Sei sulla pagina 1di 14

Copyright © Dialegesthai 2011 (ISSN 1128-5478) | filosofia@mondodomani.

org | Direzione e redazione

Marcello Zanatta

Il metodo della ricerca nell'Etica nicomachea e


nell'Etica eudemia

Nota. Per problemi tecnici tutti i termini greci sono stati traslitterati usando la transcriptio
classica.

1.

Il presente saggio si colloca in una serie di ricerche intese a mostrare che l'Etica eudemia --
contrariamente all'opinione ampiamente invalsa, soprattutto in un recente passato, non
soltanto tra i fautori del metodo storico-genetico, ma anche tra gli studiosi di Aristotele che
hanno decisamente rifiutato questa linea esegetica -- non può considerarsi (a)
cronologicamente anteriore all'Etica nicomachea, (b) né l'espressine di una dottrina meno
raffinata di quella esposta in questo trattato. Al contrario, sussistono forti elementi che
provano come l'Etica eudemia presupponga l'Etica nicomachea e ne rigorizzi la dottrina,
compendiandola nei suoi tratti essenziali e conferendole sistematicità. L'elemento sul
quale qui si riflette è la delineazione del metodo della ricerca etica.
Nel suo basilare studio Aristotle on the perfect live Anthony Kenny ha scritto che
«the Eudemian Ethics had a solid claim to be a late and definitive statement of Aristotle's
ethical position» (p. VII). Lo studioso mostra tuttavia ancora una certa indecisione sulla
datazione dell'opera (Ivi: «whatever might be the original date of theNicomachean
Ethics»). L'analisi comparativa delle indicazioni metodologiche nei due trattati mi sembra
comprovare l'assunto dello studioso e al contempo dissipare ogni dubbio circa il rapporto
cronologico tra essi, mettendo in luce che le indicazioni dell'Etica eudemia rappresentano
la sintesi organica e teoricamente salda di quelle dell'Etica nicomachea.

2.

Nell'Etica nicomachea Aristotele non manca certo di fornire importanti indicazioni sul
metodo che l'etica e, in generale, le scienze pratiche debbono seguire nelle loro ricerche.
Tuttavia tali importanti indicazioni non si raggruppano in una riflessione unitaria e in sé
complessiva sul tema, ma risultano dislocate in più parti del trattato, almeno in tre luoghi
principali e primari (I, 1; I, 2; VII, 1) e in ciascuno di essi hanno il carattere di riflessioni
sull'argomento di volta in volta in questione. Ond'è che si può, certamente, ricostruire una
dottrina unitaria dello Stagirita sul metodo dell'etica e, in generale, delle scienze pratiche,
ma, per l'appunto, mettendo assieme analisi collocate in luoghi diversi e non sviluppate
secondo una trattazione unitaria.

2.1.

