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Alessandra Augelli

(NPG 2009-05-79)

Un’idea diffusa tra gli educatori è quella secondo cui prendersi cura degli altri significhi dedicarsi a
loro, «spendersi», donarsi totalmente, fare di tutto per farli stare bene e renderli felici.
Questa convinzione, perlopiù legittima e condivisibile, ma insidiosa e rischiosa al contempo, ne porta
con sé altre. Siamo infatti indotti a credere che nell’atto stesso della cura ci sia un concentrato di
impegno e di devozione che, in ogni caso, non può far che bene all’altro. Riteniamo allo stesso tempo
che l’immagine dell’educatore non sia più integra e solida nel momento in cui si hanno delle riserve,
quando si è incerti, quando si manca in qualcosa. Tutti i nostri sforzi sono pertanto tesi a non
sbagliare mai, ad essere impeccabili, a dare sempre e ad ogni costo, talvolta negando le nostre
esigenze e assumendo un atteggiamento totalmente oblativo. Pensiamo che l’abnegazione, la
rinuncia, il sacrificio siano il vero segreto della relazione educativa, quell’ingrediente prezioso che ci
connota eroicamente, che ci rende più simili a Dio, incondizionatamente buoni e onnipotenti.
Con questo desiderio sottile, con questo pensiero frequente ci muoviamo nelle quotidiane relazioni di
cura scontrandoci ripetutamente col rifiuto, incontrando l’errore, affrontando le prove e i fallimenti. Ci
accorgiamo del limite. E non ci riteniamo più degni del mandato che ci è stato affidato, viviamo il
senso di colpa, ci sentiamo impotenti, sconfitti, persi. Ne consegue un senso di impotenza che non di
rado porta alla resa e alla rinuncia: «Non ne sono capace»; «Non sono la persona giusta».
Muovendosi nell’aspirazione di del limite si percepiscono le crepe, le incrinature del proprio operato e
si tende a sentirsi in riuscire in tutto, di fronte all’esperienza colpa, a ripiegarsi su di sé, a chiudersi,
contribuendo ad incrementare la distanza dall’ideale della perfezione, dall’immagine positiva di sé. Ed
è nel tentativo di nascondere e di non considerare il limite che si sviluppa il senso di inadeguatezza e
di frustrazione per quanto non si riesce a fare o ad essere.

Dal non essere all’essere

Limite: nel vocabolario troviamo diverse espressioni corrispondenti a questa voce; ciò ne attesta la
molteplicità di vissuti, rappresentazioni e significati ad esso connessi. Il limite è una «linea che
divide», ma è anche «punto estremo a cui può arrivare qualcosa», «termine che non si può e non si
deve superare». Etimologicamente (dal lat. limes) il limite indica proprio una via traversa, che fa da
confine, da frontiera. Per gli antichi Romani erano delle pietre che segnavano i confini e che non
potevano rimuoversi senza dolo, essendo sotto la speciale protezione di una divinità.
Alcuni aspetti sembrano particolarmente interessanti per la nostra riflessione. Il limite non si prefigura
soltanto come qualcosa che crea divisioni, che allontana e frammenta, ma anche come frontiera, cioè
spazio di attraversamento e di contiguità.
Esso non segna solo ciò che non è e che non si può raggiungere, ma anche ciò a cui si può
approdare: nel definire, nel circoscrivere non stabilisce soltanto ostacoli, costrizioni, restringimenti, ma
crea spazi di possibilità, territori in cui muoversi serenamente e ritagliarsi ambiti di autonomia e
incisività. Scrive Etty Hillesum: «Dobbiamo poter recuperare i nostri stretti confini e continuare dentro
di essi – scrupolosamente e coscienziosamente – la nostra vita limitata».[1]
Uno stile educativo proteso continuamente all’infinito e all’illimitato, a ciò che si potrebbe ottenere ed
essere, vive il limite come muro e impedimento. E si tenterà continuamente di aggirarlo o di
dissimularlo. Guardando le capacità degli altri e le competenze mancanti le si desidererà con ansia,
sforzandosi di essere diversi, alimentando inutili concorrenze, forme di conflittualità o sterili chiusure.
Il limite potrà, invece, essere vissuto come risorsa e opportunità di crescita se alla lungimiranza di
vedere oltre, di scorgere l’ulteriorità si affiancherà l’attenzione alla propria presenza [2] e a ciò che
effettivamente si è.
Se nelle relazioni educative e di cura continuiamo a considerare il limite, la debolezza, l’errore in una
logica sottrattiva, per cui ad ogni imperfezione corrisponde una riduzione del valore personale,
saremo costretti a subirne il peso e la sofferenza che spesso queste esperienze portano con sé.
«Il limite è connaturato con la persona, la abita da sempre. L’uomo che va verso il suo limite, va verso
la sua umanità».[3] Il limite e la debolezza non sminuiscono il valore della relazione di cura né il senso
del proprio operato educativo, ma anzi lo rendono più vero, più umano. Se impariamo a pensare agli
aspetti di fragilità come cifra più autentica del nostro essere uomini e donne, ci disporremo con più
benevolenza verso noi stessi – premessa per prenderci davvero cura degli altri. Potremo, inoltre,
vivere con maggiore consapevolezza ed efficacia le parti più solide e forti a cui il limite stesso ci dà
accesso: «la coscienza del limite prepara a estrarre qualche pietra preziosa da ciò che appariva come
un materiale grezzo senza valore».[4]
Non si tratta di negare, dunque, l’apertura al cambiamento di cui il limite può farsi portavoce, ma
comprendere che, affinché il miglioramento avvenga, occorre riconoscere le dimensioni difficili e
attraversarle, con la fatica e la bellezza proprie di ogni passaggio.

