui piloni, sulle
autorizzazioni, sui piani regolatori
che Ferito, che è nato duecento
anni fa, cosa vuoi che capisca, di
quei discorsi lì?
Infatti, dicono, io non lo so di
sicuro, ma dicono che, tutte le sere,
Ferito, dopo che ha sentito la
risposta di Valerio, scuote la testa,
dice: «Grazie per il caffè» e si alza,
si incammina sui suoi piedi nudi,
arriva, lentamente, alla porta,
esce, arriva, lentamente, al suo
cavallo, monta a cavallo, si volta e
va via.
Ma si vede che, con gli anni, a
Ferito gli è andata via la memoria,
perché la sera dopo, dicono, è
ancora lì, scalzo, che entra nella
villetta sul suo cavallo senza pelle,
scende da cavallo, entra, beve il
caffè e, dopo aver bevuto il caffè,
chiede a Valerio: «Come mai non
hai fatto la tua città senza strade?»
Valerio, dicono che la sera dopo
comincia un discorso lunghissimo
sulle putrelle, sul calcestruzzo, sulle
fogne, sui piloni, sulle
autorizzazioni, sui piani regolatori
che Ferito, che è nato duecento
anni fa, cosa vuoi che capisca, di
quei discorsi lì?
Infatti, dicono, io non lo so di
sicuro, ma dicono che, la sera
dopo, Ferito, dopo che ha sentito la
risposta di Valerio, scuote la testa,
dice: «Grazie per il caffè» e si alza;
si incammina sui suoi piedi nudi,
arriva, lentamente, alla porta,
esce, arriva, lentamente, al suo
cavallo senza pelle, monta a
cavallo, si volta e va via.
Ma si vede che, con gli anni, a
Ferito gli è andata via la memoria,
perché la sera dopo, dicono, è
ancora lì, scalzo, che entra nella
villetta sul suo cavallo senza pelle,
scende da cavallo, entra, beve il
caffè e, dopo aver bevuto il caffè,
chiede a Valerio: «Come mai non
hai fatto la tua città senza strade?»
E così tutte le sere.
Che, per Valerio, non deve mica
esser bello, sentirsi ripetere dallo
spirito del suo bis-bis-bisnonno
tutte le sere la stessa domanda.
Dev’essere proprio un po’ una
tortura. Ma non era meglio se
faceva la sua città senza strade?
FAVOLA DI AURELIO

Tanto tempo fa, non tantissimo,


tipo quarant’anni fa, un bambino
che si chiamava Aurelio aveva visto
sua mamma che scolava la pasta.
La mamma di Aurelio si chiamava
Renata, e forse non era la prima
volta che Aurelio la vedeva scolare
la pasta, ma era la prima volta che
ci faceva caso. Anzi, più che far
caso a sua mamma, Aurelio aveva
fatto caso allo scolapasta. Lo
scolapasta, la prima volta che
l’aveva visto davvero, a Aurelio era
sembrato uno strumento
incredibile. Cos’era, alla fin fine?
Era una specie di tazza con dei
buchi. “Ma chi è che ha inventato
una cosa del genere?” si era chiesto
Aurelio. Quello che l’aveva
inventata, oltretutto, doveva
averla inventata migliaia e
migliaia di anni prima. “E noi”
pensava Aurelio, “adesso, la
usiamo ancora.” Che era una cosa
che non pensava adesso, la
pensava tanto tempo fa. Cioè,
tanto tempo fa, non tantissimo.
Tipo quarant’anni fa. Dopo, il
giorno dopo, Aurelio, quando era
andato a fare la doccia, aveva
pensato che, in un certo senso,
anche la doccia, a pensarci, era
una specie di scolapasta. Cioè il
box della doccia era una specie di
tazza, e sotto c’era un buco che
permetteva all’acqua di scorrere
senza far passare quello che faceva
la doccia, che in quel momento era
lui, Aurelio, che quindi, se il box
della doccia era una tazza, e il buco
di scarico era un buco da
scolapasta, lui, Aurelio, era un po’
la pasta. Anche se non lo mangiava
nessuno ma il principio era quello
lì. L’acqua calda che andava
dall’alto in basso e dei buchi di una
dimensione che non ci passi
qualcosa, che fosse poi la pasta o
Aurelio non era poi tanto
importante. L’importante era il
principio, non so come dire, di
ingegneria: acqua, buco, e in
mezzo una cosa che non può
passare dal buco. Quel pomeriggio,
Aurelio era uscito per strada per
giocare coi suoi amici. Era un
periodo, quello, tanto tempo fa,
cioè, non tantissimo, quarant’anni
fa, che i bambini uscivano per
strada, da soli, al pomeriggio, a
giocare con gli amici. Anche i
bambini, come Aurelio, di otto
anni, aveva otto anni, Aurelio. Non
c’erano, allora, tante macchine
come adesso, e si poteva girare
tranquilli, per il quartiere, a
litigare un po’ con quelli degli altri
quartieri, e a fare arrabbiare i
portieri, nel senso dei portieri delle
case; nel quartiere di Aurelio, quasi
tutte le case avevano un portiere, e
il mestiere principale di questi
portieri sembrava che fosse bucare
il pallone dei bambini che
giocavano a pallone prima che si
potesse, cioè dopo pranzo, che era
un momento che secondo i portieri
la gente dormiva. Che allora,
quarant’anni fa, in Italia, c’era
questa abitudine, che adesso c’è un
po’ meno, in Italia, sembra che sia
rimasta in Messico, di andare a
dormire dopo pranzo, e allora il
portiere, se sentiva che Aurelio e i
suoi amici giocavano a pallone in
cortile, usciva sul balcone e
cominciava a gridare di smetterla.
Che Aurelio tutte le volte gli
diceva: «La smetta anche lei di
gridare, però.» Solo che lo diceva
piano, e il portiere, da sopra il
balcone, non sentiva. E non
rispondeva. Stava lì a guardarli che
smettessero di giocare a pallone,
tutte le volte che cominciavano a
giocare. Certi pomeriggi, però, non
giocavano, per esempio quando
pioveva, e quel pomeriggio aveva
proprio cominciato a piovere, a un
certo punto, e aveva piovuto
fortissimo, e Aurelio aveva visto
per la prima volta un tombino.
Cioè, ne aveva già visti anche
prima, di tombini, ma non aveva
mai pensato che anche il tombino,
in un certo senso, funzionava con
lo stesso principio dello scolapasta.
Cioè l’acqua veniva da sopra, e
sotto c’eran dei buchi che facevan
passare solo le cose più piccole.
“Pensa” aveva pensato Aurelio, “se
i buchi dei tombini fossero più
grandi dei bambini, pensa.” Allora,
quel giorno lì, quando poi era
andato a letto, lui aveva pensato
che lui, nella sua vita, avrebbe
voluto costruire degli scolapasta.
Mettere su proprio un piccolo
laboratorio dove si facevano solo
scolapasta. Dopo, poi, quando era
diventato grande, non l’aveva poi
fatto. Aveva fatto il dottore. Aveva
uno studio, a Casalecchio di Reno,
vicino a Bologna, dove curava la
gente. Una volta, un paio di anni
fa, gli si era presentato un nuovo
cliente, un signore che avrà avuto
ottant’anni e che si era appena
trasferito a Casalecchio di Reno. A
Aurelio era sembrato di
riconoscere, in quel signore che era
venuto a farsi ordinare delle
punture di penicillina, il portiere
che gli gridava di non fare rumore
che la gente dormiva, tanti anni
prima. Insomma tanti,
quarant’anni prima. Avrebbe
voluto dirgli qualcosa, non so, “Si
ricorda di me?”, ma non gli aveva
poi detto niente, e quella notte, vai
a sapere perché, aveva sognato il
dio degli scolapasta, che era un
signore azzurro a forma di enorme
tazza di plastica con due piedini e
due manine minuscole, pieno di
buchi grandissimi dai quali
venivano fuori tutti i bambini che
c’erano al mondo.
Però non era un incubo, era un
bel sogno, perché il dio degli
scolapasta, come buona parte degli
dei, stava in cielo, e i bambini che
venivano fuori si fermavan per
terra perché non passavano dai
buchi dei tombini. “Meno male che
ci sono i buchi dei tombini” aveva
pensato Aurelio quella notte lì.
FAVOLA DELLA DORMITA