Una di queste è il basilare intervento metodologico che Aristotele svolge in Eth. nic., I, 2.
Esso si delinea come riflessione sulle opinioni espresse in ordine alla felicità, che all'inizio
di questo capitolo stesso è detta essere «il più alto di tutti i beni che sono oggetto d'azione
(to panton akrotaton ton prakton agathon)» (1095 a 15-17) e a proposito della quale si fa
presente che «sul suo nome vi è pressoché accordo da parte della maggioranza degli
uomini», ma sulla sua concreta consistenza vi sono notevoli differenze tra le opinioni del
volgo e quelle dei sapienti (1095 a 17-21). Così, richiamate alcune tra le più rilevanti e
diffuse opinioni sulla felicità (1095 a 20-28) -- rilevanti, in quanto vedono in causa teorie
filosofiche, come quella platonica secondo cui vi è un bene trascendente che è causa di tutti
i beni del mondo sensibile (1095 a 26-28); diffuse, perché corrispondono a opinioni
largamente condivise dalla massa -- e fatto presente che non è necessario esaminare tutte
le opinioni espresse a riguardo, bastando invece esaminare quelle «più diffuse (tas malista
epipolazousas)» e più rispondenti a ragionevolezza (dokousas echein tina logon) (1095 a
28-30), Aristotele dà inizio a una riflessione su queste opinioni che di fatto coincide con
una riflessione sul metodo che va seguito nella ricerca etica.
1. Egli incomincia col fare presente la differenza che separa «i ragionamenti che procedono
dai principi (hoi apo ton archon logoi)» da quelli che «risalgono ai principi (hoi epi tas
archas)» (1095 a 31-32). Il richiamo di questa differenza è funzionale alla successiva,
basilare riflessione, nella quale propriamente prende concreta determinatezza la
delineazione del metodo in sede di ricerca etica.
2. Esso consiste (a) nel prendere le mosse «da ciò che è noto (apo ton gnorimon)», ossia
da un «dato» che sia «sicuro»: un dato, perché questo è il punto di partenza di ogni
ricerca, la quale deve muovere da qualcosa che non sia costruito da essa stessa, ma che
costituisca un'acquisizione già assodata. Insomma, bisogna procedere da una conoscenza
già acquisita per conoscere ulteriormente, e tale conoscenza è, per l'appunto, il dato. E da
un dato «sicuro», perché, se non lo fosse, crollerebbe -- per così dire -- tutto l'edificio della
ricerca stessa, di cui il dato rappresenta come la base.
(b) Ma ciò che è noto può essere tale o in senso assoluto (haplos), ossia
incondizionatamente, situazione che altrove Aristotele qualifica anche come essere noto
«per sé (kath' hauto)», o «per noi (hemin)»; e ciò che è noto per noi è ciò che corrisponde
alla nostra esperienza immediata, o, più esattamente, a ciò che «appare» nell'immediata
esperienza: il phainomenon. In altri luoghi lo Stagirita afferma che quel che è noto in senso
assoluto corrisponde a ciò che è «primo» per sé, chiamando per converso ciò che è noto
per noi, «primo» rispetto a noi, per rimarcare il carattere di punto di partenza di tali
oggetti. Ciò che è noto (o primo) in senso assoluto (o per sé) è costituito, innanzitutto, dai
principi primi di ogni scienza; inoltre, dai principi delle relative dimostrazioni, vale a dire
dalle premesse da cui dette dimostrazioni procedono (le quali possono anche non essere
costituite dai principi primi della scienza in oggetto, bensì da proposizioni derivare da essi,
ma anche in questo caso si tratta pur sempre si principi, e come tali esprimono un
contenuto conoscitivo noto in senso assoluto. Le dimostrazioni, infatti, muovono dalle
premesse come da conoscenze già acquisite, senza metterle in discussione; donde il loro
carattere di assolutezza. Ma ciò che è noto in senso assoluto (o per sé) può essere anche ciò
che si rende noto al termine di un processo d'indagine inteso a chiarire ciò che è noto per
noi, giacché anche le conoscenze di questo tipo, una volta raggiunte, sono slegate da ogni
vincolo di iniziale relazione a chi le possiede, ed è perciò da esse che l'indagine deve
prendere le mosse, giacché costituiscono le conoscenze, per così dire, solide dalle quali si
giunge ad altre conoscenze solide.
(c) Posto, dunque, che si deve procedere da ciò che è noto per noi, e che questo è costituito
dai phainomena, essi nel caso di specie sono le opinioni: quelle, per l'appunto, espresse
intorno alla felicità. Ecco perché si diceva che le indicazioni metodologiche rappresentano
una riflessione sull'esa-me delle opinioni. Ma poiché, come abbiamo visto, le opinioni sulla
felicità che occorre prendere in considerazione ed esaminare non sono tutte, bensì soltanto
quelle più accreditate o per la loro diffusione o per l'autorevolezza di chi le ha espresse, è
necessario comprenderle a fondo e adeguatamente onde poterle sottoporre a un adeguato
vaglio. E per poterle ben comprendere occorre avere già una preparazione in materia di
etica, essendo stati ben guidati -- dice Aristotele -- nei costumi, così da ascoltare con
profitto le lezioni concernenti questa materia, in generale su argomenti di politica. 1
Pare di dover capire che la buona guida nei costumi non sia ciò che direttamente permette
di comprendere in modo adeguato le opinioni sulla felicità, ma sia condizione
indispensabile per acquisire una buona educazione morale, il possesso della quale
permette di comprendere dette opinioni nella loro esatta valenza. Sarebbe, insomma,
indiretta l'incidenza della guida da parte di buoni maestri nella comprensioni delle più
diffuse e autorevoli opinioni sulla felicità.
In tal modo la riflessione di Aristotele risulterebbe in perfetto accordo con quanto lo
Stagirita asserisce in Eth. nic. , I, 1, là dove, indicando le condizioni soggettive per una
proficua ricerca in campo etico, ossia le qualità che deve possedere chi si accinge ad
applicarsi a questa ricerca, prima fa riferimento alla necessità che si abbia esperienza dei
fatti della vita, per cui la filosofia pratica mal s'addice al giovane (1095 a 3-4), indi
sottolinea le necessità di aver acquisito modi di vita virtuosi ed essere di buoni costumi,
giacché soltanto così si è in grado di ascoltare con profitto i discorsi sul bene e sulla virtù
(1095 a 5). Donde una terza condizione, strettamente connessa a questa seconda:
l'importanza d'avere ricevuto una buona educazione, essenziale presupposto per acquisire
costumi virtuosi (1094 b 4 ss.).
Nel quadro di quest'esegesi si verificherebbero, dunque, uno stretto legame e un rapporto
di costitutiva solidarietà tra la condizione oggettiva della disamina sulla felicità, l'esame
cioè delle più diffuse e accreditate opinioni in merito a essa, e la condizione soggettiva
consistente nell'essere stati ben guidati nei costumi: nella misura in cui grazie a questa
guida si acquisisce, mercé la solida educazione morale che ne consegue, la capacità di
comprendere correttamente dette opinioni.
(d) Nella successiva affermazione secondo cui «il principio è il fatto, e se questo risulterà
sufficientemente chiarito non ci sarà nessun bisogno del perché (arche to hoti, kai ei touto
phainoito arkountos, ouden prosdeesei tou dioti)» (1095 b 6-7), sembra di dover vedere
espressa e teorizzata l'indicazione metodologica concernente l'esito dell'avvenuta
discussione dei phainomena adeguatamente compresi, nel caso di specie di quelli in ordine
alla felicità. Il «fatto» (to hoti) è il phainomenon, ossia, nel caso di specie, l'opinione sulla
felicità, e se la discussione su di esso perverrà ad accertare che non presenta aspetti
negativi, da correggere o da eliminare, oppure, se li presenta, se essi verranno corretti o
soppressi, il phainomenon sarà da considerarsi acquisito come valido e ciò che in esso si
asserisce non avrà bisogno di essere indagato in ordine alla causa, ossia al «perché (to
dioti)» della sua validità.

2.2.

Assai vicine a queste ultime osservazioni sono quelle del famoso passo finale di Eth. nic.,
VII, 1 (1145 b 2-7), il quale esprime, sì, indicazioni metodologiche relative al tema lì in
oggetto: l'intemperanza e la mollezza di carattere, ma per il carattere generale di queste
indicazioni stesse non manca di costituire un intervento basilare della metodologia di ogni
ricerca nel settore etico-politico. Del resto, come abbiamo già avuto modo di far osservare,
tutte le indicazioni metodologiche offerte nell'Etica nicomachea nascono come
osservazioni su problemi specifici, ma per l'ampiezza della loro applicazione vanno ben al
di là del singolo problema.
Vi si afferma la necessità (dei) di considerare i phainomena, ossia i punti di vista espressi
sull'ar-gomento in questione; indi di sottoporre detti punti di vista a esame diaporematico,
vale a dire a un esame che, in merito a ciascuno di essi, consideri le difficoltà (aporiai,
dyschere) inerenti alla tesi che esso sostiene e a quella a esso contraria. Si tratta cioè di
considerare se tra le conseguenze della tesi proposta da quel phainomenon o tra quelle
della tesi contraria ve ne siano alcune che configgono irrimediabilmente con un endoxon,
ossia con un'opinione notevole, che, in quanto tale, non può essere messa in discussione,
ma che, al contrario, viene accettata come vera. Si tratta, infatti, di opinioni che, in virtù o
dell'universalità o, quanto meno, dell'ampiezza dell'approvazione che riscuotono, o
dell'autorevolezza di coloro che le hanno espresse, fungono da punti di riferimento e
d'appoggio, nel senso che l'accertamento della conformità o della difformità di
un'asserzione con esse o da esse diviene criterio per l'accettazione o il rigetto di
quell'asserzione stessa. Di conseguenza, il phainomenon o la tesi a esso contraria da cui
derivino conseguenze che creano difficoltà (aporiai, dyschere), ossia confliggano in
maniera insanabile con un'opinione notevole, saranno da scartare, tenendo così per buono
o il phainomenon stesso o l'opinione a esso contraria; viceversa, il phainomenon che,
sottoposto a esame diaporematico, non presenti conseguenze che configgano con
un'opinione notevole, o che, se vi configgono, non lo facciano in maniera irrimediabile, ma,
adeguatamente corrette, verifichino la loro assonanza con essa, dovrà essere ritenuto
valido. Da qui, dunque, la conclusione: «se si sciolgano le difficoltà e si lascino sussistere le
opinioni notevoli, si sarà data una sufficiente dimostrazione (dedeigmenon an eie
hikanos)». «Dimostrazione sufficiente», dice Aristotele, non «dimostrazione (apodeixis)»
in senso vero e proprio, secondo una distinzione che traspare anche dalla differenza
tra deiknynai hikanos e apodeixis/apodeiknynai; ma, per l'appunto, è ciò che nel caso in
oggetto e, in generale, in materia etica basta per comprovare un'istanza.

