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STAMMI BENE, GESU’

DI MILENA REBORA

“Ma ti pare che mi faccio 30 km a piedi per ringraziare la madonna? E per cosa poi,
che mio figlio è nato di 28 settimane?”
“Shhhhhhh, disgraziata, non ti ho cresciuta perché diventavi una miscredente”
“Scordatelo nonna, non ci penso proprio”
Assunta non ci pensava nemmeno per sogno di camminare per trenta km sotto il
sole di ferragosto per arrivare fino a Pompei.
Suo marito Fabio e sua cugina Catena cercavano invece di convincerla del contrario:
“Potresti anche farla contenta, sai che nonna vive per queste cose….in fondo ha 80
anni, magari il prossimo anno non c’è più….lei ti ha cresciuta……ha fatto tutti i
sacrifici possibili per te…….”
“Andate a cagare tutti e due, fatevelo voi il pellegrinaggio a Pompei a baciare i piedi
ad una statua, di una che manco esiste”.
Il suo scetticismo era alle stelle. Sua madre era morta dandola alla luce, e lei aveva
partorito un bambino di 28 settimane, talmente poche che non si credeva nemmeno
sarebbe sopravvissuto. Di cosa doveva rendere grazie? A una che era l’icona della
maternità, che aveva partorito da sola in una grotta, senza medici ne epidurale, che
mostrava da secoli al mondo il suo bambino sano, che non le era nemmeno venuta
una cistite da catetere, che aveva allattato fino a chissà quanto, che che che……
Le stava profondamente sul culo la madonna, la madre perfetta che lei, forse, non
sarebbe mai stata, visto che manco fino al termine della gravidanza era riuscita ad
andare.
Ma, nonostante tutte le previsioni catastrofiche, Salvo, il suo bambino, era
sopravvissuto, ed era sano.
Lo aveva dovuto chiamare Salvo perché era il meno brutto dei nomi che sua nonna
“esigeva” che gli desse.
Nonna Gregoria non era senz’altro un personaggio facile, non democratico, almeno.
Ape regina della sua famiglia, aveva scelto lei i nomi di tutti: figli, nipoti, pronipoti,
cugini.
Nonna Gregoria era profondamente convinta che, nella vita, fosse assolutamente
necessario portare un nome che rendesse l’idea della devozione alla sacra famiglia.
Erano nati, così, Assunta, Rosaria, Catena (detta Cate, ma all’anagrafe
impietosamente registrata come Incatenata), Nunzio, Addolorata, Angelo, Pellegrino
e Trinità.
A Salvo, tutto sommato, era ancora andata bene, visto che al papà piaceva perché
gli ricordava il commissario Montalbano.
“L’ho già fatta contenta col nome, e credimi Cate, mi è costato parecchio.”
“Ma checcentra, quella nonna sai che è lei che comanda in famiglia….Assù, vuoi farla
stare zitta? Ti prendi la circumvesuviana, la dici che sei andata a baciare i piedi alla
madonna, ti fai un selfie con i piedi della statua, ti vai a mangiare gli spaghetti alla
marinara, prendi di nuovo la circumvesuviana e te ne torni a casa fresca fresca.”
“Ebbrava, e secondo te quella se la beve? Quella nonna ne sa una più del
demonio….”
La verità era che Assunta era una donna molto razionale, ma anche piena di rancore.
Sapeva che a salvare suo figlio non era stata la madonna, ma quei medici ed
infermieri della terapia intensiva neonatale che tutti i giorni lo avevano monitorato
come se fosse la cosa più preziosa al mondo. Ma non poteva fare a meno di pensare
che la vita si era presa troppo da lei, e che la madonna se ne era in qualche modo
lavata le mani di lei, della sua mamma e del suo piccolo Salvo.
Il merito era della scienza, ma la colpa era di quei santi che la nonna tanto osannava.