C’era una volta una bambina che si


chiamava Agnese che abitava in
una casa un po’ vecchia, dove
c’erano ancora i corridoi.
Dovete sapere, se non lo sapete,
forse lo sapete, ma se non lo sapete
dovete sapere, anzi, no, mi
correggo, se non lo sapete forse vi
interesserà sapere che nelle case
vecchie c’erano dei corridoi, c’era
praticamente almeno un corridoio
in ogni casa, che teneva tutta la
casa per il lungo.
Invece nelle case nuove, nelle
case dove probabilmente anche voi
state abitando in questo momento,
i corridoi li han tolti.
Chissà dove li han messi. Forse
c’è un deposito, da qualche parte,
fuori città, che ci son solo dei gran
corridoi.
Se quando andate in giro, con
vostra mamma, o con vostro papà,
con la sua macchina, oppure anche
in autobus, oppure in corriera,
oppure, non so, in bicicletta, o in
treno, o anche in moto, o come
volete, anche coi pattini, insomma,
non lo so, come volete voi, se
quando andate in giro vedete, ai
bordi della strada, un gran
capannone, ma grande,
grandissimo, che sopra non c’è
scritto niente, o magari c’è scritta
una cosa ma così, a pennarello,
tipo SALSICCE, ma a pennarello,
oppure PIZZA, o, ancora meglio,
PIZZA COI WURSTEL, che un
capannone così grande, anzi,
grandissimo, pieno di pizza coi
wurstel è proprio una cosa
inverosimile, che per mangiarle
tutte, quelle pizze coi wurstel lì, già
la pizza coi wurstel non la
chiedono tutti, solo certi bambini,
per esempio Agnese era la sua
pizza preferita, ma per mangiarle
tutte, un capannone così pieno di
pizze coi wurstel ci vorrebbe che
tutti i bambini d’Italia che vanno a
mangiare la pizza ordinassero la
pizza coi wurstel almeno per un
mese e mezzo e non solo, ci
vorrebbe anche che tutti i pizzaioli
si servissero della pizza in quel
deposito lì che avete visto voi con
sopra scritto PIZZA COI WURSTEL
ma col pennarello.

Che voi potreste pensare: “Be’,


un mese e mezzo, in fin dei conti,
non è tanto”, e io potrei esser
d’accordo, certo, un mese e mezzo,
in fin dei conti, non è tanto, solo
che le pizze, in un mese e mezzo,
vanno a male. Non so se volete
mangiare delle pizze andate a
male. Secondo me, non vi
conviene, ma non era di questo che
stavamo parlando, di cosa stavamo
parlando?
Mi son scordato.
Mi dispiace, ho dormito un po’
poco, allora delle volte, quando
dormo poco io mi succede che mi
vengono queste amnesie, amnesia
è proprio un po’ una malattia che
uno inizia a parlare di una cosa e
poi non si ricorda più, queste sono
amnesie in forma leggera, poi ci
sono anche delle amnesie in forma
pesante che certi non si ricordano
neanche il suo nome.
Che quelli lì, pensate se voi,
adesso non dico in forma
gravissima, che non vi ricordate il
vostro nome, ma pensate se
uscendo da casa per andare a
scuola, voi, mettiamo che è
nevicato, il giorno prima, e
mettiamo che quel giorno lì non
nevica ma è tutto ghiacciato, e
mettiamo che scivolate e battete la
testa, non vi fate male, battete
piano, non c’è neanche il segno, c’è
solo una ripercussione, dentro la
testa, ma piccola, le ripercussioni
son cose, son come dei lividi, ma
piccoli, c’è solo una ripercussione
che determina un’amnesia di
gravità media che vi fa
dimenticare, adesso non so, per
esempio, tutto quello che avete
studiato di matematica dall’inizio
dell’anno fino a quel giorno lì, che
dopo il vostro Maestro vi dice,
adesso io non so come vi chiamate
voi che state leggendo questa
favola, ma mettiamo che vi
chiamate Mariella, “Allora” dice il
Maestro, “ripassiamo la tabellina
dell’undici. Undici per zero? Pino!”
E Pino, che è un vostro compagno
di classe dice: “Zero!” “Bravo
Pino!” dice il Maestro, poi dice:
“Undici per uno? Mattia” (che è
anche lui un vostro compagno di
classe), “Undici!” risponde Mattia,
“Bravo!” dice il maestro, e poi dice:
“Undici per due? Anna!” E Anna,
che non stava ascoltando perché
stava attaccando dei patacchini sul
quaderno, non dice niente, e il
Maestro dice: “Anna!” E Anna alza
la testa e dice: “Eh?” “Undici per
due?” chiede il Maestro, “Be’” dice
Anna, “ventidue” e lo dice con un
tono come per dire “Guarda te se
devo avere un maestro che non sa
neanche cosa fa undici per due” e
poi si rimette a attaccare i suoi
patacchini, che sono degli adesivi,
a Casalecchio di Reno gli adesivi li
chiamiam patacchini, non so voi
come li chiamate, forse adesivi, e il
Maestro, che è tutto impegnato
nella sua attività educativa e non
capisce il tono di Anna, invece di
offendersi dice: “Ma siete
bravissimi! Andiamo pure avanti”
dice, e poi: “Undici per tre?” e poi
dice: “Mariella!” e voi, avete la
ripercussione, dentro la testa, e
non avete idea di cosa stanno
parlando, non sapete cos’è l’undici,
cos’è il tre, cosa fate? Potreste
inventare un numero a caso, ma
non ne sapete, di numeri a caso,
siete proprio in una brutta
situazione che, se ci pensate, vi
rendete conto di come sto io che
non mi ricordo la favola che stavo
raccontando, che favola stavo
raccontando?
Forse è meglio se faccio una
dormita.
Faccio una dormita di cinque
secondi, e questa favola la finiamo
qui, eh?
Chiamiamola la favola della
dormita, ma una dormitina piccola,
cinque secondi mi bastano, basta
che non fate rumore, ce la fate a
non fare rumore per cinque
secondi? Grazie. Allora io dormo,
eh? Buonanotte.
FAVOLA DI AGNESE

Buongiorno. Buongiorno. Grazie.


