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Marcello Zanatta

Aspetti mentali e aspetti fisici nella concezione


aristotelica della percezione
 1. Introduzione
 2. Sugli aspetti somatici della percezione
 3. L'esistenza di un processo di alterazione fisica nella percezione
 4. L'interpretazione fisiologica letterale e i suoi limiti
 5. L'alterazione somatica compensativa della percezione

1. Introduzione
La teoria della percezione è probabilmente uno degli aspetti della filosofia dello Stagirita più
delicati da avvicinare, a causa della tanto inevitabile quanto anacronistica tendenza ad esaminarla
alla luce della distinzione, originatasi solo a partire da Cartesio, tra mentale e fisico.1 Le formule
con cui Aristotele descrive in generale la percezione, non esplicitamente espresse in questi termini,
finiscono col risultare per ciò stesso irrimediabilmente ambigue al lettore contemporaneo. A
testimoniarlo, la serie di controversie tra i sostenitori di una loro interpretazione in chiave
«materialista» o «fisicalista», e quelli che le intendono invece esclusivamente in riferimento a un
processo mentale e di coscienza. Secondo alcuni, infatti, il filosofo teorizzerebbe la sensazione
come attività cognitiva cui non si accompagna alcun processo fisiologico nel soggetto; per altri, in
maniera diametralmente opposta, la sensazione non sarebbe altro che un normale processo di
alterazione negli organi sensori. Diversamente, si è sostenuto che entrambi gli aspetti (mentale e
fisico) siano rintracciabili nella sua teoria, che taluni credono essere sorprendentemente in linea con
gli orientamenti «funzionalisti» della psicologia contemporanea. Né è mancato chi ha scorto nelle
tesi dello Stagirita un'insanabile contraddizione di fondo tra le opposte istanze, responsabile di varie
incoerenze e oscurità disseminate in essa, che la conducono al fallimento.

2. Sugli aspetti somatici della percezione


È anzitutto opportuno cercare di dirimere la questione se, e in che grado, Aristotele ammetta la
necessità di condizioni corporee per la percezione. Il filosofo descrive a più riprese la percezione
come «ricezione della forma dei percepibili senza la materia» (424a 18-19; cfr. 425b 24, 429a 15-
16, 434a 29-30), come «essere affetti dalla forma» (424a 23, a 34, b 3; cfr. 427a 8-9), e come
«diventare identico all'oggetto sensibile» (418a 4; 422a 7; 423b 28-424a 10), sottolineando che il
processo percettivo può essere denominato «alterazione» solo in senso lato (II 5, 416b 34-35, 417b
29-418a 6). In 425b 22-24, inoltre, si legge che ciò che vede è «in un certo senso» colorato.
Quasi a voler esorcizzare, di fronte a espressioni tanto ambigue, le possibili distorsioni
interpretative derivanti della distanza storica, taluni studiosi hanno cercato recentemente di
rivitalizzare alcune tesi degli antichi commentatori, volte a dimostrare che ciò che avviene durante
la percezione non è un normale processo di alterazione somatica.2 Già Alessandro di Afrodisia,
preoccupandosi nel suo De anima di evitare la contraddittoria compresenza di qualità opposte nello
stesso corpo, ipotizzava uno stato speciale in cui i colori e i suoni sarebbero presenti nei rispettivi
intermediari e organi.3 Similmente, Temistio sviluppava una distinzione tra i sensi in ragione del
loro grado di corporeità: mentre gli organi della vista e dell'udito non sono fisicamente affetti nel
percepire, ciò non accade negli organi e negli intermediari del tatto e del gusto.4 La classificazione
venne sostanzialmente confermata, con alcune precisazioni, da Filopono,5 che ritenne del tutto
immateriale la presenza del colore nel mezzo trasparente e quella dell'odore nella natura «diosmica»
dell'aria (almeno per quanto concerne l'ultima parte del tragitto che l'oggetto compie fino all'organo
sensorio), leggendo in questo senso l'espressione aristotelica «ricevere la forma senza la materia».6
Tali idee si diffusero poi, presumibilmente attraverso le annotazioni che corredavano usualmente le
traduzioni dal greco delle opere del filosofo,7 nella cultura araba e successivamente in quella latina.
In particolare, Averroè teorizzò esplicitamente che le forme sensibili fossero presenti, nel mezzo e
nell'organo sensorio, in uno stato intermedio tra quello materiale e quello spirituale, rilevabili
rispettivamente negli oggetti percepibili e nel senso.8 Tale dottrina, strettamente connessa alla
nozione di «intenzione» secondo la modalità inaugurata da Avicenna,9 fu ripresa da Alberto Magno
e Tommaso d'Aquino,10 e si ritrova ancora in alcuni esponenti della tarda Scolastica.11
Rielaborando originalmente queste interpretazioni, Brentano poté quindi introdurre nella filosofia
contemporanea la sua nozione di inesistenza intenzionale, affermando che vi alludesse già
Aristotele con la ricezione della forma senza la materia.12

La più decisa e argomentata ripresa di una simile linea interpretativa è stata recentemente
propugnata, da M. Burnyeat, sulla scorta di una dettagliata analisi delle condizioni materiali del
percepire istituite da Aristotele, condotta alla luce della nozione di «quasi alterazione».13 Secondo
tale disamina, la necessità di materiali ricettori omogenei diversi per ciascun organo sensorio
dimostra innanzitutto che non esiste alcuna microstruttura degli organi, e quindi che è errato
ritenere che Aristotele attribuisse ai suddetti organi una costituzione materiale complessa.14 Le
condizioni materiali riguardanti i sensori sarebbero, per lo stesso motivo, «statiche», ossia tali da
facilitare o ostacolare l'accuratezza della percezione senza alcun'altra influenza sul processo che
avviene in essa.15 Un discorso simile varrebbe, poi, per gli aspetti materiali concernenti lo stimolo
attivante la capacità percettiva. Il colore è definito in base al suo essere capace di muovere
(θηλεηηθόλ) ciò che è in atto trasparente, ma non occorre chiedersi perché o in virtù di cosa abbia
questa capacità, né ritenere che l'accenno alla θίλεζη< vada inteso nel senso di «locomozione» (il
termine si riferirebbe genericamente a ogni tipo di cambiamento, inclusa l'alterazione) .16 La frase
indicherebbe semplicemente che il colore produce un certo effetto sul mezzo. La luce, inoltre, è
descritta come atto del trasparente (418b 9), negando che sia fuoco, o un corpo, o l'emanazione di
un corpo (418b 14-15), e perciò anche qualcosa che si muove.17 Il mezzo trasparente affetto dal
colore non potrebbe quindi dirsi colorato e visibile se non in modo derivato (cioè tale che il colore
di un corpo sia visibile attraverso esso), giacché a interessarlo sarebbe una «quasi alterazione»,
paragonabile a quella che ha luogo in un bicchiere riempito d'acqua che, senza diventare realmente
colorato, rivela il colore di un oggetto posto dietro di esso.18 Sarebbe errato, quindi, ritenere che la
tesi che la vista non può essere prodotta dal colore visto stesso, esposta in 419a 18-19, postuli tra il
colore e il soggetto vedente un intermediario che agisce sul secondo. Così facendo, infatti, si
cederebbe a una fuorviante supposizione tipicamente moderna, secondo cui la funzione del mezzo è
quella di congiungere l'oggetto percepito al soggetto percipiente, laddove esso ha invece lo scopo di
separarli.19 Le medesime considerazioni varrebbero poi per l'alterazione che ha luogo nei
sensori.20 La differenza tra l'effetto sul mezzo e l'effetto sull'occhio (il secondo consiste nel vedere,
non il primo) sarebbe dovuta al mero possesso della capacità di vedere da parte di quest'ultimo, e
tale spiegazione sarebbe per Aristotele pienamente soddisfacente.21 Quanto detto si applicherebbe
in II 8 anche al suono e all'udito,22 e sarebbe infine legittimamente esteso alla generalità dei sensi
all'inizio di II 12, nella nota formula «ricevere la forma senza la materia». Con l'analogia
dell'impronta dell'anello nella cera si indicherebbe, pertanto, che per ognuno dei cinque sensi si ha a
che fare con una fisica delle sole forme, senza processi materiali.23 In questo stesso senso andrebbe
letta, in II 5, l'affermazione che la percezione non è un caso di mutamento ordinario. Attraverso una
minuziosa e precisa analisi, Burnyeat nota che Aristotele parte in questo capitolo dalla concezione
dell'alterazione contenuta nella Fisica,24 ma la evolve sulla base di una distinzione tra diversi tipi
di potenza,25 ponendo accanto a un'alterazione ordinaria tra contrari (ignoranza e scienza), un
passaggio tra termini che non lo sono (scienziato -- nel senso di possessore di scienza- e scienziato -
- nel senso di colui che esercita la scienza) che, caratterizzato dalla conservazione della potenza
originaria, non può dirsi alterazione.26 Lo Stagirita riconosce poi (417b 9-16) che lo stesso discorso
potrebbe estendersi all'apprendimento, se lo si considera come passaggio dallo stato di conoscitore
in potenza a quello in atto, ma, contrastando ζηεξεηηθὰο δηαζέζεηο ed ἕμεηο precisa che ciò che ha
luogo in quest'ultimo caso non è una conservazione, come nel passaggio dalla capacità all'esercizio
di 417b 1-7 (va pertanto eliminato lo ὥζπεξ εἴξεηαη in 417b 14), ma lo sviluppo e l'acquisizione
permanente di una capacità. Pur essendo oggettiva in ragione della dipendenza da una causa esterna,
la percezione è analizzabile secondo lo stesso modello proposto per la scienza, e risulta quindi
differente dall'alterazione ordinaria.27 Gli organi non avrebbero quindi bisogno di essere affetti
fisicamente per essere coscienti di un oggetto, giacché la materia degli animali sarebbe «gravida di
conoscenza» e andrebbe solamente «risvegliata» ad essa.28 Ulteriore conferma dell'interpretazione
avanzata sarebbe la prova della mancanza di percezione delle piante offerta in 424a 32, incentrata
sul loro essere affette con la materia. Se la ricezione della forma senza la materia fosse un mero
diventare qualitativamente identici alla cosa percepita, le piante, subendo con la materia,
dovrebbero riscaldarsi incamerando materia calda, e diventare colorate assumendone di colorata, in
maniera palesemente contraria all'evidenza empirica: un albero, posto al sole, ne è riscaldato senza
che gli sia trasmessa materia calda. Ricevere la forma di qualcosa significherebbe invece,
semplicemente, diventare come la cosa riguardo alla forma. Così, riceverla senza la sua materia
equivarrebbe a diventarle identici quanto alla forma, ma non alla materia (ossia a esserne coscienti
senza un'assimilazione fisica), mentre assumerla con la sua materia implicherebbe un'assimilazione
sia in materia sia in forma, ossia un normale mutamento fisico.29

3. L'esistenza di un processo di alterazione fisica nella


percezione
Ognuno dei punti su cui si regge l'interpretazione «defisiologizzante» è stato fondatamente
contestato. Anzitutto, la fedeltà al pensiero aristotelico originario da parte dei commentatori greci,
che per primi la elaborarono, non può considerarsi qualcosa di unanimemente riconosciuto.
Piuttosto è rilevabile in essi, secondo Sorabji, l'evidente tendenza a interpretare Aristotele in vista di
un'immagine il più possibile coerente del suo pensiero complessivo, e non della fedeltà ai testi. La
defisiologizzazione ha quindi avuto luogo per evitare alcune conseguenze contraddittorie, come lo
scontro di colori diversi nello stesso luogo, che costituirebbe un'infrazione al principio di non
contraddizione.30

Spingendosi oltre nel mostrare la debolezza di fondo dell'interpretazione «defisiologizzante», si


potrebbe tuttavia notare, in aggiunta al discorso di Sorabji, che il problema della coincidenza di
qualità opposte nello stesso mezzo, pertinente solo per il caso del colore nel trasparente31 e non
esplicitamente affrontato da Aristotele, non sarebbe mai stato sollevato se si fossero considerati
attentamente alcuni passaggi del De sensu. In quest'opera, infatti, si legge che il colore è il limite
del diafano in un corpo definito, che, per essendo posto all'estremità sia nei corpi trasparenti alla
maniera dell'acqua e dell'aria, sia in tutti quelli che hanno un colore proprio,32 non è tuttavia, contro
i Pitagorici, il limite del corpo, ma nel limite del corpo.33 È plausibile, quindi, che Aristotele si
riferisca a tutto ciò quando, cercando di determinare se i movimenti causati dal sensibile nel mezzo
(o gli stessi sensibili, nel caso fossero essi a provocare la sensazione) passino prima per il punto di
mezzo dell'intermediario (446a 21-23), esclude fin dall'inizio il caso della luce. A giustificazione di
questa eccezionalità, il filosofo scrive infatti, in 446b 27-28: ηῷ εἶλαη γάξ ηη θῶο ἐζηίλ, ἀιι᾽ νὐ
θίλεζηο. Il senso più convincentemente attribuibile alla frase è che la luce, pur dipendendo dalla
presenza di qualcosa, non è un movimento (nel senso ristretto di movimento locale) .34 Fondandosi
sul proseguimento del capitolo, è ragionevole sostenere che per il filosofo essa fosse piuttosto un
tipo particolare di alterazione.35 Le contraddizioni paventate dai sostenitori della teoria delle forme
intenzionali come stato «quasi fisico», quindi, si rivelano solo apparenti, e se resta ancora valido il
suggerimento di Burnyeat, secondo cui il mezzo è da considerare un elemento di separazione più
che di unione, non c'è dubbio che lo stato della forma nel mezzo è genuinamente fisico. Ciò è
confermato, del resto, dal suo essere identico allo stato della forma nell'oggetto originario non solo
nel caso del tatto,36 ma pure in quello della vista.37 La possibilità di un confronto sfuma invece per
l'odore, dovuto a una sorta di «lavaggio» del secco saporoso nell'aria e nell'acqua (in quanto dotate
di una natura «diosmica» analoga a quella del trasparente), e per il suono, che esiste propriamente
solo nel mezzo.38 Non è infatti contraria a questo rilievo, a dispetto di quanto potrebbe sembrare, la
nota osservazione aristotelica secondo cui se si pone un oggetto direttamente sull'organo non lo si
percepisce. Pretendendo di derivare da questa dottrina la necessità di una «de-fisicizzazione» della
forma nell'intermediario, diventa difficile comprendere perché tale tesi ricorra proprio nella
discussione sul tatto, il cui mezzo è certamente affetto in modo fisico.39 È evidente, al contrario,
che l'intermediario non ha il compito di determinare una «de-materializzazione» dell'affezione non
solo nel caso dei tangibili, ma pure per ciò che concerne il suono (che esiste solo nell'intermediario)
e il colore.40 In questi casi, l'alterazione potrebbe per alcune sue peculiarità dirsi «selettiva» e «non
distruttiva», ma non per questo come «quasi corporea». L'eccezione costituita anche in questo caso
dai tangibili, tuttavia, mostra che il ruolo degli intermediari non può essere ricondotto, in generale,
neppure alla determinazione di questi aspetti dell'affezione.41

La presenza di alterazioni fisiche nella percezione sembrerebbe del resto dimostrata dai capitoli
conclusivi del De Motu Animalium (7-11), che ammettono l'esistenza di processi fisiologici
concomitanti alle attività psichiche, al fine di spiegare la locomozione degli animali.42 In questo
senso sarebbe quindi opportuno intendere l'essere comune al corpo e all'anima dell'attività
percettiva, sul quale, all'inizio del De sensu, si modella quello della memoria e di tutte le forme di
desiderio, piacere e dolore.43 Se l'essere comune della funzione significasse semplicemente l'avere
una qualche condizione materiale necessaria, infatti, anche il pensiero dovrebbe annoverarsi tra le
attività comuni, laddove la sua peculiare modalità di essere «non senza il corpo» (cioè l'esser tale in
virtù della sua dipendenza dalla θαληαζία) è tematizzata espressamente da Aristotele, in 403a 5 ss. ,
in contrapposizione ad affezioni come il coraggio, il desiderio, la collera, in generale la
sensazione.44 In II 1, 412b 4-25 il filosofo tratta infatti il rapporto tra anima e corpo alla stregua di
una qualunque altra relazione forma-materia, esemplificata da quella tra la cera e la sua
conformazione esteriore, laddove l'unità dell'animale e la relazione tra anima e corpo non
potrebbero considerarsi tanto ordinarie, se, ammettendo l'inesistenza di qualsivoglia mutamento
fisico durante la percezione, la materia procurasse soltanto le condizioni di base per mutamenti che
non avverrebbero in essa né per mezzo di essa. Né sarebbe adatta l'analogia dell'anima con l'essenza
dell'ascia, in quanto quest'ultima non può fare nulla senza mutamenti materiali. Sarebbe quindi,
contrariamente alle parole di Aristotele, più che legittimo chiedersi se l'anima e il corpo formino
un'unità, dal momento che, non essendo il corpo operativo nelle attività dell'anima, c'è un senso in
cui essi non sono una sola e identica cosa, e la natura della loro unità non è quindi evidente. Le
analogie con la cera e con l'ascia sono invece perfettamente adeguate se si ammettono mutamenti
fisiologici negli organi corrispondenti a quelli psichici, e ciò vale pure circa la possibilità di rifiutare
la domanda sull'unità tra il corpo e all'anima come mal formulata: l'anima non è infatti
semplicemente una cosa alloggiata in un corpo, ma le sue attività sono le attività del corpo.45

Del resto, l'organo deve necessariamente subire un'alterazione, data la sua costituzione materiale.
Dal momento che gli organi sensori sono generalmente costituiti in modo da essere ricettivi delle
rispettive qualità sensibili, e l'affezione è determinata dal mero contatto con ciò che è capace di
produrla (cfr. GC 1, 7, 324b 7-9, nonché Metaf. IX, 5, 1048a 5-7), sarebbe ben strano se l'affezione
in questione non avesse effettivamente luogo. Ciò significherebbe infatti che gli elementi, entrando
a far parte dell'apparato percettivo, perdono inspiegabilmente la loro naturale capacità di essere
affetti.46

Se anche si concedesse che il processo cui allude il capitolo II 5 non è identificabile con
un'alterazione materiale sottostante alla percezione, pertanto, ciò non implicherebbe che in essa non
ha luogo alcun mutamento fisico,47 come è evidente prendendo in considerazione il caso del
costruttore.48 Il filosofo riconosce soltanto la possibilità di descrivere, da un certo punto di vista, il
passaggio dall'inoperatività all'esercizio della capacità percettiva in modo differente da una normale
alterazione, quale è il mutamento tra opposti colori in un corpo determinato. Questo perché nel
passaggio non si «diventa altri», ma si sviluppa maggiormente la propria natura, portandola a
compimento (ἐληειέρεηα, DA, 417b 6), e ha luogo la conservazione e la realizzazione di ciò che è in
potenza, non la distruzione della determinazione iniziale (DA, 417 b 3) .49

Una prova stringente dell'esistenza di alterazioni materiali nella percezione, infine, è ricavabile
riflettendo sulle implicazioni della dottrina per cui, in seguito ad affezioni prodotte da oggetti
particolarmente intensi, i sensori perdono la capacità di percepire.50

Se quindi è ragionevole ritenere che sussistano pochi dubbi circa l'ammissione, da parte del
filosofo, di una qualche alterazione fisica nella percezione,51 occorre nondimeno cercare di stabilire
qualcosa di più preciso riguardo ad essa, prima di giungere a scorgere nel mancato approfondimento
di questo aspetto un pregevole carattere «funzionalista» della teoria di Aristotele.52

4. L'interpretazione fisiologica letterale e i suoi limiti


Secondo l'interpretazione più diffusa e meglio argomentata, l'alterazione fisica che ha luogo nella
percezione consisterebbe in un diventare letteralmente identici alla cosa percepita. Vedendo un
oggetto rosso, la parte dell'occhio che percepisce diventa fisicamente e realmente rossa.53 In
particolare, l'esistenza di un processo di colorazione nella percezione visiva sembrerebbe
innegabilmente dimostrabile in base a 423b 27-424b 18. Qui si presenta, come problema specifico
del tatto, l'esistenza di una «zona cieca» rispetto a ciò che è caldo, freddo, duro, molle come noi
(424a 2-3), motivandolo (δηό, 424a 2) con la necessità che ciò che sta per percepire sia inizialmente
solo in potenza tale quale l'oggetto è già, e con l'impossibilità che il sensorio sia privo delle qualità
che deve percepire (a differenza degli organi della vista e dell'udito, giacché i tangibili sono i
caratteri definitori degli elementi sublunari, cfr. 422b 27-29). Per spiegare l'evidenza empirica che
non percepiamo se non gli estremi (424a 4), si dice che la sensazione è una medietà (a 4-5), e che
proprio come ciò che sta per percepire il bianco e il nero non dev'essere nessuno dei due in atto, ma
entrambi in potenza, così il tatto non dev'essere né caldo né freddo, e, presumibilmente, entrambi in
potenza (424a 7-10) .54

Non sono mancate tuttavia critiche anche a questa interpretazione,55 e gli stessi suoi sostenitori
sono pronti ad ammetterne alcuni limiti e a effettuare precisazioni. Una prima difficoltà56 riguarda
la necessità di rispettare il significato di κεζόηεο (letteralmente «ciò che è nel mezzo») letto in
riferimento allo stato di ricettività, giacché è difficile capire come il bulbo oculare, trasparente,
possa avere un colore intermedio.57 Problematica è poi, in II 12, la spiegazione della mancanza di
percezione delle piante tramite il loro essere prive di κεζόηεο, che alluderebbe alla costituzione
prevalentemente terrosa che le caratterizza.58 La spiegazione di Aristotele, secondo cui un organo
terroso è inadatto in quanto il tatto, dovendo essere una medietà tra tutti i tangibili, richiede la
ricettività di tutte le qualità tangibili e non solo del freddo e del secco proprie della terra (III 13,
435a 20-b 3), è infatti evidentemente problematica, dal momento che, per l'interpretazione
fisiologica letterale, freddo e secco sarebbero proprio ciò che le piante, essendo già tali, non
potrebbero percepire.59 La necessità che il sensorio posto nel cuore abbia una temperatura media,
in aggiunta, pare difficilmente conciliabile con la dottrina del De iuventute e del De respiratione,
secondo cui il cuore, centro del calore vitale, dev'essere refrigerato dall'aria proveniente
dall'esterno.60

