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Traduzione di Francesca Crescentini

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© 2020 by Tamsyn Muir
This edition is published by arrangement with Donald Maass Literary Agency
and Donzelli Fietta Agency srls
Titolo originale dell’opera: Harrow the Ninth

© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano

I edizione Oscar Fantastica luglio 2021

ISBN 978-88-04-73589-2

Questo volume è stato stampato


presso ELCOGRAF S.p.A.
Stabilimento - Cles (TN)
Stampato in Italia. Printed in Italy

www.oscarmondadori.it

Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno
lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive
o scomparse, è assolutamente casuale.

librimondadori.it

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A Isa Yap,
che capiva Harrow fin troppo bene e senza la quale
tanto di me non sarebbe mai accaduto

a pT

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dramatis personae

L’Imperatore delle Nove Case


“A.L.”, la sua guardia del corpo

Augustine il Primo
Alfred Quinque, il suo paladino
PRIMO SANTO AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO

Mercymorn la Prima
Cristabel Oct, la sua paladina
SECONDA SANTA AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO

ORTUS il Primo
Pyrrha Dve, la sua paladina
TERZO SANTO AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO

Cassiopeia la Prima
Nigella Shodash, la sua paladina
QUARTA SANTA AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO

Cyrus il Primo
Valancy Trinit, la sua paladina
QUINTO SANTO AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO

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10  /  DR AMATIS PERSONAE

Ulysses il Primo
Titania Tetra, la sua paladina
SESTO SANTO AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO

Cytherea la Prima
Loveday Heptane, la sua paladina
SETTIMA SANTA AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO

Anastasia la Prima
Samael Novenary, il suo paladino

Ianthe la Prima
Naberius Tern, il suo paladino
OTTAVA SANTA AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO

Harrowhark la Prima

NONA SANTA AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO

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Uno per l’Imperatore, primo fra i nostri;

Uno per i suoi Littori, alla chiamata accorsi;

Uno per i suoi Santi, dal tempo antico scelti;

Uno per le sue Braccia, e le loro spade lucenti.

Due per la disciplina, del giudizio incurante;

Tre per una gemma o un sorriso smagliante;

Quattro per la lealtà, che guarda avanti;

Cinque per la tradizione e il dovuto ai defunti;

Sei per il vero, che la menzogna scalfisce;

Sette per la bellezza che sboccia e perisce;

Otto per la salvezza, che nessun prezzo rifiuta;

Nove per il Sepolcro e per ogni cosa perduta.

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prologo
LA NOTTE PRIMA DELL’ASSASSINIO DELL’IMPERATORE

La tua stanza era sprofondata da un bel pezzo in


un’oscurità quasi totale, eliminando ogni possibilità di distrazione dal
poderoso thump, thump, thump oscillante dei corpi che, uno dopo l’altro,
si schiantavano sulla grande massa che già foderava lo scafo. Non c’era
niente da vedere – le paratie erano abbassate – ma riuscivi a percepi-
re quella vibrazione terribile, a sentire il gemito della chitina sul metal-
lo, la cataclismica lacerazione prodotta dagli artigli fungini sull’acciaio.
Faceva molto freddo. Una patina traslucida di gelo ti ricopriva le
guance, i capelli, le ciglia. In quell’oscurità soffocante, i tuoi respiri
erano fili di fumo grigio e bagnato che risalivano alla superficie. Di
tanto in tanto ti lasciavi scappare un grido, il che non ti imbarazzava
nemmeno più. Comprendevi la reazione del tuo corpo a quella pros-
simità. Urlare era il meno, date le circostanze.
La voce di Dio, molto calma, arrivò dal comunicatore: «Dieci mi-
nuti alla breccia. Abbiamo ancora mezz’ora d’aria climatizzata… do-
podiché lavorerete in un forno. Portelli giù finché la pressione non si
sarà equalizzata. Preservate la vostra temperatura, tutti quanti. Har-
row, lascerò chiuso il tuo il più a lungo possibile».
Malferma, ti eri alzata in piedi, raccogliendo le gonne cristalline tra
le mani, facendoti strada fino al pulsante del comunicatore. Lambic-
candoti per trovare qualcosa di caustico e intelligente da dire, avevi
esclamato: «So badare a me stessa».
«Harrowhark, ci servi nel Fiume, e mentre sarai nel Fiume la tua
necromanzia non funzionerà.»

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«Sono una Littrice, mio Signore» ti eri sorpresa a rispondere. «Sono


la vostra santa. Sono le vostre dita e i vostri gesti. Se volevate una Mi-
nistra – un Braccio – che ha bisogno di nascondersi dietro a una por-
ta – persino ora – allora vi ho mal giudicato.»
Dal suo remoto sacrario, nelle profondità del Mithraeum, l’avevi
sentito espirare. Te lo immaginavi seduto sulla sua poltrona rattop-
pata e malridotta, tutto solo, che si tormentava la tempia destra col
pollice, il dito con cui era solito tormentarsi la tempia destra. Dopo
una breve pausa, ti aveva detto: «Harrow, per favore, non dovresti
avere tutta questa fretta di morire».
«Non sottovalutatemi, Maestro» avevi ribattuto. «Sono sempre
sopravvissuta.»
Eri tornata sui tuoi passi, superando gli anelli concentrici di aceta-
boli che avevi disposto sul pavimento, le stratificazioni sottili e gra-
nulose dei femori, e ti eri fermata al centro, a respirare. Inspirazione
profonda dal naso, espirazione profonda dalla bocca, proprio come
ti avevano insegnato. La brina si era già ridotta a una rugiada leg-
gera che ti imperlava il viso e la nuca e, sotto alle vesti, avevi caldo.
Ti eri seduta a gambe incrociate, con le mani abbandonate in grem-
bo, inermi. L’elsa a cesto dello stocco ti pungolava il fianco, come un
animale che chiede di essere nutrito, e in uno scatto d’ira improvvi-
so avevi pensato di slacciarti quell’affare maledetto e di scaraventar-
lo dall’altra parte della stanza con tutta la forza che avevi; ti preoc-
cupavi solo di quanto poco lontano saresti riuscita a lanciarlo, che
pena. Fuori, lo scafo tremava mentre qualche altro centinaio di Aral-
di si radunava sulla sua superficie. Te li immaginavi mentre striscia-
vano uno sull’altro, blu all’ombra degli asteroidi, gialli alla luce del-
la stella più vicina.
Le porte dei tuoi alloggi si erano aperte con una decrepita esalazio-
ne delle leve a gas. Ma l’intrusa non fece scattare le trappole a base di
denti che avevi incastonato lungo gli stipiti e nemmeno i grumi di osso
rigenerante che avevi appiccicato sulla soglia. Superò l’entrata con la
massa ragnatelica delle gonne tirata su fino alle cosce, ondeggiando
come una ballerina. Nell’oscurità, il suo stocco era nero e le ossa do-
rate del braccio destro splendevano untuose. Avevi chiuso gli occhi.
«Potrei proteggerti, se solo me lo chiedessi» aveva dichiarato Ian-
the la Prima.

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Un rivoletto di sudore tiepido ti era scivolato giù per le costole.


«Preferirei farmi strappare i tendini, uno per uno, e passarmeli sul-
le ossa rotte come se fossero filo interdentale, finché non si sbrindel-
lano» avevi risposto tu. «Preferirei farmi scuoiare viva e finire mum-
mificata nel sale. Preferirei farmi spruzzare negli occhi i miei stessi
succhi gastrici.»
«Quindi è un… forse» aveva ribattuto Ianthe. «Prova a darmi una
mano. Non fare i capricci.»
«Sei qui soltanto per salvaguardare un investimento, nient’altro.
Non fingere il contrario.»
L’altra aveva risposto: «Sono venuta a metterti in guardia».
«Sei venuta a mettermi in guardia?» Avevi usato un tono che alle
tue stesse orecchie era suonato piatto e distaccato. «Sei venuta a met-
termi in guardia adesso?»
L’altra Littrice si era avvicinata. Tu non avevi aperto gli occhi. Con
sorpresa, l’avevi ascoltata farsi strada scrocchiettando sul tuo strato
metrico d’ossa, finché non si era inginocchiata sul lugubre tappeto
polveroso sotto ai suoi piedi, senza fare una piega. Non saresti mai
riuscita a percepire la thanergia di Ianthe, ma l’oscurità pareva aver-
ti conferito una sintonia immensa con la sua paura. Percepivi la pel-
le d’oca che le si era rizzata sugli avambracci; sentivi le percussioni
del suo cuore umano e bagnato, le scapole che si avvicinavano men-
tre irrigidiva le spalle. Sentivi l’olezzo del sudore misto al profumo:
un afrore animale, la rosa, il vetiver.
«Nonagesimus, non verrà nessuno a salvarti. Non Dio. Non Augu-
stine. Nessuno.» Ora nella sua voce non c’era traccia di scherno, ma
c’era qualcos’altro: eccitazione, forse, o disagio. «Morirai nella prima
mezz’ora. Hai un bersaglio appiccicato addosso. A meno che in quelle
lettere non ci sia qualcosa che ignoro, sei a corto di assi nella manica.»
«Non sono mai stata assassinata prima, e non ho alcuna intenzio-
ne di cominciare ora.»
«Per te è finita, Nonagesimus. Capolinea.»
Avevi spalancato gli occhi per lo shock quando ti eri accorta che
l’altra ragazza ti aveva preso il mento tra le mani – le dita febbrili, in
confronto al gelo scioccante dei metacarpi dorati –, posandoti il pol-
lice di carne all’angolo della mandibola. Per un attimo, avevi dato per
scontato che si trattasse di un’allucinazione, ma quella convinzione

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era stata scacciata dalla fredda vicinanza di lei, di Ianthe Tridentarius


in ginocchio davanti a te, inequivocabilmente supplice. I capelli palli-
di le ricadevano sul viso come un velo, e quegli occhi rubati ti fissava-
no con una disperazione a metà tra l’implorazione e lo sdegno: occhi
azzurri con profonde screziature di un castano chiaro, come agate.
Fissando intensamente gli occhi del paladino che aveva ucciso, ti
eri accorta, non per la prima volta e nemmeno in maniera intenzio-
nale, che Ianthe Tridentarius era bella.
«Torna indietro» ti aveva sussurrato. «Harry, devi solo fare marcia
indietro, nient’altro. So cos’hai fatto, e so come annullarlo, se solo tu
me lo chiedessi. Chiedimelo e basta; è facile. Morire è da fessi. Tu e
io insieme, nel pieno dei nostri poteri, potremmo fare a pezzi questa
Bestia Resurrezionale e uscirne illese. Potremmo salvare la galassia.
Salvare l’Imperatore. Lascia che a casa nostra si parli di Ianthe e di
Harrowhark – lascia che si commuovano, narrando le nostre impre-
se. Il passato è morto, e sono entrambi morti, ma tu e io siamo vive.»
«Loro che cosa sono? Cosa sono, a parte un cadavere in più che ci
trasciniamo dietro?»
Le labbra di Ianthe erano rosse e spaccate. Sul suo viso c’era una
nuda preghiera. Era eccitazione, allora, non disagio.
Quello doveva essere, mentre lo afferravi a malapena, il vostro mo-
mento psicologico.
«Vai a farti fottere» le avevi detto.
Gli Araldi precipitavano sullo scafo come gocce di pioggia. Il viso
di Ianthe tornò a congelarsi nella sua maschera bianca di scherno,
mentre ti lasciava andare la mascella – sciolse le dita inquiete e ritirò
le sue orrende ossa rivestite d’oro.
«Non credevo che fosse il frangente più appropriato per scambiar-
ci porcherie, ma posso adattarmi» disse lei. «Soffocami, paparina.»
«Vattene.»
«Hai sempre pensato che l’ostinazione fosse una virtù cardinale»
commentò lei, senza riferirsi a nulla in particolare. «Ora sono convinta
che, forse, sarebbe stato meglio se tu fossi morta alla Casa di Canaan.»
«Dovevi uccidere tua sorella» le avevi detto. «Quegli occhi non
c’entrano niente con il resto della tua faccia.»
Dal comunicatore arrivò la voce dell’Imperatore, calma come pri-
ma: «Quattro minuti all’impatto». E, come un insegnante che rim-

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provera delle bambine distratte: «Fate in modo di trovarvi ai vostri


posti, ragazze».
Ianthe girò i tacchi senza ricorrere alle maniere forti. Si alzò e pas-
sò le dita umane sulla parete dei tuoi alloggi – sul freddo arco filigra-
nato, sui pannelli di metallo lucidato e sulle ossa intarsiate – e disse:
«Be’, io ci ho provato. E nessuno potrà criticarmi» prima di superare
l’arcata e allontanarsi in corridoio. Avevi sentito la porta richiudersi
alle sue spalle. Eri rimasta profondamente sola.
Il calore aumentò. La stazione doveva essere ormai stata del tut-
to schiacciata: avvolta in un sudario brulicante di toraci e ali, man-
dibole e antenne, gli emissari morti di un famelico redivivo stellare.
Dal tuo comunicatore arrivava il gracchiare della statica, ma all’altro
capo c’era soltanto il silenzio. C’era silenzio negli armoniosi corridoi
del Mithraeum, e c’era un silenzio caldo e rovente anche nella tua ani-
ma. Quando avevi urlato, il tuo urlo non aveva prodotto alcun suo-
no, i muscoli della gola sussultavano muti.
Avevi ripensato alla busta di velina indirizzata a te con la dicitura:
DA APRIRE NELL’EVENTUALITÀ DELLA TUA MORTE IMMINENTE.
«Stanno facendo breccia» disse l’Imperatore. «Perdonatemi… e
scatenate l’inferno, bambini miei.»
In lontananza, da qualche parte nella stazione, il plex e il metallo
si accartocciarono, deformati. Le ginocchia ti diventarono di gelati-
na e, se non fossi già stata seduta, saresti collassata sul pavimento in
preda agli spasmi. Ti eri tappata gli occhi con le dita e ti eri costretta
all’immobilità. L’oscurità si era fatta più scura e fredda mentre il pri-
mo scudo di ossa perpetue ti incapsulava – un atto stupido, insignifi-
cante, destinato a dissolversi nell’istante esatto in cui ti saresti immer-
sa –, seguito dal secondo e poi da un terzo, fino a perderti in un nido
ermetico e impenetrabile. In tutto il Mithraeum, cinque paia di occhi
si erano chiusi all’unisono, tra cui i tuoi. A differenza dei loro, i tuoi
non si sarebbero riaperti. Da lì a mezz’ora, indipendentemente dalle
speranze che nutriva Maestro, saresti morta. I Littori dell’Imperatore
Risorto cominciarono a guadare il Fiume in cui la Bestia Resurrezio-
nale attendeva in agguato – appena fuori dall’orbita del Mithraeum,
mezza morta, mezza viva, una verminosa massa liminale – e anche
tu guadavi con loro, lasciandoti però alle spalle una carne vulnerabile.
«Prego per il sepolcro, che resti sigillato in eterno» ti eri sorpresa a

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recitare, senza riuscire ad alzare la voce oltre a un sussurro strozzato.


«Prego per la roccia, che non venga mai scostata. Prego per quel che è
sepolto, che rimanga sepolto, inerte, in perpetuo riposo, l’occhio chiu-
so e il cervello immoto. Prego che viva… O, salme del Sepolcro Sigil-
lato» avevi improvvisato con veemenza. «Adorati defunti, ascoltate
la vostra ancella. Vi ho amato con tutto il mio cuore – marcio e de-
plorevole –, vi ho amato a discapito di qualsiasi altra cosa: lasciatemi
vivere abbastanza a lungo da morire ai vostri piedi.»
E ti eri immersa per combattere l’inferno.

* * *

L’inferno ti aveva risputata fuori. Legittimo.


Non ti eri svegliata dopo aver attraversato lo spazio thanergico che
è l’unica provincia dei morti e dei santi necromanti che hanno com-
battuto i morti; ti eri svegliata nel corridoio fuori dalle tue stanze, ri-
versa su un fianco, bollente, boccheggiando in cerca d’aria, fradicia di
sudore – il tuo – e di sangue – il tuo –; la lama del tuo stocco ti spun-
tava sbieca dallo stomaco, dopo averti trapassata entrando dalla schie-
na. La ferita non era un’allucinazione o un sogno: il sangue era bagnato
e il dolore era tremendo. I confini del tuo campo visivo si stavano già
rattrappendo, neri, mentre cercavi di chiudere lo squarcio – mentre
cercavi di ricucirti le viscere, cauterizzare le vene, stabilizzare gli or-
gani che si avviavano singhiozzando allo spegnimento – ma ormai eri
già troppo andata. Anche volendo, non eri destinata a leggere la lette-
ra rivolta ai casi di morte imminente. Non potevi fare altro che giace-
re nella pozza dei tuoi fluidi corporei, troppo potente per morire alla
svelta, troppo debole per salvare te stessa. Eri solo una mezza Littri-
ce, ed essere un mezzo Littore è peggio di non essere Littore affatto.
Oltre al plex, le stelle erano offuscate dal dimenarsi degli Araldi ron-
zanti della Bestia Resurrezionale, che sbattevano furiosamente le ali
per arrostire tutto quello che c’era là dentro. Da una grande distanza
ti era parso di sentire il clangore delle spade e avevi sussultato a ogni
fragoroso stridere del metallo. Detestavi quel rumore dalla nascita.
Ti eri preparata a morire con il Sepolcro Sigillato a fil di labbra.
Ma quell’idiota della tua bocca agonizzante aveva scandito tre sillabe
completamente diverse, tre sillabe che non riuscivi nemmeno a capire.

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parodos
QUATTORDICI MESI PRIMA DELL’ASSASSINIO DELL’IMPERATORE

Nell’Anno Miriadico di nostro Signore – il de-


cimillesimo anno del Re Imperituro, il nostro Resurrettore, l’Onnicle-
mente Supremo! – la Reverenda Figlia Harrowhark Nonagesimus se-
deva sul divano di sua madre e osservava il suo paladino intento alla
lettura. Svogliata, grattò con l’unghia del pollice un teschio sulla fo-
dera malridotta di broccato, distruggendo in un secondo, con non-
curanza, i lunghi anni di lavoro di chissà quale devoto anacoreta. La
mandibola le si disfò sotto al polpastrello.
Il suo paladino sedeva con la schiena drittissima allo scrittoio.
Era dai tempi di suo padre che quella sedia non ospitava nessuno
di stazza paragonabile, e ormai rischiava di soccombere all’affondo
fatale. Aveva compresso la sua ragguardevole sagoma entro i con-
fini della sedia, come se oltrepassarli avesse potuto causare un In-
conveniente; e lei sapeva fin troppo bene quanto Ortus odiasse gli
Inconvenienti.
«Niente servi. Niente attendenti, niente domestici» lesse Ortus Ni-
genad, piegando il foglio con ossequiosa scrupolosità. «Quindi mi oc-
cuperò di voi da solo, vostra Signoria Harrowhark?»
«Sì» disse lei, giurando a se stessa che avrebbe perso la pazienza il
più tardi possibile.
«Niente Maresciallo Crux? Niente Capitana Aiglamene?»
«Niente servi. Niente attendenti, niente domestici, di fatto» rispo-
se Harrow, perdendo la pazienza. «Immagino che tu abbia già deci-
frato questo codice elaboratissimo. Ci saremo tu, il primo paladino,

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e io, la Reverenda Figlia della Nona Casa. Punto e basta. Il che mi


pare… suggestivo.»
Ortus non sembrava trovarlo suggestivo. Gli occhi scuri erano ab-
battuti, sotto le folte ciglia nere, di quella tipologia che Harrowhark
aveva sempre associato a qualche benevolo mammifero domestico,
tipo il maiale. Era perennemente abbattuto, e non per una questione
di modestia; le leggere zampe di gallina che gli gravavano sugli occhi
erano segni impressi dalla tristezza; i lievi solchi sulla fronte erano
una studiata esternazione tragica. Era felice di constatare che qual-
cuno – forse sua madre, la stucchevole Sorella Glaurica – gli avesse
dipinto la faccia come un tempo se l’era dipinta suo padre, con una
compatta mandibola nera a rappresentare il Teschio Senza Bocca.
Non che lei nutrisse una particolare predilezione per il Teschio Sen-
za Bocca, nel campo delle pitture sacramentali. Era solo perché ogni
teschio provvisto di mandibola che si dipingeva, finiva per diventare
un teschione bianco con la depressione.
Dopo un istante, le disse con enfasi: «Mia Signora, non posso aiu-
tarvi a diventare Littrice».
Il fatto che osasse esprimere un’opinione la sorprese. «Può darsi.»
«Concordate con me. Bene. Vi ringrazio per la vostra clemenza,
Vostra Grazia. Non sono in grado di rappresentarvi in un duello for-
male, non con la spada, non con la daga e nemmeno con la catena.
Non posso prendere posto fra i ranghi dei primi paladini e definirmi
un loro pari. Il peso della falsità mi schiaccerebbe. Non riesco nem-
meno a immaginarmelo. Non sarò in grado di combattere per voi, vo-
stra Signoria Harrowhark.»
«Ortus» fece lei, «ti conosco da una vita. Credevi davvero che col-
tivassi anche solo la vaga illusione che ti si potesse scambiare per
uno spadaccino? Nemmeno al buio, nemmeno da un cane azzoppa-
to dalla demenza e cresciuto ignorando l’esistenza di un qualsiasi og-
getto affilato.»
«Mia Signora, è solo per onorare mio padre che mi definisco un
paladino» disse Ortus. «È per l’orgoglio di mia madre e per la penu-
ria della mia Casa che mi definisco un paladino. Non possiedo nes-
suna delle virtù di un paladino.»
«Ne sono profondamente conscia e non so di preciso quante altre
volte mi toccherà ripetertelo» commentò Harrowhark, togliendosi un

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HARROW LA NONA  /  21

minuscolo frammento di filo nero dall’unghia. «Considerando che il


tema ha costituito il cento per cento delle nostre conversazioni nel
corso degli anni, posso solo immaginare che tu stia per offrirmi una
nuova argomentazione, e comincio a sentirmi piuttosto elettrizzata.»
Ortus si sporse in avanti sul bordo della sedia, intrecciando le dita
lunghe e irrequiete. Aveva mani grosse e soffici – tutto in Ortus era
grosso e soffice, come un cuscino nero e molliccio – e le aprì, implo-
rante. Harrowhark ne fu intrigata, suo malgrado. Non aveva mai di-
mostrato una tale audacia, prima.
«Mia Signora» si avventurò Ortus, la voce resa più profonda dal-
la timidezza, «non oso proporvelo, ma se il dovere di un paladino è
di brandire la spada, se il dovere di un paladino è di offrire protezio-
ne con la sua spada, se il dovere di un paladino è di morire per quella
spada, non avete mai preso in considerazione ORTUS NIGENAD?»
«Cosa?» rispose Harrow.
«Mia Signora, è solo per onorare mio padre che mi definisco un
paladino» disse Ortus. «È per l’orgoglio di mia madre e per la penu-
ria della mia Casa che mi definisco un paladino. Non possiedo nes-
suna delle virtù di un paladino.»
«Mi pare di aver già intrattenuto questa conversazione» commen-
tò Harrowhark, premendo un pollice contro l’altro nel tentativo di
verificare, con piacevole azzardo, quanto malleabile si sarebbe di-
mostrata la sua falange distale. Un errore e i suoi nervi si sarebbero
recisi. Era un vecchio esercizio che le avevano assegnato i suoi geni-
tori. «Ogni volta, la notizia che la tua vita non sia stata votata all’ac-
quisizione di virtù marziali mi sconvolge sempre meno. Ma provaci.
Sorprendimi. Sono pronta.»
«Se solo la nostra Casa fosse riuscita a produrre degli spadacci-
ni più degni dei nostri giorni più gloriosi…» disse meditabondo Or-
tus, che trovava sempre entusiasmanti le narrazioni alternative in cui
non doveva subire pressioni a prestare servizio o dove non gli veni-
va chiesto di fare nulla che trovasse difficile. «Se solo la nostra Casa
non si fosse ridotta a “coloro che possono solo ambire a custodire le
loro lame nel fodero”.»
Harrowhark si congratulò con se stessa per non aver rimarcato
come questa carenza produttiva fosse direttamente dovuta a tre fatto-
ri: la di lui madre, lui medesimo e La Noniade, il poema epico in versi

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– ancora in fase di lavorazione – che il suo paladino aveva dedicato a


Matthias Nonius. Harrowhark nutriva il velenoso sospetto che quel-
la citazione, attorno alla quale lui era in qualche modo riuscito a pro-
nunciare anche le virgolette, provenisse da quello stesso poema, che
sapeva essere approdato già al Libro Diciottesimo e che non dava segni
di rallentamento. Anzi, sembrava guadagnare abbrivio, come una va-
langa molto noiosa. Stava componendo una risposta quando si accor-
se che una sorella servitrice era arrivata nella biblioteca di suo padre.
Harrow non l’aveva sentita bussare e non si era accorta del suo in-
gresso; ma il problema non era quello. Il problema era che le pittu-
re cineree della sorella stavano adornando lo splendido viso morto
del Corpo.
Cominciarono a sudarle le mani. In quello scenario, o la sorella era
reale e la sua faccia non lo era, o la sorella era completamente irreale.
Non si poteva semplicemente quantificare tutta la massa ossea con-
tenuta nella stanza e tirare a indovinare; le ossa rivestite dalla carne
generavano così tanta thalergia ingannevole, per quanto tenue, che
solo uno sciocco ci avrebbe provato. Fece guizzare lo sguardo in di-
rezione di Ortus, nella vaga speranza che potesse essere lui a tradirne
in qualche modo l’esistenza. Ma lui continuava a fissare il pavimento.
«La nostra Casa ha ricevuto ottimi servigi da “coloro che possono
solo ambire a custodire le loro lame nel fodero”» disse Harrowhark,
mantenendo un tono neutro. «Che, per la cronaca, non è neanche
un verso che funziona a livello di metrica. Nessuno si stupirà del-
le tue carenze.»
«È un enneasillabo. La forma tradizionale. Coloro che possono solo
ambire a custodire le loro lame nel fodero…»
«Non sono neanche nove piedi, quelli lì.»
«… senza mai snudarle per la battaglia.»
«Ti addestrerai con la Capitana Aiglamene per le prossime dodi-
ci settimane» proseguì Harrowhark, strofinando le dita avanti e in-
dietro, avanti e indietro, finché il polpastrello del pollice non le di-
ventò incandescente. «Ottempererai ai requisiti minimi stabiliti per
un primo paladino della Nona Casa, che ora, per fortuna, consistono
nell’essere più largo che alto e nel possedere braccia in grado di sol-
levare un certo peso. Ma da te ho bisogno di… molto di più che del-
la lama affilata di una spada, Nigenad.»

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HARROW LA NONA  /  23

La sorella servitrice stazionava ai bordi del campo visivo periferi-


co di Harrow. Ortus aveva sollevato il capo, senza però prendere atto
della presenza della sorella, il che complicava le cose. Guardava Har-
row con la tenue pietà che lei aveva sempre sospettato le riservasse:
quel tipo di pietà che lo marchiava come diverso nella sua stessa Casa
e che l’avrebbe reso ancor più estraneo nella Casa da cui discendeva
sua madre. Lei non sapeva che cose rendesse Ortus… Ortus. Era un
mistero troppo tedioso per essere risolto.
«Di che altro si tratta?» le domandò lui, un po’ piccato.
Harrowhark chiuse gli occhi, isolandosi sia dalla faccia preoccupa-
ta e tremebonda di Ortus che dall’ombra della servitrice-Corpo che
si allungava sullo scrittoio. L’ombra non le diceva niente. Le prove fi-
siche erano spesso una trappola. Si isolò dal nuovo stocco ruggino-
so che ora strideva nel fodero al fianco di Ortus. Si isolò dal confor-
tante odore della polvere scaldata dalla stufetta sibilante nell’angolo
della stanza, mista all’inchiostro appena spremuto nel suo calamaio.
Acido tannico, sali umani.
«Non è così che va» disse il Corpo.
Il che conferì a Harrow una forza peculiare.
«Ho bisogno che tu nasconda la mia infermità» disse Harrowhark.
«Vedi, io sono pazza.»

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ATTO PRIMO
ACT ONE

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1
NOVE MESI PRIMA DELL’ASSASSINIO DELL’IMPERATORE

Fu al termine dell’Anno Miriadico di nostro


Signore – il remoto Re dei Necromanti, il benedetto Resurrettore
dei Santi! – che impugnasti la spada. E quello fu il tuo primo gra-
ve errore.
La spada detestava il tuo tocco. L’elsa lunga ti bruciava le mani
nude come se fosse stata arroventata fino a raggiungere la tempera-
tura di una stella. All’esterno, il vuoto dello spazio non conservava
alcuna thanergia e non generava thalergia, ma non aveva importan-
za. Non avevi più bisogno di nessuna delle due. Ti rivestivi i palmi di
fasce spesse di cartilagine e provavi di nuovo.
L’impugnatura, a quel punto, sembrava fredda come la morte, ma
restava ugualmente pesante. La sollevavi e ti cedevano i gomiti, e af-
ferravi il pomolo nel tentativo di riacquistare l’equilibrio. Avevi collau-
dato un nuovo trucco: facevi scivolare uno stretto nastro d’osso all’in-
sù, dal metacarpo vivo, e drappeggiavi delicatamente il frammento
attorno al tendine flessore, piantandotelo nel dorso della mano. Non
battevi ciglio. Non era mai stato nel tuo stile. Da lì srotolavi delle lun-
ghe dita d’osso per afferrare l’impugnatura, e poi delle altre, per strin-
gerla ancora di più; sollevavi la spada, per così dire, assistita da un in-
treccio fremente e ticchettante di otto falangi articolate.
E ora riuscivi a tirare su la spada, traballando, descrivendo un an-
golo ottuso davanti a te. Aspettavi. Non sentivi niente: nessuna intesa,
nessuna padronanza, nessuna conoscenza. Continuavi a essere solo
una necromante, e quella rimaneva soltanto una spada. Ti era cadu-

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ta di mano, tintinnando sul pavimento. Ti eri piegata in due e avevi


vomitato violentemente sulle piastrelle dell’ospedale.
C’erano parecchie persone in divisa in quella stanza, ma erano abi-
tuate a quel genere di stranezze. Harrowhark la Prima, la nona san-
ta al servizio dell’Imperatore Imperituro, poteva sboccare quanto le
pareva. Eri un sacramento ambulante, nonostante i tuoi iniziali con-
tributi al Littorato consistessero solo nella ricerca di nuovi e diversi
modi per dare di stomaco. Intervenivano soltanto quando davi l’im-
pressione di poter morire soffocata nel tuo stesso vomito, un atto mi-
sericordioso che ritenevi sempre, seppur vagamente, un gran peccato.

* * *

La prima volta che l’uomo che chiamavi Dio ti aveva consegnato la


spada – nella veste che ti pareva fosse quella del Principe Clemen-
te, in uno spirito di pura gentilezza – eri precipitata in un torpore
profondo dal quale non eri mai più riemersa davvero. Forse la spa-
da aveva reificato il tuo dolore in un metro e ottanta d’acciaio. Avevi
disprezzato quella stramaledettissima spada a prima vista, forse in-
giustamente, visto che ancora non sapevi che ricambiava il tuo odio.
In ogni caso, continuavi a provare a brandirla. Ogni contatto si
concludeva coloritamente con il contenuto del tuo stomaco spiac-
cicato sul pavimento. Le tue giornate si dissolvevano come ceneri di
fronte a un ventilatore – disperse senza la minima speranza di recu-
pero –, che te le risoffiava in faccia o le spediva a fluttuare per aria,
fuori dalla tua portata. A volte ti alzavi e afferravi la lama, come in
attesa di qualcosa. Ma non succedeva mai niente; non sentivi nul-
la, a parte l’immenso odio vuoto che la spada nutriva nei tuoi con-
fronti. Persino allora, sapevi che era reale. Tu e la spada continua-
vate a ribollire nel vostro reciproco risentimento furibondo, e tu ti
ritrovavi con le mani piene di vesciche e un pavimento intero co-
perto di vomito.
I particolari si disponevano ad angolazioni strambe. Occupavi quel
letto da un po’, con addosso vestiti che non erano i tuoi. Occasional-
mente, un solletichio pungente sulle orecchie o sulla fronte ti pietri-
ficava dallo spavento, ma poi ti rendevi conto che si trattava solo dei
tuoi capelli. Lontano dalle cesoie del Drearburh, crescevano in una

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maniera che sfiorava la depravazione. Te li tagliavi da sola ma con-


tinuavi a trovare piccole ciocche irregolari che ti si annidavano die-
tro le orecchie – o forse non te li eri tagliati affatto. A volte, quando
facevi per toccarli, ti ricordavi che non avevi più le tue vesti o la tua
maschera scheletrica. Nessuno ti aveva dato della pittura e a bordo
di quella nave non c’era neanche un tubetto di grasso – era pur vero
che, anche se ci fosse stato, non sarebbe stato benedetto in manie-
ra appropriata. La prima volta che te n’eri accorta, in preda a una ro-
vente agitazione e alla vergogna, avevi fatto a brandelli un lenzuolo e
ti ci eri coperta la testa. Buona parte della fronte restava comunque
nuda, senza considerare i capelli. In più, indossavi della biancheria da
letto. Avevi optato per una scappatoia poetica, ricorrendo a uno stra-
tagemma che era sempre stato l’ultima spiaggia per le vestali nere: ti
eri aperta una vena e, senza vacillare né per il dolore né per la perdi-
ta di sangue, ti eri spalmata alla cieca sulla pelle il teschio sacramen-
tale della Maschera Ignominiosa.
Gli attendenti in divisa erano sempre intenti a occuparsi di qual-
cosa che non eri tu. A volte venivi umilmente obbligata a sederti e
a scostare il tuo velo artigianale per combattere con la scodella di
zuppa pallida che ti veniva inflitta – anche se quei ricordi restava-
no frammenti dubbiosi. Avere la possibilità di mangiare ancora non
ti sembrava giusto. Di tanto in tanto delle persone ti circondavano e
tu rimanevi distesa sulla tua brandina, supina, stupefatta e tremante
di fronte al panorama delle stelle fuori dai finestrini. La spessa bar-
riera di plex pareva troppo leggera e fragile per tenerti al sicuro. Al
di là di essa, la gigantesca gola nera dello spazio si manifestava a te,
spaventandoti oltre ogni immaginazione. In quei momenti oscillavi
tra il sonno e la veglia, chissà come. Avevi smesso da un bel pezzo di
interessarti alle voci umane, che non facevano che occuparsi di stu-
pidaggini: mormoravano le loro preghiere, fatte di «Tremila unità…
rifornire, è sulla lista dei vettovagliamenti… sbarazzati di quel cari-
co, lo rimpiazzeranno le munizioni».
Nella tua vecchia vita avresti provato curiosità. Ma altri suoni ti
perseguitavano, assai diversi da quelli percepiti dalle tue orecchie. A
bordo della nave c’era una gigantesca tensione dissonante – dei suoni
che parevano quelli di un tamburo bagnato – che ti aveva gettato nel
panico prima di renderti conto, con crescente calma, che quelle che

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stavi sentendo erano le fatiche di settecentootto cuori che battevano.


Sentivi settecentootto cervelli che ronzavano nei loro fluidi cranici.
Sapevi senza bisogno di controllare che trecentoquattro di quei cuo-
ri affaticati appartenevano a dei necromanti; il miocardio del cuore
di un necromante si fletteva in maniera diversa, al tuo orecchio, fun-
zionava peggio, batteva più debolmente. Stavi percependo i vivi. Una
volta compreso ciò che stavi sentendo, eri diventata conscia di tutto
quello che si trovava nelle tue immediate vicinanze: la polvere che si
depositava sulle lastre splendenti del pavimento; il tramestio dei tuoi
polmoni; il midollo tenero delle tue ossa che risucchiava l’ossigeno.
Nonostante quella cacofonia, non riuscivi a stare sveglia.
A volte ti ritrovavi in piedi, con la nausea che montava e lo sguar-
do fisso sul grande spadone che giaceva nudo e disordinato sul pa-
vimento. Non ricordavi di esserti alzata. Non ricordavi come eri ar-
rivata lì. A volte dimenticavi chi eri e, quando rammentavi te stessa,
scoppiavi a piangere come una bambina.
In quelle digestioni temporali arrivava il Corpo. Ti posava le mani
morte e fredde sulla fronte e ti chiudeva gli occhi con la punta del-
le dita, in modo che tu non vedessi più né quella gente né la spada.
Era un grande onore. Era un grande atto di pietà. Ora veniva sem-
pre da te dimostrando una serena tolleranza, e tu gliene eri così gra-
ta, ti sentivi così sollevata. Le mani del Corpo erano di un grigiore
mortale, erano morbide e familiari sulla tua pelle, a tal punto che eri
assolutamente certa di poterle sentire davvero; che quella volta la ca-
rezza morta fosse tangibile. E quando il Corpo si voltava, consenten-
doti di vederla in volto, rimanevi sconvolta, come sempre, da quella
bellezza mai corrotta dal respiro.
A quel punto, ti riaccompagnava a letto e ti guidava alla volta del
sonno. Per il Corpo cercavi di dimostrati obbediente, per una volta
nella tua grama vita; non farlo pareva indegno di te. Quando il Cor-
po appariva si poteva contare sul fatto che il tempo funzionasse come
avrebbe dovuto, invece di squagliarsi come trucioli di ghiaccio per poi
riapparire in luoghi inaspettati. In quei momenti, però, il tuo cervello
continuava a pungolarsi pur di restare vigile. Il fatto che il Corpo fos-
se venuto da te ti sembrava tremendamente importante, se solo fos-
si riuscita a rimanere sveglia abbastanza a lungo da capirne il perché.
E il sangue secco ti faceva prudere la faccia, mentre tutto attorno

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a te le persone mormoravano: «Migliaia di chili di osseo – vecchio –


tienili, sono la prima cosa che finisce».
«No, Sergente, sbarazziamocene; siamo già in ritardo.»

* * *

Il tuo mondo era una scatola bianca sterile. Questa scatola era l’ospe-
dale a bordo della Erebos. L’Erebos era l’ammiraglia di classe Behemot
dell’Imperatore Imperituro. Ti aggrappavi a quelle informazioni come
farebbe un asfissiato con l’ultima boccata d’aria. Vivevi in una stanza
fredda e incolore piena di letti smantellati e scatoloni, e di tuo avevi
un letto, una seggiola e una spada. Avevano cercato di portarti via la
spada, una volta – avevano provato a portartela via con una qualche
scusa che non ti ricordavi con esattezza – e quel ricordo ti turbava
vagamente, era un ricordo rosso, bagnato e indefinito.
Non avevano più toccato il tuo spadone a due mani. Appariva e
riappariva in giro per la stanza, ovunque lo avessi lasciato cadere, soli-
tamente accompagnato da un misterioso tanfo di vomito. Ora ci dor-
mivi accanto, come se fosse il tuo grosso bebè d’acciaio. A dire il vero,
saresti stata felicissima di gettare quell’affare dritto nel cuore incan-
descente di Dominicus, visto che lo trovavi abominevole ed eri con-
vinta che volesse farti del male; ma era molto importante che non fi-
nisse mai nelle mani di qualcun altro.
Il che non ti aveva impedito di smussare la lama, scheggiare la luci-
datura e, in generale, di sputtanare il filo, per quanto vagamente po-
tessi rendertene conto. Ti intendevi così poco di spade – non ti eri
mai presa la briga di domandare; riuscivi a malapena a distinguerle.
Alcune erano strette. Altre erano larghe. Alcune erano grosse e altre
erano piccole. Questo spadone a due mani da soldato di fanteria era
enorme, aberrante e francamente malevolo, ed era anche una tua as-
soluta responsabilità – anche se non riuscivi a toccarlo senza met-
terti a vomitare col turbo.
Di tanto in tanto ti inginocchiavi vicino al letto e provavi a prega-
re. Con il Corpo lì non avevi nessuno da ringraziare e nessuna inter-
cessione da richiedere. Raggiungevi il massimo della pace in quello
stato drogato di dormiveglia sul letto, tenendo basso il ritmo cardia-
co sotto alle gelide stelle bianche, debilitata da una furia di cui conti-

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nuavi a scordare l’esistenza e che, possedendola, ti corrompeva. At-


torno a te, la gente faceva avanti e indietro, tenendosi il più possibile
alla larga e ignorandoti così sistematicamente che, a un certo punto,
ti eri convinta di essere morta. E quella convinzione non ti aveva in-
fuso altro che un intenso sollievo.

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Dio era in piedi sulla porta e aveva detto: «Hai vo-
mitato di nuovo, Harrowhark».
Cercavi sempre di riacquistare pienamente la lucidità per l’Impera-
tore delle Nove Case, che ti faceva regolarmente la grazia di bussare e
di aspettare che gli venisse dato il permesso di entrare, dando prova già
solo per quello della sua divinità. Ora era fermo sulla soglia con il suo
onnipresente blocco di veline e il suo onnipresente tablet; un agglo-
merato di persone in uniforme lo tallonava, ma i suoi occhi mostruo-
si, olio su carbone, erano puntati solo su di te. «Stai perdendo tutti i
muscoli» aveva detto, «e non è che ne avessi molti già in partenza.»
La tua bocca rispose, con gratificante chiarezza: «Perché un Lit-
tore ha bisogno di una spada? Mio Signore, che cosa dovremmo far-
cene? Io so controllare le ossa. So plasmare la carne ed evocare gli
spiriti. Non ho più bisogno di una fonte esterna di thanergia. Perché
ricorrere a uno strumento rozzo come una spada?».
«Sono felice di constatare che tu ti senta meglio» aveva ribattuto
lui. «Non mi metterò a filosofeggiare con te, non quando hai passa-
to le ultime tre ore a spremerti lo stomaco.» (Era andata così?) «Non
sono un mostro. Vai a sciacquarti i denti. Sei in grado di riempirti da
sola le carie, ma non mi interessa. Trascurare dettagli del genere mi
pare uno spreco.»
Barcollando, ti eri alzata dal letto come un fantasma dalla tomba
e ti eri diretta al lavabo lì vicino, dove avevi scostato quel velo mer-
doso e, risentita, ti eri lavata i denti con l’antiplacca. Dalla fascia de-
gli asteroidi composta dagli ufficiali preoccupati della Coorte arrivò
un mormorio impaziente, accompagnato da un «Sì» poi da un «No»

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e da un «Non disturbatevi con un nuovo rivestimento. Useranno la


Erebos come cargo» dell’Imperatore.
Un altro ufficiale aveva detto: «Mio magnanimo Signore, la leale
Santa della Gioia…».
«Non ha ancora imparato ad aspettare» aveva commentato Dio.
«Metti in attesa le comunicazioni. Ho già risposto tre volte solo que-
sta mattina.»
«Ma il suo contrordine…»
«L’ordine di un Littore è l’ordine di Dio e va eseguito con la me-
desima sollecitudine con cui avresti onorevolmente ottemperato al
mio» aveva ribattuto lui. «A eccezione di adesso. Piazza alla stele l’ul-
timo diplomato di Trentham e digli di farle dei rumori di statica, se
non la pianta.»
«Mio Signore?»
«Si soffia l’aria tra i denti. Lingua sul palato. E si fa su e giù con
la mano davanti alla bocca. Suona poco credibile, lo so, ma quando
gliel’ho fatto io non se n’è mai accorta.»
Avevi sputato nel lavandino. Allo specchio, percepivi il Corpo, che
attendeva pazientemente al tuo fianco; portava un camice turchese
da ospedale identico al tuo, i capelli lucidi di brina, la bocca magni-
fica ridotta a una linea risoluta e pronta. C’era una spada assicura-
ta alla schiena del Corpo – avevi incrociato lo sguardo di Dio nello
specchio e, per un istante, ti eri convinta che anche lui potesse ve-
derla, che vi stesse squadrando entrambe – ma non era altro che uno
scherzo percettivo.
«Harrowhark» aveva detto, «vorrei che mi seguissi.»
I volti seri e insonni degli ufficiali che lo circondavano produssero
una specie di smorfia collettiva. Uno disse, a voce molto bassa e molto
pacata: «Perdonatemi, Principe Clemente, ma permettetemi di ram-
mentarvi che l’Ammiraglio del Mar Morto e l’Ammiraglio della Flot-
ta Incessante hanno iniziato la riunione… dieci minuti fa».
L’Imperatore aveva risposto: «Nessuna riunione rianimerà diciot-
tomila morti. Ho bisogno di tempo con Harrowhark la Prima. Corte-
semente, ripresentatevi al mio servizio nella Camera Antica fra die-
ci minuti».
Gli attendenti si dispersero come se all’improvviso non avessero
avuto più solidità, spostandosi in blocco giù per il corridoio a una ve-

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locità che rasentava la corsa. Temevi che qualcuno potesse portarti


via la spada, se l’avessi lasciata là dov’era; invece di sollevarla, ti eri di-
stesa accanto al punto che occupava sul letto, da dove ti occhieggiava
nera. Rotolando sopra al piatto d’acciaio ti eri intrecciata delle cinghie
incrociate di osso spesso sulla schiena, avviluppando la lama, l’elsa.
Faticando sotto al suo peso, con nient’altro che un lenzuolo strappa-
to a mascherarti, patetica nella tua nudità turchese, ti eri ritrovata ad
accompagnare l’Imperatore per dei lunghi corridoi neri, cercando di
ancorarti nel tempo e nello spazio.
Eri praticamente nuda. La spada gravava così tanto su di te da far-
ti spuntare la gobba. La tua Maschera Ignominiosa era un puzzle di
osteologia sfaldata. Sembravi proprio un’imbecille.
Dio stava mormorando tra sé e sé: «Figuriamoci… come se ci fosse
mai stata una riunione dell’Ammiragliato che finisce in venti minuti».
Avevi detto, a fatica: «Che cosa mi sta succedendo?».
«Hai subito uno shock» aveva commentato l’Imperatore – senza
darti una risposta, in realtà.
«Succede a tutti i nuovi Littori?»
«Ad alcuni» aveva ribattuto, vago, senza infonderti il minimo sol-
lievo. Il suo tablet aveva cominciato a trillare piano e, dopo un’occhia-
ta scocciata, se l’era ficcato in tasca. «Come ti senti ora?»
In quel momento non ti restava spazio per i sentimenti personali.
Eri assediata dai dati sensoriali di settecentootto strutture polmona-
ri. Percepivi ogni corpo a bordo come un pasto in via di preparazio-
ne, un buon odore, il picco di qualcosa di caldo e sostanzioso. Tha-
nergia e thalergia si increspavano l’una sull’altra come un bocciolo, o
come la luce che danza sul metallo. E c’era dell’altro: al confine del tuo
campo percettivo riuscivi a sentire il fremito della vita e della mor-
te, profondo e dormiente, un’enorme massa di corpi. Smorzato, però.
Sentivi i morti in chissà quale obitorio di bordo – dieci agglomera-
ti di morti discreti, thanergia col marciume della thalergia arrestato,
congelato con uno schiocco di dita. L’immobilità di quella thanergia
era assoluta: nemmeno un cadavere nel ghiaccio stava così fermo.
Ti eri accorta che il Corpo aveva smesso di muoversi e che l’Impe-
ratore ti stava aspettando, sereno.
Gli avevi detto: «Sono molto stanca di questa convalescenza, mio
Signore».

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«Se fosse dipeso da me sarebbe durata mesi, non settimane» ave-


va risposto. «Ti avrei permesso di fare ritorno, un pezzetto alla vol-
ta, fino a quando non ti fossi sentita del tutto pronta a svegliarti. Non
posso. Ho dominato la Morte, Harrowhark; ma vorrei aver domina-
to il Tempo, sarebbe stata una scelta più intelligente. Devo chieder-
ti di essere pronta, presto, e dunque ti mostrerò qualcosa che spero
possa… innescare la tua prontezza.»
La sua comprensione ti riempiva di un sollievo viscerale e autenti-
co, il tatto che ti dimostrava. Ecco che cosa ti aveva tenuta in vita per
tutto il tragitto in ascensore, nonostante l’ascensore avesse impiegato
minuti e minuti per navigare nell’immensità della Erebos. Non avevi
mai visto niente di così smagliante e nuovo. Ti eri concentrata sulle
squisite cesellature nere e argentate delle placche metalliche, sui pan-
nelli incastonati dai colori iridescenti, sul teschio che sormontava la
porta, che qualche adepto artista aveva plasmato a immagine del te-
schio della Prima; delle ossa anonime magistralmente fuse sul sigillo
centrale, circondate dalle otto Case suddite. Il teschio della tua Casa
appariva semplice e silenzioso accanto agli altri. Dei drappeggi mor-
bidi e cupi oscuravano il plex, il metallo e il bagliore antiquato dei
LED delle apparecchiature elettroniche.
Poi le porte si erano spalancate con un sibilo, rivelando uno spa-
zio cavernoso e riecheggiante. Un altoparlante stava annunciando:
«L’Imperatore nostro Dio onora con la sua presenza la seconda sti-
va di carico» e avevi notato una moltitudine di persone che si faceva
da parte – ufficiali randagi della Coorte con le loro giubbe bianche
che si levavano dai piedi con un rapido inchino, piantando lì il loro
lavoro per lasciare un po’ di privacy al loro Signore. I loro passi fur-
tivi sembravano quelli di animaletti in fuga.
Eravate su una balconata con la ringhiera d’acciaio che dava su uno
spazio riempito da centinaia e centinaia di casse oblunghe. Ciascu-
na era lunga un corpo e profonda mezzo, ed erano tutte fatte d’os-
so – le righe e le colonne erano di una precisione così frastornante
che ci avevi messo un po’ a identificarle bene, dato che il tuo sguar-
do continuava a ondeggiare e a incrociarsi. La brezza fredda del ri-
circolo d’aria ti scompigliava il camice e ti aveva fatto venire la pelle
d’oca sulle cosce, ma il freddo ti manteneva cosciente e tu volevi re-
stare cosciente. L’osso delle casse splendeva di un bianco meno im-

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macolato di quello delle pareti dell’hangar, e sopra all’osso si stende-


va una delicata pellicola trasparente così tesa e sottile da permetterti
di vederci attraverso, e sotto c’era…
«Il dono che ti ho promesso. La tua Casa rinnovata» aveva detto
l’Imperatore.
Guardandoti dritto in faccia, aveva precisato, dolcemente: «Sono
poco meno di cinquecento e solo un terzo presenterà attitudini ne-
cromantiche, e lo stesso sarà per la loro prossima generazione. Sono
tutti fra i quindici e i quarant’anni, mi sembrava più semplice».
«Oh mio Dio» avevi detto, dimenticando che la divinità in questione
era proprio lì. «Gli antichi defunti. Avete commesso una resurrezione.»
Lui aveva ribattuto: «No. Sono diecimila anni che non resuscito dav-
vero qualcuno. Al tempo, però… ne ho messi da parte parecchi, per
sicurezza… e mi è spesso dispiaciuto tenerli lì solo come polizza di
assicurazione. Hanno dormito per tutta questa miriade, Harrow, e per
me è francamente un sollievo poterli svegliare. Comincerò il procedi-
mento per farli riaffiorare prima che vengano consegnati alla Nona».
Ti eri slacciata la maschera di tessuto in modo da poter guardare
con tutto quanto il viso, provando solo un’ombra di imbarazzo nel
mostrarlo così spoglio all’Imperatore. Lui, dopotutto, l’aveva già vi-
sto. Una speranza malata si era gonfiata dentro di te come le bolle
d’azo­to di un sommozzatore, e avevi scordato il tuo posto: «Lasciate-
mi andare con loro» avevi detto. «Non per molto. Solo il tempo ne-
cessario per presentare loro la mia Casa – il mio siniscalco –, solo il
necessario per dirgli che…»
«Frena, Harrowhark» ti aveva interrotto lui. «Dobbiamo parlare,
noi due, prima che tu mi chieda una cosa simile. Vorrei solo avere
più tempo per spiegarti.»
Avevi sceso i gradini gelidi di metallo a due a due, sentendo il cuo-
re che ti martellava contro il pericardio sieroso, sentendo la coper-
tura sottile degli scalini che ti schiaffeggiava i piedi nudi. Resa vigile
dal dolore, ti eri messa a vagare tra le fila dei tuoi sudditi silenziosi e
addormentati. Ti fermavi vicino alle loro culle, guardando ogni fac-
cia attraverso quelle pellicole torbide di pelle, con le loro sacche che
emanavano vene e cellule. Stavi cercando di imprimertele tutte nella
memoria, ma i lineamenti si fondevano insieme in un’unica mesco-
lanza, un mare di estranei appena diventati Nonari. Barcollavi un po’,

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più che esterrefatta e stordita. Il Corpo ti seguiva, a esattamente mez-


zo passo, la calma mortale della sua mano in fondo alla tua schiena.
L’Imperatore aveva mantenuto una rispettosa distanza tra sé e il
suo operato, mentre tu e il Corpo sbirciavate in ogni bara. Alla fine,
le colonne di casse d’osso e pelle si interrompevano in uno spiazzo
popolato da alcune loro simili, più piccole e vivaci. Queste erano fat-
te di pietra bianca, non di materia ossea, ed erano state scolpite così
di recente che la polvere della piallatura era ancora appiccicata alle
fiancate. Erano tutte di forme diverse: alcune erano urne a sei lati per
la sepoltura profonda, altre esagoni compatti per l’ossario. Erano tut-
te drappeggiate nello spettro dei colori delle Case, solo il nero manca-
va – per la tua Casa non ci sarebbero state bare vuote, quella sera – a
eccezione di una cassa semplice, in disparte. C’era appoggiata sopra
una rosellina a rappresentanza della Casa, con i petali lattiginosi che
arrossivano sparpagliati sulla pietra.
Ecco i corpi che avevi avvertito in precedenza: ciascuno era un’af-
filata fetta silenziosa di thanergia, senza nemmeno un barlume di
thalergia batterica a screziarne la pelle. Erano statuari e incorruttibi-
li. Opera dell’Imperatore, forse. Ma alcuni fra loro erano aberranti.
Avevi squadrato con una calma vacua il contenitore a sei lati drap-
peggiato con il bianco e lo scarlatto della Seconda Casa, che non con-
teneva resti umani. Nella bara singola coperta con la sontuosa pan-
neggiatura dorata della Terza non risiedeva nessuno della Terza. E
non riuscivi nemmeno a localizzare i corpi che avrebbero dovuto oc-
cupare gli esagoni disadorni ammantati di grigio della Sesta, nono-
stante uno contenesse penosi resti e frammenti: semplici rimasugli,
ben lontani dal costituire un cadavere. Qualcosa che somigliava un
po’ a un’emo­zione si accese nel tuo sistema nervoso, ma deperì e si
spense, con tuo grande sollievo.
Percepivi la presenza del Corpo, in piedi poco dietro di te, a fianco
dell’Imperatore. Avevi detto: «Come spiegherete i corpi mancanti?».
«Tra i discutibili privilegi di cui gode la Prima Casa» aveva detto Dio,
«c’è anche quello di essere raramente costretti a fornire spiegazioni.»
«I paladini…»
«Si sono uniti ai loro Littori» aveva risposto. «Non è una bugia,
non proprio. È semplicemente l’appiattimento di una portentosa… e
sacra… verità.»

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Eri rimasta in silenzio. Lui aveva proseguito: «Siamo andati alla Casa
di Canaan armati di un pettine a maglie strette, quando ti abbiamo
recuperata. Non abbiamo trovato nessun sopravvissuto e nessun al-
tro resto, e qualunque sia la fine a cui sono andati incontro quelli che
mancano all’appello – sempre che una fine sia giunta – è un miste-
ro che intendo risolvere. Fino ad allora, li ho dichiarati morti. Dam-
mi pure del precipitoso, ma preferisco che le Case piangano adesso,
Harrowhark, lasciando spazio a un futuro festeggiamento».
Era la bara semplice e scoperta ad attirare il tuo sguardo, quella
con la rosellina cerea; avevi capito all’improvviso quale fosse l’antico
cadavere canceroso congelato al suo interno. Il tuo sistema nervoso
stava cercando di elaborare molte emozioni in un colpo solo, ma poi
si era spento del tutto. Il Corpo si era avvicinato e ti aveva fatto gira-
re il viso, ma non poteva interrompere il repentino afflusso di ricor-
di frammentari.
L’Imperatore aveva detto, placido: «Deve tornare a casa, Harrow».
Non avevi guardato. «E la Settima Casa la accetterà?»
«Quella non è mai stata la sua casa» aveva detto lui. «Riporterò
Cytherea a riposare con i suoi fratelli e le sue sorelle.»
Sentivi male. Bruciavi. Le unghie del Corpo tracciavano un pre-
ciso rigagnolo freddo lungo la tua guancia bollente. Ti aveva impo-
sto di soffermarti, invece, sulle casse d’osso e pelle alle tue spalle, sui
morti che ora erano semplicemente addormentati e che erano stati
testimoni del più antico miracolo di cui eri a conoscenza. Parte della
tua promessa era stata mantenuta. Ti sarebbe piaciuto provare sol-
lievo, ma non ti ricordavi più come funzionava, a livello prettamen-
te ghiandolare.
Tu e Dio, ora, eravate in piedi uno di fronte all’altra. Potevi studiar-
lo senza timidezza: l’iridescenza lucente delle sue iridi, il nero inespu-
gnabile delle cornee e delle pupille, quel lungo viso squadrato, sofi-
sticato. Dio aveva delle rughe molto profonde sulla fronte e sotto agli
occhi. Le sue sopracciglia parevano afflitte, in qualche modo, ma il
resto del volto era spiritoso e mobile, ordinario e normale. Le fred-
de luci bianche della stiva di carico facevano risaltare tutti i punti in
cui la camicia era lucida per l’usura, smorzando il bruno caldo delle
mani e del viso fino a ridurlo a un banale ocra. Se l’avessi visto, sen-
za sapere chi fosse, l’avresti ritenuto assolutamente anonimo; ma tu

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non potevi guardarlo e non sapere. Abbarbicato alla sua pelle c’era
un terrificante senso di divinità.
«Voi potreste resuscitarli» avevi detto, senza disturbarti a stabili-
re chissà che filtro tra il pensiero e la parola. «Solo voi ne siete capa-
ce. Ma non lo fate. Perché?»
«Non lo faccio da diecimila anni, e la ragione è sempre la stessa»
aveva detto lui. «Per la stessa ragione che mi impedisce di tornare alle
Nove Case. Il prezzo è troppo alto.»
Una vertigine. Forse eri caduta. Sotto alle tue ginocchia c’era la
griglia di metallo, che imprimeva segni rossi e dolorosi nella tua car-
ne, l’aria che filtrava dalla grata puzzava di collanti antistatici. Avevi
detto, rivolta ai pannelli: «Insegnatemi, mio Signore, a quantificar-
ne il prezzo».
Dio, invece, ti aveva aiutato a rialzarti. Ti aveva infilato le mani sot-
to le ascelle in una maniera normalissima e ti aveva tirata su in piedi,
e ti aveva stretto le braccia goffamente – una rapida strizzata imba-
razzante, come se volesse confortarti senza sapere come fare – pri-
ma di ritrarsi. Ti aveva detto: «Harrow, non ti inginocchierai davanti
a me. Non te lo permetterò, non finché non saprai esattamente che
cosa significa farlo. Mi addolorano queste tue manifestazioni di os-
sequio quando – se solo sapessi tutta la storia – potresti invece mol-
larmi un pugno in faccia».
Eri arrossita, protestando: «Mio Dio…».
«E non dovresti neanche chiamarmi Dio» aveva proseguito lui.
«Non comprendi il termine e non voglio essere Dio, per te. Non an-
cora. Sei un’invalida, non una discepola. Ascoltami. Lo puoi fare? De-
testo forzarti, Harrowhark, ma abbiamo così poco tempo.»
Quello non si poteva tollerare. «Sono ancora in possesso di alcu-
ne delle mie facoltà, mio Signore.»
«Be’, è quello che speriamo tutti» aveva detto lui.
Ti eri appoggiata alla bara che non conteneva Coronabeth Triden-
tarius, dato che si trattava di una lastra poderosa che il tuo peso non
avrebbe mai potuto danneggiare. La spada ti stava facendo venire il
mal di schiena. Il Principe Clemente era rimasto a osservarti men-
tre cercavi di rimetterti in piedi, le spalle incurvate dall’acciaio, e poi
aveva detto: «Harrow, ci troviamo ancora all’esterno del sistema di
Dominicus. Quando starai meglio, manderemo la Erebos alla Nona

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Casa a consegnare ciò che ti ho promesso avrebbe consegnato. Poi


andrà di Casa in Casa a restituire i loro morti, ma io non sarò a bor-
do. Dovrai decidere se separarti da me o venire con me, in qualità di
mio Braccio. Nel vero senso della parola, a te la scelta».
Avevi cercato di ricordare cos’avevi detto quando ti eri svegliata la
prima volta a bordo della Erebos; cosa avevi detto quando ti eri tro-
vata per la prima volta faccia a faccia con il tuo Resurrettore. Ma non
ci riuscivi. «Avevo scelto…»
«Nell’ignoranza» aveva ribattuto lui. «Non è stata una vera scel-
ta. Ascoltami.»
Si era appoggiato alla paratia più vicina al catafalco disadorno, ci
aveva messo sopra il tablet e aveva posato la mano sulla superficie
priva di decorazioni, vicino alla rosellina. L’Imperatore ti aveva chie-
sto: «Harrowhark, cosa succede quando muore qualcuno?».
Era una domanda da asilo nido. Avresti dovuto rispondere con la
stessa sicurezza con cui le altre persone camminano o respirano, il
che era il motivo che te lo rendeva così difficile. La semplicità sem-
brava una trappola. Ti eri conficcata l’unghia del pollice nella coscia
fino a sentire i capillari che si squagliavano sottopelle, e avevi detto:
«Apopneumatismo. Lo spirito viene espulso dal corpo. Si verifica il
primo rilascio di thanergia».
«Perché?»
«Il decadimento thalergico causa la morte cellulare» avevi prose-
guito con circospezione, conficcando l’unghia ancor più in profondi-
tà, «che produce l’emissione di thanergia. La morte cellulare su larga
scala che consegue all’apopneumatismo produce una cascata thaner-
gica, anche se il primo rilascio si affievolisce e la thanergia si stabiliz-
za in un lasso di tempo che va dai trenta ai sessanta secondi.»
«Che cosa succede all’anima?»
«In caso di decesso graduale – vecchiaia, malattia… svariate altre
forme –, la transizione è automatica e diretta. L’anima transita nel
Fiume per mezzo dell’osmosi liminale. In caso di shock apopneuma-
tico, in cui il decesso è improvviso e violento, lo scoppio di energia
può rivelarsi sufficiente ad annullare la pressione osmotica, lascian-
do lo spirito temporaneamente isolato. Da qui otteniamo il fanta-
sma, e il redivivo.»
«E cosa possiede un’anima?»