Voi potreste chiedermi: “Grazie,
di cosa?”
“Eh, grazie che non avete fatto
rumore” potrei rispondervi io.
Cioè mi sembra, che non abbiate
fatto rumore, non son sicurissimo.
Dormivo. Come faccio a sapere che
non avete fatto rumore? Ho
dormito molto? Che ore sono?
Dieci secondi?
Accidenti, ho dormito molto.
Di solito cinque secondi mi
bastano.
Ero proprio stanco. Il fatto che
ieri proprio non avevo dormito.
Devo avere mangiato qualcosa che
mi ha fatto male, ieri. Che voi
potreste pensare “Hai mangiato
una pizza?” “Sì, ho mangiato una
pizza.” “Una pizza coi wurstel?”
potreste chiedermi. “No, una pizza
con le acciughe.” “Ah” potreste dire
voi, “strano.” “Eh” potrei dire io,
“infatti. Se la mangiavo coi
wurstel, magari era anche normale
che non dormivo, ma con le
acciughe.” Comunque, adesso ho
fatto una bella dormita mi ricordo
tutto, la tabellina dell’undici, le
ripercussioni, la caduta, il ghiaccio,
le pizze coi wurstel, i capannoni, le
scritte col pennarello, i corridoi e
Agnese, che si cominciava da
Agnese che era una bambina che
abitava in una casa un po’ vecchia
dove c’era un gran corridoio dove,
nel corridoio, c’era il telefono, che
il telefono, quello dei genitori di
Agnese, non era un telefono come
quello che avete anche voi che non
ha i fili, ammesso che voi abbiate
dei telefoni senza fili, che si può
girare, camminare per tutta la casa
e, contemporaneamente, parlare al
telefono, no, era un telefono
vecchio, grigio, coi fili, che non
potevi girare, dovevi star lì, fermo,
intanto che parlavi, in piedi, nel
corridoio, non ti potevi sdraiar sul
divano a telefonare, come potete
fare voi e anche i vostri genitori
dentro le vostre case senza
corridoio nei vostri telefoni senza
fili, no, dovevi star lì, in piedi, nel
corridoio, difatti le telefonate,
allora, quando tutti in casa
avevano quel telefono lì, eran più
corte, ce n’eran di meno ed eran
più corte, e se uno telefonava, non
poteva andare in un posto a
telefonare che non lo sentiva
nessuno, non so, in bagno per
esempio, o in balcone, no, dovevi
star lì a telefonare in corridoio che
ti sentivano tutti e una volta,
Agnese, aveva sentito suo babbo
che, intanto che telefonava, diceva
che lui, l’unico posto dove riusciva
a pensare era il bagno, e allora
Agnese, che secondo lei suo babbo
su molte cose aveva ragione, per
esempio era il più bravo a fare il
pollo arrosto, e le patatine fritte,
che il babbo di Agnese, Agnese
forse allora ancora non lo sapeva,
ma il babbo di Agnese il pollo
arrosto e le patatine fritte le
comprava alla Coop di via Andrea
Costa, a Bologna, dove ogni tanto
li compero anch’io ma questo non è
importante.
Quello che invece è importante,
secondo me, cioè non secondo me,
per la favola, la cosa che è
veramente importante è il fatto che
Agnese, da quel momento lì, ha
pensato che anche lei, il posto dove
pensava meglio era il bagno, e da
quel momento lì, tutte le volte che
sua mamma le diceva, non so, per
esempio: «Che film vuoi che
vediamo, stasera, Dragon Trainer o
Tintin?» «Mmm» diceva Agnese,
«adesso ci penso.»
«Dove vai?» le chiedeva dopo sua
mamma.
«Devo andare in bagno» diceva
lei, e andava in bagno e si metteva
sulla tazza e cominciava a pensare
oppure, come nel caso della scelta
tra Dragon Trainer e Tintin, faceva
Ambarabà cicì cocò.
Quello lì era stato un periodo che
Agnese andava in bagno anche
quindici-venti volte al giorno, tanto
che sua mamma si era molto
preoccupata, e l’aveva portata a
far degli esami, adesso non so
come si chiamano, quegli esami che
vi ci portano le mamme se andate
troppo in bagno, sandro qualcosa,
o forse in un altro modo, ma non è
una cosa importante, per questa
favola, la cosa importante è che
Agnese, in quel periodo lì, era un
periodo che doveva compiere gli
anni, cinque anni, e i suoi genitori,
a cavallo dei cinque anni, avevano
molto insistito perché Agnese
cominciasse a dormire da sola,
nella sua cameretta, dormiva
ancora con suoi genitori, Agnese,
anche se aveva quasi cinque anni,
e Agnese, pian piano, c’era
riuscita, riusciva perfino ad
addormentarsi, da sola, e, forse per
premiarla, ma forse anche no, a un
certo punto, qualche giorno prima
del suo quinto compleanno suo
babbo le aveva chiesto, ad Agnese:
«Agnese, che regalo vuoi per il tuo
compleanno?» e Agnese aveva
risposto: «Mmm, ci devo pensare» e
poi il babbo aveva detto: «Dove
vai?» e lei aveva detto: «Devo
andare in bagno.»
Quella volta lì, Agnese era stata
in bagno moltissimo tempo.
La mamma di Agnese, quella
volta lì, non era in casa, era
andata a una riunione di mamme,
in casa c’era solo il babbo, e il
babbo non si era preoccupato,
dell’assenza prolungata di Agnese,
un po’ perché Agnese era stata dal
dottore, aveva fatto tutti gli esami
era risultata sana su dei valori
medi, per quel che riguarda quella
malattia lì del sandro qualcosa, un
po’ perché il babbo, di Agnese,
rispetto alla mamma, era uno che
si preoccupava meno e un po’
anche perché il bagno, anche per
lui, era un posto che a lui gli
piaceva starci moltissimo tempo, il
bagno, aveva l’impressione che era
l’unico posto che si riusciva a
pensare, in bagno.
Comunque non è una cosa
importante, chi si era preoccupato
chi non si era preoccupato, almeno
a me non sembra una cosa
importante, la cosa che mi sembra
importante è il fatto che Agnese,
quella volta lì, in bagno, c’è stata
un sacco di tempo, e anche se era
in bagno, proprio seduta sulla
tazza del bagno, non le era venuto
in mente, cosa voleva per il suo
compleanno, aveva anche provato
a fare Ambarabà cicì cocò, solo che
alla fine, era uscito Dragon
Trainer, ma lei, Dragon Trainer, ce
l’aveva già, non poteva chiedere
Dragon Trainer per il suo
compleanno, non poteva, e allora,
quando aveva sentito che era
arrivata la mamma, eran già quasi
le sette di sera, e la mamma aveva
chiesto, da dietro il vetro della
porta del bagno: «Dov’è Agnese?» e
il babbo aveva risposto: «È in
bagno» e la mamma aveva detto:
«Ancora?», lei si era sentita
costretta, in un certo senso, a
uscire, dal bagno, e, una volta
uscita, dopo aver tirato giù l’acqua
(per confondere un po’, appunto,
le acque), aveva salutato la
mamma, era andata dal babbo
l’aveva guardato negli occhi gli
aveva detto: «Devi decidere tu.»
«Cosa?» aveva detto il babbo.
«Il regalo del mio compleanno»
aveva detto Agnese.
«Ah» aveva detto il babbo.
Che poi, la settimana dopo,
quando era stato il compleanno di
Agnese, sapete cosa le aveva
regalato, suo babbo?
Uno pterodattillo montabile.
Sapete no, cos’è, uno
pterodattilo, quell’uccello
preistorico, quello, come dire,
quello con le ali.
Che voi direte: “Per forza con le
ali, è un uccello.” E io dirò: “È
vero. Comunque avete capito”
direi, “un uccello preistorico.” E poi
aggiungerei, piano: “Quello con le
ali.”
Ecco, adesso, io non so se a voi
piacciono, gli pterodattili, a me
non piacciono tanto, mi fanno un
po’ paura, ma questo non è
importante, quel che è importante
è che ad Agnese, questo
pterodattilo montabile, era
piaciuto moltissimo, se l’era
perfino portato a dormire con lei,
dopo essersi fatta aiutare dal babbo
a montarlo (l’aveva montato quasi
tutto il babbo, a dir la verità, che di
mestiere faceva il carpentiere era
pratico, nel campo dei montaggi).
Era tutto bello verde, era così
carino, dal tanto che era bruttino,
gli aveva dato anche un nome,
Agnese, l’aveva chiamato Giusy, ed
era andata a dormire con di fianco
lo pterodattilo, era così contenta, e
dopo, quella notte, adesso forse voi
non ci credete, ma a me me l’han
detto, che quella notte, quando
Agnese dormiva, aveva sentito
qualcosa che si muoveva nella
stanza, aveva aperto gli occhi,
c’era sempre una lucina accesa,
nella stanza di Agnese, di notte,
dormiva da sola, almeno aver la
lucina accesa, e grazie a questa
lucina accesa Agnese aveva visto
che lo pterodattilo volava, per
tutta la stanza, volava, Giusy
volava, e Agnese era così contenta
che sarebbe saltata sul letto a far le
capriole, solo che non voleva
disturbare Giusy, che se l’avesse
vista, se si fosse accorta che lei era
sveglia, chissà cosa avrebbe
pensato, forse ci sarebbe rimasta
male, che qualche umano aveva
scoperto il suo segreto che lei non
era veramente uno pterodattilo
montabile, era uno pterodattilo
montabile volante. E, dopo essere
rimasta per dieci minuti in silenzio,
immobile, a vederla volare, Agnese
aveva chiuso gli occhi si era
addormentata.
Il giorno dopo, la prima cosa, a
colazione, Agnese aveva detto al
babbo: «Sai quello pterodattilo che
mi hai regalato?»
«Eh» aveva detto il babbo.
«Vola» aveva detto Agnese.
«Ma dai» aveva detto il babbo, e
l’aveva detto con un tono come per
dire “Figuriamoci”. Cioè come per
dire che non ci credeva.
Che Agnese c’era proprio rimasta
un po’ male.
Quella sera, la mamma era
andata ancora a una riunione di
mamme che in quel periodo le
mamme di Casalecchio di Reno io
non so cos’avevano, tutte le sere
c’era una riunione di mamme,
allora quella sera, col suo babbo,
avevano visto Toy Story, che è un
film che forse l’avrete visto anche
voi che ci son dei giocattoli che
quando gli uomini dormono loro
prendono vita, e succede, proprio
dentro il film, che gli pterodattili
volano, i cani abbaiano, i cowboy
sparano, gli astronauti
astronautano eccetera eccetera, e,
quella sera, l’avevan già visto, quel
film lì, tante volte, ma quella sera,
all’inizio, quasi subito, quando i
giocattoli avevano preso vita,
Agnese aveva guardato il babbo
come per dirgli “Guarda, guarda,
hai visto?”
Solo che si era accorta che il
babbo faceva solo finta, di
guardare Toy Story, leggeva.
Leggeva un libro. Che testa.
Allora, dopo, Agnese aveva
rinunciato, a far sapere al babbo
che gli pterodattili volano.
Aveva solo imparato, di notte, a
aprire la porta della sua stanza, in
modo che Giusy potesse fare dei
giri anche nel corridoio.
E aveva detto al babbo che lo
ringraziava tanto, e che il suo
regalo le era piaciuto talmente
tanto, che, per Natale, o per
Pasqua, o per il prossimo
compleanno, avrebbe desiderato
tantissimo che le facesse un altro
regalo, un nuovo pterodattilo, così
stavano insieme, aveva detto.
Che voi forse penserete ma
perché aveva rinunciato a dirlo al
babbo?
Aveva rinunciato perché aveva
capito, o le era sembrato di capire,
che certe cose succedono solo a
quelli che ci credono.
E allora, adesso non so chi di voi
dorme da solo e chi dorme coi
genitori, e non dico che dormire coi
genitori sia male, è molto bello
anche dormire coi genitori, solo mi
vien da pensare che forse, a chi
dorme da solo, di notte, gli
succedon più cose. Gli succedono
tutte le cose a cui crede, che è
bello, che quello che credi poi ti
succede, se credi delle cose belle.
Mi sembra. E niente. Anche questa
favola è finita.
FAVOLA DI PIERA E DEL
PANINO