Per nonna Gregoria, invece, era l’esatto contrario: a salvare il pro-nipote era stata
indubbiamente quella madonna alla quale lei aveva dedicato buona parte della sua
vita tra preghiere, rosari ed orazioni (almeno un’ora e mezza al giorno), mentre a
fare morire la figlia Rosaria era stato sicuramente quel bastardo di un medico che
non le aveva fatto un cesareo.
Non c’era via d’uscita: per non avere nonna Gregoria sulla coscienza per tutta la vita
(lei glielo avrebbe rinfacciato fin sul letto di morte), doveva andare a Pompei a piedi.
“E stai attenta che non sono fessa, me ne accorgo se hai preso l’autobus. Quelli che
fanno il pellegrinaggio tornano con le vesciche ai piedi, la faccia rossa dal sole e la
capa che scoppia”.
Assunta aveva studiato un piano: ci voleva tutto il giorno per farlo, lei avrebbe fatto
le tappe più roventi con l’autobus e le altre a piedi, non avrebbe messo crema solare
per sembrare più rossa e fottere la nonna, avrebbe messo le scarpe con il memory-
foam per non patire, ma se le sarebbe cambiate prima di tornare a casa con quelle
più vecchie e stracciate che aveva per fare coreografia.
Fabio e Cate, dopo aver recitato la parte di quelli tanto preoccupati per la nonnina,
si erano defilati, l’uno con la scusa che doveva stare con Salvo in reparto al posto
suo, l’altra che era troppo chiattilla per fare una cosa del genere senza finire in
pronto soccorso.
Era tutto organizzato perfettamente, bastava solo avere pazienza e anche questa
sarebbe passata tra una delle tante cose che nonna Gregoria le aveva fatto fare
contro la sua volontà.
L’unica cosa nella quale nonna Gregoria era stata accondiscendente era la scelta del
proprio marito: “trovati nu bravo guaglione che ti piace sul serio, perché poi
sopportarlo per tutta la vita è lunga”.
In tutto il resto nonna Gregoria aveva scelto per lei: il vestito della comunione, la
cartella di scuola, lo sport che doveva fare, l’istituto superiore dove doveva studiare,
le amiche che doveva frequentare (tutte cugine almeno entro il secondo grado),
persino l’abito da sposa e il nome di suo figlio.
Nonna Gregoria era abituata così: il padre (il bisnonno Trifone), era sempre in mare,
lei era la più grande di otto fratelli e doveva essere madre, sorella e padre al tempo
stesso. Era poi diventata vedova a 25 anni con i suoi quattro figli da crescere, ed
aveva di nuovo fatto l’unica cosa che sapeva fare: il padre-madre.
Quello che voleva era legge, non c’erano alternative.
Assunta, si era messa un paio di pantaloncini di jeans, una bandana in testa che la
proteggesse dai colpi di sole ma non impedisse agli U-Va di bruciarle la faccia (sennò
nonna non se la beveva), un paio di scarpini con plantare anatomico e una
canottiera che lasciasse libero il cavo ascellare (brutto salire sul bus con la rotonda di
sudore).
Il suo Salvo stava trascorrendo gli ultimi giorni in reparto prima di essere dimesso e
venire finalmente a casa, e Assunta non voleva che questa ennesima avventura per
soddisfare la nonna, portasse via del tempo a Salvo.
Andava fatta e basta.
Ma Assunta non aveva messo in preventivo che a farla, il giorno di ferragosto, suo
onomastico oltre che giorno della madonna per eccellenza, sarebbero stati in
centinaia.
Dal centro di Napoli partivano capannelli vocianti con borse frigo a tracolla, piene di
acqua e panini farciti di parmigiana. Tutti col medesimo intento di ingraziarsi il
favore della Vergine e di passare una giornata tra chiacchere e sfogliatelle.
Assunta non aveva la minima voglia di parlare: aveva passato gli ultimi tre mesi in
una terapia intensiva, in un silenzio rotto solo ogni tanto da qualche vagito e qualche
pianto miagolato (troppo deboli i prematuri per piangere come dio comanda). Di
chiacchierare e spiegare che era stata una madre talmente imperfetta da espellere
suo figlio a metà del percorso, non aveva nessuna voglia.