2.3.

Questa prerogativa delle argomentazioni etiche di essere «dimostrazioni sufficienti» trova


altresì piena corrispondenza e solidale suffragio nell'indicazione secondo cui esse
mostrano la verità in maniera approssimativa e a grandi linee (1095 a 20-21: pachylos kai
typos talethes endeichnysthai). Le due affermazioni, nella sostanza, esprimono un
medesimo contenuto considerato da due differenti angolature: le argomentazioni etiche
non sono connotate da necessità, per cui la verità delle loro conclusioni non è
incontrovertibile (come quelle di altre discipline); per questo non sono dimostrazioni vere
e proprie, quali sono definite negli Analitici, bensì «sufficienti dimostrazioni». Le
dimostrazioni, infatti, sono quei sillogismi in cui le premesse sono enunciazioni «vere,
prime, immediate, più note, anteriori e cause della conclusione» (An. Po. , I, 2, 71 b 21-22),
e come tali, (a) poiché il sillogismo è un procedimento necessario, hanno il rigore della
necessità, (b) e poiché dal vero deriva soltanto il vero (mentre dal falso può discendere sia
il falso che il vero), sono vere, cioè incontrovertibili, nelle conclusioni cui pervengono. Per
converso, le argomentazioni in materia etica né hanno il carattere della necessità, né quello
della verità incontrovertibile. Per questo sono «dimostrazioni sufficienti». I due aspetti
costituiscono due differenti rilevazioni di una medesima realtà.
Il rilievo aristotelico che connette strutturalmente questo carattere delle argomentazioni
etiche con la natura del loro oggetto, ossia la materia etica stessa, è costituito da un passo
che conviene considerare nella sua interezza
Si dirà sufficientemente (hikanos) se si daranno delle delucidazioni (diasaphetheie) conformi alla
materia in questione. Infatti, la precisione (to akribes) non va ricercata in ugual misura in tutti i
discorsi, come neppure in tutti i prodotti artigianali (demiourgoumenois). Le cose moralmente
belle (ta kala) e le cose giuste, intorno alle quali verte la politica, hanno molta diversità (pollen
diaphoran) e instabilità (planen), a tal punto che si crede che si crede che esistano soltanto per
convenzione (nomos) e non per natura (physei). Una tale instabilità (planen) hanno anche i beni,
per il fatto che a molti giungono anche danni da essi: già, infatti, alcuni andarono in rovina per la
ricchezza, altri per il coraggio. Quando dunque si parla intorno a cose e a opinioni di questo genere
e a partire da cose e opinioni di questo genere, bisogna accontentarsi di mostrare la verità in
maniera approssimativa e a grandi linee (pachylos kai typos talethes endeichnysthai); e quando si
parla intorno a cose che sono per lo più (hos epi to poly) e a partire da cose che sono di questo
genere, di trarre anche conclusioni di questo genere. Nello stesso modo, pertanto, bisogna anche
accogliere ciascuno dei ragionamenti che vengono esposti. Infatti, è proprio di un uomo colto
(pepaideumenou) ricercare la precisione (takribes) in ciascun genere nella misura in cui lo
consente la natura della ricerca; infatti, è manifestamente pressoché identico ammettere che un
matematico sia persuasivo e richiedere a un retore delle dimostrazioni (apodeixeis) (1094b 11-27).
Qui, come si vede, (a) si fa presente che la precisione dei discorsi dev'essere conforme alla
natura della materia di cui trattano, in particolare che, ove abbiano a oggetto realtà che si
verificano per lo più e non in modo necessario, anch'essi devono avere questa natura; (b) si
riconosce che la materia etica è caratterizzata da instabilità e da molte differenze, per ciò
che attiene sia il compimento di azioni riferibili a una virtù, come per esempio il coraggio,
sia l'uso dei beni esterni, come la ricchezza; (c) pertanto si conclude che i discorsi in
materia etica debbono mostrare in maniera approssimativa e a grandi linee, giacché questo
è il tipo di precisione che compete loro; (d) si fa infine presente che non riconoscere
questo, ma pretendere che anch'essi abbiano il rigore dei discorsi di altre scienze, in
generale pretendere che i discorsi abbiano il medesimo rigore in tutti i campi, è espressine
di mancanza di cultura.
Si tratta di rilievi che enunciano importanti indicazioni metodologiche della ricerca etica
dal punto di vista oggettivo, riflettono cioè sulla natura della materia in questione e
connettono alle sue peculiari caratteristiche quelle dei discorsi che ne trattano.
A questi rilievi Aristotele ne fa seguire altri che specificano le condizioni che deve avere chi
si accinge a ricercare in campo etico, condizioni che perciò possiamo definire soggettive e
delle quali si è già fatta menzione.

3.
Quando si confrontino queste indicazioni metodologiche con quelle sviluppate nell'Etica
eudemia, un fatto salta subito agli occhi: la sostanziale identità di contenuto con quelle
proposte nell'Etica nicomachea e, al tempo stesso, unitamente alla loro maggiore sobrietà,
anche la loro compattezza espositiva, di fronte e per contro alla diffusione in più punti
delle indicazioni del trattato testé detto, essendo tutte raccolte in un unico, apposito
capitolo, il sesto del primo libro. Ma un esame comparativo dettagliato metterà in chiaro le
peculiarità teoriche della metodologia dell'inda-gine morale delineata nell'Etica
eudemia mercé il rilievo che i suoi momenti assumono sullo sfondo delle parallele
trattazioni dell'Etica nicomachea.