C’era una bambina che si chiamava


Piera che era una bambina
stranissima, ma non perché… non
so, era troppo alta?, no, non era
troppo alta. E neanche perché…
non so, era troppo bassa?, no, non
era troppo bassa. E neanche
perché… non so, era troppo
magra?, no, non era troppo magra;
e neanche perché… non so, era
troppo grassa?, no, non era troppo
grassa. Ma neanche perché… non
so, era troppo bella?, nooo! Non
era troppo bella. E neanche
perché… non so, era troppo
brutta?, no, non era troppo brutta.
E neanche perché, non so, era
troppo ricca?, no, non era troppo
ricca. E neanche perché… non so,
era troppo povera?, no. Non era
troppo povera. Piera era una
bambina normale, né troppo alta,
né troppo bassa, né troppo magra,
né troppo grassa, né troppo bella,
né troppo brutta, né troppo ricca,
né troppo povera. A pensarci, era
proprio come un bambino che si
chiamava Čičikov che viveva in
Russia tanti e tanti anni fa e del
quale si parla dentro di un libro
che si intitola Anime morte che l’ha
scritto un signore che si chiama
Gogol’, che però quel libro lì, con
la nostra storia, a pensarci, non
c’entra mica niente. Quello è un
libro molto bello che quando sarete
un po’ più grandi, se avrete voglia,
lo potrete anche leggere ed è anche
una cosa che vi consiglio di fare,
ma con la nostra favola, quel libro
lì, mi dispiace, non c’entra niente
quindi andiam pure avanti con
questa bambina che si chiamava
Piera che era stranissima ma non
perché era troppo alta, e neanche
perché era troppo bassa, e neanche
perché era troppo magra, e
neanche perché era troppo grassa,
e neanche perché era troppo bella,
e neanche perché era troppo
brutta, e neanche perché era
troppo ricca, e neanche perché era
troppo povera, sapete perché era
stranissima? Era stranissima per
come si comportava. Che non so,
per esempio, «Vatti a lavare i
denti, Piera» le dicevano per
esempio i suoi genitori. «No, non ci
vado, a lavarmi i denti» diceva lei.
«Alzati, che è ora di andare a
scuola» le dicevano i suoi genitori.
«No, non mi alzo» rispondeva lei.