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Non avresti resistito ancora per molto. Le domande stavano comin-


ciando a sembrarti stupide o sofistiche. Il Corpo ti osservava con uno
sguardo attento e velato. «Qualsiasi cosa dotata di una complessità
thalergica sufficiente per… creare un’anima. L’umanità, insomma.»
L’Imperatore si era messo a tamburellare sulla bara disadorna, e
poi aveva detto, non senza un certo divertimento: «Perché non ab-
biamo un’anima immortale? Darei cento degli anni che devo ancora
vivere per essere un solo giorno come gli uomini».
Eri completamente spiazzata. «Vi… vi domando scusa?»
«Harrowhark, pensa» aveva detto lui, riportandoti in maniera sgra-
dita alla mente qualcuno. Avevi trovato un’angolazione migliore per
l’unghia del pollice, affilando la cheratina morta fino ad appuntirla, e
finalmente il sangue aveva cominciato a scorrere. «Che altro possie-
de una massa di thalergia dall’enorme complessità? Qual è il compi-
to di un necromante della Coorte?»
Il tuo cervello stava battendo vergognosamente in ritirata, ma qual-
cosa della vecchia Harrowhark era rimasto, abbastanza da continuare
a fare domande. Eri grata alla te stessa fantasmatica che ti stava chie-
dendo: “Qual è il ruolo di un necromante della Coorte? Meglio chie-
dersi qual è lo scopo di uno spadaccino della Coorte: sostenere il ne-
cromante, procurare la morte e la thanergia necessarie a innescare il
ciclo che permette alla magia necromantica di funzionare. I piane-
ti stranieri non erano mai pianeti thanergici; possedevano della tha-
nergia diluita, ovviamente, ma in fin dei conti la loro natura era tha-
lergica. Spediscici un necromante e si dimostrerà abbondantemente
inutile. La thanergia scaturiva in realtà da…”.
Più al Corpo che a lui, avevi replicato: «Un pianeta è una palla di
polvere. La sua thalergia deriva dall’accumulo di vita microbica. Non
può essere considerato un sistema coerente».
«Un’anima collettiva, possiamo definirla così» aveva detto l’Impe-
ratore. «Che cos’è un essere umano, se non un fagotto di vita micro-
bica? Tu sei un’adepta ossea, non è così? I maghi corporali entrano in
contatto con questa concezione sistemica prima, rispetto alla tua scuo-
la.» L’aveva detto con gentilezza, persino con fare bonario, ma avevi
comunque provato il repentino impulso di farti scaraventare fuori dal
boccaporto al pensiero che i tuoi talenti fossero da meno rispetto a
quelli di un mago corporale: gente che aveva basato la propria intera

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educazione sulla carne. Esperti di roba giallognola che tremolava. Gen-


te convinta che nella carne ci fosse qualcosa di veramente interessante.
Lui, scambiando il tuo disprezzo e la tua profonda intolleranza per
incredulità, aveva commentato: «Comincia solo con l’accettare que-
sta proposizione, per ora: un pianeta possiede un’immane quantità
unitaria di thalergia. Se questa thalergia venisse convertita, che cosa
potrebbe succedere durante la transizione?».
«Sappiamo già che cosa succede» avevi risposto. La lingua ti si sta-
va gonfiando in bocca e avevi le palpebre doloranti e gonfie che non
vedevano l’ora di chiudersi. La prima scarica di adrenalina si era esau-
rita. Il Corpo ti si era accostato e ti aveva afferrato il polso, stringen-
dotelo tra le dita, con decisione. Eri riuscita a dire: «La Coorte predi-
spone un pianeta per la necromanzia ogni volta che deve invaderlo.
Nel tempo, con l’introduzione del decadimento thanergico, il pianeta
si converte. Dopodiché, la necromanzia procede normalmente. Non
succede niente… la vita vegetale e quella animale cambiano, chiaro…
e prima o poi il pianeta muta del tutto e la popolazione deve essere
trasferita, ma è un processo talmente a lungo termine che occorro-
no generazioni. Non si può quantificare come qualcosa che succede».
«Ora uccidi il pianeta in un colpo solo» aveva detto l’Imperatore.
«Cosa ne consegue?»
L’avevi squadrato. L’Imperatore delle Nove Case aveva alzato le
mani, i palmi rivolti verso l’alto, come se stesse indirizzando una pre-
ghiera indifesa al tetto del vano merci. I suoi occhi alieni erano sereni
e calmi. Conoscevi un’unica moria massificata di pianeti.
Gli avevi risposto, quindi: «Ditemelo voi, mio Signore. Voi erava-
te presente alla Resurrezione».
«Sì» aveva detto lui. «E ho visto la thalergia convertirsi all’istan-
te. La differenza tra il morire per una malattia e il morire ammazza-
ti. Uno shock enorme, l’espulsione immediata dello spirito. E proprio
come quando si strappa prematuramente l’anima da un essere umano,
quando un’anima viene asportata così violentemente da un pianeta…»
Il sudore ti si era raccolto sul palmo della mano, al centro, con spon-
tanea inopportunità. Un rivolo di sangue aveva cominciato a scender-
ti lungo la gamba e l’avevi fermato a metà strada, facendolo asciugare
a fiocchi sulla pelle prima di coagulare la ferita. Un’operazione simi-
le ormai non ti costava il minimo sforzo.

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«Un redivivo» avevi detto.


«Sempre un redivivo» aveva confermato lui. «Ogni singola volta, un
redivivo – che Dio li stramaledica. Perdonami per il gioco di parole.»
Ti sarebbe piaciuto poter vedere il Corpo respirare, il petto che si
sollevava leggermente, su e giù. L’Imperatore osservava a braccia con-
serte la stiva di carico, il viso rischiarato da sotto dall’illuminazione
elettrica, il bagliore nero e bagnato nei suoi occhi. L’avevi sorpreso a
inumidirsi le labbra con la punta della lingua.
«Le chiamiamo Bestie Resurrezionali» aveva detto.
Ci aveva impiegato un altro istante per proseguire e, quando l’ave-
va fatto, il tono era quello di un uomo che racconta una storia molto
antica. «Quando il sistema è morto… quand’ero più giovane, diecimi-
la e rotti anni fa, e ci ho riportati indietro dall’orlo del baratro – tut-
ti i redivivi si sono sparpagliati agli angoli più remoti dell’universo,
come succede all’anima che fugge dal suo cadavere in preda al terro-
re immediato della transizione. Non ho mai visto un pianeta formar-
ne un’altra nello stesso modo; ho visto mostri più contenuti – Bestie
minori – ma niente, niente, come quella prima ondata. Harrow­hark,
questi redivivi percorrono l’universo, inesorabili, senza tregua… e,
nel loro cammino, si nutrono di pianeti thalergenici, come vampi-
ri… e non si fermeranno finché io e le Nove Case non saremo mor-
ti. Mi hanno costretto a fuggire per una miriade e sono quasi impos-
sibili da abbattere.»
Tutto ciò aveva prodotto un impatto molto ridotto su di te. Ave-
va il tenue sentore surreale di una fiaba. Gli avevi chiesto: «I Littori
sono morti… combattendo quegli affari?».
«Combattendo?» aveva ribattuto Dio. «Harrow, ho perso metà dei
miei Littori cercando di distrarli. Distruggerli è di una complessità
esecrabile. Quelli che abbiamo ucciso, li abbiamo uccisi per un col-
po di fortuna – erano giovani e noi eravamo nel pieno dei nostri po-
teri – e poi… quando le nostre fila si sono diradate… per caso, o gra-
zie a missioni suicide.»
«Quanti redivivi ci sono?»
Ti eri preparata a una cifra astronomica. Il Corpo aveva alzato un
sopracciglio quando l’Imperatore Imperituro ti aveva risposto: «Tre».
«Ce n’erano nove. Li abbiamo battezzati per numero. In diecimi-
la anni, siamo riusciti a eliminarne ben cinque, che gran risultato. La

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Bestia Resurrezionale Numero Due è caduta poco dopo la Resurre-


zione. La Numero Otto ci è costata l’anima immortale di un uomo,
e rivedo ancora quel giorno nei miei incubi. La Numero Sei è morta
perché una delle mie Braccia – Cyrus – l’ha attirata in un buco nero
ultraimmane e farà meglio a essere morta per davvero questa Nume-
ro Sei, visto che Cyrus non farà più ritorno.»
Prima che tu potessi reagire in alcun modo – lasciandoti sfug-
gire un’esclamazione o mettendo in discussione i suoi calcoli, che
nemmeno di primo acchito reggevano –, lui aveva fatto qualcosa di
spiacevolissimo. L’Imperatore delle Nove Case si era scostato con
una spinta dalla bara semplice con la rosellina e ti si era parato da-
vanti, vicino a quella della Terza, con i suoi occhi mostruosi e il suo
viso ordinario, e aveva preso le tue mani fra le sue. Le accarezzava
dolcemente, come se tu non fossi altro che una bambina il cui ani-
maletto domestico era appena rimasto spiaccicato in un tragico in-
cidente. Sarebbe stato meglio se ti avesse strappato le costole dal-
le loro cartilagini e si fosse messo ad agitarle di qua e di là. Sarebbe
stato meglio se ti avesse afferrato per la gola, spezzandoti l’osso del
collo. Pagliuzze brillanti ti offuscavano la vista. Ti sentivi profon-
damente a disagio.
«La scelta che ti ho offerto è sempre stata una menzogna» aveva
detto lui. «Mi dispiace. Le Bestie Resurrezionali sanno sempre dove
mi trovo, e ovunque io mi trovi finiscono per puntarmi e comincia-
no a muoversi… adagio… ma senza mai fermarsi. E non fanno rot-
ta solo verso di me, anche se è su di me che si concentrano con mag-
gior vigore. Danno la caccia a chiunque abbia commesso il… peccato
indelebile.»
L’avevi fissato. Lui ti aveva lasciato le mani.
«Quale peccato indelebile?» avevi chiesto.
«Quello che hai commesso quando sei diventata Littrice» aveva ri-
sposto l’Imperatore.
Avevi sentito, debolmente, il tonfo delle porte del Drearburh che
si chiudevano. Percepivi lo stridore dei cardini e quel clang indelebi-
le, un’eco che riverberava per tutta la sala, dal fondo verso l’alto, fino
all’apertura del pozzo. Ma poi il tuo ricordo si era intorbidito, scom-
parendo, insieme al resto della tua collezione disordinata.
«Verranno a cercarmi» avevi detto, pronunciando quelle parole

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solo perché pensavi di doverlo fare, per tramutarle in realtà. «Se tor-
nassi alla mia Casa, mi seguirebbero fin là.»
Lui aveva replicato: «Nessun Littore è mai più tornato a casa, una
volta comprese le ripercussioni… nessun Littore a parte una, che sa-
peva che l’avrei intercettata proprio per quel motivo».
Avevi lanciato un’altra occhiata alla bara spoglia. Non era partico-
larmente grande; il corpo che conteneva non era né alto né massic-
cio, non era imponente o maestoso. Ti eri sorpresa a commentare, di-
staccata: «E quindi l’idea è di insegnarmi a combattere quelle cose?».
«Non prima di averti insegnato come scappare» aveva detto l’Im-
peratore. «È una dura lezione da assimilare. Non si conclude mai. Ma
visto che fuggo da diecimila anni… sarò il tuo maestro.»
Dopo un istante ti aveva posato le mani sulle spalle e ti eri ritrova-
ta a fissarlo dritto in faccia, un viso strano e comune.
«Quello che intende» aveva detto il Corpo chiaramente «è che devi
imparare a usare quella spada.»
L’avevi squadrata, oltre la spalla dell’Imperatore. Lui aveva istinti-
vamente seguito il tuo sguardo, ma non avrebbe mai potuto vedere
quello che vedevi tu: le piaghe, dove le catene si erano strette attor-
no ai polsi della ragazza, al collo, alle caviglie. Non avrebbe potuto
percepire quei capelli lunghi, che le penzolavano umidi sulle spalle.
Erano di una sfumatura resinosa che, nella morte, poteva essere sta-
ta castana o dorata o chissà cos’altro. Non avrebbe mai potuto udir-
ne la voce – bassa, roca, musicale – o la sua inquietante somiglianza,
come un’eco, con altre voci che avevi conosciuto: quella di tua ma-
dre, di Crux.
Non avrebbe mai potuto sapere che, in realtà, il Corpo del Sepolcro
Sigillato non ti parlava più dalla notte in cui avevi massaggiato i coagu-
li violacei e gonfi di sangue sul collo dei tuoi genitori morti, in modo
che la loro dipartita per strangolamento non risultasse così ovvia. Non
avrebbe mai saputo che avevi camminato in sua compagnia, in tran-
quillità, per un solo anno, dopodiché solo nei sogni ti eri data appun-
tamento con lei. Non avrebbe mai saputo che, quando eri più piccola,
gli occhi del Corpo ti erano spesso apparsi neri, com’erano i tuoi, ma
che da quando ti contorcevi nell’agonia del Littorato i suoi occhi era-
no diventati di un giallo che ti dava le vertigini: un giallo bronzeo, in-
candescente, animalesco, la sfumatura ambrata del tuorlo di un uovo.

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Quando avevi dieci anni, il Corpo era stato silenzioso e rigoroso,


pratico e clemente. A quattordici, il Corpo era tenero e sereno, e ca-
pitava che sorridesse. Quando avevi compiuto sedici anni, il Corpo
si era fatto risoluto e impassibile. In tutte queste incarnazioni, aveva
mantenuto il suo voto di silenzio. Ma ora il suono della sua voce im-
plicava che la pazzia era tornata a impadronirsi completamente di te.
«Non posso» avevi detto, con tutta la circospezione possibile. «Non
posso, mia adorata. Non c’è più.»
L’Imperatore aveva commentato: «Harrow?» ma ti eri quasi dimen-
ticata che lì ci fosse anche lui.
«Hai imboccato un lungo tunnel» aveva detto il Corpo. «Devi tor-
nare indietro.»
«Brancolo nel buio» le avevi risposto. Ogni singolo ciglio del Cor-
po era umido di brina. «L’ho perso. Non c’è più. Non c’è niente là.
Devo aver frainteso il procedimento. Sono una mezza Littrice. Non
sono niente, sono inutile, sono sguarnita.»
Le sue mani ti gravavano sulle spalle. Avevi spostato lo sguardo dal
volto che amavi a quello del Re Risorto.
«Ortus Nigenad non è morto invano» ti aveva detto.
Mentre lo pronunciava, la sua bocca ti era parsa strana. Un fischio
incandescente di dolore ti aveva attraversato l’osso temporale. Il tuo
corpo era insensibile al dolore; forse l’avevi avvertito, un tempo, ma
non lo sentivi più. «Ortus Nigenad è morto nella convinzione che
quello fosse l’unico dono che poteva darmi» avevi detto, «e io l’ho
sprecato… come aria.»
Il Re Risorto aveva assunto l’espressione di un uomo che si stava
lambiccando su un anagramma molto difficile ed emotivamente gra-
voso. Aveva ripetuto: «Ortus» ma la bile ti aveva invaso la gola e la
bocca, gorgogliando, e il Corpo ti aveva posato la mano sulla fronte,
all’attaccatura del naso, e tu eri sfuggita alla presa imperiale. Eri stra-
mazzata a terra quasi priva di sensi.
«Ortus Nigenad» aveva ripetuto ancora l’Imperatore, in tono qua-
si interrogativo; ma poi ti eri persa del tutto, sapevi solo di non aver
vomitato addosso a Dio, il che era comunque da considerarsi una
consolazione.

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3
La Reverenda Figlia Harrowhark Nonagesi-
mus sarebbe dovuta diventare la trecentoundicesima Reverenda Ma-
dre della sua dinastia. Era l’ottantasettesima Nona della sua Casa; era
la prima Harrowhark. Aveva preso il nome da suo padre, che l’aveva
preso da sua madre, che l’aveva preso da una qualche impassibile pe-
nitente extramuraria votata al silenzioso talamo nuziale del Sepolcro
Sigillato. Era un’usanza comune. Il Drearburh non aveva mai pratica-
to la Purezza resurrezionale. Il loro unico obiettivo era di perpetrare
la discendenza necromantica dei guardiani della tomba. Ora tutto il
sangue che ne rimaneva era confluito in Harrow; era l’ultima necro-
mante, e l’ultima della sua stirpe ancora in vita.
Era nata a caro prezzo. Diciotto anni prima, nell’intento di strap-
pare un ultimo bocciolo da un ramoscello terminale, sua madre e suo
padre avevano trucidato tutti i bambini della loro Casa per assicu-
rarsi un erede necromantico. Harrow era stata creata in quell’ora di
pallor mortis, mentre le anime dei suoi pari si separavano maldestra-
mente dai loro corpi, la sua genesi scaturita da quella loro iniezione
di thanergia, mentre morivano con una simultaneità che i suoi geni-
tori avevano calcolato fino allo stremo. Nulla di tutto ciò le era stato
nascosto. Era stato spiegato a Harrow, anno dopo anno, sin dal gior-
no in cui aveva saputo distinguere quando era ora di parlare e quan-
do bisognava tacere. Era una dote che si manifestava presto, negli in-
fanti della Nona Casa.
Da piccola, aveva il permesso di scostare le coltri e di infilarsi a
letto solo dopo aver completato quarantacinque minuti di preghiere
serali, stretta fra le sue spregevoli prozie, Lachrimorta e Aisamorta.

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HARROW LA NONA  /  49

Erano state severe con il suo catechismo infantile e la loro presenza


era un forte incentivo: visto che puzzavano di incenso e denti mar-
cescenti, Harrow doveva imbroccare le sue orazioni alla lettera per
non essere costretta a ricominciare tutto da capo. Aveva scandito con
chiarezza – niente zeppola – formule devozionali di loro invenzione:
«Fino alla fine dei mie giorni il Sepolcro servirò, e in duecento tombe
a riposare mi coricherò…» cosa che trovavano di una giocosità tene-
rissima, perfetta per una bimba piccola.
Per il resto, Harrow veniva completamente abbandonata a se stes-
sa. Si svegliava molto in anticipo rispetto alla Prima Campana e an-
dava a pregare in cappella prima ancora che accendessero il riscal-
damento, le dita troppo fredde per sgranare il rosario. A quel punto,
andava a rifugiarsi in una delle biblioteche con una lanterna a pile,
una coperta e i suoi libri. Si era imbarcata da sola nello studio della
necromanzia: i morti erano i suoi mentori e tutori. Harrow non ave-
va idea di quanto fosse difficile comprendere il lavoro dei necroman-
ti adulti, ecco perché cercare di capirlo non la spaventava. Il suo svi-
luppo non fu inficiato né dall’ego né dall’apprensione. I suoi genitori,
di tanto in tanto, le facevano recitare i suoi teoremi la sera, o le fa-
cevano evocare delle ossa ulnari da uno scheletro ridotto in polvere;
o ordinavano al loro decrepito maresciallo, Crux, di trasportare un
cadavere fresco fino all’anello superiore per poi farlo precipitare sul
fondo. A quel punto, le chiedevano di riassemblare le ossa alla cieca,
attraverso il derma e la carne. Poi aprivano il corpo per verificare se
fosse stata brava o meno ma, in entrambi i casi, la loro approvazione
consisteva prevalentemente in una forma di sollievo. Nel suo genio,
avevano ricevuto la merce pagata a così caro prezzo.
Crux le raccontò che i suoi genitori erano stati diversi, un tempo.
Prima di commettere quell’amena strage di bambini, forse. Harrow
non aveva mai nutrito uno spiccato interesse per l’aneddoto in que-
stione; non riusciva a ricordare una versione dei suoi genitori che non
fosse esausta e svuotata di ogni gioia. Sua madre parlava raramente e,
quando lo faceva, rivolgeva tutte le sue osservazioni al loro massic-
cio paladino, un uomo che sembrava sempre sul punto di scoppiare
a piangere, se solo fosse riuscito a capire come fare. Il ricordo più vi-
vido che aveva di sua madre erano quelle mani che guidavano le sue
su una porzione di teschio ricostruita goffamente, quelle dita che cir-

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50  /  TAMSY N MUIR

condavano i suoi braccialetti di ciccia infantile sui polsi, stringendo-


li in una specie di manetta per indirizzarla verso la tecnica corretta.
Suo padre si era dimostrato il più volubile dei due. Alla sera legge-
va ad alta voce per la sua piccola famiglia, talvolta sermoni e talvolta
lettere antiche della dinastia. Ecco un altro raro ricordo: la luce elet-
trica appesa sopra la poltrona di suo padre, lei seduta su uno sgabel-
lino a tre gambe accanto a sua madre, la voce del padre che proce-
deva monocorde e incessante, finché un tocco del suo paladino non
gli comunicava che poteva interrompersi. Harrow si rintanava nel-
la sua tonaca nera col cappuccio e si esercitava a plasmare delle pal-
line d’osso tra pollice e indice, schiacciandole fino a imprimerci una
morbida impronta digitale, facendo mentalmente a pezzi il proprio
corpo fino a ridurlo a duecento reliquie.
Poi tutto era cambiato, di punto in bianco, per sempre. Harrowhark
si era innamorata.

* * *

Non si era trattato di un colpo di fulmine, non proprio. Era stato un


lungo processo. Più correttamente, lei si era calata nelle profondità
dell’amore, ne aveva scassinato i lucchetti e spalancato i cancelli, fino
a penetrare nella sala più recondita.
Aveva dedicato la vita al Sepolcro Sigillato e quello che c’era là
dentro, interrato, aveva monopolizzato tutta la sua attenzione, quan-
do aveva capito di cosa si trattava: tra i cenci della Nona Casa giace-
va un corpo comatoso. Le avevano insegnato ad amare l’Imperato-
re, che diecimila anni prima li aveva liberati tutti da una morte che
nessuno di loro aveva meritato, e a considerare il Sepolcro come un
simbolo della sua vittoria e della sua rovina. Sua madre e suo padre
temevano ciò che riposava relegato in quella tomba chiusa. Le sue
tediose prozie lo veneravano, ma mosse della disperazione, come se
le loro dimostrazioni collettive di soggezione potessero convincerlo
a risparmiare Dio. Non avevano mai desiderato aprire le porte per
guardarlo. Quelle porte erano state aperte per far entrare il corpo, e
si sarebbero schiuse di nuovo solo per farlo uscire, durante un’apo-
calisse a venire.
A Harrow era stato vietato l’ingresso proprio come le era stato vie-

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tato di salire fino all’ultimo anello del pozzo per prendere a martella-
te le macchine di sintetizzazione dell’ossigeno. Sarebbe stata la fine.
Aveva trascorso la maggior parte della sua vita in silenzio; c’erano
stati parecchi momenti in cui aveva trovato che vivere fosse… diffi-
cile. Tedioso. Nelle giornate peggiori, fatuo. Ormai la memoria rie-
vocava quello che era successo in maniera molto neutra, e i dettagli
erano ininfluenti. In una giornata particolarmente brutta – in cui le
era parso che tutti la odiassero e in cui la cosa le era sembrata asso-
lutamente sacrosanta – coi pugni insanguinati e il cuore ammaccato,
aveva scritto un biglietto per spiegare il proprio suicidio ed era anda-
ta ad aprire quella porta. Inaspettatamente, il gesto non l’aveva ucci-
sa; e quel che non la uccise la rese curiosa.
Quando riuscì a oltrepassare la soglia era già molto più grande. Era
un inferno di trappole. Ma le trappole erano trappole della Nona, fat-
te di ossa e di scheletri ghignanti, che lei stessa utilizzava da quando
era un’infante. Alla fine, l’esperienza si rivelò meramente educativa.
Attraversò la caverna, irta di trabocchetti, e superò il fossato centra-
le d’acqua nera – che era profondo, e irto di trabocchetti – e poi si
arrampicò sull’isola (trabocchetti) fino al mausoleo ghiacciato (tra-
bocchetti assurdi) e, quando fu arrivata fin là – viva – ebbe la pos-
sibilità di guardare nella bara scoperchiata in cui giaceva la ragione
stessa della sua esistenza.
Il trionfo e la morte di Dio erano una ragazza. Forse una donna.
Harrowhark, al tempo, non avrebbe saputo come stabilirlo, mentre
il genere era solo un’ipotesi basata sull’interesse personale. Il cada-
vere era disteso nel ghiaccio, portava un sudario bianco e fra le mani
stringeva una spada bordata di brina. Era bella. La struttura dei suoi
muscoli era perfetta. Ogni arto era la rappresentazione scultorea di
un arto perfetto, ogni piede esangue era il simulacro esanime, dall’ar-
co slanciato, del piede perfetto. Ogni nero ciglio surgelato si posa-
va sulla guancia con una perfetta nerezza immobile, e il suo naso era
l’apice di quel che un naso avrebbe dovuto essere. Nulla di tutto que-
sto avrebbe potuto scalfire Harrow, se non fosse stato per la bocca,
in sé e per sé di un’imperfezione perfetta: leggermente sghemba, con
un solchetto sul labbro inferiore, come se qualcuno avesse impresso
un’ammaccatura delicata sulla curvatura, con la punta del dito. Har-

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row, che era stata generata al solo scopo privilegiato di adorare quel
cadavere, la amò follemente a prima vista.
La morte di Dio, dunque, si rivelò anche la morte di Harrow. Ave-
va gestito le sue visite in maniera superficiale. I suoi genitori aveva-
no… scoperto… quello che aveva fatto, la portata del peccato che ave-
va commesso, e avevano reagito proprio come avrebbero reagito se lei
avesse mai ammesso di aver fatto a pezzi con un martello la macchina
di sintetizzazione dell’ossigeno. Di fronte all’apocalisse, avevano scelto
di darsi la morte con le proprie mani prima che un’altra morte potesse
reclamarli. Non si erano nemmeno arrabbiati. Fu con profonda com-
prensione e calma che sua madre, suo padre e il loro paladino legarono
cinque cappi – uno per Madre, uno per Padre, due per Mortus, uno per
lei. Poi si impiccarono senza quasi emettere suono o scalciare. Sarebbe
stato meglio, davvero, se Harrow si fosse impiccata al loro fianco. Sareb-
be stato meglio se si fosse raggomitolata nella tomba accanto alla don-
na che amava, lasciando che la temperatura gelida facesse il suo corso.
Ma Harrowhark – Harrow, che era duecento bambini morti; Har-
row, che amava qualcosa che non era stato vivo per diecimila anni –
Harrowhark Nonagesimus aveva sempre desiderato così tanto vive-
re. Era costata troppo per morire.

* * *

L’amore aveva spaccato la sua esistenza in due metà distinte: la metà


che precedeva l’innamoramento, e la metà dopo. Nel dopo, aveva
detestato star seduta nell’abside durante le litanie mentre una stra-
na percussione riecheggiante disturbava le preghiere dei fedeli, col-
pi distanti che sentiva nella parte posteriore del cranio e che aveva
scambiato per qualcuno che andava fuori tempo. Sentiva porte che si
aprivano o si chiudevano in corridoi remoti dove non c’erano porte
che si stavano aprendo o chiudendo; il suo corpo era preda di gran-
di spaventi e il suo cervello di grandi frustrazioni. In balia delle sue
agonie, doveva restare seduta di fianco a Crux, il suo decrepito ma-
resciallo, e solitamente veniva imboccata con un cucchiaio; insisteva
per farla mangiare. Per una buona metà di quel che sentiva non face-
va che chiedersi: «Ma è reale?». E lui le rispondeva: «Sì, mia Signo-
ra», o «No, mia Signora» e lei poteva dirsi appagata.

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La sua pace fu annientata. Persino nelle lunghe giornate buie che


trascorreva completamente sola – nelle biblioteche o nel suo labora-
torio, con le dita bruciate dalle ceneri grasse che maneggiava – sen-
tiva voci ai margini dell’udibile, o con la coda dell’occhio vedeva cose
che non c’erano. Ogni tanto le sembrava di essersi portata le mani alla
gola, stringendosi la trachea finché il campo visivo non le si riempi-
va di puntini. Vedeva corde penzolanti; si dimenticava dov’era e can-
cellava un’intera mattinata di studi rimpiazzandola con falsi ricordi.
Nel primo anno che seguì la morte dei suoi genitori, vide spesso il
Corpo, quando dormiva o mentre era sveglia. Rappresentava sia un
sollievo che una fonte di frustrazione. Il Corpo le infondeva una pace
totale, ma in sua presenza perdeva la cognizione del tempo; rimane-
va seduta con la mano molto vicina alla mano asciutta e defunta della
sua ossessione e, quando sollevava lo sguardo, le ore se ne erano già
andate. Ma poteva anche controllare l’ora e scoprire, con grande stu-
pore e stravolgimento, che erano passati solo pochi minuti. Quando
la sua ghiandola pituitaria si mise in moto, il Corpo cessò di apparir-
le quando era sveglia, ma le altre allucinazioni resistettero. Harrow
era furiosa di trovarsi invischiata in qualcosa di così… di così pede-
stre come la pubertà.
Ma mentre la pubertà la modificava di nuovo – per gli ormoni, il
tempo o entrambi i fattori –, riuscì a riprendere una parvenza di con-
trollo sulla sua mente tarlata. Pregava spesso. Il suo cervello si rifu-
giava nei rituali. A volte digiunava, o mangiava la stessa cosa a ogni
pasto, disposta secondo uno schema specifico sul piatto e consuma-
ta nel medesimo ordine per mesi e mesi. Indossava le sue pitture ben
oltre i requisiti minimi previsti per una qualunque monaca, le porta-
va in privato, certe volte ci dormiva. Trovava di una barbosità este-
nuante la vista del proprio viso al naturale nello specchio, mostruo-
so, insensato, in un certo senso remoto ma brutalmente agganciato a
lei. Harrow non piangeva spesso, ma a volte si sedeva sulle coltri del-
la sua brandina e si dondolava avanti e indietro, con movimenti rapi-
di e incisivi, il più delle volte per ore.
Gli studi si fecero difficili quando si rese tardivamente conto che
erano difficili; ma a quello si poteva porre rimedio lavorando ancor
più sodo. Le capitava di passare quindici giorni sullo stesso teorema.
Spostava sua madre e suo padre per la Casa come pedine degli scac-

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chi, cercando di correggere, anno dopo anno, la loro postura rigida


e innaturale, piazzandoli a sedere nella cappella mentre la sua gente
chiedeva loro consigli che solo vagamente aveva idea di come elargi-
re. Ma i penitenti e i devoti del Sepolcro Sigillato stavano invecchian-
do e scoprì che volevano unicamente sentirsi ripetere le stesse cose.
Spesso e volentieri si accostava, con i suoi genitori al fianco, a un let-
to di morte, osservando un altro dei suoi penitenti che esalava l’ulti-
mo respiro roco mentre lei recitava le formule della loro ultima fun-
zione. Morivano felici. La adoravano. Era davvero portata, un talento.
Harrowhark aveva visitato così tanti letti di morte e pronunciato così
tanti discorsetti solenni sulla morte e sul dovere che, alla fine, aveva
cominciato a crederci anche lei.
Gli anziani della Nona Casa diventarono i decrepiti della Nona
Casa, e i decrepiti della Nona Casa diventarono i defunti della Nona
Casa. Harrowhark era stata al fianco di quasi tutti, in punto di mor-
te, a eccezione degli attacchi polmonari improvvisi, e già a quattordi-
ci anni se la cavava così bene con gli arresti cardiaci da riuscire a te-
nerli lì fino alla celebrazione dei riti finali. Aveva sempre disprezzato
la magia corporale, ma era portata per l’aorta. In un secondo tempo,
quando i loro tessuti si erano ormai squagliati, evocava personalmen-
te i loro scheletri scarnificati per lavorare alla macina o rastrellare in
silenzio i campi di porri nevosi nelle estremità superiori del Drear-
burh. Gran parte della sua necromanzia si era affinata con il tran tran
quotidiano delle morti geriatriche, dalla tumulazione ai teschi, dal-
la permanenza al capezzale di ossa osteoporotiche e dal riempimen-
to dei loro sforacchiamenti, in modo che i costrutti non si riducesse-
ro a un guazzabuglio di gabbie toraciche con le gambe polverizzate.
I suoi genitori sapevano il fatto loro, quando avevano deciso di rica-
vare un genio da duecento bambini morti: ci voleva un genio anche
solo per impedire che la Casa si liquefacesse in una catasta di ossa e
di vittime della polmonite.
Ma persino un genio non poteva fare altro che mantenere lo sta-
tus quo. La Casa non aveva mai posseduto la tecnologia, o il sapere
e nemmeno dei maghi corporali addetti alla gestione di un’ampolla
uterina. La popolazione dotata di utero era troppo anziana per ave-
re figli, a eccezione di due elementi, uno dei quali era lei. Harrow po-
teva solo ringraziare Dio per non aver mai dovuto portare il peso di

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quel dovere. L’unica fonte sostenibile di un XY in salute appartene-


va al primo paladino della sua Casa, un ragazzo di diciassette anni
più grande di lei. Al tempo l’aveva considerato una fodera ambulan-
te a forma di uomo che ricopriva del carbonato di calcio di ragguar-
devole qualità, ed era anche al corrente del tremendo rispetto che gli
incuteva, del medesimo tipo che si poteva riservare a un cancro ere-
ditario che si sapeva sarebbe arrivato. Per fortuna, il loro matrimo-
nio avrebbe finito per fondere le discendenze dei paladini e degli ere-
di del Drearburh oltre ogni speranza di rimedio: Ortus Nigenad era
figlio unico. Harrowhark aveva obbligato i suoi genitori a soffocare
quell’opzione con tale trasporto da spaccare un molare a suo padre.
L’unica altra vergine che poteva provare un sollievo forse superiore
al suo era proprio Ortus.
E gli anni passavano, dunque, inconfessabili, incrostandosi e inari-
dendosi man mano. Harrowhark osservò Crux farsi più vecchio, an-
cora più vecchio e vecchissimo, e sfoderò tutti gli assi che aveva nel-
la manica per tenerlo in piedi – delle placche tremende gli turavano
le arterie e, quando Harrow gliele grattava via, lui faceva finta di non
accorgersene. Sapeva che, quando avrebbe dovuto deporre il suo tu-
tore in una nicchia, a morire sarebbe stata l’unica altra persona im-
pegnata a preservare la sua sanità mentale. E se fosse impazzita di
nuovo, che cosa sarebbe successo? In qualsiasi momento avrebbe po-
tuto chiedere l’assistenza delle sue Case sorelle. In qualsiasi momen-
to avrebbe potuto richiedere l’intervento della Coorte, e si sarebbe-
ro presentati il giorno seguente con incubatori per la terapia fetale,
penitenti volontari, prestiti e germogli da piantare – suggerendo in-
controvertibilmente a Harrow che avrebbe proprio dovuto sposa-
re quel figlio della Seconda, o quella figlia della Quinta – lasciando-
la lì a osservare i gonfaloni variopinti che venivano issati accanto al
teschio nero del Nero Anacoreta. E sarebbe stata la fine della Nona
Casa, una fine ancor più definitiva di una martellata alla macchina di
sintetizzazione dell’ossigeno.
Avevano bisogno di una resurrezione. Avevano bisogno di un mi-
racolo. Harrowhark aveva passato anni a studiare miracoli, e poi glie-
ne si era materializzato uno proprio davanti al naso: l’opportunità di
diventare Littrice. L’opportunità di servire l’Imperatore suo Dio, l’op-
portunità di trasformarsi in un pugno o in un gesto della sua mano,

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l’opportunità di diventare una servitrice immortale e di perorare la


causa del Drearburh; per rinnovare la Nona Casa alle sue condizio-
ni, con la roccia che mai deve essere scostata, l’amore della sua vita
e la sua morte serena e indisturbata nel suo tempio funerario di pie-
tra. Altri diecimila anni di solitudine. Un’altra lunga discendenza ser-
peggiante di Reverende Madri e Reverendi Padri. Harrow aveva pre-
so il paladino impreparato della sua Casa e aveva colto l’occasione al
volo, con entrambe le mani.
Ma come era stato innamorarsi la prima volta, così anche quando
era diventata Littrice era andato tutto storto. Il suo paladino si era
consegnato a lei con una solerzia intorpidita che ancora la inceneriva
di vergogna. Persino di fronte a una tale solerzia, aveva commesso il
peccato indelebile solo a metà; aveva raccolto le componenti dell’ani-
ma di Ortus Nigenad e non era stata capace di ingoiarlo fino in fon-
do. Di fronte allo specchio c’era Harrowhark, da sola: un’insensatezza,
un mostro, una geometria aliena. Uno squittio increscioso di perso-
na. Aveva nove anni e aveva commesso un errore. Aveva diciassette
anni e aveva commesso un errore. Il tempo si era ripetuto. Harrow
avrebbe trascorso la sua intera esistenza a inciampare su se stessa, un
anello privo di attrito costellato di cazzate madornali.
C’era anche un’altra bambina che era cresciuta insieme a Harrow,
ma era morta prima che Harrow nascesse.

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C’erano ancora tre cose che ti inorgoglivano:
primo, la freddezza dell’autocontrollo; secondo, una comprensione
disumana per i meccanismi della necromanzia; terzo, eri molto dif-
ficile da ammazzare. Eri così immune all’omicidio che non eri nem-
meno riuscita ad autoinfliggerti un atto di quel genere.
Quando ti eri svegliata nel bel mezzo del primo attentato alla tua
vita, la tua mente si era scrollata di dosso la nebbia e si era riattiva-
ta con uno scossone. C’era un calore morbido e onnipresente che ti
gravava sulla faccia. Non poteva che trattarsi del tuo cuscino, la fe-
dera sottile inumidita dal tuo respiro e dalla tua saliva. Qualcuno
torreggiava sulla tua brandina, tenendo fermo il cuscino. D’istinto ti
eri messa a scalciare mentre una mano si era spostata per esercitar-
ti una forte pressione sulla gola – e ti avrebbe accartocciato lo iode,
se solo tu non l’avessi rinforzato con uno spesso strato di cartilagine.
Che stupidi erano stati a non salirti sopra. Avevi rintracciato le tue
dita e ti eri strappata l’unghia del pollice sinistro, urlando in quell’a-
sfittica oscurità bianca. Avevi scisso quel dischetto sanguinolento di
cheratina e carne in un migliaio di radici frammentate, espandendo-
le poi in una moltitudine di freccette aguzze e dentellate. Cieca e a
corto d’aria, avevi scagliato quei missili rigidi e pelosi contro il tuo
assalitore come schegge di granata; li avevi sentiti conficcarsi nella
carne, ticchettare contro il muro e penetrare l’acciaio. Bene. Bene. Il
peso del cuscino si era alleggerito, e…

* * *

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Avevi ripreso conoscenza di colpo sulla tua brandina spoglia, non dis-
simile a un feretro, iperventilando.
Il cuscino sotto la tua testa era perfettamente asciutto. Tenevi la
mano sinistra sollevata davanti al viso, davanti alla luce, quella luce
bianca e uniforme con i suoi filamenti incandescenti di tungsteno.
L’unghia del pollice era integra e uniforme. Troppo uniforme? Avevi
ancora il vizio di mangiarti le unghie, quel tic spiacevole della tua in-
fanzia? Il grosso spadone a due mani era coricato accanto a te come
un bebè imperturbabile, e sul muro dei tuoi alloggi…
Niente. Nessun frammento d’unghia. Niente sfregi sulle pareti. Solo
una pila ordinata di casse. E su una seggiola accostata al tuo letto – la
seggiolina che di solito stazionava vicino alla porta, quella su cui ave-
vi sempre e soltanto visto l’Imperatore – c’era Ianthe Tridentarius.
I vostri sguardi si erano incrociati. L’altra Littrice nascente – la
santa della Terza Casa, le ossa dell’Imperatore e i legamenti dell’Im-
peratore, i pugni e i gesti dell’Imperatore – indossava uno splendi-
do manto madreperlaceo che riluceva di tutti i colori dell’arcobale-
no: un materiale impalpabile e iridescente che mutava violentemente
alla luce. La madreperla conferiva ai capelli di Ianthe una raccapric-
ciante tinta gialla, tirando fuori tutte le sfumature color senape della
pelle; aveva il viso chiazzato e gli occhi ridotti a due cavità insonni.
Aveva proprio un aspetto di merda. Avevi notato che gli occhi era-
no un bizzarro guazzabuglio di colori: un violetto slavato sgomitava
per farsi spazio in mezzo a un azzurro lattescente, screziato qua e là
da un castano caliginoso, più chiaro. Ianthe sedeva veramente trop-
po vicino a te e si era accomodata sulla sedia in una strana posizio-
ne, con le spalle sghembe. Era anche dotata di due braccia, uno in
più rispetto all’ultima volta che l’avevi vista. Nulla di tutto ciò ti tan-
geva particolarmente.
Quello che ti tangeva, invece, era l’espressione con cui la Princi-
pessa di Ida – la chioma pallida, tutta statura e gomiti, occhi cerchiati
d’ombre crepuscolari – ti stava osservando, un’espressione che facevi
fatica a ricordare di averle mai visto stampata in faccia. Ianthe era af-
fezionata alle pose e agli atteggiamenti languidi; esibiva un tedio ab-
bondante e artificioso, o sfavillava di una lieve malizia, a volte dava
persino mostra di autoironia e di un indolente senso dell’umorismo;
ma ora ti stava guardando con un’aria un po’ famelica, profondamen-

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te insolita per lei. Ti sorrideva con un’indulgenza franca e fin troppo


confidenziale, spaventandoti. Ianthe sembrava accesa dall’interno.
«Buongiorno, compagna» disse. «Mia alleata, collega. I tuoi oc-
chi mi piacciono davvero, Harrowhark, sono come petali in una
stanza buia. E persino io sono costretta ad ammettere che hai del-
le ciglia deliziose. Puoi smetterla di metterti quella federa quando ti
pare, ho già visto la tua faccia, e quel che posso dirti è che i tuoi ge-
nitori dovevano essere dei triangoli rettangoli, tutti e due. Dobbia-
mo fare del nostro meglio con quel che abbiamo… disse il mago cor-
poreo al lebbroso.»
Un sussulto aveva scosso la tua anima. Un calore livido ti stava ri-
salendo su per il collo. Con uno sforzo titanico, eri riuscita a non na-
sconderti il viso tra le mani, a sistemarti la federa che usavi come ma-
schera. La percezione Littoria ti aveva impigrita. Ianthe Tridentarius
era un buco nero in cui non si rilevava battito cardiaco né si scorge-
vano i crepitii del cervello. Ma il cervello, dovevi ammettere con un
certo risentimento, esisteva. Sul cuore la questione era ancora dibat-
tuta. Ti guardava in faccia – osservando, molto probabilmente, il ri-
flesso della sua stessa morte nella tua espressione – mentre cercava
qualcosa nella veste. Il palmo della tua mano le schiaffeggiò la fronte
con un sonoro twack. Non riuscivi a percepirla: per te era una porta
chiusa in una stanza buia; ma toccandola eri riuscita a sentire le ossa
orbitali che avresti potuto strapparle dalla faccia.
«Prima che tu possa fare qualcosa che, te lo posso assicurare, fini-
resti per rimpiangere» aveva detto l’altra Littrice, che non si era mos-
sa – non si era ritratta di fronte alla minaccia del tuo palmo a parte,
forse, un rapido battito di ciglia su quegli occhi eterogenei – «ho un
messaggio per te.»
La mano era riemersa lentamente dalla veste. Non eri ancora sod-
disfatta, ma (il sangue ti ululava nelle orecchie; ti sembrava di aver
udito dei passi, ma poi si erano trasformati in voci e di nuovo in pas-
si) Ianthe stringeva tra le dita un foglio di velina con sopra il nome di
HARROWHARK, chiaro e tondo. Il nome “Harrowhark” era scritto con
la tua calligrafia. Sotto, a caratteri più piccoli sempre con la tua cal-
ligrafia, c’era: DA CONSEGNARE A HARROWHARK NELL’ISTANTE IN CUI
RIACQUISTERÀ LA LUCIDITÀ.
Avevi guardato la lettera. Avevi guardato Ianthe. Persino in quel

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breve intervallo, il campo di battaglia dei suoi occhi era mutato. Sot-
to al palmo della tua mano, un’iride era ormai di quel violetto slava-
to, come un livido sbiadito o un fiore morente; l’altro era una mesco-
lanza di azzurro e castano. Quella massa lucente di eterocromie era
puntata su di te, assolutamente calma e sicura.
«Avrei apprezzato una spiegazione su quel che intendevi con “lu-
cidità”» si era lamentata. «Intendevi lucida nel senso di “Riconosco
gli oggetti e i loro nomi”? Intendevi lucida nel senso di “Non sono
più fuori come un balcone”, il che implica che tu non sia ancora ido-
nea? Non c’era verso che ti venissi vicino quando hai aperto gli occhi
per la prima volta. Le tue uniche modalità operative erano supervo-
mito e omicidio.»
«Dimmi come ne sei entrata in possesso» avevi gracchiato.
«Me l’hai cacciata in mano tu, pasticcino scheletrico che non sei
altro» aveva risposto lei rassicurante. «Forza. Prendila. È per te.»
Le avevi scostato la mano dalla fronte e l’avevi presa. Temevi fol-
lemente che ti avrebbero tremato le dita e che non avresti trovato il
modo di farle smettere. Sotto la potente luce bianca delle cabine ospe-
daliere, non riuscivi a scorgere alcun errore o artificio nella scrittu-
ra: era la tua, non si trattava di un falso eccezionalmente ben fatto.
Era scritto con il tuo sangue. Quando avevi toccato la superficie li-
scia, un sottoprodotto del plex, eri riuscita a vedere con l’occhio del-
la mente la punta del pennino, il morso delicato del metallo sull’in-
terno del tuo labbro.
Aprire la velina e appiattirtela sulle ginocchia era stato l’ultimo
grumo che si staccava dall’osso bollito. La lettera era scritta seguen-
do un cifrario della Nona Casa; il tuo codice cifrato, basato su quello
dei tuoi genitori e sviluppato quando avevi sette anni. Era incompren-
sibile per chiunque non disponesse del tuo rosario, del Maresciallo
Crux e di un centinaio d’anni da buttar via.
Avevi letto:

ALL’ATTENZIONE DI SUA SIGNORIA LA REVE-


RENDA HARROWHARK NONAGESIMUS, ANCHE
CONOSCIUTA A SUA DISCREZIONE COME REVE-
RENDA FIGLIA, ORA HARROWHARK LA PRIMA,
SCRIVENTE, ORA DEFUNTA.

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«Ti lascio sola un attimo» aveva detto Ianthe. Si era alzata in pie-
di e si era spostata vicino alla finestra, immersa nella luce della stel-
la più vicina.

* * *

ALL’ATTENZIONE DI SUA SIGNORIA LA REVE-


RENDA HARROWHARK NONAGESIMUS, ANCHE
CONOSCIUTA A SUA DISCREZIONE COME REVE-
RENDA FIGLIA, ORA HARROWHARK LA PRIMA,
SCRIVENTE, ORA DEFUNTA.

LETTERA #2 DI #24. DA LEGGERSI NON APPENA


RIACQUISTATA LA LUCIDITÀ.

Harrowhark…
Mentre ti scrivo, sono passate quarantotto ore dalla tua trasfor-
mazione in Littrice alla Casa di Canaan. Quando leggerai que-
sta mia, non ne ricorderai la stesura, perché l’Harrowhark che
l’ha scritta sarà ormai morta e scomparsa. La sua resurrezione
rappresenterebbe un fallimento e dev’essere evitata a ogni costo.
Questa lettera non può rispondere alle tue domande. Mi rife-
rirò a ciò che ho fatto con il termine di lavoro, e conoscerne la
natura implicherebbe per te un danno cospicuo. Ti fornirò in-
vece delle regole su come vivere il resto della tua vita. Visto che
la tua vita, ora, si estenderà auspicabilmente nelle miriadi a
venire, è di primaria importanza che tu non ceda alla tenta-
zione di disconoscerle. Sei la garanzia vivente delle promesse
che ho pronunciato. Infrangi la mia fiducia e, dai confini della
mia distruzione, imprimerò il marchio dell’eresia sul tuo Sepol-
cro, recidendo ogni legame con quel che giace sull’altare gelido,
dormiente e morto; rimuovendoti dall’adorazione dello stesso
e da ogni promessa di partecipazione alla di lei resurrezione.

REGOLA #1: RESTA VIVA.


Non puoi porre fine alla tua vita per mezzo del suicidio. Non
puoi porre fine alla tua vita per incuria. Una morte acciden-

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tale dev’essere evitata a ogni costo e mai accettata come risul-


tato finale. Il lavoro si fonda sulla tua permanenza.

REGOLA #2: NON DOVRAI MAI FARE RITORNO


ALLA NONA CASA.
La via di casa è sbarrata, per te. Non mettere mai più piede
nella Nona Casa. Non permettere che ti ci portino con la forza.

REGOLA #3: LA SPADA DOVRÀ RESTARE SEM-


PRE CON TE.
Strofinala ogni sera con il tuo sangue arterioso. Ricopri la lama
di cenere rigenerante. Non lasciare che la lama nuda incida
la carne. Non lasciare che la lama nuda incida l’osso. Persino
questo potrebbe non rivelarsi sufficiente. Tratta la spada come
se fosse la promessa della tua morte, e comportati in ottempe-
ranza alla prima regola.

REGOLA #4: SEI COMPROMESSA.


Forse lo sospetti già, se non sei più stolta di quanto io già non
ti ritenga. Confermerò il tuo accesso al pozzo Littorio. Questa
batteria dipenderà, in tutta probabilità, dall’entità delle tue ca-
pacità. Compensa con lo studio le tue inevitabili carenze. La
tua padronanza della magia corporea e spirituale è esecrabile,
quindi comincia da lì. Non prefiggerti di accrescere solo quel-
lo che conosci già. Mi addolora ammetterlo, ma non sai una
mazza di niente. Mi rifiuto di lasciarti costruire la tua casa su
fondamenta sabbiose così instabili e illusorie.

REGOLA #5: DEVI A IANTHE TRIDENTARIUS IL


FAVORE DELLA CATENA.
Sarà difficile da giustificare. Di conseguenza, non fornirò alcu-
na giustificazione. Tridentarius ha reso possibile ciò che è ac-
caduto. Ho un debito nei suoi confronti che tu, senza dubbio,
passerai il resto della vita a ripagare. L’accordo non termina
con la tua morte. L’accordo si estende alla Casa, ma NON al
Sepolcro. L’accordo è circoscritto ma deve avere la preceden-
za su ogni altro debito che hai giurato di onorare e stretto con

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chiunque sia meno importante del Sacro Cadavere, in aggiun-


ta all’Imperatore delle Nove Case. Per evitare dispute filosofi-
che, lei si aspetterà che tu le ri-presti giuramento appena rice-
verai questa lettera, e ogni inottemperanza demolirà l’intero
affare. Non cincischiare.
Non c’è bisogno di puntualizzare che Ianthe ti distruggerà, se
ne avrà modo. Mi ha aiutato abilmente, ma a lei non è costa-
to niente e a te tutto. Mi sono assicurata che non comprendes-
se a pieno il lavoro così che non lo disfacesse per capriccio o per
sbaglio. Sei nelle sue mani. Non dubito che abuserà del suo po-
tere. Dal canto tuo, non hai mai avuto potere su nessuno, ma
ne hai abusato con violenza.

REGOLA #6: LEGGI LE ALTRE MISSIVE SOLO


QUANDO E SE SI MANIFESTERANNO I REQUISITI.
Ho lasciato ulteriori istruzioni in caso subentrino nuove cir-
costanze. Ianthe custodisce ventiquattro lettere simili a que-
sta e te ne consegnerà ventidue, compresa questa. Memoriz-
za i requisiti e porta le lettere sempre con te, pronta ad agire
nel momento esatto in cui ti sarà richiesto di leggerle. Segui le
istruzioni che contengono senza esitazione. Ripeto: in caso con-
trario, non leggerle.
A me: seguirà una piccola pausa dal regolamento, prima dell’ul-
timo punto. Penserai, giunta fin qui, che io ti abbia passato
una pessima mano con cui giocarti la partita. Ciò non mi la-
scia indifferente. Ciononostante, devi capire che ti sto invidian-
do più di quanto io abbia mai invidiato qualcuno e che consi-
dero la tua nascita una benedizione. Considerami come una
Harrowhark che, per la prima volta nelle nostre vite, è incap-
pata in una vera possibilità di scelta; l’unica scelta che mi sia
mai stata sottoposta in cui ho avuto la libertà di dire: “No”, e
la libertà di dire: “Sì”.
Devi accettare che, in questo frangente, io abbia scelto di dire:
“No”.

REGOLA #7: ESAMINA LA MANDIBOLA E LA LIN-


GUA DI IANTHE QUANDO FINIRAI DI LEGGERE.

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A causa del suo stato Littoriale, dovrai toccarla, fisicamente.


In nessun caso dovrai farle capire che gliele stai analizzando.
Fallo a ogni costo. Se sospetti che la mandibola o la lingua sia-
no state rimpiazzate, NON PRESTARE GIURAMENTO. Uc-
cidila, invece, all’istante.

Nella speranza di un futuro perdono,


Rimango,
HARROWHARK NONAGESIMUS

* * *

«Vieni qua» avevi detto, con meno fermezza di quanto avresti voluto.
Ianthe – ancora ammantata dalla sognante luce delle stelle – ti ave-
va obbedito immediatamente, con quel sorriso segreto e cospiratorio
che non accennava a svanire, come un ragno nascosto in una scarpa.
Si era accomodata di nuovo sulla sedia vicino al letto e avevi notato,
ancora, il suo braccio sinistro – lo prediligeva, come se il destro fos-
se un fardello troppo pesante.
Avevi spostato le gambe, facendole penzolare dalla brandina ospe-
daliera, e ti eri levata il lenzuolame dalla faccia, pur disprezzando la
tua nudità. Aveva sgranato gli occhi spaiati, appena un istante, quan-
do ti eri alzata in piedi parandoti di fronte a lei e, meditabonda – la
spada era un metro e ottanta di acciaio avvoltolato nelle coperte leg-
gere, ma ritenevi che, per ora, una piccola distanza fosse accettabi-
le – avevi preso il viso di Ianthe tra le mani. Avevi premuto i pollici
sulla carne tiepida che ricopriva la mandibola. Quando le avevi in-
clinato il capo verso l’alto, la tua pelle scoloriva accanto alla sua; la
sua pelle scoloriva accanto alla tua. Sotto alle unghie avevi un legge-
ro alone di sangue secco.
Ti eri sorpresa ad accartocciare la bocca e gli occhi, come di fron-
te alla luce o a un sapore amarognolo; non potevi farne a meno. Ma
lo spregevole piano d’azione era ovvio. Ti eri abbassata e – porca mi-
seria – l’avevi baciata in bocca.
Quello, perlomeno, non se l’era aspettato – e come avrebbe potu-
to, che cazzo – e la sua bocca si era irrigidita contro la tua, lascian-
doti il tempo per lavorare. Ianthe, per te, era un buco nero, il nulla,

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uno spazio vuoto, ultrairraggiato, illeggibile; ma una prossimità fisi-


ca ravvicinata ti permetteva di orientarti in quell’oscurità. Le tue dita
cercavano gli osteoidi. Le ossa nuove spiccavano sempre, il collagene
fresco, spugnoso e splendente di thalergia. Le pareti delle sue cellu-
le erano conformi all’osso vecchio. Quando le avevi toccato la punta
della lingua con la tua, si era lasciata scappare un suono minuscolo,
soffocato, un po’ ferito – forse stava cercando di chiamare aiuto –
ma, nonostante la muscolatura linguale non fosse la tua area di spe-
cializzazione, esplorando la carne avevi rilevato i segni dell’integrità
del forame osseo, era privo delle cicatrici che avrebbero indicato una
recente asportazione della lingua dalla bocca. Eri al sicuro.
Avevi staccato, finalmente, la tua bocca dalla sua. Ianthe era rima-
sta lì con le labbra leggermente dischiuse, le sopracciglia alzate, il viso
esangue privo di rossori virginali.
«Mi metto al servizio di Ianthe Tridentarius, Principessa di Ida, fi-
glia della Terza Casa» avevi proclamato. «Giuro nuovamente di ono-
rare ogni precedente accordo con lei stabilito. Giuro su mia madre;
sull’acqua salata; su ciò che giace morto ed esanime nel Sepolcro;
sull’anima ghermita e ricostruita di Ortus Nigenad.»
«Chi?» aveva commentato lei. «Oh, già, il paladino.»
Ianthe si era passata il polpastrello del pollice sulle labbra, poi si
era analizzata le dita. «Be’» aveva commentato a un certo punto, «mi
sembra un passo avanti rispetto a quando mi hai cucito la bocca, la
volta che… no, scusami, ho acconsentito a non addentrarmi in det-
tagli aneddotici.»
«Aspetta. Ti eri offerta per diventare una Lingua Recisa?»
«Tu non farmi domande e io non ti racconterò frottole» aveva ri-
battuto la Principessa di Ida, strofinandosi di nuovo il labbro inferio-
re col pollice, delicatamente. «Senti, dirò solo che per una Casa che si
occupa unicamente di ossa, avete degli aghi veramente enormi. Ac-
cetto nuovamente la tua profferta di fedeltà, Nona Casa, e posso solo
ipotizzare che tu abbia letto l’accordo, ormai.»
Ti eri riseduta sul letto, posando la mano sulla spada. La cosa pro-
dusse il consueto effetto: il tuo esofago venne scosso da un brividi-
no esausto, le ghiandole salivari sussultarono e la nausea ti risalì fin
dietro le palle degli occhi. «Hai cavato parecchio sangue da una rapa
molto piccola, si direbbe» avevi commentato.