3.1.

La prima indicazione -- che corrisponde poi alla prima parte di Eth. eud., I, 6 (righe 1216 b
26-35) -- (a) inizia con l'avvertimento della necessità, quando si tratta di etica, di cercare la
credibilità (zetein ten pistin). Il rilievo è sintomatico in quanto caratterizza già di per sé la
natura dell'ar-gomentazione morale collocandola, per così dire, sul piano della credibilità e
non già della verità incontrovertibile. L'essere credibili è il proprio dei sillogismi retorici o
entimemi, i quali, com'è noto, sono una specie di sillogismi che hanno caratteristiche assai
vicine a quelle dei sillogismi dialettici (tanto da far dire ad Aristotele che la retorica è il
controcanto della dialettica [Rhet., I, 1, 1354 a 1: he rhetorike estin antistrophos tes
dialektikes]);2 ora, tra le finalità della dialettica non è contemplata quella di persuadere,
almeno in primis, bensì quelle di confutare, evitando a propria volta di essere confutati,
nonché di saggiare e sottoporre a esame critico, essendo essa peirastica ed exetastica, con
tutta la differenza di questa procedura da quella della dimostrazione in senso proprio. La
dialettica e la retorica non sono dimostrative, e l'etica, per il fatto stesso che le sue
argomentazioni -- come qui si dice -- devono cercare di essere persuasive, pur non
riconducendosi certamente alla retorica né alla dialettica, viene tuttavia caratterizzata con
una prerogativa che in ogni caso la riporta alla retorica, nella sua strutturale vicinanza alla
dialettica, per l'aspetto che tutte e tre sviluppano argomentazioni che non sono vere e
proprie dimostrazioni. Tale sembra essere la valenza di fondo della persuasività qui
indicata come obiettivo delle argomentazioni etiche. Non si tratta certo di una persuasività
di tipo retorico, conseguita con i procedimenti propri di questa disciplina:
l'argomentazione etica, infatti, a differenza di quella retorica, non fa leva sui sentimenti
dell'uditore né sui costumi dell'oratore, nel caso di specie dell'espositore, né, quando fa
leva sul discorso stesso, non applica le medesime strategie della retorica, a partire dalla
ricerca dei luoghi, propri e comuni. Ma non per il fatto di non perseguire la persuasività
che persegue la retorica, manca dal perseguire la persuasività. La quale, in tutta evidenza,
non è di un unico tipo, ma assume differenti valenze e plurime sfaccettature, una delle
quali è, per l'appunto, quella di cui si connota in campo etico. In negativo, in ogni caso, il
rilievo qui a tema è interessante in quanto distanzia immediatamente -- e cioè fin dalle
prime battute della trattazione intorno alla metodologia della ricerca etica -- l'argo-
mentazione morale dall'essere dimostrativa in senso proprio.
(b/1) L'indicazione prosegue facendo presente che per perseguire la persuasività l'etica
deve far uso di argomentazioni che ricorrano ai phainomena, ossia alle opinioni e ai pareri
espressi su un determinato argomento, assunti come testimoni (martyrioi) e come modelli
(paradeigmata). L'uso dei phainomana, come abbiamo visto, è espressamente prescritto
anche nell'Etica nicomachea, dove tuttavia manca la precisazione che di essi
l'argomentazione etica deve valersi come testimoni e modelli. Si tratta di vedere se
l'aggiunta arreca una novità dottrinaria o specifica semplicemente, facendola
espressamente rimarcare, la funzione che i phainomenahanno nell'Etica nicomachea. Ora,
a un attento esame sembra che il modo corretto d'intendere l'indicazione «aggiuntiva» sia
questo secondo, sì che l'esposizione del metodo dell'Etica eudemia risulta non soltanto più
ricca, ma anche più precisa sotto lo stesso profilo dottrinale.
(c) Che l'uso dei phainomena nell'Etica eudemia sia il medesimo che nell'Etica
nicomachea si evince dal seguito dell'indicazione. Aristotele afferma essere cosa ottima
(kratiston) che tutti siano d'accordo, almeno in qualche modo (tropon ge tina) se non
completamente, con ciò che «sarà detto (tois rhethesomenois)», e che a un tale accordo
perverranno «metabibazomenoi», espressione che può significare, secondo la differente
accezione del verbo metabibazein, sia «qualora siano guidati», sia «qualora mutino
parere», ma che nel caso di specie, come risulta dal seguito, significa entrambe le cose e
per questo tradurrei con «essendo guidati a mutare parere». Il fatto che l'accordo abbia
luogo con «le cose che saranno dette» (tois rhethesomenois) indica che a essere guidati a
mutare parere non sono coloro che ascoltano i phainomena, giacché, se così fosse, non
avrebbe senso parlare di «cose», bensì di soggetti, di persone, mentre sono proprio le
«cose» che saranno dette in futuro ciò con cui il testo prevede verificarsi l'accordo. Il che
significa che i phainomena, ossia le opinioni e i pareri espressi su un certo tema, sottoposti
a esame critico e, dunque, corretti negli aspetti e per i profili in cui risultano inaccettabili,
saranno guidati a mutare. Ebbene, l'argomenta-zione dialettica è ciò che, con la sua
capacità, propriamente retorica, di saggiare e valutare, ossia di
essere peirastica ed exetastica, opera una tale guida in ordine aiphainomena e un tale
mutamento rispetto a ciò che essi in se stessi, ossia inizialmente, asserivano. Insomma,
l'argomentazione etica, lungi dal costituire una dimostrazione nel senso tecnico in cui ne
parlano gli Analitici, è invece quel procedimento che, attraverso l'esame critico
dei phainomena, giunge ad accertare ciò che di vero essi contengono, correggendo ciò che
di inaccettabile sostengono. Il risultato di quest'esame, che, dunque, corrisponde a una