Come è stato giustamente notato, è tuttavia già assurdo in sé sostenere che la κεζόηεο sia la
proporzione tra gli elementi che compongono un organo, e insieme che l'organo debba letteralmente
diventare caldo e freddo. La κεζόηεο sarebbe infatti, in questo modo, inevitabilmente distrutta.61
Né si può giustificare un'eccezione per l'occhio, adducendo la considerazione che esso riceve il
colore in prestito, rimanendo cioè, pur essendo «colorato», trasparente. La condizione di ricettività
posta da Aristotele per l'organo della vista è, infatti, l'essere trasparente in potenza (II 7, 419b 27-
31), e se esso diventasse, sotto l'effetto della luce, trasparente in atto e quindi affetto per accidente
dal colore, perderebbe, come ogni altro organo, la propria condizione di ricettività. L'unico modo di
rispettare il requisito della neutralità dello stato iniziale sembrerebbe quello di ipotizzare un suo
recupero repentino dopo l'affezione. La percezione verrebbe tuttavia a configurarsi, in questo modo,
come una sorta di processo stroboscopico. Per quanto rapido e non avvertibile, esso risulterebbe
inconciliabile con la tesi che la percezione è una ἐλέξγεηα (II5; III 7, 431a 4-8), giacché il termine si
applica ad attività che sono per definizione continue (cfr. Metaf. Θ, 6) .62

Gioca evidentemente a sfavore dell'interpretazione fisiologica letterale, poi, l'implicita distinzione


tra le qualità sensibili in quanto realmente esistenti e in quanto percepite, rilevabile in alcuni passi
di attestanti l'esistenza di un particolare senso, riferito alla sensazione, in cui si è affetti dagli oggetti
sensibili.63 Lo stesso Sorabji ammette, inoltre, che la dottrina dell'identità tra l'atto della percezione
e quello dell'oggetto (425b 26-426 a 26) riguarda il senso e non l'organo sensorio, e che l'identità in
questione è cosa diversa dal semplice diventare simile dell'organo.64 L'alterazione letterale che
avverrebbe nell'organo durante la percezione, quindi, non esaurirebbe comunque il discorso nella
sua interezza, configurandosi come un aspetto fisiologico cui va affiancato quello «intenzionale».65

Conseguentemente, risulta ancor più difficile comprendere a quale di questi aspetti si riferisca
Aristotele in II 12 con la formula «ricevere la forma senza la materia». Essa potrebbe infatti
indicare che il processo di assimilazione fisica avviene senza incamerare materia66 o il diventare
identico del senso con la forma dell'oggetto, oppure ancora gli aspetti intenzionali e formali della
percezione. La ricezione della forma senza la materia, inoltre, potrebbe in linea di principio riferirsi
anche allo speciale tipo di alterazione che si ha nel mezzo e nell'organo, recuperando così la lettura
del capitolo offerta da Burnyeat, con l'importante precisazione che l'affezione in questione è
selettiva e non distruttiva, ma in nessun modo «quasi fisica».67 Nessuna delle considerazioni
addotte a sostegno di ciascuna tesi dai diversi interpreti, del resto, sembra decisiva.68 Qualche
progresso può invece essere ottenuto prendendo in considerazione il seguito del capitolo, in cui
Aristotele si chiede se le forme dei sensibili abbiano come unico effetto quello di produrre la
percezione o se invece agiscano in qualche modo anche sui corpi incapaci di percepire (424b 7 ss. ).
La continuità del capitolo e la rilevanza dell'aporia, infatti, sembrerebbero richiedere che la
ricezione della forma senza la materia non sia peculiarità dell'organo sensorio, discreditando quindi
la seconda e la terza delle ipotesi poc'anzi formulate. I sostenitori delle rimanenti esegesi,
ricostruendo in maniera sostanzialmente omogenea il passo fino a 424b 16,69 ritengono quindi che
si ponga in questa sezione un problema cruciale per la teoria aristotelica della percezione. Per
entrambi, infatti, la ricezione della forma senza la materia non è sufficiente, di per sé, a distinguere
l'azione dell'odore sull'aria da quella sull'organo capace di odorare, come testimonierebbe la
domanda finale «cos'è dunque l'odorare παξὰ l'essere affetto in un certo modo?» (425b 15-16),
diversamente interpretabile a seconda del senso attribuito al παξὰ («in opposizione a» ovvero «oltre
a») .70

Al di là di queste differenze (davvero sottili una volta accertato che il processo di ricezione della
forma senza la materia è comunque fisico), la questione fondamentale messa in gioco è quella della
possibilità, per la teoria aristotelica, di distinguere rigorosamente la percezione da un normale caso
di ricezione della forma senza la materia (sia che ciò voglia dire «senza inglobare materia», sia che
significhi «in maniera selettiva e non distruttiva»). Secondo Burnyeat, tale obiettivo è raggiunto
ponendo, in maniera abissalmente distante dal modo di pensare oggigiorno comune, la capacità di
percepire come un'explanans, piuttosto che come un explanandum da ridurre a un processo fisico.71
All'opposto, si è ritenuto che la distinzione alluda, in maniera sorprendentemente attuale,
all'irriducibilità degli aspetti intenzionali a quelli somatici.72 Non è inoltre mancato chi, scorgendo
in questa tesi la difficoltà (se non l'impossibilità) di distinguere il pensiero dalla percezione,73 ha
ritenuto le dottrine dello Stagirita sulla percezione un tentativo fallimentare di teoria dell'identità.74

A questo proposito, assai interessante è la posizione di Webb, secondo cui la dottrina aristotelica è
una teoria dell'identità che riesce nella distinzione degli eventi fisici che hanno luogo nell' organo e
in un corpo inanimato, senza alcun riferimento ad aspetti intenzionali.75 L'interpretazione, inoltre,
offre una diversa comprensione dell'affermazione che il senso è una κεζόηεο.76 Ciò sarebbe
possibile grazie a una ricostruzione dettagliata della fisiologia della percezione di Aristotele,
generalmente negletta da parte degli studiosi.77 Innanzitutto, occorre notare che l'organo principale
della percezione è localizzato nel cuore,78 e che il mezzo di collegamento con i sensi periferici è lo
πλεῦκα mescolato al sangue, contenuto nei vasi sanguigni.79 Più precisamente, lo πλεῦκα e il
calore naturale che è in esso presente costituiscono il mezzo materiale dell'organo sensorio primario
stesso,80 e sono differenti da quelli esistenti al di fuori del corpo animato.81 Poiché il calore è
responsabile della struttura degli organi, e gli organi hanno certi poteri, i quali costituiscono l'anima,
il calore, conclude lo studioso, è responsabile della presenza dell'anima.82 La funzione dello
πλεῦκα consiste nel trasmettere l'impulso al principio sito nel cuore, in maniera analoga al mezzo
esterno. Perché ciò possa avvenire, occorre però che il livello di calore corporeo sia preservato.83
La ragione per cui la speciale forma caratterizzante il sensorio, il ηὸ αἰζζεηηθῷ εἶλαη o αἴζζεζηο
(424a 25-28; 426b 8-9), è paragonata a una proporzione (ιόγνο, 424a 28-32; cfr. 426a 27-b 7), ed è
detta una κεζόηεο tra opposti αἰζζεηὰ (424a 2-10, 435a 21-24), poi, va cercata per lo studioso in
GA V 1, 779b 34- a 14. La necessità di una determinata simmetria e proporzione tra gli elementi
fisici costitutivi dell'occhio che qui si teorizza, infatti, andrebbe estesa a tutti i sensori, e ad essa si
alluderebbe nel De anima. In questo modo l'accusa di circolarità in II 12, 424b 16-19 si mostrerebbe
del tutto infondata, pur interpretando la ricezione della forma come processo fisico. Il filosofo si
riferirebbe implicitamente, infatti, alla necessità di una struttura appropriata nell'organo e a quella di
tutto l'apparato (cuore, vene, organi periferici), nonché al calore naturale che è responsabile della
conservazione della simmetria negli organi.84

È del tutto evidente, tuttavia, che nella tesi di Webb si ripresenta il problema della perdita della
condizione materiale di ricettività dell'organo, inevitabilmente conseguente all'affezione letterale
che sostiene sussista in esso.85 Né in realtà l'evento fisico che ha luogo nella percezione è distinto
tanto nettamente da un suo analogo in un corpo inanimato. Se da un lato, infatti, sussiste uno
speciale calore necessario al mantenimento del sistema percettivo, dall'altro si riconosce che l'acqua
di cui è composto l'occhio reagisce esattamente alla stessa maniera del mezzo esterno, e che così
avviene pure nell'organo sensorio principale.86 Infine, occorre sottolineare che il passo di GA V 1
difficilmente può ritenersi importante per chiarire in che senso la percezione sia una κεζόηεο. Lo
scuro dell'occhio non è infatti capace di sensazione, e la discussione di GA 779b 34-780 b 1387
sulla densità del liquido che la compone non può in alcun modo, pertanto, chiarire in che senso la
parte sensitiva sia ιόγνο e κεζόηεο. La distinzione tra lo scuro e la parte dell'occhio con cui si vede,
infatti, fa da sfondo alla spiegazione di un fenomeno erroneamente ritenuto prova della sua
composizione ignea (437a 22 ss.). Esponendo le proprie argomentazioni al riguardo, Aristotele
sembra ammettere una struttura composita dell'occhio, giacché distingue la parte liscia e capace di
brillare al buio da quella in cui è localizzata propriamente la capacità di vedere.88 Ciò è confermato
nel seguito della trattazione, in cui Aristotele ribadisce che la vista si realizza materialmente
nell'acqua, puntualizzando che ciò è dovuto al suo essere trasparente (Sens. , 437b 12-15). La
ragione per cui la θόξε e l'occhio sono costituiti d'acqua piuttosto che d'aria, poi, risiede nel fatto
che quest'elemento può trattenersi e condensarsi più facilmente (Sens. , 437b 15-16) .89 Ciò esclude
che la vista si produca con la fuoriuscita di qualcosa dall'occhio, sia che questo pervenga fino agli
astri sia che si congiunga alla luce esterna (Sens. , 437a 27-28). Ciò stabilito, sarebbe un'ingenuità
credere che la vista sia il congiungimento della luce con la luce nel principio dell'occhio.90 Una
cosa qualsiasi non si congiunge infatti con una cosa qualsiasi, e lo Stagirita può quindi concludere
(438b 1-2): «come può congiungersi la luce interna con l'esterna? Infatti la membrana è κεηαμύ».
Per la funzione esercitata, la parte scura dell'occhio, così come la membrana, è quindi paragonabile
all'intermediario esterno: essa è κεηαμύ. Questo smentisce la tesi che il vedere consista nella
congiunzione tra luce esterna e interna,91 dal momento che la membrana è si trasparente in atto
(vale a dire luce), ma non è ciò che vede, né è qualcosa che può permettere l'incontro tra luce
esterna e interna. Piuttosto, come l'aria esterna, essendo trasparente in atto ha la funzione di
intermediario. Da ciò consegue la necessità che l'interno dell'occhio sia trasparente e ricettivo della
luce, ossia, in base a DA, 418b 26-419a 1, buio e trasparente in potenza.92

Se anche si ritenesse che, per Aristotele, l'alterazione somatica percettiva consiste nel diventare
letteralmente come la cosa percepita, resterebbero quindi diversi dubbi sulla maniera in cui
interpretare II 12: non sarebbe chiaro infatti a quale caratteristica dell'affezione fisica Aristotele si
riferisca con «ricevere la forma senza la materia» (il suo essere selettiva e non distruttiva o il suo
avvenire senza incamerare materia). Né se, e in che modo, egli riesca a differenziare
quest'alterazione, che accade nell'organo sensorio, da quella, fisicamente identica, che avviene in un
corpo inanimato. Si é potuta constatare, inoltre, la necessaria perdita delle condizioni di ricettività di
un organo sensorio, in seguito al diventare letteralmente simile alla cosa percepita, che minaccia di
instillare contraddittorietà nella dottrina. Anche ricostruendo più dettagliatamente il quadro
fisiologico, poi, resta alquanto oscura la dottrina per cui la αἴζζεζηο è κεζόηεο, e si può piuttosto
scorgere un'ulteriore difficoltà nel dover rendere conto della distruzione dell'organo sensorio da
parte degli eccessi dei sensibili. Nel quadro dell'interpretazione fisiologica letterale, infatti, sembra
impossibile identificare il ιόγνο che viene distrutto dagli eccessi dei sensibili93 in maniera
soddisfacente. Non si può trattare della proporzione tra gli elementi componenti gli organi: se si
esclude il caso del tatto, gli altri organi sono infatti interamente costituiti da un unico elemento (per
esempio l'aria per l'udito, l'acqua per la vista). Né si può pensare a un riferimento alla distruzione
della materia. Infatti (prescindendo ancora una volta dal caso della carne e del tatto), un eccesso di
sensibili non distrugge certamente l'aria o l'acqua circostanti che fungono da intermediario, e non
c'è quindi motivo di credere che abbia questo effetto sulla materia, identica, dell'organo. Infine, non
è praticabile neppure la soluzione per cui ciò che è perso sia la condizione di ricettività dell'organo,
dal momento che, nel quadro di questa interpretazione, questo accadrebbe di norma ogni volta che
si percepisce.

Potrebbe a questo punto sembrare non del tutto irragionevole, rivalutando il nucleo fondamentale
dell'interpretazione di Hamlyn, dare per assodato che la teoria della percezione di Aristotele si regge
su due opposte tendenze: da una parte l'individuazione dell'attività di giudizio caratteristica della
percezione,94 dall'altra la volontà di presentare la più antica dottrina della sensazione come essere
affetti dall'oggetto. L'ambiguità delle formule con cui il filosofo cerca di descriverla come uno
speciale modo di essere affetti, come appunto «ricevere la forma senza la materia», non sarebbe
quindi che un riflesso delle difficoltà che si genera da questa contraddittoria impostazione.95

5. L'alterazione somatica compensativa della percezione


Prima di accettare definitivamente un simile esito della discussione, vale la pena di considerare
quali importanti conseguenze deriverebbero ipotizzando il verificarsi, nel processo percettivo, di
una compensazione interna esattamente simmetrica all'affezione esterna, e ad essa sovrapponentesi.
Innanzitutto, senza pregiudicare l'intelligibilità di 424a 4 (il motivo per cui non si percepisce ciò che
ha lo stesso grado di caldo, freddo, umido, secco, sarebbe chiaramente che non c'è nulla da
compensare), la condizione iniziale di ricettività risulterebbe preservata, e sarebbe facilmente
comprensibile che è a causa della sua perdita che ha luogo la distruzione dell'organo sensorio da
parte degli eccessi dei sensibili.96 Tale ipotesi, del resto, si accorderebbe in maniera
sorprendentemente precisa con l'impassibilità che Aristotele assegna in III 4 alla percezione,
confrontandola con il pensiero.97 Tale esegesi, poi, non sarebbe ostacolata dalla ripetuta
affermazione che l'organo sensorio diventa simile alla cosa percepita, giacché evidentemente
diventare simile non equivale a diventare identico. Piuttosto, essa renderebbe assai più agevole
comprendere perché la parte sensitiva dell'occhio è detta «in un certo senso» colorata.98 Il ruolo
centrale della regione cardiaca, quindi, non consisterebbe nel ricevere la trasmissione di
un'affezione subita dall'esterno, bensì nel permanere sempre nella medesima condizione, mutando a
tale scopo in modo corrispondente all'affezione incombente sugli organi periferici, e preservando
quindi anch'essi con questa azione regolatrice e compensatrice.99 In aggiunta, tale ricostruzione
coglierebbe, in maniera esattamente collimante con la ristretta sfera semantica che Aristotele può
assegnare a θξίλεηλ in riferimento alla percezione,100 tanto l'aspetto passivo (lo stimolo ricevuto)
della percezione quanto quello attivo (la reazione compensativa). L'uso di questo particolare verbo
implica infatti, per la percezione, una caratteristica valenza predicativa, di tipo relazionale e non
copulativo. «Discriminare» è cioè un predicato a tre posti (un soggetto discrimina una certa cosa da
una certa altra) contraddistinto da simmetria (col discriminare una cosa da un'altra si discrimina
automaticamente la seconda alla prima), irriflessività (non ha senso dire che si discrimina una cosa
da sè stessa) e a-transitività (il non essere né transitivo né intransitivo) ,101 e tali attributi sono tutti
perfettamente rispettati ponendo come termini della discriminazione percettiva le «spinte»
compensative effettuate dal principio sensitivo nei due diversi istanti.102 L'ipotesi, infine, porrebbe
sotto una nuova luce alcune affermazioni dello Stagirita sparse in diverse opere,103 permettendo di
riscoprire l'importante asimmetria, all'interno della teoria aristotelica della locomozione nel De
motu animalium, tra le affezioni percettive «neutre» e quelle connotate emotivamente, senza
tuttavia negare che nelle prime avvengano processi di alterazione fisica.104

Non sarebbe a questo punto difficile difendere tale esegesi dall'eventuale accusa di essere una mera
congettura che, evidenziando alcuni problemi delle esegesi alternative e sfruttando l'ambiguità di
certi brani di rilevanza secondaria, si insinua, un pò forzatamente, nelle pieghe del discorso.
Chiarito il tipo di meccanismo ipotizzato, infatti, si può notare finalmente il reale significato della
nota descrizione della percezione come medietà e proporzione. Aristotele, stabilisce (in II 11, 424a
1 ss. ) che il motivo per cui non percepiamo il duro, il morbido, il caldo e il freddo che abbiano la
nostra stessa misura, ma solo quelli che la eccedono (ηῶλ ὑπεξβνιῶλ), è che la sensazione
(αἴζζεζηο, da intendere come «atto sensitivo», non come «senso» né come «organo sensorio») è una
certa medietà dell'opposizione tra i sensibili. Per questo essa discrimina (θξίλεη) i sensibili, giacché
il medio è atto a discriminare, in quanto viene ad essere, rispetto a ciascuno di essi, l'altro
estremo105. Il brano è quindi una esplicita attestazione a favore nel processo fisiologico di
compensazione: il sensorio, alla fine del processo, resta in una condizione di ricettività identica a
quella in cui si trovava prima di percepire, in virtù della presenza di due affezioni opposte. Proprio
per questo essere l'atto sensitivo una sorta di medietà dell'opposizione che si ha tra i sensibili, non si
percepisce ciò che ha il nostro stesso grado di temperatura o durezza. Il divenire, di fronte a ciascun
sensibile, l'estremo opposto, qualifica ulteriormente il processo, chiarendo che si tratta di un tipo di
medietà ben preciso, e spiegando in che senso essa possa dirsi atta a discriminare.106

Similmente, la dottrina di II 12 secondo cui l'atto sensitivo (αἴζζεζηο) è una proporzione


(ιόγνο),107 non equivale ad altro che a una diversa formulazione dell'essere la sensazione una
medietà. La condizione di ricettività viene infatti a trovarsi, rispetto all'intensità dell'alterazione
esterna, nel medesimo rapporto in cui si trova rispetto all'intensità della compensazione interna,
giacché (essendo la differenza d'intensità che separa la medietà dalle due opposte affezioni
identica), l'intensità della prima, commisurata allo stato di ricettività (o stato iniziale), non può che
essere pari all'intensità della seconda rispetto allo stesso stato (o, che è lo stesso, allo stato finale).

Adottata questa interpretazione, la formula «ricevere la forma senza la materia», e la relativa


illustrazione con il paragone dell'impronta del sigillo sulla cera, possono essere intese come
esplicita negazione dell'assimilazione letterale all'oggetto da parte dell'organo sensorio,
recuperando, con un significato radicalmente differente, l'interpretazione di Burnyeat (e, prima di
lui, di Filopono, Tommaso D'Aquino, Brentano). Ad un attento esame, infatti, anche la lettura
finora offerta dell'aporia presentata nella parte finale del capitolo (che imponeva di riferire
l'espressione, per ragioni di rilevanza e continuità, a un tipo di affezione possibile anche nei corpi
inanimati come gli intermediari esterni), risulta fuorviante. A suggerirlo è un passo di III 12 (434a
29-30), in cui si stabilisce che il tatto non può essere posseduto dagli esseri che hanno il corpo
semplice, né da quelli che non sono in grado di ricevere le forme senza la materia. Un corpo fatto
unicamente di terra non potrebbe infatti avere la sensazione tattile, giacché essa è una medietà tra i
tangibili, e il sensorio deve essere ricettivo non solo delle qualità della terra, ma di tutti tangibili.108
Né l'organo potrebbe essere composto di uno soltanto degli altri elementi, perché sarebbe adatto a
percepire solo tramite un intermediario (come avviene per la vista, l'udito, l'olfatto) e quindi per
contatto con qualcosa di diverso, mentre il tatto percepisce per contatto con gli oggetti stessi (435a
11-24). Neanche dal punto di vista delle interpretazioni di Sorabji e Burnyeat, quindi, l'espressione
«ricevere la forma senza la materia» può descrivere il tipo di affezione che avverrebbe tanto
nell'organo quanto nell'intermediario. Se così fosse, dai due criteri posti in 434a 29-30 (non avere
un corpo semplice ed essere in grado di ricevere le forme senza la materia) conseguirebbe
l'impossibilità di possedere il tatto per qualunque corpo.109