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«Ti ho dato una cosa a cui tenevi immensamente, al tempo» aveva


risposto lei, dondolando con noncuranza una gamba e appollaiandosi
su un ginocchio. «Non ritengo di aver richiesto un prezzo così alto…
e nemmeno tu. In più, stiamo per imbarcarci in quella che promet-
te di diventare una splendida e sincera amicizia, in cui io sarò l’unico
elemento fertile nella brulla distesa di sale della tua esistenza, ecce-
tera eccetera, quindi ti sarei grata se non ti lanciassi nella sceneggia-
ta del “Povera me come sono sventurata”.»
Avevi compresso ancora più forte con le dita l’ampio piatto d’acciaio
della spada. Il rimbombo che sentivi nelle orecchie era un guazzabu-
glio di suoni e adrenalina, ti faceva male il cuore. «Il patto non con-
dona la mancanza di rispetto» avevi detto. «Non ti leccherò la suola
delle scarpe.» («Un descrittivismo superfluo» aveva rimarcato Ian-
the.) «Non tollererò l’insulto. Io sono la Reverenda Figlia. Io sono una
Littrice. Sono in debito con te… ma non sono qua per intrattenerti.»
«Con addosso quella roba no di sicuro» aveva risposto Ianthe, arric-
ciando il naso. «Sembri una mentina gigante. Tieni questo… e quest’al-
tro.» Questo – mentre Ianthe si allungava all’improvviso per prende-
re qualcosa da sotto la sedia, col braccio destro ancora stranamente
floscio – si dimostrò essere un grosso fagotto splendente. Te l’aveva
lanciato con noncuranza – e tu manco avevi provato ad afferrarlo al
volo – ed era atterrato sul letto in una meravigliosa pozzanghera. Era
una massa del medesimo materiale frivolo e impalpabile che in quel
momento avvolgeva Ianthe: un manto a tinte madreperlacee, le cui
pieghe e stazzonature erano scomparse appena l’avevi scrollato, ten-
tennando. Aveva il cappuccio. E delle maniche ampie. Non avevi bi-
sogno d’altro. Il colore non ti avrebbe donato, ma era immensamente
preferibile al camice turchese. Te l’eri cacciato addosso con una fret-
ta poco opportuna. Ti eri tirata il cappuccio sulla testa senza preoc-
cuparti di dissimulare un sospiro di sollievo. Eri coperta, braccia e
gambe comprese, e non senza una certa modestia; il resto della tua
faccia era in bella mostra.
Quest’altro si rivelò un plico ordinato di buste di velina, identiche
alla prima. La Harrowhark che le aveva indirizzate si era anche presa
la briga di scrivere delle etichette – oltre alla numerazione – in una
pulita calligrafia cifrata. Le avevi passate in rassegna per contarle e
non avevi potuto fare a meno di leggere le istruzioni. Alcune erano

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semplici e dirette. DA APRIRE SE L’IMPERATORE MUORE. DA APRIRE SE


IANTHE MUORE. DA APRIRE SE LA NONA CASA SI TROVERÀ IN PERICO-
LO MORTALE. L’enigmaticità di alcune rasentava la follia. DA APRIRE
SE I TUOI OCCHI CAMBIANO. NEL CASO LA INCONTRASSI, DA CONSE-
GNARE A CAMILLA HECT.
Confusa, ti eri chiesta se avessi mai saputo il cognome di Camilla la
Sesta, una donna con cui non riuscivi a ricordare di aver mai interagito.
«Sarò io a custodire le ultime due» aveva detto Ianthe, alzandosi
in piedi. Quand’era in piedi ti metteva sempre in difficoltà: somiglia-
va tantissimo al calco di cera scadente di una scultura molto più bel-
la. «Ti dirò sinceramente che ne ho una da aprire in caso tu muoia,
il che è uno spasso.»
Ti eri rimessa a scartabellare. Lo sguardo ti era caduto su: DA APRI-
RE SE INCONTRI CORONABETH TRIDENTARIUS. Questa differiva dalle al-
tre buste perché non era scritta in linguaggio cifrato. L’idea che Ianthe
avesse trascorso del tempo in compagnia del tuo cifrario non ti ral-
legrava e consideravi la tua versione passata estremamente ingenua.
Anche Ianthe l’aveva notata. «Quella l’hai scritta davanti a me» aveva
detto. «Posso riassumertene il contenuto… ora sei vincolata a me e,
per estensione, anche a Coronabeth e posso dirti a gratis che una delle
clausole specifica che tu non torca a mia sorella neanche un capello.»
«È probabile che tua sorella non sia più viva» avevi commentato,
non individuando controindicazioni.
Ianthe aveva buttato indietro la testa ed era scoppiata a ridere. «Co-
rona!» aveva esclamato, alla fine. «La mia adorata, piccola Corona è
troppo stupida per morire. Riemergerebbe dal Fiume nuotando a ro-
vescio, spergiurando di essere andata nella direzione giusta. Te lo dirò
io quando mia sorella sarà morta, grazie tante, Harrowhark… e quel
giorno non è ancora arrivato.»
Eri frastornata. Per certi versi, ti sentivi sollevata. Una parte di te
temeva che anche quello fosse soltanto un complesso e ulteriore ca-
pitolo dell’allucinazione; ti saresti svegliata di nuovo, presto, ritro-
vandoti in un mondo in cui non eri partecipe del tuo stesso grande
disegno – un piano che mal tolleravi, come non tolleravi un qualsia-
si ordine perentorio e ogni tentativo di nasconderti le cose, ma era
un piano che esisteva, nonostante tutto. Se l’alternativa era la pazzia,
avresti seguito pure un precetto cieco.

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«Se non ti scoccia, ora vorrei rimanere da sola» avevi detto. «Ho
parecchio su cui riflettere.»
Ianthe aveva esclamato: «Che formulazione cortese!».
Si era tirata su le gonne e ti aveva rivolto un inchino: un movimen-
to splendido e naturale, le falde prismatiche strette tra le dita, ma che
trasmetteva anche derisione, in un certo senso. Quando aveva solle-
vato lo sguardo verso di te, i suoi occhi erano cambiati ancora. Erano
entrambi di quel lavanda stinto, ma screziati di castano chiaro, come
una costellazione di microscopiche pupille.
«Fai con comodo» ti aveva detto. «Ero convinta che il tempo fos-
se l’ultima delle nostre risorse, in questo momento… ma chi sono io
per giudicare il Re Imperituro, il Dio delle Nove Case?»
Le avevi risposto, perché ancora una volta non trovavi una ragio-
ne per non farlo: «Avresti dovuto disciplinare meglio Tern, se conti-
nua a combatterti così».
Ianthe ci aveva riflettuto. Dopo aver scostato l’elaborata elsa a cesto
dello stocco che portava al fianco, aveva sfoderato un lungo coltello
che, ancora una volta, ti aveva provocato una scarica di dolore incan-
descente giù per il lobo frontale. Era – anche se non ti eri mai presa la
briga di accertartene – l’arma secondaria di Tern, il suo pugnale tri-
partito, una lunga lama da cui ne fuoriuscivano altre due, dopo aver
pigiato chissà quale meccanismo nascosto; e in quel momento Ianthe
aveva attivato quel meccanismo e con uno snickt erano scattate come
un fuoco d’artificio due punte affilate di acciaio splendente. Pigiò di
nuovo e le lame rifecero snickt per tornare nel loro alloggiamento.
Ti piazzò davanti il palmo della mano, aperto. Senza un attimo di
esitazione, o cenno di dolore, o particolare trasporto, si trapassò la
carne del palmo col pugnale. Doveva aver provocato danni immen-
si – ai muscoli flessori, al nido delle ossa carpali – e gocce di sangue
color rubino le imbrattarono le maniche della veste lucente.
Quando lo estrasse, la ferita si ricucì come se nulla fosse. Lo tirò
fuori e basta, e la pelle si richiuse – la carne si ricompattò, elastica –
e il buco si riempì sfrigolando, lasciandole il palmo integro e intatto,
a parte alcune gocce di un rosso carminio. Le scrollò via e sparirono
polverizzandosi. L’avevi guardata e, per la prima volta, Ianthe brillava
avvolta dalla thanergia, come una brace che splende, rossa di calore.
«Tira fuori la mano» ti aveva ordinato.

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Avevi obbedito, sapendo anche troppo bene cosa sarebbe succes-


so – l’avevi fatto senza esitare, visto che nemmeno lei aveva esitato.
Ianthe ti aveva tenuto fermo il polso, con delicatezza, valutando l’an-
golazione, e poi la lama aveva infilzato il suo bersaglio.
Ogni fibra del tuo corpo si era ricalibrata per impedirti di vomitare.
La lama affilata come un rasoio aveva reciso i tendini esili del tuo pal-
mo; l’acciaio riverberava contro un metacarpo – e i frammenti erano
stati proiettati nel tessuto muscolare – mentre il sangue ti annaffia-
va promiscuo la faccia. Una vischiosità calda e salata sulle tue labbra,
sul naso, sulla guancia destra. Avevi rovesciato gli occhi, in un’estasi
di sofferenza. Il mondo ondeggiava. Avevi visto il Corpo, appoggia-
to contro la parete di fondo, le mani giunte come in preghiera; ave-
vi guardato la lama, seppellita nelle profondità della tua mano e poi
avevi guardato Ianthe e, per un istante, avevi sospettato che stesse per
attivare il meccanismo per squarciarti la mano fino in fondo – per ri-
durti il palmo in macerie fumanti di trucidume e muscoli, di bianco-
re di ossa – che entrambe sareste state punite, forse, per quel bacio,
e per qualcosa che non riuscivi nemmeno a ricordare di aver fatto.
Aveva estratto la lama. Anche quello era stato lancinante. Ora ca-
pivi l’obiettivo della lezione: per te non ci sarebbero stati ricucimenti.
La tua carne era rimasta lacerata e vulnerabile, nella tua mano c’era
un brutale foro cavernoso, la tua pelle era un miserabile casino rosso
e rosa di derma tagliuzzato. Con la mano libera ti eri afferrata il polso
che anche lei stava ancora stringendo; ci avevi riversato dentro un tor-
rente imbarazzante di thalergia, a fiotti roventi e sfacciati, scostando
particelle d’osso vaganti e ritessendo il muscolo in muscolo. Ti stava
costando fatica e concentrazione. Avevi rimpiazzato il sangue; fatto
crescere nuove estensioni splendenti di pelle; il tuo palmo era di nuo-
vo integro, i nervi urlavano, ancora scossi dalla memoria del dolore.
«Harrow» ti aveva detto Ianthe con dolcezza, «non prendermi per
il culo. Nemmeno io sono qua per intrattenerti.»
Ti aveva voltato le spalle e si era diretta verso la porta. Avevi la
bocca secca. Stavi cercando di riattivare la salivazione, ma temevi di
riempirtela di bile; ti sentivi la testa leggera. Eri riuscita a stabilizzarti
a sufficienza da dire: «Il tuo paladino è un argomento tabù, quindi?».
Aveva bloccato la mano a mezz’aria davanti alla pulsantiera dell’au-
toporta, ferma davanti all’arazzo che ritraeva la Prima Casa ricama-

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ta in filo bianco. «Babs?» aveva risposto. «Non me ne frega niente di


Babs… ma non insinuare mai più che mia sorella sia morta, nient’altro.»
Aveva toccato il pannello accanto alla porta e varcato la soglia. La
porta si era richiusa alle sue spalle, lasciandoti sola. Avevi del sangue
sulla faccia e sulla veste, all’altezza delle ginocchia. Dopo un istan-
te l’avevi scrollata per ripulirla, come aveva fatto lei, asciugando il
sangue e riducendolo a pulviscolo. Eri debole. Ti eri avvicinata bar-
collando al Corpo, era silenziosa e ferma accanto al muro, e le ave-
vi seppellito la faccia contro le cosce. La prossimità fredda e defunta
di lei si approssimava così tanto alla realtà da sintetizzarsi in auten-
tica consolazione.
Ti eri avvicinata abbastanza alle casse impilate accanto alla porta da
riuscire a constatare che erano state addossate alla parete alla meno
peggio, ed erano anche semiaperte. Ti eri rialzata, ondeggiando, e le
avevi spinte, innescando un domino di plex tintinnante.
Dietro alle scatole c’erano centinaia di frammenti spessi di unghie,
come le corna spezzate di chissà quale animale bizzarro, sparpaglia-
ti sul pavimento e conficcati nel muro. Alcuni erano marroncini, in-
trisi di sangue secco. Lunghi proiettili seghettati di cheratina erano
piantati a fondo, qua e là, nella pannellatura. Eri tornata strisciando
alla brandina e il Corpo ti aveva fatto coricare sulle lenzuola, ti aveva
sistemato fra le braccia quella spada odiosa e aveva aggiunto le lette-
re alla pila, autorizzandoti poi a perdere conoscenza.

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Fu la luce a colpirla per prima. Filtrava dagli oblò di
plex con la radiosità della lava: una luce bianca e umida che la faceva
sudare, appiccicandole la camiciola alle costole. Negli angusti confini
neri della navetta, la luce occupava l’intero spazio con la sua presen-
za irradiante e corneale; e Harrowhark strillò, come se la luce la stes-
se uccidendo, ritrovandosi poi terribilmente sconcertata e a disagio.
«Vi prego» stava dicendo una voce. «Vi prego, Harrowhark, mia
Signora. Dovete… dovete placarvi. Cosa posso fare per voi? Cosa
devo fare?»
Ortus era quasi più grosso della luce e riempiva l’alloggiamento di
acciaio nero del vano passeggeri come faceva la radiosità. Harrow si
rese conto, ribollendo, che la sua era l’espressione di un uomo che la
considerava una fonte di imbarazzo. Negli anni, in un punto impre-
cisato del passato, era giunta alla conclusione che Ortus Nigenad, un
perfetto paladino moderno della Nona – la testa perfettamente rasa-
ta, le pitture perfettamente appropriate, una solennità perfettamente
cupa, la corporatura perfetta di due credenze inchiodate insieme, la
perfetta abilità di trasportare sei chili di ossa – la considerava un’en-
tità un po’ da compatire. Quanto in realtà dovesse compatirla, Ortus
non poteva nemmeno concepirlo.
«Ti sto forse rivolgendo il cenno?» riuscì a dirgli. «Hai visto il se-
gnale? No? Allora ci tengo a rammentarti che non c’è nient’altro che
ti riguardi, e spero di non dovertelo ricordare una seconda volta.»
Non stava sudando quanto lei, ma le ciglia erano bagnate per la luce.
«Come ritenete più opportuno, mia Signora» disse lui. Non portava
lo stocco al fianco, allacciato alla cintura. Se lo teneva sulle ginocchia,

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come se fosse il neonato di qualcun altro. Harrow provò una flebile


contentezza nel constatare che al braccio secondario avrebbe porta-
to la sua gerla, nonostante Aiglamene avesse avversato così violente-
mente l’idea; le sembrava appropriato. Desiderava da sempre un aiu-
tante, non un artista circense.
«Dove siamo?» aggiunse Harrow in un altro scatto improvviso di
nervosismo. «Ho pensato… forse…»
«Dovremmo trovarci a quattromila chilometri dalla superficie, or-
mai» fece lui, fraintendendo la sua domanda. «Stanno verificando i no-
stri permessi per l’atterraggio. Confido che lasceremo presto l’orbita.»
Harrowhark si alzò dal pacchetto di terriccio della Casa su cui era
seduta – e che a quel punto, ormai, non conservava che una flebi-
le traccia di thanergia – e si spostò verso la fonte della luce. All’ulti-
mo momento ricordò cosa si era portata e tirò fuori uno scampolo di
velo spesso dalle sue vesti sacramentali. Se lo legò attorno al capo e si
tirò su il cappuccio, che odorava ancora dei sali con cui Crux l’ave­va
riposto nel bagaglio: quell’odore erbaceo e acre di casa sua, così fa-
miliare da farle ancora bruciare gli occhi. Poi guardò fuori dal fine-
strino di plexiform.
Dallo spazio, la Prima Casa somigliava a uno scrigno di gioielli ro-
vesciato. Incorniciata dal bianco, con i suoi blu profondi, brillanti e
ossidati, un pianeta liquido, abbastanza vicino al vortice impetuoso
di Dominicus da impedire all’acqua di congelare, ma non così vici-
no dal farla evaporare. Un oceano inconsistente e in perenne muta-
mento, fin dove l’occhio arrossato poteva vedere. Il suo sguardo irri-
tato si posò su un piccolo agglomerato di quadrati, disposti attorno
a una macchia grigiastra centrale.
Tornò a voltarsi verso il suo posto e si sorprese a commentare, in-
quieta: «Di tanto in tanto me lo dimentico, ora… forse credevo che
fosse un sogno».
«Lo trovo perfettamente normale, mia Signora» disse Ortus. «Pen-
savate che avrei trovato sorprendente – forse non mi sbaglio a pre-
sumerlo – la vostra condizione di… quell’infermità che…» Quando
lei lo squadrò, Ortus parve trovare di punto in bianco troppo sover-
chianti il clangore e i tonfi prodotti dai meccanismi della navetta ed
ebbe inizio la sua tradizionale procedura di spegnimento. «La vo-
stra… cosiddetta… fragilità.»

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HARROW LA NONA  /  73

«Nigenad, con parole tue.»


«La pazzia» disse il suo compagno. Lei rilassò impercettibilmen-
te le spalle. Lui scambiò il suo crescente sollievo per un’emozione
che, avrebbe dovuto già saperlo, lei non provava mai. Ortus prose-
guì, distratto: «L’unico aspetto sorprendente è che si esprima in que-
sto modo, invece che… No, non ne sono sorpreso, Lady Harrowhark.
Forse avrete ancora la maniera di ricavarne un’utilità».
«Un’utilità.»
Ortus si schiarì la gola. Quello sì che le suscitò numerose emozio-
ni – Ortus Nigenad si schiariva la gola con la solennità di una spa-
da estratta dal fodero, delle nocche che ticchettano nella tasca di un
necromante del Sepolcro Sigillato – ma era troppo tardi, stava già
declamando:

«E la tragica frenesia dell’osso allor di Nonius si impossessò,


della Nona il più possente braccio, di essa il baluardo;

Brama di sangue a pulsargli nelle vene; il gran cuore


ruggente come nera fonderia, affamato di cadaveri…».

«Ah» fece Harrowhark. «Sì. Libro Sedicesimo.» E, subito dopo:


«Personalmente, temo che “frenesia dell’osso” potrebbe dimostrarsi
un’espressione soggetta a grossolani fraintendimenti».
Morire per spada sarebbe stato meglio, e ancora meglio sarebbe
stato morire per nocca. C’era solo una cosa capace di far scapocciare
– comprensibilmente – Ortus Nigenad. Non era un tasto da preme-
re alla leggera, e lei se n’era scordata. Ortus ribatté che nessun letto-
re della Noniade avrebbe potuto essere il genere di zoticone capace
di fraintendere una locuzione semplice ed evocativa come “frenesia
dell’osso”; proseguì con l’ipotizzare che una persona di quella risma
probabilmente non leggeva affatto e sarebbe stata molto più propen-
sa a intrattenersi con opuscoletti o riviste pruriginose e non si sareb-
be di certo sobbarcata un’epica complessa del calibro della Noniade;
e disse che, in ogni caso, non avrebbe mai voluto che una persona del
genere leggesse i suoi versi.
«Perlomeno ora dispongo del tempo necessario a concluderla»
aggiunse un po’ bisbetico, ma all’apparenza confortato dal pensiero.

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La dichiarazione la stupì solo per la schiettezza della formulazio-


ne. Non esternò i suoi pensieri: anche se Ortus avesse avuto ragione
– anche se l’ultima cosa che Harrow desiderava era che Ortus la in-
tralciasse mentre studiava i sentieri che l’avrebbero portata al Litto-
rato, per diventare un dito e un gesto, per imboccare l’unico percor-
so divino che mai le era stato offerto per salvare la sua Casa da una
distruzione da lei stessa inflittale – non era necessario che lo dichia-
rasse. Sperava che non la finisse mai. Sperava che non avrebbe mai
avuto abbastanza tempo o spazio. Harrowhark aveva sempre pensa-
to che Matthias Nonius, leggendario paladino della sua Casa, fosse
un coglione patentato.
«Harrowhark» disse il suo paladino, «vorrei farvi una domanda.»
Il suo tono non era più timoroso; il suo umore era mutato, stabi-
lizzandosi sulla sua tipica tristezza trattenuta – anche se a lei venne
in mente che, forse, contenesse qualcos’altro. Harrow fece una pau-
sa per studiare il suo viso. Ortus avrebbe rappresentato un rimedio
pacificante, nel caso la nostalgia di casa fosse diventata troppo acu-
ta. I suoi erano classici occhi Nonari: una sfumatura incolore molto
vicina al nero totale, definiti con nettezza attorno all’iride, molto si-
mili ai suoi.
Ortus disse, con una certa irrequietezza: «Come credete che sia,
essere un Littore? Pensate che in loro esista un nucleo tragico, la loro
immensa età, il loro essere senza tempo?».
Si ritrovò di nuovo spiazzata. «Nigenad, che tragedia può mai es-
serci nel campare per una miriade intera? Diecimila anni per impa-
rare tutto quello che c’è da sapere – per leggere tutto quello che mai
è stato scritto… per studiare senza il timore di una fine prematura o
di una resa dei conti. Che tragedia può mai esserci nel tempo?»
«Il tempo può renderci impotenti fino all’insensatezza» senten-
ziò Ortus inaspettatamente. Abbassò di nuovo lo sguardo, e aggiun-
se: «Non mi aspetterei che voi possiate essere schiacciata dal peso di
questa specifica consapevolezza, Reverenda Figlia».
Avrebbe benissimo potuto dirle: “Sei una mocciosa di diciassette
anni, io sono un adulto di trentacinque”. Harrow rimpianse, non per
la prima volta, di non aver corso il rischio di portarsi Aiglamene. For-
se presentarsi alla Prima Casa con un’ottuagenaria al seguito avrebbe
potuto comunicare qualcosa: una specie di feroce e tronfio vaffancu-

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lo – “Oh, i vostri paladini sono giovani? E combattono? Che origina-


lità! Davvero puerile!” – ma un vaffanculo così feroce e tronfio non
sarebbe mai potuto appartenere alla Nona. L’indole della Nona Casa,
le toccava ammetterlo, era sempre stata piuttosto carente sul fronte
dei vaffanculi tronfi e feroci.
«Nigenad» gli disse, «io sono quello che sono, e ho diciassette anni.
Posso però garantirti che contengo moltitudini.»
«Ne sono ben conscio, mia Signora» replicò Ortus.
Il che era una risposta assolutamente appropriata da parte sua. A
Harrow, però, non piacque il tono che aveva utilizzato. «Ci stanno
mettendo troppo ad autorizzarci» fece lei. Si alzò in piedi e andò ad
abbassare, stizzita, la barriera di plexiform che li separava dall’abi­
tacolo vuoto. Stava per pigiare il pulsante delle comunicazioni per
domandare al pilota quale fosse l’intoppo e quali spiegazioni inten-
deva fornirle; ma vide qualcosa che o non aveva notato prima o era
apparso all’improvviso su uno dei sedili imbottiti. Era un pezzetto di
velina. Lo prese e si ritirò nella luce inclemente del vano passeggeri.
Si rigirò la velina fra le mani, percependo lo sguardo di Ortus pun-
tato su di lei. Era completamente coperta da tratti in un minuto in-
chiostro blu, vergati con tanta forza che il punto terminale di ogni
lettera aveva scavato dei buchi nella superficie. Recitava:

LE UOVA CHE MI HAI DATO SONO TUTTE MORTE


E MI HAI MENTITO

La porse al suo paladino. Ora la navetta sembrava immersa nel si-


lenzio. Nessun meccanismo che cigolava; nessuna tubatura che gor-
gogliava. La luce era molto bianca e immobile e non ne percepiva più
il movimento. Lui esaminò il pezzo di velina, prima davanti e poi gi-
randolo per analizzarne il retro. Si schiarì la gola – Harrowhark si
sorprese a sobbalzare e per poco non si flagellò – e le disse: «Non c’è
scritto niente, mia Signora».
«Cazzo» commentò Harrow.

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6
Al risveglio ti eri ritrovata già seduta. Avevi il
mento abbassato verso il petto, ricavando un’emozionante visua-
le del tuo grembo. Non eri più nel tuo letto e il pavimento e la fascia
più bassa delle pareti sfrecciavano sfumate in uno strascichio di pie-
tra nera, ossa e acciaio.
Il tuo campo visivo ondeggiava. Ti fu immediatamente chiaro che
non potevi muoverti. La parte clinica del tuo cervello riguadagnò pro-
minenza mentre la sua parte materica recalcitrava, correva in giro e
abbaiava come la bestia indisciplinata che era. Il tuo cervello clinico
soppesò la situazione e si rese conto che eri seduta su una specie di
sedia a rotelle spinta da qualcuno giù per un corridoio della Erebos,
e che qualcun altro ti aveva pizzicato un nervo cervicale superiore,
agganciandolo alla colonna vertebrale – senza deformare per nulla
l’osso, ma limitandosi a manipolare il tessuto – in modo da escluderti
dal collo in giù dal resto del tuo corpo. Non potevi sollevare il capo.
Potevi sbattere le palpebre, respirare a sufficienza e deglutire mala-
mente. Tutto il resto era di marmo. Una stupefacente dimostrazione
di necromanzia. Provavi una sacrosanta indignazione, ma l’atto in sé
ti riempiva di meraviglia.
Indossavi ancora il tuo splendido manto madreperlaceo, con la te-
sta seppellita nelle profondità del cappuccio. Ascoltavi il denso fruscio
cartaceo delle ventidue lettere segrete che tenevi nascoste nei vestiti.
Ti avevano appoggiato la spada sulle ginocchia; una ragnatela densa e
grassa collegava l’elsa al tuo avambraccio, una ragnatela che non ave-
vi memoria di aver creato ma che, a giudicare dall’intreccio, non po-
teva che essere opera tua. Forse ti eri svegliata, prima, per cacciarti

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le lettere nella sottoveste e per assicurarti la lama al braccio; non te


lo ricordavi, ma quello non era affatto insolito. A volte le tue giorna-
te coscienti erano sequenze sognanti di movimenti, funzioni, suoni.
Nella ragnatela non c’era massa muscolare, ma una struttura ossea a
nido d’ape che collegava l’avambraccio all’impugnatura della spada.
Nessuno sarebbe riuscito a staccartela tanto in fretta. Era come se ti
avessero tirata su di peso, caricata sulla sedia e disabilitata dal collo in
giù. Nutrivi la flebile speranza che la tua vescica non avesse evacuato.
La sedia si era fermata. C’erano delle voci. Ti eri concentrata con
veemenza su quello che avevano combinato alla tua nuca, di qualsiasi
cosa si trattasse, visualizzando il tuo vecchio amico – il dente odon-
toideo che sporgeva da un altro vecchio amico, l’epistrofeo – i brac-
ciali che circondavano le arterie vertebrali, l’intrico dei legamenti epi-
fisari. Se si fosse semplicemente trattato di un lavoro osseo, saresti
riuscita a identificare il trucco all’istante, e sbrogliarlo di conseguen-
za. Le voci si stavano sovrapponendo…
«… verrà autorizzata istantaneamente, Santa delle Sante, non ap-
pena il Principe Consacrato avrà terminato l’udienza con…»
E di fronte a te: «La riunione! La riunione!!!». È sempre difficile ar-
ticolare dei punti esclamativi aggiuntivi, ma la nuova voce ce la sta-
va facendo. «Credi davvero che io abbia tempo per… per… per star
qua un’altra ora mentre tre generali e il tuo Resurrettore, il Dio dei
Re Defunti, provano a fissare un’altra riunione dopo la prima a cui ha
già presenziato? Credi davvero che io sia venuta fin qua per star die-
tro a tre assistenti personali, sei agende e a Dio in persona che cam-
bia idea per la diciannovesima volta???»
Tutto questo era arrivato da dietro di te, e da sopra. Questa voce,
con ogni probabilità, apparteneva alla persona che stava spingendo
la tua sedia.
«Perdonatemi, Mano Santa» aveva detto un’altra voce. «L’ordine
di non toccarla è stato emesso da lui. Nessun margine di manovra;
nessuna postilla.»
La prima voce aveva ribattuto: «Non ci sono state rimostranze
quando ho ordinato la navetta. E nemmeno per i miei preparativi».
«L’ordine concernente Harrowhark Nonagesimus è stato diffuso
specificamente da lui, o Santo Dito, Santo Pollice.»
La voce sopra a Harrow aveva proseguito: «E così, all’improvviso,

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il mio ordine non è più l’ordine di Dio stesso? Non sono più una Lit-
trice della Grande Resurrezione, la seconda santa al servizio del Re
Imperituro? Ho perso il posto che mi spetta tra i Quattro – o, come
scopro ora, inorridendo – i Tre? Non sono forse l’ultima sorella a
servizio in un ossario di sorelle defunte, che hanno tutte sacrificato
le loro lunghe e diligenti vite affinché i vostri marmocchi bercianti e
i figli impestati dei figli dei loro figli potessero crogiolarsi nella luce
di Dominicus?».
L’altra voce si era interrotta. «No» aveva risposto. Ma poi, con una
punta di stoica meschinità, aveva aggiunto: «Eccellentissima Santa
della Gioia, perdonatemi, devo comunque domandarvi di attendere
la conclusione della riunione».
Ne era seguito un sospiro esplosivo. «Va tutto bene» aveva det-
to la voce, assolutamente pacata. «Va tutto bene, Luogotenente, ca-
pisco. Hai solo incontrato questa ragazzina e quell’altra ragazzina.
Non hai mai conosciuto un Littore. Non puoi capirlo… anche tro-
vandoti in sua presenza, comprendere fino in fondo è tutta un’altra
faccenda…»
La voce si smorzò e la persona che stazionava dietro alla tua sedia
si avvicinò alla persona che avevi di fronte. Quello che sarebbe acca-
duto dopo avrebbe flebilmente acceso il tuo interesse – non per al-
tro, ma non eri abituata a disporre di un posto in prima fila. Davanti
a te c’era una persona normale – l’altra era un buco nero, e ora sa-
pevi perché – dotata di due reni. Un improvviso uno-due di thaler-
gia emerse dal nulla, per quel che potevano saperne i tuoi sensi – no,
non erano pugni: era una specie di stilettata, una freccia di una pre-
cisione indicibile, una siringa – e ciascun rene si ritrovò imbottito
di angiotensine. Un affondo perfetto. La pressione sanguigna crol-
lò. Un corpo si unì alle scarpe e agli orli dei pantaloni di fronte a te
mentre l’ufficiale sveniva. La sedia ripartì, circumnavigando quell’or-
dinato fagotto umano.
La voce dietro la sedia stava borbottando:
«Che orrore… ignobile, davvero! Il personale della Erebos non ha
mai un briciolo di buonsenso… gliel’ho detto e ridetto che bisogna
sostituirli a ogni decade… che incubo, proprio. La mia presenza do-
vrebbe produrre il medesimo effetto di un allarme antincendio… io
non voglio aspettare… io non la voglio una tazza di tè. Non sto di cer-

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to pretendendo la sottomissione feudale; sto solo chiedendo un po’


di comprensione!».
Quell’esplosione ad altissimo volume ti avrebbe dovuto far sobbal-
zare, se solo la tua spina dorsale fosse stata collegata. La sedia si fer-
mò di fronte a un ascensore; le porte scure si aprirono con un sibilo,
rivelando il rivestimento iridescente e i sostegni della cabina. La se-
dia venne spinta là dentro. Tu eri impegnata a sistemare l’estremità
sfilacciata della tua radice dorsale – avevi dato per scontato che fos-
se stata recisa, sarebbe stata la soluzione più semplice. Ma ti eri ac-
corta, di punto in bianco, che invece era stata annodata. Occhiello,
gira, stringi.
La pulsantiera emise un basso cinguettio elettronico mentre qual-
cuno ci armeggiava. Un ammasso di tessuto ti sfilò accanto con un
fruscio – non riuscivi a percepire il contatto con il tuo corpo, ma sen-
tivi l’aria sulla guancia – e poi una persona si inginocchiò davanti alla
tua sedia. Una splendente nuvola traslucida di tessuto pallido entrò
nel tuo campo visivo, un candore screziato di sfumature d’arcobale-
no che mutava, cangiante, sotto la calda luce a tungsteno, come il ri-
flesso del vetro colorato sul ghiaccio. Era il medesimo materiale che
ora avvolgeva anche te. Poi, orrendamente, la tua visuale venne sol-
levata. Qualcuno ti aveva piantato un dito sotto al mento e te lo sta-
va tirando su, in modo che potessi vedere il suo viso.
Avevi squadrato la Littrice. La Littrice aveva squadrato te.
Il volto sotto a quel glaciale cappuccio multicolore era un cerimo-
nioso ovale virginale; per forma e caratteristiche, somigliava parec-
chio al viso di una santa in un dipinto, o in una maschera mortuaria.
Il naso, la mandibola e la fronte erano ben definiti e sereni, e dunque
trasmettevano il medesimo tedio indifferente di una statua di splen-
dida fattura. Per primi avevi notato i colori, sotto a quella luce incle-
mente e spiacevole: i capelli avevano la sfumatura dei fiori morti o
dell’albicocca, e anche la pelle, le labbra e le sopracciglia erano del-
la medesima tonalità. Sotto a quel cappuccio madreperlaceo, insom-
ma, la santa pareva un ritratto realizzato con una tavolozza molto li-
mitata; e gli occhi…
Avevi già visto gli occhi di un Littore. I Littori si tenevano la loro
faccia, ma rubavano gli occhi a qualcun altro. Tu eri stata fortuna-
ta, la tua transizione non si era rivelata così allarmante. Quel paio di

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occhi era di un castano soporifero e sabbioso, velato all’interno da


una nuvolaglia grigio-robbia, come un uragano rosso che investe un
mantello gassoso, come un pianeta burrascoso fatto di polvere rossa.
L’espressione non si intonava a quegli occhi sognanti e decisamen-
te belli: l’espressione era di una repellenza paralizzante, in modi che
non avevano nulla a che spartire con i tuoi nervi dorsali. Ti trapas-
sava, enumerava le tue malefatte e ti informava che la resa dei conti
sarebbe arrivata. Nessun segno del tempo scalfiva gli angoli del mo-
saico di quegli occhi tempestosi, ma era comunque uno sguardo vec-
chio quanto quello di Crux. C’era qualcosa nell’occhiata che ti ave-
va rivolto – dopo aver scandagliato ogni tuo tratto, come se cercasse
qualcosa – che ti lasciò perplessa. E poi ti precipitò addosso l’oltrag-
gio definitivo. Artigliò l’orlo del tuo cappuccio e te lo tirò giù sul col-
lo, in modo da poter guardare il tuo viso scoperto, senza permesso,
cranio sanguinolento e tutto.
Eri arrossita fino a farti diventare incandescenti anche le punte del-
le orecchie. La paura e l’umiliazione formarono un uncino d’osso che
spuntò dalla parte posteriore della tua faccetta articolare superiore;
una furia acrimoniosa lo spinse ad avanzare, a catturare l’occhiello del
nodo e a tirarlo all’indietro, come se i tuoi nervi fossero un lavoro a
maglia da disfare. La sciabolata di dolore che ti sferzò la nuca, sotto al
cuoio capelluto, per poco non ti fece vomitare di nuovo, e l’avresti fat-
to davvero se di recente non fossi diventata la Santa dell’Eme­si. Con i
muscoli circostanti avevi appiattito il nervo, incuneando il tuo minu-
scolo uncino nella massa spinale, dove dimorava di solito. Ne risultò
un formicolio diffuso in tutto il corpo, così profondo da non lasciarti
altra scelta se non quella di dimenarti come un pesce preso all’amo.
Il dito venne ritirato. Gli occhi tempestosi si sgranarono, impercetti-
bilmente. Sul suo viso si dispiegò un’emozione che – per quanto non
ti risultasse aliena – era insensata; l’avevi scacciata.
«Non avresti dovuto farlo» disse lei. «Potevi schiopparti il nervo
dorsale e asfissiare.»
Ti guardò dritta in faccia, constatando ciò che c’era candidamente
stampato sopra a caratteri chiari e tondi: aveva percepito quello che
avevi fatto, non ci potevi credere. «No, non ti posso sentire» aveva
commentato lei, rispondendo al tuo silenzioso sconcerto. «Ma il tuo
corpo non è un mistero per me. Potrei conoscerlo anche meglio di

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te, che sei una – una neonata della Nona.» Stavi armeggiando con il
cappuccio con le mani malferme, per nasconderti il viso. «Da quanto
esisti?» ti aveva domandato brusca. «Da quanto, in anni?»
Avevi sollevato di nuovo la testa traballante, come un’idiota, per
guardarla di nuovo in faccia. Per qualche motivo – e a te non serviva
mai una motivazione; eri bravissima a produrre una reazione senza
bisogno del benché minimo stimolo – la paura ti aveva assalita. Era
stato a quel punto che il Corpo era apparso dietro alla spalla della Lit-
trice, nei pressi delle porte. Il suo dolce viso morto fluttuava nei pressi
di quello della Littrice. Ti aveva fissato con i suoi occhi giallo-dorati,
dalle palpebre robuste, e aveva detto, piuttosto chiaramente, con una
voce che era un miscuglio tra quella di Aiglamene e di tua madre:
«Devi mentire, Harrow. Ora.»
«Quindici» avevi risposto all’istante, sperando che la tua stessa car-
ne non ti tradisse.
Lei aveva insistito: «Contando dal concepimento o dalla nascita?».
«Nascita.»
Quell’emozione le si dispiegò di nuovo sul volto, come un’incre-
spatura oscura che attraversa una massa d’acqua fugacemente agita-
ta. Tutto il suo corpo si contrasse per poi rilassarsi. Il fatto che per
te fosse un buco nero, privo di thanergia o thalergia in senso stretto,
non aveva importanza; bastava guardarle le spalle. Era sollievo. Puro
sollievo all’ennesima potenza.
«Blah» commentò lei.
L’ascensore si fermò con un sussulto. Le porte alle spalle della Lit-
trice si aprirono; lei si raddrizzò e poi ti guardò, dall’alto in basso. Il
sollievo era scomparso; il distacco permaneva.
«Ho domandato più volte all’Imperatore perché mai si sia conces-
so di rimanere fermo, esposto, così a lungo ai bordi del luogo a cui
non deve fare ritorno» disse lei. «Ed è saltato fuori che il motivo sei
tu. Uno scarto disperso della Nona che non c’entra niente… una nul-
lità. Ma lui era così sorpreso… gli ho detto: “Metti una clausola sull’età
nella lettera!”. Gli ho detto: “Se non lo farai saranno tutti pubescenti!”.
E ora ci tocca raccogliere quello che ha seminato. Sss.» (Per un istan-
te avevi pensato di aver avuto un’allucinazione uditiva, perché nessu-
no che aveva vissuto per diecimila anni – anzi, nessuno che mai era
stato vivo – avrebbe mai verbalizzato un sibilo.) «Be’, hai tre opzioni:

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puoi camminare insieme a me fino alla navetta, posso spingerti io o


posso trascinarti. Che cosa scegli, giovinastra sottosviluppata? Te lo
dirò io: l’altra ha usato le sue gambe.»
Ti eri alzata. A fatica.
«Bene» aveva commentato lei, squadrandoti critica. «Sembri un
pipistrello incastrato in una torta di compleanno e ti servirebbero al-
meno due tagli di capelli, ma sei… sarai… eri… il respiro di Dio, e le
ossa di Dio.»
La Littrice ti risistemò un po’ il cappuccio e ti lisciò il manto sul-
le spalle – e per questo ti eri ripromessa di strapparle il nervo dor-
sale, un giorno – e poi guardò la spada che portavi cucita al braccio,
piegata quasi in due sotto al suo peso e alla tua spossatezza. La sua
espressione comunicava con una certa chiarezza cosa ne pensasse,
ma aveva visto il tuo volto nudo e forse ci aveva scorto qualcosa. Ma-
gari i tuoi progetti per il suo nervo dorsale.
«Non sei carina come Anastasia» fu tutto quello che disse.
Ora la Reverenda Figlia accompagnava, più simile a un paladino
della sua Casa che a una necromante. Scricchiolavi come uno schele-
tro da soma sotto al peso del suo fardello, seguendo la scia della Lit-
trice. Per fortuna, la vergogna non ti toccava più. L’orgoglio si stava
trasformando rapidamente in un pianeta che un tempo avevi visitato
ma che non riuscivi più a ricordare nel dettaglio. L’hangar di attrac-
co dove ti aveva condotta brulicava d’attività. Un altoparlante trasmi-
se – in ritardo – un gracchiante: «Sua signoria la Santa della Gioia
benedice con la sua presenza l’Attracco Quattordici». La cosa, però,
non parve incoraggiare tutti quanti a sgattaiolare nelle lucenti con-
dutture d’acciaio e ossa della nave, ma piuttosto a metterci il doppio
del tempo per fare quel che stavano facendo.
Quel che stavano facendo riguardava in prevalenza una navetta.
Non era grande. A giudicare dalla stazza era, in realtà, simile a quel-
la che di solito recapitava alla Nona Casa i filamenti per le lampadine
e i supplementi vitaminici, governata da un singolo pilota che aveva
sempre l’aria di essersi guadagnato quel lavoro perdendo una scom-
messa. Ci stavano caricando delle casse. Eri distratta dai cuori pul-
santi e dai muscoli tesi che ti circondavano e che lacrimavano acido
lattico mentre chiudevano e facevano scivolare contenitori e scato-
le al loro posto. In cima alla rampa, seduta su un baule rovesciato in

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un frusciare di gonne opaline e palese permalosità, c’era Ianthe; era


concentrata sul fondo della navetta, non su di te. Sedeva in quel mare
di mucchi e cataste ondeggianti come un pilastro.
«Bene» disse la Santa della Gioia. «Su, su. Vai là dentro e non ti
muovere di un millimetro. Non stare tra i piedi a nessuno. Entra, met-
titi seduta, fai la brava e basta.»
Gli ufficiali della Coorte rivolgevano un saluto marziale a Ianthe
ogni volta che le passavano davanti, facendo su e giù per la rampa.
Quelli che puzzavano di thanergia, avevi notato, si baciavano i polli-
ci in un gesto che non riuscivi a riconoscere. Mentre trascinavi il tuo
stupido corpo intorpidito lungo l’hangar e salivi traballando la ram-
pa, eri grata che nessuno stesse facendo lo stesso con te; ancora una
volta, ti veniva riservata l’ampia distanza di sicurezza che si addice-
va a una necromante della Nona Casa.
L’interno era angusto come avevi sospettato, e di una sordida sem-
plicità. Quello che ti fece fermare di botto fu la fonte della fascina-
zione e della sincera ammirazione di Ianthe. Di fronte alla paratia di
fondo della navetta era accovacciata una necromante della Coorte; il
miasma necromantico le brillava attorno con la luminosità – alme-
no per te – di una torcia. Lì non c’era carburante che potesse usare
per produrre necromanzia. Si trovava nello spazio profondo e non
era una Littrice. Quello che poteva fare era apportare gli ultimi ri-
tocchi a una sublime barriera di annullamento – bagnata e arrossa-
ta col suo stesso sangue, che veniva risucchiato da una lunga siringa.
Sarebbe stato un lavoro difficile e impervio persino se avesse avuto
accesso ai suoi pieni talenti. Aveva le maniche delle vesti arrotolate
fino alle spalle in modo che il tessuto non toccasse e deformasse il
disegno, mentre lavorava; avevi notato i nastri spiegazzati della sua
Casa, di un pallido verde acquamarina.
Ianthe si accorse di te, e sobbalzò. Prima che potessi trovare rin-
francante il fatto che esistesse ancora un Littore capace di intimorirsi
in tua presenza, ti fece spazio sulla cassa rovesciata su cui si era appol-
laiata. Pur non gradendo, ti eri messa a sedere, compunta, sull’angolo
che ti era stato offerto, cercando di stringere le ginocchia per impedi-
re che i vostri corpi si toccassero. Oggi – ma quanto tempo era passa-
to? – i suoi occhi erano di quel blu slavato, con dei bagliori di ametista.
«Vedo che hai incontrato la nostra venerabile sorella maggiore» ti

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aveva detto Ianthe. «Mi ha accusata di avere dodici anni e di essere


“una di quegli animafiliaci”, poi mi ha detto che non sono bella come
un certo Cyrus. È stato un po’ come tornare dalla mamma» aveva ag-
giunto, con una sfumatura di calorosa nostalgia.
Il tuo palmo ricordava ancora il coltello e avevi opposto resisten-
za a quel tono confidenziale. Le avevi chiesto: «Dov’è l’Imperatore?».
«Non lo so e nessuno mi vuole dire niente» aveva risposto con stiz-
za. «Tutti quanti si stanno comportando da zucconi veri… immagi-
no di non poterli biasimare, visto che potrei comportarmi allo stesso
modo se venissi declassata anzitempo dal ruolo di attaché persona-
le dell’Imperatore e spedita al fronte… ma che c’è di bello nell’essere
Ianthe la Prima, se non posso nemmeno approfittarmene?»
Ti eri arrischiata a lanciare una rapida occhiata alla necromante del-
la Coorte; ma l’adepta della Settima non ti stava prestando la minima
attenzione. Avevi notato che la sua barriera – il lavoro di un’esperta,
di un’artista, l’incontro tra la genialità e lo stile – ti era molto familia-
re: era una barriera fantasmatica. Stavi cercando di riportare a forza
il tuo cervello alle parole di Ianthe, e all’ordine in cui le aveva dispo-
ste. Era difficile, visto che quello che sapevi della Coorte e del fron-
te sarebbe potuto stare tutto in un cucchiaino da tè. Anche quell’esi-
gua conoscenza ti aveva sempre tediata, ma qualcosa di quello che ti
aveva detto aveva ridestato il tuo ipotalamo comatoso.
«Ma non ha senso» avevi proseguito. «La Guardia Imperiale non
partecipa ai combattimenti.»
«Oh, mia cara, non lo sai… Be’, come potresti? Non è che te ne ab-
biano parlato; eri troppo impegnata a oscillare tra il vomito e gli im-
pulsi omicidi. Dunque, Nonagesimus, partecipano ai combattimenti
quando la Coorte perde all’improvviso tre navi da guerra a causa di
altrettanti missili radianti orbitali, il che ammonta a tre navi da guerra
in più rispetto a quelle che abbiamo perso negli ultimi diecimila anni»
aveva spiegato Ianthe. Se fosse stato possibile aumentare di volume
per l’autocompiacimento, lei di sicuro sarebbe stata gonfia, gottosa
e defunta; ma invece di irritarti, avevi scoperto che Ianthe ti stanca-
va e basta. «Diciottomila soldati morti non possono che attirare l’at-
tenzione… Corona lo adorerebbe. Va matta per i funerali militari.»
Per te era complicato esprimere empatia. Non avevi nessuno al
fronte, e nemmeno nella Coorte, se era per quello. Gli ultimi cappel-

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lani e adepti della Nona Casa, se non ricordavi male, erano scompar-
si in battaglia cinque anni prima. I numeri restavano numeri, privi di
contesto. Eri più interessata alla conversazione che si stava svolgendo
fuori dal portellone della navetta, davanti alla rampa: una voce sco-
nosciuta stava scandendo con fermezza: «Santa delle Sante, la Erebos
è il suo vascello. Parlo per ogni ufficiale comandante a bordo quando
vi esprimo tutta la riluttanza che proveremmo nel veder giungere a
una conclusione la sua ottantennale permanenza a bordo».
«Ottant’anni!!» fu la risposta, accompagnata ancora una volta da
quell’esplicito punto esclamativo extra. Era il risultato di un’estrema
irascibilità: la santa aveva una voce acuta e flautata, una voce giovane
per una persona che aveva già accusato sia te che Ianthe Tridentarius
di pubertà disdicevole, e ora bucava i timpani. «Ottanta. È vergogno-
so – avreste già dovuto capire l’antifona quando è arrivata la chiama-
ta per i nuovi Littori. Il suo trono è altrove, ed è là che deve fare ri-
torno, e ci sarebbe dovuto tornare trent’anni fa. Ora sei l’Ammiraglio
Sarpedon? Veramente? Ti chiami Sarpedon, giusto?»
«Sì» rispose l’ammiraglio, il cui titolo era stato pronunciato dal-
la Littrice col medesimo tono che avrebbe usato per dire Appestato
Capo. «E sono passati… vent’anni dal nostro ultimo incontro, Vene-
rabilissima Santa?»
«Suppergiù» concordò la Venerabilissima Santa, il cui epiteto ono-
rifico era stato enunciato dall’ammiraglio con un lieve e urbanissimo
sottotesto di figlia di puttana. «Comunque sia, voi ve lo siete tenu-
to per ottant’anni, mentre il Mithraeum ha patito la sua assenza per
un secolo.»
«State invocando il silenzio del trono» disse Sarpedon. «Lo state
rimuovendo dall’Impero.»
«Faccio un po’ fatica a invocare la voce del trono. Saremo a qua-
ranta miliardi di anni luce da qui.»
L’ammiraglio replicò, da sotto a un sottile strato di ghiaccio: «Ha
espresso, senza alcun segno di incertezza, il suo interesse per que-
sta guerra».
«Può benissimo coltivare un sollecito interesse personale da qua-
ranta miliardi di anni luce di distanza» disse la Santa della Gioia, no-
nostante avesse insinuato il contrario con veemenza. Il suo appellati-
vo cominciava a suonarti sempre più ironico. «Io non mi vergogno di

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rimuovere l’Imperatore dai suoi nemici. Io non mi vergogno nell’assi-


curare che il Dio delle Nove Case non venga vessato da chi lo odia.»
«Io non riconosco» fece Sarpedon «nessuna debolezza di quella
sorta nel Dio che è diventato uomo, e nemmeno nell’uomo che è di-
ventato Dio. E neppure nel Necrore Supremo che potrebbe resusci-
tare una galassia con un solo gesto.»
La voce della Littrice si alzò ulteriormente: «Dominicus, la stella
risorta, concede luce e vita alle Nove Case, ma non ritengo comun-
que che dovremmo scaraventarci dentro un bel niente!!! Hai esaurito
l’ultimo briciolo di pazienza che mi restava, Sarpedon, e mi ricordo
di quando sulla tua uniforme c’erano molte meno mostrine, quindi
ti chiederei di non scambiare un Littore per qualcuno a cui puoi…».
Dall’altra estremità del quattordicesimo hangar di carico arrivò un
urlo. Era la voce del Dio diventato uomo, e dell’uomo diventato Dio.
Si avvicinò alla rampa a passo rapido, puntando dritto alla furibonda
Santa della Gioia. Vicino a te, Ianthe schioccò le labbra come se stes-
se per pregustare un ottimo pasto; una specie di mlem, mlem, mlem.
Ma l’Imperatore strinse tra le braccia la sua Littrice come se fosse
una preziosa bambina fuggiasca; la strinse a sé, tirandole giù il cap-
puccio e arruffandole la capigliatura color rosa troppo matura, sen-
za curarsi degli ufficiali della Coorte che si inchinavano e genuflette-
vano al suo passaggio. Lei si immobilizzò come se l’avessero immersa
nell’azoto liquido. Lui le disse qualcosa che non ti riuscì di afferrare, e
poi: «Grazie per il lavoro che hai fatto qui. Sei stata brava».
La Santa della Gioia se ne stava lì, dritta come un palo, come se le
avessero inchiodato i piedi con dei grossi picchetti d’acciaio al pavi-
mento dell’hangar di carico. L’Imperatore delle Nove Case si voltò
verso l’ammiraglio, piegato in due nella sua personale genuflessione,
con una mano posata sulla spalla, imbarcandosi immediatamente in
una conversazione bisbigliata che ti arrivò solo a spizzichi e bocco-
ni: «… non affrettatevi ad aggirare la cintura. Se il vento di Domini-
cus dovesse darvi problemi, tornate indietro per la stessa rotta… La
velocità subluminare andrà benissimo. Dopo aver effettuato le vo-
stre consegne, la navigazione stelitica vi consentirà di uscire dal su-
peragglomerato e di raggiungere il secondo braccio della flotta, ma
dovrete procedere molto più lentamente rispetto alle due settimane
precedenti…».

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«Allora intendete davvero lasciarci, mio Signore» fece Sarpedon.


Si era spostato e ora ti risultava ben visibile; il tuo nuovo cappuccio,
a differenza dell’ottimo panno della Nona Casa, era abbastanza tra-
sparente da permetterti di vedere con una certa chiarezza, anche se
attraverso una violenta puntinatura dalle tinte arcobaleno. L’uomo di
mezza età che ti eri ritrovata a osservare portava una severa unifor-
me della Coorte, con l’immarcescibile giubba bianca e il fazzoletto
scarlatto. Le due mostrine sul colletto erano bordate di madreperla.
Se non avessi sentito il suo grado, non avresti saputo interpretarle.
Da lui si sollevavano i vapori della necromanzia a ondate vorticose,
come sudore, inutilizzati e impotenti nel vuoto dello spazio profon-
do. «Confesso di non essermi preparato a quest’eventualità.»
«Lo detesto, Ammiraglio» disse Dio. «La Erebos è stata la mia casa.»
L’ammiraglio commentò, un po’ seccamente. «Siamo indegni di
un tale affetto.»
«E io sono indegno di questo pietoso commiato» disse il Re Impe-
rituro. «Ti dirò ora quello che avevo in programma di dirti, ma più
alla svelta e con minor grazia. Non andate a invischiarvi nelle maga-
gne del comando della Coorte. So esattamente chi c’è dietro a questo
colpo tremendo, e sono stati degli sciocchi a scoprire le loro carte. Si
sono rivelati grossolani, puerili e stolti come l’atto che hanno appena
commesso. Ma la nostra rappresaglia non deve essere repentina. La-
sciate che comprendano l’ineluttabilità delle Nove Case.»
«Inesorabili come la morte» chiosò l’ammiraglio.
«E altrettanto misericordiosi» disse l’Imperatore. «Mi hai dimo-
strato la tua lealtà, Sarpedon, e io non l’ho mai messa in dubbio. Hai
trasformato la Erebos nel mio rifugio. Ma… come immagino ti sia già
stato riferito…» (Un fremito aveva appena attraversato la Santa del-
la Gioia o te l’eri immaginato?) «… la mia stazione è il mio posto, e la
Erebos è reclamata altrove.»
«Ma andarci non accompagnato, mio Signore… con la stele, un con-
voglio da trasporto potrebbe spingersi fino agli Hadals in due anni.»
«Diciottomila buoni soldati» disse con dolcezza l’Imperatore. «Por-
ta la Erebos a loro. E dalle un nuovo nome: Seggio dell’Imperatore.»
«Mio Signore…»
La Santa della Gioia borbottò qualcosa a denti stretti. L’Imperato-
re non batté ciglio. «Sì, so che capitanare una seggiola non è il massi-

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mo» commentò lui. «Ma non permetterò a nessuno dell’Ammiraglia-


to di dimenticare cos’è stata, e quel che spero possa essere di nuovo.
Comunque sia, il nome dovrebbe garantirvi di tagliare la fila nelle
code orbitali, anche se non ci sono io a bordo. Mi mancherà tremen-
damente, Sarpedon, ma è più corazzata di qualsiasi altra nella flotta,
e quando verrà riequipaggiata potrà trasportarne duemila.»
«Eppure, mio Signore…»
«Per quanto ti riguarda, le tue ossa verranno consacrate nel Mi-
thraeum, per tutto quello che hai fatto al mio servizio. Se non ti rive-
drò prima di allora, posso solo sperare che prima o poi avrai la pos-
sibilità di andare in pensione.»
L’Imperatore delle Nove Case si allungò per stringere la mano a Sar-
pedon. L’ammiraglio della Coorte aveva l’aria di uno che stava per es-
sere marchiato a fuoco. L’Imperatore sostenne la stretta e lo sguardo
dell’ammiraglio per un lungo istante; poi si voltò, avviandosi verso la
rampa, seguito – non senza una certa riluttanza – dalla sua Ministra.
Man mano che si avvicinava, avevi notato che pareva essersi pre-
parato in fretta e furia; aveva una borsa piccola, riempita alla meno
peggio, buttata sulla spalla – l’onnipresente tablet gli faceva capoli-
no dalla tasca, insieme a qualcosa come cinque penne – ed era ve-
stito in maniera semplice, come di consueto, con una camicia e un
paio di pantaloni neri. Avevi sempre trovato appagante quell’assenza
di colori. Era molto Nonaria, persino il colletto e i polsini della cami-
cia erano sgualciti e pieni di pelucchi per il troppo uso. Ma portava
una corona cerimoniale che non avevi mai visto prima: una ghirlan-
da di nastri e foglie perlacee nei capelli scuri, che frusciava prismati-
ca nell’hangar d’attracco privo di brezze. Ogni foglia era intrecciata
all’osso di un dito indice infantile di uguale misura. Si girò e marciò
su per la rampa verso di te e, con un tono normalissimo, come se non
gli fossi mai svenuta davanti in un attacco schiumante di pre-vomito
disse: «Ti senti bene, Harrowhark?».
«Sono perfettamente in possesso delle mie facoltà, Maestro» ave-
vi risposto tu.
«Non è la stessa cosa.»
Ianthe intervenne, con una sfumatura che quasi riusciva a risultare
seducente: «Mettetela sotto la mia tutela, Maestro». E con tuo gran-
de disgusto, Dio rispose: «Lo farò. Tienila d’occhio. Ora…».