sorta di guida e di mutamento dell'iniziale contenuto del phainomenon, rappresenta
l'affermazione «vera» cui l'argomentazione etica perviene, ossia la verità che mediante
questo tipo di procedimento argomentativo si viene a stabilire in materia di etica.
(b/2) In quest'ordine di considerazioni è chiaro, pertanto, perché i phainomena siano
assunti come testimoni e come modelli: come testimoni, in quanto attestano un contenuto
sul quale l'argomenta-zione etica, nella sua valenza peirastica ed erxetastica, dovrà
vagliare e decidere il grado di verità -- esattamente come in tribunale il giudice vaglia le
testimonianze e ne stabilisce il grado di attendibilità; e come modelli, in quanto
queiphainomena rappresentano un'indicazione nel percorso da seguire -- ancorché non da
imitare in tutto e per tutto.
(d) L'ultima parte dell'indicazione suffraga quest'esegesi. Vi si afferma che in ciascuno, in
merito ai temi cui determinatamente il rilievo fa riferimento ma, per estensione, in merito
a ogni tema etico, alberga un elemento di verità (oikeion ti pros ten aletheian), ossia che
nel phainiomenon si trova espresso qualcosa di vero, cosicché l'argomentazione deve
muovere da questo. Non si tratta di una verità interamente e totalmente manifestata, ma,
per un verso, come abbiamo visto, da attestare, facendola emergere ed enucleandola dalla
ganga -- diciamo così -- di possibili istanze inaccettabili con cui s'accompagna. Ma, per
altro verso (ed è ciò che qui più conta), non è una verità totalmente chiara, giacché non così
è espressa (cfr. ek ton alethos men legomenon ou saphos de) dalphainomenon, ma che
deve diventarlo, mercé un procedimento che, a partire da quell'aspetto di verità ancora
confuso, intervenga via via (cfr. proiousin) a sceverare distintamente nei suoi elementi
concettuali ciò che si è soliti enunciare in modo confuso (cfr. ton eiothoton legesthai
synkechymenos). Si perviene in tal modo alla stessa nozione di partenza, ma espressa
chiaramente e chiaramente scandita sul piano concettuale, ossia avendo chiarito
concettualmente gli elementi della nozione, vera, che nel phainomenon sono confusamente
assommati.
Non è difficile scorgere l'analogia tra il procedimento qui descritto con quello che, usato
dalla fisica per reperire i principi, a differenza della matematica che invece li pone,
Aristotele illustra in Phys., I, 1 (184 a 21-26) come procedimento di successiva divisione del
composto, globale e indifferenziato (ta synkechymena, to holon, to katholou), nei suoi
costituenti semplici o elementi (ta stoicheia). Qui, infatti, lo Stagirita, premesso che la via
naturale del conoscere «muove dalle cose più note e più chiare per noi a quelle più chiare e
più note per natura» (per cui si deve procedere «dalle cose più oscure per natura, ma più
chiare per noi a quelle più chiare e più note per natura»), precisa che più chiare per noi,
ossia a noi note per prime (to proton dela kai saphe), sono le cose nella loro globalità (ta
katholou), e cioè nell'indistinzione dei loro aspetti particolari (ta kath' hekasta), ancora
mescolati assieme (ta synkechaumena): cose che, in queste fattezze e in questo preciso
senso, costituiscono un intero (to holon) (184 a 16-24). Donde la conseguenza che bisogna
procedere dall'intero indifferenziato alla divisione delle sue singole determinazioni, le quali
sono comprese in esso come parti (184 a 26: hos mere) e costituiscono i termini ultimi
della scomposizione, quei termini, cioè, che non sono a loro volta passibili di analisi e per
questo hanno funzione di elementi (184 a 23: ta stoicheia). Tale divisione, che conclude
nella definizione (logos, horismos), la quale «divide nelle <determinazioni> individuali
(184 b 3: diairei eis ta kath' hekasta)», ossia enuncia una per una le determinazioni
essenziali della cosa, richiede l'impiego di principi e si compie a partire da essi (184 a
23: hai archai diairousi tauta, e cioè ta stoicheia); il che le conferisce il carattere di una
vera e propria ricerca.
In conclusine, possiamo riassumere l'indicazione metodologica che proviene da questo
primo momento del percorso additato in Eth. eud., I, 6 nei seguenti termini:
l'argomentazione etica (1) non costituisce una vera e propria dimostrazione, bensì un
procedimento che mira alla persuasività; (2) a essa perviene movendo dalle opinioni
espresse su un determinato tema (i phainomena) e, (3) sul presupposto che in ciascuna di
esse è contenuto almeno qualche elemento di verità, ma sovente mescolato con elementi
non veri o presentato sotto aspetti non veri, ed enunciato in modo concettualmente
confuso, (a) da un lato separa la verità del phainomenondalle eventuali non verità che
l'accompagnano, correggendo, fin dove è possibile, questi aspetti, o eliminandoli, ove non
sia possibile correggerli, (b) dall'altro, attraverso successive distinzioni concettuali, fa
chiarezza concettuale su ciò che è enunciato confusamente.
È da rilevare il carattere fondamentalmente dialettico del tipo di argomentazione qui
descritto, messo in luce sia dall'uso dei phainomena quale materia su cui esercitare un
esame critico e valutativo, sia dal fatto che il discernimento concettuale degli elementi
presenti nella verità dei phainomena, ma confusamente enunciati, avviene mercé l'utilizzo
dell'elemento linguistico, come appare dalle stesse espressioni con cui abbiamo sentito lo
Stagirita illustrare questo procedimento, e la distinzione delle valenze e dei significati di
termini ed espressioni costituisce una delle operazioni tipiche della dialettica.

