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Benedetta Cibrario

L' uomo che dormiva al


parco
“I miei dicono che non c’è nulla di cui vergognarsi e che tuo
padre non li ha combinati, i guai. Li ha subiti, piuttosto.”
“Già,” disse Anna contemplandosi le unghie smaltate di nero.
“Ovvio.”
Prese a strofinarsi via lo smalto dal mignolo con un po’ di solvente.
“Esce alle sette e mezzo, tutte le mattine,” proseguì. “Rientra verso le
otto. Sono quasi tre settimane.”
“Oh, be’, è la sua vita, no?”
Lei posò la boccetta di solvente e il batuffolo per terra e si allungò
sul divano, affondando la testa nel cuscino. “Mia madre pensa che sia
solo un po’ giù. È normale, per un uomo della sua età,” disse fissando
il soffitto.
“Potresti cercare di scoprire cosa fa. Seguirlo. Non è mica difficile.
Se ti preoccupa, voglio dire.”
“Non mi va di spiare mio padre.”
“Non è spiare, questo. Ti informi di quello che fa, visto che lui non
ve lo dice.”
“Forse si tratta proprio di questo. Non mi va di saperlo.”
“Fai come ti pare,” disse Alice, alzandosi in piedi e avviandosi verso
la porta. “È difficile sopportare la verità.”
“Quale verità?” chiese Anna, in un soffio.
Alice si strinse nelle spalle. “Be’, che ti hanno mandato a casa
perché non servivi più. E che probabilmente non servi più a nessuno.”
“Oh, lui ci serve,” si affrettò a ribattere
Anna. “Sì, ma voi non contate. Te lo
garantisco.”
Andrea Ferrari si stava affannando a spiegare la situazione alla
farmacista. “L’effetto più evidente è l’insonnia,” ripeté. “E guardi
che non è un’insonnia come le altre. Io non riesco più a dormire in
casa mia. Nel mio letto.”
“Provi a cambiare abitudini. Mangi leggero, dorma dall’altro lato
del letto o sul divano. Vada a dormire solo quando è stanchissimo.”
La farmacista lo guardava con una commiserazione muta e
inflessibile, e continuando a fare segno di no con la testa gli mise sotto
il naso una scatoletta di valeriana. “Senza una prescrizione medica non
posso darle niente di più forte.” Sfilò dalla mano di Andrea un flacone
di sonnifero. “Questo è già piuttosto forte. Su, non è possibile che non
le faccia effetto,” buttò lì, persuasiva.
Andrea scosse la testa.
“Non mi fa niente, e comunque è quasi finito. Me ne dia un’altra
confezione,” la supplicò.
“Senza ricetta non se ne parla neanche.”
“Per favore. Io voglio dormire.”
“Già. Vogliamo tutti dormire. È naturale.” Socchiuse gli occhi. “Si
procuri la sua ricetta.” “Voglio solo dormire,” ripeté Andrea.
“Quando è ora,” aggiunse a voce bassa. “Solo quando è ora.”
La farmacista sospirò e si voltò risoluta verso un’altra cliente.
“Prego?”
Andrea fece una specie di mezzo sorriso spavaldo e raddrizzò le
spalle. Lanciò un’occhiata alla donna che aveva in mano un foglietto
piegato a metà. “Lei otterrà tutto quello che vuole,” le disse.

Attraversò la strada e si diresse verso il giardino comunale.


L’insonnia che lo aveva assalito non era saltuaria, occasionale,
di quelle con cui è possibile scendere a patti dosando le gocce di
un
sonnifero o ingoiando qualche pasticca quasi invisibile, lo sapeva
perfettamente – e, da questo punto di vista, non essere riuscito ad avere
aiuto dalla farmacista era irrilevante, un atto di cui si conosce in
partenza la vanità e che si compie solo per fugare il dubbio di non aver
tentato ogni strada. Si era convinto che la sua insonnia fosse una
protesta collettiva del corpo, di ogni organo e di ogni ghiandola, che si
diffondeva ai muscoli e alle palpebre, alle giunture e ai tendini, che
disarticolava i pensieri e li sguinzagliava in ogni direzione,
provocandogli uno stato di eccitazione nervosa. Aveva provato, nei
giorni precedenti, diversi rimedi tra quelli alla portata della sua
immaginazione: pasti leggeri, languide camminate senza meta, diluite
nel tempo, lunghe immersioni serali in bagni così caldi da arrossargli
la pelle: risultati inutili, riguardo al sonno, almeno quanto quel residuo
di sonnifero trovato nell’armadietto del bagno, e di cui la farmacista si
era rifiutata di vendergli un’altra confezione.