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Si voltò, ritrovandosi davanti la splendida barriera sulla parete, or-


mai completa, e l’adepta della Settima che schiattava con discrezione
sul pavimento. Una voluta di sangue le imbrattava la pettorina; a un
certo punto si era piantata la siringa in profondità, nell’arteria succla-
via. Dopo aver portato a termine gli ultimi ritocchi su quella perfetta
spirale da incubo, che non tradiva alcun segno di trauma miocardia-
le, ci aveva spruzzato sopra del fissante e poi, in silenzio, era collas-
sata. Se ne stava lì con gli occhi vitrei rivolti al soffitto, le mani con-
tratte sulla macchia che andava allargandosi sul davanti della tunica,
il sangue che si mescolava allo scarlatto della Seconda Casa.
L’imperatore borbottò qualcosa che, l’avresti giurato sulla roccia
davanti al Sepolcro, somigliava molto a un “Ma che cazzo”. Dopo un
momento di riflessione, si portò la mano alla bocca, come se stesse
pensando. Il rilascio d’energia che ne seguì ti accecò oltre ogni pos-
sibilità di scampo o di comprensione.
La macchia si ridusse in polvere. Il sangue smise di fluire. Le mani
dell’adepta della Settima stringevano una veste pulita. La sua espres-
sione cambiò, passando da un velato senso di attesa alla rassegna-
zione; rotolò di lato per baciare il pavimento polveroso della navetta.
Tu e Ianthe ve ne stavate lì a sbattere le palpebre, gli occhi lacriman-
ti e il naso che colava, come se aveste appena mangiato qualcosa di
un po’ troppo piccante.
«Mio Santissimo Signore» disse lei, con un tono che conteneva un
mezzo interrogativo.
«Non oggi, Prima Luogotenente» disse Dio. «Oggi i necromanti
come te ci servono più che mai.»
Lei gli mandò un bacio con le dita, un gesto un po’ meccanico – e
poi fece lo stesso con la Santa della Gioia, e poi per Ianthe e infine,
dopo una pausa, anche per te – una mezza dozzina di volte e conclu-
se inchinandosi fin quasi a spezzarsi in due. Si alzò e scappò giù per
la rampa, lasciandosi dietro, come una scia, un rimbombo di passi
stivalati: l’unico segnale della sua permanenza a bordo restava l’enor-
me intreccio della barriera. La Santa della Gioia la osservò allonta-
narsi con un’espressione indecifrabile sul placido ritratto del suo viso.
Con due persone in più a bordo, ti eri resa conto di quanto in realtà
fosse piccola la navetta. Alla tua sinistra c’era un’aria compartimen-
tata che, forse, era destinata alle funzioni corporali – o per andare

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in bagno, come chiunque altro nell’universo conosciuto avrebbe de-


scritto la faccenda – ma, a parte quello, il resto dello spazio era spo-
glio. Non c’erano letti. Non c’erano vere e proprie poltroncine per i
passeggeri, tranne una manciata di sedili ribaltabili lungo un lato. Le
casse che erano state caricate erano piuttosto piccole; la più grande
era di pietra squadrata, assicurata con dei fasciami di corda d’acciaio.
Separata dalle sue compagne e priva del bocciolino di rosa, ci avevi
messo un po’ a renderti conto che si trattava di una bara, e un altro
po’ a riconoscere a chi appartenesse.
Alla tua destra c’era un abitacolo con una poltrona vuota per un
singolo pilota, rivestita da una stoffa ampia e magnifica di un mate-
riale perlaceo ricamato – con uno scossone alla base del cervello ave-
vi constatato che non era affatto vuota: il Corpo aveva preso posto
sul manto iridescente, sedeva lì con le mani posate graziosamente in
grembo e le piaghe delle catene ben visibili. Gli spigoli bellissimi e
severi del suo viso erano come addolciti da una consapevolezza ri-
trovata, e aveva le labbra leggermente socchiuse, abbastanza da mo-
strare la lingua nera e morta. Avevi seguito la linea del suo sguardo,
puntato sull’ingresso e sull’Imperatore.
L’Imperatore pigiò un pulsante accanto al portello e la rampa ven-
ne risucchiata dalla navetta con un sonoro slurp meccanico. Poi si ri-
volse alla sua Littrice e disse, con un tono che pareva una spolverata
di zucchero a velo su una distesa infinita di sale: «Be’, se questo non
è forzarmi la mano…».
«Mio Signore, non oserei mai…»
«Sulla mia nave, davanti al mio ammiraglio, in mezzo alla mia gen-
te. La Erebos è davvero il posto più adatto dove contraddire pubbli-
camente il tuo Imperatore, Mercy?»
Lei gli si parò davanti. Una furia appassionata accartocciava la tela
del suo volto da ritratto. Ci si poteva aspettare che diecimila anni sareb-
bero stati sufficienti ad ammaestrare una faccia, nel momento in cui si
sarebbe rivelato necessario ammaestrarla; evidentemente non era così,
o Mercy non si era mai presa la briga di ammaestrare un bel niente.
«L’unica che ha cercato di forzarti la mano per farti tornare a casa
con noi è finita in una cassa» esclamò lei. «Ed è brutto da parte tua
usare il mio nome di fronte alle bambine. I nostri nomi sono sacri, l’a-
vevamo concordato, lasciamo che vengano dimenticati…»

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«Mercymorn» disse l’Imperatore, «sai bene quanto me che sareb-


be ridicolo tenere nascosto il tuo nome alle tue legittime sorelle. Inol-
tre, stai cercando di attaccare briga con me per evitare il litigio che io
vorrei intavolare con te, il che mi pare una tattica degna del più pie-
toso fra i matrimoni.»
«Sei quasi nella corona di Dominicus, mi sembra un suicidio…»
«Sai perché sono venuto, e le motivazioni della mia attesa non…»
«Qualcuno potrebbe chiamarla pazzia, o megalomania, o entram-
be le cose…»
«E chi sarebbe questo qualcuno, nel nostro specifico frangente?
Per caso il suo nome fa rima con Nercynorn o…»
«Fa rima con Naugustine» rispose la Santa della Gioia, non senza
una certa superbia.
Il viso dell’Imperatore delle Nove Case si accese all’improvviso
come l’alba su un pianeta dell’orlo interno. «Allora tu e Augustine il
Primo avete ricominciato a parlarvi?»
Mercy sollevò le mani per aria, mungendo una gigantesca mucca
invisibile per blandire le sue emozioni prima di mettersi pesantemen-
te a sedere su un’altra cassa già fissata. Si prese il mento tra le mani; lo
stocco le tintinnava dietro al mantello bianco-iridescente a ogni mo-
vimento. «Parlavamo già» commentò, fredda e misurata, «dicianno-
ve anni fa, suppergiù, se ben ricordi. Se ora parliamo di nuovo non è
particolarmente significativo, dato che parlare è assai diverso da co-
municare. E io non ho niente da comunicare alla persona a cui ti stai
riferendo. Ciononostante, le tue azioni mi hanno convinta a parlare
con quello stupido verme travestito da uomo, e sono stata io a venire
qui per prendere in mano la situazione.» Prima che lui potesse dire
anche solo una parola, proseguì: «Nessuno al Mithraeum risponde
alle chiamate. Torna a casa, ti prego!».
«Ma quello è…»
«Siamo rimasti in tre» disse la Littrice, semplicemente. «Non pos-
so nemmeno confermarti che il terzo sia vivo.»
«Stava tenendo sott’occhio…» cominciò l’Imperatore, come se fos-
se in procinto di offrire delucidazioni su cosa fosse stato tenuto d’oc-
chio; ma vide te e Ianthe con la coda dell’occhio, lì sedute in silenzio,
in attesa che quell’orribile conversazione giungesse al termine (tu) o
palesemente ansiose di saperne di più (Ianthe). Sgomentandoti sel-

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vaggiamente, l’Imperatore posò il borsone in grembo al Corpo – o


almeno così sembrò a te. Lei alzò lo sguardo per squadrare prima lui,
impassibile, e poi la sacca, perplessa. Poi lui si chinò di fronte alla sua
Littrice accigliata.
Quella che seguì fu un’intera conversazione stenografica: a un cer-
to punto procedeva unicamente per alzate di spalle. Lui diceva una
parola; lei contrattaccava con una parola completamente diversa, e
l’Imperatore faceva una smorfia o le rivolgeva una risposta affilata.
Di tanto in tanto, la risposta affilata consisteva soltanto in un guiz-
zo della bocca, e la Littrice voltava il capo, sconfitta. Stavi osservan-
do due persone che avevano superato la necessità di conversare già
da una mezza miriade. Era più che altro un dialogo tra un braccio e
un gomito; tra il cuore e il cervello, trasmesso da impulsi elettrici. In
un momento imprevisto, tornarono all’improvviso a parlare normal-
mente, e Dio disse: «Sarei rimasto in attesa sulla Erebos finché non
avessimo appreso in via definitiva se il lancio…».
«Non mi interessa se sono stati loro o no» tirò su col naso la San-
ta della Gioia – Mercymorn – che ora sapevi in possesso di ben due
nomi assolutamente inadeguati. «Sono residui. Non possono fare nien-
te. Sono senza leader da quasi vent’anni. Devi stabilire delle priorità.»
«Ma è assolutamente palese che…»
«Ti imploro di rammentare la posta in gioco, mio Signore!» esclamò
la Littrice.
«Il Mithraeum è una destinazione che possiamo raggiungere in una
maniera sola» disse Dio, con l’aria di uno che stava sfilando l’ultimo
mattoncino da una torre pericolante. «In tutta coscienza, non posso
portare nessuna di loro in un viaggio del genere.»
Avevi il terrore che nessuna di loro fosse solo un rimpiazzo fret-
toloso per Harrowhark. La Littrice più vecchia non lenì le tue paure
quando lo squadrò con quegli insondabili occhi tempestosi e disse:
«Se sei così incerto riguardo a… una o l’altra di loro… allora soppri-
mile subito! Non ti ringrazieranno per averle tenute in vita! È l’unica
prova che conta! Grazie!».
L’Imperatore delle Nove Case si alzò in piedi. Anche la sua Littri-
ce si alzò. Con uno scatto della mano aveva scostato le pieghe madre-
perlacee della veste, posandola sull’estremità di uno stocco semplice
e senza pretese; una gabbia di maglia metallica si avvolgeva attorno

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a un’impugnatura disadorna e priva di fronzoli, niente decorazioni a


parte un nodo bianco alla fine del… non conoscevi il termine tecni-
co preciso. Era un pomolo, comunque. Lui disse: «Prepariamoci al
lancio. La decisione spetta a me». Avevi capito che, in qualche modo,
Mercy aveva vinto la guerra.
Fu con una strana mescolanza di sollievo e vergogna coriacea e ri-
sentita che Mercy si alzò e si sporse sulla poltrona di pilotaggio, azio-
nando levette ed evitando il Corpo per un pelo. Gli interruttori emet-
tevano dei piacevoli scatti aptici all’interno dei loro alloggiamenti di
plex, e sul soffitto si accesero altre luci, immergendovi tutti quanti in
uno sgradevole bagliore aranciato.
Nonostante non ci fossero mutamenti nel timbro e nella cadenza
di Dio, la sua voce aveva assunto un tenore diverso. Era come se un
attrezzo d’acciaio fosse stato rimosso dalla sua custodia. Disse: «Ri-
controllate quelle casse. Agganciatele ai sostegni… e assicuratevi che
quella in particolare sia ben stretta. Ianthe, ci sono dei sedili con la
cintura vicino a quel finestrino. Harrow, voglio quella spada via dal-
le tue mani e fissata al pavimento. Aggiungi del midollo all’osso; non
voglio che si crepi o si pieghi».
Tu e Ianthe vi eravate inginocchiate per assicurare i contenitori
come vi era stato ordinato. Con riluttanza, avevi squagliato il petti-
ne osseo che ancorava la spada al tuo braccio affaticato. Senza pen-
sarci, avevi eseguito alla perfezione quello che ti era stato raccoman-
dato nella lettera ricevuta dalla te stessa del passato: avevi ricoperto
per intero la lama con un rivestimento d’osso, trovando il risultato
significativamente più gradevole all’occhio e al cervello. Non saresti
mai riuscita a castrarne la rabbia ma, così foderata, la spada – quel
bersaglio del tuo risentimento, del tuo odio e delle tue angosce pro-
tettive – veniva in qualche modo smorzata, come un paralume atte-
nua la luce di una lampadina.
Dopodiché, eri sprofondata in uno dei sedili ribaltabili accanto a
Ianthe e ti eri allacciata la cintura di sicurezza mentre col piede nudo
mantenevi la promessa che ti legava alla spada incastonata nell’osso,
osservando Dio che controllava per l’ultima volta i fermagli metallici
e le cinghie delle casse. Passò una mano con grande delicatezza sulla
pietra ancorata della bara, un contatto brevissimo, prima di fermar-
si di fronte alla barriera che era stata applicata alla parete. Toccò col

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mignolo una delle volute, molto piano, come se temesse di farle male.
Gli ossuti ditini fetali e le foglie che gli cingevano i capelli continua-
vano a ondeggiare in una brezza inesistente. «Una splendida esecu-
zione… i livelli di anidride carbonica nel fissante sono quasi perfetti»
aveva commentato, tirando fuori una penna dal taschino. «Era trop-
po brava per morire per una cosa del genere, Mercy.»
«Non le ho detto di morire» sbottò Mercymorn. Con un clunk im-
provviso, il portellone spalancato della navetta cominciò a scendere,
cigolando nel punto in cui la rampa era scomparsa. Si incastrò nel
suo alloggiamento con un ka-chunk. «Una fanfara atriale assoluta-
mente eccessiva. Ti basta chiedere una spremuta d’arancia e l’equi-
paggio delle tue orrende ammiraglie parte in tromba col martirio.»
«Dirò a Sarpedon di assegnarle una decorazione» commentò lui,
pigiando sul suo tablet. «Dovrà farselo bastare. Non è proprio un rin-
graziamento adeguato per essersi quasi dissanguata.»
Il comunicatore vicino alla postazione di pilotaggio crepitò. La voce
dell’ammiraglio in questione disse con chiarezza: «Mio Signore, avete
il via libera per la partenza. Attendiamo il vostro ordine».
«Sganciare gli ancoraggi» disse l’Imperatore.
«Ancoraggi in fase di rilascio» rispose l’Ammiraglio Sarpedon. Poi
si schiarì la gola e attaccò con quella che ora ritenevi la preghiera più
comune: «Che il Re Imperituro, riscattatore della morte, flagello del-
la morte, vendicatore della morte, vegli sulle Nove Case e oda la loro
gratitudine…». E alle sue spalle le voci metalliche dell’intera squadra
della baia d’atterraggio si unirono al coro: «Che in ogni dove tutti si
affidino a lui…».
Ti eri girata per sbirciare dall’oblò. La penombra cavernosa dell’Han-
gar di Attracco Quattordici si stava rischiarando: stavano aprendo un
qualche condotto esterno e la navetta stessa si stava spostando lun-
go un binario, come se la stessero offrendo in sacrificio allo spazio.
La nerezza vellutata del mondo esterno si spogliò di fronte a te; stelle
fredde bruciavano in lontananza. Il Corpo si fermò in piedi accanto
a te, di punto in bianco, e ti ci volle tutto il tuo autocontrollo per non
allungarti a stringere l’orlo del suo sudario bianco e sporco, la carne
pallida e increspata del suo polpaccio. Stavi partendo – per dove non
lo sapevi – e non sapevi cosa provare.
Ianthe teneva gli occhi bassi, modesta e docile, come se quella ri-

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buttante messinscena male interpretata potesse mai convincere chiun-


que fosse dotato di un cervello. Sedeva con lo stocco allacciato alla
cintura sotto al manto, un bitorzolo nel tessuto di madreperla. In-
crociando il suo sguardo, che faceva capolino da quelle ciglia pallide,
avevi notato la bruciante trepidazione nei suoi occhi – uno azzurro,
uno viola –, la stessa di chi sta per essere chiamato a ritirare un pre-
mio. Era profondamente emozionata. Lo sguardo sognante, perso in
lontananza, si ricalibrò su di te, e ti sussurrò, vezzosa: «Dovremmo
tenerci per mano, per solidarietà femminile?».
Dopo aver visto la tua espressione, scostò con uno sbuffo una cioc-
ca incolore di capelli e commentò: «Sei tu quella che mi ha investi-
gato le tonsille».
Sovrastando la preghiera che ancora gracchiava dalla griglia degli
altoparlanti, Mercy disse: «Rilascio tra trenta». E l’Imperatore: «Non
triangolare. Non vogliamo metterli in pericolo. Terremo la rotta fin-
ché la Erebos non sarà uscita dal nostro raggio».
L’Imperatore prese il magnifico scialle color arcobaleno e lo drap-
peggiò sulla poltrona di pilotaggio. Mercymorn ci si sedette sopra con
grazia, allacciandosi la cintura. Il Corpo era sparito. I piccoli agglo-
merati di ossa che rivestivano il parabrezza della cabina di comando
ticchettavano armoniosi per lo spostamento d’aria. L’Imperatore si
fermò alle spalle di Mercy, la mano posata sullo schienale della pol-
trona – quando si muoveva, anche lui era tutto un tintinnio di pen-
nini di plex. Si sporse in avanti per pigiare il pulsante del comuni-
catore. L’orazione si interruppe come se i polmoni dell’assemblea in
preghiera fossero rimasti a corto d’aria.
«I nostri nemici hanno ancora una volta alzato la mano per minac-
ciare chi a loro non riserva che pace» disse. «Di nuovo, il patto è sta-
to violato e, di nuovo, veniamo colpiti rabbiosamente, e per paura, da
chi non usa la ragione e da chi non può perdonarci per ciò che siamo.
Voi, che avete prestato servizio sulla Erebos – miei soldati e necro-
manti delle Nove Case – se mai vi ritroverete sul campo di battaglia,
ricordate che saprò trasformare in una spada persino l’eco morente
dei battiti dei vostri cuori. Farò in modo che il suono delle vostre lin-
gue immote diventi un ruggito. Vi richiamerò quando sarete spiriti
nell’acqua, e grazie a quel ricordo diverrete divini. Quando morirete,
trasformerò in frecce e lance il sangue dei vostri corpi.

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«Io sono il Re Imperituro, ricordatelo.»


Sollevò la mano dal bottone del comunicatore, troncando l’ululato
bestiale e trionfante che riecheggiava dall’hangar di atterraggio. Eri
dolorosamente conscia dei bagliori thalergici che rivelavano la pre-
senza sul ponte degli ufficiali della Coorte. Dieci di loro erano rag-
gruppati a una quarantina di metri scarsi da voi: troppo vicini per
poter fare qualcosa per assistere la navetta, ma forse raccolti in pre-
ghiera. Ce n’erano altri, più lontani. Una fila ordinata, pulsante di san-
gue, punteggiata di flora intestinale. Probabilmente stavano azionan-
do i meccanismi. Dei boati attutiti accompagnarono lo sgancio degli
ormeggi della navetta.
Dietro alla parete imbrattata di sangue, i motori presero vita con un
gigantesco rombo sordo; le luci thalergiche si fecero man mano sem-
pre più lontane mentre venivate calati giù per il condotto sui lunghi
montanti di plex e acciaio. Mercy alzò una leva, arricciando il naso
per la concentrazione, e la thalergia si sgonfiò del tutto. Precipitavate
nello spazio. Per quel che riuscivi a percepire al suo interno, la navet-
ta poteva benissimo essere vuota, a eccezione di quell’unico fagotto
fetale di thanergia che giaceva immobile nella bara. Guardando fuo-
ri dall’oblò di plex alle tue spalle avevi visto la Erebos, e per la prima
volta eri riuscita a farti un’idea dell’enormità dell’ammiraglia: l’ac-
ciaio lucente, scuro e iridescente, come una perdita d’olio; il mosaico
di scheletri intrecciati distribuiti sull’intera superficie della struttu-
ra, che faceva somigliare il vascello a un immane ossario semoven-
te. L’alone luminoso dell’accensione dei motori ti ferì gli occhi men-
tre si allontanava, accelerando.
La gravità artificiale ti permetteva di rimanere perfettamente ferma
e stabile, ma ti sentivi comunque male all’idea di galleggiare e rimbal-
zare nello spazio come il rottame abbandonato di chissà quale carico.
Dio disse: «Bambine, venite».
Non ti serviva di certo un invito. L’Imperatore tamburellava le dita
sullo schienale del sedile di pilotaggio, il nero su nero dei suoi occhi
insoliti non era puntato su di te. Aggiunse: «Dovrete ascoltarmi con
grande attenzione, entrambe. Il Mithraeum è molto lontano e la no-
stra non sarà una rotta classica. Sto per impartirvi la prima lezione,
e questa lezione sarà la base della lezione più importante che mai ap-
prenderete in qualità di Littrici. Arriverà il momento in cui impare-

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rete facendo domande – un tempo in cui imparerete per tentativi ed


errori – ma oggi imparerete facendo esattamente quello che vi chie-
derò. L’unica altra alternativa sarà la vostra distruzione».
La cosa non ti scioccò particolarmente. Eri una figlia del Sepol-
cro Sigillato. Lo spettro della distruzione era stato il tuo fedele com-
pagno da quando avevi tre anni. Ianthe, a voce bassa e percorsa da
un’eccitazione a malapena tenuta a freno, disse: «Credevo che avrem-
mo usato una stele».
«Una stele è alta due metri e mezzo, deve essere ricoperta di lingue
morte da adepti specializzati della Quinta e va tenuta immersa sen-
za soluzione di continuità nel sangue ossigenato» commentò Mer-
cymorn dal sedile di pilotaggio. «Il tipo di oggetto che, se a bordo ce
ne fosse uno, ti farebbe esclamare piuttosto alla svelta, “Oh, guarda
un po’, una stele!”.»
«Vi sono grata, sorella maggiore. Amo immensamente essere istrui-
ta» fece Ianthe.
«Dove stiamo andando non ci sono obelischi a cui una stele pos-
sa agganciarsi» proseguì l’Imperatore, che aveva smesso di tambu-
rellare sullo schienale della poltroncina di pilotaggio (dopo che Dio
si era sentito dire dalla sua Littrice, scocciata: «È veramente fastidio-
so… se non ti dispiace…») e ora si stava risistemando, inquieto, la
manica stazzonata della camicia. «Vi porterò entrambe nel Fiume.»
Sulle vostre facce doveva essersi dipinta una ragguardevole espres-
sione di vacua incomprensione. Aveva proseguito, ora un po’ più in
astratto: «È l’unico modo. Il viaggio a velocità maggiore della luce si
è rivelato una fregatura, perlomeno nel modo in cui è stato architet-
tato in origine. Il primo metodo ha distrutto qualcosa che riguardava
il tempo e la distanza, rendendolo in buona misura inutilizzabile…».
«Ho sempre pensato che la faccenda si sarebbe potuta gestire cor-
rettamente con i wormholes» aveva commentato la Santa della Gioia,
eseguendo una manovra astrusa coi comandi, «o con la dilatazione
spaziale.»
Dio disse: «La famiglia di manovre è quella. Abbiamo ideato, in-
vece, la stele e l’obelisco, che hanno meno a che fare col viaggio e più
con la trasmissione. Ma ci saranno occasioni, nel vostro futuro, in
cui avrete bisogno di muovervi indipendentemente dalla necessità
di un obelisco, e altre future occasioni ancora in cui dovrete onorare

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il sacro dovere Littoriale di installare obelischi, il che implica il do-


ver viaggiare servendovi del Fiume. Mi piace concepirla come la di-
scesa in un pozzo».
Udirono un piccolo suono di dissenso che proveniva dal posto di
pilotaggio. «Maestro» disse Mercy, «è il Fiume. Hai già a disposizio-
ne una metafora acquatica perfettamente funzionale.»
«Be’, voglio dare l’idea di due profondità, e non voglio confonder-
le con l’idea della velocità quando invece…»
«… è il Fiume, il che ti permette benissimo di dire: “Immaginate
un Fiume”…»
«Mercy, o non ti piace la mia precedente definizione del Fiume,
perfettamente idonea, o ti piace. Decidi tu.»
«Non ti aiuterò a concretizzare il viaggio hyperpotamol, grazie mil-
le per l’opportunità, mio Signore» fece Mercy.
«In questo caso, nonostante hyperpotamol sia un termine asso-
lutamente ottimo che risulta orecchiabile e fa esattamente quel che
promette l’etichetta, devieremo» disse il Signore delle Nove Case
che, all’apparenza, esisteva all’interno di una complessa dinami-
ca di potere. «Userò l’immagine di Cassiopeia.» («Oh, no. La lava»
commentò Mercy.) «Ragazze, immaginate un pianeta roccioso con
un nucleo di magma al di sotto del mantello. Per viaggiare via terra
da un punto all’altro vi ci vorrebbe un anno. Ma riuscendo a com-
prendere il vostro viaggio e gli spazi relativi sufficientemente bene,
potreste invece tuffarvi nel magma, che vi porterebbe a destinazio-
ne in un’ora.»
Fece una pausa. L’interno della navetta ti sembrò all’improvviso
molto silenzioso: le apparecchiature non producevano rumori, a ec-
cezione degli sporadici scricchiolii fragorosi degli ingranaggi del ti-
mone. La voce di Ianthe ruppe quel silenzio meccanico, freddo come
l’acciaio. Disse, con circospezione per lei insolita: «Maestro, il Fiume
è un enorme spazio liminale forgiato dalla magia spiritica, popolato
da fantasmi resi folli dalla fame».
«Ed è qua che la metafora del magma casca a pezzi» disse Mercy,
con lo sguardo ancora puntato sui comandi di pilotaggio.
L’Imperatore rispose con impeccabile gravitas: «Immaginiamo che
il magma sia pieno di pesci magmatici divora-gente impossibili da uc-
cidere. Sorgono due problemi. Il primo è che gli esseri fatti di carne

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e sangue muoiono all’istante nel magma. Il secondo è la nostra vul-


nerabilità ai pesci antropofagi».
La tua sopportazione per i pesci magmatici antropofagi sarebbe
stata messa a durissima prova da chiunque non potesse fregiarsi del
titolo di Dio. Ma la sua divinità, avevi pensato, garantiva a Dio anco-
ra una sessantina di secondi. Ma poi lui disse, più piano: «Stiamo per
spostarci di quaranta miliardi di anni luce, verso il luogo dove ci sia-
mo rifugiati all’inizio… io, e i sei che mi rimanevano. Un elemento fra
noi era già morto, e un altro era stato estromesso dai giochi. Aveva-
mo bisogno di un posto dove leccarci le ferite, un posto lontanissimo
da tutto quello che amavamo, per attendere – per disperderci – sen-
za il timore che gli sguardi che si stavano puntando su di noi finis-
sero per travolgere le Nove Case nel loro tragitto. È una parte buia,
fredda e sgradevole dello spazio, e le stelle laggiù sono vecchie e, già
al tempo, quasi morte. Le abbiamo bombardate con la thanergia e ora
splenderanno per sempre, ma la luce non è la stessa… impiegherem-
mo anni ad arrivarci se ci muovessimo di stele in stele. Quanto lonta-
no dal sistema era la Numero Sette all’ultimo rilevamento, Mercy?».
«Contando a ritroso, cinque anni» disse Mercymorn, con le mani che
si erano finalmente fermate sulla plancia piena di bottoni, interrutto-
ri e ossa smaltate. «Cinque anni, sei mesi, una settimana, due giorni.»
«Un mero battito di ciglia» commentò l’Imperatore, a mezza voce.
Si scostò dal sedile di pilotaggio e disse: «Tempo fa abbiamo compre-
so – uso il noi, ma io c’entro poco e niente – che là sotto le distanze
sono differenti. Il Fiume non scorre attraverso il tempo e lo spazio
che stiamo vivendo ora; il Fiume è… be’, è una corrente sotto di noi,
come espresso dall’analogia col magma. La distanza nel Fiume non
corrisponde alla distanza in superficie. Se vi ci butto dentro, potremo
emergere quasi all’istante dall’altra parte dell’universo, a casa. Sulla
stazione, il nostro rifugio. Lo chiamiamo Mithraeum».
Allargò le mani: mani comuni, dita comuni, unghie chiazziate d’in-
chiostro. «Guardate la barriera. Che cos’è?»
Stavi iniziando a notare il timbro della sua voce da Maestro. Quel-
lo era un terreno familiare, non scalfito dal magma. La barriera oscil-
lava lievemente nell’ombra, uno scherzo della luce e del sangue. Gli
avevi risposto: «È solo una barriera fantasmatica» e dopo un secon-
do ti eri pentita di aver parlato come una strega ossea di provincia.

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Per fortuna Ianthe si era dimostrata ancor più petulante, e una fat-
tucchiera corporale fino al midollo, aggiungendo: «Non è neanche una
barriera fantasmatica sofisticata. Cioè, è splendida, impeccabile fin
nella coagulazione. Ma io facevo già cose del genere a cinque anni».
«Quel repellente fantasmatico impedirà alla nostra nave di frantu-
marsi» disse l’Imperatore. «Quel repellente fantasmatico farà scap-
pare urlando ogni singolo spirito solitario nel raggio di chilometri.
Per un po’.»
«Un minuto e trentatré secondi» disse Mercy.
Lui precisò: «Più o meno.»
L’Imperatore venne a inginocchiarsi davanti a te e a Ianthe, come
si era accovacciato di fronte a Mercymorn poco prima. Ti feriva an-
cora in una maniera indefinibile, vederlo degradarsi così: era come
se ti stesse sottoponendo a un test di obbedienza, sentivi di dover-
ti appiattire al suo cospetto, abbassandoti il più possibile. L’anello
candido attorno alla sua pupilla era bianchissimo. «Il vostro com-
pito sarà semplice, com’è la maggior parte delle cose molto diffici-
li. Io spingerò tutti noi nel Fiume, e trascinerò con noi la nave. Voi
dovrete custodire le vostre menti: posso portare i vostri corpi fisi-
ci, ma le vostre anime non li accompagneranno, non senza che le
teniate ben strette.»
«Trasferenza fisica oltre i confini liminali» avevi mormorato, sor-
prendendoti di quella conoscenza che sgorgava da te, come se non
fosse la tua. «È profonda magia spirituale della Quinta.»
«E io benedico la Quinta Casa e benedico anche la loro memoria
di ferro» disse l’Imperatore. «Si addentrano abbastanza per attirare
i fantasmi perduti. Restano sul confine e sventolano pezzi di carne e
materiale d’ancoraggio. Ma non si avvicinano alla riva.»
Con un tono interrogativo che ricordava molto di più quello della
sua sorella gemella, Ianthe disse: «Ma se venisse applicato a livello uni-
versale, rivoluzionerebbe la flotta. Non si consumerebbe carburante o
energia, si viaggerebbe all’istante. Saremmo veramente inarrestabili.»
Mercy scoppiò in una risata squillante e malevola. «Un necroman-
te potente all’apice delle sue capacità durerebbe dieci secondi nel Fiu-
me» disse Dio, rialzandosi in piedi. «La magia spirituale è la livellatrice
definitiva. La sua thanergia verrebbe prosciugata nella prima mancia-
ta di secondi… seguita dalla sua thalergia e poi dalla sua anima. Non

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darebbero al suo spettro nemmeno il tempo di raggiungerlo. Ritor-


nando alla nostra analogia, non può vivere nel magma.»
«Noi possiamo vivere nel magma» disse Mercymorn, piantando un
gomito sulla plancia di pilotaggio e posando la testa nell’incavo, per
poi gemere: «Ecco, ci sono cascata anch’io».
«Un Littore ha una temperatura basale metaforica che supera i mil-
le gradi» disse l’Imperatore. Era andato di nuovo a controllare le cas-
se e i fermi. Lo spazio ruotava lentamente fuori dai finestrini. Stordi-
va, nel suo nero esorbitante. «Possiamo contare su questa barriera di
fattura incomparabile, la splendida creazione di un’esperta che le ha
sacrificato il sangue del suo cuore – potrebbe reggere per un minu-
to e mezzo. Spero in un’impennata fino a un minuto e quaranta, con
una fattura del genere. Dopodiché dovremo vedercela noi… nessun
Littore è durato più di sette minuti in immersione fisica totale. E lì si
era trattato di uno sforzo titanico da parte di Cassiopeia la Prima, che
era brillante, assennata e cauta. Era convinta di poter adescare nella
corrente delle porzioni fisiche della Bestia Resurrezionale. Aveva ra-
gione. L’aveva seguita.»
Tu avevi domandato: «E poi?».
Mercy avevi risposto, sommessamente: «È saltato fuori che essere
brillanti, assennati e cauti non ti impedisce di essere sbrindellato da
diecimila fantasmi selvaggi».
Ianthe disse: «Ma la Bestia…?».
«È riemersa illesa venti minuti dopo» disse l’Imperatore. E aggiun-
se: «La vita è una merda».
Guardò le stelle fuori dall’oblò, la lucentezza ingioiellata di un pla-
netoide in lontananza, che dalla tua posizione pareva di un rosso fu-
ligginoso. «Slacciatevi le cinture» aveva detto lui. Entrambe avevate
eseguito. «Stendetevi sul pavimento.»
Tu e Ianthe avevate risposto con una voce sola. La tua era un sus-
surro riarso, la sua bassa e fredda: «Sì, Maestro».
Ti eri coricata per terra, imbarazzata dai tuoi stessi arti. Il Principe
Clemente vi aveva detto, con tono fermissimo: «Cominciate a rallen-
tare la respirazione. Voglio che arriviate a due respiri al minuto. Se
avete bisogno di riempirvi d’ossigeno, fatelo adesso. È passato mol-
to tempo dall’ultima volta in cui ho pensato di insegnare a qualcuno
questo giochetto, e so a malapena da dove cominciare».

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«Dovresti cominciare con la prova di Pyrrha» aveva esclamato all’i-


stante l’altra Littrice.
«Giusto» commentò l’Imperatore. E poi: «Cioè, il mio intento era
suppergiù faceto, Mercy, ma sì, potrei cominciare da lì. Vi ricorda-
te la prova di proiezione, alla Casa di Canaan? Laboratorio Tre, con
tutta probabilità».
Ti ricordavi dell’enorme costrutto di osso rigenerante, le tue mani
intrappolate e l’impossibilità di divincolarti per liberarle, la tua mente
nauseata che si avventurava nei meandri del cervello di un’altra per-
sona. Dio disse: «Vi serviranno quelle competenze, ora. Il vostro cor-
po e la vostra mente non si abbineranno automaticamente nel Fiu-
me. Dovrete tenerli insieme e basterà una mossa falsa per ritrovarvi
con la coscienza bloccata alla periferia di Dominicus a domandar-
vi come diavolo si torna a casa. La maggior parte delle volte non vi
prenderete neanche la briga di portare il vostro corpo in quelle ac-
que – è troppo pericoloso – ma per il viaggio fisico, ci servono sia la
mente che il corpo».
La tua mente galoppava e ti eri maledetta – non per la prima volta –
per non aver proseguito i tuoi studi avanzati di magia spirituale. Ave-
vi domandato: «Che succede a un corpo Littoriale senza un’anima?».
Dio aveva esitato. «Ritrovarti separata dalla tua anima non ti ucci-
derà» aveva detto. «Non immediatamente. Ma…»
«Ma saremo noi a ucciderti» intervenne la sua santa. «All’istan-
te. Il corpo di un Littore, vuoto, con la sua batteria intatta ma nessu-
no al posto di guida? Hai idea di ciò che potrebbe trovarvi dimora?
Qualsiasi cosa potrebbe entrare dentro di te – una qualunque entità
orrenda o malvagia o solitaria, ogni miserabile redivivo, o peggio – e
tu, mocciosa della Nona Casa, non sei nemmeno lontanamente qua-
lificata per combattere un predatore esterno. Sei come una neonata.
Ascoltami bene: se una volta dall’altra parte scoprirò che sei sparita
e ti sei persa l’anima per strada, ti separerò il cervello dal cranio sen-
za neanche darti il tempo di raggiungerci.»
E Dio non aggiunse altro.
«Quando si inizia?» il tono di Ianthe si era fatto clinico, come se
fosse in attesa dell’estrazione di un dente.
«Iniziare?» fece Mercymorn. «L’immersione è cominciata tren-
ta secondi fa.»

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Dio chiese: «Il timer?».


«Impostato su cinque minuti.»
«Occorre un’andatura più lenta. Mettilo a sei.»
«Cinque e mezzo» fece Mercymorn, ma Dio puntualizzò: «Non sto
negoziando. Aggiornaci sugli incrementi una volta raggiunta l’acqua».
La Santa della Gioia rispose, con un’obbedienza inaspettata: «D’ac-
cordo. Fai attenzione, Maestro».
Nelle profondità dello spazio, ora diventate le profondità del Fiume,
la navetta era un bozzolo di gravità fasulla. Non sapevi da che par-
te fosse il sopra o il sotto, o in che direzione stessi andando. Eri co-
ricata sul pavimento e cercavi di impedire ai tuoi polmoni di espan-
dersi troppo in fretta. Rallentare il respiro ti stava appannando. Non
ti sentivi in pace, ma piuttosto intorpidita e pietrificata, con le pal-
pebre pesanti. Poi Dio disse: «Restate coscienti» e avevi contratto i
muscoli dei polpacci fino allo stremo, giù fino ai tendini che li colle-
gavano ai talloni.
Ti eri stesa sopra alla tua spada mummificata, che attendeva im-
musonita sotto alla sua calafatura d’osso. Fissavi il soffitto. Inclinan-
do il capo, avevi scoperto che Ianthe ti stava guardando attraverso.
Era distesa tra il suo stocco e la sua arma secondaria, ed eravate abba-
stanza vicine da suscitarti dell’imbarazzo. Mercy aveva detto: «Cap-
pucci sulla testa. C’è un motivo se sono traslucidi». E l’Imperatore
aveva aggiunto: «È più semplice quando si riesce a percepire la luce,
ma senza lasciarsi distrarre».
Non ti dispiaceva farlo. Il tuo campo visivo si era squagliato in un
groviglio di bagliori, sembrava di guardare dentro a un mal di testa
o al rumore bianco. Non c’erano forme o ombre. Ianthe si era dissol-
ta accanto a te in un fagotto madreperlaceo. Era impossibile stabili-
re quali variopinte scintille visive dipendessero dal mantello e quali
fossero i bagliori della tua emicrania da panico.
Il tuo respiro aveva una sgradevole sonorità martellante. Quello
di Ianthe pareva un muggito. Non riuscivi a sentire quello dell’Impe-
ratore delle Nove Case – forse non ti era mai capitato – e nemmeno
quello della Littrice più vecchia. I controlli di climatizzazione della
navetta dovevano essere stati spenti o ridotti a un livello che sarebbe
stato basso anche per gli standard della Nona Casa: sotto alle vesti
leggere e al camice color menta, la pelle delle cosce ti si era accappo-

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nata per il gelo. E non succedeva niente. Nessun risucchio thanergi-


co, nessuna flessione thalergica. Non eri mai stata un’adepta spiriti-
ca, e ora non percepivi le sottigliezze della transizione; faceva molto
freddo. Tutto lì.
Eri un peso morto in quel gelo schiacciante, ogni respiro un pode-
roso rigonfiarsi dei polmoni, dentro e fuori, dentro e fuori. Eri con-
scia di te stessa, di ogni connessione energetica che c’era dentro di te;
eri consapevole delle vesciche sui tuoi piedi, della gola raschiata dal
troppo vomitare e della solitudine che percepivi nella tua testa. Eri
imbarazzata dalla tua distrazione. Non ti eri mai resa conto così in-
tensamente della fisicità del corpo, durante le tue precedenti medi-
tazioni. La luce sul soffitto, sopra di voi, si era attenuata in un aran-
cione caliginoso, come quello di una fornace accesa; eri piombata in
un intorpidimento sognante, mezza viva, mezza morta, la tua ansia
era stata repressa e calcificata, finché non avevi sentito Ianthe urlare.
Avevi sbirciato dall’esigua fessura che separava il cappuccio dalla
tua guancia. Non avevi emesso suono, perché non eri certa di vede-
re quello che stava vedendo Ianthe: per quanto ti riguardava, tu ve-
devi l’acqua.

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L’acqua salì gorgogliando, filtrando dalle
giunture imbullonate dei pannelli del pavimento, era di un rosso ler-
cio e rugginoso, con una patina che somigliava al liquame di fogna.
Aveva già riempito la parte anteriore della navetta ed era arrivata a
sommergere quel che riuscivi a vedere delle scarpe dell’Imperatore.
Sembrava incerta su come gestire la gravità, scorrendo prima da una
parte e poi dall’altra; ma poi cominciò a sgorgare a fiotti ad alta pres-
sione dai lati del parabrezza della cabina di pilotaggio.
«Trenta secondi» disse Mercymorn, il cui tono era passato a tal
punto dal petulante al clinico che pareva la voce di un’altra donna.
«Restano cinque minuti e trenta.»
Del movimento, vicino a te sulla destra. L’Imperatore disse: «Ri-
manete distese».
Ianthe esclamò, concitata: «Mio Signore, riesco a vederli».
Vederli? Ma l’Imperatore rispose: «Concentrati su di loro. Non
avere paura. Abbassa il cappuccio, se vuoi. Ma pensa anche ai parti-
colari della navetta… a dov’eri, a dove sono io, a dov’è Mercy e a do-
v’è Harrow­hark… i dettagli della navetta sono un ricordo proiettato e
non sono affatto reali, ma si dissolveranno ulteriormente man mano
che il tuo corpo resterà indietro, e io non voglio perderti».
Nelle vuote vastità dello spazio o per mano di Mercy? La Littri-
ce disse: «Quattro minuti e trenta secondi residui. Alla barriera resta
mezzo minuto, presumibilmente».
Eri troppo curiosa per resistere. Ti eri scostata il cappuccio opalino
dalla faccia, trasalendo fin nel profondo dell’anima. L’acqua torbida e
oleosa stava riempiendo la navetta a velocità di crociera. Il pavimen-

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to era sparito completamente e il suo realismo bagnato e corporeo


ti atterriva: eri inzuppata fin quasi alle costole da quelle onde tiepi-
de e unte. Ianthe si era seduta – non era mai stata capace di seguire
le istruzioni – e stava fissando, con lo sguardo velato, un punto che
tu non riuscivi a vedere, rigida e stupefatta. Tu ti eri guardata attor-
no, ma del Corpo non c’era traccia.
C’era solo acqua. Lambiva gli orli dei pantaloni dell’Imperatore che
sedeva tranquillo, armeggiando col suo tablet come se la cosa non
gli arrecasse alcun fastidio. Non riuscivi a vedere bene l’altra Littri-
ce, a parte le braccia, illuminate dal bagliore dei comandi della ca-
bina. L’acqua ti ristagnava all’altezza del collo e aveva cominciato a
sgocciolarti nei canali uditivi. La cosa non ti suscitò lo stesso infles-
sibile terrore che sembrava essersi impadronito di Ianthe: da picco-
la eri stata immersa nell’acqua da tua madre e tuo padre, dunque la
sensazione ti risultava antica e familiare, per quanto odiosa. Le ac-
que mulinavano, alzandosi. Ti carezzavano le guance e tu, d’istinto,
avevi trattenuto il fiato.
«Lascia andare, Harrow» disse Dio, pigiando sul tablet con il suo
pennino. «Non hai bisogno di respirare.»
Avevi espirato, esalando piano dalla bocca e dal naso. Il tuo cervel-
lo venne brevemente preso dal panico mentre ti riempivi timidamen-
te i polmoni con quell’acqua calda e limacciosa. Il fluido ti era sceso in
gola in una maniera peculiare, surreale: era rimasto lì a sobbollirti nel
gozzo, senza che la peristalsi entrasse in gioco. Ti eri gonfiata d’acqua
come una bambola di gomma scaraventata in un pozzo. Con ben poca
soddisfazione avevi constatato che la cosa stava angustiando Ianthe
molto più di quanto stesse capitando a te: lei si era cinta con un brac-
cio, lasciando il destro a fluttuare abbandonato nell’acqua, e tremava
scossa da una sorta di spasmo convulso dell’anima. Fu solo il ricor-
do del coltello e del tuo palmo che ti impedì di provare pietà per lei.
Dio stava dicendo, in maniera piuttosto incoraggiante: «È tutto a
posto, Harrowhark. Te la stai cavando molto bene» il che ti gettò in
un panico paranoide. No, in realtà non te la stavi cavando bene per
niente. Qualcosa ti sfiorò la caviglia, mentre l’acqua si chiudeva so-
pra la tua testa. Non galleggiavi: eri rimasta ancorata al fondo come
un blocco di cemento, senza fluttuare. C’era qualcosa che galleggiava
assai vicino al posto di pilotaggio occupato da Mercymorn. Un lungo

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groviglio di pelle abbandonata, fresca e vergine, come se fosse stata


asportata dal fianco di qualcuno e poi cardata, privandola della car-
ne e del grasso. L’acqua in cui fluttuava ti scaldò i bulbi oculari e bru-
ciava un po’, risalendoti su per il naso.
Dalle increspature mutevoli e rifrangenti di quella marea, avevi os-
servato la barriera sulla parete: fumava. Le spire alla base sfrigolava-
no e brillavano come un macchinario guasto al contatto con l’acqua.
Cascate di scintille azzurre punteggiavano l’acqua unta come gocce
di pioggia.
«La barriera ha resistito per un minuto e quaranta secondi» le in-
formò Mercymorn. «Un minuto e quarantuno.»
Dio disse: «Due decorazioni per la luogotenente».
Lei proseguì: «Un minuto e quarantaquattro… un minuto e qua-
rantacinque» e nello spazio tra quarantaquattro e quarantacinque,
la barriera esplose. Il sangue asciutto si staccò dalla paratia in fioc-
chi marroni, come coriandoli. Si lasciò alle spalle un intarsio bru-
ciato e deformato mentre si squagliava, dissolvendosi nella corren-
te che montava. Accanto a te, Ianthe inarcò la schiena a un angolo
così acuto da piegarla a metà, come se l’avessero folgorata. La luce
ambrata delle pannellature la incorniciava; il cappuccio le era sce-
so e i suoi lunghi capelli pallidi le galleggiavano attorno alle spalle
come una membrana amniotica. Ti eri tirata su sui gomiti, distrat-
ta da qualcosa che bussava al finestrino di plex vicino a dove Mer-
cy pilotava la navetta. L’oscurità punteggiata di stelle dello spazio si
era ritirata completamente: la navetta sembrava sprofondare in un
oceano fosco e torbido.
Un altro colpo. Poi qualcosa schiaffò due mani bagnate e marce
sul plex.
«Blah! Brrr!» fece Mercymorn, calmissima. «Restano tre minuti.»
«Detesto questa parte» commentò Dio.
Un corpo nudo mangiucchiato dai pesci si schiantò sul plex, pro-
ducendo una momentanea nube di sangue prima di rimbalzare via
di nuovo. Un altro lo colpì pochi secondi dopo, ma rimase lì; era un
torso privo di gambe con la faccia masticata. Il teschio lucido, sco-
perto, continuò a bussare sulla superficie con una mano, in un gesto
che pareva implorante, prima di essere ritrascinato via dalle acque
profonde fuori dalla navetta. L’acqua all’interno ora sciabordava fino

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alle spalle dell’Imperatore, sommergendo le mani di Mercymorn. Lei


non si disturbò a staccare le dita dai controlli.
L’espressione di Ianthe restava inerte e assente. Avevi ruotato il
busto con cautela per dare un’occhiata in giro nella navetta, sott’ac-
qua, fra i coaguli marroni e rossi che andavano diluendosi nel liqui-
do, come se qualcuno ci stesse morendo dentro dissanguato. Nella
parte posteriore della navetta, ti pareva… ti era sembrato di riusci-
re a percepire un vagito acuto e veemente, al confine del tuo campo
uditivo, ma né Dio, né la Littrice più anziana e di sicuro nemmeno
Ianthe avevano reagito.
Il lamento proveniva dall’interno della navetta. Aveva un che di se-
vero e addolorato, una sfumatura di frustrazione. Ti eri girata, cercan-
do di capire da dove arrivasse. Ci fu un altro gran tonfo umido men-
tre un quarto corpo collideva con il plex, e questo trovò il modo di
restarvi attaccato, raspando orrendamente; tu, però, eri concentrata
su quel grido di violenza. Ti eri sorpresa a dire: «Qualcuno sta pian-
gendo, mio Signore» ma lui aveva replicato con un borbottio insen-
sato, un mormorio che non eri riuscita a decifrare.
«Due minuti e trenta secondi residui» disse Mercymorn con un
tono che aveva assunto la secchezza della cautela.
L’Imperatore disse: «Non sono numerosi come mi aspettavo».
«Non mi piace» commentò la sua Littrice.
Il tuo sguardo tornò a sollevarsi verso il soffitto. L’acqua, oleagino-
sa e sempre più calda, era invasa dai detriti e dai rimasugli di cadaveri
maciullati. Quando qualcosa ti aveva urtato il piede, avevi sobbalza-
to, prelevandoti un minuscolo granulo d’osso dalla tibia e cercando di
fargli superare la barriera della pelle per rivestirti il piede. Non fun-
zionò un granché. Invece di un sottile ago materico, quello che ave-
vi tirato fuori, appena sopra il confine epifisiale, era un coagulo umi-
diccio. Lo stinco si aprì come un fiore; il tuo sangue e la tua materia
cellulare si dilatarono sulle tue vesti iridescenti e fluttuarono verso
l’alto. Dio si voltò e, se il suo viso ti risultò indistinto nel torbidume,
la sua voce non lo era affatto…
«Oh…» usò un termine che non eri riuscita ad afferrare. «Harrow­
hark, niente teoremi!»
«Non essere ridicolo. Non è possibile che stia usando un teorema»
sbottò Mercy. «È a malapena vigile e, a questo punto, sarebbe asso-

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lutamente al di fuori delle sue capacità… John, fermala, sta usando


dei teoremi!!!»
Il dolore non contava. La navetta attorno a te era stata in qualche
modo scossa da un fremito: la sinaptogenesi ti aveva invaso la scatola
cranica, e stavi aprendo gli occhi. Eri distesa in un mare di cadaveri.
Ti avevano già urtata prima che potessi rendertene conto, prima che
potessi ritrarti dalla loro prossimità: forse il sangue li aveva evocati,
facendoli apparire dal niente, data la rapidità con cui si erano mate-
rializzati lì. Ti eri alzata in piedi senza pensare, e altri ti avevano sfio-
rato delicatamente i gomiti, le braccia. Rivestivano la pavimentazione
della navetta ondeggiando sospinti da una bassa corrente invisibile,
sprovvisti dell’aria per risalire, alla deriva. Attraverso il velo sottile
del tuo sangue riuscivi a vedere quel frastornante assembramento di
corpi scivolosi, i visi dipinti di nero e di grigi alabastrini. Adolescen-
ti morte, con le ossa semiesposte congelate nell’atto di fondersi sulla
calotta; bambini morti che dovevano ancora finire di perdere i denti
da latte; infanti asessuati, quasi tutti teschio, le unghie che somiglia-
vano a minuscole schegge di pietra. Una bimba col corpo gommo-
so, la faccia dipinta e i capelli rossissimi giaceva morta vicino al tuo
ginocchio e, per qualche ragione, fu proprio quello a distruggerti, fu
quello che riattizzò in te qualcosa contro cui non avevi la speranza di
poterti difendere. Ti eri messa a urlare, presa da un terrore purissimo.
L’Imperatore si stava avvicinando a te, guadando quell’accozzaglia
galleggiante di carcasse. Ti stava dicendo qualcosa a cui non eri riu-
scita a prestare una grande attenzione: «Harrow, non è reale. Solo
tu puoi vedere quello che stai vedendo, e tutto quello che c’è dentro
alla navetta è un’illusione. È il Fiume. Il Fiume è un predatore: i morti
sono nel tuo cervello. Si sta impegnando di più con te perché sei so-
stanzialmente arrivata più in profondità di Ianthe. Non credevo che
saresti riuscita ad andare così a fondo, la prima volta, ma ci sei riu-
scita. Torna, cammina verso di me».
«Due minuti residui» disse Mercy. E aggiunse: «Si stanno muoven-
do verso la sorgente del rumore. Maestro, sono rimasta ferma sulla
riva a veder morire Cassiopeia…».
«… non forzare il motore, Mercymorn…»
«Li ha attirati lontano dal cervello; io c’ero, in proiezione, e ho vi-
sto quando l’hanno afferrata per le gambe e le braccia… stavo siste-

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mando le esche per la Bestia, ero là, e ho pensato tra me e me: “Mio
Dio, che cosa ne faremo della tua collezione di ceramiche? C’è così
tanta roba”.»
Ti eri coperta il viso con le mani, di nuovo spaventata dal non riu-
scire a chiudere gli occhi. Quando avevi schiacciato le palpebre ver-
so il basso, la luce era cambiata, e – questo te lo ricordavi, come se
l’avessi già fatto prima – avevi perso la percezione della complessità
visiva. La navetta era sparita, ma l’acqua no, e i corpi erano ovunque.
Ti eri smarrita in una faglia profonda. Delle pustole incandescenti e
sanguinolente ti erano spuntate ribollendo sulla pelle, ed eri conscia
di te stessa, non a livello strutturale ma in qualità di bagliore malatic-
cio: un bagliore malaticcio fra altri bagliori malaticci, uno, due, tre,
quattro, cinque, tutti attorno a te, uno sotto. L’urlo distante si smor-
zò. Ti eri resa conto che veniva da te.
Avevi aperto gli occhi. Osservavi la distesa di corpi dei bambi-
ni morti della Nona Casa, decifrando te stessa come un agglome-
rato ovarico di duecento capocchie di spillo luminose. Eri un sigil-
lo: eri un amalgama di fuochi. Il fluido ti era stato risucchiato dalle
cavità nasali, e con esso il cervello, presto disgregato. Eri stata dimi-
nuita. Eri una gola, eri un forno. L’acqua bolliva, incandescente, e la
pelle sciolta ti si staccava di dosso in fettucce arrossate, sempre più
piccole; le capocchie di spillo ribollivano dentro di te, e i corpi bolli-
vano fuori: eri la fame senza uno stomaco. Percepivi la depressione
thanergica dentro la bara, la curva di una mandibola infantile, l’arco
pallido di una bocca morta. Non capivi di essere in piedi, non capi-
vi di esserti messa a camminare, ma stavi facendo entrambe le cose.
Stavi morendo in quell’acqua calda; qualsiasi entità bramasse la tua
tuta di carne poteva prendersela.
«Harrowhark» aveva detto Dio. «Qui… qui da me, piccola. Non oso
toccarti. Vieni verso di me. Verso di me… Mercy, per l’affetto che ci
lega, non premere quel bottone.»
«Trenta secondi» disse Mercymorn, e più piano: «Mio Signore, stai
condannando le tue Case».
Riuscivi a vedere tutto. La navetta era un nido da quattro soldi,
una fusoliera e un rivestimento di metallo, impacchettato con plex e
gel antiattrito; fragile, in una maniera allarmante. Riuscivi a vedere
in una molteplicità di direzioni. Potevi scorgere la barriera sanguigna

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morta che mulinava sott’acqua, il metallo in cui era stata incastona-


ta che si arricciava e sussultava sotto il peso di un vapore ultrariscal-
dato. Riuscivi a vedere il tuo sangue vivo, che si sollevava davanti a
te in piume di un rosso acceso, lasciandoti chiazze rosse sulle vesti.
Mercy disse: «Venticinque. La navetta sta diventando porosa. Ini-
zio a sentire la resistenza».
«Aspetta.»
Simile a un pugno, qualcosa colpì la navetta che piroettò su se
stessa, facendo quasi un giro completo, come una trottola. E tu ti eri
staccata, allontanandoti da quell’ago. Eri caduta in ginocchio su un
soffice mucchio morto di bambini e, girandoti, avevi visto Ianthe di-
stesa per terra, che strillava di paura senza il minimo ritegno, pun-
tellata sui gomiti.
Mercy non ci badò. «Venti secondi.»
«Prendo Harrow. Accelera.»
«Oh, grazie a Dio, finalmente… cosa intendi con “prendo”…»
«Dovrò toccarla. Schiaccia quell’acceleratore.»
«Aspetta, mio Signore, se ti trascina via…»
«Dài gas, Mercy, per l’amor di Cristabel!» urlò Dio.
Mercy azionò una leva. Cinque punti luce. Ianthe era inconsisten-
te, vitrea, tremava fuoriuscendo dai suoi contorni come se la vibra-
zione la stesse bandendo dalla realtà. Tutto veniva trascinato via in
questa risacca folle e ribollente e, seguendo la direzione dello sguar-
do di Ianthe, il parabrezza di plex della navetta era una massa di mani
morte, budella sfilacciate, acqua e sangue. Dal punto in cui stavi, in
ginocchio, qualcosa ti aveva afferrata sotto le ascelle e tirata indietro;
ci fu un enorme rumore soverchiante, come un immane macchina-
rio che si inceppa, e tu continuavi a pensare, “Cinque?”, ma di te non
era rimasto più niente.

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Il tè era soverchiante, il sapore era troppo carico.
Per scelta, Harrowhark aveva sempre bevuto solo acqua. Da piccola,
o quand’era malata, il maresciallo le preparava dell’acqua zuccherata
con una goccia di limone preservato, come sfizio; persino in quelle
occasioni, tra un sorso e l’altro le occorreva fare una pausa. Ogni vi-
vace scintilla citrica era un mezzo piacere e una mezza tortura per la
sua lingua; la dolcezza così acuta da farle quasi male ai denti. Quella
nuova roba calda sapeva di falò nella foresta. Fu con le papille gusta-
tive gravemente ustionate e zero salivazione in bocca che si immobi-
lizzò quando quell’ometto penoso le disse, sorridendo: «E forse i de-
voti del Sepolcro Sigillato ci onoreranno con la loro intercessione?».
Quelli che le parvero essere mille occhi si voltarono nella sua dire-
zione. Harrowhark si bloccò, invasa da un possente furore interiore.
Fu il suo paladino ad aprire la bocca nel vasto atrio cadaverico della
Casa di Canaan, recitando: «Prego per il sepolcro, che resti sigillato in
eterno. Prego per la roccia, che non venga mai scostata…».
Lei non si unì. Se non si cominciava a pregare perfettamente all’uni­
sono, meglio non mettersi a pregare fuori sincrono. Ascoltò Ortus che
declamava quelle parole a cui, all’improvviso, dubitò avesse mai cre-
duto, colma di un risentimento sfinente verso se stessa e verso i suoi
sudditi, ovunque si trovassero. In quella sala marcescente c’erano per-
sone di ogni dimensione e atteggiamento; a parte i tre sacerdoti erano
tutti giovani, o sufficientemente giovani a uno sguardo abituato alla
grigia congregazione di cui disponeva lei, ed erano tutti abbigliati in
uno spettro cromatico da incubo, pieno di fronzoli e tessuti. Dei co-
strutti da manuale stazionavano nei paraggi, vestiti di bianco. Detesta-

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va quando la gente vestiva i costrutti; le puzzava di stravaganza, come


se qualcuno costringesse un martello a mettersi un cappello. Li ave-
vano scortati nell’atrio, lasciando cadere grosse manciate di qualco-
sa di verde e bianco che le persone avevano allegramente schiacciato
sotto ai piedi camminando sotto gli archi di marmo spaccato dell’at-
tracco della Prima Casa. Si era resa conto, con un fremito di frugale
orrore esotico, che si trattava di materia vegetale. Alcuni tra i conve-
nuti avevano lanciato occhiate rapide e furtive a lei e a Ortus; lei era
conscia di non essere una presenza imponente – fin troppo conscia
di poter essere scambiata per una persona più giovane, era consape-
vole dell’impressione ottica che dava Ortus, le cui stazza e tristezza
riempivano stanze in cui le già risultava minuscola – e i loro sguardi
trattenevano guizzi che i suoi occhi eccessivamente irritati non era-
no in grado di tradurre. Benissimo. Quello si poteva gestire; l’errore
lo stavano commettendo loro, con tutte le scarpe.
“O salma del Sepolcro Sigillato”, pregò silenziosamente tra sé e sé,
“che il gelo della morte colga chi mi rivolge sguardi pietosi; che la mor-
te incenerisca chiunque mi osservi divertito; che una morte rapida si
abbatta su chiunque posi su di me l’occhio pauroso.”
Quando Ortus era ormai in dirittura d’arrivo, i sacerdoti della Pri-
ma sorrisero, lievemente e solo con la bocca. Harrow si rese conto
che la Prima e la Nona erano le uniche Case in grado di comprende-
re come si potesse restare in attesa di una cosa che non sarebbe mai
successa. Il suo Paladino concluse la preghiera, addolorato: «Sia lode
dunque al Signore della Lama Affilatissima, dalla fine sottigliezza, e
alla precisione del suo fendente».
«Un antico epiteto!» esclamò quel vecchio inquietante che Harrow
avrebbe imparato a maledire col nome di Maestro. Sembrava sul punto
di schiattare dall’entusiasmo. Sembrava lì lì per fare le capriole, il che
riempì Harrowhark di una disperazione desertica e polverosa. «Un
classico che non viene pronunciato da anni nemmeno in questa Casa!
Quale benedizione posso riservarti per tutto ciò, Ortus il Nono?»
«Pregate solamente affinché le mie ossa possano essere un gior-
no interrate presso il monumento Anastaseo, dove perfino il fanta-
sma della luce non si avventura» rispose Ortus davanti a tutti, come
una merda totale. Perfino all’ombra il calore lo opprimeva e sotto al
velo qualche idiota l’aveva dipinto col Teschio dell’Anacoreta Morente

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– quell’idiota con ogni probabilità era lo stesso Ortus. Alla luce del
sole che gli faceva lacrimare gli occhi, le ferite alabastrine dell’Ana-
coreta si erano trasformate in grossi rivoli di pittura. Non c’era be-
nedizione di un sacerdote della Prima che gli avrebbe garantito l’ac-
cesso all’Anastaseo, la tomba riservata ai guerrieri: era probabile che
Ortus sarebbe morto col sangue fresco di un eretico a bagnargli la
spada, se solo avesse trovato un eretico molto lento. «Quella è l’uni-
ca benedizione che desidero.»
Gli altri chierici bisbigliarono. «Incredibile» commentò Maestro.
«Lo adoro. Ti benedico in tal senso, doppiamente. Ora, qualcuno po-
trebbe andarmi a prendere la scatola?»
Quella che seguì fu una lunga e incomprensibile parata di paladini,
a cominciare da Marta la Seconda. Quando Maestro esclamò: «Ortus
il Nono» Ortus andò a ritirare il suo premio e fece ritorno per pre-
sentarlo alla sua necromante, come prescritto. Posò fra le mani guan-
tate di Harrow un anello con un’unica chiave assicurata al ferro: una
chiave di una noia e di una banalità singolari, con due denti e una te-
sta triangolare. Rimase a gravarle, pesante, sulla pelle nera del palmo.
L’omino scese dal suo sgabello, dai cui lati stava spuntando una
ragguardevole quantità di imbottitura – pareva un bombolone alla
crema su cui qualcuno si era seduto. Disse, sereno: «Ora vi illustrerò
qualcosa di nuovo, qualcosa che non dovreste sapere: riguarda la Pri-
ma Casa e il complesso di ricerca. La base della Casa di Canaan ri-
sale a prima della Resurrezione. Inizialmente abbiamo costruito ver-
so l’alto, per sottrarci al mare; poi abbiamo costruito verso l’esterno,
per proiettarci verso la bellezza… Questo era destinato a diventare il
palazzo del Maestro Clemente, dove avrebbe potuto lavorare, ospi-
tare la sua corte e vivere per sempre, supervisionando tutte le riedifi-
cazioni che si sarebbero dimostrate necessarie. Perché la Resurrezio-
ne non ha resuscitato ogni singolo oggetto rotto, come ben capirete,
e non ha creato nulla di nuovo. Si prospettava un duro lavoro… ag-
giustamenti, progetti, e furono necessarie grandi quantità di sangue,
sudore e ossa. Ma furono anni splendidi, anni felici. E quella fu l’epo-
ca antecedente ai Littori».
Bevve un sorso di tè, si concesse un rapido sospiro di soddisfazio-
ne e proseguì: «Erano discepoli, in principio. Dieci esseri umani nor-
mali della Resurrezione, anche se la metà di loro era già benedetta

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dal dono della necromanzia. Ma la necromanzia da sola non con-


ferisce la vita eterna. Il nostro Signore, il Primo Rinato, manteneva
quei dieci devoti giovani e vivi unicamente con la sua possanza, ma
era solo l’ombra di una vita… erano obbligati a restare rannicchiati
ai piedi dell’Imperatore per non affaticare i suoi poteri. Desiderava-
no trascorrere le loro esistenze al suo servizio, non il contrario. Nei
primi cento anni si resero conto di quanto fosse difficile la loro situa-
zione, nonostante la necromanzia si stesse diffondendo fra le Nove
Case e nonostante altri discepoli si fossero addirittura uniti alle loro
fila. Alcuni fra loro imbracciarono le spade e divennero i primi pa-
ladini, nella speranza che la forza delle loro membra potesse rivelar-
si utile; gli adepti si focalizzarono sull’arte del loro maestro, cercan-
do di neutralizzare i rigori dello spazio profondo. E c’era ancora così
tanto da fare, e nascevano nuovi necromanti, e c’erano rovine da re-
clamare. Bei tempi».
Sospirò ancora, questa volta con più nostalgia, e poi continuò: «Fu
necessario intraprendere una grande ricerca, per scoprire come ser-
vire al meglio al fianco del nostro Signore senza bisogno che fosse lui
a conferire l’immortalità – fu la ricerca di quello che sarebbe poi di-
ventato il Littorato. E si svolse qui».
Puntò l’indice verso il basso. Tutti fissarono il pavimento sotto ai
suoi piedi, cercando di individuare le origini del Littorato in una man-
ciata di centimetri quadrati di tappeto macilento. «Sotto ai nostri pie-
di. I laboratori. Il corpo originario dell’edificio – un posto intriso della
morte degli anni –, quieto come l’ultimo sacrificio… è lì che il Litto-
rato ha avuto inizio, ed è lì che il Littorato ha trovato compimento.
Vedrete. Vedrete dove hanno posato i loro attrezzi, predisponendo
questa costruzione come un palinsesto, ignara, per voi; dove hanno
lasciato i loro schemi, per coloro che potrebbero ancora avere la for-
za spirituale e corporea per percorrere il loro stesso sentiero. Que-
sto luogo doveva essere un palazzo, e loro l’hanno lasciato come una
strada verso una landa selvaggia.»
Qualcuno intervenne – la donna della Quinta – in tono amabile e
privo di timori: «Allora la strada per il Littorato è la ricerca indipen-
dente? Accidenti! E non è nemmeno il mio compleanno».
Uno dei giovani seduti accanto alla Quinta si lasciò scappare un
verso simile allo squittio di un palloncino sgonfio.