3.2.
La seconda indicazione è un avvertimento (1) a non considerare superflua la ricerca del
«perché (to dia ti)», ossia della causa, anche nell'ambito di argomenti etici (indicati con
l'appellativo complessivo di politici), sul presupposto che una tale ricerca è di natura
teoretica, mentre quegli argomenti hanno natura pratica e per essi basta considerare il che
(to ti); (2) ma a ricercare una causa che sia adeguata al tipo di argomento e non allotria
rispetto a esso. I due momenti meritano di essere analizzati dettagliatamente.
(1) Circa il primo, è innanzitutto interessante rilevare la rivendicazione da parte di
Aristotele della ricerca causale quale prerogativa del discorso filosofico, essendo questa ciò
che lo differenzia dal discorso non svolto filosoficamente; e -- si noti -- prerogativa del
discorso filosofico in quanto tale, non che verta su un determinato genere di argomenti.
«Nell'ambito di ciascuna ricerca -- dice infatti lo Stagirita -- tale <maniera di procedere> è
propria di un filosofo» (1216 b 39). Il che, considerato in unità con l'invito a distinguere «in
ogni ricerca i discorsi proferiti filosoficamente [...] da quelli proferiti in modo non
filosofico» (1216 b 35-36), significa che (*) intorno a un dato argomento si può enunciare
un discorso sia filosofico che non filosofico, ossia che non è l'argomento, vale a dire
l'oggetto del discorso, a costituire la differenza tra il discorso filosofico e quello non
filosofico, bensì il modo di sviluppare tale argomento, vale a dire di proferire il discorso;
(**) la prerogativa per la quale un discorso, su qualunque oggetto verta, ha natura
filosofica è esattamente di ricercare la causa. E poiché la ricerca causale, nella sua
peculiarità di qualificare il discorso filosofico in quanto tale, è qui indicata da Aristotele
come ricerca teoretica (cfr. 1216 b 38: toiauten theorian), è chiaro che anche in campo
etico il discorso che, nell'indagare i relativi argomenti, li indaga filosoficamente, ossia in
modo etiologico, ha natura teoretica. Dunque, anche la filosofia pratica ha natura teoretica.
Essa è «pratica» quanto all'oggetto, ma è «teoretica» quanto alla natura dell'indagine che
mette in campo, essendo un'indagine causale. Più in generale, la scienza (episteme) in
quanto tale, ossia ogni scienza, è teoretica, per il fatto stesso di essere conoscenza causale
(cfr.Metaph., I, 1).
(2) Con il secondo avvertimento, chiaro nell'indicazione che enuncia, Aristotele apre una
prospettiva nella quale due aspetti sembrano essere allusi, uno di ordine metodologico
generale, estendibile cioè a ogni ricerca scientifica, e un secondo relativo alla sola ricerca
delle cause in campo etico.
(a) Per un verso, infatti, l'invito a reperire una causa che sia adeguata al genere di realtà
intorno a cui verte l'indagine, mettendo in pari tempo in guardia dalla possibilità di
indicare cause non attinenti alla materia, ove si tenga conto che le cause (aitiai, aitia) sono
principi (archai) (cfr. Metaph., V, 1, 1013 a 17-18), equivale a ribadire, sia pur secondo un
ordine inverso, la regola metodologica secondo cui ogni scienza deve valersi di «principi
propri (archai idiai)» e da essi procedere nelle relative argomentazioni; pena
quella metabasis eis allo genos che è vietata3 e che, ove si attuasse, corrisponderebbe al
misconoscimento della originaria multivocità dell'ente, ossia del suo essere
originariamente ordinato in distinti generi tra loro irriducibili, aventi ciascuno principi,
per l'appunto, propri.
L'ordine inverso cui si accennava allude al fatto che la regola testé enunciata concerne la
deduzione che le scienze devono operare nelle rispettive dimostrazioni a partire dai
principi, mentre nell'avvertimento in questione si afferma la necessità che la ricerca trovi
principi adeguati alla materia. Le scienze, infatti, in quanto tali, non ricercano i principi,
ma, già possedendoli, procedono a dimostrare a partire da essi, e i principi dai quali
operano le dimostrazioni sono, oltre quelli comuni, aventi funzione di premessa maggiore,
quelli propri, costituiti da enunciati primi validi per un unico e determinato genere di enti -
- essi che, fungendo da premessa minore, sono tali che il soggetto di cui predicano sia il
soggetto stesso della conclusione (così almeno nel sillogismo in prima figura, il quale,
essendo perfetto e a esso riducendosi i sillogismi nelle altre due figure, può a buon diritto
assumersi a punto di riferimento del rilievo), con ciò specificandosi la ragione formale per
cui ogni scienza verte costitutivamente intorno a un determinato genere di realtà.
Sennonché, ferma restando la differenza di cui si sta dicendo, l'esigenza manifestata al
fondo di quell'avvertimento e di questa regola è la medesima, la necessità di avere principi
che, per essere adeguati alla materia, devono essere «propri», visti nell'opposta e
complementare prospettiva del loro reperimento e della deduzione a partire da essi.
(b) Per altro verso, nell'asserita necessità di reperire principi che siano adatti alla materia
non può non essere scorto un motivo di anticipata polemica nei confronti della platonica
Idea del bene, la quale, al pari e ancor più di ogni Idea, essendo ratio essendi e ratio
cognoscendi di tutte le Idee, rappresenta sì un principio, ma non di ordine pratico, essa
che invece persiste nell'eterna immutabilità e identità a se medesima, laddove il bene che
deve valere da principio etico avrà necessariamente carattere «pratico»: lungi, cioè,
dall'essere immobile ed eterno nella trascendenza dal sensibile, sarà invece realizzabile
nell'ordine dell'azione. L'avvertimento concernente la necessità di reperire un principio
adatto alla materia vale, in campo etico, come avvertimento a cercare un bene siffatto e
non già il bene platonicamente concepito.