E poi un pomeriggio – di quelli in cui si prevede che non ne arriverà


mai la fine, quando le ore si impigliano e li inceppano quasi fossero
meccanismi troppo sofisticati per sopportare la mancanza di scopo con
cui li si attraversa – la scoperta, banale e sorprendente: se non riusciva
a dormire in silenzio, al buio, circondato dagli oggetti che gli erano
familiari, era evidente che dormiva benissimo in pubblico, alla luce,
esposto al brusio e agli scossoni in un tram, in metropolitana, oppure
nell’atrio della stazione, tra un annuncio e l’altro di un treno in
partenza o in arrivo; e dormiva ancora meglio fingendo di osservare i
nuotatori alla piscina comunale, nel tepore umido e saturo di cloro che
appannava i vetri. Per ogni notte perduta di sonno, recuperava di
giorno, lontano da casa. Dormire mentre attorno a lui la gente si
affannava a viaggiare, nuotare, correre lo faceva sentire meschino e
quasi in colpa; ma i suoni smorzati del mondo, affievoliti dalla
coscienza vigile che infine si arrende alla stanchezza, agivano come
una cantilena rassicurante e piacevolmente soporifera. Per nulla al
mondo avrebbe confessato a sua moglie che cosa lo spingeva fuori di
casa ogni mattina e come passasse le sue interminabili giornate vuote;
erano sposati da vent’anni e, mentre era stato messo in conto che uno
dei due, prima o poi, sarebbe sopravvissuto all’altro, non erano mai
stati sfiorati dall’idea che un giorno sarebbe potuta essere lei l’unica a
lavorare; anzi, dall’idea che lei non avrebbe potuto smettere di
lavorare
– e faceva una bella differenza.
Sua figlia, si consolò, era sicuramente all’oscuro di tutto, come ogni
adolescente che ignora – con una certa determinazione istintiva –
qualunque preoccupazione seria che riguardi i propri genitori. La
voleva così, inconsapevole e superficiale, come gli pareva giusto che si
fosse a quindici anni.
Scelse la panchina assolata accanto all’area dedicata ai bambini più
piccoli; e le risate e i pianti infantili gli provocarono immediatamente
una implacabile nostalgia. Se per la sua stessa infanzia o per quella di
Anna, non avrebbe saputo stabilirlo; o forse la nostalgia era dovuta al
desiderio che entrambe si estendessero, la sua e quella di sua figlia, per
un periodo illimitato, o comunque che l’infanzia fosse un’età a cui si
potesse fare continuamente ritorno, semplicemente desiderandolo. E in
questo senso di perdita irrimediabile socchiudeva gli occhi al sole e
cercava, nel bagliore rossastro filtrato dalle palpebre, immagini
sbiadite di una felicità inventata o comunque rabberciata alla meglio
pescando a casaccio nella memoria. Da lì, da quel bagliore solcato di
striature arancio e oro, scivolava finalmente nel sonno.
La sirena di un’autoambulanza bloccata nel traffico lo risvegliò
bruscamente. Diede un’occhiata all’orologio e si alzò. I bambini erano
spariti. Sulla recinzione qualcuno aveva appeso uno zainetto blu
impolverato e dimenticato nella fretta del gioco. L’unica traccia
evidente che lì c’erano stati dei bambini, pensò Andrea. Chiuse dietro
di sé il cancelletto del recinto, come per preservarlo, intatto, per
l’indomani. Nella luce smorta della sera si muoveva a passi lenti,
svuotati di qualunque energia. Rientrare a casa, osservare
l’espressione stanca e vagamente preoccupata di sua moglie, il lampo
di
commiserazione che di tanto in tanto le attraversava lo sguardo, era
avvilente. I primi giorni fingere di avere qualcosa da fare durante il
giorno gli era parsa una soluzione accettabile, dal momento che
rimanere solo a casa quando le due donne uscivano gli provocava una
claustrofobia insopportabile; si era illuso che mantenere la stessa
routine di quando aveva un lavoro – otto ore fuori casa, dal lunedì al
venerdì – rendesse meno aspra la consapevolezza che la sua vita era
irrimediabilmente cambiata. Gli parve di vedere un’ombra minuta che
si ritraeva dietro il tronco di un faggio, ma non vi badò e proseguì
verso casa.