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«Parte del percorso è costituita dalla ricerca indipendente, Lady


Abigail» disse Maestro, sorridendo. «L’altra parte, la parte più cospi-
cua, è il silenzio… è la cura. Non sarete soli nel complesso. Nel suo
cuore giace il Dormiente, e da quanto tempo quella creatura dimori
lì io non lo so; ma quel che so è che per voi è la minaccia più grande,
perché nonostante giaccia addormentato… in quel sonno, cammina.»
E da lì perse il filo. Rimase con lo sguardo fisso nel vuoto, stringen-
do ancora la sua tazza di tè, come in preda a visioni che gli eredi e i
paladini lì riuniti non potessero percepire. Quella pausa si prolungò
in maniera esecrabile, rotolò giù per le scale e rimase ammucchiata
in fondo alla rampa, sotto gli occhi di tutti gli astanti, che furono co-
stretti a osservarla imbarazzati mentre moriva dissanguata. Una com-
ponente della coppia grottescamente giovane della Quarta cercò di
riempirla, belando: «C’è un… mostro in un laboratorio di ricerca? E
noi potremo… combatterlo?».
«No, no!» esclamò Maestro, incalzante. «Che il Signore del Fiume
abbia pietà di noi! Il Dormiente non può morire. Dubito che possa
essere ferito; di sicuro non può essere ucciso. Il vantaggio maggio-
re di cui disponiamo è che il sonno del Dormiente è profondo! La se-
conda minaccia al vostro lavoro è il risveglio del Dormiente: non è
mai accaduto, anche se so che il Dormiente freme per sottrarsi al suo
stato d’incoscienza per ricominciare da dove si è interrotto, perché
se si sveglia, nessuno di noi sopravviverà. Se il Dormiente si imbat-
terà in voi durante le sue peregrinazioni inconsce, la vostra arma do-
vrà essere la discrezione; se doveste svegliarlo con mezzi sacrileghi,
non ci resterà più alcuna arma. Dobbiamo fare affidamento sulla no-
stra comune silenziosità. Spostatevi in gruppo; passo leggero; anda-
te dove io non ho l’ardire di spingermi: perché amo la mia vita e amo
anche il rumore.»
Qui non ci furono pause, solo una babele conclamata: «… ma non
è proprio…».
«Quanto rumore possiamo…»
«… non ha alcun…»
«… chi è così impedito da…»
«Non conosco le risposte a nessuna di queste domande» fece Mae-
stro con calma. «Quel che so, però, è che state già facendo troppa
confusione.»

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La babele si pietrificò, a mezz’aria, sulle labbra di tutti. Harrowhark,


che non aveva mai aperto bocca, e Ortus, che aveva sudato e basta, in
maniera quasi udibile, proseguirono nella loro immobilità. In quell’at-
mosfera anecoica si sarebbe potuto udire il rumore di un capello che
si staccava dalla testa di qualcuno per planare verso il pavimento. Si
riusciva a sentire il battito del proprio cuore: Harrowhark lo sentiva,
forte, umido e caldo. Quel silenzio racchiudeva l’assenza di qualun-
que cosa, a parte i minuscoli suoni involontari del vivere.
«Sto scherzando» disse il vigoroso sacerdotino, la cui gioiosa am-
missione non alleggerì l’assemblea. «Burle, celie. Sono fatto così. Ma
dovete credermi quando vi dico che quassù sarete al sicuro. Vedete,
se così non fosse, non ci sarebbe niente da fare, non proprio. È solo
giù, oltre il portello di cui custodite la chiave, che sarete in pericolo, e
quel pericolo si abbatterà su di voi e su chi vi circonda. Tenete le spa-
de affilate e i teoremi pronti all’uso. Non posso guidarvi oltre; questo
posto è cambiato ben oltre la mia comprensione. Ma vi auguro buo-
na fortuna» aggiunse. E il sacerdote con la lunga treccia sale e pepe
disse, flebilmente: «Vi auguro buona fortuna». E il sacerdote più mi-
nuto e rinsecchito rincarò, ansimando: «Che Dio vi conceda la buo-
na sorte di completare il vostro compito».
I partecipanti alla riunione erano quasi troppo stupefatti per ba-
dare ai costrutti che erano venuti a prenderli; gli sguardi, che erano
stati illuminati dall’emozione o dall’impazienza o, in alcuni casi, da
una strana tranquillità spossata, erano ora turbati. Vennero saluta-
ti da quegli scheletri svelti e reattivi che si muovevano come avreb-
bero fatto dei parenti gentili, accogliendo degli estranei in una casa
che sapevano essere per loro sconosciuta, ma cercando comunque di
presentargliela come rassicurante. Vennero condotti via a due a due
– a eccezione del trio della Terza Casa – e Harrowhark rimase ac-
canto al suo paladino che, all’apparenza, stava facendo del suo stra-
maledettissimo meglio per non respirare, attendendo che uno sche-
letro arrivasse da loro.
Si rese conto che Ortus era molto impaurito. Nulla di inaspettato.
«Mia Signora, non ce la posso fare» rantolò. «Non posso protegger-
vi in questo modo. I mostri superano le mie capacità.»
«La pietra è stata scostata» rispose Harrowhark, e il fatto di cre-
derci così fermamente le diede sollievo. Non aveva paura. Si sentiva

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prosciugata dentro, come se ogni liquido le fosse stato strizzato via.


I mostri non superavano mai le sue capacità. Non c’era abominio al
quale, in fatto di cattiveria, non sarebbe riuscita a dare del filo da tor-
cere. «Sei il mio primo paladino. Il tuo lavoro consiste nel mantene-
re la posizione, nel fronteggiare i nostri nemici e nel morire quando
le gerle sono vuote, ma non prima.»
La cosa non lo confortò, che strano. «Avete bisogno di una spada,
e di qualcuno che abbia la volontà di brandirla» le sibilò lui.
«Bizzarro! In passato non mi è mai servita una persona di questa
stregua.»
«Avrei preferito sceglieste diversamente.»
Ora Harrowhark era turbata. Dato che prima si era sentita in pace,
fu crudele: «La scelta ormai è stata fatta, Nigenad… a meno che tu
non riesca a evocarmi lo spirito di Matthias Nonius, in tal caso accet-
terò i suoi servigi, a patto che si astenga dallo sproloquiare».
Il loro scheletro della Prima Casa, con il suo ridicolo abbigliamen-
to bianco candido, si era avvicinato per rivolgere a entrambi un in-
chino assai rispettoso. La fluidità delle sue reazioni aveva risvegliato
in Harrowhark il crescente tarlo del sospetto. I suoi movimenti erano
troppo liberi e, quando si orientava nella sua direzione, reagiva auto-
maticamente, imitandola – il che superava le sue abilità e, di conse-
guenza, quelle di qualunque evocatore di scheletri delle Nove Case.
Ma il suo paladino non sembrava essersene accorto. Era precipita-
to in una personalissima fantasticheria e, quando il costrutto rivol-
se loro un gesto – un gesto!, chi mai avrebbe perso tempo con la mi-
mica, impostando i comandi ossici – si rivolse invece a lei, gli occhi
scuri decisi, il teschio dipinto che si sdilinquiva.
Si schiarì la gola…
«No» esclamò Harrowhark all’istante, ma era troppo tardi.

«Funesta la lama nera infilzò il materico traslucere


della spettral bestia, azzannando profonda la carne fasulla.

Seppure stridendo artigliò del Nono gli spallacci e l’elmo,


il di lui cuore mai tentennò tradendolo…»

«Harrowhark… non capisco perché abbiate scelto me.»

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Harrow rispose: «Non c’era nessun altro».


Lasciò cadere la maschera, e non quella fatta d’alabastro e pittu-
ra nera. Ortus la fissò con quel suo sguardo solido e scuro, mentre
tutta la sua faccia pesante sussultava; e lei si rese conto, con un elet-
trizzante stupore, di quanto fosse esasperato. «Non hai mai posse-
duto il dono dell’immaginazione» le disse e, furibondo con se stesso,
la maschera riapparve repentinamente, come se se la fosse schiaffata
in faccia con tutte e due le mani. Non sospettava di aver destato più
il suo interesse che la sua collera. Ma aggiunse in tutta fretta: «Per-
donatemi, mia Signora. Sono spaventato e disorientato. Non so an-
cora come si muore. Il Sepolcro Sigillato è lontano da qui, così come
le sue grazie, e dunque ho scordato il mio posto».
«Ne convengo, in effetti» commentò Harrowhark seccamente, esa-
sperandosi a sua volta, anche se più verso se stessa che nei confron-
ti di Ortus. «Dimentica la morte, Nigenad, e andiamo. È ovviamente
colpa mia, se non sono riuscita a inculcarti chi sono, dal punto di vi-
sta necromantico. Noi serviamo il sommo cadavere che giace defun-
to e incosciente, e non dobbiamo permettere ai nostri cuori di ten-
tennare o tradirci di fronte a un infido sonnambulo qualsiasi. Nella
peggiore delle ipotesi potrai sempre declamargli qualcosa… curereb-
be l’insonnia di chiunque.»
«Siete molto spiritosa» disse il suo paladino con perfetta solenni-
tà. «Vi comprendo. Vi obbedirò, mia Signora: che il dovere diventi il
mio elmo e i miei spallacci, e la lealtà la mia spada.»
Il costrutto scheletrico rivolse loro un altro cenno mentre muove-
vano il primo passo per seguirlo, e Harrow restò impietrita quando
lo vide spalancare la bocca piena di molari ingialliti.
«È così che va?» disse.

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Non eri in grado di stabilire con assoluta esattezza
se ti fossi svegliata o meno. Dopo aver raggiunto un grottesco mol-
lacciume e, grondando, esserti ridotta alla pozzanghera maleodo-
rante di te stessa, ti eri rimessa in sesto: i tuoi occhi si erano aperti e
– lunga distesa sulla schiena –, lentamente, con circospezione, con
un grande sforzo d’animo, ti eri riaddensata. Sentivi una strana fitta
ai polmoni, solida, che accoppiava a ogni tuo respiro un fischio or-
rendo della trachea. A parte quello, eri a posto, anche se scombusso-
lata. Le vesti erano sghembe. Sentivi un peso al petto – ma non per
l’acqua. Era l’ombra di un ricordo, o l’ultima reminiscenza di un so-
gno. Per un istante eri stata scossa da un brivido. Dopo i polmoni, i
tuoi occhi erano stati la seconda componente a riconnettersi, e sta-
vano percependo una stanza sia ampia che scura, con screziature di
una pacata luce gialla. Le luci si smorzavano negli angoli ombrosi di
un alto soffitto a volta. Rammentavi la sensazione di bagnato – ram-
mentavi i cadaveri – ma poi quella consapevolezza si era allontanata,
strisciando via. L’unica cosa a cui potevi aggrapparti era il punto in
cui ti avevano messa a sedere. L’avresti capito, se tutti i tuoi sensi fos-
sero stati neutralizzati; l’avresti capito, se ti avessero bruciato il cer-
vello. Tu eri la Reverenda Figlia, e ti avevano piazzata su una panca.
Un peso gravoso ti schiacciava i fianchi e le gambe. Ti eri sforza-
ta di guardare, col mento piegato a forza verso il petto, e con grande
sollievo avevi visto il tuo spadone a due mani. La vostra relazione sta-
va diventando di una complessità crescente: odiavi la sua presenza,
ma un mondo in cui non fosse stato presente sarebbe stato inimma-
ginabile. C’era odore di sangue. Sentivi anche un altro odore, più di-

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stante; sopra al sangue aleggiava la dolcezza frizzante e fecale di una


rosa. Ti eri messa a sedere a fatica: il fiato ti si mozzava nei polmoni
e ti eri districata da un accesso martellante di tosse proprio quando
una mano ti si era posata sulla spalla, leggera, come per metterti in
guardia. Eri quasi schizzata via dalla panca.
«Silenzio» aveva sussurrato Ianthe.
Si era seduta vicino a te, un pilastro di un bianco incandescente con
lo sguardo fisso davanti a sé. L’espressione che aveva sul viso era tipi-
ca di lei, un’eco; un tedio gelido ed esausto, con note di disgusto incu-
riosito. Tu eri disorientata. Detestavi che ti toccasse. Avevi incollato
la spada allo schienale della panca con una spinta, lasciando che l’os-
so la sollevasse e attutisse il rumore, appiccicando grumi caldi al le-
gno rustico mentre spostavi le gambe per appoggiare le dita dei pie-
di a terra. E avevi visto dove ti trovavi, con immediato e totale orrore.
Ti avevano coricata su una panca a metà di una deliziosa cappellet-
ta. Ora che riuscivi a guardare, ti eri resa conto che quella luce carez-
zevole e gialla era quella che proveniva da centinaia di candele. Illumi-
navano un ambiente di pietra lucida color carbone, rivestita da fregi
di ossa… ossa ovunque, ossa che sarebbero bastate per cento cappel-
le sepolcrali della Nona Casa: il presbiterio era delimitato da lunghi
rigagnoli d’osso scolpiti e traforati in pizzo umano; la scacchiera di
piastrelle nere di granito lucido ai tuoi piedi, con le loro controparti
bianche di femori delicati e consunti, arancioni alla luce condiscen-
dente delle candele; e le panche di legno – legno come quello che ave-
vi visto per la prima volta alla Casa di Canaan, vero, marrone, legno
splendente, lucidato fino a raggiungere quel peculiare scintillio che
né la pietra né l’osso erano in grado di produrre. Avevi sollevato lo
sguardo su un finestrino cruciforme di plex: le fredde stelle all’ester-
no emanavano uno strano bagliore ultraterreno. Avevi guardato i te-
schi, sopra di te: un ossario di teschi, una moltitudine di teschi, inca-
stonati nelle pareti, sovrapposti in file dalle orbite svuotate, fianco a
fianco in attesa dell’infinito. Dei sottili drappeggi metallici rivestiva-
no quell’amabile massa di morti senza volto di sfumature ombrose:
rosso carminio scurissimo, ametista fumoso, blu spento. I colori del-
le Case. Gli eroi delle Case portati qui a riposare. Colonne affusola-
te di un bianco rastremato ammantavano quelle ossa di una luce lu-
singhiera che le rendeva belle, nel modo in cui solo le ossa potevano

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esserlo per te; le candele erano incartate in colori diversi, il che le fa-
ceva somigliare a gambi di fiori mascherati, o a lunghe dita inanella-
te. Un grande agglomerato di quelle candele splendeva all’estremità
dell’altare centrale, e sull’altare centrale c’era un corpo.
Eri a un funerale. Ne conoscevi la sposa; l’avevi uccisa tu.
Sedevi su una panca nella cappella dove giaceva il corpo cristal-
lizzato nel tempo di Cytherea la Prima. Per sopravvivere all’indeli-
catezza della tua presenza, avevi spedito il tuo cervello a veleggiare
altrove. Ti eri cacciata le mani nelle profondità velate delle tue ma-
niche madreperlacee, sprofondandoci dentro in modo che quella
garza nevosa color arcobaleno ti nascondesse il viso. Persino la vaga
pressione della lama contro la schiena non faceva che spalancare la
voragine nel tuo petto, facendoti battere il cuore all’impazzata come
se stesse cercando di costruire una barricata – perlomeno, però, lo
spauracchio di metterti vezzosamente a vomitare ti manteneva pre-
sente e sana di mente; non eri ancora così andata. Si trattava sempli-
cemente del quarto funerale a cui avevi presenziato e del cui cada-
vere eri responsabile.
La morta sull’altare era coperta di bocciolini di rosa, la rivestiva-
no in uno spesso strato, un bianco rosaceo come un osso nato da
una manciata di secondi. Le fasciavano le braccia; le spuntavano fra i
pallidi ricci castani e le schiacciavano i piedi. Sulla dolce bocca mor-
ta aleggiava un broncio mesto. Tanto tempo prima ti saresti messa
in posizione sull’inginocchiatoio – pelle umana morbida ed elastica,
burrosa, splendida – e avresti ringraziato il Sepolcro per aver vissu-
to abbastanza da assistere alla morte di un Littore, santificato in quel
modo, in un luogo simile. Ti saresti accostata i grani del rosario alla
bocca, stringendo una nocca fra le labbra, la nocca della tua bisnon-
na che rappresentava la Roccia, l’Universo e Dio. Ora ti stavi limitan-
do a riflettere sulla possibilità di svenire ancora.
Mercymorn era inginocchiata davanti all’altare. La lucente man-
tella bianca le ricadeva sulle spalle, e piangeva – non c’erano suoni
articolati in maniera udibile, ma le spalle sobbalzavano come se ogni
singhiozzo fosse un’esplosione. Digrignava i molari sonoramente, così
tanto da poter passare per noci buttate in una centrifuga. La Santa
della Gioia non poteva che piangere con furia e disappunto, non sa-
resti riuscita a immaginarla in altro modo.

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Accanto a Mercy era inginocchiato Dio. Vicino a Dio era inginoc-


chiata una persona nuova. Ne scorgevi solo la nuca. Quel che si po-
teva evincere è che avesse i capelli chiari. Nient’altro. Lo sconosciuto
era alto, anche in ginocchio superava l’Imperatore ed era più alto per-
sino di Mercy. Indossava le vesti iridescenti della Prima Casa e non
eri in grado di percepirlo: un altro buco nero in un terzetto di buchi
neri, che svuotava lo spazio di fronte a te.
Dopo un istante, la nuova figura disse con voce tenorile limpida e
mascolina: «Mi farai venire un tracollo psicologico totale, se non la
smetti di fare quel baccano terrificante, Mercy».
La Santa della Gioia ringhiò: «Se mi rivolgi ancora la parola ti am-
mazzo, omuncolo maligno che non sei altro».
Il Dio delle Nove Case disse: «Basta» e rimasero in silenzio.
Lo stridore di molari si attenuò gradualmente. Tu stavi intreccian-
do le dita nelle profondità delle tue maniche perlacee, piegando i pol-
lici all’indietro fin quasi al punto di slogarteli. Ianthe ti osservava e,
quando avevi ricambiato il suo sguardo alla luce delle candele – gli
occhi non l’avevano tradita; in quel momento potevano essere stati
azzurri – a colpirti era stata la sua stanchezza. Era offuscata, in qual-
che modo. Da quando l’avevi vista urlare sul pavimento della navet-
ta qualcosa le era stato sottratto. La traiettoria del suo sguardo inter-
cettava lo spiraglio sul davanti della tua veste – ti eri piegata in avanti
per chiuderglielo – e lei aveva inarcato le sopracciglia con un fugace
e fiacco divertimento.
Avevi bisbigliato: «Dove siamo?». Ma lei non ti aveva risposto.
Poco dopo, l’Imperatore si era rivolto al cadavere, con la cadenza
sorridente di un uomo che tiene un discorso a una festa.
«Quando è stata condotta alla Casa di Canaan, la prima volta, pen-
savo ci fosse stato un errore. Sapete già che avevo visitato Rhodes, per
vedere il miracolo, ma avevo chiesto di non vedere la donna – solo per
continuare a essere un interlocutore disinteressato – ma, ovviamente,
dopo aver constatato che in lei c’era della necromanzia ho detto di sì,
doveva unirsi a me e diventare una mia discepola. Aveva poco meno
di trent’anni, all’epoca, ricordo. E sapevo che era malata, ma non ave-
vo idea di quanto fosse grave finché Loveday non ce l’aveva portata.
Riusciva a malapena a camminare, ma aveva l’aria di una che spera-
va di vederci tutti pestati a morte… mi sono avvicinato per salutarla

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con un bacio, e mi ha detto: “Mio Signore, non posso ricambiare. Il


rossetto è perfetto e mi rifiuto di sbavarlo”.»
Lo strano Littore – un lui? – si lasciò scappare una risata vuota.
Aveva inclinato il capo e, per la prima volta, eri riuscita a scorgere un
profilo parziale. Era molto chiaro, ma c’era anche un grigiore suda-
ticcio e leccato che gli evidenziava le gibbosità del cranio. Delle ru-
ghe lievi e impazienti gli incorniciavano gli occhi cadenti delinean-
dogli più profondamente la bocca. Pareva più vecchio di tuo padre,
quand’era morto. Quei lineamenti alteri erano posizionati in un viso
lungo e aristocratico, con un naso arcuato e sdegnoso, ora rivolto in
direzione dell’Imperatore in un’espressione di suprema sofferenza.
«Non era vero, poi. Ce l’aveva sui denti.»
Mercymorn borbottò, ma non così piano da non risultare udibile:
«Solo tu potevi accorgertene, Augustine».
Ma Augustine stava proseguendo, con una voce leggiadra e dot-
ta: «Ora mi ricordo… mio Signore! Il tempo vola…! che faccenda or-
ripilante. Ci era stata mandata mezza morta, e al tempo nessuno di
noi poteva fare niente per lei, a parte te. Era della prima o della se-
conda generazione?».
«Seconda» disse Dio. «Inizio seconda. Stavamo ancora sperimen-
tando per allestire e far funzionare la Sesta installazione. Alcune Case
erano vuote.»
Mercymorn intervenne: «No. A quel punto era già operativa. Per-
ché con noi c’era Valancy, e anche Anastasia».
L’Imperatore schioccò le dita, come se Mercy avesse innescato una
qualche illuminazione neuronale. «Sì, hai ragione. Eravamo andati tut-
ti ad accoglierla. Tutti e sedici, e lei si era comportata come se le fosse
toccato salutare una sfilza di cugini pallosi a un matrimonio… ero riu-
scito a stento a rimanere serio. Quand’è l’ultima volta che l’avete vista?»
Quest’ultima domanda fu posta un po’ bruscamente. Entrambi i
Littori rimasero in silenzio per un momento, e poi quello che chia-
mavano Augustine disse: «Di recente. Dieci anni fa. Le ho detto che
stava facendo un po’ troppo l’eremita, e lei aveva reagito come se fos-
si un mezzo scemo… ma mi era parsa di buon umore».
Mercymorn aveva commentato: «Cytherea era brava ad apparire».
Al che Augustine aveva ribattuto, un po’ distaccato: «Tu devi saper-
lo bene, ne sono certo».

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Prima che le cose si deteriorassero ulteriormente, l’Imperatore in-


sistette: «E tu, Mercy?».
Avevi sentito di nuovo quel digrignare di molari. Poi la Santa del-
la Gioia aveva risposto, inespressiva: «Quasi vent’anni fa». E: «Ride-
va troppo».
Tutti e tre restarono in silenzio davanti all’altare. Il corpo esanime
di fronte a loro non avrebbe mai più riso troppo, in ogni caso. Augu-
stine aggiunse: «Qualcuno si ricorda il suo nome… quello della Casa,
il suo nome vero? Ne aveva uno?».
L’Imperatore suggerì: «Heptane». Ma Augustine fece: «No, tu hai
in mente Loveday. Ce lo siamo scordato! È contro natura. Chi avreb-
be mai pensato che potessimo dimenticare una cosa del genere?».
Mercymorn si alzò in piedi. Si sistemò i capelli dietro le orecchie,
scostandoli dal viso ovale dalla serenità ingannevole e, cerimonio-
sa, si spostò dietro all’altare. Mise le mani dietro la schiena, come se
avesse paura di toccare qualcosa. Osservò la faccia morta di Cythe-
rea con un’intensità che, a suo modo, risultava ben peggiore della te-
nerezza. Era come se volesse estrarre a forza qualcosa dal cadave-
re; come se potesse evocare chissà cosa con la sola forza di volontà.
«Chiamatela Cytherea Loveday» disse. «È così che le sarebbe piaciu-
to essere chiamata: lo trovavo intollerabile e zuccheroso allora come
lo trovo intollerabile e zuccheroso adesso; ma è quel che mi ha riferi-
to lei… non l’ho mai vista piangere, a parte una volta» aggiunse con
una fretta insensata. «Il giorno dopo. Quando abbiamo unificato la
ricerca. Quando è diventata Littrice. Le avevo detto: “Non avevamo
alternative”. Lei mi ha risposto…»
A quel punto, perse il filo. Fortunatamente, aveva evitato di guarda-
re nella tua direzione. Augustine fissava il pavimento, le mani sovrap-
poste con modestia in una postura di rispettoso imbarazzo, e l’Im-
peratore aveva il viso rivolto verso Mercy, ma non riuscivi a vedergli
altro che la nuca, dove le foglie madreperlacee e gli ossicini delle dita
di bambino gli adornavano i capelli. La luce delle candele ondeggia-
va spietata su tutti voi.
Lui domandò: «Che cosa ti ha detto?».
L’altra Littrice restò in silenzio, per un attimo. Si schiarì la gola:
«Mi ha detto: “Potevamo scegliere di fermarci”».
Dopo un secondo, il Principe Imperituro si prese la testa tra le

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mani. Uno stilo gli cascò dalla tasca e rotolò sul pavimento lustro di
nere piastrelle ossee. Era la prima volta che aveva dato l’impressio-
ne di essere mortale. L’umanità l’aveva sfiorato brevemente, come
un’ombra di passaggio.
Poi Augustine disse, senza troppa pertinenza: «Non l’avrei defini-
to “zuccheroso”. Per sua fortuna Cythe-re-a Love-day suonava bene.
Insomma, il mio allittererebbe in una maniera che non avrei potuto
– o non potrei? – tollerare».
«Lasciatemelo dire» fece Mercy immediatamente, comportando-
si come se Augustine non avesse mai proferito parola. «Non ho mai
pianto Loveday Heptane. Ha fatto una sola cosa buona in vita sua, e
lo sapeva anche lei.»
«Recitale l’eulogia» disse l’Imperatore, da dietro le mani. «Per ca-
rità di Dio, recitagliela comunque. Un’eulogia per entrambe.»
Augustine si allungò e strinse la spalla dell’uomo che era diventa-
to Dio e del Dio che era diventato uomo e che, evidentemente, con-
tinuava a invocarsi da solo; il Littore si alzò in piedi con un grugni-
to, come se sentisse male, e andò a piazzarsi ai piedi dell’altare. Ora
ti rendevi conto che sì, era alto, anche se non particolarmente impo-
nente. Ma c’era qualcosa di estraneo alla vita reale nei lineamenti del
suo viso, come se una volta avesse visto qualcosa di terribile che gli
era rimasto incastonato nelle guance e sulla fronte. Si scostò il man-
tello della Prima Casa e infilò i pollici nei passanti della cintura dei
pantaloni eleganti – il manto bianco gli fluttuava attorno alle spal-
le come un soprabito, impalpabile e bellissimo – e si schiarì la gola.
«Cytherea era stupenda» disse con semplicità. «Diecimila anni e
non le ho mai sentito pronunciare una sola parola cattiva, a meno che
non si trattasse di qualcosa di molto divertente. Ci amava senza riser-
ve, tutti quanti, il che dimostrava sia la sua pazienza che le sue enor-
mi capacità… è stata una valente Littrice e un’adorata Mano… e Lo-
veday ce l’ha donata, quindi che Dio benedica Loveday, immagino.»
Mercymorn posò la mano vicino alle roselline paffute. Stava cer-
cando di contenersi, ferrea. La sua voce si fece flebile e stranamente
sottile quando disse: «Poteva essere una sciocchina insopportabile.
Ma in generale era un’adorabile sciocchina insopportabile, ed è stata
una morte indegna di lei».
Rivolse lentamente quegli occhi tempestosi e sognanti verso le

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panche, cioè verso di te e verso Ianthe, e sobbalzò. Disse: «Le bam-


bine sono sveglie».
Il Principe Clemente allungò il collo all’indietro e constatò che voi,
le bambine, eravate sveglie. Si alzò in piedi e, orrore degli orrori, im-
boccò la navata per venire da voi; vi squadrò entrambe, come se fos-
se felice di vedervi, come se fosse felice di vedere Ianthe, sul suo viso
e in quegli occhi primordiali bordati di bianco transitò un ammor-
bidimento senza nome. Si allungò per prendervi le mani. Non pote-
vi opporti e, in ogni caso, non avevi alcuna possibilità di scegliere; il
tuo corpo aveva reagito ben prima della tua mente, e la carne della
tua carne e il sangue del tuo sangue appartenevano a Dio. Dunque,
con la tua mano nella sua sinistra e quella di Ianthe nella sua destra
– Ianthe aveva fatto in modo di porgergli la sua sinistra, invece della
destra, che non era la sua preferita – disse: «Benvenute a casa. Avvi-
cinatevi… ci stiamo solo accomiatando… siamo abituati agli addii».
Condusse te e Ianthe al feretro come due offerte sacrificali, vi fece
inginocchiare nel punto occupato dagli altri Littori, sulle piastrelle
nere e crema. Mercymorn non si degnò di guardarvi, ma lo strano
Littore che entrambi avevano chiamato Augustine sì. Vi scandagliò
da dietro il suo lungo naso, e commentò: «Allora, quale delle due ra-
gazzine l’ha fatta fuori?».
L’Imperatore rispose, seccamente: «Non ha importanza».
«Non che io serbi rancore. Non potrei. Credimi, se se n’è andata
è perché ha scelto di andarsene. Be’, detesterei dover tirare a indovi-
nare… due di loro! È ben strano, questo nostro vecchio mondo» ag-
giunse, rinfrancato.
Il Littore si scostò dai piedi ricoperti di boccioli di Cytherea e si
chinò, accucciandosi accanto a Ianthe nel transetto. Disse: «Il mio
nome è Augustine il Primo, Santo della Pazienza, Littore della Gran-
de Resurrezione, il primo dito della mano che serve il Re Imperitu-
ro… e vostro fratello maggiore, mio malgrado. E voi chi siete, colom-
belle mie?».
Ianthe disse, con aria spenta: «Io sono Ianthe Tridentarius, Princi-
pessa di Ida». E tu, nel medesimo tono da automa: «Io sono Harrow­
hark Nonagesimus, la Reverenda Figlia».
Augustine scoppiò in una risata tintinnante ed elegante che non
aveva nessuna parentela con l’allegria. Si protese per stringere la mano

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a entrambe – tu eri confusa; avevi sempre considerato le strette di


mano come un’azione ad appannaggio dei mascalzoni – e commentò:
«Non più. Servo vostro, Ianthe la Prima. Sei quella che è ascesa pri-
ma, vero? Dobbiamo contarti come ottava santa, quindi? Servo vo-
stro, Harrowhark la Prima. Nona santa, dunque, e a giudicare da quel
che vedo mi pare appropriato. Ora la vostra lealtà appartiene a una
sola Casa, e una soltanto. Dietro di voi c’è la vostra sorella maggiore».
«Siamo state presentate» disse Mercy, impaziente. «Possiamo non
farlo proprio in questo momento?»
«Immagino non abbia avuto la creanza di presentarsi come si deve,
quindi dovrò farlo io: Mercymorn la Prima, la Santa della Gioia – in-
credibile ma vero. È una Littrice della Grande Resurrezione, il secon-
do dito di quelle mani così spalancate, che pregano il Principe Cle-
mente. E ora è tutte le sorelle di cui disponete – dato che quella che
avete di fronte, ahimè, è completamente morta – e io sono l’ultimo
dei vostri fratelli, a eccezione di…»
Si interruppe, come se si aspettasse un’integrazione da parte di Dio,
cosa che Dio non offrì. Concluse con: «Maestro, pensi che sia al cor-
rente degli attacchi missilistici?».
«Non è mai stato molto interessato alle minuzie quotidiane» com-
mentò l’Imperatore.
«Ma è interessato a sappiamo-bene-cosa, e stavo solo pensando
che, se ne è al corrente, e magari ha fatto due più due…»
Dio disse: «Aveva una missione. Il Santo del Dovere è lo specchio
del suo nome».
«Giusto, giusto» fece Augustine. «Al contrario di Gioia e Pazien-
za. Assolutamente legittimo. È solo che tornare qui e non vederlo mi
ha fatto venire i brividi, a essere sincero. Non riesco a liberarmi del
presentimento che ci sia qualcosa che non va.»
«Possiamo concentrarci di nuovo su questo diamine di funerale?»
disse Mercy. «Dovermene sorbire sei è stato peggio che crepare. Vo-
glio che sappiate che le istruzioni per il mio funerale sono nel primo
cassetto, è strutturato minuto per minuto… ne dura solo ventiquat-
tro ed è bellissimo, veramente.»
«Posso solo immaginare» disse il Littore suo fratello, in tono acceso.
Quello strazio venne interrotto di colpo quando le porte in fon-
do alla cappella si spalancarono all’improvviso. Tutti i viventi si vol-

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tarono di scatto, e a fare il suo ingresso fu il successivo capitolo ter-


ribile della tua vita.
Era un uomo. Il Littore che mancava all’appello: vuoto per te come
tutti i presenti messi insieme, forse ancor di più del cadavere congela-
to di Cytherea la Prima. Al contrario degli altri Littori, che nel com-
plesso tendevano all’emaciato, uomini e donne esili dalla fisicità da
necromante, la sua struttura non era altro che muscoli. Ossa rivesti-
te di massa. Era un tendine ambulante. Aveva un’aria grezza e tirata,
da costrutto messo insieme da un idiota, le ossa foderate di fibrille
carnose in modo da mantenerle in movimento. Una striatura meta-
bolizzata e contratta, senza grasso, la cui unica curva era rappresen-
tata da una cavità compatta dalle costole allo stomaco.
Il volto dell’Imperatore si distese. «Ottimo tempismo» commen-
tò con palese sollievo.
Lo sconosciuto portava il manto Littoriale d’ordinanza buttato sul-
le spalle, invece che infilato – un affare malconcio con l’orlo sdrucito
che non pareva particolarmente ben tenuto. Marciò giù per la nava-
ta centrale troppo in fretta perché tu potessi guardarlo negli occhi. In
quel breve istante avevi scorto un viso bruno e squadrato, la pelle trop-
po appiccicata al cranio, nient’altro che tratti stropicciati e sconfitti
e i lineamenti ridotti più a muscoli temporali che altro. Il cranio era
una roba bitorzoluta e nodosa, quasi spoglia, i capelli rasati fin quasi
all’osso. Quegli stessi capelli rilucevano di un rossiccio spento e spia-
cevole, come una vaga ombra sanguinolenta che gli lambiva la testa.
L’Imperatore si era alzato in piedi e aveva spalancato le braccia, in-
vitandolo a stringerlo. Il tizio muscoloso aveva accolto l’invito breve-
mente – abbastanza da permettere a Dio di cingergli la schiena con
un braccio, con affetto, abbastanza da mettere un braccio attorno alle
spalle di Dio – poi si era divincolato, brusco, e il suo sguardo si era
posato sulla sagoma che giaceva tra Mercy e Augustine, come un vo-
lume tra due fermalibri.
«È morta?» disse lo sconosciuto. Quando l’Imperatore annuì, lui
chiuse gli occhi, fugacemente. Poi li riaprì e annunciò, brutale: «Lo
stesso vale per noi. La Numero Sette è all’orlo».
A quelle parole, Augustine si accasciò all’improvviso contro l’altare.
Sembrava sul punto di crollare, come un ubriaco. Le labbra di Mercy si
fecero pallide come la neve. Erano diventati il ritratto iperbolico della

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tragedia: una litografia dell’istante precedente alle camicie squarcia-


te, ai capelli strappati e alla pioggia di sangue che punteggia la scena.
L’Imperatore aveva rivolto il suo sguardo terribile allo sconosciuto
– parevano pianeti morti nell’oscurità dello spazio e quell’anello bian-
co era la morte stessa. Non era più umano. Era di nuovo immortale.
«Non può muoversi così in fretta» aveva commentato. «Non l’ha
mai fatto. Devi aver visto un Araldo, o una pseudo-Bestia. Senti, non
spaventare le bambine. Vieni nei miei alloggi e discutiamone, veni-
te tutti e tre.»
Il nuovo arrivato fu inamovibile.
«È la Numero Sette» disse lo sconosciuto. «Scappiamo o combat-
tiamo?»
Mercy disse: «Ma l’avevamo stimata a cinque anni da qui, solo un
anno fa».
«Ci ha raggiunti» disse lo sconosciuto. «Il cervello è già nel Fiume.
Se ci immergiamo nelle acque la incontreremo, indipendentemente
dalla direzione che imbocchiamo. Il corpus sarà qui in meno di dieci
mesi, e sarà pieno di Araldi. Scappiamo o combattiamo?»
«Ci dobbiamo riflettere…»
«Niente riflessioni» disse lo sconosciuto, interrompendo Augu-
stine senza la minima esitazione. «Scappiamo? Due di noi prendo-
no l’Imperatore e si incamminano verso la stele più vicina. L’altro re-
sta qua a fare da diversivo, e poi la conduce altrove. O combattiamo:
ci schiereremo tutti. John, io servo te. Dimmi di rimanere qua a mo-
rire e io resterò.»
Avevi già sentito quel nome sulla navetta ma, al tempo, lo avevi
ignorato. In un momento agghiacciante, ti eri resa conto che aveva
guardato il Principe Risorto quando aveva detto: “John”; che Dio po-
tesse rispondere a un termine così banale e sbrigativo come John; e
che potesse ricambiare lo sguardo di quel tizio fatto di corde con un’a-
ria più vicina alla disperazione di quanta ne avessi mai scorta in lui…
«Combatteremo» disse. «Dieci anni fa abbiamo deciso di aumen-
tare i nostri numeri per combattere quegli affari. Cinque anni, dieci
mesi… alla fin fine, forse è la stessa cosa.»
«Rimaniamo?» domandò lo sconosciuto.
«Sì» disse Dio. «Restiamo, penso.» E, con modestia: «Grazie per
essere tornato a casa, Ortus il Primo».

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Qualcosa ti inondò le orecchie, culminando in uno sgocciolio caldo


e abbondante lungo i lobi. Toccando, le tue dita si erano bagnate; era
sangue. Ianthe ti fissava da dietro una sottile cortina di capelli iride-
scenti, la curva sbiancata delle sue labbra era una linea contratta e cir-
cospetta. Ti eri silenziosamente accartocciata nel transetto, sbattendo
la testa piuttosto forte sulle piastrelle prima di perdere i sensi. Date le
circostanze, gli altri ci misero un bel po’ ad accorgersi dell’accaduto.

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«Al che verbò il Nonius furente; la sua voce tuonò
come il nero mar ruggisce ai cancelli sepolcrali di Algol,

«Lampeggiando gli occhi della luce strappata


alla funeral pira dell’Imperatore, a loro rispose dicendo…»

«Basta» disse Harrowhark, da lì dietro.


Il pubblico non la prese bene. La biblioteca multilivello della Casa
di Canaan, rivestita di pannelli metallici, era probabilmente uno de-
gli ambienti più insoliti: era l’unica sala sopra al complesso che tra-
smettesse la netta impressione di trovarsi in un ambiente funzionale,
fatto per il lavoro. Era come entrare in una stanza moderna e trovar-
ci in mezzo un antico manufatto. I pavimenti laminati erano rivesti-
ti alla meno peggio con vecchi tappeti pelosi, e le mensole erano di
semplice metallo lucidato. Quando Ortus si era messo a declamare,
la sua voce aveva riecheggiato come la Campana Secondariana – ri-
sultando però significativamente più imbarazzante.
«No, no… Reverenda Figlia» protestò quel babbeo riccioluto della
Quinta Casa. Portava dei vestiti che avrebbero potuto fornire risorse
materiali alla Nona per un decennio. «Per favore. Nonius sta per far
vedere i sorci verdi ai ribelli. A scuola non sono mai arrivato ai sor-
ci verdi. La poesia della Quinta è molto più: “Giungo da climi di gas
solforoso / Di plasma ammantato splendo / Bla-bla-bla-bla-bla, glo-
rioso / Scarlatto è il presidio che difendo”, e a quel punto sei già in
coma. Un’altra piccola strofa di sorci verdi, vi imploro.»
Harrowhark sapeva per esperienza che in arrivo non c’era alcun

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HARROW LA NONA  /  133

sorcio verde. Matthias Nonius non scendeva mai in battaglia nella


Noniade (Le gesta e le conquiste del sommo Matthias Nonius) sen-
za prima dedicarsi a una cospicua quantità di chiacchiere. Di soli-
to, passava almeno una cinquantina di versi a demolire verbalmente
i suoi avversari prima di dedicarsi a demolirli fisicamente, sguazzan-
do nelle frattaglie degli empi per altre duecento e rotte righe. Questa
parte non faceva eccezione. Era già difficile da sopportare che Ortus
si fosse lanciato nella Noniade in pubblico; a lei era già stata inflitta
abbondantemente, e sapeva che Ortus sperava, un giorno, di riusci-
re a commuoverla nel profondo e di farsi quindi sollevare dai doveri
di primo paladino, per essere poi nominato bardo osseo della Nona.
L’idea che stesse tenendo una lettura pubblica era un’offesa cocente.
Ora se ne stava lì in piedi, largo, nero e ombroso, in mezzo a tutte
quelle mensole d’acciaio cromato. La necromante e il paladino del-
la Quinta sedevano a un tavolo ingombro di libri, friabili frammen-
ti di carta protetti da astucci di plex, veline ingiallite e penne. La ne-
cromante pareva divertita, il paladino era in visibilio. La necromante
– la donna che aveva accolto con entusiasmo l’idea di poter svolgere
ricerche indipendenti, una donna adulta con un sorriso molto rego-
lare – non ispirava a Harrowhark la minima serenità. Persino lei ave-
va sentito parlare di Abigail Pent.
«Mia Signora» disse Ortus e, tristemente: «Perdonatemi. Nonius
gode di una reputazione eroica presso i chierici e gli anacoreti della
nostra Casa». E per gli altri aggiunse: «Forse gli faccio un torto, tra-
mutando in poesia i suoi sacri misteri».
«Non mi ero mai resa conto che Nonius fosse diventato oggetto di
adorazione religiosa» disse Pent.
«Non è accaduto» commentò Harrowhark secca, ma poi fu co-
stretta ad ammettere: «O, perlomeno, quell’idea è ormai démodé».
«Gli eroi sono démodé, capirete bene» chiosò Ortus con una tri-
stezza greve.
Non lo assassinò. Ma ci andò molto vicino. Sir Magnus Quinn, quel
sorriso bianchissimo ambulante che non era altro, intervenne tempe-
stivo: «Avete già avuto modo di utilizzare questo spazio, Reverenda
Figlia? In questo momento noi lo preferiamo rispetto alla prospetti-
va di scendere di sotto. Stiamo occupando il tavolo più grande, temo
– mia moglie ha trovato una copia annotata del Nuovo necromante –

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e il mio unico contributo è stato rinvenire, nelle toilette degli uomini,


quello che quasi certamente dovrebbe essere un antico epigramma teo-
retico. È così che abbiamo coinvolto nell’argomento Ortus il Nono».
«Un epigramma?»
Lui esitò. Pent disse, mite: «Magnus vuol fare lo spiritoso. Va inter-
pretato come un dialogo tra maghi delle scuole di magia ossea, spi-
ritica e corporea, con la seguente battuta finale: “Sì, ma il mio OSSO
aumenta di volume quando lo tocco”, cosa che ci dimostra perlome-
no che la battuta è vecchia almeno quanto le Nove Case». Prima che
Harrowhark potesse cogliere la palla al balzo per guadagnare l’uscita
in tutta fretta, la necromante della Quinta proseguì, senza intermez-
zi: «Siete interessata ai materiali Littoriali?».
Poteva trattarsi di un preambolo, di una domanda esplorativa o
di qualcosa di completamente diverso. Un’intromissione negli affari
della Nona poteva essere evitata. A intrigarla di più era l’ipotesi del
preambolo.
«Se mi state chiedendo se la mia Casa ne custodisce» disse Harrow
lentamente, «non ho intenzione di rispondere alla vostra domanda».
«Che peccato! Capisco» commentò Pent, che non pareva lasciar-
si scoraggiare dai rifiuti, o dalle pitture sacramentali. «Più che altro,
stavo cercando di stuzzicare il vostro interesse. Questa biblioteca è
piena zeppa. I libri, va bene, i libri sono interessanti… ma le tracce
Littoriali… phwiu.»
Abigail Pent non sembrava il tipo di donna che avrebbe potuto ar-
ticolare un phwiu. L’aveva detto in maniera molto mascolina. In qual-
siasi altra circostanza, Harrowhark si sarebbe diretta verso l’uscita
– dopo un phwiu e una barzelletta sulle ossa i suoi limiti di tolleran-
za potevano dirsi superati. Ma era consapevole che la bacchettonag-
gine non fosse una virtù. Era anche consapevole che per districare i
segreti della Casa di Canaan le sarebbe servito ben altro rispetto agli
scheletri che sapeva assemblare e al diario che stava redigendo. Era
molto stanca. Le stavano offrendo qualcosa. Pur sospettando di do-
ver offrire se stessa per ricambiare, accettò.
Harrow si spostò dall’altro lato del tavolo per guardare cos’aves-
se disposto davanti a sé l’adepta della Quinta. Era un curioso assor-
timento di nobile e mondano: una penna a scatto deformata con un
sottile cilindro interno per l’inchiostro e il fusto di plex, assai più an-

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tiquata di quelle con la cartuccia d’inchiostro; frammenti ricomposti


da tutte le parti, come se qualcuno avesse raccolto i coriandoli dopo
una parata e li avesse riordinati con uno zelo eccessivo. Un ciuffo di
capelli. Un libro aperto con un’annotazione a inchiostro nero ancora
ben visibile in un angolo: CHE STUPIDAGGINE.
«I libri risalgono a un’epoca successiva, o almeno così suppongo»
disse Abigail. «Le annotazioni sono impagabili.»
Aveva riassemblato una mezza pagina strappata di velina che
recitava:

Dopodiché, tagliare a cubetti, friggere nel burro o in olio,


girare di tanto in tanto finché non diventa croccante. Smi-
nuzzare il cetriolo in modo da evitare pezzi troppo gros-
si e aggiungerlo in padella prima di toglierla dal fuoco.
Ieri, M ci ha detto che Nigella «mangia come una bam-
bina» quindi ho

Harrowhark commentò: «È la dimostrazione inequivocabile che l’an-


tichità di un oggetto non gli attribuisce automaticamente un valore».
«Dissento. Con questo» disse Abigail sorridendo, «un po’ di san-
gue – identificazione positiva – e forse qualche altro campione… riu-
scirò a chiamare il fantasma dell’autore.»
Poi aggiunse, nuovamente: «Phwiu».
«Lo sa fare, sapete» disse Magnus, cogliendo l’incredulità nell’e-
spressione accuratamente addomesticata di Harrow. A dirla tutta,
stava imprecando interiormente; si sentiva fredda e pensierosa. «An-
che se... ehm… le ho chiesto di non farlo.»
«Vi servirebbe qualcosa con cui alimentarlo» disse Harrowhark,
non a Magnus.
«Sì.»
«Uno spirito così vecchio… il nutrimento…»
«Sarebbe senza precedenti» fece Pent. Si era messa a chiacchierare
un po’ troppo e un po’ troppo in fretta. «Cioè, resta il problema del
Littore in questione… potrebbe non essere nemmeno morto. Quel-
la è la prima cosa da prendere in considerazione. In qualità di tra-
mite con i defunti, sono davvero al mio meglio quando gli interlocu-
tori non sono più vivi… se sono nel Fiume, indipendentemente dalla

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profondità, posso solo sperare che una manciata di reliquie minori e


il sangue nuovo del mio cuore pulsante possano attirarli verso la su-
perficie. Nessuno ha mai cercato di prendere all’amo un Littore, pri-
ma d’ora. Non sono neanche sicura di dove vadano a finire. I Litto-
ri entrano nel Fiume? I Littori muoiono come moriamo noi? Non so
dove rimangano in attesa. Non so come direzionarli. Ma amerei im-
mensamente provarci.»
Harrowhark aspettò, schiacciando un pollice contro l’altro nel-
le maniche.
Da mezzo passo dietro di lei, Ortus commentò: «L’infaticabilità che
dimostrate nel confrontarvi con la più antica morte vi dona».
«Smettila di provarci con mia moglie» fece Magnus. (Harrowhark
si era scordata che fosse il marito di Abigail e trovò l’idea di fare gli
occhi dolci al paladino di qualcuno troppo ributtante per essere tolle-
rata.) Quando si accorse dell’espressione di Ortus, alle spalle di Har-
row – espressione che Harrow non poteva immaginare –, Magnus
esclamò in tutta fretta: «Era una battuta! Una battuta. Non insinue-
rei mai nulla del genere su di voi, Nono».
«C’è una cosa che vorrei darvi» disse Abigail Pent.
Si stava rivolgendo a Harrowhark, ora. Rimase a osservare men-
tre quelle mani capaci – forti, per una necromante, ben conformate
e con unghie molto regolari – prendevano un foglietto ripiegato dal
piano del tavolo. Lo passò alla sua collega della Nona come se non le
dispiacesse separarsi da un reperto tanto prezioso. Stava sorridendo,
anche se impercettibilmente.
«La ricerca rende al meglio quando è uno sforzo condiviso» affer-
mò. «Se riuscirete a fornirmi una qualsiasi informazione rilevante a
proposito di questo documento, ve ne sarò molto grata. Se pure dove-
ste dirmi qualcosa di tedioso, ve ne sarei comunque grata. Gli adepti
ossei hanno notoriamente un ottimo occhio per i dettagli.»
Harrowhark Nonagesimus arrivava dalla Nona Casa; se fosse sta-
ta in possesso delle risorse di Abigail Pent, se le sarebbe tenute tut-
te per sé. Da morta, le avrebbe fatte chiudere tutte quante in un for-
ziere e l’avrebbe seppellito per sottrarle agli sguardi avidi degli altri
eruditi per un migliaio di anni. Prese quel dono con le dita guanta-
te e se lo rigirò fra le mani – era solo un pezzo di carta; possedeva la
thanergia della carta e, al contrario della velina, Harrow sarebbe riu-

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scita a percepire, a contatto con la pelle nuda, il ribollire dei batteri


che la consumavano.
«Vi sono… riconoscente, Quinta Casa» commentò.
Magnus stava dicendo: «Ortus. Ma cosa succede a Nonius, dopo es-
sersi imbattuto negli spadaccini stregati? Immagino combattano, no?».
Harrowhark fu sorpresa dell’immediatezza con cui riuscì a rispon-
dere in vece del suo paladino: «Abbatte sette uomini in altrettan-
ti versi, più o meno. Poi il capo degli spadaccini gli si para davanti,
brandendo due spade. Io mi sarei aspettata un nettissimo decremen-
to dell’efficacia con l’impiego di spade aggiuntive. Gli altri si fanno
da parte per lasciare che lui e Nonius si affrontino. Nonius vince fa-
cile, anche se ci mette otto pagine. Uccide gli spettatori residui, an-
che se con maggior noncuranza, visto che ci impiega solo altri quat-
tro versi, all’incirca».
Il fatto che Magnus stesse fissando lei e non Ortus la stupì; la distur-
bava la piega della sua bocca, la sua espressione bonaria e piuttosto
sciocca, i capelli ricci ben ravviati e il mento leggermente sfuggente.
Ma quel che la disturbava di più erano i suoi occhi, che all’improv-
viso avevano assunto una sfumatura difficile da definire e che erano
puntati sull’interezza della sua persona.
«Ma è davvero così che va?»
«Chiedo scusa?» fece Harrowhark.
«Dicevo, Reverenda Figlia, il fatto che la vostra energia spiritua-
le sia così diversificata dipende da una tradizione ancestrale del Se-
polcro Sigillato?» domandò allegramente Abigail. «Sono arrivata a
contare più di centocinquanta tracciati che contribuiscono a voi, e
ce ne sono altri ancora. Sono più impressioni che redivivi comple-
ti, ovviamente, il che implica che i loro spiriti siano stati manipolati
per lasciare in qualche modo un segno su di voi, il che è affascinan-
te se implica che…»
Le ci erano voluti anni e anni di autodisciplina per non uccidere
quella donna all’istante; o non fare nemmeno un tentativo. Se si fos-
se trovata di fronte a un qualunque altro evocatore di fantasmi – le
loro barriere di fattura così eccelsa ma anche così fatalmente lente –,
Harrowhark avrebbe potuto portare a termine il lavoro con un uni-
co colpo decisivo, non ne dubitava. Ma Abigail Pent di dubbi ne in-
sinuava. Fu quel dubbio che la spinse a girare i tacchi e a darsi alla

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fuga, una ritirata strategica, come continuò a ripetersi; Ortus partì al


trotto per raggiungerla, lo stocco che gli tintinnava al fianco. Riuscì a
captare le loro voci, perché aveva un udito molto sensibile ai toni bas-
si e soffocati di ogni genere. Magnus stava dicendo: «Mia cara, non
avresti dovuto…». E Abigail, paciosa: «L’ho trovato peculiare, consi-
derando anche che…» e nulla più.
Superò le autoporte a pressione gassosa della biblioteca – per
quel che ne sapeva Harrow, erano le uniche autoporte che esisteva-
no al di fuori del profondo sotterraneo illuminato a LED, con le sue
griglie metalliche e i condizionatori gracchianti – e imboccò il cor-
ridoio a grandi falcate, il più in fretta possibile. Ne era uscita tre-
mendamente sconvolta e non le fu facile accettarlo; a bassa voce,
scandì: «D’ora in poi, Pent e Quinn andranno evitati a ogni costo.
Per il bene della Nona Casa e per la sacralità del Sepolcro Sigillato.
Sono stata chiara?».
«Sì… Harrowhark, mia Signora» disse Ortus.
«Se riterrò che rappresentino una minaccia, o che vogliano esplici-
tamente arrecarci danno – al minimo pretesto, in tutta franchezza –
invocherò il castigo del Sepolcro. O ammazzerò Pent a sangue fred-
do se ce ne sarà bisogno, e tu giurerai che non abbiamo commesso
peccato, scatenando un conflitto ingiustificato tra le Case, indipen-
dentemente dalle circostanze.»
Una pausa. «Sì… Harrowhark, mia Signora» disse Ortus.
Quell’assenso pacato la fece infuriare ancora di più. Non si soffer-
mò sull’analisi delle motivazioni. «E dovresti usare Non-i-us trisillabi-
co, o un Non-yus di due sillabe» aggiunse Harrow, traendo una truce
soddisfazione da quella crudeltà. «Non quello che ti gira al momen-
to. È dilettantesco.»
Il suo paladino si bloccò di colpo, come una bestia da soma che rin-
cula prima di spiccare un balzo. Le rispose: «Sì… Harrowhark, mia Si-
gnora. Sono lusingato dall’attenzione che riservate alla mia arte. È vo-
lutamente arcaica. Enfatizza la mia dedizione alla recitazione parlata».
«Per l’amor di Dio, Ortus, piantala di rivolgerti a me come se stes-
si per fustigarti. Mi sto occupando dei nostri affari, malgrado la tua
ignoranza.»
«Che io non possa mai risultare sgradito alla mia Signora» fece lui.
«Che l’occhio cieco del Sepolcro Sigillato si posi su di me, trovando-

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mi a proteggerla sotto l’egida inamovibile dell’amore di un paladino.


Ma non rimodulerò i miei toni per voi.»
Lei gli si parò di fronte. Harrowhark sapeva di essere ingiusta; si
stava comportando da petulante… era colpa di quello spavento che
si era presa e, visto che non riusciva a tranquillizzarsi, ora stava ri-
correndo a ogni mezzo – leale o spregevole che fosse – per provar-
ci. Ma quando aveva paura tornava a essere una bambina, e temeva
l’idea di tornare bambina più di quanto temesse qualsiasi altra cosa
in vita sua. O quasi.
«Ho tutto il diritto di correggerti. Noi siamo i cancelli del Sepol-
cro, persino adesso» gli disse. «Lo porto con me, e le sue regole re-
stano ben chiare.»
«Che mai ci sia dato lasciarlo» commentò Ortus. «Mia Signora, sto
obbedendo a ogni vostro comando… e accetterò con gratitudine i vo-
stri rimproveri. Vi osserverò trucidare chiunque sentirete il bisogno
di trucidare e asciugherò il sangue dalla vostra fronte… ma, quando
mi corico per riposare, resto un uomo adulto con la facoltà di prova-
re quel che gli pare, né più né meno, a proposito di quel che gli pare.
Non è mai esistita una regola che lo impedisse, e quello ha sempre
rappresentato per me un profondo e incrollabile sollievo per quan-
to riguarda voi… e la mia Signora madre, la Capitana Aiglamene. Le
vostre volontà verranno esaudite, mia Signora.»
Poi le rivolse un inchino, un corretto inchino da spadaccino tom-
bale della Nona Casa; le sue pitture erano un perfetto teschio, per
quanto triste e in via di squagliamento, il suo atteggiamento auste-
ro, la sua espressione pietrificata come il sepolcro. E proprio quando
la sua Signora fu sul punto di dolersi per lui, in un moto speculare di
empatia, lui la salvò consolidando la sua posizione di maggior fon-
te di passivo-aggressività che la loro Casa avesse mai prodotto. «Ci
terrei anche a rammentarvi che la sineresi caratterizza alcuni fra gli
esempi più elevati dell’antica prosodia Nonaria. Sono certo che i vo-
stri studi vi abbiano impedito di apprezzare nella loro interezza l’e-
stensione dei classici.»
Harrowhark lo squadrò, trasformando quell’occhiata nella sua ulti-
ma parola, poi lo spinse in una nicchia. La nicchia era poco profonda,
ma lui forniva comunque una buona copertura. Le tremavano legger-
mente le dita, quindi le ritirò nelle maniche in modo che non risul-

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tasse così evidente. Prese l’innocuo pezzo di carta che Abigail Pent
le aveva dato da esaminare e lo aprì.
Quando vide quel che c’era scritto le parve che il suo sguardo fos-
se diventato stroboscopico; la calligrafia rossa e marcata pareva flut-
tuare sulla pagina, le lettere si affollavano e addossavano le une sul-
le altre mentre leggeva:

LE UOVA CHE MI HAI DATO SONO TUTTE MORTE E


VISTO CHE MI HAI MENTITO HO FATTO L’IMPIANTO
DA ME ZOMBIE EGOISTA CHE NON SEI ALTRO E L’HAI
MANDATO COMUNQUE A CERCARMI E L’AVREI FATTO
FUORI SE SOLO NON FOSSI STATA COMPROMESSA E MI
HA RISPARMIATA PERCHÉ GLI HO FATTO PENA! GLI
HO FATTO PENA! MI HA VISTA E GLI HO FATTO PENA E
PER QUESTO VI FARÒ SOFFRIRE TUTTI E DUE FINCHÉ
NON CAPIRETE NEMMENO PIÙ CHE COSA SIGNIFICA
QUELLA STRAMALEDETTA PAROLA.