«Anche nella vicinanza emotiva, nell’empatia, nella condivisione occorre mantenere salda la
consapevolezza dell’immodificabile, di ciò che non è possibile cambiare. La coscienza del limite è la
prima fonte di equilibrio emotivo in quanto non esime dal cercare di fare tutto il possibile per migliorare
una determinata situazione, ma evita inutili sensi di colpa nel caso non si raggiungano risultati
auspicati».[5]

La consapevolezza del limite offre all’educatore la possibilità di ridimensionare l’idea di infallibilità e


onnipotenza, di abbandonare progressivamente la tensione ad oscurare le espressioni della propria
fragilità, consolidando un diverso modo di concepirle e affrontarle: in alcuni casi si è chiamati, infatti,
ad ammettere il limite e lasciarlo semplicemente essere, accogliendolo come proprio di alcune realtà
e situazioni; in altri ci si può attivare per fronteggiarlo insieme, stabilendo legami e relazioni,
chiedendo aiuto.

L’esperienza del limite

Assumere il limite vuol dire imparare a nominarlo e a discernere le sue diverse forme ed espressioni.
Soltanto riconoscendolo come tale, in relazione alla propria storia e ai propri vissuti esperienziali, si
potranno trovare le strategie per renderlo terreno fecondo e per farne momento di crescita. Le
situazioni o le condizioni che definiamo come limite sono la risultante di un intreccio di aspetti
personali (stati emotivi, percezioni, interpretazioni…) e di dimensioni contestuali, concrete:
comprendere questa correlazione può essere importante perché ci fa capire dove esistano (o non
esistano) possibilità di cambiamento, così da poterne assumere la responsabilità, o al contrario
ammettere l’irrealizzabile, pur nell’interesse e nella cura.
L’esperienza del limite si accompagna al vissuto della nudità (ci sentiamo esposti, scoperti e inermi),
della perdita (avvertiamo la mancanza e la privazione di qualcosa), della precarietà e della piccolezza
(dobbiamo in qualche modo cedere e «sottometterci» alla realtà). In ogni caso è legato a stati d’animo
di sofferenza e inquietudine, in cui è difficile trovare elementi di pienezza.
Il limite può identificarsi con un vuoto, una situazione di assenza di solidi punti di riferimento, di
legami, di valori. In questo caso è bene considerare come non tutto sia «colmabile» e non sempre sia
facile porsi come guida in un cammino.
Riconoscere la legittimità di scegliere altro, lasciare spazi di autonomia, contemplare il rischio della
non accettazione può preservarci dal pericolo di cadere nel vortice del non-senso assieme alla
persona di cui ci prendiamo cura.
Avere la consapevolezza del limite è quindi avere rispetto della libertà dell’altro: il limite non è solo
quello che la realtà ci impone dall’esterno, ma è quello che dobbiamo porci, nella ricerca di un
equilibrio tra l’agire coscienziosamente e la pretesa di modificare sempre e comunque le situazioni.
Questo implica allo stesso tempo l’attenzione e la conoscenza personale: riconoscere il limite significa
valutare fin dove possiamo spingerci, qual è il massimo che possiamo dare, senza strafare, senza
inseguire modelli efficientisti, senza imporre la nostra presenza ed eccedere col nostro agire. Il
risparmiarsi può essere sinonimo della cura di sé e il trattenersi modalità utile per lasciar spazio
all’altro.
Errori nelle scelte di vita, sbagli spesso ripetuti possono costituire uno stato di limite da cui è difficile
venir fuori. In questi casi occorre non identificare l’errore con il fallimento per coltivare spazi di
speranza e di perdono per sé e per l’altro. Chi educa deve per primo autorizzarsi a sbagliare e
accettare l’insuccesso: in ogni azione o scelta c’è un margine di rischio, esiste la possibilità di non
riuscire. Questo ci spinge ad essere più indulgenti verso noi stessi e verso gli errori compiuti: è
certamente importante capire come correggersi, ma anche imparare a vivere con sana leggerezza i
fallimenti, senza cadere nell’ansia del perfezionismo e a sostenere con forza le cadute, imparando a
rialzarsi e riprendere il cammino.
Esistono momenti in cui le fragilità e le problematicità si infittiscono a tal punto da non poter essere
districate e trasformate: sono quelle situazioni-limite di cui parla Karl Jaspers:

«situazioni come quella di essere sempre in una situazione, di non poter vivere senza lotta e dolore,
di dover assumere una irrimediabile colposità, che debbo morire. (…) Non sono trasparenti, non ci è
dato di scorgere nulla al di là di loro. Sono come un muro contro il quale urtiamo e naufraghiamo. Non
possiamo modificarle, ma solo portarle a chiarezza».[6]

Qui viene solo chiesto di esserci, di essere presenti, di rispondere con la nostra stessa persona. Il
pensiero riflessivo e la sensibilità – come esercizio dei sensi e ascolto dei sentimenti – sostengono il
processo di disvelamento e di progressiva comprensione del mistero che il dolore e il limite
conservano.
Le situazioni difficili e «irrecuperabili», pur molto diverse tra loro, hanno in comune il dubbio,
l’inquietudine, la confusione, dove sembra che nulla accada, dove non c’è dimora o base su cui
poggiare:

«non offrono un punto fermo, un elemento assoluto indubitabile, un sostegno che dia fermezza a ogni
esperienza e a ogni pensiero. Tutto scorre, è preso dal moto irrequieto dell’essere posto in forse, tutto
è relativo, finito, scisso in contrari».[7]

Lo stile dell’educatore in ricerca accoglie tali momenti come occasioni propizie di chiarimento della
situazione, in cui risignificare eventi, dinamiche relazionali, esperienze, o in cui rafforzare posizioni e
valori. Il limite può essere così nuovo punto di partenza, rinascita, origine: esso «svolge così la sua
autentica funzione, e cioè quello di essere, nell’immanenza, un rinvio alla trascendenza».[8]

Presenti a se stessi e agli altri


Nei momenti di limite si può, a volte, solo esserci, vivendo a pieno lo spazio, il tempo, il corpo, il
linguaggio, esperienze attraverso cui viviamo la nostra presenza nella realtà e la relazione con gli altri.
La riflessione condotta fin qui ci porta ad indicare alcuni modi di intessere la cura educativa nel
rispetto e nell’assunzione del limite.

Percorrere il margine

Restare in ascolto dei propri limiti e delle condizioni della situazione significa saper accettare la
distanza, considerandola non nella prospettiva della lontananza e della separazione, ma come spazio
di riflessività e progettazione. Essa è interstizio in cui gustare i progressivi avvicinamenti, spiraglio
attraverso cui giungono intuizioni nuove, spazio in cui lasciar essere se stesso e l’altro nella propria
originalità. Il limite si trasforma in margine quando lascia intravedere possibilità di azione e di
reinvenzione, e in soglia quando reclama la sosta: l’educatore deve «saper anche arrestarsi talvolta o
retrocedere davanti a quel continuo «oltre» che è l’evento educativo. Questa è coscienza del «limite».
[9]
Assumere la consapevolezza del limite è far propria la condizione itinerante, sapendo di percorrere
confini incerti e rischiosi, ma nutrendo il desiderio della ricerca e la fiducia nel cambiamento.
Accogliere il limite è tutt’altro che restar fermi: anche quando ci sembra di non poter far nulla e di
essere impotenti, nella nostra interiorità pensieri ed emozioni si muovono incessantemente, scavano,
dissodano, portano alla luce valori e legami che diventano dono per sé e per gli altri.