Dopo aver cenato – passato di verdura, stracchino e mele cotte –


indossò il pigiama e le pantofole, come ogni sera. Verso le undici
raggiunse la moglie a letto e ascoltò, paziente, il resoconto della sua
giornata. “Prima o poi ti rimetterai in carreggiata,” concluse lei
spegnendo la luce. “Vedrai.”
Andrea aspettò di sentirla profondamente addormentata, quindi si
alzò. Sospettava che lei si fosse ampiamente accorta di come passasse
le notti seduto in salotto, ma non ne aveva la certezza. Voleva
evitarle almeno questo, la visione di un uomo incapace di riprendere
il
controllo e anzi determinato, forse, a conquistarsi una completa rovina.

L’arrivo di Anna lo fece sobbalzare. Sembrava estremamente


fragile nella camicia da notte che le sfiorava il ginocchio.
“Stai cercando un altro lavoro, papà? È questo che fai tutti i giorni,
vai a fare colloqui?”
“Ogni tanto,” mentì lui. “Certe volte faccio solo delle gran
passeggiate.”
“Passeggiate, proprio passeggiate?” chiese lei, con una sfumatura
di nervosismo nella voce.
Andrea avvertì una stretta di pericolo immediato e inevitabile.
“Passeggiate,” ripeté, a voce più alta.
“Una mia amica ti ha visto, oggi. Al parco.”
“Passeggiavo,” sussurrò Andrea, incerto.
“Dormivi. Dormivi,” ripeté lei, calcando appena la voce. “Su una
panchina. Davanti alle giostre.”
“Dormo poco di notte, sai. Mi sarò appisolato. Non è mica la fine
del mondo, non ti pare?”
“Alice dice che sei incastrato dalle circostanze. Dice che è difficile
immaginare come ti senti in questa situazione.” Si arrotolò una ciocca
di capelli sull’indice.
“Te l’ho detto,” fece Andrea sulla difensiva, “mi ero solo
appisolato un momento.”
“Alice è tornata a vedere a intervalli e tu hai dormito tutto il
pomeriggio.”
“Alice è una…” Andrea si interruppe. “Smettila di fissarmi con
quell’aria,” riprese, tentando di infondere una nota di autorevolezza
paterna a quanto stava dicendo. “Ero stanco morto. Tutto qui.”
Anna si guardò i piedi scalzi. “Sono le tre di notte, papà.”
“Le tre?” Andrea udì la propria voce incepparsi, confusa. “Già le
tre?” Si sentì sopraffatto da quell’informazione appena ricevuta,
come se lo scorrere del tempo avvenisse suo malgrado.
“Perché non vai a dormire?” continuò Anna. Parlava a voce più alta,
adesso. “Come fanno tutti,” aggiunse e, nel dirlo, allargò il braccio
disegnando un semicerchio nell’aria.
“Non ci riesco,” sussurrò Andrea. Scosse la testa. “Non posso farci
niente.”
“Puoi andare da un medico, no? Sono cose che si curano, queste.”
“Sì,” disse Andrea, “immagino che potrei.”
“Ok. Fallo allora.”
“Lo farò. Promesso.”
Anna si morse le labbra. “Io torno a dormire. Ciao, papà,” disse,
chinandosi a sfiorargli la guancia con un bacio.
Andrea la guardò uscire dal salotto, in punta di piedi come se
temesse di fare troppo rumore. Era arrivata quasi a imboccare il
corridoio quando si voltò.
“Domani vengo a passeggiare con te, papà. E anche dopodomani.
Tutti i giorni. Finché serve,” disse, risoluta.
Ad Andrea parve di vederle un guizzo di crudeltà nello sguardo, o
forse semplicemente di amore incondizionato – quale dei due, si
accorse, non avrebbe saputo dire.
Benedetta Cibrario (Firenze, 1962), scrittrice, ha esordito con
Feltrinelli pubblicando Rossovermiglio (2007; premio Campiello
2008), a cui hanno fatto seguito Sotto cieli noncuranti (2009; premio
Rapallo Carige 2010), Lo Scurnuso (2011) e, nella collana digitale
Zoom, L’uomo che dormiva al parco (2012).
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INDICE

L’uomo che dormiva al


parco L’autrice
Cos’è ZOOM?
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© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

Edito nella collana ZOOM Flash, giugno 2012

ISBN: 9788858850534

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