Erano completamente soli. Harrowhark irrigidì comunque le dita


e mandò a Ortus il segnale che avevano concordato – quello che ser-
viva a chiedergli: “Che cosa sto vedendo?”. Lui le prese all’istante il fo-
glio dalle dita tremanti e lo esaminò.
«Se vieni nella mia stanza ti preparerò quel piatto con la patata
che ti era tanto piaciuto» lesse lui ad alta voce, serissimo. E aggiun-
se: «Come dobbiamo interpretare “patata”?».
«Come la tua parente più prossima nel regno vegetale» disse Harrow­
hark, che in vita sua non ne aveva mai nemmeno vista una dal vero.
«Avete sempre la battuta pronta, non c’è che dire» commentò il suo
paladino, senza apparente rancore e addirittura con un velo di apprez-
zamento. «Ho sempre ammirato la vostra predisposizione al motteg-
gio, mia Signora. Mi capita sovente che qualcuno mi dica qualcosa e
solo più tardi mi venga in mente la risposta perfetta – così perfetta che
l’ascoltatore non potrebbe fare altro che restarci di sale, in preda alla
vergogna per essersi messo nelle condizioni di riceverla – ma arriva-
to a quel punto sono ormai passate ore dall’evento e sono già corica-
to a letto. In ogni caso, comunque, odio il conflitto, di ogni genere.»
Harrowhark lo assalì.

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«Che il Sepolcro abbia pietà di te, Nigenad, dovresti vergognar-


ti di una simile esternazione» gli ringhiò, senza nemmeno compren-
dere la propria incandescenza. «La vita di un paladino è conflitto.
Dev’essere una combattente, non una spugna a forma di persona. Se
solo i duelli fossero strutturati come competizioni professionistiche
di passivo-aggressività, probabilmente sarei già Littrice. E hai anche
l’ardire di definirti un figlio del Drearburh? Non rispondermi; so che
hai a malapena l’ardire di definirti qualcosa che si discosti anche di
poco dal nulla. Per l’amor di Dio, Ortus, ho bisogno di un paladino
con un po’ di fegato.»
«Ne abbisognate da sempre» fece Ortus. «E sono felice, credo, di
non essere mai diventato quel paladino.»
Ore dopo quell’episodio, quando era già distesa a letto, il cervello
di Harrow lasciò che una risposta fluttuasse verso la superficie: “Ma
che cosa diavolo vorrebbe dire?”. Il che non era affatto una replica.

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Qualcuno ti aveva portata a letto – in quel mo-
mento non avevi idea di chi fosse, quel letto, o di dove fosse, o del
come fosse successo; non ti eri svegliata per scoprirlo. Più tardi, quel-
la notte, o forse quella mattina sul presto, il Signore tuo Dio ti aveva
trovata nella cappelletta.
Incombevi sul cadavere, le braccia allungate sopra la testa, avvolte
attorno all’impugnatura. Il tuo spadone a due mani era piantato nel
petto di Cytherea per la seconda volta. I boccioli di rosa erano spar-
pagliati e screziati da gocce di sangue vecchio e amaro. Non ricorda-
vi – né mai ci saresti riuscita – come eri arrivata lì.
Ed era stato così, a quanto pare, che avevi trascorso la tua prima
notte al Mithraeum.

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ATTO SECONDO
ACT ONE

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SEI MESI PRIMA DELL’ASSASSINIO DELL’IMPERATORE

In base all’ultimo conteggio, avevi ucciso do-


dici pianeti, ma quel primo rapido fendente alla giugulare continua-
va a sembrarti il più difficile. Sentivi il respiro che ti inumidiva la fac-
cia nella crespa tuta anticontaminazione indossata per tenere al largo
la polvere ma, almeno per il momento, superflua. Avevi soppesato
l’angolazione. Esitavi.
La tua recalcitrante istruttrice aveva scambiato la tua esitazione
per impazienza, seduta di fronte a te con la sua tuta arancione fru-
sciante, la tripla luce di un tramonto tristellare che le tingeva il viso
d’arancione dietro al plex morbido del cappuccio. Una folata legge-
ra di particelle di sabbia e polvere le picchiettò il tessuto, con un plic,
pilicchete, plic.
«Non star lì ad aspettare il timer, Harrowhark» ti aveva detto, la
voce smorzata dietro agli strati di amalgama plastico e fibre termi-
che. Era già seduta in posizione da immersione: le ginocchia sol-
levate, la schiena lievemente flessa, le mani posate sugli stinchi.
«Confido nel fatto che non ti serva più un timer, anche perché fra
mezz’ora qua fuori congeleremo all’istante, quindi datti una mos-
sa… non sarò di certo io quella che verrà raccolta col cucchiaino in
vista del suo funerale.»
Mercy non aggiunse quella puntualizzazione senza un certo godi-
mento. Il tuo cervello stava dicendo: “Vaffanculo a te per aver scel-
to questo specifico clima, organo schioppato che non sei altro, spre-
gevole ipocondriaca megalomane, cadavere semidecomposto con le

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unghie ancora attaccate”. Ma la tua bocca aveva replicato: «Inevita-


bilmente, sorella maggiore».
Mercymorn era rimasta a osservarti mentre sguainavi la spada.
Non lo stocco che ti penzolava dal fianco, che Dio ti aveva chiesto di
portare e che tu portavi come tributo al suo estremo ottimismo, ma
lo spadone che tenevi sulla schiena. Il tuo esoscheletro era sceso in
campo, in questo caso: le placche che ti rivestivano in lunghe scaglie
sovrapposte dalla schiena alle costole, dal gomito all’avambraccio, gli
apodemi rudimentali che ti aiutavano a sollevare una lama decisa-
mente troppo pesante per il tuo corpo. A te non spettava la lieve in-
crespatura dei muscoli che ora faceva capolino sulla schiena e sul-
le spalle di Ianthe, specialmente quando grondava di sudore; per te
c’era­no cavità, ossa e una dorsale esterna.
L’unico commento della Santa della Gioia fu: «Io non ho mai avu-
to bisogno di fare tutta quella scena, ma procedi, e cerca di non sca-
tenare niente di tettonico».
Visto che in precedenza non avevi mai scatenato niente di tettoni-
co, era stato con un guizzo di furibondo risentimento che avevi sol-
levato l’elsa sopra la testa. Avevi conficcato nel talco la lama foderata
d’osso – non volevi, ovviamente, che avesse mai più un bordo affilato,
di nessun tipo, mai più – e usando la spada come punto focale, avevi
scaricato una lancia omicida di thanergia dritto al cuore del pianeta.
Il pianeta non vibrò, non ululò, non si raggelò, non si contorse, tra-
fitto com’era dai rebbi della tua necromanzia. Avevi innescato la rea-
zione a catena verso l’esterno, come ti era stato insegnato. Una va-
sta falciata thanergica tranciò il mantello, colpendo più in profondità
la thalergia minuta della roccia, fino alla memoria sepolta nella pie-
tra compatta del giorno in cui quella palla di polvere si era formata.
La difficoltà era maggiore, su un pianeta di quella tipologia; era per
quel motivo che Mercymorn l’aveva scelto, per quello e perché spe-
rava di farti fare la fine di un cadavere di ghiaccio. La reazione tha-
nergica andava amministrata con cautela. Lì, l’anima del pianeta ri-
siedeva nelle stratificazioni delle sue sabbie e dei suoi minerali: una
trama delicata di creature infinitesimali, di batteri, di esili grovigli sti-
racchiati di vita. Non avevi nemmeno capito che cosa cercare, la pri-
ma volta. Ora lo sentivi, come sentivi la sabbia che schiaffeggiava il
rivestimento della tua tuta.

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Ti eri lasciata cadere, mettendoti seduta nella stessa posizione as-


sunta da Mercymorn: piedi ben piantati sulla sabbia mentre il vento
mugghiava, la colonna vertebrale che descriveva una curva morbi-
da a forma di C; in quel modo, una volta finito, non ti saresti ritro-
vata con un gran mal di schiena. Avevi premuto le punte degli scar-
poni contro la lama verticale della spada, e avevi percepito il pianeta
– stava iniziando a rendersi conto che stava morendo.
La reazione era perfetta. Andava sempre così con le tue reazioni a
catena. La thanergia stava fendendo l’anima come una candela accesa
a contatto con un foglio di velina. La corrente vitale di quell’affiora-
mento roccioso cominciò a morire in vertiginosi cerchi concentrici:
rovesciandosi, la thanergia si nutriva della thalergia come le locuste
divorano il grano. Mentre l’anima si sfilacciava, un rilascio thanergi-
co aggiuntivo alimentò ulteriormente la combustione che avevi già
innescato. Eri soddisfatta della precisione del tuo affondo: non ti eri
messa a sedere con l’ansia, come avevi fatto la prima mezza dozzina
di volte, ma avevi chiuso gli occhi e ti eri immersa nel Fiume nono-
stante lo spirito del planetoide avesse già iniziato a dimenarsi in cer-
ca della libertà.
Maestro aveva equiparato la transizione verso il Fiume dei maghi
ossei e corporei a uno scultore a cui fosse stata consegnata una cio-
tola piena d’acqua e a cui fosse stato detto: “Fai una statua”. Mentre
i maghi spiritisti erano dei nuotatori a cui veniva dato un blocco di
marmo con l’ordine: “Nuota, vai a farti una vasca”. Amavi Dio come
un re, e amavi Dio come una promessa di redenzione, e amavi Dio
non sapevi nemmeno tu come – così di rado avevi amato. Ma odiavi
le sue analogie dal profondissimo dell’anima.
Scultore o nuotatore, lasciarsi andare si era dimostrato l’aspetto
più difficile in assoluto. Una parte di te ne era sempre fiocamente in-
timorita. La tua compagna necrosanta-in-tirocinio ora si vantava di
riuscire a farlo quasi all’istante: era come chiudere gli occhi, diceva
sempre. Tu non l’avevi mai trovato naturale. Dissotterravi la tua men-
te dalla carne, e la indirizzavi verso il basso – sempre verso il bas-
so, in qualche modo – e la spingevi con la tua consapevolezza finché
non percepivi, sotto ai piedi, le rocce affilate come pugnali di quel-
la riva grigia e inimmaginabile sotto a un cielo anonimo e altrettan-
to grigio. Poi muovevi il primo passo in quell’acqua gelida, e un al-

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tro, finché l’acqua non ti arrivava alla vita e potevi riaprire gli occhi.
Riuscivi a vedere il punto in cui l’anima del pianeta si stava dibatten-
do. I fantasmi si erano scansati come se un sollecito colpo di spazzo-
la li avesse rimossi da quell’impetuoso rivolgimento pneumatico. Una
Bestia Minore. Niente Bestia Resurrezionale, ovviamente: quel ghast
neonato avrebbe avuto bisogno di almeno mille anni di macerazioni
malintenzionate per diventare qualcosa di anche solo lontanamen-
te paragonabile a una Bestia vera. O così ti era stato riferito. Tu una
Bestia vera non l’avevi ancora vista. Ora stringevi tra le mani lo spa-
done, che si era fatto leggero come il perdono. Ti eri issata in posi-
zione eretta e, rivolta alle ribollenti acque grigie, fradicia fino all’osso
di quella spuma sporca e sanguinolenta, avevi cominciato ad avan-
zare verso il maelstrom.
Sapevi, senza arrischiarti a lanciare un’occhiata alle tue spalle, che
Mercymorn la Prima era ferma sulla riva, intenta a osservarti con aria
critica e con l’orlo delle perlacee vesti Canaanite ormai zuppo. Era
possibile che stesse accogliendo con una smorfia l’allargarsi dell’alo-
ne. Lì nel Fiume i suoi occhi burrascosi si facevano indagatori, due
gorghi di un grigio vermiglio sempre più sgranati, dolorosi da guar-
dare. Eri contenta che Mercy potesse constatare la tua attitudine agli
spiriti, un’abilità che ti stavi impegnando a morte per perfezionare.
Eppure, eri anche contenta che non si avvicinasse troppo, ti avrebbe
distratta mentre ti avvicinavi a quell’anima che sussultava e si contor-
ceva: un guazzabuglio da incubo di organico e inorganico, che nel suo
complesso altro non era se non un miraggio fasullo di materia spiri-
tuale. Era una massa di facce rocciose sanguinolente e in via di sgre-
tolamento; un esapode con zampe pelose da insetto, irte di aculei ri-
vestiti d’argilla. Era in prevalenza grigio, ma di un grigio maciullato,
viscido e sabbioso, che suppurava come qualcosa di organico ma so-
migliava comunque alla pietra. E ora stava scappando.
Mercymorn si era messa a strepitare dalla riva, la voce un urlo
smorzato dal vento e dallo sciabordare stridulo delle onde rimesco-
late: «Se la sta battendo!!!».
Tu avevi rinfoderato la spada e ti eri tuffata. Meglio stare vicino
alla creatura che dover gestire spiriti importuni. La superficie dell’ac-
qua si divideva al tuo passaggio, torbida e untuosa – odorava di san-
gue e sapeva di fogna. Ti eri aperta il polso e ti eri lavorata i dista-

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li per formare degli spilloni ossei e, da lì, avevi plasmato un fascio di


lunghi arpioni seghettati. Al dolore avevi detto che non era vero do-
lore, al tuo polso che non era davvero il tuo polso, non erano le tue
vere ossa, solo delle eccellenti approssimazioni nate dalla tua men-
te. Avevi legato la percezione dei tuoi tendini per formare delle funi
nerborute. Avevi sollevato il primo arpione. Avevi preso le misure.
L’avevi scagliato.
Il primo arpione era rimbalzato sul quel casino tremolante di mu-
scoli e minerali, ma non senza aver prima staccato qualche agglome-
rato farinoso di interiora cristallizzate. Il secondo si era incagliato. Il
terzo aveva trapassato una granulosa massa corneale ed era finito a
mollo nell’acqua in una nube di ribollente grasso polveroso. Il quar-
to e il quinto erano andati a segno. E tu ti eri ritrovata a scivolare e a
sobbalzare alle spalle dell’anima di un pianeta che, urlando, era decol-
lata. Mentre ti trascinava lungo il fiume, l’acqua ti era entrata a razzo
nelle cavità sinusali, grattandoti le pareti delle tonsille mentali – e la
tua mente vomitò acqua a fiotti mentre veniva sballottata, al colmo
dell’indegnità, al seguito della proto-Bestia. Tu ti tenevi aggrappata
grazie alle funi sdrucciolevoli fatte coi tuoi stessi muscoli e collagene
e, dai rimasugli frantumati dei tuoi giavellotti evocavi un costrutto
dopo l’altro. Avevi lasciato la lancia a penzolarti lungo il fianco e ti eri
arrampicata insieme al tuo squadrone di scheletri finché non eri riu-
scita a salire in groppa al fantasma, aggrappandoti a manciate di falso
pietrame che pugnalava la carne morbida dei tuoi palmi, afferrando
un tarso carapacico d’insetto e reggendoti ai grumi di pelle e giunti.
I tuoi costrutti si issavano gli uni sugli altri, sommergendo la pseudo-­
Bestia – ne aveva scaraventati alcuni nell’acqua, ma gli altri le si erano
arrampicati sopra sicuri, indifferenti alla paura – e, ansimando, eri sa-
lita anche tu insieme a loro. Avevi impugnato di nuovo il giavellotto,
avviluppato al tuo avambraccio dalla corda di tendini affiorati, e, con
l’altra mano, avevi sollevato lo spadone. Sarebbe pure potuto risul-
tare fichissimo, se non fosse stato vagamente ridicolo. La Bestia ave-
va cominciato a piegarsi sul fianco, lo spirito in fasce di un fantasma
animalesco che non sapeva fare altro che annaspare tra le fauci del
suo predatore: tu avevi conficcato la spada nel suo spirito così come
avevi piantato la spada nel suo mantello, mentre l’acqua si richiude-
va di nuovo su di te in un folle afflusso di onde luride e contaminate.

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Avevi pensato: “La finirò”. Gli scheletri – avevi conformato le loro


gambe come paletti appuntiti, lasciando che si conficcassero in quel
che c’era di morbido e che si incuneassero e incollassero in quel che
c’era di duro – stavano zappando quella cosa maledetta con le mani
scarnificate. Tu rivoltavi col giavellotto la roccia ribollente e la car-
ne, cercando di grattar via la superficie, di scoperchiare il cervello.
Era troppo giovane e debole per avere un cranio formato. Raccoglien-
do tutto il tuo odio, la tua parola e la tua serenità, avevi affondato il
giavellotto nell’esatto istante in cui avevi percepito il corrugamento
di un emisfero, trapassando i lobi e trasformando la tua picca in una
ruota, spaccando a metà quel che era già morto.
Meno di sessanta secondi dopo eri raggomitolata sulla superficie
del planetoide e, mezza morta di freddo, stavi cercando di irrorarti
le estremità e di dilatare i tuoi vasi sanguigni. Uscire dal Fiume non
era mai stato un problema per te; eri sempre contenta di andartene. Il
pianeta tramortito dalla notte non aveva reagito in maniera partico-
larmente scomposta – la tua lama colpiva silenziosa e per te era mo-
tivo d’orgoglio – ma la tempesta di sabbia era morta immobilizzan-
dosi a mezz’aria. Le particelle che erano state proiettate a chilometri
di altitudine nell’atmosfera stavano precipitando verso il basso come
pioggia. Il tramonto simultaneo dei tre soli aveva prodotto un’oscu-
rità esagerata, Mercy aveva assicurato una lucina al suo onnipresente
blocco per gli appunti e, scrivendo, la sua penna, il blocco e la sabbia
che scendeva lentamente parevano avvolti da una minuscola aureola.
Una lama di luce intercettò la bellezza defunta del Corpo. Era sem-
pre lì, quando sferravi il fendente. Era sempre lì per darti il benve-
nuto a casa dopo la mattanza. Ti incasinava pesantemente la visione
periferica: certe volte, in preda al panico, la trapassavi con la lancia e
lei si limitava a squadrarti con un’espressione indecifrabile e spenta.
«Uno in meno da mangiare lungo il cammino, per la Numero Sette»
aveva commentato la Santa della Gioia. «Otto minuti e trentaquattro»
aveva aggiunto, perché Mercy mentiva sempre quando ci si convince-
va che non l’avrebbe fatto, e non mentiva mai quando si pensava che
l’avrebbe fatto, confondendo le carte così spesso da spiazzare chiun-
que ancora di più. «Non ci siamo proprio, Harrowhark. Non ancora.»
Lì al freddo e al buio, avevi deglutito un’ingente quantità di sali-
va gelida. Senza il casco, ciocche frigide di capelli ti si erano incolla-

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te alla nuca sudata: avevi bisogno di tagliarti di nuovo i capelli. Non


eri riuscita a trattenere una nota di petulanza quando le avevi rispo-
sto: «Sono due minuti in meno rispetto al mio tempo precedente, so-
rella maggiore».
«Sì» aveva detto la Littrice. Riuscivi a percepire la sua concentra-
zione dietro al plex scuro della maschera integrata mentre tracciava
un’altra linea meticolosa sul grafico che stava disegnando. «Sei mi-
gliorata rapidamente. Ma anche se fossi capace di abbatterle in quat-
tro minuti, lattante, non ci saremmo comunque.»
La lingua ti si aggrovigliò in bocca. «Perché queste sono molto di-
verse dalle vere Bestie Resurrezionali?»
«No» disse la Santa della Gioia, e la sua voce assunse la sfumatu-
ra impalpabile della lama di un rasoio, avvelenata da una perfetta ra-
gionevolezza. «Potresti abbatterle in due. Potresti abbatterle in uno.
Ma alla fine della fiera, sorellina mia, il problema è che tu sei in ipo-
termia mentre io no!»
Per tutto il viaggio di ritorno al Mithraeum, a bordo della picco-
la navetta, ci avevi riflettuto su. Avevi tentato in ogni modo di con-
travvenire al fatto ineluttabile che, quando entravi nel Fiume, la tua
necromanzia sul fronte corporeo si sgretolava. Mercy non aveva mai
dovuto invocare la pietà degli elementi, ma tu eri indicibilmente vul-
nerabile, a prescindere da quello che cercavi di fare. I costrutti cade-
vano a pezzi, persino quelli fatti di cenere permanente. Le tue barriere
traballavano. I tuoi teoremi fallivano. Le ossa che manipolavi mante-
nevano la forma solo a patto che ogni stimolazione artificiale venis-
se rimossa, ma solo dopo una tediosa serie di tentativi ed errori eri
riuscita a scoprire come rendere inerte il tuo esoscheletro in modo
da non ritrovarti sepolta, al risveglio, dal collagene disgregato. Quan-
do il tuo cervello faceva ritorno alla carne, ogni tua facoltà si riani-
mava ordinatamente come se qualcuno avesse girato una valvola per
consentire al flusso di scorrere di nuovo; ma fino a quel momento…
Ecco qual era il segreto del processo Littoriale. Quando l’anima di
un Littore normale andava al Fiume, l’energia morta e vuota che un
tempo era stata il suo paladino manteneva la luce accesa nel corpo.
Il guscio dormiente di un Littore normale rispondeva con precisio-
ne meccanica alle minacce, dalla più triviale alla più formidabile. Era
in grado di stabilizzare la temperatura; poteva filtrare veleni e tossi-

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ne; poteva riparare i danni con rapidità sovrannaturale; e, ovviamen-


te, poteva combattere come una tigre superbamente disciplinata. Gli
arti di un Littore ricordavano tutto l’addestramento del loro essere
secondario rubato, e se ne sarebbero avvalsi, spietati e perfetti, fin-
ché il Littore non fosse tornato a riprenderne possesso.
Il corpo di un Littore normale era in grado di badare a se stesso.
Ma ormai era chiaro a tutti: tu non eri un Littore normale.

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“Non un Littore normale” era l’eufemismo pre-
ferito di Dio. I fratelli e le sorelle che ti erano stati assegnati predili-
gevano termini differenti. (Il Santo della Pazienza apprezzava mol-
to “Littrice dietetica”. Ti capitava, di tanto in tanto, di architettare la
morte di Augustine, e non era mai una cosa veloce.) Ma ricavavi un
raggelante conforto nel trovarti all’interno di uno spettro di norma-
lità, invece che all’estremità sbagliata di un sistema binario. All’inter-
no di quello spettro c’era anche Ianthe la Prima. Quella stessa notte,
dopo il tuo ritorno sana e salva fra le braccia del Mithraeum, l’avevi
trovata seduta negli alloggi dozzinali della sua antenata a mangiare
tristemente una zuppa.
Le sue magnifiche vesti Canaanite erano appese a un gancio – l’or-
lo era infangato, avevi notato – e addosso aveva una di quelle gonne
e di quelle camiciole ridicole che aveva riesumato dall’armadio. Sugli
orli interni era immancabilmente stato ricamato VALANCY con gran-
de perizia. Le gonne e le bluse erano state splendidamente confezio-
nate per una persona di altezza e corporatura diversa rispetto a quella
di Ianthe. Le aderivano dove avrebbero dovuto starle larghe e le sta-
vano larghe dove avrebbero dovuto starle attillate. Sembravano dei
vestiti da sepoltura, e lei sembrava essere riemersa una cinquantina
d’anni dopo esserci stata effettivamente seppellita dentro.
Quello specifico indumento, un satin a scure sfumature rubino, le
scopriva completamente una spalla, ed era la spalla di quello che ti eri
abituata a definire il braccio: il braccio destro che Cytherea la Prima
le aveva asportato appena sopra al gomito e che era stato sostituito in
blocco con quello di qualcun altro. Il nuovo arto, con la sua cucitura

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bluastra, penzolava greve dal giunto olecranico. Pareva grasso, gon-


fio e inutilizzato, il che era ridicolo, perché non eri mai riuscita a tro-
varci niente che non andasse. Era stato molto ben accoppiato all’ori-
ginale finché lei non aveva smesso di usarlo del tutto, e la differenza
si faceva ogni giorno più pronunciata. Inconsapevole del tuo sguar-
do critico, si era grattata nervosamente la cicatrice fino a far appari-
re dei ponfi rossastri.
«Quindici e dieci» aveva detto la tua sorella Littrice, appena si era
accorta della tua presenza. Tu avevi ribattuto: «Otto e trentaquat-
tro». E lei: «Dio Santo! Hai capito la fenomena! Otto e trentaquat-
tro… è veramente un peccato che non abbia la minima importanza».
Doveva essere di un umore schifoso, se aveva addosso quell’affa-
re che le lasciava scoperto il braccio. E nemmeno tu versavi nella mi-
gliore disposizione d’animo.
«Interroghiamoci» avevi detto. «Non ha la minima importanza per-
ché, nonostante tu abbia migliorato di tre minuti buoni il tuo tempo
precedente, non puoi neanche lontanamente sperare di battermi in
quest’arena, o non ha la minima importanza perché la Numero Set-
te mi ucciderà comunque?»
«Sei davvero ottimista se pensi che vivrai abbastanza a lungo per
vedere la Numero Sette» aveva ribattuto lei, con gli occhi azzurri e le
piccole lentiggini oleose che splendevano facendosi quasi rosate so-
pra ai vestiti, riflettendo i bordi arrossati delle palpebre. Dava l’im-
pressione di aver pianto. «Già mi stupisce che tu sia arrivata fin qui
dall’attracco senza farti assassinare, Harry.»
«Non intendo rispondere a quel nomignolo.»
«Chiudi la porta e ti chiamerò Nonagesimus.»
Avevi chiuso la porta per diverse motivazioni accademiche, e da
dentro, invece che tirandotela dietro uscendo. I suoi quartieri ti of-
frivano una certa sicurezza, visto che li barrierava con la scrupolosi-
tà paranoide di un’omicida fuggiasca – il rigore, dunque, era parago-
nabile al tuo. Ricavavi autopsie migliori dai suoi incontri con le Bestie
di quanto non riuscissi a fare coi tuoi, visto che Augustine era incli-
ne a offrirle una quantità significativa di spiegazioni in più rispetto a
quanto Mercy non facesse con te.
Ma per la Lingua Recisa, quelle cazzo di stanze. Quelle stanze glas-
sate a righine bianche e dorate, quelle stanze coi lampadari di cristal-

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lo e i letti grandi quanto molte delle celle penitenziali a casa tua. Le


avevi odiate a prima vista, così come Ianthe le aveva adorate all’istan-
te. Disprezzavi l’arredamento ultrabarocco pieno di ragnatele, con le
filigrane sopra agli svolazzi e alle infiorettature, gli ammassi di tra-
me ricamate, la roba appesa ovunque, drappi di tessuto sopra ad al-
tri drappi di tessuto che gravavano su un divano imbottito che cigo-
lava quando ti ci sedevi sopra; e, cosa ancor più disturbante, i quadri.
Nudi a grandezza naturale in atteggiamenti languidi, generalmente
dipinti a olio, e sempre degli stessi due soggetti. Un’esecuzione appas-
sionata. Il duo ritratto posava reggendo una vasta gamma di oggetti,
sia plausibili che improbabili. Una volta eri stata così sciocca da sug-
gerire a Ianthe di toglierli e lei, per tutta risposta, ne aveva ripescato
un altro dal bagno e l’aveva orgogliosamente appeso al posto d’ono-
re sopra a una cassettiera troppo pitturata. Il tuo non era puritanesi-
mo. Era solo che stazionare in una stanza insieme a quei quadri era
come fermarsi per una visita interminabile da due persone che non
facevano altro che ridere alle loro stesse battute.
Nonostante l’orrore soverchiante di quei nudi – pure l’ingratic-
ciatura era eccessiva – e l’orrore che ti suscitava la stessa Ianthe, re-
stavi una visitatrice assidua di quel covo. Ricavavi una patetica sod-
disfazione da quel Nonagesimus, ora che avevi passato mesi a essere
Harrow­hark la Prima. Come diceva sempre Dio, sarai anche stata la
nona santa, ma non saresti mai potuta tornare a essere una Nona –
tranne quando chiudevi la porta di Ianthe.
«È della tua ambizione all’ambidestrismo che stiamo parlando, Tri-
dentarius» le avevi detto, concedendole di ricavare dalla nomencla-
tura lo stesso piacere malato. «Non si tratta di matematica. Stai cer-
cando di combattere tenendo la spada nella mano sbagliata. Io non ci
sto nemmeno provando a combattere con la spada. Come mi è stato
ripetuto fino alla nausea, la versione mezza moscia di qualcosa è ben
peggiore della mosciaggine totale.»
Nonostante tu avessi detto “mosciaggine totale”, Ianthe si era li-
mitata a risucchiare rabbiosamente la zuppa, producendo un suono
simile a quello di un flauto ripieno di crema pasticcera. «Dimmi di
smettere di respirare» aveva risposto. («L’ho fatto, in numerose oc-
casioni» avevi commentato tu.) «Non puoi capire. È profondamen-
te istintivo. Non importa se cerco di combattere da lontano. Mi ac-

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corgo di qualcosa, sobbalzo, e Babs entra in azione, e il braccio non


funziona…»
«Non puoi scaricare la colpa sulla tua anima-combustibile. È
psicologico.»
«Puttanate» aveva detto lei con veemenza.
Babs era sintomo di una pessima giornata. Parlava molto raramen-
te del suo paladino. «Augustine è critico, e lo accetto.»
«Augustine mi ha detto che potrebbero pure decidere di soffocar-
mi, insieme a te.»
Quel che ti sorprendeva era il fatto che ti fosse rimasto ancora un po’
di ego da ferire. Ianthe si era messa in bocca un’altra cucchiaiata di zup-
pa e aveva detto, con un’espressione insoddisfatta sul viso pallido come
uno straccio: «Dice quello che mi dici anche tu… è psicologico… dice
che insisto nel sentirmi difettosa per il mio personale divertimento».
Ancora congelata e spossatissima, avevi posato la spada vicino ai
piedi e ti eri seduta su una poltrona con lo schienale alto e una fran-
gia che girava tutt’attorno al bordo inferiore, decorata a strisce ci-
trine. Le stanze di Ianthe erano senza dubbio più lussuose delle tue,
nonché più interessanti dal punto di vista dell’assegnazione, visto che
erano appartenute per secoli a un Littore morto ormai da tempo im-
memore che aveva avuto abbastanza occasioni per tornarci di tanto
in tanto e ammobiliarle in base al suo gusto: ma quel Littore morto
da tempo immemore sembrava ancora occupare tutte le sedie, pare-
va che si sdraiasse nel letto e si facesse la barba vicino al lavandino
col pompaggio ad acqua, e tu eri sollevata dal fatto che le tue stanze
non contenessero altri fantasmi a parte i tuoi.
Le avevi detto: «Il braccio non ha niente che non va».
«Non è mio» aveva esclamato Ianthe con foga.
«Allora tagliatelo.»
«Che risposta Nonaria…»
«Lascia che intervengano le tue decantatissime abilità Littoriali»
avevi detto. «Vedi se ti ricresce.»
«Non accadrà» aveva risposto lei, prendendoti assolutamente sul
serio. «Maestro ha detto che i Littori non sopravvivono alle decapita-
zioni e che gli arti perduti guariscono come moncherini. E so anche
che se cercassi di farmi da sola un braccio nuovo mi scorderei di qual-
cosa. Se non è perfetto non funzionerà, e io non lo vorrei.»

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L’ex Principessa di Ida non si era espressa con petulanza, ma ave-


va usato i toni rassegnati e piuttosto accigliati di una persona lieve-
mente afflitta dall’autocomprensione. Le avevi suggerito: «Allora fallo
fare alla Santa della Gioia. Su di lei si può contare, in fatto di perfe-
zione fisiologica».
«Oh, mi fai scassare dal ridere» aveva commentato Ianthe, senza
sollevare lo sguardo dalla zuppa. «Per quanto mi riguarda, non per-
metterei alla nostra sorella maggiore di farmi ricrescere nessuna estre-
mità» le avevi detto, «ma se quello che desideri è la perfezione…»
«Buuu» aveva detto Ianthe.
Ti eri stufata. «Maestro, allora.»
«Mi spiegherebbe quanto sarebbe meraviglioso se lo facessi per
conto mio. Qua non siamo mica tutte le cocchine adorate di Maestro,
per cui farebbe qualsiasi cosa» aveva osservato. «Io non sono mai sta-
ta brava ad attrarre padri indulgenti.»
Eri stizzita, ma non disponevi di una replica adeguata. Eri occupa-
ta a massaggiarti i polpastrelli formicolanti, ancora rossi e dolenti: il
decadimento cellulare era così sottile che stavi guarendo uno strato
alla volta, per assicurarti di raggiungere ogni elemento. Niente mon-
cherini uniformi da Littore rigenerato per te: tu dovevi fare tutto da
sola. Eppure, nemmeno tu ti saresti rivolta a Dio, che avrebbe potu-
to guarirti in un accecante istante nauseabondo, sfilettandoti dal pro-
fondo, dall’osso verso l’esterno, guardandoti con quel sorriso solenne
e un po’ tribolato che allo stesso tempo anelavi e detestavi.
«Allora non so proprio cosa dirti» avevi commentato. «A parte
che, se continui a chiedere la mia opinione, dovresti almeno far fin-
ta di volerla sentire.»
Ianthe spinse via la ciotola vuota della zuppa e si mise a sedere
dritta. Ti fissava, con gli occhi rubati che si assottigliavano, colti da
un improvviso guizzo d’ispirazione. I capelli biondo-colla le casca-
vano lisci su un viso che sarebbe dovuto risultare bello, sulle spalle
che avrebbero dovuto essere splendide, finendo solo per contribuire
all’impressione generale di trovarsi davanti a una statua di cera con
un vestito rosa da bambolina. Non ti era mai stata offerta l’opzione di
giocare con le bambole, ma col senno di poi non credevi che l’avre­
sti mai fatto volontariamente.
«Ma tu ne saresti capace» aveva detto lei, suadente. Guardava il col-

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larino d’osso che faceva capolino dal colletto della tua camicia, l’estre­
mità superiore del tuo esoscheletro fatto in casa. «Potresti pensarci
tu, Harrowhark. E forse te lo lascerei addirittura fare, visto che sia-
mo commilitone. Visto che siamo intime.»
Ti eri alzata in piedi, più che disgustata. Ti eri chinata a raccoglie-
re lo spadone, con l’esoscheletro che scricchiolava. «Non sono anco-
ra impeccabile, quando si tratta di carne» avevi puntualizzato. «Non
dico che non mi ci avvicinerei… ma tu vuoi qualcosa che io non pos-
so darti. E nemmeno si tratta di qualcosa che sono preparata a darti.
In tutta onestà, il fatto che tu me l’abbia chiesto mi rivolta abbastan-
za. C’è ancora della zuppa in cucina?»
«Oh, in abbondanza» aveva detto Ianthe, che non sembrava esser-
si offesa per il tuo rifiuto. Era una cosa assolutamente impossibile da
stabilire, con Ianthe. «L’ho fatta io. È obbrobriosa.»
Esistevano forse due alleate più improbabili di te e lei, una la fi-
glia del mistico Drearburh, l’altra della vanagloriosa Ida? Non era
un legame nato dalla stima reciproca; se non altro, più approfondi-
vi la conoscenza di Ianthe, meno incline diventavi a scambiarla per
una persona piacevole. Si presentava come una torta eccessivamen-
te guarnita: era ricoperta da uno strato così spesso di glassa, di fon-
dente e di giuggiole che per trovare un po’ di sostanza sarebbe ser-
vita una seria operazione di scavo. Come necromante, era un genio,
anche se eri convinta che facesse troppo affidamento sulle scorcia-
toie e gli stratagemmi. Aveva una mente di un’acutezza eccezionale.
Non temeva il rigore. Ma era anche ossessionata da quello che pote-
va celarsi al di sotto del Fiume e, anche se detto da te poteva risulta-
re un filino ipocrita – da che pulpito –, era una scorbutica del cazzo.
Ma era una scorbutica che aveva conquistato il Littorato. Una scor-
butica che ora eri tenuta a chiamare sorella, anche se pensavi che fa-
cesse più male a lei chiamare sorella qualcun’altra rispetto a quanto
urtasse te. Era una scorbutica che un’entità defunta aveva rispetta-
to a sufficienza da includerla nelle operazioni. Una scorbutica che ti
aveva trovata, quasi disorientata a morte, fuori di te e precipitata in
disgrazia dopo aver trapassato con la tua spada lo sterno di una don-
na morta, e aveva commentato semplicemente: «Dovevi staccarle an-
che le braccia». Forse esistevano alleate più plausibili, ma la tua non
ti aveva ancora ammazzata.

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Il Mithraeum, il Trono del Primo Risorto! Il San-
tuario dell’Imperatore delle Nove Case, il rifugio di Dio – il luogo in
cui le ossa cave riposano, e l’ossario dei valorosi! Una stazione spa-
ziale celata a quaranta miliardi di anni luce dal bagliore onniarden-
te di Dominicus, rischiarata dalla thanergia stellare, incastonata nel
grembo del disco circumstellare, un gioiello antico in mezzo a tan-
to pietrisco morto.
La tua nuova abitazione faceva capolino al centro di una fascia di
asteroidi ed era costituita da una serie di cerchi concentrici, come il
balocco di un gioielliere. Era composta da un settore abitativo – di-
sposto a ciambella attorno al bordo esterno –, un anello interno di
stanze preparatorie, qualche laboratorio, una sala di lettura più gran-
de del Drearburh e un lazzaretto di stoccaggio dove il cibo veniva
mantenuto cristallizzato nel tempo, immarcescibile. Gli altri Littori
si lamentavano per lo strano retrogusto dei cibi vecchi di mille anni
e mantenuti necromanticamente puri, ma tu non lo sentivi. C’erano
anche un impianto di rigenerazione dell’acqua e delle stanze accesso-
rie. La cappella e gli alloggi di Dio erano al centro. Tutto il resto era
dei morti. Una rassegna di ossa di morti, corpi di morti e teste mum-
mificate di morti, e braccia recuperate dai morti, di carne e mate-
ria scheletrica, cristallizzate appena dopo essere state deflagrate via
dai corpi degli ex viventi, e ceneri di morti, capelli di morti, unghie
di morti, e pelli ripiegate di morti e occhi di morti, imbarattolati in
splendidi contenitori di cristallo pieni di aldeide. Un Littore, stazio-
nando sul limitare dell’anello roccioso che incoronava il Mithraeum,
non l’avrebbe percepito come nascosto: l’avrebbe visto come un ra-

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diofaro urlante di thanergia – un vortice ardente di morte –, come


se nello spazio campeggiasse a caratteri cubitali un ECCO IL CIMITE-
RO, LE TOMBE SIAMO NOI.
I tuoi primi mesi di Littorato erano trascorsi in una manciata di
riecheggianti stanze sterili col soffitto a volta riservate specificamen-
te a te. Dai colori neutri – bianchi, grigi e neri –, pulite con puntiglio
e relativamente prive di ossa. Al contrario di quelle di Ianthe, nessu-
no le aveva mai occupate prima. Erano state pensate per un Littore
che non avesse mai dormito in quelle lenzuola, appeso i suoi vesti-
ti negli armadi o deterso il suo viso nel lavandino a pompaggio d’ac-
qua. Per te, che avevi vissuto respirando la polvere datata dei passati
componenti della tua famiglia, portando i loro indumenti e usando
le loro cose, ricevere un assortimento di stanze intonse rappresenta-
va un’allettante novità. Avevi sistemato i tuoi vestiti piegati in casset-
ti che mai avevano ospitato un indumento, conservando nello scrit-
toio i tuoi pochi oggetti in maniera ordinata e organizzata e ricavando
una certa soddisfazione nel fare ritorno ogni sera in un posto del ge-
nere. Non avevi mai raggiunto l’appagamento, ed eri ancora inerme,
ma nelle piccole cose trovavi una raggelante gratificazione.
Niente servitori qui, nel nascondiglio del Necrore Supremo. Nes-
sun costrutto in vista. Tutti vi preparavate i pasti per conto vostro – o
perlomeno Mercymorn cucinava, Augustine cucinava e addirittura
Dio in persona cucinava –, ciascuno ignorando cosa facesse l’altro.
Augustine si era degnato di insegnarlo a Ianthe, o almeno aveva fatto
un tentativo, ma nel tuo futuro non scorgevi la cucina. Mangiavi per
puro piacere così di rado che non riuscivi nemmeno lontanamente
a immaginare di diventare un essere umano normale che imparava
a prepararsi un panino. Nonostante fossi ascesa alla Prima, eri nata
nella Nona Casa ed eri più che soddisfatta di uno spuntino freddo.
Gli ingredienti potevano essere reperiti dalla dispensa e consumati
così com’erano, nelle ampie cucine d’acciaio dallo stile così antiqua-
to: piani di lavoro cromati, grandi forni quadrati e un anello da cui
scaturiva un fuoco a gas, girando una manopola. Là ti era capitato di
imbatterti spesso nell’Imperatore delle Nove Case, seduto su una del-
le credenze di plex che beveva un caffè caldo da una tazza sbeccata.
Ora era completamente entrato in modalità Maestro. Il suo salotto
personale, un piccolo spazio tranquillo con qualche poltroncina e un

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tavolino basso – il tutto sbiadito da una placida usura – era diventato


un rifugio familiare. Il resto dei suoi alloggi privati restava una tom-
ba proibita. Tradizionalmente eri sempre stata attratta dalle tombe
proibite, ma questa nello specifico respingeva persino la tua curiosi-
tà. Le porte erano sempre chiuse e non cullavi l’ambizione di vederle
in uno stato diverso. Ti convocava di frequente per una lezione teori-
ca, o per quelle tazze di tè che continuavi a detestare – ma piuttosto
di esternarlo ti saresti fatta staccare la pelle a scudisciate – o, sempli-
cemente, per sedere con te in silenzio. Usava un trucchetto: ti chie-
deva di andare a trovarlo per parlare e poi, in realtà, non si parlava
affatto. Restava seduto insieme a te a guardare gli asteroidi che pro-
seguivano nella loro orbita aggraziata attorno a una stella thanergica.
Una volta l’avevi trovato con un fascio di veline sparpagliate sul ta-
volino basso – rapporti vecchi di mesi – e si era imbarazzato; Dio era
in imbarazzo. «Continuo a pensarci» aveva confessato. «Quei diciot-
tomila… i missili radianti… Augustine sostiene che continuare a ri-
muginarci quando già stiamo per infliggerci la Numero Sette sia una
follia, ma per come la vedo io, se fallisco con la Numero Sette nulla im-
porterà più; ma se vinciamo, allora questo è quello che conta di più.»
Quando Dio rimuginava sul fallimento usava sempre l’“io”, come se
voialtri non foste responsabili di nulla. Tu rimanevi seduta lì, nel tuo
manto splendente, a fare del tuo meglio per apprezzare il sapore del tè
nero con dentro il latte, cercando di dare l’impressione di poter pren-
dere in qualunque momento uno di quei biscotti secchi e immergerlo
nel tè come faceva lui – il Dio dalla Mandibola Inarrestabile ti dava
sempre un biscotto. Gli avevi chiesto: «Chi è stato, mio Signore?».
«Lo SDE, immagino» aveva detto lui, in tono un po’ assente, inter-
rompendosi poi di fronte alla tua perplessità. Aveva aggiunto: «È l’a-
cronimo di un gruppo di pazzi. Una setta che ha attirato la nostra at-
tenzione cinquemila anni fa, suppergiù. Li abbiamo incontrati per
caso durante una delle nostre spedizioni nello spazio profondo. Per
caso… non hanno mai smesso di cercarci. Odiano le Nove Case».
Tu avevi ribattuto: «Non ne ho mai sentito parlare».
«Potresti, ma con un altro nome… o semplicemente in qualità di
insorti anonimi. Preferiscono presentarsi come una specie di reazione
organica, non come un unico gruppo organizzato. Anzi, la loro stes-
sa esistenza dipende da un’organizzazione centrale segreta che invia

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i suoi agenti presso i popoli che incontriamo al di fuori delle Nove


Case, su pianeti abitati che stiamo amministrando, rivoltandoceli con-
tro dall’ombra. Ma io so di loro, e i Littori sanno di loro. Hanno alza-
to la posta in gioco circa venticinque anni prima della tua nascita. Si
sono trovati un demagogo, un leader carismatico che non si acconten-
tava più di lavorare da dietro le quinte. Si sono accesi dei focolai, ma
li abbiamo spazzati via tutti… cellula dopo cellula, osso dopo osso.»
Eri rimasta in silenzio, tormentando il biscotto con le dita, penso-
sa, fantasticando sulla possibilità di mangiarlo nella prossima miriade,
prima o poi. Maestro aveva aggrottato le sopracciglia, squadrandoti
con quegli occhi di carbone oleoso, e aveva detto: «Credo ci fossero
loro dietro all’arrivo di Cytherea alla Casa di Canaan. E quella è una
prospettiva che mi atterrisce molto di più delle vecchie testate nu-
cleari che hanno immagazzinato chissà dove».
Tu avevi ribattuto: «Il piano di Cytherea era di spingervi a fare ri-
torno alle Nove Case. Per attirare una Bestia Resurrezionale che vi
uccidesse, presumo?».
«“Attirare” è un parolone. Continuo a credere che si sia trattato di
un crimine passionale. Non dico che non avesse altre motivazioni.
È solo che penso che alcune fossero di una semplicità da spezzare il
cuore. Sarei riuscito a farla ragionare, se ci fosse stato il tempo» aveva
detto Dio. «Il tempo – si tratta sempre del tempo –, lavorava troppo
ed era troppo poco amata. “Io, lo farò io”, e visto che si comportava
come se in lei ci fosse questa bolla d’egoismo era facile risponderle:
“Ma certo”, senza che ci rendessimo conto di quante volte avesse già
detto: “Lo faccio io”… senza che ci rendessimo conto che si stava sca-
vando la fossa, a furia di lavorare.»
Avevi commentato: «Un difetto della Settima Casa. La brama fa-
tale per il pittoresco».
«Capisco che le Case si siano cristallizzate in… tipi» aveva detto
lui, immergendo il biscotto nel tè e mangiandolo in fretta, prima che
la parte inzuppata potesse perdere la sua coerenza strutturale e preci-
pitare nella tazza. Non riuscivi a capire perché tutti quanti mangias-
sero quei biscotti o bevessero quel tè. «Ma sono arrivati a lei, Har-
row. L’hanno fatta sbandare, Harrow, lo so, anche se non ho idea di
come siano riusciti anche solo a trovarsi nella stessa stanza, acciden-
ti a me. Lo SDE detesta i necromanti e la necromanzia. È il loro ca-

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posaldo fondamentale. E Cytherea? Per loro avrebbe dovuto essere il


babau. Una Littrice. La mia stessa Mano.»
Avevi scoperto che se tenevi in bocca una mezza sorsata di tè fini-
va per raffreddarsi e, quand’era freddo, il sapore diventava più paca-
to. Sfortunatamente, proprio mentre stavi ancora assimilando quel-
lo stratagemma, l’Imperatore delle Nove Case si era appoggiato allo
schienale e si era pulito la bocca col dorso della mano. Ti aveva ri-
volto un’occhiata seria e aveva domandato: «Harrowhark, in quanti
siete in famiglia? Tua madre e tuo padre sono morti, fin lì ci sono».
Avevi deglutito alla meno peggio. Come faceva a saperlo – il segre-
to che ti eri fatta in quattro per tenere nascosto alle altre Case, al re-
sto della tua stessa Casa –, non ne avevi idea. Ma avevi soppesato la
sua espressione aperta e gentile e gli avevi risposto, col corroboran-
te candore che derivava dal parlare con Dio: «Una, da quando i miei
genitori si sono tolti la vita. Sono figlia unica. Mia madre ha subito
svariati aborti prima che io nascessi; non so quanti».
Non aveva distolto lo sguardo dal tuo. «Come sei nata?»
«Non capisco.» Non capivi.
«Harrowhark» ti aveva detto, «sei una Littrice. Generi troppa luce,
o troppa oscurità, perché io possa guardarti e ricavarne un qualsia-
si dettaglio. Ma ci sono alcuni particolari che sono riuscito a dedur-
re: eri sveglia, la prima volta che sei entrata nel Fiume, e hai prodotto
un atto necromantico, e credimi quando ti dico che c’è solo un’altra
persona che l’ha fatto, alla prima immersione. Tieni a mente che era
una necromante adulta che poi ha finito per fondare la Sesta Casa.
Hai raggiunto traguardi incredibili. Comprendo la tua personalità e i
tuoi trascorsi, e capisco come abbiano potuto trasformare un talento
naturale in… te. Ma ciò non giustifica quello che vedo nei momenti
in cui riesco a vederti con chiarezza. Come sono riusciti a creare te?»
Avevi messo giù la tazza, il biscotto ancora intonso, e l’avevi det-
to, come se ti avessero sottoposta a un lungo interrogatorio: «I miei
genitori hanno gassato cinquantaquattro infanti, ottantuno bambini
e sessantacinque adolescenti, imbrigliando il rilascio thanergico per
concepirmi. Mia madre ha usato l’energia residua per modificare il
suo ovulo a livello cromosomico, in modo che l’iniezione di thaner-
gia non compromettesse l’embrione. L’ha fatto per assicurarsi che io
fossi una necromante».

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L’Imperatore delle Nove Resurrezioni ti aveva fissata per parec-


chio tempo, e poi aveva imprecato a mezza voce, adagio. Credevi di
averlo capito, ma poi ti aveva detto: «Era tutto così… diverso… pri-
ma che scoprissimo i principi scientifici».
«Sono certa che non disponessero di ricerche pregresse su cui ba-
sarsi. L’hanno escogitato per conto loro.»
Dio aveva detto, non senza un certo stupore: «Non intendevo quel-
lo, non proprio. Ma concentrare così tanta thanergia per un obietti-
vo così specifico… è come usare un’esplosione nucleare per azionare
una macchina da cucire… l’ovulo si sarebbe dovuto disintegrare a li-
vello subatomico. Hai capito che cos’hanno fatto?».
«Intimamente» avevi risposto tu. «Me l’hanno spiegato quando ero
molto piccola. Potrei stendervi i passaggi matematici del teorema, se
voleste darmi un po’ di velina.»
«No, non intendo dal punto di vista meccanico. Concettualmen-
te. In tutto e per tutto, tua madre e tuo padre hanno commesso una
specie di resurrezione» aveva detto. «Hanno fatto qualcosa di pres-
soché impossibile. Lo so, perché io stesso ho commesso il medesimo
atto, e conosco il prezzo che ho dovuto pagare. La modifica thalergi-
ca di un embrione è già abbastanza difficile, ma ottenere il medesi-
mo risultato con la thanergia…»
Tu ti eri stretta nelle spalle, impotente. «I miei genitori non erano
dei maghi corporali» avevi detto. «Ma erano i più grandi necroman-
ti che la Nona Casa avesse mai prodotto.»
«Senza dubbio» aveva commentato l’Imperatore. «Ma, Harrowhark
– anche se sei il prodotto di due geni indiscussi –, resti comunque un
miracolo ambulante. Un teorema unico. Una meraviglia della natura.»
L’avevi squadrato e gli avevi risposto: «Vi ho appena detto che sono
il risultato del genocidio commesso dai miei genitori».
L’Imperatore aveva messo giù il tè e aveva finito il suo biscotto, e
poi aveva fatto una di quelle cose tremende che ogni tanto faceva, in
circostanze consone: si era allungato per carezzarti la spalla con un
gesto rapido, esitante, leggerissimo e fugace, come se avesse paura di
ustionarti. Tua madre aveva guidato la tua mano che si spostava so-
pra a cadaveri gonfi. Tuo padre aveva aperto tomi immensi, tenendo
giù gli angoli per te, mentre la sua manica sfiorava le tue dita seienni,
insegnandoti la tecnica migliore per girare quelle pagine. Entrambi

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ti avevano messo in mano una corda ruvida fatta di fibre rinforzate


– ricordavi la pressione esercitata dai loro palmi, il loro tentativo di
risultare delicati. Quando l’Imperatore ti toccava, il tuo corpo ram-
mentava, non richiesto, ogni contatto tremendo e raro con tua ma-
dre e con tuo padre.
Dio aveva detto: «Guiderò i tuoi duecento morti. Mi sobbarcherò
il fardello che rappresentano, li piangerò e li accudirò in una molte-
plicità di modi che ora non potresti comprendere. E mi ricorderò dei
tuoi genitori, che un atto così orripilante hanno inflitto al mio e al loro
popolo. Me ne ricorderò finché l’universo non si accartoccerà su se
stesso spazzando via quello che hanno fatto, lavando via una macchia
indelebile di tale portata. Dichiaro a te e all’eternità di essere l’Impe-
ratore delle Nove Case – il Necrore Supremo – e che la loro macchia
va ritenuta la mia macchia. Consideralo un mio crimine, Harrowhark.
Mi impegno solennemente a porvi rimedio».
Un calore scarlatto era divampato all’altezza del collare del tuo eso-
scheletro – risalendoti lungo la gola – e ti aveva scurito la faccia, sot-
to le pitture, finché non ti era sembrato di esserti avvicinata troppo a
una stufa. Avevi esclamato: «Mio Signore, non potete».
«Maestro.»
«Maestro, abbiate pietà di me. Non riferitelo a nessuno, vi prego.»
La supplica di una bambina. Nessuno deve sapere. A Dio! Per un
istante, era cambiato. Si era incollerito, e avevi ipotizzato che se la
fosse presa per la stupidità con cui ti eri approcciata al suo rango, per
l’irresponsabilità di quel che gli avevi chiesto. Quegli occhi mostruo-
si e innaturali si erano assottigliati e la bocca si era indurita come le
pietre e i sassi di cui era composto il planetoide che, più tardi, avresti
trucidato. Per un attimo avevi percepito un accenno immortale della
sua immensa età – della distanza enorme che vi separava, di un inne-
sco troppo brillante perché tu lo concepissi. Eri un insetto al cospet-
to di una foresta in fiamme. Eri una cellula al cospetto di un cuore.
«Harrowhark, nessuno ha il diritto di venirne a conoscenza» aveva
detto, con violenza. «Nessuno ha il diritto di biasimarti. Nessuno può
giudicare. Quel che è successo è successo e non si può più seppellire
sotto la sabbia. Non capirebbero. Non ne hanno bisogno. Ti sollevo
ufficialmente dall’obbligo di vivere nel terrore. Nessuno deve sapere.»
Quella notte, nel tuo letto, non avevi pianto. Il tuo corpo aveva

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provato – fallendo – a produrre delle lacrime. Successivamente, con


te Dio si sarebbe dimostrato più cauto che mai… non che prima non
ti avesse usato riguardi; a volte lo sorprendevi a fissarti di sottecchi,
come se stesse cercando di individuare qualcosa entro i confini del
tuo viso, ma qualsiasi cosa stesse cercando non si trattava di quello
che avevano fatto i tuoi genitori. In quel frangente, avevi giurato che
gli avresti parlato del Sepolcro: avresti trovato la forza, dentro di te, di
ammettere anche quello. Non avevi mai parlato a nessuno del Sepol-
cro, ma a lui l’avresti detto, se te l’avesse chiesto… no, così sarebbero
rimaste ambiguità. Gliel’avresti detto di tua spontanea volontà, feli-
ce di accogliere la punizione che avrebbe ritenuto idoneo infliggerti.
Prima di accomiatarti, quel giorno, quando il tuo tè si era raffred-
dato a sufficienza da sollevarti dall’obbligo di berlo, gli avevi chiesto:
«Per cosa sta SDE?».
«Sangue dell’Eden» ti aveva risposto, lentamente.
«Eden è un… qualcuno?»
«Qualcuno che hanno lasciato morire» aveva detto Dio, stanco.
«Quanto è più crudele del morso di un serpente eccetera… Harrow, se
ti stai prendendo la briga di ricordare qualcosa da questi miei vaneg-
giamenti, ricordati questo, per favore: quando volti le spalle a qual-
cosa, non hai più il diritto di comportarti come se ti appartenesse.»
Lì per lì, ti era sembrato assolutamente sensato.

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Un’altra fonte di consolazione era il Corpo.
Era rimasta nei paraggi nei mesi a seguire; si aggirava indossando una
replica imbrattata di sangue dei manti scintillanti della Prima Casa, e
sussultavi ogni volta che la vedevi. Ma ricavavi un immenso conforto
dal guardarla fare su e giù per i tuoi alloggi sterili e vuoti, nel vederla
inginocchiarsi di fronte all’assemblea mummificata che abitava i cor-
ridoi e gli absidi del Mithraeum. Quando ti coricavi a letto, preparan-
doti a dormire completamente vestita, la sognavi con un’inquietante
e profonda regolarità – era il dono più grande che mai ti avesse fat-
to. In realtà, non riuscivi a sognare nient’altro.
In sogno, facevi ritorno al tuo vecchio letto nel santuario del Drear-
burh – quello della tua infanzia, che ormai era diventato un po’ trop-
po corto, per te. Pregavi inginocchiata ai piedi del letto, senza più tro-
varti serrata nella morsa di una o di quell’altra trucida prozia. Invece,
accanto alla tua branda c’era il Corpo, le mani che stringevano com-
poste l’antico scialle che tua madre stendeva sempre sul letto, la luce
elettrica che si diffondeva verso il basso dalla fenditura, splendendo
sulla muscolatura compatta dei suoi avambracci, sui calli di quei pal-
mi morti. Teneva gli occhi chiusi, ogni ciglio bagnato e gelido carez-
zava le guance sbiancate dall’espirazione.
«Ho paura» le dicevi.
E lei, flautata, con una voce che ti faceva drizzare ogni capello sul
cranio facendolo formicolare di un’elettricità dolce e profonda: «Di
cosa, Harrowhark?».
«Ho paura di morire, stanotte.»
«È come aver paura di fallire» aveva detto una volta. «Non si teme

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la morte. Il dolore si può sopportare. Hai paura di aver contratto un


debito, vivendo, che la tua morte non potrà ripagare. Consideri la
morte un errore.»
Avevi risposto, con amarezza: «Che altro dovrebbe essere?».
La defunta salma del Sepolcro Sigillato – la morte dell’Imperato-
re –, la fanciulla con la spada e le catene, la ragazza nel ghiaccio, la
donna della gelida roccia, l’essere che si celava dietro la pietra che
mai deve essere scostata, aveva detto, in un tono un po’ confuso che
non aveva mai assunto con te: «Non lo so. Sono morta, una volta…
no, due» ma poi era rimasta in silenzio.
Un’altra volta avevi detto: «Ho paura di me stessa. Ho paura di
impazzire».
E un’altra: «Ho ancora paura di Cytherea la Prima».
E: «Ho paura di Dio».
E ancora: «Ho gli occhi di Ortus? Sono i miei, questi occhi? Non li
ho mai guardati bene… mia Adorata, com’erano i miei occhi?».
Sfortunatamente, quella volta ti aveva risposto. Capitava che non
lo facesse. A volte ti parlava, sommessa, di un argomento qualunque,
e altre volte non diceva nulla. Ma ora, quel che giaceva inerte ti aveva
detto, con tutta calma: «Lei… mi ha chiesto di non dirtelo».
Ti eri svegliata, spalmata sul pavimento davanti al lavandino a pom-
paggio d’acqua e avevi urlato fino a scorticarti la gola. Quando avevi
fissato i tuoi occhi iniettati di sangue nello specchio cercando di ri-
cordarti quelli di Ortus Nigenad, non eri riuscita a individuare dif-
ferenze: erano entrambi di quel nero fondo e imperscrutabile, color
rose nere – come lo chiamava Ianthe, perché Ianthe era fin troppo
invadente e pure una pervertita, in tutta franchezza. Avevi cercato
di immaginare lo scoramento triste e pesante di Ortus che ricambia-
va il tuo sguardo dallo specchio. Non aveva funzionato. Ti eri senti-
ta al contempo tremendamente sollevata e tremendamente atterrita.