L'analogia della cera esemplifica quindi l'essere non affetto letteralmente dell'organo: come essa,
l'organo riceve l'impronta della cosa, ma non le diventa fisicamente identico. Così, nel seguito (a
21-24), l'attestazione che la αἴζζεζηο è affetta da parte di ciò che ha sapore o suono non in maniera
tale da essere detta ciascuno di essi (ἑθάζηνπ ἐθείλσλ ιέγεηαη), ma in quanto tale (ηνηνλδὶ), e in
maniera conforme alla proporzione (θαηὰ ηὸλ ιόγνλ), riflette quella subito precedente (per cui «la
cera riceve l'impronta d'oro e di bronzo, ma non in quanto è oro e bronzo»), aggiungendo un
riferimento esplicativo al processo fisiologico di compensazione. Di conseguenza, la spiegazione
della mancanza di percezione nelle piante in 424b 2, fondata sulla loro incapacità di ricevere la
forma senza la materia, non è una «seconda» motivazione, bensì una diversa espressione per
ribadire che le piante non hanno una medietà (424b 1). «Ricevere la forma senza la materia», «avere
una medietà», «essere una certa proporzione» vengono a configurarsi, infatti, come descrizioni
diverse dell'identico processo.110 Conseguentemente, ipotizzare che Aristotele, chiedendosi se un
corpo incapace di percepire possa essere affetto dall'odore, sottintenda «ricevendo la forma senza la
materia», diventa non solo non necessario, ma impossibile.111 Piuttosto, ciò che il filosofo si
chiede è se può esserci una normale affezione meramente passiva nei corpi inanimati, incapaci di
ricezione senza materia, una volta stabilito che l'organo sensorio, a contatto con la forma, la riceve
senza la materia (cioè senza mutare, grazie alla compensazione). La risposta non è infatti scontata,
giacché qualcuno potrebbe argomentare che se l'oggetto dell'olfatto è l'odore, esso, se produce un
effetto, produce l'atto olfattivo (424b 6-7). Che sia proprio questo il problema posto, è confermato
dalla conclusione provvisoria tratta immediatamente di seguito: «quindi, tra gli esseri incapaci di
percepire gli odori, nessuno è tale da subire l'azione dell'odore (e lo stesso discorso vale per gli altri
sensi), e neppure tra quelli capaci, se non in quanto ciascuno è capace di percepire» (424b 7-10). Il
fatto che neppure i corpi capaci di percepire possano subire da parte dell'odore, se non nella maniera
particolare che ne preserva l'impassibilità, infatti, mostra inequivocabilmente che il tipo di subire in
questione è quello normalmente passivo. Lo Stagirita riconosce, inoltre, la possibilità di far valere,
come indizio aggiuntivo, l'evidenza per cui sui corpi non agiscono le forme sensibili (la luce, il
buio, il suono, l'odore), ma i corpi cui esse ineriscono, così come è l'aria che si accompagna al tuono
a spaccare il legno (424b 10-12). A dispetto di questi due argomenti, tuttavia, Aristotele dimostra
alla fine che i percepibili possono produrre anche un effetto diverso dal percepire sui corpi
inanimati. I tangibili e i sapori esercitano indubbiamente un'azione sui corpi (424b 12-13: altrimenti
non si capirebbe da quali agenti essi potrebbero essere alterati), mentre gli altri sensibili affettano
perlomeno i corpi indeterminati e instabili (come l'aria, che subisce l'azione dell'odore). Ammessa
questa possibilità, lo Stagirita può quindi legittimamente chiedersi: «che cos'è l'esercitare l'odorato
in opposizione112 all'essere affetti in un certo modo? ». La risposta è palese: esercitare l'odorato è
un percepire (con un rimando al processo di alterazione e compensazione), mentre l'aria, essendo
affetta, diventa percepibile. Essendoci due processi di alterazione ben distinti, uno solo passivo,
l'altro passivo e compensativo insieme, non è necessario leggere qui un riferimento ad aspetti
intenzionali o al possesso dell'anima. La distinzione è infatti possibile già soltanto a livello della
descrizione fisica.113

È così eliminata la possibilità di ritenere Aristotele un teorico della percezione «alla Frank
Baum»,114 mentre resta teoricamente aperta quella di considerare la sua dottrina come un esempio
di teoria dell'identità, dal momento che esiste una profonda differenza tra il comportamento fisico di
un corpo capace di percepire e uno che non lo é, pur essendo essi sottoposti allo stesso stimolo.
Anche chi volesse abbracciare questa tesi, storicamente piuttosto ardita, dovrebbe tuttavia
riconoscere, nello stesso tempo, che la dottrina aristotelica della percezione non può essere ritenuta
riduzionista. Innanzitutto, infatti, occorre tenere conto della consueta impostazione ilemorfica del
discorso aristotelico, che individua in ogni cosa soggetta ad alterazione un elemento di
persistenza.115 Questo elemento, che non può essere materiale (il problema cui si cerca di
rispondere è proprio se, e come, possa preservarsi l'identità di una cosa, anche se la materia che lo
compone varia continuamente), è rappresentato, nell'individuo vivente, dall'anima.116 Sempre nella
stessa direzione anti-riduzionista si possono segnalare, poi, alcuni passi che ammettono la
possibilità di realizzazioni corporee variabili della facoltà sensitiva.117

L'aspetto più radicalmente anti-riduzionista implicito nella dottrina aristotelica, tuttavia, è da


riscontrare nell'impossibilità che il processo di compensazione abbia luogo senza la capacità
percettiva. Se si chiedesse perché gli elementi componenti l'apparato percettivo non si comportano
allo stesso modo di quelli esterni, compensando esattamente l'affezione anziché essere normalmente
alterati, la risposta non potrebbe che fare appello al possesso dell'anima da parte dei primi. Se anche
si costruisse una copia di un animale perfettamente identica all'originale per la proporzione tra gli
elementi componenti i vari organi, essa non sarebbe capace di percepire. Gli mancherebbe infatti il
principio regolatore che permette al calore un comportamento differente da quello che avrebbe solo
in virtù della sua natura, attribuendogli capacità ulteriori. Il calore animato tende, come visto, a
conservarsi identico anche in presenza di stimoli contrari (aumentando, diminuendo, dilatandosi,
contraendosi). Questo è il punto sul quale la distanza tra le concezioni contemporanee e quella
aristotelica si fa incolmabile. In una prospettiva moderna, almeno la spiegazione chimica degli
oggetti viventi e non viventi deve ubbidire agli stessi principi. Si potrebbe dire che in Aristotele,
invece, esistono due chimiche, quella dell'animato e quella dell'inanimato. Rispetto alla seconda, la
prima utilizza un principio ulteriore, incorporeo ma inseparabile dal corpo, che si aggiunge agli
elementi e alle mescolanze di essi, ma non è loro riducibile, né gli è «sopravveniente».118 È come
se si dicesse, oggi, che una certa molecola (che in una prospettiva aristotelica andrebbe comunque
compresa in termini ilemorfici), pur essendo chimicamente identica ad un'altra, presenta
comportamenti che la distinguono da essa, perché vi è incorporato un certo qualcosa, immateriale e
non comprensibile in termini chimici, che funge da principio regolatore.119 È quindi da ritenere
questo il significato autentico della critica all'anima armonia, e in questo frangente si chiarisce
perché la teoria aristotelica della percezione non possa essere in alcun modo ritenuta riduzionista.

Questa differenza profonda dal modo di pensare contemporaneo sembra legittimare, su un piano
diverso, i dubbi di Burnyeat circa la credibilità di cui una filosofia aristotelica della mente potrebbe
oggi godere. Cercare a tutti i costi un confronto, o sforzarsi di comprendere a quale tipo di filosofia
della mente possa assimilarsi la teoria della percezione di Aristotele, equivarrebbe a non
riconoscerla. È impossibile dire come sarebbero state trattate le attività vitali come la percezione, la
nutrizione, la locomozione (accomunate dall'essere esercitabili grazie ad appositi organi), se
Aristotele avesse creduto possibile spiegarle solo in base alle proprietà degli elementi costituenti il
corpo. Avrebbe egli riconosciuto comunque l'originarietà di alcune facoltà, come la percezione e il
desiderio? O le avrebbe ridotte alla fisiologia? Per quanto la plausibilità sul piano storico di siffatte
domande sia ovviamente assai dubbia, un indizio verso l'irriducibilità della percezione a prescindere
dagli aspetti somatici sarebbe ottenuto se si dimostrasse a loro riguardo l'ammissione, da parte dello
Stagirita, di un aspetto ulteriore, paragonabile a nozioni moderne quali quella di coscienza o
intenzionalità. Questa è una delle questioni su cui gli studiosi si sono effettivamente interrogati,
analizzando alcuni capitoli del De anima (II 6; III 1 -- 2). Di essi è ora necessario occuparsi, per
completare la ricostruzione della teoria aristotelica della percezione.

Copyright © 2014 Marcello Zanatta

Marcello Zanatta. «Aspetti mentali e aspetti fisici nella concezione aristotelica della percezione».
Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 16 (2014) [inserito il 30 dicembre
2014], disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [**194 B], ISSN
1128-5478.