3.3.

La terza indicazione (1217 a 10-17) è un monito a sottoporre a giudizi distinti (choris


krinein) la ricerca della causa (ton tes aitias logon) e ciò che a partire dalla causa viene
dimostrato (to deiknymenon).
È subito interessante considerare le espressioni che Aristotele usa per indicare i due
oggetti del distinto giudizio, e innanzitutto quella con cui denota la ricerca della causa:
«discorso della causa (ton tes aitias logon)», per mettere in chiaro il procedimento logico-
linguistico che, a partire dall'esame diaporematico dei phainomena, porta alla distinzione
concettuale degli elementi che concorrono a scandire la nozione, ossia a definirla, nei
termini che abbiamo prima illustrati. La causa è, esattamente, la nozione distintamente
acclarata e concettualmente definita, giacché a partire da essa s'innesca il ragionamento
che porta a una conclusione su un dato argomento morale; e il procedimento mediante cui
la si rinviene è, per l'appunto, un discorso. Ecco perché «discorso della causa».
Quanto all'oggetto che, a partire dalla causa così reperita, viene provato, è interessante
osservare che l'espressione che lo designa -- il participio del verbo deiknynai -- richiama da
vicino la dimostrazione in senso vero e proprio (apodeixis) e al tempo stesso marca una
distanza da essa, a significare che si tratta di una sorta di «quasi dimostrazione», ovvero di
un procedimento che non è la dimostrazione descritta negli Analitici, ma non per questo
manca di essere una procedimento inferenziale.
Entrambi i procedimenti -- quello che porta a reperire la causa e quello che dalla causa
porta a concludere in ordine a un dato argomento -- vanno sottoposti a giudizio (krinein),
afferma Aristotele, ossia debbono essere oggetto di controllo della correttezza delle
procedure poste in atto.
La necessità che il giudizio sia distinto (choris) è giustificata dallo Stagirita con due
ragioni. La prima delle quali è l'opportunità di non fissare interamente l'attenzione sulla
«quasi dimostrazione», ma di rivolgerla anche aiphainomena. Il richiamo alla circostanza
per cui, «qualora [...] non si sia in grado di sciogliere <una difficoltà>, si è costretti a
credere a quanto è stato detto», mentre ancora insiste nel ribadire il carattere logico-
linguistico del procedimento che porta a reperire la causa, stante che la difficoltà cui si
allude altro non è che il conflitto tra ilphainomenon e una sua conseguenza, secondo il
procedimento diaporematico, o tra il phainomenon o una sua conseguenza e un'opinione
notevole (endoxon), nuovamente sottolinea la verità presente nei phainomena, e al tempo
stesso sottolinea come a una tale verità occorra «credere», divenga cioè, nella circostanza
specificata, oggetto di credenza (cfr. 1217 a 14: pisteuein), ma non sia una verità
incontrovertibilmente accertata.
La seconda giustificazione sposta il rilievo sulla causa in funzione di premessa e mette in
guardia sul fatto che una conclusione vera può derivare anche da una premessa falsa. Può
ben essere, insomma, che la causa reperita sia falsa, per cui la verità della conclusione alla
quale, movendo da essa, perviene il procedimento argomentativo non deve trarre in
inganno e far credere che tale causa sia vera. Il riferimento agli Analitici
primi e secondi4quali trattati dove la regola logica chiamata in causa viene illustrata,
attesta come l'ambito sul quale si stagliano questa seconda giustificazione e,
complessivamente, l'intero rilievo dello Stagirita siano il sillogismo e, in specie, la
dimostrazione. Donde il risalto che -- ancora una volta -- assume l'insistenza da parte dello
Stagirita nel mettere in chiaro e poi ribadire che le argomentazioni in materia etica sono
«quasi dimostrazioni».

4.

Un esame comparato delle indicazioni metodologiche espresse nell'Etica nicomachea e


nell'Etica eudemia mette dunque in chiaro che, mentre nessuna di quelle fornite nel primo
trattato manca, direttamente o indirettamente, di essere presente nel secondo,
quest'ultimo offre una trattazione del metodo della ricerca etica non soltanto
unitariamente esposto, a fronte della dispersione delle indicazioni stesse in differenti punti
dell'Etica nicomachea, ma, a ben vedere, più sobria e, di conseguenza, più consistente
sotto un profilo logico e dottrinale. Tutto ciò lascia ragionevolmente credere che la
trattazione del metodo dell'Etica eudemia presuppone quella dell'Etica nicomachea, dal
momento che ne ripropone i contenuti e la perfeziona nell'esposizione.
Contro questa conclusione si potrebbe obiettare che, diversamente da quanto si afferma,
nell'Etica eudemia non si rinviene alcuna menzione, né diretta né indiretta, di quella che
abbiano chiamato la condizione soggettiva per una fruttuosa applicazione alla ricerca etica,
cui invece ampiamente si diffonde l'Etica nicomachea. Donde l'incompletezza o, quanto
meno, la parzialità della metodologia etica trattata nell'Eudemia. Ma a uno sguardo più
attento e a fronte di una considerazione più incisiva e critica proprio questa «mancanza»
risulta essere un pregio e non un difetto e, di conseguenza, l'attestazione di una maggiore
maturità dottrinaria raggiunta dallo Stagirita nel redigere quest'opera. Ché, l'esame delle
condizioni del soggetto in rapporto alla materia morale, l'analisi, cioè, delle condizioni che
questi deve possedere per attendere con frutto all'ascolto delle lezioni di etica, la sua età,
l'esperienza di vita maturata, la sua disposizione verso le passioni, è materia che riguarda,
certamente, la filosofia pratica, ma non, in senso proprio, la metodologia della ricerca in
questo settore. Attiene invece alla psicologia dell'uditore, si direbbe con espressione
moderna, alla sua paideia, con terminologia più confacente ad Aristotele. Ond'è che il
tralasciare tali indicazioni rappresenta una significativa attestazione di consapevolezza
dottrinaria e di rigore nella trattazione: di consapevolezza dottrinaria, perché è
manifestazione di una piena conoscenza della specificità della materia oggetto della
trattazione, delle sue prerogative peculiari e, pertanto, anche dei suoi confini
contenutistici; e di rigore, perché di questo è segno il mantenere l'analisi del metodo della
ricerca morale entro i confini della scienza morale, evitando ogni sconfinamento in altri
settori.
In quest'ordine di considerazioni, un'ultima annotazione s'impone. Su un aspetto pur
importante e basilare della metodologia della ricerca etica propriamente considerata quale
il rilievo secondo cui le argomentazioni in questo settore non sono dimostrazioni in senso
proprio, l'Etica eudemia non si sofferma determinatamente, ma vi alluda soltanto in modo
implicito; vi allude in più momenti, ma soprattutto nella prima indicazione, là dove si dice
che in campo morale la trattazione deve mirare alla persuasività, e nella seconda, dove si fa
presente la necessità di ricercare una causa che sia adeguata al tipo di argomento e non
allotria rispetto a esso. Ebbene, anche il mancato soffermarsi determinatamente a
rimarcare quest'aspetto, lungi dal costituire una mancanza dell'Etica eudemia, costituisce
invece una lampante attestazione di sobrietà di analisi. Che le argomentazioni etiche non
siano dimostrazioni propriamente intese, bensì «quasi dimostrazioni», è una conseguenza
diretta dei rilievi anzi richiamati. È dunque su questi rilievi che l'analisi deve soprattutto
appuntarsi e, quanto al corollari, basta un implicito accenno. È esattamente quanto fa
l'Etica eudemia, mostrando anche sotto questo profilo e per questo risvolto la maturità
dottrinale che sorregge la trattazione del metodo.