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Nelle prime settimane avevi ideato un nuovo ci-
frario, basato su quello originale ma con qualche variazione matema-
tica – nel caso in cui Ianthe fosse riuscita a spigolare qualche dato di
troppo dalle buste. Nel mentre avevi iniziato a rubricare i tuoi pen-
sieri e le tue conclusioni a proposito dei Littori che ti circondavano:
un resoconto pietoso di opinioni e fatti percepiti, in larga parte inuti-
li, raccolti nella speranza che, esaminando i tuoi reperti nel loro com-
plesso, saresti riuscita in qualche modo a ricavarne della conoscenza.
Ti era sempre piaciuto prendere appunti. Eri in lutto per la perdita
del diario che avevi tenuto alla Casa di Canaan, ma le tue cose era-
no tornate da te filtrando da Ianthe – il che implicava che non ti fos-
se rimasto altro che una scorta esigua di pitture sacramentali e i tuoi
vecchi vestiti. Quando le avevi chiesto del diario, ti era stato risposto
seccamente che era stato bruciato, per tuo stesso ordine.
La sezione che avevi dedicato a Ianthe era cortissima:

IANTHE (FU TRIDENTARIUS) LA PRIMA


Indegna di fiducia. Mi crede pazza.

E in tutti e due i casi la colpa era solo tua, e avresti dovuto saper-
lo. Il primo scivolone riguardava la faccenda della tomba di Cytherea.
L’Imperatore aveva deposto il cadavere di Cytherea la Prima in
una piccola cappella che si apriva sull’atrio centrale della zona resi-
denziale, un po’ troppo vicina per farti sentire a tuo agio. L’atrio era
un pozzo da cui si irradiavano dei condotti-corridoio che portavano
ad altri anelli della stazione. Il pavimento era un sublime mandala di

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ossa sottovetro – ossa di mani –, ogni metacarpo era tinto del colo-
re corrispondente alla sua Casa, in un tripudio di sfumature che an-
davano dal bianco allo scarlatto per la Seconda e dal bianco al blu ol-
tremare per la Quarta. Attorno al mandala c’erano delle tesserine di
pietra marrone che ticchettavano seccamente quando le si pestava.
Non c’erano delle vere e proprie finestre, solo delle potenti luci elet-
triche inserite in fori rotondi sul soffitto e, nel mezzo, pendeva un
leggiadro lampadario di cristalli bianchi. La sala era sostenuta da tre
mastodontiche colonne dagli spigoli rivestiti d’acciaio, in una caco-
fonia di cavi esposti sotto al vetro temperato. Quei cavi erano un fa-
sciame d’ossa, con filamenti di grasso lucido avvolti attorno ai fili di
rame, a rimpiazzare il plex; trasudavano thalergia pura e il loro sco-
po non ti appariva ancora palese. Di tanto in tanto, l’osso intero di un
braccio faceva capolino dal suo nido di cavi foderati di grasso giallo
e morbido. Ne avevi desunto che non si trattasse di un altro monu-
mento alla memoria.
Sul lato della sala rivolto a est c’erano nove arcate decorative. Ave-
vi ormai analizzato con attenzione ogni singolo arco. Le piastrelline
marroni del pavimento proseguivano sulle pareti, incastonate fino
a mezza altezza in quelle arcate, diventando poi frammenti di ve-
tro di ogni possibile colore. Al centro di ogni vortice policromo c’e-
ra l’alloggiamento per una spada. Alcuni alloggiamenti erano vuoti,
altri reggevano degli stocchi. Uno in particolare finiva sempre per
attirarti: uno stocco nero con l’elsa a cesto fatta di cavicchi d’eba-
no. All’estremità di ciascun cavo c’era una zanna canina, una sola,
e in fondo – il pomolo! – c’era un nodulo morbido e consunto d’os-
so tinto di nero.
La sala laterale in cui avevano piazzato Cytherea non era altret-
tanto decorata. Dalla porta sempre aperta la si poteva scorgere diste-
sa su una barella, circondata da candele che non parevano mai spe-
gnersi o squagliarsi, ricoperta da quei boccioli di rosa rubicondi che
a loro volta non sembravano mai aprirsi o decomporsi. In quei due
miracoli avevi individuato il tocco del Divino Imperatore. Di tanto
in tanto lo vedevi là dentro, impegnato in una conversazione som-
messa col cadavere, come se stesse parlando a un bambino che dor-
me; anche Augustine ci andava, qualche volta. Mercy in un’occasione
sola. Non avevi mai visto l’altro. Anche tu ti ci eri avventurata spes-

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so, nonostante la cosa risultasse sinistra – avevi già fatto abbastan-


za danni, dopotutto. C’era qualcosa in lei che ti turbava e, anche se
pensavi si trattasse di follia paranoide, non potevi esserne certa. Il
tuo cervello ti diceva che quelle braccia, così pudicamente incrociate
sul torace spiedato, si erano mosse un pochino. Il tuo cervello ti di-
ceva che le labbra erano un po’ troppo socchiuse. Quando avevi rife-
rito a Maestro le tue preoccupazioni – da piccola imbecille quale sei
– aveva fatto una smorfia, si era rapidamente tormentato la fronte
con il pollice e ti aveva risposto: «Nessuno la toccherebbe mai, Har-
row. Io non sono stato».
«Lo so, è solo che…»
«Nemmeno Augustine lo farebbe, per affetto» aveva proseguito lui.
«Mercy non lo farebbe, per superstizione. E Ortus…» Ti aveva squa-
drata con attenzione, come faceva sempre quando nominava quell’al-
tro; era un nome che gli saliva alle labbra sempre in una maniera biz-
zarra. «Ortus non lo farebbe, per rispetto. Credimi. Non gli verrebbe
nemmeno in mente. E non mi pare neanche nello stile di Ianthe.»
«Ma ho pensato che…»
«Credo che forse sarebbe meglio se tu girassi alla larga da quella
sala» aveva suggerito, con un certo calore.
Divampavi: la vergogna e il risentimento ti avevano liquefatta, eri
ormai ridotta a una fiamma. Ma ora, nonostante superassi a passo de-
voto la soglia dietro alla quale giaceva il cadavere pacifico di Cytherea
la Prima, varcavi quella soglia nei tuoi incubi a occhi aperti: osservavi,
persa nelle allucinazioni prodotte dall’occhio della tua mente, quelle
dita surgelate che si contraevano in forme arcane, gli alluci spogli di
ciascun piede gelato che sussultavano come se il cadavere fosse sta-
to toccato con un cavo elettrificato.
Il tuo errore era stato fermarti quella volta appena fuori dalla sala.
A bloccarti erano stati gli scricchiolii attutiti alla periferia del tuo
campo uditivo: col tormento che superava ogni possibile ritegno, ti
eri rivolta a Ianthe e le avevi chiesto: «Percepisci qualche suono pro-
venire dall’interno della cappella mortuaria?».
Ti aveva risposto: «Ma ti impegni per risultare il più ampollosa pos-
sibile o, tipo, è una roba che ti viene naturale?».
«Maledizione, Tridentarius, rispondi alla domanda!»
La chiamavi “Tridentarius” solo a porte chiuse; ecco perché ti ave-

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va lanciato un’occhiata strana. Aveva detto: «No». E poi, con più gen-
tilezza, come se avesse ricavato una qualche illuminazione dalla tua
espressione: «No, svitata. Niente».
E non gliel’avevi più chiesto.
Avresti potuto scrivere molto altro: “Gli occhi non sono più torna-
ti lilla, dopo il Fiume. Il braccio continua a essere un punto debole.
Piange ancora di notte. È impossibile che si tratti di anemia, conside-
rando la dieta costituita principalmente da carne rossa e mele. Caren-
za regolare di sonno. Invidia il mio legame con Maestro. Sa troppo”.
Le altre sezioni erano più nutrite:

AUGUSTINE (FU QUINQUE) IL PRIMO,


SANTO DELLA PAZIENZA (MA PERCHÉ?).

Il nome non era stato difficile da scoprire. Semplicemente, l’avevi


trovato a bere la sua tazza di tè e a fumarsi la sigaretta di metà pome-
riggio – il Santo della Pazienza era regolare come un orologio e non
pareva intimorito dal fuoco, o dalla prospettiva di doversi far ricre-
scere le papille gustative – e gliel’avevi chiesto, chiaro e tondo.
«Ah! Finalmente, la mia biografa» aveva commentato, fregandosi le
mani in una dimostrazione di profondo compiacimento. «Non vede-
vo l’ora, Harrowhark. A, U, G, U, S, T, I, N, E, Augustine; altezza, un
metro e ottantadue; il viso può essere descritto come “piacente ma au-
stero”; per gli occhi puoi stare su “cinerei”; e se ti va di assecondare la
tradizione della povera piccola Cyth…» Era sempre la “povera picco-
la Cyth”. Ti aveva fissato, sorridendo: «Sarei Augustine Alfred. Alfred
era alto uno e settantasette – prendiamone nota per la posterità. Era
la mia metà –, scrivi anche quello, così copriamo gli aspetti umani».
Eri stata assalita da un’ondata di repulsione momentanea di fron-
te a quella che ti sembrava ormai un’usanza della Quinta Casa. «Voi
e il vostro paladino eravate… maritati?»
Su “maritati” non aveva fatto una piega e non aveva nemmeno ri-
battuto, ripetendo con voce stridula quello che avevi appena detto tu,
come avrebbe fatto Ianthe – un giorno le avresti strappato il cuore,
ancora bianco e pulsante, da quella gabbia toracica incolore e glielo
avresti mangiato davanti, grondante. Non ti eri soffermata come forse
avresti dovuto su quel “mangiato davanti, grondante”. Lui si era limita-

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to a scoppiare a ridere in quella maniera sguaiata – schiaffeggiandosi


la coscia – tipica del Santo della Pazienza. Non era una risata che dava
mai l’impressione di esprimere un autentico divertimento. Quando
quel teatrino di umorismo posticcio aveva chiuso il sipario, Augusti-
ne ti aveva detto: «Che tu sia benedetta, sorellina! Era mio fratello».

Ha ucciso suo fratello.

Augustine il Primo era l’entità più simile a un plex umano in cui ti


fossi mai imbattuta. All’esterno era perfettamente rifinito, in uno sti-
le che ricordava una specie di versione antiquata della Quinta Casa:
tutto buone maniere, etichetta e quell’eccessiva propensione nel dare
confidenza. Eppure, dentro di lui, non c’era altro che una sdegnosità
altrettanto diretta. Era come se in quei diecimila anni si fosse sedi-
mentato un guscio che aveva lasciato un vuoto al centro. Niente pa-
reva scalfire Augustine. Era frizzante e seducente in una maniera che
trovavi piuttosto tediosa ed eccentrica, specialmente durante quelle
occasioni in cui Dio – con vostro sommo stridore di denti – vi con-
vocava tutti quanti per consumare una cena in nome della socialità.
Ma non manifestava mai un’emozione reale, una reazione, un’opinio-
ne – la bocca diceva qualcosa mentre la sua faccia poteva contorcersi
per produrre espressioni sciocche in quantità, ma gli occhi restavano
svuotati da ogni sostanza. “Cinerei”, perlomeno, era corretto: anche
la cenere dava l’impressione di essere solida, a prima vista, ma quan-
do la si toccava diventava sporcizia inconsistente.

Rapporto non felicissimo con Mercymorn.

Era l’understatement della miriade. Ne avevi preso nota in quelle


prime settimane, quando credevi che l’irascibilissima Mercy perdes-
se facilmente la pazienza con Augustine, più sciocco e frivolo di lei.
C’era una specifica espressione che si premurava di stamparsi in vol-
to quando parlava Mercymorn: un’espressione che intendeva comu-
nicare a tutti i presenti, “Stiamo soffrendo insieme, almeno”, e di fron-
te alla quale Ianthe, più di una volta, aveva soffocato una risata, per
quanto comico fosse l’atteggiamento della bocca. Ma quella era l’e-
spressione di facciata. Il plex aveva una conformazione diversa. No-

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nostante li vedessi spesso incrociarsi in corridoio come se l’altro non


esistesse, una volta – dal rifugio sicuro di una nicchia – avevi spiato
un incontro differente. Si erano fermati l’uno davanti all’altra e Mercy
aveva cercato di passare, deviando a sinistra… ma anche Augustine
si era spostato impercettibilmente troppo a sinistra perché restasse
spazio… allora Mercy aveva cercato di passare a destra… e Augusti-
ne si era spostato impercettibilmente troppo a destra perché restas-
se spazio… e Mercy aveva esclamato, stizzita: «Levati di mezzo, co-
glionazzo miserabile che non sei altro».
Augustine aveva risposto qualcosa che non eri riuscita a captare,
ma di cui ti era arrivata solo la coda: «… tornatene ai vecchi trucchi
da quattro soldi dei decenni passati».
«Oh, chi sei, il mio tutore? Imbecille pettegolo!»
«Ma John lo sa, piccola mia?» aveva detto il Santo della Pazienza,
sorridendo.
Mercy aveva rizzato il pelo. Il bianco madreperlaceo del man-
to tremava visibilmente. «Questa» aveva commentato, «è una vile
insinuazione.»
«Non sto insinuando niente. John…»
«… e trovo osceno il modo in cui ti riferisci a lui quando…»
«Mercymorn» aveva proseguito Augustine, garrulo. «Non riusci-
rai più a mettermi nel sacco con uno dei tuoi trucchetti triti e ritri-
ti, cara mia. Ora, vediamo un po’: devo ucciderti prima che tu metta
entrambi nei guai o no?»
Dal tuo punto d’osservazione eri riuscita a constatare che la fac-
cia della Santa della Gioia era un rigido ovale bianco. Gli occhi bur-
rascosi si agitavano in un viso tremebondo e pietrificato. Non riusci-
vi a vedere quello di Augustine.
Gli aveva detto: «Non minacciarmi».
«O cosa? Lo andrai a dire a Paparino?» Il suo tono di voce non era
mutato. «Che diamine… non riusciresti neanche ad avvicinarti ab-
bastanza da toccarmi, Mercymorn. No, non ho paura di te. Non sei
molto gentile, ma non sei nemmeno particolarmente intelligente, in
fin dei conti. Ti darò tre consigli. Uno: staziona di meno nel mio spa-
zio aereo. Due: piantala di armeggiare col corpo di Cyth. Tre: smetti-
la di giocare al gioco, piuttosto pericoloso, a cui stai giocando – come
avevi già dichiarato di voler fare.»

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«Non mi atterrò a nulla di tutto questo.» Ora sembrava sull’orlo


delle lacrime.
«Non fare quella faccia. Ti conosco come la mia anima… stai pen-
sando: “Se mi muovo adesso, riuscirò a prenderlo per il collo prima
che riesca a fermarmi?”. E oplà, addio alla mia trachea! Ma, per la cro-
naca, non importerebbe, nemmeno se tu fossi veloce abbastanza da
sguainare davvero».
«Come se tu fossi mai stato capace di…»
«Se mi uccidessi, non credo che lui te lo perdonerebbe mai, sai?»
aveva proseguito Augustine. Quel tono di voce calmo e confidenzia-
le se n’era andato. Era diventato piatto, inamovibile, annoiato. «Ma
se io uccidessi te – se ti schiacciassi col piede come un mozzicone, il
che sarebbe comunque più di quel che meriti –, sono convinto che
dovrei aspettare solo trecento anni, più o meno, per sentirmi dire da
John: “So perché l’hai fatto, vecchio mio, e mi dispiace”. E a quel pun-
to tutto tornerebbe a girare per il verso di Augustine. Non hai più
cartucce da sparare.»
«Come osi…»
«Ti sei resa intollerabile, Mercy» aveva sentenziato Augustine. «Sei
la seconda santa. È sentimentale, nei tuoi riguardi. Ma non scordar-
ti che ha dedicato gli ultimi diecimila anni a una missione localiz-
za-e-distruggi in nome di, per quel che posso saperne io, una rappre-
saglia puramente simbolica. John non è mai sentimentale quanto si
potrebbe credere. Hai bisogno che te lo metta per iscritto, così puoi
rileggertelo tutte le sere? Tu-non-gli-servi. Ancora peggio, sei diven-
tata motivo d’imbarazzo. Non mi proporrei come rimpiazzo per A.L.
Non ha bisogno di un’altra guardia del corpo e persino lei era assai
più lucida di te.»
Ti aspettavi una risposta. Niente. Avevi squadrato la Santa del-
la Gioia – e la sua espressione ti aveva spinta a ritirarti nell’alcova,
ad appiattirti, nell’eventualità che scegliesse te come bersaglio per
sfogare le sue frustrazioni. Il corridoio sprofondò nel silenzio. A in-
terromperlo fu Augustine: «Stai alla larga da me, Gioia. Sono arci-
stufo di vedere la tua faccia» e si allontanò giù per il corridoio in un
clacchete-­clac di stivali.
La voce di Mercymorn gli fluttuò alle calcagna, un po’ strozzata:
«Ma io Cytherea non l’ho nemmeno toccata!».

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In seguito non ti era più capitato di vederli entrambi nella stessa


stanza, a parte quando il Necrore Supremo vi convocava per cenare
tutti insieme e, in quelle occasioni, si sedevano il più possibile lonta-
no l’uno dall’altra.

Preferisce Ianthe.

Una fonte di perpetuo fastidio per te. Non eri mai stata la preferita
di nessuno, in qualunque ambito, e non intendevi cominciare ades-
so. Ma l’idea che la Principessa di Ida avesse trovato il modo di car-
pire l’affetto di un’altra persona ti provocava un travaso di bile. Eppu-
re, sin dal principio, Augustine aveva manifestato un’inclinazione per
lei, e lei, dal canto suo, aveva sfoderato tutto il suo arsenale di sorri-
sini civettuoli, ciascuno dei quali pareva aver trascorso un mese ad
aggirarsi nel deserto prima di essere catturato e impiegato per quel-
lo spettacolo circense.
La si vedeva spesso al suo fianco, completamente assorbita dalle
perle di saggezza elargite dalle labbra del Santo della Pazienza; beve-
va quantità calamitose di tè rovente con un’espressione analoga alla
sua, cosa che ben poco si intonava ai suoi occhi cerchiati e alla boc-
ca bianca; e, anche se con meno tranquillità, accoglieva i suoi inse-
gnamenti nel lungo salone d’addestramento con le sue tavole di le-
gno lucido, un legno così nuovo da farti tentennare ogni volta che
ci appoggiavi sopra un piede. Solo in quelle circostanze parevano in
disaccordo, visto che il cosiddetto Santo della Pazienza finiva sem-
pre per esaurirla ogni volta che Ianthe prendeva in mano uno stocco.
Fumava le sue sigarette pesantissime e la metteva alla prova. Lei
affrontava sempre le esercitazioni con la spada con una noia incre-
dibile: «Pensavo che il punto fosse proprio quello di delegare questo
aspetto, fratello maggiore» l’avevi sentita commentare più di una vol-
ta. Lui non ci metteva molto ad arrabbiarsi. Per quel poco che pote-
vi capirne tu, lo stile di Ianthe era perfetto. I suoi movimenti eccelsi.
Non faceva mai cadere la spada né mai ci pasticciava, il che dimo-
strava ancora una volta quanto poco fosse quel poco che potevi ca-
pirne tu. Ma c’era qualcosa che a lui non garbava in quel braccio de-
stro che brandiva la spada.
«Molla» gli avevi sentito dire una volta.

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«Immagino di doverlo intendere in senso metaforico.»


«Sorella minore» aveva proseguito, cordiale. «Un bravo ragazzo ha
dedicato tutta la sua vita a imparare a usare quella spada per te, e ora
tu stai cercando di aggiungere le tue opinioni alle sue, e le tue, fran-
camente, valgono quanto una mezza loffa, in questo nostro terribi-
le universo incandescente. Smettila di brandirla come se puzzasse, o
come se fosse una banana che stai cercando di spiaccicare… per l’Im-
peratore onnipotente, Ianthe! Ti ho già vista farlo alla perfezione, per-
ché allora insisti nel farlo in una maniera così misera?»
Al che, lei gli aveva risposto con un epiteto scortese, aveva buttato
in terra la spada e se n’era andata. Augustine aveva finito la sua siga-
retta con aria meditabonda e tu avevi fissato lo stocco che ti era sta-
to dato. L’Imperatore ti aveva chiesto di brandirlo, così tu avevi pia-
nificato dei momenti in cui brandirlo, ricavando da quell’esercizio un
bel cazzo di niente.
«Insomma, lo sa fare» aveva osservato lui, parlando al vuoto. «Quel
che le occorre è smetterla di crogiolarsi nell’autocommiserazione.»
Gli avevi risposto: «Umiliarla, forse, non è il rimedio migliore».
«Harrowhark» ti aveva detto, sorridente, mentre spegneva la siga-
retta sul teschio di chissà quale eroe della Coorte, defunto da tempo
immemore. «Se l’opinione di Ianthe vale meno di una scoreggia in
un uragano, prova a immaginare quanto poco conti per me la tua.»
Così lontana dal Drearburh; così lontana dalla tua congregazione,
dagli anziani e dai laici a cui bastava baciare il tuo rosario di nocche
d’osso per arrossire. In questo frangente, ti sentivi in possesso di in-
formazioni valide, ma i segreti di Ianthe non erano materia di domi-
nio pubblico e tu non avevi la facoltà di spifferarli così alla leggera.
«Peggio per voi, allora» avevi risposto.
«Ma allora sei la reincarnazione di Anastasia.»
In un mondo perfetto, la freddezza di Augustine avrebbe rintuz-
zato i riguardi di Mercymorn verso di te. Per quanto Ianthe le risul-
tasse sgradita, non diventò meno stridula, acida o sprezzante nei tuoi
confronti. Naturalmente, una cospicua porzione della tua educazio-
ne ricadeva su di lei – con Augustine già impegnato, per te non re-
stava nessun altro anche se, più di una volta, aveva esternato l’opinio-
ne che Augustine si fosse accaparrato di proposito la «bambina che
funzionava» lasciandole gli scarti per dispetto.

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Una volta che eri esausta, avevi chiesto a Ianthe: «Non ti dà sui ner-
vi stargli continuamente dietro come fai sempre? Raccogliere la sua
roba? Sorridere scoprendo bene i denti?».
«I miei denti sono di un biancore estremo e me li spazzolo con co-
stanza, quindi non vedo alcun problema nello sfoggiarli» aveva ri-
sposto Ianthe.
«Accendergli le sigarette e cinguettare “Che argomento affascinan-
te, fratello maggiore”.»
«Intendo adottare quell’abitudine» aveva detto Ianthe. «Sigarette!
Su una stazione spaziale! Che sfoggio di baldanza!»
«Ti svegli mai pensando tra te e te: “Quand’è che la Principessa di
Ida è diventata questo servile ammasso di melma?”.»
Lei ti aveva sorriso, con quei suoi denti ben spazzolati e candidi.
Gli occhi, che un tempo erano stati di un gelido color lavanda, ora
erano azzurri, punteggiati di pagliuzze castane, più canzonatori che
mai. «Quasi tutti i giorni» ti aveva detto. «Oh, per l’amor del cielo,
Harrowhark, sorridere e star lì ad ascoltare delle storie – per altro in-
teressanti – sui suoi diecimila anni non è un supplizio. Soprattutto se
la cosa potrebbe convincerlo a pensarci due volte prima di abbando-
narmi a una Bestia Resurrezionale pronta a divorarmi. Sostenere la
truffa di Corona per più di vent’anni mi ha insegnato che la vergogna
è un privilegio. Siamo cuccioli, tu e io: io con la mia zampetta sfigata
e tu che insisti di potercela fare da sola anche se ti mancano tre gam-
be. E che Dio ci aiuti entrambe, perché siamo circondate dai lupi.»
Ianthe aveva concluso quell’allarmante discorsetto dandoti un buf-
fetto sotto al mento. Eri troppo oltraggiata e allibita per schivarla.
Aveva proseguito: «Mostra loro il tuo lato più malleabile, Harry. Po-
trebbe salvarti la vita».

Mago spiritista.

Un’altra tremenda minimizzazione. Augustine era un mago spiri-


tista tanto quanto il Mithraeum era una scatola con dentro qualche
osso. Non gli serbavi rancore per quella capacità. La magia spiritica
non era mai stata il tuo forte. Il potere di un Littore e un’intera miriade
per affinarlo, ecco che cos’aveva avuto lui: teneva un corso su una ma-
teria di cui tu a malapena conoscevi l’esistenza. L’Harrowhark morta

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delle tue lettere ti aveva ordinato di lasciarti istruire: e lo stesso aveva


fatto Dio, accompagnando sia te che Ianthe a prendere lezioni dall’e-
sperto ufficiale del Mithraeum in materia di Bestie Resurrezionali.
«Non è il mio campo d’elezione» aveva spiegato Augustine. «Ma da
quando la nostra ultima esperta è scomparsa all’interno di un enorme
intestino, disintegrata da un plotone di fantasmi, sono l’ultimo adep-
to spiritista disponibile.»
«Sta facendo il modesto» aveva commentato Dio. «Le barriere che
separano noi dal Fiume sono opera di Augustine. Potrebbe farci pre-
cipitare dentro una mezza città, se gli girasse.»
«Che idea splendidamente futile» aveva detto Augustine, con calo-
re. «Dovrei buttarci dentro roba più spesso. Non c’è verso che qual-
cosa del genere possa tornare indietro a perseguitarmi. No, mio Si-
gnore, io non sono Cassiopeia; io sono un generalista spiritico, e sono
felicissimo di appartenere alla categoria.»
«Quindi stiamo parlando di fantasmi, spazi liminali e inferno» ave-
va detto Ianthe. Per Ianthe bisognava sempre far risalire tutto agli spa-
zi liminali e all’inferno, come se le sue stanze non fossero già più che
sufficienti. Ma interessava anche a te, non potevi negarlo.
Il Santo della Pazienza non abboccava mai all’amo. «Mia cara, all’in-
ferno ci andrò al momento giusto. Ma i fantasmi e gli spiriti sono un
punto di partenza buono come un altro. Potremmo dire che mi pia-
ce seguire le tracce energetiche, risalendo fino a rintracciarne la fon-
te. Soprattutto i redivivi sono particolarmente spassosi, in quel sen-
so. Le Bestie Resurrezionali si alimentano come i redivivi: trovano
pianeti thalergenici e li prosciugano completamente, li spaccano in
due come vongole e l’anima diventa la polpa. Poi trasformano tut-
ta la thalergia residua in quello che noi chiamiamo corpus, o alvea-
re, e la thanergia – il guscio morto della vongola – diventa un’arma-
tura. Per quanto riguarda i trasferimenti thanergici potete rivolgervi
al Santo del Dovere.» (Non lo ritenevi praticabile.) «Quando guarda-
te un redivivo su questo piano, quello che vedete è la massa thaner-
gica che ha raccolto. I redivivi, di solito, riescono solo ad abitare gli
oggetti collegati a loro in vita – il migliore e il più opportuno resta
il proprio corpo o scheletro, o un pianeta, nel caso siano BR: hanno
creato un legame con quell’oggetto grazie all’abitudine o alla geneti-
ca, quindi sarà l’alloggiamento che quell’anima prediligerà. Sfortuna-

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tamente, lo shock apopneumatico provoca nella maggior parte di noi


un salto alla cieca che ci allontana dal sito della nostra morte – Be-
stie Resurrezionali comprese. L’asso nella manica del redivivo, e del-
la Bestia Resurrezionale, è la possibilità di abitare qualsiasi cosa con
cui abbia stabilito una connessione. Qualsiasi cosa thanergicamente
collegata alla sua morte.»
Ianthe aveva suggerito, in quella che avevi percepito come una mes-
sinscena leccaculistica da quattro soldi: «Equipaggiamento funera-
rio. Corredo sepolcrale. Qualsiasi proprietà conservata per un certo
lasso di tempo e che è stata esposta alla loro thalergia e thanergia. In
caso di omicidio, l’arma del delitto».
«Bingo» aveva commentato Augustine. «Persino gli oggetti che
sono venuti a contatto con l’arma del delitto, anche se in quel caso il
collegamento è piuttosto debole e al redivivo servirebbe una mente
particolarmente sanguinaria.»
Lei insisteva: «Possono usare la thanergia che sono riusciti a gene-
rare dopo la morte? Thanergia riconducibile a loro in maniera diret-
ta? Voglio dire, di quello che uccidono».
«Hai assolutamente ed elegantemente ragione» aveva conferma-
to con trasporto il Santo della Pazienza. A te non dava fastidio che si
fosse conquistata una tale approvazione. Non che il tuo cervello non
fosse riuscito ad approdare alla medesima conclusione; non ti eri sen-
tita di esplicitarlo, tutto lì. «È così che le BR si sono sostentate, dopo
aver fatto fagotto dal sistema di Dominicus. Le Bestie Resurrezionali
aggiungono al loro corpus qualsiasi cosa abbiano assassinato ben be-
nino. Mangiano i pianeti; risucchiano la thanergia, poi aggiungono
a se stesse porzioni di quel pianeta, diventando man mano sempre
più grosse e cattive. Il redivivo medio non uccide gli esseri umani e li
appiccica al suo involucro esteriore – e per questo hanno la mia più
devota gratitudine. L’ultima volta che abbiamo avvistato la Numero
Sette, superava i cinquantamila chilometri di diametro…»
«Ecco perché verrete inviate a tracciare un perimetro» aveva detto
Dio, dato che Augustine era ancora perso in cinquantamila chilome-
tri di fantasticherie. «Possiamo rallentare la Numero Sette se le por-
tiamo via il cibo. Se convertiamo un pianeta in un colpo solo – una
morte thalergica – la Bestia Resurrezionale lo ignorerà.»
(«Era così che preparavamo un pianeta thalergico per la necroman-

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zia, un tempo» ti aveva spiegato Dio, parecchio tempo dopo, quando


Mercy aveva ormai iniziato a istruirti su come si trucidavano i plane-
toidi. «Nessun adepto è in grado di svolgere un lavoro sostanzioso se
deve ridursi a saccheggiare tracce di thanergia residuale. Persino un
maestro della Nona può arrivare solo fino a un certo punto, con qual-
che ossicino sparso. In origine, quindi, mandavamo giù un solo Litto-
re, inosservato, per dare inizio alla reazione thanergica. Non per mu-
tare l’intero pianeta, capirai bene, ma solo per aprire le danze.» Aveva
accompagnato quell’“aprire le danze” con un gesto della mano che ti
aveva fatto venire l’emicrania. «Poi, dopo una o due ore, si poteva far
scendere una squadra di adepti con la certezza di poter garantire loro
tutte le riserve necessarie. Oggigiorno non possiamo più permetterci
di utilizzare i Littori, quindi il primo assalto ricade sulle spalle degli uo-
mini e delle donne della Coorte, che svolgono un lavoro superbo… ma
il metodo vecchio stile era più pulito, e anche più magnanimo, penso.»)
Ianthe aveva detto: «Se la Bestia Resurrezionale è così grossa, di
certo la nostra preoccupazione principale sarà quella di non farci ri-
succhiare dal suo pozzo gravitazionale».
«Sì, ma non viaggia quasi mai in veste di redivivo fisico. Ecco per-
ché è così dannatamente difficile tenere traccia delle Bestie: sareb-
be molto più semplice se si lasciassero alle spalle una scia di galassie
spiaccicate. Si spostano come proiezioni del Fiume, invece. “Perisco-
piano”, Cass lo definiva così. E quando effettivamente si manifestano,
pare che non vogliano mai avvicinarsi troppo. È qui che entrano in
gioco gli Araldi. Al contrario dei redivivi normali, le BR hanno svilup-
pato degli attori esterni, e quelle sono le entità che attaccheranno il
Mithraeum. L’abbiamo soprannominato l’“alveare”, e dentro all’alvea-
re ci sono gli Araldi. Hanno l’aspetto di creature indipendenti, ma in
realtà non sono altro che estensioni. Ragno, ragnatela. Mano, dito.»
Quell’intera lezione si era svolta con te, Dio e Ianthe seduti al ta-
volo da pranzo, che odorava ancora di colazione. E tu non la gradivi,
quella mancanza di protocollo. Augustine era curvo sul tavolo e sta-
va tracciando un meticoloso diagramma su un pezzo di velina, con
una matita che aveva preso in prestito da Dio. Lo schizzo che ne era
scaturito era quasi impossibile da decifrare.
«Continuate a parlare di “creature”» avevi detto tu. «Mi risulta un
po’…»

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«Vago?» aveva proseguito Augustine. «Non te le posso descrive-


re, cara mia. La prima volta che ci siamo imbattuti negli strumenti di
una Bestia Resurrezionale – e li stavamo solo guardando, voglio dire,
non ci avevano nemmeno attaccato – ho visto un Littore, uno che
fin lì non si era mai nemmeno lasciato scappare un gridolino, urla-
re come un bambino con le coliche. Altre due, che riposino in pace,
hanno vomitato e basta.»
Dio aveva aggiunto: «Gli Araldi e il corpus possono variare a se-
conda delle Bestie. Ci sono parti morte che il loro centro ha fuso in-
sieme. Alcuni Littori li percepiscono come insettoidi. Sono mostruo-
si e letali, e spesso ce ne sono a centinaia… migliaia».
Tanto tempo prima avresti potuto fare domande: ottime domande,
domande interessanti e spinose, quelle difficili che lasciavano inten-
dere che sapessi qualcosa e che su di te si potesse contare, nel caso
ti avessero spedito di corsa – da qualche parte… ma pure bendata.
Questa volta, eri rimasta in un silenzio provvidenziale.
«E contano solo fino a un certo punto» aveva aggiunto l’Imperatore,
vendicando la tua scelta. «Sono sicuramente pericolosi. Se gli Araldi
vi divoreranno, non potrò riportarvi indietro. Ma possono essere di-
strutti con relativa facilità, se avrete una lama e la destrezza per uti-
lizzarla… o la necromanzia. In qualità di Littori, però, la vostra ne-
cromanzia sarà necessaria altrove.»
«Vuoi tenerla tu questa lezione, John?» aveva commentato Augu-
stine, paziente.
«No… Scusami… Prosegui pure.»
«Cioè, adoro la deriva che hai deciso di prendere. Non avevo pen-
sato a farle pisciare sotto dalla paura con un bel “Vi divoreranno vive,
con tutte le scarpe”.»
«Scusami! Scusami. Vai avanti.»
Dopo aver rivolto un rapido sorriso a Dio, Augustine aveva indica-
to il diagramma. «La parte della Bestia Resurrezionale che possiamo
distruggere è acquattata nel Fiume, signorine» aveva spiegato. «Pro-
prio come la porzione più importante del redivivo è l’anima, la par-
te più importante della Bestia Resurrezionale si trova qua. Lascerete
i vostri corpi, che comunque vi proteggeranno – i vostri cari vecchi
paladini sono proprio lì, nei vostri neuroni e nella vostra amigdala,
pronti a saltare fuori precisamente in queste eventualità – e combat-

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HARROW LA NONA  /  183

teranno molto meglio di quanto possiate fare voi perché non hanno
paura degli Araldi, sono immuni. Ho vissuto per un tempo lunghissi-
mo ma, quando vedo un Araldo, le ginocchia mi diventano comunque
di burro. Terribile. Il mio paladino se ne frega. Ho rimosso la parte di
lui che avrebbe potuto farlo quando sono diventato Littore… ecco il
vantaggio fondamentale di cui dispone. Il vostro corpo non può – e
non riuscirebbe a – usare la necromanzia senza di voi. Il potere non
scorre in ambo le direzioni.»
Ianthe aveva detto: «Ma se siamo nel Fiume, allora gli spiriti…».
«Siete una proiezione. Non possono nuocervi» aveva risposto il
Re Imperituro. «E non li vedrete nemmeno. Nessuno spirito si avvi-
cinerà mai a una Bestia sommersa.»
Si era appoggiato allo schienale della sedia. Dio aveva una postura
serena e distesa, le spalle leggermente spioventi ma dritte; era mobi-
le e vivace. In qualche modo, sembrava sempre più vivo di chiunque
altro nei paraggi, ma comunque dissociato rispetto a quello che tu
consideravi “vivere”. Un’eclissi a forma di uomo. «E poi la combattia-
mo» aveva detto con semplicità. «Come combattiamo contro qual-
siasi altra cosa.»
Augustine aveva aggiunto: «La respingete con le barriere. Fate a
pezzi tutto quello che spedisce nella vostra direzione. Fate appassi-
re quella falsa pelle. Avrà una forma, così come anche noi abbiamo
una forma, nel Fiume, ed è vulnerabile come lo siamo noi. Dovete far
presa sull’anima, saldamente, e fare a pezzi la maledetta. Alla fine, se
la sposserete, riuscirete a esorcizzarla completamente. È una redivi-
va… la rediviva di un inferno molto specifico».
L’Imperatore aveva detto: «Una volta sconfitta, può essere ricaccia-
ta a forza giù nell’abisso, e da là non potrà fare ritorno».
«Speriamo» commentò Augustine. «Oh, Signore, lo speriamo
proprio.»

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MERCYMORN (FU ???) LA PRIMA, SANTA DELLA GIOIA
(IRONICO?)
Non è cooperativa.

Quando avevi chiesto a Mercymorn, chiaro e tondo, il nome asse-


gnatole dalla sua Casa, si era limitata a squadrarti con sbigottito di-
sgusto, come se tu non fossi altro che uno stronzo che aveva impara-
to a ballare, e poi aveva esclamato: «Vattene!».
Sfortunatamente, Augustine non si era dimostrato più collabora-
tivo di lei. Non si ricordava il vero nome della Casa di Mercy, non
rammentava se mai l’avesse saputo e, con tutta probabilità, aveva di-
menticato all’istante l’informazione per fare spazio a qualcosa di più
degno, i.e. qualsiasi altra cosa.

Non è in buoni rapporti con Augustine.

«Forse non ce l’aveva nemmeno» ti aveva detto lui, scrollando una


antica velina di giornale. «Devi considerare che le nostre sacre resur-
rezioni sono state scaglionate e ci sono volute generazioni prima che
la nostra allegra combriccola si radunasse. Alfred e io c’eravamo già
e abbiamo fatto in tempo a creare la Corte di Koniortos sulla Quin-
ta, ma Littori come Cyth sarebbero nati solo anni e anni dopo – e lei
ha passato una vita intera a subire le teorie sconclusionate della Set-
tima Casa a proposito del valore del cancro ereditario… mentre Mer-
cy è il pilastro più vecchio, se escludiamo me, ed era già là fuori a ti-
rare su l’Ottava Casa a colpi di martello prima ancora che la vernice
sulla Resurrezione si fosse asciugata.»

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HARROW LA NONA  /  185

Paladina controversa.

Quando avevi domandato a Dio perché fosse la Santa della Gioia,


lui ti aveva risposto semplicemente: «Il mio intento con quei tito-
li, in realtà, era di descrivere il paladino, Harrowhark, non il Litto-
re. Alfred per la pazienza; Pyrrha per il dovere; Cristabel per la gioia.
Mercy sarebbe la prima a confermarti che Cristabel Oct era una de-
lizia». Si era zittito, per poi aggiungere: «Ma magari non chiamarla
per nome di fronte a Augustine».
Mercy non era stata la prima a confermarti che Cristabel Oct era
una delizia. Quando avevi pronunciato il nome della sua paladina si
era irrigidita, come se l’avessero punta. La Santa della Gioia si era vol-
tata verso di te, con la bocca accartocciata, nauseata per la rabbia e
aveva sibilato: «Non proferire mai – mai – il suo nome con me, inu-
tile infante, cellula impudente che non sei altro». La cosa, in sé e per
sé, rappresentava già una scoperta.
Ma era stato Augustine a sentenziare, con fervore: «Una delizia
vera. Effervescente. Affabile con animali e bambini. Maestra di spa-
da. Non possedeva l’intelletto di cui sono generalmente dotati un pa-
nino o un’arancia… era l’aspetto più schifosamente idiota, in quest’af-
fare. L’Ottava Casa mai potrà fregiarsi di nulla di paragonabile a lei».

Anatomista.

Come altro definire i poteri di Mercy? I Littori avevano la capa-


cità di leggere la thanergia e la thalergia del corpo umano come un
libro aperto – un libro illustrato, con utili freccine che indicavano i
punti rilevanti, spalancandoli di fronte a te in tutta la loro nudità. Se
guardavi Ianthe, però, non si vedeva niente. E anche solo osservando
quel niente finivi per farti male agli occhi e ti ritrovavi col grasso del
cervello che ondeggiava. Chiaro, non era più immune ai teoremi di
quanto lo fossi tu, ma senza la chiarezza dello sguardo Littoriale quei
teoremi diventavano molto più difficili da utilizzare. Volendo, avresti
potuto posare la mano sul torace di Ianthe – cosa che, ovviamente,
non avevi intenzione di fare – e lo sterno, col suo tepore sanguigno,
si sarebbe gradualmente aperto a te. Ma servivano impegno e contat-
to ravvicinato, e occorreva anche conoscere lo sterno.

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Mercymorn la Prima sapeva tutto sullo sterno. Mercymorn la Pri-


ma conosceva il grasso pericardiale, i segreti dei tessuti molli del me-
diastino e il timo, con la sua mendace forma a cuore. Tu saresti stata
costretta a premere il palmo della mano sul petto di Ianthe – indub-
biamente – e ti sarebbero serviti secondi preziosi per trovare l’osso e
le cose che si celavano sotto l’osso, con le loro caratteristiche e le loro
posizioni. Mercymorn era in grado di localizzarti la ghiandola pineale
sfiorandoti a malapena il cranio. Non dipendeva da chissà quale capa-
cità Littoriale che solo lei possedeva o da un teorema necromantico
finemente perfezionato; come Dio ti aveva riferito, in quei diecimila
anni aveva semplicemente memorizzato il corpo a menadito. Aveva
studiato le misure e le loro forbici differenziali e, nelle rare occasioni
in cui le occorreva ipotizzare dove qualcosa si trovasse o come funzio-
nasse, le sue supposizioni avevano l’accuratezza data da un’esperien-
za lunga diecimila anni. Quello che Mercy non sapeva del corpo non
solo non valeva la pena di essere conosciuto, aveva commentato l’Im-
peratore: se lei non ne sapeva niente, era perché non era mai esistito.
A cena, a tavola, avevi domandato a Augustine perché, se si trat-
tava semplicemente di una questione di memoria, lui non avesse fat-
to la medesima cosa. Ianthe si era strozzata con discrezione con una
forchettata di impasti bolliti di farinacei in salsa rossa.
«Oh, Signore! Riesco a malapena a ricordarmi cos’ho mangiato a
pranzo la settimana scorsa» aveva detto lui. «In più, l’anatomia ha
un’applicazione troppo circoscritta.»
Mercymorn aveva spalancato la bocca, con gli occhi burrascosi
che promettevano una devastazione costiera, e aveva ribattuto: «Ap-
plicazioni!». Ma Augustine aveva proseguito, languido: «Ne avrem-
mo veramente bisogno solo per ammazzare i Littori, Harrowhark, e
il resto di noialtri non ha mai manifestato un particolare interesse
alla questione».
Il che, in qualche modo, aveva finito per rovinare la cena.

* * *

A proposito dell’ultimo Littore del trio avresti potuto scrivere pa-


recchio. C’erano informazioni utili in abbondanza – le custodivi tut-
te con cura nella tua testa, ripetendotele giorno dopo giorno, perché

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avrebbero potuto salvarti la vita. In un certo senso, eri più in confi-


denza con il Santo del Dovere di quanto non lo fossi con Augustine
o Mercymorn.
Il fatto è che la vita nel Mithraeum era molto comoda. Non c’e-
ra nulla da desiderare. C’erano cibo, riscaldamento e acqua in quan-
tità – un aspetto che, essendo cresciuta nel Drearburh, non saresti
mai riuscita a dare per scontato, visto che ti eri scervellata così a lun-
go per stabilire se il cibo, il riscaldamento e l’acqua di cui disponevi
sarebbero bastati a sostenere la tua popolazione in via di assottiglia-
mento. Vivevi nel bel mezzo di uno splendido memoriale che cele-
brava coloro i quali avevano offerto alle Nove Case il loro coraggio,
le loro abilità e le loro vite, i migliori fra i migliori, le cui gesta non
solo erano certificate dalla presenza delle loro ossa nel più sacro fra i
templi nel sistema più sacro della più sacra porzione dello spazio. La
Casa di Dio. Il Tempio delle Nove Resurrezioni. Il Necrore Supremo.
Se la si soppesava in maniera obiettiva, c’erano davvero solo due
cose che non andavano nella tua vita. La prima: non eri un Littore
normale. L’altra era ancora meno complicata.

ORTUS ??? (FU ???) IL PRIMO, SANTO DEL DOVERE


Mi vuole morta.

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Fu Ortus Nigenad a incaricarsi del corpo. Lo lavò
e lo ricompose con l’aiuto di Magnus Quinn. Il fatto che Ortus ne fos-
se capace – e soprattutto che avesse voglia di farlo – fu una sorpre-
sa per Harrowhark. Nella sala adiacente alle cucine, nel piccolo obi-
torio gelido che fungeva anche da dispensa, il loro fiato aleggiava a
mezz’aria in nuvolette adamantine. Si ritrovò a osservare le opera-
zioni: i bulbi oculari passati sotto spirito, la mandibola sostenuta da
una benda legata ordinatamente dietro il capo scuro, la giubba non
più bianca della Coorte chiusa con i lucidi bottoni di rame. Harrow
aveva presentato le sue rimostranze, ma Abigail aveva detto che, una
volta estratti i proiettili dalle ferite, la Capitana Deuteros poteva esse-
re ricomposta in maniera decorosa. Harrow era stupita dal fatto che
una ricomposizione decorosa si potesse ancora organizzare: il cada-
vere era in condizioni miserevoli.
In tutto c’erano otto proiettili. Su una velina, Harrow aveva calco-
lato le traiettorie e i vettori che sarebbero stati necessari a compro-
mettere lo scheletro assiale in una simile maniera. Lady Pent l’ave-
va assistita. La folta chioma castana era raccolta in alto, sulla corona
del capo, e sosteneva il suo primo paio d’occhiali, che aveva poi so-
stituito con un secondo, all’apparenza del tutto differente, quando si
era messa a sfogliare un antico tomo di cellulosa macerata, indossan-
do i guanti per proteggere le pagine delicate dal suo sudore. Harrow
aveva giurato di evitare Pent a tutti i costi, ma il cadavere di fronte a
loro l’aveva reso impossibile.
Harrowhark disse: «Il primo proiettile ha causato un trauma mas-
siccio al cuore, e dovrebbe essere stato quello letale. Il secondo ha col-

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pito la clavicola. Il terzo ha trapassato l’addome e si è conficcato nella


spina dorsale, e così via. Il dettaglio rilevante, qui, riguarda il primo
proiettile. Ha distrutto con precisione entrambi gli atri».
Abigail girò un’altra pagina e disse, con sincera perplessità: «Ma
perché continuare a sparare, allora?».
«Panico» suggerì suo marito, rialzandosi dal corpo.
Ortus era ancora impegnato a tamponare via il sangue da un livi-
do che spuntava dalla tempia del cadavere, ma disse: «Rabbia, forse.
Ho sentito spesso dire che la rabbia può travolgere qualcuno ben ol-
tre l’impulso omicida iniziale».
Abigail commentò: «Ah. Eccolo qua, il cucciolotto. Reverenda Fi-
glia, venite a dare un’occhiata».
Harrowhark si alzò e si accostò alla spalla dell’adepta della Quin-
ta. Era stata esortata a osservare il disegno di un proiettile. Harrow si
allungò per afferrare tra pollice e indice uno dei proiettili meno de-
formati. Lo accostò al disegno per fare un confronto, analizzando il
disegno nella pagina opposta: una lunga canna poderosa, un grovi-
glio di grilletti, marchingegni e protrusioni che non riusciva a com-
prendere. FUCILE A CARABINA, recitava la legenda. Per un istante pro-
vò pietà per gli ultimi secondi di Judith Deuteros. Essere assassinata
con quell’antico reperto da corredo tombale! Era come essere aggre-
diti dal fantasma di un’altra epoca.
Una rapida scorsa allo schema progettuale evidenziò immediata-
mente il problema. «Quest’arma può sparare solo sei proiettili pri-
ma di dover essere rifornita» disse lei. («Ricaricata» puntualizzò con
solerzia Abigail.) «L’assalitore ne ha sparati otto.»
«E doveva sapere bene che la povera Judith era senza speranze già
dopo il primo colpo. Ricaricare è bizzarro, dunque, come minimo.
Qualcuno è riuscito a estrarre qualcosa di coerente dalla luogotenente?»
Magnus disse, solenne: «Sta aspettando fuori. Mi sono offerto di
attendere insieme a lei, ma ha rifiutato l’offerta. Non conosco Dyas
molto bene e non ho voluto insistere… è una lurida faccenda».
Quando Lady Pent si spostò in cucina, Harrowhark la accompagnò.
Non trovarono la Luogotenente Dyas seduta, o nemmeno appoggia-
ta al muro, come avrebbe fatto chiunque altro durante l’oretta piena
che avevano trascorso con il cadavere. Era in piedi sull’attenti, dritta
come un fuso. L’impeccabile giubba bianca appariva ancora più bianca

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e impeccabile in confronto al disastro di quella della sua necromante.


Anche il cravattino scarlatto sembrava più rosso – quando erano riu-
sciti a recuperare Judith Deuteros, il sangue aveva ormai quasi tinto
il suo di nero. Ortus l’aveva lavato con la spugna e stava tentando di
farlo asciugare su una stufa. Quando si avvicinarono, Dyas si eresse
in tutta la sua statura e fissò Harrowhark, non Abigail.
Chiese, con una frenesia insolita per lei: «Perché sono qui?».
Pent rispose: «Solo per rispondere a delle domande, Luogotenen-
te Dyas».
La luogotenente continuò: «Io voglio sapere… voglio solo sapere…».
«Quello che sai tu è di importanza largamente superiore» fece Abi-
gail. «Per favore, puoi dirci esattamente quello che hai visto là sotto?»
Marta Dyas la squadrò. Non c’era tristezza sul suo volto, solo un ter-
rore profondo e arido, un’enorme impazienza, che vivacizzavano quella
che appariva di solito una maschera ben composta della Coorte. «Ero
nella camera quando è successo» disse lei, «mi stavo già scontrando
con il costrutto-obiettivo. La stanza era separata dalla sala adiacente
dove… stava la capitana.» (C’era stata una breve pausa. Harrow si do-
mandò se quella pausa fosse stata intesa per contenere “Judith”.) «Non
ho sentito lo sparo. Il bersaglio è scomparso… la saletta si è aperta…
quando sono uscita, la porta della capitana era spalancata, e lei era là
dentro. Nessun… segno vitale.»
Pent domandò: «Quanto è passato tra l’apertura della saletta e il
tuo arrivo da lei?».
«Dai cinque ai dieci secondi per uscire dalla saletta e spostarmi
di là» fece la Luogotenente Dyas. Poi aggiunse: «Col senno di poi, la
porta dev’essersi aperta quando lei è morta».
«Hai sentito degli spari successivi?» chiese Harrowhark.
«No. La saletta della prova era insonorizzata» proseguì Dyas, un
po’ meccanicamente. «Ho lasciato lì la Capitana Deuteros. Sono usci-
ta in corridoio. E all’estremità, in fondo, ho visto il Dormiente.»
«Descrivicelo, per favore, se puoi» disse Pent. E aggiunse: «Prenditi
il tempo che serve, Luogotenente. Mi rendo conto che sia difficile…»
Dyas disse, con voce rotta: «Io voglio solo sapere…».
«Lo saprai. Te lo garantisco con assoluta certezza. Che aspetto ave-
va il Dormiente?»
«L’avete visto tutti, sotto a quel vetro» disse Dyas. Quello non era

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del tutto vero. Ortus si rifiutava di avvicinarsi al sarcofago con la co-


pertura di vetro che stazionava nella sala centrale – o se è per quello
al cadavere sonnolento che conteneva – e rabbrividiva a ogni respi-
ro. Harrowhark non aveva paura di esaminare più da vicino la mor-
te che Maestro aveva prospettato loro, accomodata sotto a quel plex
nebuloso e congelato. Senza il minimo stupore, aveva scoperto che
il Dormiente dormiva con una tenuta da emergenza, come Dyas sta-
va declamando in quell’istante: «Attrezzatura respiratoria sul viso…
tuta arancione… cappuccio ossigenato».
Harrowhark commentò: «Sono tratti semplici da falsificare. Pote-
va trattarsi di qualcuno vestito come il Dormiente».
«Brandiva un’arma» fece Dyas. «Un’arma che non avevo mai visto
prima dentro o vicino al sarcofago. L’ho chiamato, ma non si è ferma-
to… l’ho inseguito fino all’atrio centrale. La bara del Dormiente era
aperta e vuota. La sagoma ci si è calata dentro. Ha tirato giù il coper-
chio e l’ha chiuso ermeticamente.»
Abigail si intromise: «E poi sei scappata e hai dato l’allarme».
La luogotenente della Seconda fissò Abigail come se avesse appe-
na insinuato: “E poi sei andata a prenderti un bel gelato”.
«Sono andata a prendere un pezzo di conduttura dalla camera mor-
tuaria» aggiunse, monocorde. «Ho colpito la bara. Ho colpito ripe-
tutamente la bara. Ho continuato per circa un minuto. Avete trova-
to del sangue sul vetro. È il mio. Ho provato a pugni, a calci e anche
col pomolo della mia spada… quel vetro di plex non è plex. E nem-
meno vetro.»
«Si sarebbe potuta facilmente trasformare in una condanna a mor-
te per noi tutti» commentò Harrow; aveva assaporato così spesso
l’ipo­crisia sulle sue labbra da sentirne ormai a malapena il bruciore.
«Per il respiro dell’Imperatore, Dyas!» disse Lady Pent, pallida
come un cencio, un pochino più diplomatica nel suo sconvolgimen-
to. «Non l’hai… risvegliato?»
Dyas rispose: «No».
Harrow si era solo parzialmente accorta di Ortus che si stava pian
piano avvicinando, ufficialmente per controllare il cravattino incro-
stato di sangue di Judith Deuteros. Aveva interrotto le sue macchina-
zioni per fermarsi ad ascoltare con quel suo atteggiamento sognante
e mezzo imbambolato che assumeva sempre quando ascoltava, con

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lievi differenze tonali che dipendevano dall’interlocutore. Ascolta-


va Harrow con l’aria allegra di una persona arroccata nel suo lonta-
nissimo palazzo mentale, a meno che quel che diceva non avesse un
impatto diretto su di lui: a quel punto si limitava a farsi tristissimo.
Lo sguardo inquietante e in parte selvaggio della luogotenente
– dava l’impressione di essersi trasformata in un sacco con dentro
dieci serpenti – si posò su Ortus e sul cravattino macchiato che sta-
va strizzando. Harrow fece un passo in avanti, cercando di piazzarsi
nella traiettoria tra lo sguardo della paladina della Seconda e il suo.
Ma si era mossa per proteggere il paladino sbagliato.
Il suo si schiarì la gola e… oh, maledizione:

«Sorella mia, la vostra fortuna invidio; impavida proseguite,


nel gelido corso grigio del Fiume.

Cadere in battaglia per la gloria della Casa è la morte


cui ogni guerrier di buon grado ambisce infine.

Manchevole io perdo terreno; salda reggetevi alla testa di ponte sul-


la riva opposta! Il sangue risarcirà il vostro sangue versato».

Libro Undicesimo. Per un attimo, a giudicare dall’espressione del-


la luogotenente, Harrow pensò che avrebbe sguainato il funziona-
le stocco della Coorte per assalire Ortus all’istante – quei suoi versi
turgidi forse non se lo sarebbero meritato, ma la scelta di recitarli in
pubblico senza che fossero stati sollecitati, di sicuro sì. Strinse tra il
pollice e l’indice un dischetto di rotula che teneva in tasca. Ma poi la
mano di Dyas tremò e il suo sguardò si inabissò verso il pavimento.
Gli rispose, abbattuta: «Non posso nemmeno più sperare in quello».
Abigail Pent cominciò, con dolcezza: «Luogotenente…». Ma Dyas
stava dicendo, a voce bassa e concitata, questa volta proprio a Harrow­
hark: «È davvero così che va? Non c’è speranza per lei, secondo voi?».
«Otto proiettili di metallo le hanno trapassato a velocità ragguar-
devole la parte mediale del tronco» fece Harrow. E visto che sapeva
che alcuni ricavavano conforto da quel dato, aggiunse: «È morta mol-
to rapidamente, a seguito della distruzione del cuore».
«No» disse la luogotenente, e ora a Harrow parve intontita. Con

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le dita continuava ad armeggiare con l’elsa dello stocco, da cui pen-


zolava un immacolato nastro scarlatto. «Questo non… non so per-
ché credevo che… no.»
«Hai affrontato un mostro che con ogni probabilità sarà la rovi-
na di molti, parecchi dei quali possono di certo dirsi meno valorosi
della Capitana Deuteros» disse Ortus. Harrow si pentì di non averlo
costretto a prestare un solenne voto di silenzio, aggirandosi in quel
posto come la massa muta e minacciosa che era stato suo padre; ma
solo un paladino idiota e molto obbediente si sarebbe fatto incastra-
re così. «Includo me stesso fra questi ultimi. Non esiste nessun altro
spiraglio di salvezza per noi?»
Abigail disse: «Ortus il Nono ha ragione, Luogotenente. Qualsiasi
altro dettaglio, qualsiasi altra cosa sarete in grado di riferirci… grazie a
voi abbiamo già appreso tanto, anche se il prezzo è stato troppo alto».
La luogotenente raddrizzò di nuovo la schiena. La sua bocca trac-
ciava ora una linea calma che non lasciava trapelare altro che il classi-
co stoicismo della Seconda Casa. Harrowhark la ammirava per quello.
«Uno» disse, secca. «Il Dormiente può spostarsi dal suo sarcofago.
Due, il Dormiente può attraversare le barriere necromantiche. Tre,
Maestro ci ha detto di non svegliarlo. Non so a cosa reagisca. Non
al rumore.» («Non necessariamente, no» commentò Pent, alla quale
non erano mai andate a genio le affermazioni categoriche.) «Quat-
tro, ha un fucile.»
«Come in una vecchia storia» suggerì Ortus.
«Come qualcosa. Sono tutte le informazioni che ho» disse la luo-
gotenente. «Non voglio fare ipotesi. Un’altra cosa – non ne ho l’asso-
luta certezza. L’ho solo visto di sfuggita prima che il coperchio si ri-
chiudesse e il plex si appannasse di nuovo. Ma c’è qualcos’altro nella
bara. Il Dormiente ci sta coricato sopra.»
La luogotenente chiuse gli occhi, anche se la sua postura rigorosa
non mutò. Quando li riaprì, disse: «Non so se è importante. Ma sem-
brava una spada regolamentare da fanteria». Aggiunse, con la punti-
gliosità della Coorte: «Uno spadone a due mani».