Note
1. Come osserva giustamente C. H. Kahn, Sensation and consciousness in Aristotle's
psichology, «Archiv für Geschichte der Philosophie» 1966 (48), pp. 43-45.
2. Fondamentale, per ciò che concerne lo sviluppo storico di queste idee, il contributo di R.
Sorabji, From Aristotle to Brentano: the Development of the Concept of Intentionality,
«Oxford Studies in Ancient Philosophy», 1991, Suppl.vol., pp.227-259.
3. Il commentatore nota che la vista non diventa colorata, quindi non funge da materia dei
colori. Allo stesso modo, il mezzo trasparente non è cambiato affettivamente (παζεηηθῶο) e
non viene a essere materia dei colori (De anima, p. 62. 1-13 Bruns). Sorabji (op. cit., p. 230)
cita inoltre come evidenza della «immaterialità» attribuita da Alessandro alla trasmissione
del suono nel mezzo De anima, p. 48. 7-21 Bruns.
4. In libros Aristotelis De anima paraphrasis 75. 10-19, 79. 29-37.
5. In de anima, pp. 413. 4; 413. 9-12; 416. 30-34; 432. 32- 433. 11 Hayduck.
6. Ibid. pp. 334. 38-336. 3; 391. 11-29; 392. 3-19; 438. 6-15.
7. Sorabji, op.cit., pp. 245-247.
8. Epitome of Parva Naturalia, pp. 29. 15- 30.28; 31. 45-32. 49 Shields-Blumberg (citato in
Sorabji, op.cit., pp. 254-255)
9. Avicenna Latinus, Liber de Anima, vol. I, p. 2, cap. 2, pp. 115.73-116.81; 116.84-7; 118.6-
10; (citati in traduzione inglese da Sorabji, op.cit., p.254).
10. Alberto Magno, De creaturis, 2, q.34, a.2, xxxv. 300 b Borgnet; De anima, 2. 3. 6, 241a; 2.
3. 25, 278b; 2. 4. 3, 297b Borgnet. Tommaso d'Aquino, In De anima, sez. 284, 418, 493-
495.
11. Cfr. l'utile studio di A. Simmons (Explaining sense perception: a scholastic challenge,
«Philosophical Studies», 1994, 73, p. 257-275) sulle interpretazioni della teoria aristotelica
della percezione in Rubio, Suarez, e Toledo.
12. Cfr. F. Brentano, Psicologia dal punto di vista empirico, Roma-Bari, Laterza, 1997, p.155,
n. 25.
13. How much happens when Aristotle sees red and hear middle C? Remarks on De anima 2.7-
8. in Essays on Aristotle's DeAnima. Edited by M.C. Nussbaum and A. O. Rorty, Oxford,
Clarendon Press, 1995, pp.421-433. L'interpretazione «defisiologizzante» era stata
riproposta, nel secolo scorso, già da J. Barnes (Aristotle's concept of mind, «Proceedings of
the Aristotelian Society» 1971-1972 [72], pp. 106-110). Per quanto inseparabile dal corpo,
la percezione non sarebbe identificabile con un processo di alterazione somatica (si
sosterrebbe la tesi, suscettibile di una confutazione empirica devastantemente ovvia, che la
percezione del verde si identifichi con il diventare verde dell'occhio), né riducibile a esso. In
417b 2-9 Aristotele afferma infatti esplicitamente che la percezione è alterazione e affezione
solo in un certo senso. Probabilmente, prosegue Barnes, «ricevere la forma senza la materia»
equivale a ricevere la forma senza stare ad essa come materia, e la percezione non risulta
così un mutamento puramente fisiologico, in linea con le interpretazioni di Brentano e
Filopono. Nella medesima direzione, J. K. Ward (Perception and logos in De anima II,12,
«Ancient Philosophy», 1988 [8], pp. 217-226) ha offerto un'approfondita analisi di II 12,
424a 17-32, che, facendo leva sui differenti sensi attribuiti a ιόγνο nel capitolo, si propone
di mostrare che l'effetto dei sensibili sugli organi sensori non necessariamente consiste in
un'alterazione fisica. In un primo senso, il termine, riferito alle forme sensibili individuali
degli oggetti in quanto proporzioni tra diverse coppie di opposti, esplicherebbe lo ᾖ ηνηνλδί
(424a 24), mentre in un secondo descriverebbe l'equilibrio tra i componenti materiali degli
organi sensori, che ne determina in parte la capacità ricettiva e l'estensione percettiva (424a
27-28). Perché sia percepita, la determinata proporzione della qualità sensibile deve ricadere
internamente alla sfera percettiva del senso, e pertanto le proporzioni sensibili troppo (o
troppo poco) intense non sono percepite e possono distruggere il senso, in quanto la
αἴζζεζηο è, o coinvolge, un ιόγνο (424a 28-32). Il termine sarebbe evidentemente applicato
qui, in una terza accezione, a ogni atto sensitivo, così denominabile in quanto consistente
nella ricezione di una proporzione da parte del senso. Poiché le qualità sensibili inerirebbero
diversamente all'oggetto sensibile e al sensorio, l'analisi mostrerebbe che i sensori possono
incorporare la medesima proporzione astratta che è presente negli oggetti senza
un'assimilazione fisica, bensì rappresentando analogicamente il contenuto informativo. Tale
capacità dipende certamente, per la studiosa, anche dal possesso di una materia dotata di un
particolare bilanciamento tra i componenti, particolarmente complessa e con funzioni
altamente sofisticate. La natura della percezione, tuttavia, non può in alcun modo essere
spiegata a partire dalla struttura materiale, ma solo in virtù delle capacità funzionali da essa
possedute.
14. Esempi delle condizioni somatiche richieste sono il fluido trasparente nell'occhio (Sens. 2,
438b 5-8) e l'aria immobile imprigionata nell'orecchio (DA II 8, 420a 9-10). Nel caso del
tatto si tratterebbe, per lo studioso, di un miscuglio omogeneo, ossia composto in ogni
minima parte in modo esattamente uguale all'intero (II 11, 424a 4-10; cfr. PA II 1, 647a 5-
24, Sens. 2, 437a 20 ss., DA III 13, 435b 1-3). Aristotele distingue in effetti parti osservabili
nell'occhio, ma afferma che la parte sensitiva è al suo interno, interamente composto
d'acqua. Similmente, in associazione agli elementi semplici, sono descritti gli altri organi
(Sens. 2, 438b 18-22). Questo confuta, quindi, la convinzione di Ward circa la complessità
della struttura degli organo sensori (cfr. nota precedente).
15. Lo Stagirita, nota Burnyeat (op. cit., p. 423), delinea in aggiunta la necessità, per la capacità
di percepire, di un sistema di passaggi (πόξνη) colleganti gli organi di senso al luogo
centrale, in cui si trova la coscienza unitaria di tutti gli oggetti della percezione. Pur nella
loro ambiguità, tali passi attestano per Burnyeat che ciò che accade in essi è sempre una
continuazione di ciò che accade negli organi di senso (DA III 2, 425b 24-25; 3, 428b 10-14;
429a 4-5; Mem. 1, 450a 24 -b 1; Insomn. 1, 459a 14-22; 459b 3ss). Essi tuttavia, occorre
notarlo, si riferiscono in realtà alla θαληαζία come persistenza del movimento della
sensazione, e nell'ultimo caso, all'influenza della persistenza di una sensazione sulla
percezione propriamente detta.
16. II 7, 418a 31-b 1 (cfr. 419a 9-11: l'essere capace di muovere ciò che è in atto trasparente
esprime il che cos'è e del colore). La natura e l'essenza di qualcosa è infatti per Aristotele
qualcosa che spiega, ma non deve essere spiegato esso stesso (Analitici posteriori I 4, 73b
16-18; 24, 85b 24-25; Metafisica VIII 17, 1041b 9-33; DA I 1, 402a 7-8; b 25-26). È
presumibilmente per questo che Aristotele, in 418a 30-31, afferma che l'oggetto visibile ha
in se stesso la causa della sua visibilità: la causa è infatti il colore, in quanto ha da se stesso
capace di muovere il trasparente in atto.
17. Come confermerebbe la critica ad Empedocle in 418b 20. Essa non è neppure un movimento
(Sens. 6, 446b 30-31), bensì uno stato o disposizione (ἕμηο: 418b 19; III 5, 430a 15),
consistente nell'essere attualmente trasparente del mezzo. Anche la condizione posta perché
un colore produca il suo effetto sul mezzo non è quindi un processo, ma qualcosa di statico,
e neppure lo è la condizione posta per questa condizione. Perché un mezzo si trovi nello
stato di trasparenza in atto, in cui consiste la luce, occorre infatti che sia capace di essere
trasparente e che sia presente il fuoco (418b 6-20; Sens. 3, 439a 21-27). Il fuoco non ha da
compiere quindi, per Burnyeat, alcuna azione, ma deve essere semplicemente presente,
perché la natura trasparente del medio realizzi se stessa.
18. Si sarebbe stabilito, con ciò, che la dottrina della vista di Aristotele non prevede la presenza
di un'alterazione fisica nell'occhio. L'occhio potrebbe vedersi colorato solo ponendosi dietro
di esso, perché in questo caso l'oggetto colorato sarebbe visto come attraverso il bicchiere
pieno d'acqua. Questa è la convinzione di Burnyeat, che ne ravvisa una conferma in 418b 4-
6, dove Aristotele stabilisce che trasparente è ciò che è visibile, a rigor di termini, non in sé
stesso, ma a causa del colore di qualcos'altro. All'affermazione che la luce è una specie di
colore (νἷνλ ρξῶκα, 418b 11) va poi riferito, per lo studioso, Sens. 3, 439a 19-21, in cui si
legge che la luce è colore del trasparente per accidente (da ritenersi equivalente al «non per
sé» di 418b 5, e in contrasto al «per sé» di a 30). Egli precisa (De Anima II 5, p. 75) che il
trasparente preserva la condizione di neutralità e ricettività proprio perché ricade
esternamente alla gamma dei colori. Esso non esibisce neppure il tipo di colorazione
«imprestata» rilevabile su uno schermo televisivo o sulla superficie del mare, giacché non è
possibile vedere attraverso i colori «imprestati» meglio che attraverso quelli inerenti. Sulla
stessa linea si muove l'interpretazione di T. K. Johansen (Aristotle on Sense-Organs, 1998,
Cambridge, Cambridge University Press, pp. 120-145), che precisa che l'intermediario ha,
sotto l'aspetto causale, solo il compito di colmare la distanza tra l'oggetto sensibile e il
sensorio dal punto di vista della continuità, conformemente a Phys. VII, 2, 245a 2-11. A
questo alluderebbe DA III, 12, 434b 29-435a 5. Si può quindi dire che la percezione è
causata dalla qualità sensibile, e che l'effetto nel mezzo, pur non riducibile a un mutamento
solo relazionale (cioè concernente l'attribuibilità di predicati relazionali in ragione di un
mutamento occorso in un termine correlato), non può essere descritto che
«fenomenicamente», senza cioè prescindere dall'effetto finale sul soggetto che percepisce.
19. Secondo Aristotele, il contatto diretto tra oggetto e sensorio non produce l'atto sensitivo. In
II 7, infatti, ripetuto che essere un colore equivale ad essere capace di cambiare ciò che è
attualmente trasparente (419 a 9-10), egli conferma la definizione osservando che un oggetto
colorato posto direttamente sull'occhio non è visto (a 11), ed escludendo così la possibilità
che il colore sia definibile come ciò che ha la capacità di cambiare l'organo. A questa
speciale affezione alluderebbe poi, per Burnyeat, la ricezione della forma senza la materia
introdotta in II 12: un oggetto colorato posto direttamente sull'occhio lo affetta come
composto della forma con la materia, mentre l'intercessione del mezzo opera la loro
separazione, producendo quindi una quasi alterazione. Se il trasparente è colorato in maniera
derivata e senza esserlo realmente, infatti, si può dire che la forma sensibile, il colore, è
presente nel trasparente in maniera particolare e da sé stessa, vale a dire senza la base
materiale cui è unita nell'oggetto colorato. Sarebbe poi proprio la necessità di questa
separazione, rileva Burnyeat, la premessa su cui Aristotele prova che l'organo del tatto non è
la carne, ma il cuore (cfr. DA II 7, 419a 25-31; II 11, 423b 20-26; inoltre II 9, 421b 17-18;
PA II 8, 653b 19-30).
20. Burnyeat nota che le motivazioni offerte dallo Stagirita per spiegare che l'occhio è
necessariamente composto d'acqua sono fondate sulla circostanza che essa è trasparente
come il mezzo esterno. Dev'esserci luce all'interno così come all'esterno perché la vista
possa avvenire, ma gli elementi trasparenti in potenza sono l'acqua e l'aria, e l'acqua è più
facilmente confinabile (Sens. 7, 438a 13-17; b 6-12; PA II 10, 656a 37-b 2).
21. Questo, per Burnyeat, il senso di II 12, 424b 16-18. Sarebbe infatti estensibile a tutte le
affezioni sensitive la considerazione svolta da Aristotele in III 2, secondo cui la risonanza
nell'orecchio (ςόθεζηο) è identica all'ascolto del suono. Si tratta quindi di un unico evento,
che ammette però due descrizioni, comunque limitantisi al livello della sola forma. Pur
essendo per noi la «vibrazione» in cui consiste il suono nell'orecchio un evento fisico,
distinto da quello, mentale, dell'udire, la dottrina aristotelica non può essere ritenuta una
teoria della identità del tipo (teorie della mente asserenti l'identità tra un certo tipo di evento
fisico nel cervello, e un certo tipo di evento mentale; Cfr. M. Di Francesco, Introduzione
alla filosofia della mente, NIS, 1996, pp. 84-88). Il movimento esterno, assimilato a quello
interno, non sarebbe infatti, per Burnyeat, di tipo fisico. Aristotele assimilerebbe piuttosto lo
stato «intermedio» tra il completamente corporeo e l'incorporeo, proprio della percezione, a
quello dell'ottica e dell'armonica (scienze «intermedie» tra la matematica pura e la fisica di
ciò che è del tutto corporeo, che al suo tempo godevano, rispetto alla fisiologia, di un
maggior prestigio), allo scopo di guadagnare lo spazio per la loro applicazione all'interno
della fisica. L'essere «intermedio» della percezione sarebbe ricavabile dal fatto che essa è
inclusa, in 403a 5-7, tra le affezioni che richiedono un corpo, ma non nella più ristretta lista
delle passioni che necessitano di un processo corporeo concomitante. Interpretando il passo
in modo antitetico a quello di Sorabji e di Nussbaum e Putnam, Burnyeat ritiene infatti che
in 403a 3 πάζε indichi in senso ampio i ζπκβεβεθόηα, in opposizione al ηὸ ηί ἐζηηλ (cfr.
402b 25-403a 2 con 402a 7-10), mentre in 403a 16 essi dipendano dalla distinzione in ἔξγα
e παζήκαηα (cfr. a 6-7 e b 12). Conseguentemente, il πάζε ιόγνη ἕλπινί εἰζηλ di a 25 non
prenderebbe esplicita posizione sugli ἔξγα dell'anima. Indicativa della considerazione
aristotelica dell'ottica è poi la sua considerazione in opposizione alla geometria, come
scienza concernente la linea in quanto fisica (Fisica II 2, 194a 7-12).
22. Cfr. Burnyeat, op. cit., pp. 429-431. Il suono è un certo movimento dell'aria (428b 11; cfr.
428a 9-11, 21-23) che, si precisa in 419b 34-35, avviene quando essa è mossa come una
massa unitaria e continua (così pure per la vista in 419a 14, 435a 5-8). L'aria interposta tra il
soggetto che percepisce e l'oggetto che risuona deve permanere (419b 21: ὑπνκέλεο): essa
rimbalza e vibra come un unico intero (420a 25-26) e senza essere dispersa (419b 21-22).
Nel De sensu (446b 7-10, 447a 3-7), Aristotele ammette poi che il suono impieghi del tempo
per giungere all'orecchio. In base a queste descrizioni, e poiché il suono si muove da un
luogo all'altro, mentre l'aria no, occorre ammettere, per lo studioso, che esso si muove come
un'onda o vibrazione. Poiché ciò che accade all'aria posta all'interno all'orecchio deve essere
del tutto simile, essendo la sua natura comune a quella dell'aria esterna (420a 4-5), si
comprenderebbe quindi in che senso essa debba essere mantenuta immobile (420a 10),
affinché possa ricevere una varietà di movimenti da quella esterna. Ancora una volta, si
tratterebbe di uno speciale tipo di alterazione, consistente non tanto in una specie di
movimento, quanto nel movimento di una specie (o un quasi movimento), giacché in esso
non ha luogo nessun passaggio di un corpo da un luogo ad un altro (Cfr. Fisica III 1, 200b
32-201a 3; V 2, 226a 32-b 1). Ciò varrebbe poi per tutti i sensibili, dal momento che essi
non sono corpi, ma affezioni e movimenti di un certo tipo (Sens. 6, 446b 27). Indicativa
sarebbe pertanto anche l'analogia con il congelamento di uno stagno, adottata per spiegare
che l'affezione richiede tempo per giungere al soggetto (447a 3-7). Il ghiaccio infatti non si
«muove» realmente su uno stagno quando questo si gela progressivamente, ma si tratta
soltanto di un modo di dire per indicare che l'acqua si congela prima in un punto poi in un
altro. L'analogia può quindi applicarsi senza difficoltà ai casi di quasi alterazione dell''odore
e del suono. Esemplare in proposito è la spiegazione di ciò che accade quando una persona
non sente completamente le parole pronunciate da un'altra. Ciò accade infatti, per Aristotele,
perché queste sono state distorte in qualche luogo dell'aria posta tra esse (in Sens. 6, 446b 7-
10). Tale distorsione, descritta nella maniera più significativa come deformazione dell'aria
che si muove (κεηαζρεκαηίδεζζαη θεξόκελνλ ηὸλ ἀέξα), interessa semplicemente la forma,
e anche la fisica dei suoni di Aristotele sarebbe quindi una fisica delle sole forme, senza
processi materiali.
23. Il paragone (che denoterebbe la collocazione della capacità di effettuare giudizi già a questo
livello, con un chiaro intendimento polemico verso il Teeteto, che, ritenendola trascendente
rispetto alla percezione, la illustra con la medesima immagine) confermerebbe che non è
necessario alcun mutamento somatico perché l'organo sensorio percepisca. Il blocco di cera
non diventa infatti circolare come il sigillo che vi marca l'impronta, ma piuttosto registra e
mostra un cerchio, cosicché il predicato «circolare» caratterizza non il blocco di cera stesso,
ma il contenuto mostrato (Burnyeat, Is an Aristotelian philosophy of mind still credible? A
draft, in Essays on Aristotle's DeAnima. Edited by M. C. Nussbaum and A. O. Rorty,
Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 21-22).
24. M. F. Burnyeat, De Anima II 5, «Phronesis», 2002 (47), 1, pp.47-52. Con l'identità tra patire,
essere mossi ed essere in atto (πάζρεηλ, θηλεῖζζαη ed ἐλεξγεῖλ) di 417a 14-17, Aristotele
sosterrebbe implicitamente che esistono solo mutamenti finalizzati a qualcosa di differente
da essi stessi. Lo sfondo dottrinale è costituito dalla concezione di atto e potenza di Phys. III
1-3, e l'alterazione è, in quanto movimento (θίλεζη<), un tipo di atto caratterizzato
dall'essere incompleto, cioè diretto a uno stato finale esterno (417a 17-18; Phys. III 2, 201b
33-35, 202a 9-13; 7, 431a 6-7; VII 5, 257b 8-9). Raggiunto quest'ultimo, il suo essere in
potenza tale si esaurisce, e la determinazione iniziale è distrutta e sostituita. Nei capitoli
della Fisica non c'è alcun cenno all'esistenza di attività perfette, e il passo del DA che li
richiama prescinde quindi della nota e anomala contrapposizione di θίλεζη< ed ἐλέξγεηα
esposta in Metafisica IX 6, 1048b 18-35 (ibid., pp. 43-44), pur sottolineando, in 417b 29-
418a 1, la possibilità di ulteriori chiarimenti..
25. Ibid., pp. 52-57. Sottolineando la necessità di rispettare, in 417a 30-b 1, il participio aoristo
ἀιινησζείο Burnyeat (ibid., 83-87), rifiuta le integrazioni di Torstrik e Ross, che fanno
riferimento al divenire in atto scienziati, e preferisce leggere il passaggio nel modo che
segue: «pertanto i primi due sono in potenza conoscenti entrambi, ma il primo <è in
potenza> qua1cuno che è stato alterato attraverso l'apprendimento, ossia qualcuno che è
mutato più volte dalla condizione contraria, l'altro < è in potenza qualcuno che è stato
mutato> in un altro modo, ossia dall'avere scienza dell'aritmetica [accettando la lezione