Non era una cosa facile dribblare i chiacchieratori di professione, quelli che ti
squadrano e capiscono dall’abbigliamento che stai facendo il loro stesso percorso.
“Tutta sola si fa questa sfacchinata?”
“E il marito dove l’ha lasciato? O magari ne sta cercando uno….”
Assunta accelerava il passo per evitare di dover attaccare bottone; accelera una
volta, accelera l’altra, alle due era a Pompei senza essersene accorta e senza aver
preso bus.
“Che figo, ce l’ho fatta. Sto tornando in forma, dopotutto.”
Era un’atleta, in fondo, anche se mesi di inattività l’avevano infiacchita.
“Stai già a Pompei? Allora lo dico subito a nonna!”
Cate non era il tipo di donna che si tenesse un cecio in bocca, tranne quando doveva
raccontare balle, lì era una vera Sophia Loren.
“Nonna vuole vedere la foto, dice che ti sei presa il bus per fare così in fretta.”
Ci mancava solo il selfie con la madonna, roba dell’altro mondo.
“Appena entro lo faccio così la pianta. E dille che è l’ultima volta che le do retta, che
schiatti in fretta che non ne ho più per la capa di fare quello che dice.”
“Glielo dico sul serio, così sei più credibile.”
“Vabbuò, fai come cazzo ti pare.”
Assunta era entrata, sfinita e marcia di sudore, al cospetto della madonna, senza
curarsi del fatto che la maggior parte dei turisti fosse invece assolutamente griffato,
e che quelli che avevano fatto il percorso con lei si erano prima fermati a rifocillarsi
ed asciugare le chiazze sulle magliette.
Non era la prima volta che si trovava al cospetto di tanta santità, nonna Gregoria ce
l’aveva portata diverse volte con la circumvesuviana, e in centro aveva visto
quotidianamente per tutta la vita statuette che la riproducevano sui banchi dei
souvenirs.
Ma in quel momento quell’immagine le aveva fatto un’impressione strana: non
aveva mai fatto caso che quella sembrasse una vera mamma, con un vero bambino
che cercava di divincolarsi dall’abbraccio materno, come fanno tutti i bambini
quando sembrano guizzanti come pesciolini.
In quel momento le era venuta in mente l’immagine dell’artista che doveva
preparare il bozzetto per la scultura, che chiedeva ad una mamma-modella di tenere
fermo il suo bambino di meno di un anno, che tentava di divincolarsi per scendere a
gattonare sul pavimento.
Doveva aver avuto parecchio caldo, la povera modella, sicuramente una donna non
santa e non ricca, dentro a quel vestitone. E chissà che fatica a tenere quel
bambinello che non ne voleva sapere di stare fermo.
Eh già, come glielo spieghi ad un bambino di 10 mesi che deve posare, per fingere di
essere qualcosa che non può capire, e che forse non capirà nemmeno da adulto.
Lui voleva gattonare, e lei voleva che tutto finisse in fretta.
Visti così, la madonna e il bambinello le sembravano molto più umani, e le stavano
molto meno sul culo. Non parevano l’immagine della mamma perfetta e del
bambino ciccio-bello che tanto le dava fastidio e la faceva sembrare inadeguata, ma
una mamma ed un bebè qualsiasi, alle prese con un cambio pannolino ed una
poppata.
“Avevi fame? Non ti andava proprio di startene lì a posare. Magari avevi il pannolino
pieno, o magari avevi appena iniziato a gattonare e avevi solo voglia di scendere.
Chissà come ti chiamavi, e chissà se hai mai saputo che saresti diventato Gesù.
Scusami, Maria, se non ti bacio i piedi. Chissà chi ci ha messo la bocca lì sopra.
Ma sì, prometto che verrò di nuovo a trovarti con Salvo, così ti faccio conoscere il
tuo miracolo.
Ciao piccolo bambino impaziente, stammi bene Gesù”.

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