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Savinio credeva, beato lui, che i refusi fossero epifanie del profondo e quando, battendo a macchina, gli
avveniva di vedersi sbocciare sotto le dita una parola deforme, godeva di trarne responsi come dalle sillabe
d’una Sibilla. Ammiro tanta disinvoltura, ma a me succede altrimenti: ogni violenza inflitta alla scrittura mi
umilia. Peggio: me ne viene un risentimento della sensibilità che alla lunga minaccia di diventare nevrosi. Il
consiglio di un dottore amico è di curarmi del malanno parlandone in pubblico. Dice che tout se tient
nell’innumerevole trama dei nostri nervi e che può bastare uno screzio, anche minimo e periferico, a
sconvolgere l’equilibrio del sistema, così come dalle bolle di sapone che soffia un ragazzo sul balcone qui
accanto, o dai cerchi di un sasso buttato nelle acque di Cava d’Aliga, è possibile che derivi, fra qualche
giorno, un ciclone sulla Giamaica o un maremoto nel mar del Giappone.
Scherza, naturalmente, ma a me piace obbedirgli, credulo come sono di ogni ricetta che la medicina mi
offra. Anche perché so che un nemico schedato è un mezzo nemico. Smascherare, battezzare il
responsabile di questa mia mite ossessione vorrà dire in qualche modo addomesticarlo. Ebbene, il suo
nome è refuso, ma secondo me è il diavolo e dovrebbe chiamarsi Legione.
“Refuso” recita il Tommaseo “dicesi della stampa andata a male, onde tutte le lettere sono in confuso.” In
parole spicce il refuso sarebbe un puro incidente tipografico al quale chi scrive è meglio che si rassegni in
anticipo, senza conferirgli nessuno stemma di persecuzione o di sgarro metafisico. Qui sta il mio debole,
invece. Nel sospettare in ogni insurrezione dell’alfabeto un complotto contro di me, diretto da un
innominato in camice da lavoro, un tizio dalle mezze maniche, comunque si chiami, proto o linotipista: in
realtà un nebbioso tiranno che ha preso a malvolermi sin dal principio.
Non mi dolgo altrettanto degli errori di pensiero o di fatto. L’errore – lapsus, qui pro quo, abbaglio, topica,
granchio – mi nasce dentro naturalmente, non posso rinnegarlo, è figlio mio. Non mi resta, quando accade,
che gridare a gran voce mea culpa o bestemmiare tacitamente, come frate Cipolla, me stesso. Se poi il
delitto è flagrante, sia benedetto e sacrosanto il castigo. Il quale mentre comporta l’oscura soddisfazione di
espiare, mi rimette in pace col mondo. Così, poniamo, se attribuisco a una scacchiera cento case invece
delle doverose sessantaquattro, posso solo chiedermi, stupefatto, in seguito a quale ingorgo di cellule
pensanti sia potuto avvenire il disguido, trattandosi di materia a me familiare sin dall’infanzia. Oppure
quando trascorro a volgere in negativo il senso originario dell’aggettivo “corrusco”, posso invocare, accanto
alla correità di altri maggiori di me, il diritto di vita e morte che sul vocabolario suole arrogarsi chi scrive; e
dichiarare con sfacciataggine che l’orecchio ha le sue ragioni che la ragione non comprende; e che,
insomma, “corrusco” lampeggi pure a suo comodo, ma rima troppo con “lusco” e “brusco”, ricorda troppo
“corruccio” e “fosco” per non dover significare anche “torvo”...
Altre volte, quando la difesa è più ardua, sarà lecito scusare le proprie infrazioni come rivincite esistenziali,
innocui abusi e simulate mostre d’onnipotenza. Senza dire dei casi in cui siamo chiamati a pagare le colpe
degli altri... Io non so scordarmi (è una piccola piaga ma sanguina ancora) di uno svarione a mia firma di cui
ero innocente come Gesù. Avevo scritto su un periodico, non importa dire a che proposito, di sentirmi
simile a quel personaggio di Hawthorne, Wakefield, il quale, dopo aver lasciato la famiglia, s’era nascosto
per anni a spiarla dalla finestra di fronte. Non ho mai saputo chi, in tipografia, forse per una inconsulta
smania di delucidazione, aggiunse la qualifica di vicario al nome di Wakefield, confondendo in una due
persone lontane, e mischiando nella stessa tazza le onorate tisane di Goldsmith con la cicuta dello scrittore
di Salem. Che sarebbe valso lagnarsi? In casi simili conviene sperare nella fretta e bonarietà dei lettori. Né
d’altra parte il pastiche era privo d’un suo grazioso sapore d’agrume. Tanto da darmi voglia di escogitarne
altri analoghi e di usarli in forma di beffa erudita. Fu allora che promisi agli ingenui soci d’un circolo di
provincia che avrei parlato loro un sabato sera del celebre epistolario di Abelardo con Marianna
Alcoforado, intitolato Lettere a una novizia. Mi pentii appena in tempo, i manifesti erano già stampati.
Insomma, l’errore (anche se non si creda alla sua numinosità) entra con pieno diritto nel gioco stesso del
vivere, è la quota d’azzardo nel calcolo di dadi che ci governa. Né è detto che sia sempre alleato della
tenebra, può partorire a volte una verità: so di taluno che trovò l’America e cercava solo le Indie.
Ma il refuso? Il refuso non possiede un solo quarto di nobiltà, è il rictus che sconcia un viso, la sassata che
sfregia un vetro, il fischio della corda che si rompe sotto l’archetto. Questo nel migliore dei casi: quando,
cioè, si esibisce in forma evidente, suscitando nel lettore, dopo l’irritazione, un assillo poliziesco a restituire
la lezione perduta. Ma son casi rari. Più spesso il refuso si traveste da galantuomo, affila nell’ombra i suoi
coltelli, cresce come una carie, un tumore. Sotto questa subdola specie m’è apparso la prima volta che ho
pubblicato. Fu subito dopo la guerra, su un giornale milanese di impegno religioso, l’Uomo, ch’ebbe rapida
ma ispirata vita. E io, in una rubrica chiamata “Penitenziario”, dove si accoglievano a turno anonimi sfoghi,
confessioni e lacrime dei collaboratori, scrissi che portavo fra loro, io laico e triste, una disperazione intrusa,
inventandomi (precoce vizio) un aggettivo che mi pareva aver più vigore di “estraneo”, “incompatibile”,
“alieno”...