proposta da Ross, contro lo aiòsqhsin dei MSS] e della grammatica senza esercitarle
all'attuale esercizio».
26. Se, infatti, in 417b 5-7 si dice che esso non è alterazione o è un diverso tipo di alterazione, la
seconda possibilità è eliminata in 417b 8-9, ponendo come esempio il caso del costruttore
quando costruisce, che, attesta II 4, 416b 1-3 deludendo le nostre aspettative moderne,
rappresenta un semplice passaggio dall'inattività all'attività (ibid.p.47-60).
27. Ibid., pp. 57-61, 70-72. L'alterazione non ordinaria teorizzata non può spiegarsi, per
Burnyeat (ibid., pp. 28-31), come allusione alla neutralità iniziale dell'organo sensorio (ad
esempio, trasparente e rosso non sono contrari), giacché essa compare per la prima volta
solo in II 8 (420a9-11) a proposito dell'aria interna all'orecchio, e diventa un tema centrale
solo in II 10 (specialmente 424a 7-10). In questa stessa ottica vanno letti, secondo lo
studioso (ibid., pp. 80-81), Phys. VII 2, 244b 10-11 e De motu anim., 7, 701b 18-23. Nel
primo passo si afferma che i sensi sono in un certo modo alterati, così come le cose
inanimate sono riscaldate o raffreddate. Nel secondo, le alterazioni non ordinarie della
percezione sono elencate insieme a quelle ordinarie come membri della stessa catena causale
che fa capo alla locomozione dell'animale. La trattazione della percezione come alterazione,
all'interno della fisica (aristotelica), ha quindi l'ulteriore vantaggio di rendere conto del suo
ruolo nel movimento degli animali, rendendo la stessa coscienza percettiva un mutamento
fisico (uno dei piccoli mutamenti iniziali che mettono in atto una serie concatenata di altri
movimenti nel corpo).
28. Is an Aristotelian..., p. 19. Così pure Il «diventare simile alla cosa percepita», lo «essere
affetto»e «alterato» dell'organo sensorio sono da intendersi in riferimento ad un processo
«spirituale», consistente semplicemente nel diventare coscienti della cosa percepita (ibid.,
pp. 21, 23).
29. La teoria aristotelica, pertanto, sarebbe oggi del tutto priva di credibilità e improponibile, e
non solo per la mancata teorizzazione di un processo di alterazione fisiologica in senso
stretto nell'organo. Dal nostro punto di vista, indissolubilmente legato all'impostazione
cartesiana, sarebbe infatti inaccettabile ritenere la percezione (e, in generale, fenomeni quali
la vita e la coscienza) non come un problema da spiegare, tramite una riduzione al
meccanismo determinato e deducibile dalle caratteristiche fisico-chimiche della materia, ma
come un dato di fatto rispetto al quale una spiegazione in termini riduzionistici non è
richiesta né possibile. Essa è negata anche nelle teorie funzionaliste come quella di Putnam,
nota Burnyeat, solo distinguendola dalla deduzione dei fenomeni mentali a partire dalla
fisiologia, che è ritenuta invece ancora possibile in linea di principio (Ibid., p. 23). In base
all'interpretazione di Burnyeat, si potrebbe quindi ritenere del tutto normale, contro Ward,
l'assenza di una qualsiasi spiegazione del perché il senso può ricevere la forma senza la
materia, e svanirebbe quindi la necessità di accettare l'interpretazione alternativa proposta
dalla studiosa.
30. Sorabji, op.cit., pp.229, 233-235. A partire da Filopono, si cercava inoltre di evitare di
contraddire Categorie 2, 1a 25, inteso come affermazione dell'inseparabilità di un accidente
individuale da un soggetto individuale, ad esempio del profumo particolare di Socrate da
Socrate. Riguardo alla questione che sorge dall'inseparabilità di un accidente individuale da
una sostanza individuale, si può notare anzitutto che essa non sarebbe comunque risolta
dall'interpretazione proposta: anche se una qualità individuale avesse un diverso status di
realizzazione materiale nel mezzo rispetto a quello pieno che ha nella sostanza individuale,
sul piano logico si predicherebbe comunque tale qualità del mezzo oltre che del suo soggetto
proprio. Inoltre occorrerebbe dimostrare, prima di asserire la pertinenza stessa del problema,
che Aristotele sostenesse che ciò che si percepisce è il profumo di Socrate, e non il profumo
dell'aria tra chi percepisce e Socrate. Fortemente indicativa del contrario sembra inoltre
l'insistenza sulla necessità di un intermediario, nonché l'aporia presentata in 446b 17 ss.:
Solo se sono le affezioni del mezzo a produrre la sensazione è possibile dire che più soggetti
percipienti, fisicamente separati, sono alterati da un oggetto fisicamente unico.
31. Mentre nel medesimo mezzo trasparente sembrano convivere colori opposti senza
ostacolarsi né combinarsi, infatti, nel caso del suono e dell'odore, evidentemente, due qualità
opposte che condividono lo stesso mezzo si influenzano a vicenda e si mescolano, e non
offrono, così, alcuna minaccia al principio di non contraddizione.
32. 439b 10 ss.. Il trasparente, aveva poco prima precisato Aristotele (439a 21-26), non è
proprio dell'aria o dell'acqua, ma è comune, in diversi gradi, ai corpi di questo tipo come a
tutti gli altri. Esso si trova infatti in misura maggiore o minore in tutti i corpi, e li rende
partecipi del colore (439b 8-10). Che i corpi come l'aria e l'acqua non abbiano lo stesso
colore quando li si guarda da lontano o da vicino, si spiega, per il filosofo, con il loro essere
sostanze indeterminate, a differenza dei corpi (ζώκαηα, termine che Aristotele sembra usare
in questa circostanza in contrapposizione a «sostanze indeterminate «), in cui il colore si
presenta in maniera determinata (439b 1-6). Per questo, la dottrina che la luce è colore del
trasparente per accidente, causata dalla presenza di un corpo igneo in esso, pur essendo
ancora corretta, va precisata specificando che ciò accade quando il trasparente in questione
sia privo di limiti determinati (439a 18-27).
33. 439 a 30-b 1. Poiché il colore è sempre il limite del trasparente, non è possibile alcuno
«scontro» di colori in un punto qualsiasi all'interno del mezzo, né sul limite del trasparente
stesso, visto che il colore proprio del corpo e quello (accidentale) dell'aria hanno un loro
limite ben distinto. Il bianco dell'uomo bianco è il limite del trasparente del corpo, nel limite
del corpo. Il nero dell'uomo nero, «portato» all'uomo bianco dall'aria interposta, è il limite
del trasparente dell'aria, esterno al limite del corpo che la delimita (ossia il corpo dell'uomo
bianco; l'aria infatti, si è rilevato sul testo, è un corpo in sé stesso indeterminato, e allo stesso
modo il trasparente che è in essa). In questo modo è perfettamente plausibile che la
paventata coesistenza di colori opposti non avvenga, e che quindi l'ipotesi, del tutto ad hoc,
delle forme intenzionali (intese come realizzazione materiale «indebolita») non sia da
ritenersi necessaria.
34. Non sono quindi condivisibili le traduzioni di Laurenti (in Aristotele, Opere, vol. 4: Della
generazione e della corruzione; Dell'anima; Piccoli trattati di storia naturale, Laterza,
19944, p. 227.) e Lanza (in Aristotele, Opere biologiche, a cura di D. Lanza e M. Vegetti,
UTET, Torino 1971, p. 1109), secondo cui l'eccezionalità della luce rispetto alle altre
sensazioni (che sarebbero movimenti anche nel senso più ristretto di traslazione), sarebbe
motivata dal suo essere, a differenza del movimento, uno stato dato dalla presenza di un
elemento igneo nel trasparente. L'essere dovuta alla presenza di qualcosa e l'essere una ἕμηο,
tuttavia, non sono caratteri peculiari di ciò che produce la vista, cioè la luce (447a 11). La
coppia di nozioni possesso-privazione è applicata mediante un'esplicita analogia con i colori
(essi stessi dovuti alla presenza del fuoco nel trasparente in un corpo determinato [439b 8-
18]) anche ai sapori in Sens. 4, 442a 25: come il nero è privazione del bianco nel trasparente,
così il salato e l'amaro sono la privazione del dolce nell'umido nutritivo (cfr. 441a 5: la
natura dell'acqua tende a essere insapore). Ciò è suggerito inoltre da 443a 2, in cui si legge
che l'oggetto del gusto è nell'aria e nell'acqua. È molto facile, del resto, intuire il motivo per
cui ciò che si trova sempre sul limite dell'intermediario non può, prima di giungere a chi
percepisce, passarvi nel mezzo, mentre non lo è affatto doverlo ricondurre alla presenza del
fuoco nel trasparente che causa la luce. Accentuando la valenza oppositiva dello «infatti
(γάξ)..., ma non ( ἀιι᾽ νὐ)...» si potrebbe quindi pensare, diversamente, che nella prima
parte della frase in esame si esponga una qualche caratteristica che potrebbe portare ad
assimilare la luce al movimento, ma che essa non sia tale, lasciando però la spiegazione del
perché la luce non possa essere un movimento inespressa. Risulta senz'altro preferibile,
pertanto, la traduzione dell'espressione offerta da R. Carbone (in Aristotele, L'anima e il
corpo, Milano, Bompiani, 2002, p.115:«vi è luce perché vi è qualcosa, ma non si tratta di un
movimento»), che tuttavia ricostruisce poi nel commento in maniera non dissimile da Lanza
e Laurenti (ibid., n. 84, pp.300-301).
35. Aristotele, infatti, prosegue dicendo che le cose non stanno così neppure per la traslazione e
l'alterazione in generale (446b 28-29). Tutte le alterazioni infatti possono (ma non
necessariamente devono) avvenire istantaneamente, a differenza delle traslazioni, che
avvengono invece giungendo dapprima in un punto mediano (Sens. 6, 446b 30-b 12). Ciò
esclude che i movimenti impressi nel mezzo dagli altri sensibili siano traslazioni, come
sostiene invece Lanza (op. cit., n. 42, p. 1109). Aristotele non avrebbe altrimenti alcun
motivo per dilungarsi in queste distinzioni. Si rivolgerebbe inoltre contro di lui l'aporia di
446b 17 ss.: se ad essere percepiti fossero corpi che si spostano sarebbe impossibile che uno
stesso oggetto possa dirsi percepito da più soggetti. In questo senso va pertanto riletta
l'affermazione che il colore modifica (»muove») il trasparente (DA II 7, 419a 10-15; III 12,
434b 27-29). Il quadro definitivo che risulta dal passo del De sensu, quindi, fa di tutte le
affezioni nell'intermediario alterazioni, e non traslazioni. Esse quindi possono, ma non
necessariamente devono, avvenire in modo tale da passare attraverso il punto di mezzo
dell'intermediario, prima di giungere al soggetto che percepisce. La luce, poi, per la sua
peculiarità di essere sempre sul limite del trasparente, si differenzia dalle altre alterazioni, in
quanto necessariamente non può avvenire passando dapprima per il punto di mezzo
dell'intermediario.
36. Poiché i tangibili sono le qualità dei corpi in quanto tali, è impossibile che esista un corpo
che ne è privo (DA, 423b 26-29, con il relativo rinvio a GC, II, 2-3; cfr. G. Movia, in
Aristotele, L'anima, Napoli, Loffredo Editore, 19922, p. 341, n. 5). In realtà, la stessa
esistenza di un mezzo sembrerebbe contestabile, essendo in apparenza il tatto dovuto al
contatto diretto con l'oggetto. Per Aristotele non può tuttavia ricavarsi da ciò alcun indizio,
giacché se si stendesse intorno alla carne una membrana si percepirebbe ugualmente in
maniera immediata (e ancor di più se essa fosse congenita), pur non potendosi sostenere
evidentemente che essa è il sensorio (432a 1 ss.). Tra due corpi a contatto nell'aria o
nell'acqua, tuttavia, c'è sempre acqua o aria, sebbene ciò ci sfugga (423a 25- 423b 8).
Propriamente, quindi, la percezione per contatto diretto non esiste, ed è del tutto plausibile
che ci sia una membrana congenita che funge da intermediario, non avvertibile al pari della
sottile pellicola d'aria che si forma tra la carne e l'oggetto (432b 8-17). Questo ruolo di
mediazione è attribuito dal filosofo alla carne, che, composta dalla terra e dagli altri
elementi, soddisfa il requisito di solidità necessario per il corpo animato (423a 12-17).
L'organo sensorio è invece interno, e si può presumere che si tratti della carne intorno al
cuore (423b 23; in PA 647a 19, 656b 34, 656b 24-30 si dice rispettivamente che il sensorio è
la carne, che la carne è mezzo, e che la carne è il sensorio oppure il sensorio combinato con
il mezzo).
37. In Sens. 3, 439a 21-25 il trasparente è attribuito, in diversi gradi, a tutti i corpi. Esso
determina quindi il colore proprio dell'oggetto, e non c'è motivo di credere che quando il
trasparente è di per sé indefinito (ad esempio nel caso dell'aria) e il suo colore (grado di
trasparenza) è determinato da altro, si tratti di un tipo di colorazione differente.
L'espressione di DA II 7, 417b 4-6 non è quindi una sorta di definizione del trasparente, ma
una precisazone del senso ristretto, e a rigore improprio, in cui il termine è impiegato nel
capitolo. Il greco δηαθαλὲο δὲ ιέγσ ὃ ἐζηη κὲλ ὁξαηὸλ, νὐ θαζ᾽ αὐηὸ δὲ ὁξαηὸλ ὡο ἁπιῶο
εἴπεῖλ, ἀιιὰ δη᾽ ἀιιόηξηνλ ρξῶκα, pertanto, si può rendere con «dico trasparente quello che
è visibile, ma visibile non per sé come a parlare in assoluto, ma per mezzo di un colore
estraneo». Non sembrano quindi condivisibili le osservazioni di Johansen (op.cit., p.39, con
nota 25), che limita illegittimamente la portata del passo del De Sensu. Diversamente
Sorabji (Aristotle on Sensory Process..., pp. 52-53) ipotizza, evidentemente per conciliare le
affermazioni sul trasparente di DA II 7 e Sens. 3, che il colore proprio del corpo sia da
ricondursi alla proporzione della terra e del fuoco presenti in un corpo. Essa è assunta dalla
θόξε in un modo che è nel contempo letterale e «in prestito», analogamente a quanto accade
per il mare (cfr. 439b 1-6).
38. Come opportunamente rileva T. St. Ganson (What's Wrong with the Aristotelian Theory of
Sensible Qualities?, «Phronesis», 1997,42 n. 3, pp. 270-271) e a dispetto della ricostruzione
proposta da Johansen (op. cit., pp. 150-153). Si può in ogni caso rilevare, seguendo Sorabji
(Aristotle on Sensory Processes..., pp. 54-55), che se anche il suono fosse assimilabile ad
un'onda trasmessa nell'intermediario, come vuole Burnyest, esso non soddisferbbe alcuno
dei criteri di II 5, in quanto l'affezione nell'intermediario implicherebbe il passaggio tra
contrari e la distruzione dello stato precedente. Esso sarebbe «non fisico» solo perché non
configurabile come movimento secondo i criteri della Fisica, secondo cui il movimento in
senso stretto è quello di un corpo (III 1, 200b 3-201a 3; V 2, 226a 32-b 1). Anche questa
possibilità, tuttavia, risulta in constrasto con le parole di Aristotele, che parla del suono
come di un movimento dell'aria (DA II, 8, 419b 25-27; Sens,, 6, 446b 9). Per ciò che
concerne l'odore, cfr. Sens. 5, 442b 28-443a 3 e le pertinenti osservazioni di Johansen
(op.cit., pp.235-236),
39. Che abbia luogo un'affezione ordinariamente fisica nella carne è ammesso, limitatamente al
caldo e al freddo, dallo stesso Johansen, che tuttavia, adottando l'esegesi «spiritualista» o
«defisiologizzata» della teoria aristotelica della percezione (op.cit., pp.118-119), non le
riconosce alcun ruolo nel processo percettivo (ibid., pp.214-215, 274-280).
40. Mentre un corpo trasparente definito produce un'affezione sul limite opposto di un corpo
trasparente indefinito in atto (di giorno, un oggetto rosso determina la colorazione rossa del
limite opposto dell'aria), lo stesso corpo trasparente definito non produce alcuna affezione su
un corpo trasparente indefinito in potenza (lo stesso oggetto rosso non determina la
colorazione dell'aria di notte). Ora, la parte sensitiva dell'occhio (la θόξε) è, per l'appunto,
un corpo trasparente indefinito (è d'acqua) in potenza (418b 26-31), e per questo, non può
subire un'affezione da un corpo trasparente definito, fintanto che resta in potenza. Ciò che è
capace di produrre un'affezione su un trasparente indefinito in potenza (e quindi sulla θόξε)
è un corpo igneo, oppure un altro corpo trasparente indefinito che, già attivato dalla presenza
del fuoco e determinato nel colore da un oggetto trasparente definito, trasmette al trasparente
in potenza e l'attivazione (illuminazione) e il colore che ha già subìto. Ecco quindi spiegata
l'imprescindibilità dell'intermediario, anche nel caso della vista, senza ricorrere ad alcuna
funzione «de-materializzante». Ciò è sufficiente a garantire, inoltre, che il colore percepito
sia dell'oggetto distante, e non dell'aria che funge da intermediario. Neanche per questo
scopo è quindi necessario, contro Johansen (op.cit., p.117), uno stato «quasi fisico» delle
forme nel mezzo.
41. In tutti gli intermediari a eccezione della carne, infatti, ha luogo un passaggio dallo stato di
ricettività o capacità di ricevere a quello di ricezione (il trasparente è affetto dal colore in
quanto capace di subirne l'azione, ma non ha in se stesso un altro colore che si opponga al
primo e sia da esso distrutto), classificabile probabilmente tra le alterazioni descritte in II 5
(non c'è distruzione del contrario, la potenza si preserva e il passaggio è verso una ἕμηο, cfr.
417b 2-16). L'organo sensorio presenta poi in tutti i casi una caratteristica comune a quella
del mezzo: l'occhio è privo di colore, l'orecchio di suono (cfr. DA, 418b 27). In tal modo,
esso è affetto solo dall'alterazione prodotta nel mezzo dall'oggetto, in quanto l'intermediario
è identico all'oggetto in tutte le sue caratteristiche, ad eccezione di quella accidentalmente
impressagli dal sensibile. Un'alterazione non ordinaria avrebbe così luogo solo nel passaggio
dallo stato di assenza della qualità sensibile nell'intermediario a quello della sua presenza a
opera di un determinato oggetto. Ciò avviene ad esempio con l'illuminazione, che consiste
nell'attivazione del trasparente indeterminato dell'aria (come nel passaggio dalla notte al
giorno), ovvero con l'assunzione di un certo odore o suono da parte dell'aria. Lo stesso
discorso non vale invece per qualsiasi successivo mutamento della caratteristica sensibile
«portata» dall'intermediario, che non potrà che configurarsi secondo lo schema di
distruzione della determinazione da parte di quella opposta che vi si sostituisce . Criticabile
quindi la posizione di J. M. Magee (Sense Organs and the Activity of Sensation in Aristotle,
«Phronesis», 2000 (45), 4., pp. 327-329) che, ritenendo (in virtù di Sens. 446b 27-28 e DA
418b 21-27) l'illuminazione un esempio di alterazione non ordinaria secondo i criteri
introdotti in II 5, estende questa caratteristica al caso dei colori nell'intermediario,
adducendo a motivazione il fatto che essi non viaggiano attraverso un trasparente
indeterminato in atto. Lungi dall'implicare uno stato non fisico tale caratteristica dipende
piuttosto, come notato, dal loro giacere tanto nei corpi determinati quanto in quelli
indeterminati sul limite del trasparente. Sfuma quindi la possibilità di risolvere il problema
della permanenza dello stato di ricettività dei sensori, posto dallo studioso, tramite
l'attribuzione delle peculiarità del colore nel trasparente a tutti gli altri sensori (ibid,, p. 319).