«Mangia la minestra, che ti fa


bene» le dicevano i suoi genitori.
«No, non la mangio» rispondeva
lei.
«Lavati le mani, prima di venire
a mangiare.» «No, non me le lavo.»
«Non scaccolarti, che non sta
bene.» «No, io mi scaccolo.»
Be’, doveva essere abbastanza
difficile, stare insieme a Piera. E
doveva essere particolarmente
difficile essere i suoi genitori. I suoi
genitori avevan provato di tutto,
anni e anni di consulti con
psicologi, con sociologi, con
medici, con ortopedici, con
specialisti, con professori, non
c’era stato niente da fare.
Suo babbo, di Piera, si chiamava
Massimo, e lavorava in un’impresa
che facevano i traslochi, sua
mamma si chiamava Enrica e
faceva la farmacista. Non c’entrano
niente, però, per questa favola, i
mestieri dei genitori di Piera,
c’entra invece il fatto che loro due,
ma non perché uno faceva i
traslochi e l’altra la farmacista,
loro due, ma un po’ così, per
disperazione, a un certo momento
avevan pensato che in qualche
modo dovevan pur fare, e si eran
messi a fare così: «Non andarti a
lavare i denti, Piera» le dicevano
per esempio. «No, diceva Piera, io
ci vado, a lavarmi i denti.»
«Stai a letto, che è ora di andare
a scuola» le dicevano. «No, io mi
alzo, rispondeva lei.»

«Non mangiare la minestra, che


ti fa bene» le dicevano. «No, io la
mangio» rispondeva lei.
«Non lavarti le mani, prima di
venire a mangiare.» «No, io me le
lavo.» «Scaccolati, che non sta
bene.» «No, io non mi scaccolo.»
Era proprio un vita tutta così.
Anche a scuola, la maestra, che
anche per lei non era molto
semplice, avere un’alunna come
Piera, quando dava i compiti, per
esempio, «Bambini» diceva,
«ripassate tutti tranne Piera la
tabellina dell’undici, avete capito?»
«Sì maestra» dicevano i bambini.»
«Invece tu, Piera» diceva la
Maestra, «non ripassarla.» «No,
diceva Piera, io la ripasso.»
E tutto così. E sarebbe andato
avanti chissà per quanto tempo se
una sera, alla mamma di Piera,
non fosse venuto in mente di fare
la trippa. La trippa, se non lo
sapete, è un tipo di mangiare che
magari è buono, solo che fa un
odore, è un tipo di carne, no? Solo
che è carne dell’intestino di un
animale, credo, e a prepararla fa
un odore di pipì che io, la trippa,
non ho mai avuto il coraggio di
mangiarla. Oh, magari è buona,
eh? Non discuto. Cioè se a uno gli
piace, fa bene a mangiarla,
l’importante è che non me la dà da
mangiare a me. Allora quella sera
lì, Piera quando ha sentito
quell’odore lì, è scappata in camera
sua ha chiuso la porta si è stesa sul
letto e dopo non so, cosa è
successo, forse si è addormentata,
non so, sta di fatto che le è
sembrato che entrasse suo babbo
nella sua stanza e le dicesse: «Non
mangiarmi la trippa», era lui, suo
babbo, che era un appassionato di
trippa, «Non mangiarmela mi
raccomando» aveva detto suo
babbo alla Piera.

E lei, la Piera, aveva detto: «No,


io te la mangio» e si era alzata, era
andata in cucina, si era avvicinata
al fornello e, con le mani, aveva
preso dalla padella una manata di
trippa e se l’era ficcata in bocca e
aveva sentito in bocca un odore di
pipì che non era buonissimo, tanto
che, non so cos’è successo, forse è
svenuta, perché dopo mezz’ora si è
svegliata al suono della voce di sua
mamma che le diceva: «Piera, non
venire a mangiare, che è pronto.»
E lei aveva risposto: «Sì mamma,
non vengo.»
Al che, dalla porta della stanza
di Piera si erano affacciate le teste
del babbo e della mamma con
un’espressione stupefatta come per
chiedersi: “Ma cos’è successo?”
La trippa.
Era stata la trippa.
Là dove non eran riusciti anni e
anni di tentativi con psicologi, con
sociologi, con medici, con
ortopedici, con specialisti, con
professori, era riu-scita la trippa.
Eh, non c’è niente da fare, la
trippa ha una potenza che io non
l’ho mai assaggiata, ma mi
immagino che sia molto potente, la
trippa, altro che un panino.
FAVOLA COSÌ CORTA
CHE NON HA NEANCHE
IL TITOLO