Coltivare l’attesa

In un mondo che esalta la velocità e la smisuratezza pensare il limite vuol dire affermare disposizioni
e atteggiamenti inconsueti quali l’attesa e la pazienza. Solitamente considerate come sinonimi di
passività e remissività, per l’educatore sono invece tensioni, movimenti da includere e consolidare nei
percorsi della cura. L’attesa ci aiuta, infatti, a combattere l’ansia dei risultati, la preoccupazione di
giungere alla meta, per avere prima possibile riscontri sul proprio operato. Così facendo, anche
inconsapevolmente, rischiamo di forzare le cose, di accelerare il passo ed essere incalzanti con
proposte e attività, non considerando affatto limiti soggettivi e condizioni esterne. Occorre coltivare
l’arte della

«pazienza come capacità di guardare e sentire in grande, di accogliere e vivere l’incompiutezza. (…)
La pazienza è attenzione al tempo dell’altro, nella piena coscienza che il tempo lo si vive al plurale,
con gli altri, facendone un evento di relazione, di incontro, di amore».[10]

Restare in con-tatto

La vicinanza all’umanità dell’altro, il rispetto della fragilità altrui nelle pagine evangeliche ci vengono
riportate spesso nell’atto del toccare, dello sfiorare. Gesù costantemente in contatto col limite della
malattia e della sofferenza raggiunge le persone con lo sguardo («Fissatolo lo amò», Mc 10,21), con
le proprie vesti («Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello sarò guarita», Mt 9,21), con la parola
(«Di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito», Mt 8,8), con il tocco delle proprie mani e
guarisce. Con la sua stessa vita ci ricorda che non esistono percorsi di salvezza «limit-esenti», in cui il
dolore e le infermità vengono annullate, ma cammini faticosi in cui il limite va attraversato e vissuto
profondamente; e con tenerezza riporta ciascuno alle sue più intime risorse e possibilità («La tua fede
ti ha salvata»).
Grazie ad un sentire intenerito e ad una presenza responsabile il limite cesserà di essere vissuto
come peso, ma sarà spazio di ricettività della situazione dell’altro, di azione con l’altro.[11]
La cura educativa si ammanta di leggerezza e di libertà quando, nella consapevolezza del limite, evita
di voler risolvere tutto, di poter sistemare le cose a proprio modo, ma si dispone con delicatezza e
rispetto. Il contatto con l’altro deve saper equilibrare scossoni e carezze, accompagnamenti solidi e
sequele.

«La carezza è attraversata da un’intenzionalità che fa sì che il contatto non sia mai prensione, ma
movimento che segue il profilo dell’altro.

Essa testimonia l’impossibilità della presa e quindi il ritrarsi dell’altro, la sua assenza. Non è un
intenzionalità di svelamento, ma di ricerca: cammino nell’invisibile».[12]

Far parola

Abituati per lo più a tacere il limite viviamo la difficoltà di ammettere errori e fragilità, per paura del
giudizio, per timore di perdere valore e dignità.
Occorre, invece, tornare a condividere le situazioni di limite, suscitare dialogo, aprirsi alle diverse
prospettive.
L’indicibile di fronte a cui il limite ci pone bisogna accoglierlo col silenzio. È necessario anche far
divenire racconto quelle situazioni in cui le fragilità attendono di essere districate e orientate, creando
calore e promuovendo un ascolto non giudicante. Costruire assieme un linguaggio in cui sono
ammesse le voci dell’errore e della debolezza, un lessico per primo utilizzato e esplicitato
dall’educatore, porterà anche i ragazzi e i giovani a non temere il limite, ma ad individuarlo, nominarlo,
attraversarlo, nella certezza di non esser soli.

NOTE

[1] E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano, 1985, p. 49.

[2] Sul concetto di fragilità e limite, tra presenza e ulteriorità si veda L. Pialli,  Fenomenologia del
fragile. Fallibilità e vulnerabilità tra Ricoeur e Lévinas, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1998.

[3] R. Peter, Liberaci dalla perfezione, Cittadella, Assisi, 1995, p. 13.

[4] Ibid., p. 55.

[5] V. Iori, Per una pedagogia fenomenologica della vita emotiva in Ib., (a cura di), Quando i
sentimenti interrogano l’esistenza, Guerini, Milano, 2006.

[6] K. Jaspers, Filosofia. II, Mursia, Milano, 1978, p. 254.

[7] K. Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma, 1959, p. 267.

[8] K. Jaspers, Filosofia.  II, cit., p. 678.

[9] V. Iori, Essere per l’educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1988, p. 121.


[10] E. Bianchi, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Rizzoli, Milano, 1999, pp.
58-59.

[11] Cf M. Filippini, La responsabilità del sentire intenerito, in V. Iori (a cura di), Quando i sentimenti
interrogano l’esistenza, cit., p. 336.

[12] E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaka Book, Milano, 1980, p. 235.

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