42. Come opportunamente rilevato da Nussbaum e Putnam (Changing Aristotle's mind, in


Essays on Aristotle's DeAnima. Edited by M. C. Nussbaum and A. O. Rorty, Oxford,
Clarendon Press, 1992, pp. 37-41). Il settimo capitolo, in particolare, descrive le varie
modalità d'interazione fra le forme di conoscenza (sensazione, immaginazione, intelletto) e
desiderio che producono l'azione. Per spiegare come processi psicologici possano produrre il
moto del corpo, grosso e pesante, di un animale, si ammette che essi siano cambiamenti
fisiologici, consistenti nel riscaldamento e raffreddamento della regione attorno al cuore,
causa di altri movimenti all'interno del corpo determinanti infine lo spostamento degli arti.
Essi infatti, per quanto piccoli, provocano su grande scala movimenti notevoli nelle altre
parti, in maniera simile a ciò che accade per i carretti e i pupazzi meccanici, i cui fili e leve
sono paragonati agli ὄξγαλα degli animali (anche se, in luogo dei semplici meccanismi di
spinta e trazione, nelle parti animali si verificano modifiche nella forma e nella grandezza, a
causa del raffreddamento e del riscaldamento). Il quadro generale è confermato dai capitoli
seguenti. Particolarmente significativo l'ottavo, che ribadisce che certi riscaldamenti e
raffreddamenti sono necessariamente concomitanti a certe percezioni, estendendo
l'argomento anche alla memoria. In esso si legge inoltre che le parti corporee sono
organizzate in maniera tale da avere, per loro natura, la capacità di effettuare tali
cambiamenti: la loro attivazione consiste quindi nella realizzazione di una capacità, che è un
tipo di mutamento possibile non solo riguardo ai movimenti psicologici, ma anche ai
mutamenti materiali (contrariamente a quanto, notano gli studiosi, sembra supporre
Burnyeat). In polemica con la tesi per cui Aristotele considererebbe soltanto il desiderio
come attività implicante mutamenti somatici, infine, i due studiosi sottolineano la perfetta
simmetria con cui, nel De motu animalium, desiderio e percezione sarebbero trattate come
attività di coscienza incorporate nella materia.
43. Con ciò non si indicherebbe, infatti, solamente che tali attività hanno necessarie condizioni
di ricettività negli organi sensori (come richiede l'interpretazione di Burnyeat), bensì che il
corpo e l'anima sono, nell'esercizio di queste funzioni, attivati insieme. Non sarebbe
altrimenti comprensibile come il tatto, costruito come attivazione di una potenzialità, possa
dirsi (in 441b 15 ss.) un'affezione nell'umido provocata dal secco (cfr. Nussbaum e Putnam,
op.cit., p. 42).
44. Tutte queste sono dette, poco più avanti, ιόγνη ἔλπινη (forme incorporate nella materia),
adeguatamente espresse in definizioni del tipo «un certo movimento di un corpo di un certo
tipo, o di una sua parte, o di una particolare facoltà, causato da un certa cosa in vista di un
certo fine» (403a 25 ss.). La percezione sarebbe chiaramente inclusa nella trattazione, pur
essendo il discorso focalizzato, in a 16-18, su un ristretto numero di affezioni (ira, tenerezza,
paura, pietà, coraggio, gioia, amore, odio). Ciò infatti è testimoniato (oltre che dall'essere
perfettamente in linea con la dottrina emersa dall'analisi del De motu animalium e dell'inizio
del De sensu) dall'uso, in 403a 5-8, di uno schema linguistico («x, y, z e in generale A») che
lo Stagirita adotta solitamente per delineare il rapporto di varie specie rispetto a uno stesso
genere (Cfr. Metafisica, 1026a 2-3 e l'apertura del De sensu per altri esempi di tale
espressione), e che, in questo caso, indica la possibilità di considerare le emozioni come tipi
di percezione (Nussbaum- Putnam, op. cit.,pp. 42-45). Il passo si limiterebbe invece soltanto
alle emozioni per Barnes, (op. cit., p. 106) e Burnyeat (How Much happens..., p. 433 con n.
38).Quest'ultimo nota che in 403a 5-7 la percezione è inclusa nei πάζε dell'anima, ma, dato
il contrasto immediatamente precedente (402b 25-403a 2) tra essenza (ηί ἐζηηλ) e accidenti
(ζπκβεβεθόηα) e la chiara equivalenza posta tra πάζε e accidenti (ὅζα ζπκβέβεθε) in 402a
7-10, essi sono qui da intendersi, generalmente, come attributi. A partire da 403a 16,
tuttavia, il termine πάζε, in virtù del contrasto con le attività posto in 403a 6-11, è adoperato
nel senso più ristretto di affezioni passive. La percezione non è esplicitamente inclusa tra
esse, e in questo stesso senso il termine compare nell'affermazione che i πάζε sono ιόγνη
ἔλπινη (403a 25). Replicando a questa ricostruzione, Sorabji (Aristotle on Sensory
Processes..., pp. 56-59) sottolinea che Aristotele adopera qui la distinzione tra affezioni e
attività piuttosto disinvoltamente, riferendosi con il secondo termine della disgiunzione
piuttosto al pensiero che alla percezione. Parlando del percepire in generale insieme a
desideri ed emozioni in 403a 7, infatti, il filosofo intende evidentemente alludere a tutte le
funzioni percettive, inclusi il senso comune, l'immaginazione, la memoria e i sogni che,
nelle altre opere biologiche, sono causalmente fondate sulla percezione (cfr. De motu anim.,
6-10, Insomn. 1, Mem. 449b 30-450a 23). Sulla stessa linea Nussbaum e Putnam notano che
Aristotele non pone mai in contrapposizione, il lato «emotivo» e quello «cognitivo» del
«mentale». Piuttosto, il restringimento alle affezioni «emotive» trova la sua spiegazione
nella volontà di ribadire l'applicazione di una dottrina generale a un caso particolarmente
controverso e problematico rispetto alla semplice percezione (in EN 1102b 29-1103a 1 si
attribuirebbe una partecipazione al ιόγνο anche alla parte desiderativa dell'anima, e il
coinvolgimento dell'opinione nelle emozioni, in Rhet.1385b 13, 1386a 22, le rende meno
«comunemente animali» rispetto alla percezione).
45. Nei luoghi in cui Aristotele esamina il caso del λνῦο, tuttavia, la questione sull'unità e la
separazione tra esso e il corpo non solo assume senso, ma è assai rilevante. Essa lo sarebbe
anche per la percezione se, come accade nell'interpretazione di Burnyeat, la sua situazione
fosse identica a quella del λνῦο, con il corpo a funzionare semplicemente come condizione
necessaria, senza eseguire le funzioni. (Nussbaum e Putnam, op. cit., p.45). A riguardo di
quest'ultimo punto, Johansen (op. cit., p. 289) obietta che pur in assenza di un processo di
alterazione fisica, la situazione della percezione non è comunque assimilabile a quella
dell'intelletto, giacché quest'ultimo, a differenza della facoltà percettiva, è del tutto privo di
organi specifici.
46. Everson, op.cit., pp. 84, 86.
47. Ciò è del resto ammesso dallo stesso Burnyeat (De Anima II 5 , pp. 81-83). Che non si tratti
in II 5 di un processo materiale sottostante alla percezione, nota lo studioso (ibid., pp. 76-79)
è chiaro in base a III 2, 425b 26-426a 26, che riprende in applicazione alla percezione la
dottrina di Phys. III 3, secondo cui l'agire e il patire correlativi sono lo stesso evento che ha
luogo in chi subisce, descritto da differenti punti di vista. Ciò è inferibile inoltre già
dall'affermazione di II 5, 416b 33-34, per cui la percezione è classificabile come un essere
mutati e affetti. L'espressione ζπκβαίλεη ἐλ ha infatti nel contesto di II 5 questo significato, e
non quello di «essere realizzato in», che suggerirebbe che l'alterazione è il processo
materiale sottostante alla percezione. Sarebbe privo di senso, nota lo studioso, dire che
l'apprendimento è uno speciale tipo di alterazione nel senso che quest'ultima vi si relaziona
come la materia alla forma, e che lo stesso vale per la percezione. In maniera identica
andrebbe intesa l'asserzione di MA 7, 701b 17-18, per cui le percezioni sono εὐζύο
alterazioni di un certo tipo, in contrasto con la parafrasi di Nussbaum e Putnam (Changing
Aristotle's mind, in AA. VV., Essays on Aristotle's De Anima, cit., p. 39), secondo cui si
allude al fatto che le percezioni sono realizzate in un certo tipo di alterazione. Ciò è per
Burnyeat sufficiente per mostrare che non esiste alcuna distinzione tra aspetti mentali e
materiali, né di conseguenza la possibilità di un'interpretazione funzionalista della teoria
aristotelica della percezione. A proposito della lettura di II 5, 416b 33-34, non è difficile
scorgere un implicito riferimento polemico di Burnyeat a S. Everson (Aristotle on
Perception, 1997, Oxford, Clarendon Press, pp. 94-95), secondo il quale si stabilirebbe qui
che la percezione, essendo un'alterazione speciale e «formale» (b 34, ἀιινίσζίο ηηο), è anche
un'affezione e un'alterazione materiale ordinaria (b 33, θηλεῖζζαη). Il motivo di fondo
dell'inferenza è espresso, per Everson, in GC I, 7, 323b 25-29: il bianco può essere affetto
accidentalmente da una linea solo se quest'ultima si trova a essere nera, perché l'affezione
può aver luogo solo se due cose sono o sono composte da contrari. Contro la lettura di
Everson si era già espresso Magee (op.cit., pp.316-317), notando che in II 5, 417b 12-22 non
si pone un contrasto tra l'alterazione ordinaria dell'organo e quella non ordinaria della
facoltà, ma tra il passaggio che avviene, a opera del genitore, da un sensorio in potenza
capace di percepire a uno che lo è in atto, e il «mutamento» che ha luogo in chi esercita la
capacità che già possiede. Occorre tuttavia notare che, se anche II 5 non allude già al
processo «formale» e a quello «materiale» ipotizzati da Everson, ciò ancora non toglie che
essi siano effettivamente ammessi, in ultima analisi, dallo Stagirita.
48. Sorabji, op. cit., pp. 80-81, e Aristotle on Sensory Processes and Intentionality. A Reply to
Myles Burnyeat in D. Perler (ed.), Ancient and Medieval Theories of Intentionality, 2001,
Leiden, Brill, pp.50-51.
49. Meno limpida la lettura di DA II, 5 proposta da T. J. Slakey (Aristotle on sense perception,
«The Philosophical Review» 1961 (70), p. 469), il quale ritiene sì che l'alterazione
percettiva si caratterizzi per il fatto di non comportare la perdita di una qualità, come
avviene invece ordinariamente (DA, 417b 7, 417 b 7), ma dubita che ciò detemini una
differenziazione sostanziale rispetto ai normali tipi di alterazione, dal momento che avviene
comunque l'acquisizione di una qualità. Come rileva opportunamente Everson (op.cit., p.93,
con nota 105), Slakey è costretto ad ammettere l'acquisizione di una qualità senza la perdita
di quella precedente, pur ritenendo una verità logica che ciò che diventa caldo deve cessare
di essere freddo. Tali difficoltà, sottolinea Everson, dipendono dalla convinzione dello
studioso che, nella percezione, non ci sia altro che un'alterazione materiale letterale. Come si
avrà modo di vedere, il reperimento di oscurità e difficoltà nella dottrina aristotelica è
tuttavia funzionale all'interpretazione generale di Slakey, secondo cui la dottrina aristotelica
della percezione si risolverebbe in un fallimentare tentativo di spiegazione materialistica.
50. Cfr. DA II, 12, 424a 28-32; III 2, 426a 27-b 7; 4, 429a 31-b3; 13, 435b 6-16. J. Sisko
(Material Alteration and Cognitive Activity in Aristotle's De Anima, «Phronesis», 1996, 41,
2, pp.144-147) nota che è possibile rendere conto coerentemente della dottrina in questione
solo ammettendo l'esistenza di un'alterazione fisica durante la percezione. Che i danni alla
capacità di percepire e all'organo siano causati da qualcosa di diverso dai sensibili stessi,
così come la rottura del legno lo è non dal tuono ma dall'aria in cui il suono inerisce (II 12,
424b 11-12), è infatti da escludere considerando che, in III 13, 435b 7-12, Aristotele pone
un'esplicita distinzione tra la distruzione dell'organo da parte dei sensibili e quella
dell'animale a opera dei corpi in cui i sensibili ineriscono (nel qual caso è possibile dire che
la distruzione è operata dai sensibili solo per accidente). Né si può dire che a provocare
un'alterazione fisica sono solo i percepibili dotati di una particolare intensità. L'intensità dei
sensibili che per il filosofo produce impedimenti alla vista, infatti, è relativizzata in GA V 1,
780a 10-13, e Ins. 2, 459b 9-12, che pongono l'esempio di chi non è in grado di vedere
passando dalla visione in piena luce a quella in penombra di un luogo chiuso.
Evidentemente, i colori visti in piena luce non sono intensi né tali da impedire la visione se
rapportati l'uno con l'altro, mentre lo sono in relazione a quelli visti al chiuso. Se si legge ciò
nell'ottica di una ricostruzione che non ammette processi materiali di alterazione durante la
percezione, si avrebbe l'assurdo di una qualità di una certa intensità che produce
un'alterazione materiale su un oggetto in un certo contesto, e non, inspiegabilmente, sul
medesimo soggetto in un altro contesto.
51. Come evidenzia Sorabji, in polemica con Burnyeat, nemmeno l'impiego del paragone con
l'impronta sulla cera obbliga a intendere la ricezione delle forme come semplice diventare
consapevoli, né a credere che ciò avvenga senza richiedere alcun cambiamento fisiologico.
Aristotele adopera infatti lo stesso esempio nel De memoria (1, 450a 27-b 11) in maniera
palesemente fisiologica, spiegando i diversi tipi di mancanza di memoria in analogia al
carattere difettoso della superficie che riceve le impronte (op. cit., pp. 81-82.). Inoltre, rileva
S. M. Cohen (Hylomorfism and functionalism, in Essays on Aristotle's DeAnima. Edited by
M. C. Nussbaum and A. O. Rorty, Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 66-67), la lettura di
Burnyeat risolverebbe in una mera tautologia la spiegazione, contenuta in 425b 22-26, della
persistenza della percezione al venir meno dell'oggetto. Se la colorazione indicasse
semplicemente l'essere coscienti del colore, la persistenza della percezione sarebbe dovuta,
per Aristotele, al fatto che si continua ad essere coscienti del colore. Infine, Sorabji (op.cit.,
p.62) sottolinea, in polemica con Barnes, che la parte dell'occhio interessata dalla
colorazione durante l'atto visivo, la θόξε, non è identificabile con la pupilla, bensì col bulbo
interno dell'occhio (DA III 7, 431a 17-18; HA I 8, 491b 21; PA II 8, 653b 25), e che per
questo la colorazione dell'occhio non è ovviamente smentibile dall'esperienza. La strategia
adottata da Sorabji, tuttavia, riconosce all'obiezione di Barnes una plausibilità che forse non
è necessario ammettere. Più semplicemente, infatti, si potrebbe sottolineare l'ovvia falsità
della critica, dal momento che sulla superficie della pupilla si formano durante la visione
immagini colorate, com'è facile accertare rispecchiandosi in quella di chi ci guarda. Tale
fenomeno, rileva opportunamnte Johansen (op.cit., p. 45), è descritto nel platonico Alcibiade
I (132e 7-133a 3), ed è probabilmente all'origine dello stesso termine θόξε.
52. Come fanno Nussbaum e Putnam, op.cit., pp. 36-37, 40.
53. Questa interpretazione è sostenuta da Sorabji, Slakey, Cohen. La ricezione della forma dei
percepibili senza la materia, (cui si fa riferimento in 424a 18-19, 424b 2, 429a 15-16, 434a
29-30), equivalente allo «essere affetti dalla forma» (427a 8-9, 424a 23, a 34, b 3), e al
diventare identico all'oggetto sensibile da parte dell'organo di senso (417a 20, 418a 3; 9,
422a 7; 11, 423b 28-424a10. 425b 23) alluderebbero quindi a questo processo fisico. Questo
varrebbe anche per 425b 22-24, dove ciò che vede sarebbe detto «in un certo senso»
colorato solo per via della presenza «in prestito» dei colori nel fluido trasparente dell'occhio,
che ne è in sé stesso privo (Sorabji, Ibid., p. 66-67), giacché l'argomento richiederebbe una
colorazione tale da renderlo visibile (Slakey, op. cit., p. 474, facendo riferimento a 425b 18-
19). Secondo Sorabji, poi, in 427a 8-9 (una cosa indivisibile non può nello stesso tempo
essere bianca e nera, e perciò neppure essere affetta dalle forme di questa qualità) il «perciò
neppure» non introdurrebbe un secondo processo distinto dalla colorazione (il che
comunque darebbe alla colorazione un importante ruolo causale), ma una descrizione
ulteriore del medesimo processo. In tutti questi passi, nota infine lo studioso, si pone
esplicitamente come soggetto dell'affezione l'organo sensorio, o si ricorre a espressioni
facilmente riconducibili ad esso (»ciò che è sul punto di percepire»,»ciò che può
percepire»,»ciò che vede»).
54. Sorabji, Op. cit., p. 69-71 (cfr. pure Slakey, Op. cit., pp. 472-473). Il passo sarebbe decisivo
perché l'unica maniera di spiegare il riferimento alla dottrina sugli elementi, e il motivo per
cui ciò che deve percepire il bianco e il nero debba essere entrambi potenzialmente, sarebbe
quella di riconoscere l'esistenza di un'alterazione letterale. Se si dovesse assumere solo un
messaggio in codice, come una vibrazione, non si spiegherebbe la presenza della barriera
alla percezione di certe temperature, del tutto intelligibile, invece, se l'organo deve acquisire
la temperatura da percepire, giacché esso non può farlo con quella che già possiede. Questo
smentisce decisamente l'opinione di D. Glidden (Aristotelian perception and the Hellenistic
problem of representation, «Ancient Philosophy», 1984, [4], pp. 119-31), che, partendo
dalla descrizione della teoria aristotelica della percezione presente in un passo di Sesto
Empirico, parla delle θηλήζεηο trasportate nel mezzo come di «modelli cinetici», articolabili
matematicamente e paragonabili a una forma d'onda o a una vibrazione.
55. Del tutto inefficace sembra quella di A. Silverman (Color and color-perception in Aristotle's
De anima, «Ancient Philosophy», 1989 [9], n.2, pp.271-292.), basata sulla convinzione che
la formula «ricevere la forma senza la materia» descriva la semplice ricezione della
proporzione numerica astratta del colore. La materia cui la formula alluderebbe sarebbe la
qualità sensibile stessa, e nella visione si riceverebbe quindi la forma del colore senza
diventare colorati. Secondo Silverman, poiché occorre rispettare la generale anteriorità
dell'atto sulla potenza, nonché quella definizionale degli oggetti rispetto alle facoltà, e
preservare nel contempo l'oggettività dei sensibili, la forma ricevuta è accidente necessario
del colore. Altrimenti, infatti, dipendendo l'atto primo del colore da quello secondo, e quindi
dall'atto secondo della vista (giacché l' atto secondo della vista è identico a quello del
colore), si violerebbe la dipendenza definizionale dell'atto sensitivo dal rispettivo oggetto
(preservata, invece, ponendo l'atto secondo del colore come accidente necessario dell'atto
primo, giacché l'atto secondo della vista dipenderebbe da quello del colore, senza che nel
colore l'atto primo dipenda dal secondo). A questo alluderebbe la ricezione della forma
senza materia: poiché il colore è analizzabile ilemorficamente dalla scienza che lo riguarda,
e ciò che si riceve è l'atto secondo, la materia che si lascia indietro è il colore stesso (la sua
materia prima è la superficie, la sua materia seconda è il colore stesso, dal momento che, per
il principio di Ackrill, la materia è indistinguibile dalla sua forma). A invalidare
l'interpretazione di Silverman è non solo e non tanto l'evidente congetturalità delle premesse,
quanto Aristotele stesso. Il filosofo afferma infatti che la θίλεζη<, sia l'azione (πνίεζηο) che
l'affezione (πάζνο), sono in ciò che le possiede, e quindi il suono in atto o l'ascolto in atto si
trovano in ciò che le possiede in potenza e nel ricevente (2, 426a 2 ss.; II 2, 414b 11-12). È
quindi del tutto improprio dire che l'essere percepito sia atto secondo dell'oggetto sensibile,
perché l'essere ascoltato del suono, così come l'ascoltare, appartengono a chi percepisce (cfr.
L. A. Kosman, Perceiving that we perceive: On the soul III,2, «The Philosophical Review»,
1975,84, pp. 513-514).
56. Sorabji, op. cit., p. 71.
57. Riconoscendo la difficoltà, Everson (op.cit., p.82, con la nota 79) la ritiene il reale motivo
per cui Aristotele parla dei sensori in generale come di «un certo tipo» di medietà.
58. Come nota Sorabji (op.cit., pp. 72-73) in polemica con Slakey. Per ques'ultimo (op. cit., pp.
475-477) la dichiarazione che la αἴζζεζηο è una κεζόηεο (424a 5 ss.), attestando
semplicemente la capacità dell'organo di diventare, ad esempio, caldo e freddo, è invece del
tutto inadatta a giustificare la mancanza di percezione delle piante, giacché anch'esse
possono essere raffreddate e riscaldate.
59. Secondo Sorabji (Ibid., p. 73), si tratterebbe qui di un'inaccorta espressione del filosofo, o,
in alternativa, di un uso insolito di «ricettivo», in riferimento non alle qualità ricevute
durante la percezione, ma a quelle caratterizzanti l'organo. Le piante, quindi, non
percepirebbero perché il loro ipotetico sensorio sarebbe freddo e secco, mentre dovrebbe
essere una mescolanza di caldo, freddo, umido e secco.
60. Sorabji (ibid., p. 84). Si veda, per conferma, Iuv. 4, 469b 6-20 (per l'importanza del calore
vitale nel cuore), 472b 1-5, 472b 34-473a 2; 474a 23-24; 478a 11-25. Lo studioso ritiene
però improbabile un conflitto tra le due teorie, e ipotizza che la discrepanza sia sfuggita ad
Aristotele così come lo è ai suoi critici e commentatori.
61. S. A. Freeland, Aristotle on the sense of touch, in Essays on Aristotle's DeAnima. Edited by
M. C. Nussbaum and A. O. Rorty, Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 232-233. Né sarebbe
una valida obiezione, prosegue la studiosa, appellarsi all'evidenza di un raffreddamento o
riscaldamento superficiale, dal momento che, essendo l'organo interno, si dovrebbe provare
che ciò avviene internamente. Non altrettanto efficace pare un'analoga critica mossa da
Burnyeat (op. cit., pp. 20-21), incentrata sulla presunta assurdità che una mano diventi
morbida quando tocca qualcosa di morbido. Nulla obbliga infatti ad ammettere che ciò sia,
in termini aristotelici, impossibile, giacché Aristotele potrebbe avere in mente una letterale
ricezione di umidità da parte della carne, essendo per lui il morbido riducibile all'umido (GC
II 2, 330a 6-11; cfr. 329b 30-33).
62. Cfr. Magee, op. cit., pp. 318-319, in polemica con Everson (op.cit., pp. 89-96), secondo il
quale già in II 5 si potrebbe leggere una distinzione tra le alterazioni pertinenti la natura
materiale, ordinarie e implicanti la distruzione di una determinazione da parte di un'altra a
essa contraria, e quelle riguardanti la sola natura formale, che si risolverebbero in un
passaggio dalla capacità al suo esercizio. Nel caso della percezione vigerebbe tra i processi
un nesso di «sopravenienza» (ibid., pp. 258-275), come testimoniato da Phys. VII, 3, 246b
10-17 (pur non essendo le ἕμεηο, in quanto relativi, alterazioni, hanno luogo con alterazioni)
e DA I, 1, 403a 19-25 (nell'ammissione che gli stati psicologici possono avere luogo in
modo anomalo a causa delle condizioni materiali del soggetto, infatti, è implicito che i primi
sono causati anche ordinariamente dalle seconde).
63. Freeland (op. cit., pp. 246-247) rileva come in PA II 2, in cui si distinguono cinque diversi
sensi in cui una cosa può dirsi «più calda» di un'altra, solo uno chiami in causa la sensazione
(648b 15-16). In 649b 5-7, il filosofo si mostra poi convinto che questa plurivocità si
estenda pure al freddo e, all'inizio del capitolo terzo, anche all'umido e al secco. Essa fa
inoltre da sfondo ad un passaggio di Meteorologica IV (385a 1-11), dove si espongono due
modi in cui sono distinguibili i corpi omeomeri. In un primo, essi lo sono a seconda dei
modi in cui producono sensazioni, ed esempi ne sono il bianco, il dolce, il caldo, il freddo.
Un secondo tipo di differenziazione è invece fondato sulle qualità passive, tra le quali si
annoverano l'umido e il secco. Se non si ammettesse qui la plurivocità teorizzata
espressamente in PA II 2, e si sostenesse poi che nella percezione c'è una vera e propria
affezione letterale sugli organi da parte delle qualità sensibili, ne risulterebbe l'impossibilità
di percepire qualità come l'umido e il secco, dal momento che esse sono qui classificate
come passive in contrapposizione a quelle che agiscono sui sensi. Palesemente, però, per
Aristotele umido e secco sono percepibili, ed è quindi implicito il riconoscimento da parte
sua di una distinzione tra le qualità sensibili come realmente esistenti, e le qualità sensibili in
quanto percepite.
64. Op. cit., pp. 67-69. A tale dottrina, che rappresenta l'applicazione di una teoria generale (cfr.
Fisica III 3), secondo cui due attività, quali l'insegnamento e l'apprendimento, sono un'unica
e identica attività risiedente nel paziente, si alluderebbe poi nel confronto tra il pensiero e la
sensazione, compiuto in III 8, 431b 28-432a 1. Qui si mette in gioco anche la nozione di
forma, ma, nota Sorabji, non quella di ricezione della forma senza la materia, proprio per
evitare che si generi confusione tra questa dottrina non fisiologica (secondo cui il pensiero è
identico con la forma dell'oggetto) e quella, fisiologica, della ricezione della forma senza la
materia.
65. I due aspetti stanno tra loro, secondo Sorabji, in una relazione di materia a forma. Gli aspetti
«formali» o «intenzionali» sono quelli discussi da Aristotele (in II 6 e nel libro III)
correlando e distinguendo le varie facoltà. Il filosofo è quindi paragonato da Sorabji a coloro
che oggi distinguono il contenuto della percezione e del pensiero, collegando così capacità
dello stesso livello, anziché ridurle alla fisiologia, al comportamento, oppure alla funzione
(ibid., pp. 59-60). Che esista un aspetto «intenzionale» oltre quello materiale è sostenuto,
oltre che da Sorabji, da Nussbaum e Putnam (op. cit., pp. 45-46) e da Cohen (op. cit., p. 61).