C’era una volta una bambina che si


chiamava in un modo che non ve lo
dico. Questa bambina qui, con il
suo babbo, che si chiamava anche
lui in un modo che non ve lo dico,
a un certo momento avevano
cominciato a giocare al polipo
bacione.
Il polipo bacione era come una
specie di mo-stro che si
impossessava del babbo, e il babbo,
che non ce l’aveva sempre, ma
quando dentro aveva il polipo
bacione, doveva sfogarsi e baciare
qualcosa, magari anche un gatto, e
delle volte, se gli capitava
sottomano il gatto, baciava il
gatto.
Ma se gli capitava sottomano la
bambina, baciava la bambina, che
però, non sempre voleva essere
baciata, anzi: quando il suo babbo
era il polipo bacione, la bambina
non voleva essere baciata mai, dal
babbo-polipo bacione, allora il suo
babbo aveva imparato che, se il
gatto non era a tiro, quando
diventava, all’improvviso, il polipo
bacione, doveva fare finta di non
essere, il polipo bacione.
Allora quella bambina ogni
tanto, quando vedeva che il suo
babbo diventava strano, che
guardava un po’ di traverso, che
non parlava più, che era serio, che
si guardava in giro in cerca del
gatto, la bambina gli chiedeva, al
suo babbo: «Babbo, sei il polipo
bacione?»
E il babbo rispondeva: «No, sono
mister Jones.»
E la bambina si avvicinava e lo
guardava negli occhi e diceva: «Qui
sento odore di polipo bacione.»
E il babbo annusava l’aria e
diceva: «Secondo me ti sbagli
perché io sento odore di mister
Jones.»
E la bambina avvicinava ancora
di più la testa alla testa del babbo e
chiedeva: «E che mestiere fai,
mister Jones?»
E il babbo guardava per aria e
diceva «Mestiere? Io di mestiere
faccio…»
«Il polipo bacione!» urlava il
babbo, e si buttava sulla bambina e
cercava di abbracciarla e di
baciarla ma lei, gridando anche lei
come se era terroriz-zata gli
metteva le mani negli occhi, al suo
babbo.
E il babbo gridava: «Aaaaah, mi
hai accecato.»
E la bambina diceva: «Così
impari, mister Jones.»
E il babbo gridava: «Non sono
mister Jones, sono il polipo
bacione!» e si buttava ancora
addosso alla bambina che metteva
ancora avanti le mani e le ficcava
negli occhi del babbo che diceva:
«Aaaaaaaah, mi hai accecato
ancora!»
E la bambina diceva: «Non è
possibile, ti posso aver accecato
solo una volta.»
E il babbo diceva: «Non è vero,
quanti occhi hai te?»
E la bambina diceva: «Due.»
E il babbo diceva: «Eh, anch’io.»
E la bambina diceva: «Eh. E
allora? Eh?» chiedeva. «E allora?»
E il babbo non rispondeva come
se era morto, o quasi morto, e la
bambina si avvicinava e diceva
piano: «Mister Jones? Mister Jones,
stai bene?»
E il babbo si alzava di scatto
gridando: «Non sono mister Jones,
sono il polipo bacione!» e si
buttava sulla bambina cercando di
abbracciarla e di baciarla e la
bambina gli metteva le mani negli
occhi e il babbo gridava:
«Aaaaaaaah, mi hai accecato
ancora!» e la bambina diceva:
«Non è possibile, ti posso aver
accecato solo due volte.»
E il babbo diceva: «Ah, è vero,
allora niente, scusa, mi sono
sbagliato.»
E poi, magari andavano avanti
ancora un po’, oppure facevano da
mangiare, o disegnavano, o
giocavano a tris, o giocavano ai
mostri, che lo so che questa è una
favola che non succede quasi
niente e che sembra che non c’è
neanche un po’ di magia se non il
mostro che si chiama polipo
bacione, che però a me vien da
pensare che magari faceva finta,
quel babbo lì, di diventare il polipo
bacione, però la magia secondo me
c’è lo stesso e è nel fatto che quel
gioco lì del polipo bacione, che era
fatto di niente, e non costava
niente, era una cosa che quel
babbo e quella bambina lì poi se
l’erano ricordata per tutta la vita e
non si erano mai divertiti così
tanto come quando giocavano al
polipo bacione, che è una cosa
stranissima, se ci pensate.
FAVOLA DI ESTER

C’era una volta, tanto tanto tempo


fa, cioè tanto, ma non tantissimo,
circa quarant’anni fa, una bambina
che si chiamava Ester che i suoi
genitori, ogni tanto, invece di
chiamarla Ester la chiamavan
Terina.
Non si capisce il motivo.
Forse per risparmiar tempo.
Questa cosa, a Ester, non
piaceva tanto.
Che a lei, il suo nome, Ester,
come nome le piaceva molto,
invece Terina, come nome, non le
piaceva tanto.
Che lei, c’è da dire, era
magrolina, come bambina, allora
forse per quello, la chiamavan
Terina, però, pensava Ester, se
dopo poi ingrasso, mettiamo,
mettiamo che divento un po’
grossa, magari poi dopo il babbo e
la mamma mi chiaman Terona.
Terona le piaceva un po’ di più,
di Terina, faceva un po’ ridere,
almeno, però non le piaceva
moltissimo neanche Terona.
Che, secondo me, adesso, è
difficile, dirlo, ma, secondo me, era
un po’ strana, Ester.
Cioè era un po’ strana nel senso
che io, per esempio, mi chiamo
Paolo, no? Eh.
E se mi chiaman Paolino, io a
me, non dispiace, se mi chiaman
Paolone invece non mi piace tanto.
Non so perché.
Forse perché son stato grasso, e
se mi chiaman Paolone a me
sembra sempre che vogliano dire
che io sono grasso che è una cosa
che se qualcuno mi dice che sono
grasso, mi vien vergogna, se
qualcuno mi dice che sono magro,
non ho vergogna. Non so perché.
Forse Ester, che era sempre stata
magra, aveva vergogna se la gente
le diceva che era magra, non lo so
bene, sta di fatto che lei ci restava
malissimo, quando i suoi genitori,
ma fin da quando era piccola, la
chiamavan Terina, e una volta,
avrà avuto otto anni, era lì nella
sua camera che stava disegnando,
le piaceva molto disegnare, a Ester,
fin da quando era piccola, era lì
che stava disegnando un gatto
nero, si è affacciato sulla soglia
della sua stanza suo babbo, di
Ester, le ha detto: «Terina, vieni
che è pronto da mangiare» e lei
Ester, le ha dato così fastidio
sentirsi chiamare Terina che ha
disegnato, vicino al sedere del
gatto, dei piccoli segni a matita
come se il gatto aveva fatto una
scoreggia e il babbo di Ester,
appena Ester ha disegnato questi
segnetti, ha detto: «Ma che odore,
ma hai fatto una scoreggia?»
«Non sono stata io» ha detto
Ester, «è stato il gatto.»
«Ester» ha detto il babbo di Ester,
«non bisogna dire le bugie. Dai» ha
detto poi dopo, «vatti a lavare le
mani e vieni a mangiare.»
Da quella volta lì, Ester si è
accorta che aveva il potere di fare
apparire le cose che disegnava. La
cosa non funzionava sempre,
funzionava soltanto se qualcuno la
chiamava Terina, ma bastava che
qualcuno la chiamasse Terina, e,
trac, le cose che disegnava
diventavano vere.
Per esempio, la casa dove
abitava, quando poi era diventata
grande che si era sposata, lei aveva
fatto così, avevan comprato un
piccolo terreno, con suo marito, a
Casalecchio di Reno, e poi lei
aveva chiesto a suo marito: «Caro,
puoi chiamarmi Terina, per
cortesia, per un venti minuti?»
«Certo cara» aveva detto il
marito, e poi si era messo a dirle,
per venti minuti: «Terina, Terina,
Terina, Terina, Terina, Terina,
Terina, Terina» e dopo venti minuti
c’era una casa a due piani con la
cantina, il garage, e una sala da
biliardo con un gran bel biliardo
(al marito di Terina, cioè di Ester,
piaceva molto giocare al biliardo).
Adesso voi potreste pensare: “Ma
tu, come fai a sapere tutte queste
cose?”
Le so perché l’ho incontrata,
Ester, l’ho incontrata l’anno scorso,
a Casalecchio di Reno, nel centro
del paese, davanti alla biblioteca.
Ho visto questa signora, ormai è
una signora, Ester, ha quasi
cinquant’anni, l’ho vista e mi sono
fermato perché mi sembrava di
conoscerla, e lei, si era fermata
anche lei per lo stesso motivo,
perché le sembrava di conoscermi.
Era, è strano, era un po’ come
me.
Cioè era più magra, e aveva i
capelli, che io non ce li avevo, e
non aveva la barba, che io ce
l’avevo, e lei era una donna, e io
ero un uomo, ma per il resto, era
strano, eravam quasi uguali,
avevamo anche più o meno la
stessa età.
Allora, quella volta lì, lei mi ha
detto: «Posso offrirle un caffè?» e
siamo andati a prendere un caffè e
abbiamo parlato, non tanto, dieci
minuti, ma in quei dieci minuti io
ho fatto in tempo a ricordarmi che
quando ero piccolo, in casa mia, mi
avevano raccontato una storia che
io avevo sempre creduto che fosse
una storia inventata, cioè che
quando ero nato, io non ero nato
solo io, era nata anche una mia
sorella gemella, che però il giorno
dopo che ero nato, un momento
che mia sorella gemella l’avevano
data da cullare a mio nonno, in
ospedale, mio nonno era lì che la
cullava quando era passata una
signora che piangeva, e mio nonno
le aveva chiesto: «Come mai
piange?» E la signora aveva detto:
«Piango perché è morta la mia
bambina.» E mio nonno le aveva
detto: «Accidenti, mi dispiace,
quanti anni aveva?» E la signora
aveva detto: «Un giorno.» E mio
nonno l’aveva guardata, aveva
guardato Ester, aveva guardato
ancora quella signora, poi le aveva
allungato Ester le aveva detto:
«Vuole questa? Noi ne abbiamo un
altro.»
«Tuo nonno» mi diceva mia
mamma quando, da piccolo, mi
raccontava questa storia, «era un
comunista vero era fatto così, se
vedeva qualcuno che stava male gli
dava anche la camicia che aveva
addosso.»
Io, a questa storia, non ci avevo
mai creduto tanto, mi sembrava un
po’ come la storia, adesso non
voglio dire, ma mi sembrava un po’
come delle altre storie che mi
avevan raccontato quando ero
piccolo che poi avevo scoperto che
erano inventate, ma lì, davanti a
Ester, mi era tornata in mente e le
avevo chiesto, a Ester: «Posso
chiederle una cortesia?»
«Prego» mi aveva detto lei.
«Mi fa vedere la carta di
identità?»
«Certo» mi aveva detto lei, e mi
aveva dato la carta d’identità e
sulla carta d’identità c’era scritto
che lei si chiamava Ester Furlotti ed
era nata a Parma un giorno di
maggio del 1963.
E io mi chiamavo Paolo Nori e
ero nato a Parma lo stesso giorno
di maggio del 1963. «E io» mi
aveva poi detto Ester, «posso
chiederle una cortesia?»
«Certo» le avevo detto io.
«Può chiamarmi Terina, un
momento?»
«Certo» le avevo detto io, e poi
avevo detto: «Terina.»
E mentre dicevo così lei aveva
preso un foglio e ci aveva
disegnato una rosa gialla e quella
rosa, appena avevo detto Terina,
era venuta fuori dal foglio e lei me
l’aveva data e l’avevo portata a
casa, l’avevo messa in un vaso con
l’acqua, e dopo una settimana era
appassita come una rosa vera.
FAVOLA DI CELESTINA