Bibliografia richiamata e/o utilizzata nel saggio

Edizioni e traduzioni

 Aristotelis, Analytica Priora et Posteriora, Recensuit brevique adnotatione critica


instruxit W. D. Ross, Praefatione et appendice adiunxit L. Minio-Paluoello, Oxford,
Clarendon Press 1986.
 Aristotelis, Ars rhetorica, recognovit brevique adnotatione critica instruxit W. D.
Ross, Oxford, Clarendon Press 1959; 2ª ed. 1964.
 Aristotelis, Ethica Eudemia, adiecto de virtutibus et vitiis libello, recognovit Fr.
Susemihl, editio stereotypa, Amsterdam, Verlag A. M. Hakkert 1967.
 Aristotelis, Ethica Eudemia, recognoverunt brevique adnotatione critica
instruxerunt R. R. Walzer et J. M. Mingay, Praefatione auxit J. M. Mingay, Oxford,
Clarendon University Press 1991.
 Aristotelis, Ethica Nicomachea, recognovit brevique adnotatione critica instruxit I.
Bywater, Oxford, Clarendon Press 1962.
 Aristotle's Physics, a revised text with Introduction and Commentary by W. D. Ross,
Oxford 1936; 3ª rist., Oxford 1966.
 Aristotelis, Metaphysica, recognovit brevique adnotatione critica instruxit W.
Jaeger, Oxford, Clarendon University Press 1957.
 Aristotele, Organon, saggio introduttivo, traduzione, note e indici analitici di M.
Zanatta, 2 voll, Torino, U. T. E. T 1996.
 Aristotele, Etica Eudemia, Introduzione, traduzione e note di P. Donini, Roma-Bari,
Laterza1999.
 Aristotele, Etica Nicomachea, Introduzione, testo greco, traduzione e commento di
M. Zanatta, 2 voll., Milano, Rizzoli l986.
 Aristotele, La Fisica, Introduzione, traduzione, note e indici analitici di M. Zanatta,
Torino, U. T. E. T 1999.
 Aristotele, Metafisica, Monografia introduttiva, testo greco, traduzione e
commentario di M. Zanatta, 2 voll., Milano, Rizzoli 2010.
 Aristotele, Retorica e Poetica, Introduzione, traduzione, note e indici analitici di M.
Zanatta, Torino, U. T. E. T 2004.

Studi critici

 Aa. Vv., Aristotle and Plato in the Mid-Fourth Century, hrsg. von I. Düring,
Göteborg 1960
 Aa Vv., Untersuchungen zur Eudemischen Ethik. Akten des 5. Symposium
Aristotelicum (Oosterbeek, Niederlande, 21-29 August 1969), heraugegeben von P.
Moraux und D. Harlfinger, Berlin, Walter De Gruyter 1971.
 Aa. Vv., Analyse comparative des vertus morales particulières dans l'Éthique à
Nicomaque et l'Éthique à Eudème, par L. Rodrigue, Université de Montriol 2008.
 Aa. Vv., Studi sull'etica aristotelica, a cura di A. Alberti, Nopoli, Bibliopolis 1990.
 Berti E., Le vie della ragione, Bologna, Il Mulino 1987.
 Berti E., Le ragioni di Aristotele, Laterza, Bari 1989.
 Berti E., Il metodo della filosofia pratica in Aristotele, in AA. VV., Studi sull'etica
aristotelica, cit., pp. 23-64.
 Engberg-Pedersen T., Aristotle's Theory of Moral Insight, Oxford, Clarendon Press
1983.
 Hardie W. F. R., Aristotle's Ethical Theory, Oxford, Clarendon Press 1968.
 Jaeger W., Aristoteles. Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung, Berlin
1923; tr. it. di G. Calogero, Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione
spirituale, Firenze, La Nuova Italia 1935.
 Kenny A. J. P., The Aristotelian Ethics: A Study of the Relationship between the
"Eudemian" and "Nicomachean Ethics" of Aristotle, Oxford, Clarendon Press 1978.
 Kenny A. J. P., Aristotle on the Perfect Life, Oxford, Clarendon Press 1992; rist.
2002.
 Kirwan Ch., Two Aristotelian Theses about Eudaimonia, in AA. VV., Studi sull'etica
aristotelica, cit., pp. 149-192.
 Monan J. D., Moral Knowledge and its Methodology, Oxford, Clarendon Press
1968.
 Natali C., La saggezza in Aristotele, Napoli, Bibliopolis 1989.
 Owen G. E. L., Logic and Metaphysics in Some Earlier Works of Aristotle, in Aa.
Vv., Aristotle and Plato, cit., pp. 163-190; ora in Aa. Vv., Articles, on Aristotle, Vol.
VII : Metaphysics, edited by J. Barnes, M. Schofield, R. Sorabgji, London 1979, pp.
13-32.

Copyright © 2011 Marcello Zanatta

Marcello Zanatta. «Il metodo della ricerca nell'Etica nicomachea e nell'Etica


eudemia». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 13 (2011) [inserito il 20
luglio 2011], disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [53
KB], ISSN 1128-5478.
Note

1. Questo il passo: «senz'altro, quindi, si deve partire da ciò che è noto per noi. Per questo
occorre essere stati ben guidati nei costumi per ascoltare con profitto le lezioni su ciò che è
moralmente bello (peri kalon) e su ciò che è giusto e, in generale, sugli argomenti di
politica» (I, 2, 1095 b 4-6).
2. In proposito mi permetto di rinviare alla nota al testo nell'edizione della Retorica da me
curata.
3. Cfr. An. Po., I, 7, 75 b 8-14: «La dimostrazione aritmetica ha sempre il <suo> genere,
intorno al quale verte la dimostrazione, e similmente le altre <discipline>. Di conseguenza è
necessario che il genere sia il medesimo, o in senso assoluto o per un certo aspetto, se la
dimostrazione deve passare <da uno all'altro>. E che in altro modo sia impossibile, è
chiaro. Infatti è necessario che gli estremi e i medi siano del medesimo genere. Ché, se non
sono per sé, sono accidenti. Per questo con la geometria non è possibile dimostrare che la
scienza dei contrari è unica, ma neppure che due cubi sono un cubo; né con un'altra scienza
<è possibile dimostrare> ciò che è proprio di un'altra». Eccepiscono a questa regola le
matematiche applicate, ossia l'astronomia, l'ottica e l'armonica, le quali si servono dei
principi delle matematiche vere e proprie (cfr. Ibid., 14-17); ma non si tratta di scienze
indipendenti, bensì subalterne.
4. Cfr. An. pr., II, 2, 53 b 3-9 e An. po., I, 32, 88 a 20.

Copyright © Dialegesthai 2011 (ISSN 1128-5478) | filosofia@mondodomani.org | Direzione e redazione

Potrebbero piacerti anche