66. In polemica con Burnyeat (op.cit., p.24), Sorabji (op.cit., p.84) obietta che non è inferibile
da questa ricostruzione che la forma non è trasportata da alcun veicolo materiale, e che (in
base a Sens. 6, 446b 28-476b) per Aristotele è del tutto plausibile che una forma sensibile,
collocata in una parte di materia, faccia sì che un altro esemplare di sé appaia in una parte
adiacente di materia. Lo studioso ammette invece che il motivo della mancanza di
percezione nelle piante è, di conseguenza, il loro essere riscaldate e raffreddate inglobando
assieme alla forma la materia dell'agente (Ibid., p. 74). Questa lettura, ripresa da Temistio
(op.cit., p. 119 [p. 78 Heinze]) e R. D. Hicks (in Aristotle, De anima, Cambridge,
Cambridge University Press 1907, p. 419), è adottata anche da Everson (op.cit., pp.86-89),
che spiega che le piante non possono percepire in quanto, essendo terrose (III 13, 435a 20-b
3), sono fredde e secche. L'unico modo in cui una pianta pur restando tale può riscaldarsi,
infatti, è quello di ospitare della materia più calda, che rimane tuttavia estranea. Magee (op.
cit., pp. 324-326) rileva tuttavia che GC II 3, 330b 20 distingue i corpi semplici ordinari
dagli elementi, giacché i primi risultano comunque dalla mescolanza di tutti gli elementi, e
quindi possono solo essere aaloghi, non identici ai secondi. La tesi sul riscaldamento tramite
accorpamento di materia estranea, continua lo studioso, è poi in contrasto il rifiuto della
spiegazione delle alterazioni come assunzione di materia attraverso i pori, effettuata in GC I
8, 326b 21-24. La problematicità di questa ricostruzione era già stata sottolineata, del resto,
tanto da Burnyeat (op.cit., p.24) quanto da Cohen (op. cit., p. 67: le piante subirebbero un
tipo di alterazione corporea inadatto in quanto prive della giusta temperatura iniziale, posta
tra caldo e freddo, necessaria per percepire queste due qualità), osservando che il sole
riscalda un albero senza trasmettergli materia calda. Sorabji ribatte che è sufficiente che la
tesi, essendo solo un'ipotesi di sostegno elaborata per spiegare la mancanza di sensibilità
delle piante, non fosse empiricamente smentibile ai tempi di Aristotele. Piuttosto, egli invita
a notare come l'interpretazione di Burnyeat finisca per risolvere quella che Aristotele
presenta come una spiegazione in una tautologia. Ciò che viene detto secondo la sua lettura,
infatti, è che le piante diventano calde e non diventano coscienti del caldo, senza alcun'altra
spiegazione, laddove la terminologia adoperata (424a 32-b 3: δηὰ ηί, αἴηηνλ) dimostra
chiaramente il contrario (op.cit., pp.74-75).
67. In modo simile sembra interpretare la formula Everson (op.cit., pp. 100-102), secondo cui il
punto che vuole mettersi in luce, tanto con la formula indicata quanto con l'analogia
dell'impronta sulla cera, è che l'organo è affetto solo da un certo tipo di qualità, e non è
sensibile alle differenti costituzioni materiali. La determinazione che produce l'affezione
della vista è il colore, e che esso sia nel bronzo o nel ferro è irrilevante.
68. Non sono tali, ad esempio, le critiche mosse da Cohen (op. cit., pp. 65-66) alla lettura di
Burnyeat dell'analogia dell'impronta sulla cera (secondo cui la materia cui si fa riferimento
nell'espressione «ricevere la forma senza la materia» è quella del ricevente, dal momento
che essa significherebbe «ricevere la forma senza diventare materialmente come l'oggetto»).
Non è infatti problematico ritenere che la formula abbia contemporaneamente, oltre al
significato visto, pure quello di «senza assumere materia dell'oggetto», giacché non c'è alcun
motivo per cui, sostenendo che la formula si riferisca a qualcosa di diverso dal diventare
letteralmente simile, non si possa leggere poi, come conseguenza implicita in essa,
l'impossibilità che la ricezione della forma avvenga inglobando la materia dell'oggetto. Va
inoltre notato che l'identificazione del soggetto di «ma non in quanto bronzo» nell'anello non
è un dato testuale (come sembra credere Cohen), ma un'interpretazione. Si potrebbe infatti
sostenere che la cera riceva l'impronta d'oro, ma non in quanto la cera (e non l'anello) è oro,
indicando così che la cera non diventa identica all'anello, pur ricevendone la forma.
69. Secondo la scansione del passaggio proposta da Burnyeat (op. cit., p. 25.), Aristotele
partirebbe da una posizione per cui l'unico effetto di una forma percepibile è la percezione:
l'odore non ha che l'odorare come effetto. Di ciò sarebbe conferma il fatto che la rottura del
legno da parte del tuono è imputabile non al rumore, ma all'aria che si accompagna ad esso
(424 b10-12). Tuttavia, egli ammetterebbe poi (b 12) che i tangibili provochino un'affezione
sui corpi (a prescindere dalla distinzione tra l'affezione prodotta sui corpi capaci di percepire
e quella sui corpi che non lo sono). Inoltre, estenderebbe la possibilità di affezione da parte
delle forme percepibili anche ai sensibili distanza: da sé stesse, e non in quanto composti
materiali, esse possono agire sui corpi indeterminati, rendendoli percepibili. Secondo
Sorabji (op. cit., pp. 76-77) il procedimento sarebbe analogo, in quanto Aristotele
muoverebbe, anche per lui, dalla negazione che una qualsiasi azione della sola forma su un
corpo possa non essere un caso di percezione, finendo però poi per ammetterlo.
70. Secondo Sorabji, il filosofo si chiederebbe che cos'è il percepire oltre all'essere effetto dalla
forma senza la materia. Per Burnyeat ,invece, egli si interrogherebbe su ciò che distingue
l'effetto dell'odore su un corpo capace di percezione da quello su un altro che non lo è
(similmente Johansen, op.cit., pp. 274-280). La frase seguente non smentisce questa
possibilità, giacché la lezione per cui «l'odorare è anche (θαὶ) un percepire» è viziata
dall'errato inserimento del θαὶ. Come ha dimostrato Kosman (op.cit., pp. 508-511), infatti,
nel frammento superstite del passo, testimoniante il testo del secondo libro originariamente
contenuto nel manoscritto più autorevole (E, Parisinus Gr. 1853, del X secolo), si legge
ὀζκᾶζζαη αη αἰζζάλεζζαη. È quindi facile intuire che il θαὶ, che non compare negli altri
manoscritti, sia dovuto all'intervento dell'autore della riscrittura contenuta in E a riguardo di
quello che, con tutta probabilità, era nella redazione originaria solo un errore di dittografia.
A dispetto di queste argomentazioni filologiche, Everson (op.cit., p.130, n.55) ritiene di
poter conservare il θαὶ, sostenendo che tanto qui che nella Fisica (VII 2, 244b 2- 245a 11)
Aristotlele pone come elemento differenziante tra le affezioni percettive e non percettive la
coscienza dell'essere affetti, coincidente con la nozione di percepire di percepire esposta in
Somn. 2 e DA III 2. Tale differenza sarebbe fondata anche a livello fisico, in ragione della
necessità di un collegamento con il cuore, sede della coscienza percettiva (ibid., pp. 74-78,
134-144).
71. Burnyeat, op. cit., pp. 25-26, 431. L'accettabilità di questa descrizione della situazione
filosofica odierna è negata con decisione da Nussbaum e Putnam (op. cit., 47-51). Sarebbe
invece filosoficamente plausibile sostenere che nessuno stato fisico o computazionale possa
essere identificato con uno stato intenzionale, asserendo invece l'irriducibilità degli aspetti
intenzionali a quelli corporei. Inoltre, non essendo possibile neppure esprimere con
precisione quanto i vari eventi mentali hanno in comune, andrebbe apprezzata in Aristotele
anche la mancanza di un simile tentativo.
72. Sorabji, op. cit., pp. 208-209, 219.
73. Pur essendo dichiarato incorporeo in III 4 (429a 18-29), infatti, il pensiero non dovrebbe
avere maggiori titoli per aspirare alla incorporeità rispetto alla percezione (interpretando
quest'ultima alla maniera di Sorabji), giacché esso è sempre legato a un'immagine (431a 14
ss.), che, in base a 492a 1 ss., richiede la permanenza dell'affezione percettiva (cfr. Slakey,
op.cit., pp. 482-484).
74. Secondo Slakey (op. cit., pp. 478-479. ). Il fallimento sarebbe determinato proprio dalla
difficoltà di spiegare in che cosa si distingua il «diventare come la cosa» che è percezione
rispetto alla semplice alterazione fisica che non lo è. Aristotele cercherebbe dapprima di
esprimere la differenza con oscure formule filosofiche, affermando che il senso è una
medietà, che è ricettivo delle forme senza la materia (II 10-11), e ancora, in II 5,
distinguendo il carattere non distruttivo dell'alterazione percettiva. Infine non potrebbe fare
altro che affermare qui, tautologicamente, che il percepire è il percepire. Non è del resto
difficile notare che, una volta ammessa l'esistenza di un evento esterno fisicamente identico
a quello che accade nell'organo sensorio, la dottrina di Aristotele non può essere classificata
come una teoria dell'identità, dal momento che viene meno qualunque presupposto per
sostenere che questo tipo di evento fisico è direttamente identico al tipo di evento mentale
della percezione. Diversamente da Burnyeat (op. cit., p. 431), ciò non dipenderebbe
dall'essere l'evento, tanto nell'organo, quanto nel mezzo, «quasi fisico», ma dal fatto che tra i
due eventi, pur essendo essi fisicamente identici (ed entrambi normalmente fisici), solo uno
conterebbe come percezione. Piuttosto ambigua è in proposito la posizione di Kosman. Pur
evitando di intendere la coscienza come un qualcosa di aggiunto all'evento fisico (op. cit.,
pp. 518-519), egli ammette che esiste un identico evento fisico comune a chi percepisce e ai
corpi inanimati (ibid., pp. 507-508). La distinzione di quello che accade in chi percepisce,
che sarebbe dovuta al suo essere una forma di coscienza (ibid., pp. 511, 519), poggerebbe in
ultima analisi sulla capacità posseduta dall'organo. Ciononostante egli non esita alla fine a
classificare la concezione di Aristotele come teoria dell'identità (ibid., p. 518).
75. Ph. Webb, Bodily Structure and physic faculties in Aristotle's theory of perception,
«Hermes», 1982 (110), p. 37, n. 96.
76. Ibid., p. 37. Anche Webb sembra infatti sottolineare, almeno riguardo al senso del tatto, la
difficoltà in cui si cade se si ritiene che ciò si riferisca alla condizione di ricettività
dell'organo: se per percepire il caldo o il freddo l'organo deve essere tiepido, allora dovrà
essere caldo o freddo per percepire il tiepido (p. 35, n. 89).
77. Ibid., p. 26.
78. La tesi di PA 666 a 34-35, per cui esso è il cuore, è solo un riferimento inaccurato alla
dottrina per cui esso è nel cuore, testimoniato da numerosi altri passi (Somn. 455b 34-a 6;
Iuv. 469a1-b 17; PA 656a 27-28, b 22-27, 665a 10-13, b 25-26 ; GA II 6, 743b 25-26).
79. Si può escludere che si tratti del sangue dal momento che esso è privo di sensazione (PA
651b 6, 656b 19-22, 666a 16-17, e i più ambigui 650b 3-4 e HA 520b 14-17). Che i canali di
trasmissione siano i vasi sanguigni è mostrato dall'analogia tra i movimenti sensitivi distorti
nel sonno e i vortici che si formano nei fiumi che scorrono (Insomn. 461a 8 ss.) letta come
allusione ai movimenti degli αἰζζήκαηα nei vasi sanguigni. Sono poi inequivocabilmente
essi i collegamenti che, afferma lo Stagirita, possiamo vedere estendersi dagli organi di
gusto e tatto (469a 12-14, 656a 29-31, cfr. 743b 37-a 2).
80. Il calore naturale è infatti un prerequisito per l'animazione, come dimostra l'affermazione
(DA II 4, 416b 29) che ogni essere animato è provvisto di calore. L'anima non esiste infatti
senza calore naturale (Iuv. 6, 470a 19-20), e la vita e il possesso dell'anima si accompagnano
sempre a un certo calore (Resp. 8, 474a 25-26, cfr. b 10-12: l'anima non esiste senza facoltà
nutritiva, e questa senza il fuoco naturale). Il calore si trova nel seme e nell'uovo (GA III 1,
751b 6 ; 752a 2-3), e il suo venir meno provoca la vecchiaia e la morte (Iuv. 4, 469b 18; 5,
470a 5-7; 24 [18], 479a 7-20; a 30; GA V 3, 784a 31-34.) Questo calore è concentrato in
maniera particolare nel cuore (Iuv. 4, 469b 1-17; 22 [16], 478a 29-30, PA III 7, 670a 23-26).
Il calore è tuttavia una qualità, e inerisce quindi a una materia (GA I 6, 322b 16-18). Questa
è lo πλεῦκα, come è evidente in GA II 3, 736b 29- 737a 1, dove Aristotele esplica «il
cosiddetto caldo» che ha detto presente in tutti i semi, con «lo πλεῦκα ... e la natura
contenuta nello πλεῦκα». Le due esplicazioni non sono equivalenti, ma si deve ritenere, con
Neuhäuser e Balme, che la prima sia corretta dalla seconda. Webb sembra ritenere il calore e
lo πλεῦκα alla stregua di due forze contrapposte in equilibrio, spiegando l'uso del termine
πλεῦκα in riferimento all'aria fredda inspirata per abbassare la temperatura, innalzatasi a
causa della digestione (Somn. 2, 456a 6-11; Iuv. 22 [16], 478a 28-31; PA III 6, 668b 34-a 6;
Iuv. 27 [21], 480a 16-18; PA III 10, 672b 17-19) e la necessità di ζπκκεηξία perché la vita
abbia luogo e si conservi (GA 777b 27-30; Iuv. 478a 15-17; PA III 10, 672b 14-24). Il
sangue e lo πλεῦκα, che hanno nel cuore il loro principio (Somn. 2, 456a 7), sono così
responsabili del mantenimento del corretto livello di calore naturale innato posseduto da
ciascuna delle parti del corpo (Iuv. 4, 469b 6-8). Il processo di regolazione e mantenimento
di questo equilibrio è aiutato dal cervello (PA II 7, 652b 16-30; GA II 6, 743b 26-33), oltre
che dai vasi sanguigni che circondano i polmoni (GA II 1, 732b 35-a 1). Le funzioni
principali del calore, così regolato dallo πλεῦκα, sono legate alla facoltà nutritiva, che,
servendosi del caldo, crea, accresce e conserva gli organi del corpo (GA II 4, 740b 30-33;
Iuv 4, 469b11-13; PA II 5, 668a 5 ss. : GA III 1, 751b 1).
81. Questa volontà di differenziazione, espressa già nell'adozione di termini come θπζηθόλ o
ζύκθπηνλ in connessione al calore (458a 27, 469b 28, 470a 20, 736a 11, 734b 7, 456a 12,
659b 18, 669a 2, 648b 1 ss.. GA V 6, 736a 11), è evidente in tre punti. Anzitutto, lo πλεῦκα
interno ha una temperatura definita entro stretti limiti, che, a differenza di quanto accade in
un corpo esterno, non oscilla in balìa dell'ambiente circostante. Un secondo aspetto riguarda
il fatto che il calore e lo πλεῦκα sono parti di un sistema autosostentantesi. Infine, si può
notare la peculiare continuità del calore vitale a partire dal genitore fino al generato,
attraverso il seme e l'embrione (GA II 4, 739b 23-25; II 6, 743a 27, 34; 7, 747a 18-19; IV 4,
772a 24). Dal momento che per Aristotele le specie sono eterne, non essendo create né
sottoposte a evoluzione, ciò implica che il calore vitale non sia mai stato prodotto dal calore
esterno, ma si trasmetta eternamente all'interno della specie di generazione in generazione (il
che giustificherebbe l'appellativo di «divino» in 736b 35-36; 737a 1-7).
82. Ciò è mostrato dall'associazione del calore allo δσηηθὴ/ςπρηθή ἀξρή (ad esempio in GA II 1,
732a 18-21; 3, 737a 3-6; III 1, 751b 6; 752a 2-3). Attraverso gli organi il calore si mantiene
ad un livello corretto e mediante il calore gli organi sono funzionanti. Il fatto che in Iuv. 1,
467b 13-16 si dica che l'anima sta in una parte del corpo (cfr. MA 730a 28-b 2, dove
analogamente si legge che, come in una città ben ordinata, ognuno svolge la propria
funzione senza la necessità di un sovrano in ogni regione che lo diriga sempre) vuole solo
enfatizzare il ruolo del calore regolante rispetto ai poteri dipendenti dalla struttura da esso
causata. Coesisterebbero, quindi, due modalità interdipendenti di descrizione della sostanza
vivente: quella che nomina le parti corporee, la loro composizione e i loro vari processi, e
quella che nomina i poteri che vanno a comporre la ςπρή, anche se la capacità e ciò che la
possiede e la fa sorgere non vanno comunque per Aristotele confusi: l'anima non è il calore,
ma usa il calore (PA II 7, 652b 7-16).
83. Cfr. PA II 4, 651a 12-17 (in cui sono esposte le conseguenze negative della differenza di
densità, temperatura e purezza di esso sulla sensibilità), 7, 653b 5-8 (il calore del cuore è
sensibilissimo e risente immediatamente del movimento del calore che è nel sangue
prossimo al cervello) e 10, 656b 15-16, (il movimento del calore che è nel sangue ostacola
l'attività percettiva). Secondo lo studioso, inoltre, la ormai nota discussione di Sens. 6 (446a
20-b 12, 446b 27- 447a11), avrebbe come oggetto la velocità di trasmissione nel mezzo, che
per lo Stagirita, sarebbe, implicitamente, infinita. Tale sarebbe quindi, ovviamente, anche la
velocità sarebbe di trasmissione delle sensazioni nello πλεῦκα riscaldato.
84. Ibid., n. 96, p. 37. Simile è la proposta di Everson (op.cit., pp. 139-144), che sottolinea che
la necessità di un collegamento con il cuore è motivata dalla localizzazione in esso della
capacità di percepire di percepire, che equivale, nell'interpretazione adottata dallo studioso,
alla coscienza percettiva
85. Il trasparente è infatti ricettivo del colore non quando è in atto, ma quando è in potenza
(418b 28-31), ossia quando è oscuro (b 31-419a 1). L'aria che è incastonata nell'orecchio
deve restare immobile (420a 9-11).
86. Ibid., p. 28. L'esistenza di due identici eventi fisici, di cui uno consiste in una percezione e
l'altro no, implica l'impossibilità di inquadrare la concezione di Aristotele come un esempio
di teoria dell'identità, contrariamente a quanto dichiarato da Webb. Se poi ci si appellasse
alla distinzione vista tra lo speciale calore proprio degli animali e il normale calore esterno
(Ibid., p. 31-32), la soluzione non potrà che essere analoga a quella di Burnyeat. Ciò che
differenzia i due eventi, fisicamente identici, sarebbe il tipo di corpo (capace o meno di
percepire) in cui l'evento fisico avviene. Lo stesso discorso vale per la spiegazione di
Freeland (op. cit., pp. 232-234), che allude ad uno speciale tipo di caldo, freddo, umido,
secco di cui sarebbe composto l'organo del tatto.
87. Si noti che l'argomento muta a partire da 780b 13. Si passa infatti della discussione sulla
motivazione dei diversi colori degli occhi e della conseguente acutezza relativa alle
condizioni di luminosità diurne o notturne, a quella sull'acutezza della vista in assoluto,
dovuta, tra le altre cose, alla purezza del liquido della θόξε (e non, si badi, di quella del
liquido nello scuro, responsabile invece del colore e dell'acutezza relativa) e al suo essere
ζύκκεηξνλ al movimento esterno (780b 23-24)
88. L'apparente sprizzare del fuoco che consegue allo stropicciamento e movimento dell'occhio
accade, nota il filosofo, solo al buio e quando l'occhio si muove velocemente, e si deve al
fatto che lo scuro, essendo liscio, brilla al buio (437a 24-b 1), mentre la velocità del
movimento fa sì che ciò che è visto e ciò che vede siano assieme uno e due , e appaia
evidente che ciò che vede e ciò che è visto sono differenti (437b 1-4). In quel caso, come
anche nel riflesso, l'occhio vede tuttavia se stesso (437b 9-10). Nonostante sia condivisibile
l'impostazione generale di G. E. R. Lloyd (The Empirical Basis of thePhysiology of the
Parva Naturalia, in Aristotle on Mind and the Senses, Edited by G. E. R. Lloyd and G. E. L.
Owen, London, New York, Cambridge University Press, 1978, pp. 220-221) circa l'uso
dell'evidenza anatomica da parte dello Stagirita (il filosofo offre qualche accenno di
anatomia solo in maniera funzionale alla risoluzione di problemi specifici), sembra quindi
che la struttura dell'occhio teorizzata da Aristotele fosse più complessa di quanto ritiene lo
studioso. Il filosofo distingue, certamente, solo tre parti dell'occhio: la θόξε; ηὸ κέιαλ, posto
attorno ad essa, e il bianco, che a sua volta circonda il secondo (HA I 9, 491b 21 ss.; 438a
16, b 16). Si può tuttavia dire, a differenza di Lloyd, che Aristotele abbia riconosciuto
approssimativamente la differenza tra la camera anteriore dell'occhio e il liquido in essa
contenuto (il nostro umore acqueo, la cui densità, e non la pigmentazione dell'iride, è per
Aristotele responsabile del colore dell'occhio), e il bulbo oculare pieno di umore vitreo,
alludendovi con la sua distinzione tra lo scuro dell'occhio e la θόξε. A differenza di quanto
sembra credere Carbone (op.cit., p. 294, n. 20), quindi, l'identificazione della θόξε nel bulbo
oculare non proibisce ad Aristotele di ritenere che essa fosse pure, nel contempo, la pupilla.
In questa ricostruzione essa, pur essendo interna, risulta visibile al centro dell'occhio
dall'esterno. Il bulbo interno, pieno di fluido scuro, ossia trasparente in potenza, è infatti
ricoperto da una membrana trasparente e sormontato da una camera anteriore, piena di un
liquido trasparente in atto, la cui quantità e densità determina il colore del'iride. Aristotele
non distingue poi, come rileva Lloyd, l'effettiva molteplicità di membrane esistenti intorno
al bulbo, ma si può pensare che la membrana della θόξε (cui si riferisce in Sens. 2; cfr. GA
V 1, 780a 26 e DA 420a 14 ss.) vada identificata, più che con la cornea (come ritiene Lloyd),
indiscriminatamente con tutte le strutture poste tra la camera anteriore e il bulbo oculare
(iride, coroide, retina, probabilmente anche il cristallino). Che quest'ultimo sia ciò che
intende Aristotele con θόξε è opinione dello stesso Lloyd, op. cit., p. 220.
89. Che lo siano risulta per lo Stagirita confermato dal fatto che cola acqua dagli occhi che si
decompongono, e che tale liquido è negli embrioni estremamente freddo e chiaro. Al
mantenimento in questo stato del liquido è finalizzato il bianco dell'occhio, e, negli animali
privi di sangue, la pellicola dura (438 a 16-22).
90. 438 a 27-29. Laurenti (op. cit., p. 201, n. 25) riporta la spiegazione in Alessandro di
Afrodisia: «vicino o nella pupilla «
91. A dispetto dell'opinione comune degli studiosi, secondo cui nel passo κεηαμύ alluderebbe a
una sorta di barriera interposta (cfr. Laurenti, op. cit., p. 201; Lanza, op. cit., p. 1086; Lloyd,
op. cit., p. 219; Johansen, op.cit., pp. 58-67; Carbone, op. cit.,pp. 75-76;), pare che la
valenza originale del termine possa e debba essere rispettata. Se anche può dirsi che la
membrana è una luce interna (essendo trasparente in atto ), infatti, essa non è ciò che vede
(438b 8-11: l'anima o la parte sensitiva dell'anima non si trovano sulla superficie dell'occhio,
ma all'interno). È certamente vero, ammette Aristotele nel seguito, che non si può vedere
senza luce, ma ciò che produce la vista è il movimento nel mezzo. All'interno non si vede
senza luce così come all'esterno (438b 2-8). Le parti dell'occhio che sono trasparenti in atto,
cioè, svolgono una funzione del tutto analoga a quella del mezzo esterno, ma non è in essa
che consiste il vedere, né la capacità di vedere è localizzata in queste parti. Si noti l'analogia
con 423a 2 sgg.: se si percepisce tramite una membrana connaturata che funge da mezzo non
ci si accorge di ciò. Esattamente questo accade nella vista, dove lo scuro dell'occhio e la
membrana della θόξε svolgono proprio questa funzione. Similmente, l'orecchio è per
Aristotele costituito da un condotto che porta fino alla membrana, la ἕιημ, direttamente
comunicante con l'aria esterna, che non ha altro compito che quello di continuare l'azione di
mediazione. A causa sua, l'orecchio è preservato dalla penetrazione dell'acqua (420a 12-13),
e il suono si conserva integro sino all'organo di senso posto internamente (781b 10-15). È
quindi chiaro in che senso il risuonare dell'orecchio come un corno (quando lo si copre con
una mano, cfr. la nota di Hicks in Aristotle, De anima, cit., p. 381) sia segno che si ode
(420a 15-16). Palesemente, a produrre il suono non è il movimento dell'aria innata contenuta
nell'organo (essa è immobile, e non può risuonare, 424a 4, 420a 9-11), ma dell'aria nella
eòlix, che è a contatto con la membrana dell'organo, e in continuità con l'aria esterna: una
volta chiuso questo condotto, che porta all'esterno, ciò che si sente è il suono dell'aria che
resta imprigionata in esso; il suono infatti è detto, in 420a 17-18, estraneo, e non proprio
dell'orecchio.
92. Non avvedendosi di ciò, Johansen estende la funzione di intermediario interno alla θόξε e a
tutto il al fluido trasparente che si trova nei condotti che fanno capo al cuore. Su alcune
conseguenti difficoltà per la teoria della vista e quella della percezione in generale, cfr. R.
Grasso - M. Zanatta, La teoria aristotelica della percezione, Milano, Unicopli, 2003, pp.
101-102)
93. Com'é noto, lo Stagirita afferma che, una volta stabilito che è ciò che percepisce a dover
essere una grandezza, e non l'essere della capacità sensitiva (ηὸ αἰζζεηηθῷ εἶλαη) né la
αἴζζεζηο (che sono invece un certo ιόγνο e una δύλακηο di quello), è chiaro perché gli
eccessi dei sensibili distruggono il sensorio. Infatti viene meno il ιόγνο, cioè la αἴζζεζηο,
così come l'accordo e il tono delle corde di uno strumento musicale quando esse sono colpite
violentemente (II 12, 424a 26-32).
94. DA II, 418a 4, 422a 21; III 425b 21, 426b 10 ss., 428a 3, 431a 8, 20, 432a 15.
95. D. W. Hamlyn, Aristotle's account of aesthesis in the De Anima, Classical Quarterly, 1959
(53), pp. 6-9. Questo non equivarrebbe comunque ad accettarne in toto l'interpretazione.
Egli infatti ritiene che l'essere letteralmente affetti da parte dell'oggetto sia plausibile per
alcune sensazioni (come tatto, gusto, olfatto), ma non per la vista (ibid., pp. 9, 10). Tale
affezione sarebbe dapprima estesa da Aristotele all'udito con l'applicazione indebita di un
rilievo logico concernente la facoltà uditiva, (e non il corrispondente organo) nell'asserzione
che l'atto della facoltà è identico a quello dell'oggetto sensibile (456b 26ss.). Per Hamlyn è
infatti chiaro, dal contesto, che Aristotele intende con ciò stabilire che l'organo dell'udito
diventa come l'oggetto (ibid., p. 11). Riguardo alla vista, invece, non ci sarebbe neppure
questa possibilità, giacché la nozione del colore (che è l'oggetto della vista) non contiene
alcun riferimento alla vista, a differenza di quanto accade per quella del suono (ibid., p. 11).
Concludendo, qualunque tentativo di preservare la dottrina della αἴζζεζηο come affezione o
passione fallirebbe, per Hamlyn, perché non è vero in ogni caso che l'organo sensorio
diventa come l'oggetto. Tale argomentazione non è evidentemente condivisibile, giacché
l'assimilazione del sensorio all'oggetto è evidentemente implausibile per tutti i sensi allo
stesso modo, comportando la perdita della condizione di ricettività. Lo Stagirita non ha
quindi bisogno di ricorrere (e in effetti non ricorre) all'applicazione indebita della dottrina
logica, che riguarda il senso, all'organo sensorio, che andrebbe comunque ritenuta valida per
tutti sensi. A sostegno della presunta eccezionalità della vista, infatti, Hamlyn pone (ibid., p.
10) soltanto il riconoscimento, da parte di Aristotele , in, la mancanza di un nome che
designi l'atto secondo del colore, a differenza di quanto accade per gli altri oggetti (426a 11).
Il riferimento alla percezione corrispondente, poi, è del tutto assente non solo nella nozione
del colore. Contrariamente a quanto sostenuto da Hamlyn, infatti, sono i sensi che per essere
definiti fanno riferimento agli oggetti, non viceversa (sulla questione si tornerà in maniera
più approfondita successivamente). Il significato della dottrina dell'identità dell'atto di senso
e sensibile,infine, si applica come notato non al suono in atto (in quanto opposto a quello in
potenza) e all'udito in atto, ma all'essere udito del suono (in quanto opposto al suono in atto)
e all'udito in atto (e così, in generale, all'essere percepito dell'oggetto e all'atto di
percezione).
96. Un sensibile troppo violento non verrebbe cioè perfettamente compensato, e ciò
provocherebbe una (momentanea o permanente) impossibilità di percepire, proprio come
accade alla corda della lira, che, se colpita in maniera eccessivamente forte, non ritorna al
suo stato iniziale, perdendo così la capacità di produrre il suono.
97. Il pensiero, se è analogo al percepire, deve essere impassibile, ricettivo della forma e
potenzialmente simile, ma non identico (429a 15-18: δπλάκεη ηνηνῦηνλ ἀιιὰ κὴ ηνῦην), a
essa. Diversamente, non sembrerebbe del tutto chiara l'attribuzione di una certa impassibilità
alla percezione, né la sua successiva distinzione da quella del pensiero, in base alla