C’era una bambina che si chiamava


Celestina, aveva quasi dodici anni,
e le piaceva molto disegnare…
cioè, dodici anni, non era proprio
una bambina, era una ragazzina,
era anche alta, per la sua età,
sembrava già quasi una ragazza,
che però era strano. Era strano
perché la mamma, di Celestina, che
si chiamava Valentina, e che di
anni ne aveva trentatré, anche lei
a guardarla sembrava una ragazza
quindi, non ho capito, come
sarebbe? Una ragazza che si
chiama Celestina che è la figlia di
una ragazza che si chiama
Valentina? Forse sì.
Solo che, era ancora più strano
perché la non-na, di Celestina, cioè
la mamma di Valentina, che si
chiamava Mariolina, e che di anni
ne aveva cinquantuno, anche lei, a
guardarla, sembrava una ragazza,
anche come era vestita, come si
pettinava, i tatuaggi che aveva, i
piercing, proprio delle cose da
ragazza, che però allora, come
sarebbe? Una ragazza che si
chiama Mariolina che è la mamma
di una ragazza che si chiama
Valentina e la nonna di una
ragazza che si chiama Celestina?
Forse sì.
Forse noi, adesso, in Italia, in
questo momento, quando sto
raccontando questa favola, che
siamo nell’anno 2012, nel mese di
marzo del 2012, e più esattamente
il giorno 12 marzo del 2012, forse
noi oggi, in Italia, dai dieci ai
settant’anni, siam poi tutti dei
ragazzi.
Tutti dei ragazzoni che mi viene
in mente un racconto che quando
andavo a scuola me l’avevano fatto
leggere, un racconto di Gianni
Rodari, lo sapete? Secondo me non
lo sapete. Si intitola A comprare la
città di Stoccolma, e fa così:
A comprare la città di Stoccolma

Al mercato di Gavirate capitano certi ometti


che vendono di tutto, e di più bravi di loro a
vendere non si sa dove andarli a trovare.
Un venerdì capitò un ometto che vendeva
strane cose: il Monte Bianco, l’Oceano Indiano,
i mari della Luna, e aveva una magnifica
parlantina, e dopo un’ora gli era rimasta solo la
città di Stoccolma.
La comprò un barbiere, in cambio di un
taglio di capelli con frizione. Il barbiere
inchiodò tra due specchi il certificato che
diceva: “Proprietario della città di Stoccolma”,
e lo mostrava orgoglioso ai clienti, rispondendo
a tutte le loro domande.

«È una città della Svezia, anzi è la capitale.


«Ha quasi un milione di abitanti, e
naturalmente sono tutti miei.»
«C’è anche il mare, si capisce, ma non so chi
sia il proprietario.»
Il barbiere, un poco alla volta, mise da parte
i soldi, e l’anno scorso andò in Svezia a visitare
la sua proprietà. La città di Stoccolma gli
parve meravigliosa, e gli svedesi gentilissimi.
Loro non capivano una parola di quello che
diceva lui, e lui non capiva mezza parola di
quello che gli rispondevano.

«Sono il padrone della città, lo sapete o no?