considerazione che non è possibile percepire dopo aver subito l'affezione di un sensibile
troppo intenso (429a 29 ss. ).
98. III 2, 425b 22-25. Nell'ipotesi di Sorabji, invece, la parte dotata della capacità visiva, per
essere colorata alla maniera dell'aria esterna, dovrebbe essere trasparente in atto, perdendo
quindi la condizione di ricettività, che, notoriamente, consiste nell'essere trasparente in
potenza. Contrariamente a quanto consegue alla sua interpretazione, risulterebbe inoltre
perfettamente plausibile la distinzione di una peculiare accezione dell'essere colorato, caldo,
freddo (etc.) in relazione alla percezione, dal momento che, ad esempio, la sensazione del
caldo non consisterebbe nel diventare caldo del sensorio, ma nel compensare il caldo
ricevuto dall'esterno, con una diminuzione regolata del calore interno che ha per risultato il
suo mantenimento nell'identico grado iniziale. L'esegesi che fa della percezione una
compensazione, quindi, non sarebbe scalfita dalle obiezioni sollevate da Freeland in base
alla plurivocità delle qualità sensibili attestabile in PA II 2 e Meteorologica IV. Com'è facile
notare, in questa interpretazione non si avrebbe poi nessuna perdita di potere esplicativo per
quanto concerne la persistenza delle percezioni e delle immagini, giacché a persistere non
sarebbe il residuo indebolito dall'affezione prodotta dall'esterno sull'organo, bensì quello
compensativo prodotto in risposta ad essa.
99. Ciò in pieno accordo con la preoccupazione dello Stagirita di assicurare la regione cardiaca
il più possibile al riparo da alterazioni. Il calore nel cuore deve essere preservato, giacché al
raffredarsi delle altre parti, si può continuare a vivere, mentre se ciò si verifica in esso si va
incontro alla morte (Iuv. 469b 6-20; cfr. 478a 15: gli animali dotati di polmone sanguigno
abbisognano di un raffreddamento rapido per il piccolo margine di variabilità del fuoco
animante [δηὰ ηὸ κηθξὰλ εἶλαη ηὴλ ῥνπὴλ ηνῦ ςπρηθνῦ ππξόο]). L'influenza della natura del
sangue (della sua purezza, densità, temperatura) sulla sensibilità (cfr. per esempio PA II 4,
651a 12-17) non ha quindi la sua ragion d'essere, come crede Webb, nella necessità di
trasmettere senza distorsioni l'affezione dall'organo periferico a quello centrale, bensì,
inversamente, in quella di trasmettere l'affezione compensativa dal principio nel cuore agli
organi periferici. In alternativa, Aristotele potrebbe alludere semplicemente alla possibilità
di percezioni fallaci, in quanto un'impurità o una variazione di condizioni nel sangue
scatenerebbero immediatamente una reazione di compensazione, cioè una percezione, che,
data l'assenza di un oggetto esterno, risulterebbe ingannevole. Il calore nel cuore, che è
principio ζπκπαζέζηαηνλ, produce infatti una sensazione non appena si verifica una qualche
affezione o mutamento nel sangue intorno al cervello, e per questo il suo corretto
funzionamento è della massima importanza, e una sua eccessiva secchezza o umidità
provocano malattia, stati di delirio (παξαλνίαο) e morte (PA II 7, 653b 5-8.). Si spiega
quindi perché il movimento del calore del sangue ostacola la percezione, e la necessità che i
sensi più acuti siano localizzati nella testa, dove il sangue è più puro (II 10, 656b 1-6). Posto
questo meccanismo fisiologico compensativo centralizzato, diventerebbe chiaro, poi, che
motivo della collocazione interna del sensorio del tatto (con la carne superficiale a fungere
da semplice intermediario) non è solo il desiderio di un'analogia, piuttosto forzata, con i
sensi a distanza. Piuttosto, nell'identificazione del sensorio del tatto, giocherebbe un ruolo
decisivo l'idea che il sensorio deve essere atto a compensare l'affezione restando
ultimamente identico, unita alla necessità di riconoscere l'evidenza di un riscaldamento o
raffreddamento della carne in superficie.
100. Cfr. Th. Ebert, Aristotle on what is done in perceiving, «Zeitschrift für
Philosophische Forschung», 1983(37), pp. 181-198. Distinti chiaramente i significati
comuni di «discriminare» e «giudicare», lo studioso denuncia la pratica dei traduttori di
Aristotele, tanto comune quanto erronea, di ritenerli interscambiabili, rilevando in aggiunta
che, all'epoca in cui scrive lo Stagirita, l'unico senso in cui θξίλεηλ vale come «giudicare»
non è legato al significato grammaticale e logico di «effettuare giudizi», ma unicamente a
quello giuridico di «decidere». Basandosi su rigorosi indizi grammaticali, egli stabilisce che
Aristotele, nel De anima e nei Parva Naturalia, usa il termine e i suoi derivati sempre nel
senso di discriminare, con sole quattro eccezioni (Insomn. 2, 460b 22 [se non si ha nessun
altro senso, si decide/giudica che uno è due], 3, 461a 25 [dove si riferisce al processo
fisiologico di redistribuzione del sangue durante il sonno], DA I 2, 405b 8 [in cui θξηηήο è
adoperato nel senso di «sostenitore»] e 418a 14-16 [ogni senso decide sul rispettivo
sensibile proprio, alludendo all'autorità assoluta di ciascun senso sui rispettivi sensibili
propri]).
101. Ibid., pp. 190-193.
102. Per esempio, la percezione del caldo nell'istante «t1» consisterebbe nel discriminare
la quantità di calore necessaria, nell'istante «t0», a mantenere l'apparato percettivo alla
temperatura «n», da quella necessaria per lo stesso scopo nell'istante «t1» (cioè nel momento
in cui si presenta ad un organo periferico un riscaldamento esterno). Queste stesse
caratteristiche generano invece diverse difficoltà se si sostiene, con Ebert, che i termini
siano gli oggetti stessi. Ritenendo che recepire un colore significhi discriminare un colore da
un altro, si avranno infatti due possibilità: o in ogni atto discriminativo si ha la simultanea
percezione di due colori, oppure un colore sarà percepito in virtù della sua differenziazione
da un altro, che lo è stato in un istante precedente. Entrambe le opzioni sono però
impraticabili dal punto di vista di Aristotele. La seconda è destinata a un regresso
all'infinito, perché diventa impossibile incontrare un primo oggetto sensibile che non sia
stato, esso stesso, percepito per discriminazione da un altro precedente. La prima si scontra,
invece, contro la convinzione dell'impossibilità di percepire simultaneamente due oggetti
della stessa specie, esplicitamente asserita in Sens. 7, 448b 17- 469a 20, e in DA III 2, 426b
31- 427a 14 (cfr. specialmente 427a 7-9).
103. L'affermazione che quando si muove l'aria esterna all'orecchio, si muove anche
quella interna (420a 5), potrebbe infatti essere facilmente ricompresa come allusione al
movimento di compensazione interno, parallelo a quello esterno (cfr. pure Mem. 2, 425b 9-
15, dove si allude a un movimento proporzionato [ἀλάινγνλ] alle cose esterne, tramite cui
esse sono discriminate, nonché GA 780b 23-24, secondo cui il liquido della θόξε deve
essere, per percepire acutamente, ζύκκεηξνλ al movimento esterno). Un altro luogo che
verrebbe ad assumere un diverso profilo, qualora lo si affrontasse nelle linee di questa
interpretazione, sarebbe poi 469a 14-16. Il testo (ἐλ ηνύηῳ κὲλ γὰξ ηνῖο ἀιινηο αἰζζεηεξίνηο)
non potrebbe che essere riferito, infatti, al processo di compensazione che ha nel cuore il suo
principio, che termina agli organi periferici. Di notevole importanza, inoltre, si rivelerebbe
l'attestazione, in Insomn. 459b23-26 (di paternità aristotelica, per quanto confinante con un
passo di autenticità assai dubbia, cfr. Vegetti, op. cit., nn. 6-7, pp.1165-1167) che il sensorio
dei colori non solo patisce (πάζρεη), ma pure reagisce (ἀληηπνηεῖ). In quest'ottica può essere
letta anche la tesi, contenuta in Phys. VII 2, 244b 2- 245a 11, secondo cui le parti dotate
della capacità percettiva e quelle che non lo sono, sono alterate in maniera differente, che
Everson (op.cit., pp.134-144) annovera tra le prove a favore dell'esegesi letteralista. Solo
apparentemente problematico è, infine, 461a 30ss.. La tesi per cui «si crede da svegli di
vedere, udire, percepire per il giungere di un movimento dai sensori verso il principio», è
infatti da ritenere il primo di una serie di esempi in cui si è indotti a credere qualcosa di
ingannevole, a causa della generale tendenza della ἀξρή (il principio) della sensazione ad
affermare sempre la provenienza dei movimenti dai sensori periferici (ηὸ ἀθ᾽ ἑθάζηεο, letto
come «il [provenire] da ciascuno [dei sensori periferici]»), se un'altra più autorevole non
dice il contrario. Similmente accade quando diciamo di vedere perché crediamo che la vista
sia stata stimolata, non essendolo stata, o quando crediamo che un oggetto sia due in quanto
il tatto annuncia due movimenti (461b 1-3). Nell'interpretazione che si sta proponendo,
infatti, i movimenti sensitivi «viaggiano» dagli organi periferici al cuore, conformemente al
contesto, soltanto durante il sonno, quando le θηλήζεηο αἱ ἀπὸ ηῶλ αἰζεκάησλ γηλόκελαη
possono giungere fino al principio posto in esso e produrre così i sogni (460b 28- 461a 35).
Ciò non avviene durante la veglia, in cui una contro-affezione parte dall'organo centrale e
giunge a quello periferico, preservando dall'affezione l'intero apparato. Coerente è quindi la
conclusione in 461b 5-7: qualcosa appare sempre, ma non sempre si crede a ciò che appare,
a meno che non sia trattenuto e non si muova del suo movimento ηὸ ἐπηθξίλνλ (da riferire
probabilmente all'intelligenza, che determina una credenza contraria a quella verso cui si è
portati sulla scorta della sola sensazione.).
104. Burnyeat (De Anima II 5, p. 80, con la nota 138), in polemica con Nussbaum e
Putnam (pp. 38, 41), nota che la distinzione tra aspetto emotivo e cognitivo è attestata, oltre
che in DA II 9, 421a 7-16; III 7, 431a 8-17, in MA 701b 18-23. Il passo, secondo la lezione
tradizionale, include il pensiero del caldo o del freddo tra le possibili cause delle alterazioni
corporee, e l'eliminazione «caldo o freddo» operata da Nussbaum in b 20 non ha per
Burnyeat una motivazione plausibile. Egli sottolinea che se è vero che caldo e freddo, come
sostiene la studiosa, non hanno per Aristotele alcun potere motivazionale in sé stessi, si può
notare che il passo specifica che il pensiero del caldo e del freddo che sono rilevanti sono
quelli che risultano piacevoli o dolorosi per il soggetto che pensa. Si può aggiungere, del
resto, che in 701b 13-32 Aristotele parla di leggere variazioni della temperatura del cuore
cui conseguono, nelle altre parti del corpo, fenomeni considerevoli ed evidenti (come
tremori, rossori, pallori), e giacché palesemente le conseguenze denunciate non hanno luogo
nel caso di percezioni, immagini e pensieri «neutri», non sono questi l'oggetto della
trattazione. In tutta esplicitezza Aristotele scrive, subito di seguito al testo analizzato:
«dunque, come detto, principio del movimento è il perseguibile e l'evitabile nell'azione:
necessariamente al pensiero e all'immaginazione di essi conseguono riscaldamenti e
raffreddamenti» (701b 33-35). Da una parte, continua il filosofo, il doloroso è l'evitabile e il
piacevole il perseguibile, dall'altra quasi tutte le cose dolorose o piacevoli si accompagnano
a raffreddamenti o riscaldamenti. Cio è chiaro, conclude lo Stagirita, dalle passioni: audacie,
paure, voluttà, si accompagnano a raffreddamenti e riscaldamenti, alcune in alcune parti,
altre in tutto il corpo (701b 35-702a 5). Con molta cautela deve leggersi quindi PA III 4,
666a 11-13, dove è scritto che i movimenti delle cose piacevoli e dolorose, e quelli di tutte
le sensazioni in generale, hanno nel cuore il loro principio, e πξὸο ηαύηελ πεηξαίλνπζαη.
Esso può essere inteso come asserente una implicita distinzione tra le sensazioni in generale,
che hanno nel cuore il principio, e i movimenti delle cose piacevoli e dolorose, che
giungono fino al cuore. In alternativa, si potrebbe conferire al πξὸο valore causale e a
πεηξαίλνπζαη il significato di terminare: nel cuore è il principio di questi movimenti e a
causa del cuore essi terminano (cioè, sono annullate tramite il processo di compensazione).
In ogni caso Aristotele è qui interessato semplicemente all'affermazione della centralità nel
cuore, accennando velocemente alle sue funzioni, e non a una dettagliata trattazione delle
funzioni medesime.
105. Quest'ultima affermazione potrebbe intendersi in riferimento allo speciale tipo di
medietà che è la sensazione, oppure come valida in generale per ogni medio. A favore della
prima lettura si può evidenziare come, in 424a 5, si parli appunto di κεζόηεηόο ηηλνο, e che
sarebbe difficile immaginare come ogni cosa che può essere detta «medietà» sia capace di
discriminare, se non in senso metaforico.
106. Si può quindi ritenere che la necessità che ciò che è sul punto di percepire il bianco e
il nero debba essere in potenza entrambi, e in atto nessuno dei due, espressa nell'immediato
seguito (424a 7- 10), sia da inquadrare nella stessa cornice interpretativa. L'organo deve
restare sempre in potenza le qualità che ha da percepire, in quanto questa è la sua condizione
di ricettività. Perché questo requisito sia soddisfatto, dev'essere in potenza sia la qualità
percepita che il suo opposto: Solo bilanciando l'affezione del bianco con un'altra interna, di
segno opposto ma di identica intensità, si può discriminare il bianco senza perdere la
condizione di ricettività. Contrariamente a quanto accade, per ammissione stessa di Sorabji
(op.cit., p. 71), nell'interpretazione fisiologica letterale, si mantiene così un legame con il
significato proprio del termine κεζόηεο. Né, a ben vedere, sussiste alcun contrasto con la
necessità, ammessa nel De respiratione, di refrigerazione del calore nel cuore. Tale rocesso
serve infatti a evitare che il fuoco si esaurisca per consunzione (469b 20- 470a 12; 474b 20;
478a 8-10), ma in nessun luogo si legge che a ciò consegue una perdita di intensità del
calore. Piuttosto, il meccanismo che è dalla base e del movimento di compressione e
dilatazione del torace, che permette la respirazione, richiede che l'azione del freddo si
traduca in un restringimento, quella del caldo in una dilatazione (Iuv. 27, specialmente 480a
30-b 5). Ciò rivela l'implicita teorizzazione di un meccanismo in cui la «temperatura» resta
identica, traducendo le spinte al riscaldamento o raffreddamento (rispettivamente provocate
dal calore sprigionantesi dalla nutrizione e dall'afflusso di aria esterna), in un meccanismo
compensativo di aumento e di diminuzione del volume occupato nel cuore, a parità di
calore, dallo πλεῦκα.
107. Il termine è certamente impiegato in questo senso in III 2 (426a 27-b 8), indicando
che la voce e l'udito sono un accordo. Ciò posto, Aristotele può spiegare come la distruzione
della sensazione sia prodotta da parte di sensibili eccessivamente intensi (426a 30- b 3),
mentre il loro essere ricondotti alla proporzione ne determina la piacevolezza (b 3-5).
Poiché il legame tra la sensazione come ιόγνο e la distruzione della capacità a opera di
sensibili eccessivi era già stato stabilito in II 12, paragonandolo alla perdita dell'accordo e
del tono delle corde di uno strumento musicale violentemente percosse (424a 28- 32), è
opportuno intendere anche qui il termine come «proporzione». Conseguentemente, nulla
implicare che il ιόγνο adoperato poche righe più alto (a 27 - 28) non abbia il medesimo
significato. Il contesto è, qui, quello della distinzione dell'organo dalla facoltà: pur essendo
una medesima cosa, essi sono distinti per l'essenza (a 25-26). L'organo infatti è una
grandezza, mentre né l'essenza della facoltà sensitiva, né la sensazione, sono tali, essendo
invece una certa proporzione (ιόγνο ηηο) e una capacità di quello (con un'evidente
parallelismo tra «capacità» e «l'essenza della facoltà sensitiva», e tra «percezione» e «una
certa proporzione»).
108. 435a 20-24. L'accenno alla medietà, si noti, non chiama in causa direttamente la
composizione materiale nell'organo, bensì la fisiologia compensativa. La seconda parte della
frase, di conseguenza, non può essere letta come ammissione che un ipotetico sensorio di
terra percepirebbe le qualità della terra (come fa invece Sorabji, pp. 72-73 ). La logica
sottesa all'intero periodo è la seguente: la sensazione tattile consiste nella compensazione
dell'affezione data dai tangibili (è una medietà tra essi). Se l'organo fosse di terra, non
potrebbe ovviamente diventare ciò che già è, ossia freddo e secco. Conseguentemente, non
potrebbe essere affetto da freddo e secco (ragion per cui non può percepire le qualità della
terra). Neppure potrebbe, però, compensare le affezioni date dal caldo e dall'umido, dal
momento che ciò richiederebbe un incremento compensativo di freddo e secco impossibile
(essendo già l'organo massimamente tale). L'organo non può pertanto essere di terra, perché
non percepirebbe nulla (cfr. 434a 24 - b 2: per questo le parti terrose degli animali e i corpi,
anch'essi terrosi, delle piante, non sono in grado di percepire). Dovendo poi essere ricettivo
di tutti tangibili, e non solo di quelli che caratterizzano la terra (ecco la seconda parte della
frase), l'organo non può semplicemente essere diverso dalla terra, ma deve essere composto
in pari misura da tutti gli elementi. Questo preserva dalle difficoltà segnalate da Sorabji
(op.cit., p.73), che, perdendo di vista il valore ulteriormente restrittivo della frase, e non
riconoscendo l'impossibilità di qualsiasi percezione da parte di un ipotetico sensorio terroso,
è costretto ad accusare Aristotele di mancanza d'accortezza, o a ipotizzare, del tutto
artificiosamente, un uso insolito di «ricevente la forma», riferito alla composizione materiale
dell'organo. L'argomento, posto dal suo punto di vista, sarebbe del resto decisamente debole,
poggiando sull'implicita asserzione, non dimostrata, dell'impossibilità di una sorta di senso
tattile «dimezzato», cioè capace di percepire solo le qualità differenti da quelle della terra.
109. Gli unici corpi adatti a ricevere la forma senza la materia, dal punto di vista di Sorabj
e Burnyeat, sarebbero infatti l'aria e l'acqua, che tuttavia, in quanto semplici, non potrebbero
possedere il tatto. L'assurda conseguenza non si verifica se si ritiene che l'espressione
«ricevere la forma senza la materia» descriva il processo percettivo, alludendo alla
mancanza di affezione risultante dalla compensazione interna. I due criteri sarebbero così
riferiti, rispettivamente, al tipo di processo e al tipo di corpo in cui esso avviene.
110. In nessuna delle ricorrenze dell'espressione, d'altronde, c'è alcun collegamento
esplicito con il ruolo dell'intermediario. Piuttosto, essa è adoperata, in III 2 (425b 23 ss.), per
spiegare che ciò che vede è in un certo senso colorato, e, già all'inizio di II 12, introdotta
espressamente in riferimento alla αἴζζεζηο da un punto di vista generale.
111. La formula non si riferisce infatti, come visto, a un tipo di affezione che può
accadere sia nei sensori sia nei corpi inanimati, bensì al permanere della condizione iniziale,
dovuta all'alterazione interna che compensa quella esterna. Come riconosce Sorabji (op. cit.,
p. 76) essa non è d'altronde più adoperata esplicitamente nel testo in questione. Né la
questione della rilevanza dell'aporia, né l'impiego dello stesso termine usato per spiegare
perché le piante non percepiscono (κεηὰ, riferito all'aria che si accompagna al tuono, reale
causa della rottura del legno), sono poi sufficienti mostrare che essa è sottintesa, come
vorrebbe Sorabji. È evidente, infatti, che κεηὰ serve qui a specificare l'agente, e non a
indicare che il tronco spezzato ha subito l'azione del tuono inglobando l'aria cui esso
inerisce. Inoltre, la rilevanza può essere mostrata diversamente: una volta stabilito che
l'azione di una forma percepibile che produce una percezione non si traduce, alla fine, in
un'affezione passivamente subita, è legittimo chiedersi se ciò invece avvenga sui corpi che
non hanno la capacità di percepire.
112. Questa era già la lettura del παξὰ sostenuta da Burnyeat. Tuttavia egli sostiene (op.
cit., p. 25) che l'opposizione posta sia quella tra l'essere affetto senza la materia dell'organo e
quello, sempre senza materia, dell'aria (per lui equivalente all'essere affetto in maniera
speciale, cioè «quasi corporea»). Nonostante in 424b 12 si tratti di affezioni in senso
«normale», infatti, Aristotele, in b 14, cambierebbe argomento, occupandosi dell'affezione
che, pur non essendo percettiva, è prodotta da parte della forma soltanto. Non è però
necessario ipotizzare il cambiamento, di cui non c'è del resto traccia nel testo. L'opposizione
finale è quindi, invece, tra l'essere affetto della forma dell'aria, normalmente passivo, e
quello dell'organo, che si risolve in una condizione di impassibilità in virtù della
compensazione.
113. Certamente, in ultima analisi, ciò che regola e rende possibile il particolare processo
somatico che si ha nella sensazione è l'anima sensitiva, cioè la capacità di percepire. Essa
non ha tuttavia la funzione di distinguere due eventi fisici materialmente identici (come
accedeva nell'esegesi di Burnyeat), rendendo solo uno di essi un esempio di percezione. In
altre parole, non ricade sull'anima il compito di distinguere direttamente due medesimi
processi fisici, qualificando uno solo di essi come percezione (come accade invece per
Sorabji e Burnyeat).
114. Per dirla con l'incisiva immagine adoperata da Nussbaum e Putnam (pp. 46-47) in
riferimento agli esiti dell'interpretazione di Burnyeat. Nel regno immaginario di Oz, frutto
della fantasia di Baum, lo spaventapasseri possiede la capacità di pensare e percepire
«magicamente», cioè senza che alcun connotato fisico lo differenzi dagli altri
spaventapasseri che non hanno questa capacità.
115. Cfr. Nussbaum e Putnam, op. cit., pp. 28-32. Utile, per chiarire, uno degli esempi da
loro addotti: si consideri la domanda «perché un cubo (di ferro, di bronzo, di plastica) di lato
2r non può attraversare un cerchio di legno di raggio r, mentre una sfera (di ferro, di bronzo,
di plastica), con un raggio di poco inferiore a r, sì?». La risposta più semplice e generale, e
limitata agli aspetti rilevanti, potrà prescindere dalle caratteristiche materiali (pur
ammettendo che la sfera debba essere composta di qualche materiale adatto) concentrandosi
invece su quelle geometriche e formali. Per quanto i rilievi dei due studiosi possano
considerarsi esatti, si deve notare che limitarsi a questo non sarebbe tuttavia ancora
sufficiente. Se anche l'anima fosse la proporzione tra gli elementi componenti il corpo,
infatti, essa ricoprirebbe il ruolo di forma rispetto alla materia e di carattere persistente nel
mutamento. Va invece ricordato che lo Stagirita rifiuta espressamente questa possibilità
nella critica alla dottrina dell'anima armonia (407b 28 - 408a 19).
116. La posizione anti-riduzionista assunta da Aristotele non è quindi, in tutta evidenza,
legata alla volontà di preservare un qualche aspetto peculiare e inspiegabile degli esseri
viventi (la coscienza, il mentale, la vita stessa), ma ad un atteggiamento più generale verso
ciò che è essenziale nelle cose, garantendone il permanere nel mutamento. Non si tratta,
pertanto, di una posizione ristretta alla spiegazione dell'emergenza della vita e della
coscienza dalla materia, ma di un punto di vista globale sulle spiegazione scientifiche, in cui
la materia è posteriore alla forma. Se quindi un precedente all'impostazione funzionalista
contemporanea del rapporto mente-corpo può essere rintracciato in Aristotele, ciò riguarda
la sua generale impostazione ilemorfica del discorso sulle cose soggette a movimento, e non
la sua psicologia in particolare.
117. Gli animali acquatici che esercitano l'olfatto si servono come intermediario
dell'acqua (Sens. 442b 29 - 443a 3; DA 421b 9-13), ed è quindi essa, e non l'aria, a essere
contenuta nei loro organi sensori (DA 425a 5). La struttura di questi ultimi inoltre varia:
nell'uomo gli organi sono le narici, nei pesci le branchie, nei delfini lo sfiatatoio, negli
insetti la parte mediana del corpo (cfr. R. Sorabji, Aristotle on demarcating the five senses,
«The Philosophical Review», 1971 (80), pp. 57 - 58). Considerando l'interpretazione che si è
avanzata, tuttavia, questa possibilità di realizzazioni materiali variabili non va esagerata fino
al punto di sostenere, in pieno spirito «funzionalista», la presenza di un'implicita distinzione
tra la «struttura per il funzionamento» e la sua realizzazione materiale. Non c'é infatti,
ovviamente, alcun cenno alla possibilità di artefatti capaci di percezione, né a quella di
meccanismi differenti da quello compensativo. Decisamente e giustamente cauti si
mostrano, nel valutare la possibilità che Aristotele teorizzasse una qualche forma di
plasticità composizionele, anche Everson (op.cit., pp. 254, 257) e Johansen (op. cit., pp.
281-287). Quest'ultimo chiarisce che le variazioni nei sensori non dimostrano la presenza di
una plasticità di marca funzionalista. Esse sono infatti determinate ad esempio dall'ambiente,
dagli altri fini e attività dell'organismo, o dall'utilizzo del medesimo organo per altre
funzioni. La plasticità composizionale è per il filosofo inammissibile a qualsiasi livello di
descrizione materiale, giacché gli stessi elementi componenti l'organo devono essere in
potenza come l'oggetto da percepire è in atto. Se gli organi fossero composti da altri
elementi, avrebbero automaticamente altri oggetti.
118. In questo senso, quindi, è vero che l'anima è ciò che rende una percezione il processo
fisico che si ha nell'organo sensorio. Ciò però in maniera indiretta. Non si tratta cioè di due
identici processi da distinguere (come, pur nella differente concezione del processo, in
Burnyeat e Sorabji), bensì di due processi fisicamente differenti, realizzabili da due enti che,
relativamente agli elementi componenti e alle loro proporzioni, sono identici. La mancanza
di un nesso di sopravvenienza è da ritenersi dimostrata, fino a questo punto, solo
limitatamente al rapporto tra l'anima e gli aspetti somatici del processo percettivo. Nulla è
ancora stabilito a riguardo dell'esistenza di aspetti «mentali» aggiuntivi, che rimetterebbero
in gioco la questione della sopravvenienza. Resta fermo, ad ogni modo, che nessun aspetto
aggiuntivo siffatto è richiesto per distinguere la percezione dalle alterazioni fisiche
ordinarie, giacché si è visto che questa operazione è possibile senza trascendere il livello
fisico.
119. È opportuno precisare che questo non implica l'annullamento delle caratteristiche
possedute dal corpo in virtù della sua composizione materiale. Restano così valide le
precisazioni di Everson (op.cit., pp. 237-243, 286) a riguardo della compatibilità tra la
necessità ipotetica (posta in passi come PA I, 1, 642a 9-13 e DA II, 2, 414a 14-25) e quella
materiale, giacché nulla vieta che alcuni comportamenti delle parti corporee siano
determinati dalla composizione fisica degli elementi (a questo proposito, egli cita come
esempio la spiegazione della respirazione fornita in PA I 1, 642a 31- b2). Gli organi devono
avere un certo tipo di composizione materiale, infatti, perché sia possibile un mutamento
fisico di un certo tipo. Non è quindi condivisibilile la convinzione di Johansen (op. cit., pp.
43-44), secondo cui gli stessi elementi sarebbero distinti in base alla funzione. Secondo
questa prospettiva, l'acqua che nell'occhio ha la funzione di vedere non sarebbe la stessa che
si trova nel mare, ma il passo citato a sostegno si questa tesi (Meteorologica IV, 12, 390a 7-
16), in realtà, attesta solo che ogni cosa è definita in base alla funzione (il fuoco è tale se è in
grado di esercitare la funzione che gli è propria). A ben vedere, questo non implica che
l'acqua dell'occhio sia distinta da quella del mare: essa è acqua in quanto ne esercita la
funzione e ne conserva le caratteristiche. Certamente l'acqua nell'occhio è differente, ma non
già come elemento, ossia non perché in natura esistano due elementi differenti che portano
lo stesso nome, ma perché il fatto di essere dotata di anima gli conferisce delle proprietà
aggiuntive rispetto a quelle che possiede in quanto acqua, e le fa assumere dei
comportamenti differenti.

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