Ve l’hanno fatto, il comunicato?»
Gli svedesi sorridevano e dicevano di sì,
perché non capivano ma erano gentili, e il
barbiere si fregava le mani tutto contento:
«Una città simile per un taglio di capelli e
una frizione! L’ho proprio pagata a buon
mercato.»
E invece si sbagliava, e l’aveva pagata
troppo. Perché ogni bambino che viene in
questo mondo, il mondo intero è tutto suo, e
non deve pagarlo neanche un soldo, deve
soltanto rimboccarsi le maniche, allungare le
mani e prenderselo.
Ecco. Questo è un racconto di
tanti anni fa, di quando ero piccolo
io, che a me un po’ mi commuove,
perché io, a me sembra di essere
stato uno di quei bambini che il
mondo intero era tutto mio, e non
dovevo pagarlo neanche un soldo,
dovevo soltanto rimboccarmi le
maniche, allungare le mani e
prendermelo, e adesso che son
diventato grande mi sembra, quasi
sempre, che il mondo non sia più
mio, per fortuna son diventato
grande in questo periodo che si
resta sempre ragazzi e allora,
probabilmente per quello, ho
ancora l’impressione, ogni tanto,
per dei momenti, qualche
pomeriggio, quando non ho molte
cose da fare, quando non devo
rinunciare a guardare, quando non
devo recitare la parte di quello che
sa quel che fa, che sa quel che
scrive, che sa quel che dice, che sa
come si sta al mondo, quando non
devo stare attento a che non si
accorgano che io, anche se sono
grande, non so mica niente, ogni
tanto, allora, in quei casi, ho
l’impressione che il mondo sia
ancora mio, ma son casi rari, e non
volevo dir quello, volevo dire che
questa bambina, che si chiama
Celestina, abita in un paesino che
si chiama Casalecchio di Reno, e
dietro a casa sua, di Celestina, c’è
un parco dove Celestina, la
domenica mattina, va in quel parco
con un blocco da disegno e le
matite e si mette a disegnare e
disegna quelli che passano, che a
lei le piace moltissimo, disegnare, e
disegna i signori, o meglio, i
ragazzi di cinquant’anni, con la
tuta da ginnastica nera, che
corrono, i ragazzi di trent’anni che
portan fuori il cane, i ragazzi di
sessant’anni con i capelli grigi e le
sigarette, che sembrano sempre
arrabbiati, non si sa perché, le
ragazze di cinquant’anni con la
tuta e delle specie di racchette da
sci che camminano, le mamme con
i bambini che vanno sulle altalene,
i piccioni che scappano dalle
bambine piccole e mentre
scappano dalla faccia si vede che
pensano: “Ma perché le bambine
piccole ce l’hanno sempre con
noi?”, un ragazzo pelato che di
anni ne dimostra quarantanove, e
ha la barba fatta male, gli occhiali
con la montatura argentata e dice,
dentro un telefonino: «Me ne
occupo io domani mattina» delle
cose così, e ci va sempre, quando
c’è bello, la domenica mattina,
Valentina, e domenica scorsa ci
sono andato anch’io, e mi sono
messo lì su una panchina, a leggere
un librettino, e poco distante da me
c’era Valentina, che era lì che
disegnava dei ritratti, forse faceva
anche il mio, “Fai, fai pure” ho
pensato, solo che, non avevo finito
di pensare così che ho sentito uno
che, sul motivo di una canzoncina
che si chiama Fra Martino
Campanaro, diceva: «Celestina,
piccolina, cosa fa, cosa fa, disegna
dei ritratti, disegna dei ritratti,
trallalà, trallalà.» Allora, adesso
ognuno la pensa come vuole,
secondo me era bella, quella
canzone lì, e quel bambino lì, che si
chiama Ernesto, di nome, anche se
tutti lo chiaman Teddyreno, dal
nome di un cantante di qualche
anno fa, quel bambino lì, Ernesto
Teddyreno, era abbastanza
intonato, cantava bene, però
Celestina, non so come mai, si è
arrabbiata, quando ha visto che
Teddyreno cantava una canzone su
di lei, e gli si è avvicinata gli ha
detto: «Smettila.» E Teddyreno ha
detto, cioè, più che detto ha
cantato: «Non la smetto, non la
smetto, neanche un po’, neanche
un po’, vado invece avanti, vado
invece avanti, trallalà, trallalà.» Al
che Celestina ha preso un suo
foglio, ha disegnato una palla, ci
ha fatto un ciuffo di capelli neri,
una bocca aperta, due occhi
rotondi, due orecchi, poi dentro le
orecchie ci ha fatto un po’ di
cerume e stava per allungarlo a
Teddyreno, e chissà come avrebbe
reagito, Teddyreno, solo che
Teddyreno era stato colpito da
un’altra cosa; si era messo a
guardare un bambino un po’
cicciotto, vestito di blu, che,
dall’alto di una montagnola, stava
disegnando su un blocco da disegno
e ogni tanto guardava lui e
Celestina, come se disegnasse
proprio loro. «Ci sta disegnando»
aveva detto Teddyreno a Celestina,
e Celestina si era voltata, aveva
visto il bambino cicciotto e aveva
detto, ad alta voce: «Cosa stai
facendo?»
Il bambino cicciotto, aveva
sentito così, aveva alzato la testa
dal suo foglio da disegno, aveva
visto Celestina e Teddyreno che lo
guardavano minacciosi, aveva
chiuso il suo album si era voltato
aveva cominciato a correre, e
Celestina e Teddyreno dietro che
gridavano: «Fermati, fermati» e si
eran messi a correre tutti e tre su
per la salita del parco, verso San
Luca, e io, non so perché, mi ero
immaginato che là, sopra a San
Luca, il babbo di Luisella, vi
ricordate il babbo di Luisella,
Aristofan, quel mago che di
mestiere guarda le nuvole per le
previsioni del tempo, ve lo
ricordate?, mi ero immaginato il
babbo di Luisella che, stanco di
guardare le nuvole, guardava in
giù e con la sua supervista da mago
vedeva quel bambino cicciotto che
correva su per la salita con dietro
Celestina e Teddyreno che
gridavano: «Fermati, fermati,
ridacci il disegno» e mi ero
immaginato che il mago pensasse,
nella sua immaginazione da mago:
“Che meraviglia, il mondo, ma che
meraviglia, ma che meraviglia.” E
mi ero immaginato che gli piacesse
così tanto, il mondo, che gli veniva
quasi da piangere.
Intanto, e poi

Intanto, grazie che avete letto


questo libro fino in fondo, se
l’avete letto fino in fondo. Se non
l’avete letto fino in fondo, grazie
anche se non l’avete letto fino in
fondo, ma se l’avete letto fino in
fondo forse mi potete aiutare. Io
non sono sicuro, ma ho come
l’impressione, l’ho messo anche nel
titolo, che dentro questo libro ci sia
finita una favola che doveva star
fuori; a me queste favole piacciono,
son belle, secondo me, però ce n’è
una che proprio mi suona che è
brutta; solo che, ogni volta che
leggo il libro dall’inizio alla fine
(l’ho già riletto ventisei volte,
dall’inizio alla fine) mi sembra che
sia una favola diversa, quella
brutta. Allora potevo fare due cose,
o rileggere il libro la ventisettesima
volta e togliere quella che mi
sembrava brutta quella volta lì (ma
a leggere un libro la ventisettesima
volta uno fa un po’ fatica), o
pubblicare anche quella brutta e
chiedere ai lettori di aiutarmi a
scoprire qual è. Allora, se avete
letto questo libro fino in fondo,
prima di tutto, grazie, e poi, se
volete, potete scrivermi qual è
secondo voi la favola brutta a:
Paolo Nori, presso RCS Libri, via
Angelo Rizzoli, 8, 20132 – Milano.
Basta una cartolina, con su scritto:
La favola brutta è… e il nome della
favola brutta, e poi sotto il vostro
indirizzo (nome, cognome, e
indirizzo), che vi mando una cosa,
ma piccola, non immaginatevi una
cosa grande che di cose grandi qui
non ce ne sono.
Indice

Favola di Luisella e del suo


papà

Favola di Kevin

Favola di Martina

Favola di Mirco
Favola dei giganti e del
vegetariano

Favola di Rosa e dei due


Mariolini

Favola di Valerio e del suo bis-


bis-bisnonno

Favola di Aurelio

Favola della dormita

Favola di Agnese

Favola di Piera e del panino

Favola così corta che non ha


neanche il titolo
Favola di Ester

Favola di Celestina

Intanto, e poi

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