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DIECI MESI PRIMA DELL’ASSASSINIO DELL’IMPERATORE

La prima volta che il Santo del Dovere aveva cer-


cato di toglierti la vita, ti aveva colta di sorpresa. Se tu fossi stata un
filino meno paranoica, un pochino meno disturbata, avresti potuto
donare a Ianthe Tridentarius il piacere di aprire la missiva etichetta-
ta con: DA LEGGERSI NEL CASO IN CUI HARROWHARK NONAGESIMUS
MUOIA. L’unica speranza che nutrivi per quel messaggio era che con-
tenesse un’unica frase di questo tenore: “Ricava dalla mia carcassa le
gioie che puoi, brutta stronza perversa” ma era stata scritta da una
tua precedente incarnazione e non potevi arrischiare ipotesi.
Erano passati solo pochi giorni dal tuo insediamento nel Mithraeum.
Da quando ti eri inguaiata con la porzione mediale di Cytherea avevi
evitato tutti i pasti collegiali, e tendevi ad arraffare un po’ di cibo solo
mentre attraversavi quello spazio bizzarro che tutti quanti chiamava-
no cucina. Era una stanza lunga, pulita e spoglia dove le luci elettri-
che proiettavano lunghe ombre su pentole e padelle più vecchie del
Drearburh, per quanto risparmiate dalle dissipazioni del tempo. In
quel momento non avevi ancora ideato il tuo esoscheletro, ma eri riu-
scita ad assicurarti un prototipo di fodero osseo alla schiena e passa-
vi la maggior parte del tuo tempo a zoppicare in giro come se avessi
la scoliosi. Avevi preso una porzione di una specie di stufato limac-
cioso lasciato in caldo sul fornello – eri famelica e ancora non sapevi
quello che l’Imperatore ti avrebbe spiegato dopo: un Littore poteva
perdurare alla perfezione anche senza cibo, ma non sarebbe durato
molto senz’acqua. («Ci siamo ritrovati con Cyrus mezzo mummifi-

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cato, prima di capire bene come funzionava» avrebbe poi aggiunto,


perso in quelle care reminiscenze.)
Il tuo errore era stato di non tornare di corsa nelle tue stanze col
cibo. Gli alloggi di Ianthe non erano ancora un’opzione. In quella prima
settimana eri ancora intorpidita; eri stanca, avevi fame e ti eri messa a
sedere su una credenza per consumare un pasto tiepido e, dopo nean-
che cinque cucchiaiate, la spada era emersa dal centro del tuo torace.
Aveva mirato in maniera impeccabile alla tua valvola polmonare,
ma si era messo alla mercé delle tue costole numero tre e quattro. Un
errore che il tuo assalitore non avrebbe commesso di nuovo. Amiche
intime da sempre, si erano dispiegate per te come un giorno di pri-
mavera. Funi spesse di cartilagine costale erano emerse dal tuo pet-
to per immobilizzare lì dov’era la spada del tuo assalitore: le tue co-
stole erano diventate fauci, il tuo sterno l’imboccatura di una forra.
Il tuo sangue macchiò quella zuppa ignara e lo stocco rimase bloc-
cato, saldamente. Ti eri divincolata, arretrando; le ossa delle falangi
ti avevano trapassato i polpastrelli, come coltelli, e, troppo atterrita
per elaborare soluzioni sofisticate, ti eri accanita alla cieca nella car-
ne muscolosa e priva di grasso delle cosce alle tue spalle.
Con gli artigli avevi zappato la carne delle anche e delle pelvi, ma
avresti ben presto imparato che Ortus il Primo non reagiva al dolo-
re. Si era spostato – trascinandoti con sé, giù dal tuo appoggio, lon-
tano dalla tua zuppa irrorata di sangue – e gli avevi lasciato andare
lo stocco, dilatando l’osso in modo da farlo capitombolare all’indie-
tro mentre tu ti lanciavi in avanti, superando con un ruzzolone la cre-
denza, rovesciando la ciotola, dislocando pentole e padelle e produ-
cendo un fracasso infernale.
Una scheggia d’osso fluttuava nei pressi del punto in cui lo stocco
ti aveva scalfito la costola. L’avevi estratta da te, e da quell’osso quasi
vivo erano eruttati dei femori, plasmati a entrambe le estremità in ro-
tule, bacini, in uno scheletro che ribolliva di cenere rigenerante. Ave-
vi strappato una costola alla gabbia toracica del costrutto prima che si
avventasse sul necrosanto, e la costola che avevi liberato ti offriva un
immenso e generoso margine: gli interni spugnosi si separarono dal-
la loro corteccia compatta e solida, come se fossero stati creati pro-
prio a quello scopo. Il centro per plasmare, l’esterno per rinforzare.
L’intero si era sbriciolato nei tuoi palmi serrati. Eri stata sollevata da

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una corrente di ossa, venti paia di braccia scaturite da tubercoli che


avevi reso appiccicosi e piantato nel pavimento, e ti eri ritrovata av-
volta in un nido corazzato di arti scheletrici.
Era di una semplicità che ti meravigliava. Dovevi a malapena pen-
sarci perché accadesse, a un costo che consideravi irrisorio. Ma stavi
perdendo sangue velocemente ed era successo qualcosa di brutto ad
alcuni muscoli di importanza relativa, e non c’era tempo – potevi solo
interrompere il flusso e occuparti dei danni in un secondo momento.
A quel punto, avevi colto la prima occasione a tua disposizione
per osservarlo davvero. Una mossa stupida: perché non eri scappa-
ta? Avevi scelto di guardare, come se fosse stato possibile imparare
chissà che. Un interlocutore meno critico avrebbe potuto farti nota-
re che dal tuo petto era spuntato, poco prima, un bel regalino a sor-
presa – trenta centimetri d’acciaio che scattavano come una molla,
sproing, a ogni movimento dei pettorali, seguendo ogni sussulto del
torace – ma tu non eri mai stata propensa all’accampare scuse. Ti al-
larmò di nuovo: quel Littore rappezzato e strinato, con la pelle ag-
grappata al cranio e quel viso scarno e teso fino allo spasimo. Ortus
il Primo non sembrava aver bisogno di carne e nemmeno di acqua.
La sua pelle, marrone scuro, aveva un’aria stranamente bruciacchiata,
un aspetto ustionato – o un’altra forma di ossidazione – a cui quella
calotta color ruggine di capelli rasati non giovava. Composta, ti eri
trattenuta per un istante – forse era tutta un’allucinazione, non ne eri
sicura. Quell’esitazione ti costò cara.
Dalla polvere protoscheletrica avevi evocato cinque costrutti com-
pleti: cinque costrutti stanchi e famelici, che non potevano che ri-
specchiare la tua condizione. Scavalcarono il piano di lavoro come
dei grossi ragni e gli si avventarono contro. Il Santo del Dovere im-
pugnò la sua stramaledetta lancia. La prima volta ti aveva terrorizza-
ta: una lancia, una lancia come arma secondaria. Aveva usato il culo
della spada – affermare che ormai lo chiamavi regolarmente “pomo-
lo” sarebbe stato una menzogna – per polverizzare il cranio del pri-
mo costrutto. Una forza immane. Dall’interno della tua rete, mentre
la mandibola di un secondo scheletro volava sui fornelli, avevi cerca-
to di compattare nuovamente i costrutti, riforgiare una nodosa spina
dorsale, plasmandola con la cenere. Un terzo costrutto era stato de-
capitato da un colpo di lancia che gli aveva trapassato le vertebre cer-

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vicali trasformandole in una granata d’ossa. Per quanto riguarda gli


ultimi due, il tuo assassino aveva ormai perso la pazienza. Risucchiò
la thanergia dalle ossa e per te fu come essere stata presa a schiaffi.
Scomparvero in nuvolette granulose di polvere.
A quel punto, avevi finalmente pensato di scappare. Scema due
volte. Il nido di braccia ti aveva piroettata nell’altra direzione e si era
preparato a comprimersi per infilarsi nella porta. Avevi conformato
la rete in una fitta traforatura, elastica, malleabile. Nonostante fosse
splendido e funzionasse a meraviglia anche dal punto di vista della
mobilità, durante il processo avevi dovuto sacrificarne la resilienza.
Scagliò la lancia, quasi con noncuranza, nel tuo intreccio e la rete si
deformò fluida all’impatto – e fu così che la punta della lancia attra-
versò l’osso per conficcarsi nel tuo intestino crasso. Il suono fu quel-
lo di un chiodo piantato in una salsiccia. Il sangue fiottò fuori come
acqua carbonata. Avevi superato la soglia ruzzolando, in una cascata
vorticante di frammenti rimbalzanti d’osso, il fodero che ti sballotta-
va in malo modo e rotolavi, rotolavi… finché non ti eri ritrovata ri-
versa e sanguinante ai piedi di…
«Ortus!» aveva esclamato Mercymorn. Dal tono, non pareva inor-
ridita, solo profondamente scocciata. La vista ti ondeggiava e sentivi
odore di toast caldi. «Che cosa stai facendo???»
Ti eri raggomitolata su un fianco. Una foschia nera stava già ini-
ziando a addensarsi ai bordi della tua visuale. Non eri ancora così abi-
le nel guarirti da sola, al tempo. Avevi sentito: «È morta?... Resta lì,
idiota! Mani bene in vista! Cosa ti è venuto in mente? Oh, lo farai in-
furiare, altroché! Zucca vuota!».
Ti sembrava odioso che, in punto di morte, ti dovessero trattare
come una bestiola che un qualche predatore domestico aveva trasci-
nato in casa. Avevi sentito il Santo del Dovere che ribatteva, con la
sua voce piatta e infelice: «Non è a te che rispondo».
La lancia era stata rimossa. Ti ricordavi ancora la sensazione acu-
tissima che avevi provato. Nel bel mezzo di quella sensazione, dita ra-
pide e leggere avevano eseguito una sonata sinfonica sulla tua schie-
na, bloccando il flusso di sangue, congelando la tua carne, isolando lo
shock circolatorio; era stato solo in quel momento che avevi comin-
ciato a capire che cosa Mercymorn fosse in grado di fare. Con un altro
polpastrello, ti aveva toccato un punto sopra al sopracciglio e la tua

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ghiandola pituitaria aveva generato un fiotto di neuropeptidi che ave-


vano rimpiazzato all’istante l’adrenalina che inondava il tuo sistema.
Stava dicendo: «Non è corretto da parte tua cercare di farle fuo-
ri quando saremo noi a finire nei guai. Possono morire perfettamen-
te anche per conto loro, asino che non sei altro. Questa qua non avrà
nemmeno dodici anni».
Non ci si avvicinava neanche lontanamente, persino basandosi sul-
la tua bugia, ma non importava. Lui aveva bofonchiato qualcosa. Lei
aveva ribattuto, secca: «Veloci abbastanza da far contenti tutti. Guar-
da! Guarda!!! Non è neanche capace di guarire… gliel’avevo detto che
la sua integrazione si era ritardata… gliel’ho detto che non coagula…
e non sarò di certo io a ripulire questo posto, tocca a te. Blah. Le fu-
ghe sono piene di ossa».
Ortus il Primo aveva risposto: «Gli Araldi saranno qui fra otto mesi».
«Ne sono perfettamente al corrente, grazie tante» aveva risposto
Mercy. «Perché non te ne vai a convertire qualche pianeta, tanto per
farci un po’ di cuscinetto.»
Ortus il Primo aveva detto: «Ora vuoi insegnarmi a fare il mio
lavoro».
«Oh, ti odio! Ti ho sempre odiato, palla al piede menosa che non
sei altro» aveva esclamato Mercymorn con fervore, e poi avevi senti-
to il suo pollice che ti schiacciava la parte bassa della schiena e il tuo
tratto gastrointestinale – interrotto com’era dalla punta della lancia –
fu di nuovo irrorato da un calore profondo. Da qualche parte, den-
tro di te, rilevavi ancora quel dolore aggrovigliato. Ma lo avvertivi a
malapena, imbottita com’eri di ormoni. Era da prima di arrivare alla
Casa di Canaan che non ti sentivi così bene. Poi aveva aggiunto, in
tono più ragionevole: «Io lo so, quel che stai cercando di fare. E non
credere che non ti capisca, ma se proprio vuoi soffocare i gattini lo
potresti fare in una maniera più pulita, mettendola KO e buttandola
fuori dalla camera stagna…».
Si interruppe, evocativa. Il Santo del Dovere rispose, come un ma-
cigno: «Io gestisco le cose faccia a faccia».
«Non per essere crudele» ribatté lei, crudele, «ma è proprio per
quello che ti sei cacciato nei guai diciannove anni fa.»
Dei passi pesanti sulle mattonelle. Eri stata fatta rotolare sulla schie-
na e il fodero fissato lì ti faceva beccheggiare avanti e indietro, come

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una tartaruga con un pomello sul guscio. Un grandioso senso di cal-


ma ti pervadeva, mentre il mondo tornava pian piano a fuoco. Era sta-
to orripilante, dal punto di vista psicologico, vedere Mercymorn ar-
meggiare con il tuo torace e il tuo addome, la bocca atteggiata a una
smorfia come se stesse ripulendo il tuo vomito, ma eri avvolta in una
meravigliosa nube di ossitocina e non te ne fregava niente degli altri
Littori, del tentativo di assassinio che avevi subito o di tutto il resto.
Potevi guardare Ortus dritto negli occhi, serafica e indomita.
Il viso di Ortus, tirato, eccessivamente adeso al suo telaio e bloc-
cato su un’espressione lunga e lugubre, non mostrava alcuna ragio-
nevole correlazione con i suoi luminosi occhi verdi: un verde tenero
e burroso, meno allarmante o brusco del verde di un germoglio o del
verde di una foglia, ma invece liquido e fluviale.
La Littrice che incombeva su di te ti aveva detto, in tono ammo-
nitore: «Non fare nulla. Mi toccherà combattere con te, e non riesco
nemmeno a spiegarti la poca voglia che ho di farlo. Oh, ma perché
mi sono fermata?» aveva pigolato. «Dovevo tirare dritto. Detesto la
responsabilità colposa.»
«Voglio quella spada» aveva detto Ortus il Primo.
«Cosa?»
«Dammi quella stramaledetta spada» aveva detto Ortus il Primo.
«Hai già una fornitura completa di armi troppo cresciute, non es-
sere avido.»
Persino una ghiandola pituitaria sovraeccitata non sarebbe riusci-
ta a mascherare l’affilata sciabolata di terrore che ti aveva squarcia-
to il cuore. Avevi cercato di tirarti su sui gomiti prima di tornare de-
bolmente a coricarti, tremante. Avevi gracchiato: «No. No. È mia».
Mercymorn perse la pazienza con un atteggiamento che sfiorava
il professionismo. «Oh, ma piantala una buona volta» aveva detto a
Ortus, stizzita. «Lascia stare la bambina.» Prima che potessi sentirti
in debito con lei, aveva aggiunto: «La prossima volta, provaci di not-
te! Quando dormo! Se ti vedo farle del male sono obbligata a inter-
venire, o Maestro perderebbe la sua cocca».
Il Santo del Dovere aveva abbassato lo sguardo su di te, lunga e di-
stesa in una pozza di sangue – che imbarazzo –, libera dai due nuovi
fori che era riuscito a procurarti in un lasso di tempo così ristretto.
Aveva preso la lancia e l’aveva scrollata come un lenzuolo. L’impu-

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gnatura d’osso si era ripiegata su se stessa fino a diventare non più


lunga e non più spessa del manico di una mazza. Si infilò quell’im-
pugnatura corta e tozza nella cintura, poi rinfoderò lo stocco, girò i
tacchi e se ne andò.
La sua sorella-santa gli sbraitò dietro: «Dico sul serio! Qua devi
ripulire tu!» ma lui si era già levato di torno. Si alzò e si lisciò il da-
vanti dello splendido manto madreperlaceo – il sangue si staccò in
grossi grumi di polvere rossastra, riducendosi in niente – e disse, il
volto placido accartocciato dalla rimostranza: «In questo posto sta
andando tutto a rotoli… che cosa gli hai detto per fargli venire vo-
glia d’ammazzarti?».
«Niente.» Il flusso piacevole degli ormoni stava iniziando a scema-
re, ma eri ancora sovrannaturalmente calma quando avevi aggiunto:
«Sono venuta a prendere qualcosa da mangiare. Non ho percepito il
suo arrivo. Mi sono accorta che c’era solo quando mi ha pugnalata».
«Oh. Allora ti vuole morta e basta» aveva detto lei, senza la mini-
ma preoccupazione. «In bocca al lupo! Addio!!! Quel tizio è il masti-
no di Maestro… se ti considera una minaccia, allora ti consiglio di
mettere in ordine i tuoi affari.»
Avevi fissato il soffitto, accorgendoti delle volute di ossa sparpa-
gliate che facevano da contrappunto alle cornici della pannellatura,
tutt’intorno alle lunghe travi di luci elettriche. E avevi detto: «Ma per-
ché Ortus il Primo mi vuole morta?».
«Chi?» aveva commentato Mercymorn, indifferente.

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Non avevi lasciato istruzioni a proposito di
cosa volessi fosse fatto al tuo funerale. Non dipendeva da un surplus
di ottimismo, anche se eri determinata a evitare che la tua fine di-
pendesse dalla punta della spada o della lancia di Ortus il Primo: era
perché trovavi l’idea di un funerale in tuo onore troppo pietosa – che
cosa sarebbe stato detto, che cosa avrebbero fatto? Quale poteva es-
sere un epitaffio adeguato alle tue fragili ossa? (Forse: QUI GIACE LA
STREGA PIÙ INTOLLERABILE DEL MONDO.)
Nei mesi successivi, il Santo del Dovere aveva cercato di uccider-
ti – secondo i tuoi conteggi – quattordici volte, e non eri mai riusci-
ta a comprenderne le motivazioni. Spesso venivi salvata solo grazie
a un’ingerenza esterna, che a volte era da imputarsi a uno degli altri
due Littori. Una volta, indegnamente, era stata Ianthe; ti aveva arro-
tolata nel grasso e ti aveva fatto ruzzolare giù per il corridoio lonta-
no dal pericolo – e se la rideva ogni volta che ci ripensava. Una volta
era intervenuto addirittura Dio. Era entrato proprio mentre lo stoc-
co con l’elsa scarlatta, affilato come un rasoio, del tuo fratello mag-
giore ti trapassava le pelvi – quell’affilatura superava la tua compren-
sione – e Dio ti aveva deposta sull’ampio tavolone da pranzo di legno
bruno, e il mondo per te si era sbiancato e il riverbero ti era risali-
to su per le narici e le cavità sinusali, inarcandosi poi verso il basso,
lungo le piante dei piedi, mentre la tua pelle e la tua carne si richiu-
devano, integre e perfette. Ti era scomparso persino il mal di schie-
na. Il tuo corpo era stato scosso da un sibilo complessivo mentre si
sigillava, rinato nell’incandescente luce bianca del Necrore Supremo.
E aveva detto: «Ortus, abbi pietà».

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«È questa la mia pietà, Signore» aveva risposto il Santo del Dovere.


«Lei è una tua responsabilità, non un sacco da prendere a pugni.»
«Trovo che sia una responsabilità difficoltosa.»
Eri rimasta coricata sul tavolo, stordita e disorientata, e avevi sen-
tito l’Imperatore delle Nove Case che diceva: «Non voglio discutere
con te. Tutto questo… è grossolano. Vattene».
Se ti era passato per la mente che l’intervento di Dio si sarebbe di-
mostrato decisivo, che avrebbe istituito una qualche specie di tregua,
non era andata così. Pareva difficile sollevare l’argomento, quando Dio
non voleva tirarlo fuori di sua spontanea volontà. Che cosa gli potevi
dire? (“Una delle tue dita, uno dei tuoi gesti sta cercando di accoppar-
mi, regolarmente. A te… sta bene?”) Quando lo avevi finalmente in-
terpellato a tal proposito, la sua smorfia te l’aveva fatto rimpiangere.
L’Imperatore aveva detto, circospetto: «Ha stretto un patto, con
un’autorità che io non ho il potere di contraddire, stabilendo di pro-
teggermi da ogni pericolo. E ora gli è stato reso noto che il pericolo
sei tu. Harrowhark, perdonami. Ho bisogno che tu lo affronti – ogni
volta – sapendo che la tua vita è in pericolo…».
E lì si era interrotto, limitandosi a dire soltanto: «Porteresti con te
uno stocco, se te ne dessi uno?».
«A che pro, Maestro? Non potrei usarlo, avendo mal assimilato il
processo Littoriale.»
«Non si sa mai» aveva risposto, e quella era stata la prima volta che
l’avevi visto abbattuto.
«Pensi di aver assimilato male il processo» ti aveva detto il tuo
Maestro, sporgendosi in avanti e incrociando le braccia – con quel-
le maniche sdrucite – sulle ginocchia. «Non credo sia questo il caso,
Harrowhark. Ho visto una sola persona sbagliarlo… radicalmente…
e spero di non assistere mai più a quello che è capitato ad Anasta-
sia e Samael.»
E dunque, senza volerlo, l’avevi anche costretto a addentrarsi nell’ar-
gomento “Anastasia”. Nella Nona Casa non si poteva fare un passo sen-
za inciampare in un Anastas, un’Anastasia o un Anastasius; o, in tem-
pi più recenti, senza incappare nelle loro nicchie. Anastasia era stata la
mitologica guardiana fondatrice del sepolcro, la nonna della Casa e la
protagonista di almeno due poemi di Nigenad («È della remota epoca
d’Anastasia, ch’io canto»). Nelle profondità più recondite c’era il monu-

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mento che portava il suo nome e dove giacevano le ossa sacre degli anti-
chi custodi del sepolcro e dei caduti in battaglia. Scoprire che era esistita
veramente ti aveva scossa nel profondo; le stanze che occupavi – quel-
le stanze vuote, incolori e silenziose – erano state predisposte per lei.
Mentre te ne stavi seduta lì come facevi spesso, muta e immobile,
la statua di te stessa, di fronte all’Imperatore delle Nove Resurrezio-
ni, intrappolata tra l’insofferenza e il piacere di ascoltare le sue paro-
le, lui non aveva aspettato che fossi tu a chiederglielo. Aveva detto:
«Fra tutti noi, solo Anastasia l’ha sbagliato. Aveva fatto troppe ricer-
che. Tipico di Anastasia. Ci aveva visto dentro dei sentieri che sem-
plicemente non esistevano. Una volta – dopo aver ripulito tutto – mi
aveva chiesto di porre fine alla sua vita. Ma le ho ovviamente detto di
no. Aveva ancora così tanto da dare. Successivamente le avrei chiesto
qualcosa di molto più grande e assai più tremendo. Avevo un corpo
e mi serviva una tomba… potresti già essere al corrente del corpo,
Harrowhark, e ancor meglio conoscerai il Sepolcro».
In quel momento, il Corpo era in piedi vicino alla tenda che copri-
va l’oblò di plex che si affacciava sul campo di lenti asteroidi rotanti,
il manto madreperlaceo che le scivolava dalle spalle nude e flessuo-
se, ancora umida come se l’avessero appena estratta dal ghiaccio della
sua tomba. Eri rimasta a guardare una gocciolina d’acqua che le sci-
volava lungo la colonna vertebrale.
«Il sepolcro che doveva rimanere sigillato in eterno» avevi com-
mentato, trovando stranissime quelle parole. «La pietra che non do-
veva mai essere scostata. Quello che conteneva doveva rimanere se-
polto, inerte, con l’occhio chiuso e il cervello immoto. Ho pregato ogni
giorno affinché vivesse, ho pregato perché dormisse.»
La tua voce riemergeva, dragandoti il cervello, che ti dragava il cuo-
re, che attingeva dalle profondità untuose e imbrattate di sudiciume
della tua anima. Gli avevi chiesto: «Dio, chi avete sepolto?».
Maestro si era tormentato una tempia col pollice e poi si era tor-
mentato l’altra tempia con l’altro pollice. Aveva preso un biscotto e
l’aveva inzuppato nel tè ormai tiepido, poi l’aveva mangiato, aveva fat-
to mulinare il tè nella tazza e l’aveva rimessa giù di nuovo. «Ho sep-
pellito un mostro» aveva detto.
Dal lucore dell’oblò di plex, accanto a una tenda di twill bianco asso-
lutamente ordinaria, il mostro sepolto si voltò, lasciandosi rischiarare

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dalla luce delle stelle immortali. La curva della sua guancia… le folte
ciglia nere che le incorniciavano gli occhi dorati… il solco, come l’im-
pronta di un pollice, che le premeva come un bacio sull’arco di Cupido…
ti eri accorta di esserti messa a tremare solo quando Dio in persona si
era allungato per immobilizzarti il polso, in modo che non ti rovescias-
si il tè sulle ginocchia. Ti aveva passato inutilmente un altro biscotto.
«Mangia, non è difficile» ti aveva detto, premuroso. «Prendi-
ne due, mettiamo su un po’ di riserve di grasso. Ti piace la poesia,
Harrowhark?»
«Non sono mai stata una fan» avevi ribattuto con fervore.
«La poesia è una delle ombre più spettacolari che una civiltà può
proiettare nel tempo» aveva detto lui. «Forza… mangia, ti fanno bene.
Ecco qua, farò finta di leggertela dal mio tablet, anche se in realtà è sta-
ta con me per più di diecimila anni. Questa è la mia parte preferita…»
Quella sera, il Corpo aveva acconsentito ad abbracciarti. Eri stata
vicinissima a percepire quelle lunghe braccia cingerti il collo, la vita.
Eri stata così vicina al sentire la pressione di quell’aggraziata fronte
contro la tua, quel corpo affusolato, snello e morto che gelava il tuo
fino a farti rabbrividire, anche se in realtà non percepivi alcuna fred-
da coscia cadaverica aderire alla tua dall’anca al ginocchio. Eri nel Mi-
thraeum da quasi otto settimane. La spada che avevi immerso nel tuo
sangue arterioso era incastonata nell’osso e ti gravava sulla schiena.
Non sapevi più com’era non avere paura.
Con la tua malaugurata buona memoria per la poesia riuscivi an-
cora a sentire la voce di Maestro, in quel suo tono basso, consolato-
rio, banale, che si arrotolava su se stessa nella tua testa:

“Mentre la luna splende già, il sogno


sempre mi porterà

dalla bella Annabel Lee.”


* * *

L’IMPERATORE DELLE NOVE CASE, IL PRINCIPE


IMPERITURO (FU??? JOHN???)
Chi era A.L.?

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La pioggia cominciò a cadere una mattina pre-
sto sulla Casa di Canaan, e non smise più. Nella prima manciata di
ore fu un normale rovescio d’acqua plumbea al quale Harrowhark
si era già abituata, durante la sua permanenza alla Casa di Canaan.
Ormai lo trovava meramente irritante, non più la morte della pace
e del sonno. Verso mezzodì, la nebbia cominciò a ribollire sulle ac-
que dentellate alla base della torre. Si sollevò fino ai livelli inferio-
ri di Canaan e continuò a salire. La nebbia era fredda e pungente
e la pioggia puzzava di lubrificante per motori e sangue; aveva un
sapore indescrivibile. Maestro e gli altri sacerdoti riesumarono dei
grossi compassi ricoperti di tela cerata rattoppata con dei soste-
gni metallici che si aprivano pigiando un bottone, e Harrowhark
e gli altri furono obbligati ad andarci in giro tenendoli sopra la te-
sta anche dentro all’atrio principale, dove l’acqua filtrava dalle pa-
reti e dai soffitti.
All’inizio aveva fatto affidamento solo sul cappuccio e sul velo, la-
sciando che la pioggia la bagnasse dove doveva bagnarla. Ma ben
presto fu costretta a riconoscere quanto fosse diventato difficile far
asciugare gli indumenti. Ortus passava la metà della sua vita a issa-
re tendaggi di tessuto nero nella vasca in bagno. Seppure con mala-
grazia, Harrow fu costretta ad accettare che torreggiasse sopra di lei
reggendo uno di quei marchingegni-ombrello, sottoponendosi all’o-
dioso e aritmico PLIC… PLIC… PLIC-PLIC-PLIC dell’acqua sulla fo-
dera impermeabile. Quel rumore accidentale le creava grandissime
difficoltà: era terreno fertile per la sinfonia fasulla nella sua testa, e
a quelle porte che sbattevano e ai mormorii a malapena udibili degli

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spiriti si univa ora un flebile strillo di sottofondo, che somigliava in


tutto e per tutto al vagito di un bambino appena nato.
«Nulla di tutto questo è mai successo prima» si lamentava Maestro
a tavola, inquieto, come se loro non fossero aspiranti Littori ma so-
lidali ispettori del complesso architettonico. «La stagione delle piog-
ge dovrebbe iniziare solo fra qualche mese. Dovrebbero esserci dieci
gradi in più di quelli che ci sono. Mi è toccato portare dentro tutte le
piante e metterle sotto a una lampada. E questa nebbia… morirò, di
questo passo.» Quella conclusione era diventata una speranzosa ipo-
tesi che, ormai, tirava fuori almeno tre volte al giorno.
Harrow trovò che quel cenno mancasse di cortesia e tatto, special-
mente dopo il ritrovamento di un secondo assortimento di cadaveri.
Non c’erano testimoni da interrogare, quando incapparono nelle
sagome ammantate di grigio di Camilla Hect e Palamedes Sextus, co-
ricate sui piani chiazzati d’acciaio temperato dell’obitorio. Erano sta-
ti deposti lì come se chi li aveva trovati volesse presentarli scientifi-
camente. Che si trattasse di Sextus e Hect fu, almeno da principio,
solo una fondata congettura: indossavano il loro completo grigio da
bibliotecari e uno dei corpi portava il vecchio stocco malridotto che
pareva essere il meglio che la Sesta Casa fosse riuscita a procurarsi
per quell’impresa, mentre l’altro aveva delle macchie d’inchiostro sul-
le dita. Le loro facce erano state disintegrate da colpi d’arma da fuo-
co sparati a bruciapelo.
Una brutta storia. Harrowhark rimase sorpresa dalla propria tran-
quillità, ma finì per accoglierla con gratitudine. Una strana calma tom-
bale era scesa su di lei quando Abigail l’aveva accompagnata la prima
volta a esaminare i corpi. Erano passate rapidamente davanti alla bara
silenziosa del Dormiente tenendo alta la lanterna. Harrow la ammirò
per la sua mancanza di circospezione o silenzio. Harrow aveva sem-
pre visto Sextus o Hect soltanto da lontano e l’impressione che se ne
era fatta consisteva in prevalenza di sintetizzazioni: vestiti grigi, voci
smorzate, angoli. Fu Ortus a piangerli, ma Ortus era stato benedetto
dall’Imperatore con un talento naturale per il lutto. Lo stesso valeva
per sua madre. Entrambi adoravano i funerali, il che per loro era una
vera fortuna, visto che i funerali erano una delle risorse naturali del-
la sua Casa. Quando avevano riportato di sopra i due corpi sfigurati,
con Lady Pent a dirigere le operazioni, aveva visto Ortus, con la fac-

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cia impietrita, versare lacrime stolide, trasformando ancora una vol-


ta le sue pitture sacramentali in un teschio subacqueo.
Per identificarli correttamente, il marito-paladino di Abigail aveva
rimediato l’unica maga corporale che era riuscito a trovare. Reperire
altri maghi, in generale, si stava facendo arduo: le gemelle Tridenta-
rius – il gioiello mattutino e quel sasso notturno – erano così elusive
che Harrow finiva per confondersi anche solo cercando di ricorda-
re dov’è che le avesse viste l’ultima volta. Non c’era abbastanza spa-
zio nell’obitorio gelido del piano di sopra e, visto che la temperatura
in caduta libera assicurava un deterioramento non istantaneo, siste-
marono i corpi senza volto su un telo gommato in sala da pranzo. Fu
lì che il Settimo paladino condusse la sua adepta.
Doveva averli già visti entrambi il primo giorno – quel primo
giorno soleggiato e appiccicaticcio, quando Maestro aveva conse-
gnato loro gli anelli e le chiavi, rivelando la presenza di quella mo-
struosità ultrasopita in cantina – ma Harrow si sorprese a sobbal-
zare quando fecero il loro ingresso. Reagire altrimenti sarebbe stato
complicato. Il paladino era abbronzato e vigoroso, un enorme omo-
ne muscoloso in verde, con un kilt color spuma marina e un cintu-
rone di pelle. Quest’individuo nerboruto spingeva una sedia a rotel-
le lungo una delle ampie corsie che separavano i tavoli. Sulla sedia
giaceva quel che aveva tutta l’aria di essere un cadavere, che strin-
geva un ombrellino di pizzo per ripararsi dagli sgocciolii. Era ador-
nato con un appropriato groviglio di impalpabili gonne bianche e,
in maniera meno opportuna, con una sciarpetta sferruzzata di lana
bianca peluccosa.
Harrowhark conosceva Ortus da troppo tempo per non rilevare il
lieve incurvarsi della sua bocca e la mancanza di stucchevoli pulsioni
suicide nel suo sguardo: era quasi paralizzato dal disprezzo. Era sem-
pre stata convinta che il disprezzo fosse un’emozione troppo stancan-
te perché Ortus potesse prendersi la briga di amministrarla. Il fan-
tasma che reggeva l’ombrello portava i capelli tagliati corti, erano di
un castano pallido e zuccheroso, i riccioli raccolti in un caschetto di
boccoli setosi. C’era una delicatezza gracile in lei – un contegno in-
fantile, denutrito, emaciato – e quando porse l’ombrello al suo pala-
dino, si alzò addirittura in piedi. Il tubicino sottile che le usciva dal
naso era stato assicurato con discrezione al colletto del vestito. Har-

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rowhark non aveva mai visto niente del genere; era un cilindretto esi-
le di rigido tessuto epiteliale mucoso.
«È favoloso, vero?» disse a Harrow, a mo’ di “salve”. Aveva una voce
dolce e melodiosa, solo leggermente affannata. «È un drenaggio bron-
chiale. Mi scende giù fin nei polmoni.»
«Non avevo mai visto nulla di simile» ammise Harrow.
«Non avreste potuto» commentò la Settima necromante, rapita.
«L’ha inventato lui, quando aveva quindici anni.»
A Harrowhark pareva una stupidaggine troppo grossa per poterci
credere, ma non c’erano margini di ambiguità nel gesto di quella don-
na. Con la mano, rivestita da una pelle sottile come carta, stava indi-
cando uno dei cadaveri senza volto, quello sprovvisto di stocco. Non
si sarebbe più dovuta sorprendere scoprendo che le relazioni tra tut-
ti gli eredi delle Nove Case parevano intime, o incestuose, o familia-
ri, o avverse. Non si sentiva esclusa. Si sentì a malapena disallineata
quando Abigail disse: «Sei sicura che sia lui, Dulcie?».
«Lasciami un minuto» fece – a quanto pare – Dulcie. Chi mai avreb-
be permesso di farsi chiamare “Dulcie” in circostanze che non pre-
vedessero la minaccia di tortura per affogamento era una domanda a
cui Harrow non desiderava che l’universo fornisse risposta. «Ho pre-
so un campione dal pomolo della porta; ho due impronte. Se corri-
spondono, quindi, potremo ricavarne qualcosa…»
La persona che rispondeva a quel ributtante Dulcie si riaccomodò
sulla sedia e il suo paladino la spinse accanto a uno dei corpi, e poi
vicino all’altro. Harrowhark la osservò lavorare. Raschiò con delica-
tezza il palmo di ciascuna mano in fase di irrigidimento, all’altezza
del polso – prelevò una porzioncina infinitesimale di ciascuna coscia,
sbottonando entrambi i pantaloni senza arrossire e senza fare nean-
che una smorfia – pulì quel che c’era sotto le unghie («Per la thaler-
gia batterica, sai») e, alla fine, sospirò.
«Quella a sinistra è Cam, quello a destra è Pal» sentenziò, dando
prova del suo desiderio di lastricare il mondo di diminutivi. «È stato
il Dormiente a farli fuori?»
«È solo un’ipotesi» fece Harrowhark, mentre quel bietolone del ma-
rito di Abigail commentava: «Lo spero proprio, che diamine».
«Magnus» disse Abigail, con una punta di biasimo.
«Be’, se non è stato il Dormiente, allora ci sono due pazzoidi con

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un’arma vetusta e una predilezione per le facce sfondate, mia cara»


disse Magnus.
“Pazzoide” non pareva appropriato. La prima uccisione era stata
folle. I buchi che sforacchiavano Deuteros erano molti più del neces-
sario. Questa era stata una pura e semplice esecuzione. Il risultato era
ributtante. Sarebbe stato difficilissimo ricavare un’immagine chiara
di come i visi di Sextus e Hect dovevano essere stati, dato che ormai
erano sparpagliati indiscriminatamente sulla parete dell’obitorio. Da
quello che Harrow era riuscita a ricostruire, e dalla relativa segnatura
temporale delle morti, sembrava che entrambi i rappresentanti del-
la Sesta Casa si fossero posizionati docilmente con le spalle rivolte al
muro, a circa un braccio di distanza l’uno dall’altra, subendo poi una
repentina e forzosa rimozione delle loro facce da distanza ravvicina-
tissima. Prima uno; il secondo o la seconda aveva aspettato; poi l’altro.
Harrow disse: «Il proiettile è fuoriuscito dalla parte posteriore del
cranio e non siamo riusciti a estrarlo dal muro. I frammenti sugge-
riscono un’analogia. Da una parte abbiamo il beneficio del dubbio,
dall’altra la cautela superflua. Per me i Sesti sono stati uccisi dalla me-
desima entità che ha ucciso Deuteros».
«Una tesi che mi vede concorde» commentò Ortus, greve. «Il Dor-
miente, che dormir non sa. Forse sarebbe stato meglio battezzarlo…
“il Risvegliato”.» (Scandagliò il suo paladino a fondo in cerca di una
qualche traccia di umorismo ma, come di consueto, non ne rilevò.)
«Giace in un impervio feretro. Uccide con un’arma leggendaria. Come
possiamo opporci a un tale assalto sovrannaturale?»
Dulcie, con quel nome aberrante, si rigirava fra pollice e indice un
ciuffo bagnato di capelli scurissimi, piuttosto vicino all’orecchio de-
vastato di Camilla Hect. «L’unica cosa che si può fare quando ci si
confronta con un nemico troppo forte…» fece lei. «Combattere come
una bestia intrappolata in un sacco.»
«Concordo» disse quella statua di bronzo che le fungeva da pa-
ladino. «Meglio essere noi a fare la prima mossa. Cos’è “impervio”?
Che cos’è un “feretro”?» (Harrow, con suo sommo stupore, sentì l’uo-
mo più grande borbottare, alle sue spalle: «Sono un aggettivo e un
nome».) «Propongo di riunire tutti i paladini integri per sferrare un
attacco iniziale.»
«E per morire» insinuò Ortus, pensoso.

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«Meglio non morire come sono morti Deuteros, Sextus e Camilla


la Sesta» fece l’omone. «Ma se si pensa al nemico come a un inattac-
cabile chierico delle ombre, allora la battaglia è già perduta.»
Al che, la statua di bronzo si schiarì la gola, e aggiunse:

«Aggrappar mi voglio alla fede nelle mia carne fallace;


Perché pensar dovrei all’astro irraggiante?».

Il paladino di Harrow voltò il capo di scatto per affrontare quell’at-


to di declamazione poetica. Sembrava un uomo che, dalla cima delle
mura, avesse avvistato il nemico alle porte, trovandolo multiforme e
terribile. Fissava il paladino della Settima come se avesse appena ri-
velato di essere il Dormiente e di aver compiuto orridi atti esecrabi-
li con la madre di Ortus, per poi paragonare Matthias Nonius a una
merda secca.
«E dunque questa è la fine che vorresti facesse la tua padrona» dis-
se il tuo spadaccino ammantato di nero, «con il proprio paladino cri-
vellato di colpi, innanzi a una cassa che non si apre?»
«Un’ipocrisia avvincente, per un cavaliere nero del Nono sepolcro»
commentò il suo altrettanto tedioso avversario.
«Molto bene, signori» fece Magnus Quinn, con un tono di un’al-
legria forzatissima. «Protesilaus, se non sbaglio. Non mi sbaglio?
Bene… con tutto il rispetto, non concordo né con l’uno né con l’al-
tro. Nono, sei un uomo troppo rispettabile per coricarti lì in attesa
che qualcun altro muoia. Settimo, l’ultima volta che ho attaccato una
cassa che non riuscivo ad aprire, era il mio compleanno e mia moglie
aveva annodato il fiocco troppo stretto. Stiamo tutti dalla stessa par-
te, per quanto ci è possibile. Duchessa Septimus. Reverenda Figlia.
Luogotenente Dyas. L’unione fa la forza. “Divisi cadiamo”, o almeno
così recita il proverbio.»
«Non so quanto riuscirò a fare» confessò Dulcie, che con ogni pro-
babilità doveva essere la “Duchessa Septimus”, e che aveva arriccia-
to il naso quando un gocciolone di pioggia ci era precipitato sopra.
Il rilucente Protesilaus le cacciò l’ombrello sopra la testa. «Io… non
mi sono mai veramente cimentata… non che ci fosse molto da dimo-
strare, a Rhodes. Quando sono venuta qui ho pensato che fosse arri-
vata la mia opportunità per fare qualcosa.»

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Terminò quel discorsetto piuttosto disarmante giocherellando con


una piega delle sue virginali gonnelle bianche. Harrowhark disse, sec-
ca: «Prestate ascolto al vostro primo istinto. Avete un tubo nel petto
e riuscite a malapena a camminare».
«Da quando sono arrivata qui mi sento molto meglio» rispose Dul-
cie, sulla difensiva. «Ho tossito di tanto in tanto, ma è più che altro
per fare scena… vero, Pro?»

«Non confondere il disgelo per la primavera.


Il nostro boccio è ancora incerto»

declamò il suo paladino.


Harrowhark evitò deliberatamente di osservare l’incandescente
vampa omicida che stava attraversando lo sguardo del suo, di pala-
dino. Ma c’era anche da dire che, perlomeno, controbilanciava la sua
tristezza greve e pastosa come il porridge. Doveva essere un trauma
assistere all’usurpazione dell’unico tratto di personalità che mai ave-
va coltivato da parte di un tizio che sembrava l’eroe dei suoi stessi
poemi epici. Ma era più interessante ancora osservare Abigail Pent
– guardare quelle mani affusolate e segnate dal lavoro che rigirava-
no gli avambracci e i gomiti del corpo che, all’apparenza, doveva es-
sere stato Palamedes Sextus, passandolo al setaccio. «Nessuna ferita
difensiva» aveva mormorato Pent. «Proprio come Judith… chissà.»
Il vento si era fatto più sostenuto. Si mise all’improvviso a ululare
contro la copertura vetrata del tetto, soffocata dai rampicanti, trasci-
nando nella sua scia una mitragliata violenta di pioggia. Per un istan-
te, Abigail fu scossa da un brivido. Poi raddrizzò la schiena e giunse
le mani, come se stesse facendo lezione a una classe di bambini riot-
tosi. «Dobbiamo affrontare questa faccenda insieme, ci riguarda tut-
ti» disse, avanzando una supposizione tipica della Quinta Casa. La
Nona riteneva che nessuno dovesse affrontare qualcosa con qualcun
altro e, se proprio, era meglio disperdersi quanto più in fretta fosse
umanamente possibile per evitare danni collaterali. «Comincio a so-
spettare di aver capito dove si nasconda il pericolo. O, perlomeno,
posso contare su una supposizione assolutamente infondata – ma,
come ogni studioso sa bene, è proprio da quello che si comincia. Dul-
cie… Lady Dulcinea, posso domandarvi la cortesia di portare qui da

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noi Silas Octakiseron? Nei miei confronti è cieco e sordo, ma a voi


potrebbe dare retta.»
«D’accordo» disse la donna in sedia a rotelle, tamponandosi me-
ticolosamente il naso con la sciarpetta all’uncinetto, facendo atten-
zione a non disturbare il sondino. «La richiesta non mi entusiasma,
ma non sarò di certo io a rifiutarmi di fare qualcosa, se a domandar-
melo è la celebre Abigail Pent. E siete anche stata gentile con Cam e
Pal. Lo farò.»
Abigail disse: «Magnus, puoi chiedere alla luogotenente…». («Per
te qualsiasi cosa, persino quello» ribatté lui prontamente.) «… e, Re-
verenda Figlia, se potete, quando potete… a Coronabeth Tridenta-
rius. E a sua sorella, ovviamente» aggiunse, anche se Harrowhark tro-
vò quell’aggiunta un po’ tardiva. «Insieme al loro paladino. Ripeto, se
potete. Non sono riuscita a controllare… ma mi prenderò anche gli
scarti. Chiedete a tutti di stare alla larga dal complesso e di spostarsi
in gruppo. E scoprite chi è che ha le stanze con meno infiltrazioni»
aggiunse, presa dall’ispirazione, «così potremo sistemare i materas-
si, visto che – informazione gratuita – siamo allagati.»
Lasciarono ai paladini il compito di trasferire il corpo senza volto di
Camilla Hect nel gelido obitorio – Abigail aveva liberato le tasche del-
la paladina da tutti i suoi effetti personali, e li stava analizzando come
se fossero un cruciverba – e la necromante corporale intubata spinse
la sua sedia a rotelle fino ai resti macabri del ragazzo smilzo della Se-
sta. Aveva un aspetto assolutamente normale, a parte dal collo in su.
«È così che è andata, Lady Pent?» domandò, contrita.
Abigail sollevò una fettuccia di pelle che doveva essere appartenu-
ta al quadrante di un orologio e disse, comprensiva: «No. Non è così
che è andata».
«Le cose… miglioreranno? Voi lo sapete?»
Non parve a Harrow una domanda a cui si potesse dare risposta,
mai. Non la comprese del tutto. Ma la Settima adorava fare doman-
de sublimi quanto impossibili da affrontare. Quell’allusione obliqua
non suscitò alcuna reazione nell’altra donna, che si era tolta gli oc-
chiali per esaminare un pezzo di cera graticolato e un frammento di
filo da rammendo. Harrowhark si sentì obbligata a dare un’occhia-
ta agli oggetti che erano stati sfilati dalle tasche del Mastro Guardia-
no: una pezzuola di tessuto soffice per pulire gli occhiali, una penna,

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una piccola lente d’ingrandimento pieghevole, un foglietto accartoc-


ciato di velina. Quando i paladini arrivarono per portare via anche
il Guardiano (più leggero della sua paladina: per sollevarlo bastaro-
no solo Magnus e il Settimo, Protesilaus, con Ortus che stazionava
al loro fianco), la ragazza inchiodata alla sedia si lasciò scappare un
singultino addolorato.
«Oh, addio!» esclamò all’improvviso, rivolta al cadavere sorret-
to a mezz’aria. «Addio, Palamedes, mio primo filo… addio, Camil-
la, o mia seconda… una corda è stata sopraffatta, due corde avreb-
bero potuto difendersi, ma tre non verranno mai spezzate… né dai
vivi né dai morti.»
Harrowhark sentì all’improvviso qualcosa, nel suo nucleo più pro-
fondo, anche se non era in grado di identificare con precisione di cosa
si trattasse. La sua capacità di sentire si era in qualche modo attuti-
ta, lì alla Casa di Canaan, lasciandole solamente un senso di nostal-
gia dislocata, un bizzarro struggimento… come se stesse sfogliando
le pagine di un libro in cerca di un passaggio che ricordava ma che
non riusciva a trovare. Si concentrò su quello che aveva per le mani,
invece che sull’addio di un’estranea ad altri due estranei.
Il foglietto di velina era così appallottolato che somigliava a una
specie di grossa pillola. Si tolse i guanti e, con la punta delle unghie
– mangiate fino all’osso e mai di grande aiuto – cominciò a sollevare
un angolino accartocciato. Con sua totale sorpresa, un’ombra densa
apparve a torreggiare su di lei: il suo primo paladino posò una mano
guantata di nero sulle sue, nude.
«Harrowhark, mia Signora» sussurrò Ortus, «magari… forse non
dovreste… per precauzione.»
«Presumi troppo» sbottò lei.
Lui si ritrasse. «L’ho sospettato spesso» commentò con mestizia.
Quando approdò in corridoio, con la pioggia che penetrava in puz-
zolenti raffiche spruzzanti dal tetto e dai muri sforacchiati e Ortus
che la seguiva a tre quarti di passo di distanza, era quasi riuscita ad
aprirlo completamente. Anche del tutto spallottolato, restava gib-
boso e increspato per essere rimasto compresso così a lungo. Lesse:

LUI LO AMMAZZERÒ ALLA SVELTA PERCHÉ È STATA


LEI A CHIEDERMELO E PERCHÉ ALMENO QUELLO SE LO

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MERITA A VOLER ESSERE ONESTI MA VOI DUE MAGHI


MUMMIFICATI DI MERDA VI FARÒ BRUCIARE BRUCIARE
E BRUCIARE FINCHÉ NON RESTERÀ TRACCIA DI VOI
NEMMENO NELL’OMBRA DEL MIO REMOTISSIMO SOLE
NATIO PERDUTO.

«È un disegno della lettera S» disse la voce profonda e solenne


che aleggiava sopra la sua spalla e lei si rese conto di essersi fermata
di botto. «Il carattere in questione è costituito da sei tratti brevi di-
sposti verticalmente a tre a tre. Ci sono due triangoli – uno in cima
e uno sotto – che, insieme ad alcuni segni diagonali, formano una S
calligrafica.»
«Nigenad» fece Harrowhark, senza voltarsi. «Non te l’ho chiesto.»
«Tre persone sono morte, Harrowhark, mia Signora» rispose il suo
paladino. «Una era una necromante d’alto grado della Coorte. Due
erano esponenti dell’enigmatica Sesta Casa, più avvezza all’erudizio-
ne e alla conoscenza che alle abilità marziali. Dovrò agire solo obbe-
dendo al vostro comando, quando il Dormiente verrà a cercare me?»
«Avevi in programma di fare altro, a parte coricarti per terra e cre-
pare?» rispose lei, aspettando la rabbia; anelando la rabbia; sperando
almeno in un simulacro della rabbia. «Che cosa pensi di poter fare,
Ortus? Avevi una strategia, a parte fermare i proiettili col tuo corpo?»
«Rientrerebbe nelle predisposizioni familiari, concordo» commen-
tò Ortus. «Mio padre è morto, semplicemente perché vostra madre e
vostro padre gliel’hanno chiesto. Si è tolto la vita insieme ai vostri ge-
nitori quando gli hanno porto la corda, nonostante a casa avesse una
moglie e – sempre che ne fosse conscio – anche un figlio.»
Harrow abbassò la velina, più per istinto che per intenzione. Si vol-
tò per guardare Ortus dritto in faccia, al meglio delle sue possibilità,
visto che reggeva quell’ombrello sopra la testa e aveva il cappuccio
zuppo di pioggia mezzo appiccicato al cranio. Il suo teschio dipin-
to era ormai ridotto a un tristo miscuglio di neri e grigi alabastrini.
Squadrò quella faccia lardosa a corto di riposo, i suoi occhi profon-
di, del nero del Drearburh. Non erano veramente neri, come aveva di
solito dato per scontato: lì nell’ombra riusciva finalmente a scorgere
uno scuro sottotono terroso, come le zolle rivoltate del suolo arric-
chito dei loro campi. I suoi lineamenti adulti le apparvero all’improv-

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viso decrepiti. Voleva lasciarsi prendere dal panico, voleva percepire


le coltellate gelide della disperazione.
«Lo sapevi» gli disse. «Hai sempre saputo che Mortus il Nono è
morto per ordine loro.»
Il viso di Ortus cambiò. Con le iridi nere e la pittura pasticciata, si
lasciò sfuggire per una seconda volta un’espressione sprezzante. La
guardò come se la trovasse tediosa. La guardò come se non sapes-
se chi aveva davanti. Il suo disprezzo fece richiudere con un tonfo le
porte che sentiva nelle orecchie, in una sinfonia di suoni insondabi-
li. La guardò come se fosse una neonata berciante; come se non gli
avesse rivolto la parola, ma spalancato invece la bocca per vomitare.
«Harrow» tagliò corto, «non sei l’unica persona che sa fare due più
due per arrivare a quattro.»
Ogni possibilità di ribattere fu annullata da un improvviso scro-
scio di pioggia da una finestra sfondata. Una cascata d’acqua brodo-
sa filtrò dalle fauci di vetro. L’acqua trascinò con sé un’accozzaglia di
oggetti di un acciaio brunito lampeggiante, che si accumularono in
una montagnetta scombinata sulla passatoia disposta lungo il corri-
doio della Casa di Canaan. Quando si assestarono, lei e Ortus rima-
sero a guardare quell’assortimento di voluminose pipette, erano del
genere più resistente, di plex spesso con la scala graduata su un lato.
«Potrebbe esserti utile sapere se le vedo anch’io?» domandò Ortus
umilmente, dopo una lunga pausa falciata dalla pioggia.

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La notte dopo aver ucciso il tuo tredicesimo pia-
neta, eri stata tormentata da un sogno: eri a cena e di fronte a te se-
deva il Corpo. Era una situazione preferibile alle consuete tribolazio-
ni dell’ora di cena, con i partecipanti tutti avvolti negli inconsistenti
manti Canaaniti madreperlacei che aderivano a Mercymorn come la
luce delle stelle, rendevano Augustine etereo e Ianthe itterica, men-
tre riducevano te a una specie di pastinaca sacrificale; l’ordalia in cui,
se non mangiavi abbastanza, l’Imperatore delle Nove Case ti intima-
va, gentile: «Ancora un paio di cucchiaiate, Harrowhark» mentre Ian-
the non riusciva a sopprimere un ghigno. Ma nel sogno portavi le tue
spesse vesti scure della Nona Casa e davanti a te sedeva soltanto il
mostruoso cadavere del Sepolcro Sigillato, che indossava la camicio-
la sgualcita e le braghe nere di una penitente particolarmente sciatta.
Entrambe portavate le pitture teschiate sacramentali e discorrevate
serenamente di piccolezze – anche se a te sembrava che contassero
moltissimo. E non c’era nessuno che ti costringeva a mangiare.
Ma poi il Corpo ti aveva squadrata con quei suoi occhi diretti e in-
calcolabili e aveva detto: «Harrowhark. Svegliati».
«Prego?»
«Svegliati. Subito.»
Avevi spalancato gli occhi verso quel soffitto che Anastasia, dipar-
tita ormai da tempo immemore, non aveva mai visto, arrotolata nelle
lenzuola in cui lei non aveva mai dormito. Gli spessi tendaggi isolan-
ti a schermatura che coprivano i finestroni di plex facevano sprofon-
dare gli alti soffitti in un’eternità di ombre e tu riuscivi a malapena a
percepirti le mani davanti alla faccia. Ti eri scrollata di dosso la tra-

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punta. Avevi freddo sotto alla camicia da notte, che ti stava già corta
di gamba quando eri partita per la Casa di Canaan e che ora era an-
cor più misera. Con l’esoscheletro che raspava sonoramente in quel
silenzio nero, avevi preso la spada foderata d’osso dalla posizione che
occupava nel letto accanto a te, come un’amante. L’avevi sollevata, ap-
poggiandoti la lama rivestita sulla spalla, di piatto, le mani avvolte a
coppa attorno all’estremità del manico – sempre pomolo, si chiama –
ma senza allacciarti lo stocco che l’Imperatore ti aveva dato.
Fuori dalle tue stanze, in corridoio, c’era più luce. La bassa pan-
nellatura gialla e splendente proiettava deformi ombre scheletriche
su e giù per i monumenti alla memoria del Mithraeum. Erano stati
smorzati fino ad assumere quella tenue sfumatura azzurro-ambrata
che si confaceva alle ore dedicate al sonno, trasmettendo consisten-
za più che visibilità. Per i tuoi occhi abituati al Drearburh, comun-
que, il corridoio era inondato di luce. Ecco perché l’avevi vista così
nitidamente.
Era ferma nel punto in cui il passaggio curvava, suppergiù a una
quindicina di metri da te. Delineava ombre strane in quel tenue chia-
rore giallo e freddo, il delicato bagliore candido della veste che splen-
deva come una lama di luce nell’acqua verde. Nei pallidi riccioli ca-
stani c’erano ancora rimasugli di petali e i suoi occhi erano troppo
scuri perché si potessero distinguere, ma ti ricordavi di quell’azzur-
ro da incubo. Cytherea ti aveva vista, si era girata verso di te e aveva
cominciato ad avanzare.
Quell’andatura! Quell’andatura strascicata, sconcertante e stri-
sciante! Il corpo faceva oscillare le braccia in avanti per darsi slancio,
le cosce rigide e le ginocchia bloccate, il braccio destro che si sposta-
va a tempo con la gamba destra, ridicolo, agghiacciante. Quelle dita
morte, fossilizzate, afferrarono un braccio ossuto avvolto in una pati-
na di foglia d’oro, con le nocche tempestate di ametiste come un nu-
golo d’occhi, e lo fecero cadere per terra. Cytherea ci inciampò – sen-
za che la testa smettesse di puntare verso di te, quegli occhi sbarrati
incollati ai tuoi – e il corpo si spalmò, sussultando sul pavimento. Il
cadavere cominciò ad avanzare come un verme, sospinto in avan-
ti dall’azione delle gambe, gli avambracci che sbatacchiavano sulle
piastrelle, speronando le ossa benedette di chissà quale fedele cadu-
to fino a levarle di mezzo, come se niente fosse. Pareva che una cala-

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mita fosse stata conficcata in quella carne, una calamita che brama-
va una forza polare dentro di te.
L’accrocchio si avvicinò, strisciando. Tu eri una Littrice consa-
crata: Harrowhark la Prima, nona necrosanta del Re Imperituro,
erede di un potere conquistato a caro prezzo che bruciava dentro
di te come una fusione. Definirti una delle necromanti più poten-
ti dell’universo non sarebbe stato un atto di arroganza. Avevi lan-
ciato un’occhiata a quell’inesorabile e mostruosa diatriba di arti e
te l’eri svignata.
Eri tornata precipitosamente nei tuoi alloggi e avevi chiuso la porta.
Ti eri grattata l’interno della bocca – cavando sangue con le unghie,
morsicandoti la lingua – e avevi spalmato la tua saliva arrossata sulla
porta, tracciando frettolosamente i vortici di una barriera sanguigna,
spingendo senza riflettere anche una seggiola sotto alla maniglia. Ti
eri buttata per terra, col cuore che si dimenava contro le sbarre della
prigione della tua cassa toracica.
C’era solo silenzio. Il tuo corpo era la fonte principale di rumore:
il tuo respiro strozzato, il sangue che pompava chiassoso, i denti che
stridevano. Tutto il resto rimaneva in un buio e in un silenzio profondi.
E poi, dalla porta, quella porta sigillata da una barriera che avreb-
be dovuto rovesciare i suoi teoremi verso l’esterno al minimo tocco
di una magia estranea – dalla porta arrivò il suono flebile di qualcu-
no che gratta l’acciaio con le unghie. La maniglia si abbassò sull’inte-
laiatura, colpì la sedia e si bloccò.
Un vasto silenzio, oleoso. Poi un altro po’ di quel clangore dispe-
rato. E dopo: il nulla.
Non eri in grado di stabilire per quanto tempo fossi rimasta cori-
cata sulle fredde mattonelle di vetro, la fronte schiacciata in un tur-
bine rosso contro il vetro d’ossidiana limpida, un pugno aggrovigliato
nella trama grossolana del tappeto. Eri riuscita a misurare il trascor-
rere del tempo solo quando le impostazioni abitative si erano rimesse
in moto e i pannelli distribuiti per la stanza avevano diffuso l’illumi-
nazione pre-risveglio all’obiettivo di imitare un’alba circadiana. Ave-
vi freddo e tremavi sotto all’esoscheletro, con le cuticole ossee che ti
tartagliavano contro la pelle. A un certo punto ti eri alzata in piedi,
meccanicamente, ed eri tornata a stenderti a letto. Non c’era nient’al-
tro che potessi fare.

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Era improbabile che dessi l’impressione di aver dormito. Quando ave-


vi ritenuto che fosse sufficientemente tardi – almeno in base a una
concezione condivisa di mattino – ti eri infilata il manto di madre-
perla e avevi bussato a Ianthe. Non era abbastanza tardi; era venuta
a rispondere dopo un lungo minuto ingarbugliato, con gli occhi as-
sonnati e i capelli che le cascavano sul collo e sulle spalle in nodi pal-
lidi e spioventi. Indossava uno sconvolgente indumento di chiffon
violetto, cortissimo.
Le avevi detto, all’istante: «Septimus va in giro».
Ci aveva messo un istante ad afferrare quel nome, che non era mai
appartenuto a Cytherea. Dopo un lungo momento, il bagliore della
comprensione aveva attraversato quegli occhi azzurri adulterati; ave-
vi visto la consapevolezza rimpiazzare la burbera irascibilità mattuti-
na; l’avevi vista sbiadire sotto al peso di una noia soverchiante e ave-
vi capito che Ianthe non ti avrebbe aiutata.
«Dille che rivoglio il mio braccio» aveva commentato, sbattendo-
ti la porta in faccia.

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ATTO TERZO
ACT ONE

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QUATTRO MESI PRIMA DELL’ASSASSINIO DELL’IMPERATORE

Eri consapevole, come una mano immersa nell’ac-


qua fredda che si accorge troppo tardi che l’acqua ha cominciato a
bollire, dell’atmosfera di vasto disagio che avvolgeva il Mithraeum.
C’è anche da dire che solo un idiota conclamato non se ne sareb-
be accorto. Quando eravate stati tutti convocati per una di quelle vo-
stre interminabili cene, per le quali Augustine ti suggeriva di “vestir-
ti bene” – che per te significava indossare il manto di madreperla in
ottemperanza alla ritualità, e che Ianthe interpretava sentendo la ne-
cessità di indossare sotto al manto dell’altra roba, roba indegna di es-
sere guardata, raccogliendosi in cima al cranio la massa pallida di ca-
pelli, mentre Dio non si era mai presentato con una camicia che non
avesse disperatamente bisogno di un colletto pulito –, era diventato
di un’ovvietà brutale. I Littori, ormai, cenavano con gli occhi incolla-
ti ai propri tablet. Di tanto in tanto, Mercymorn espandeva la proie-
zione di una mappa sistemica dello spazio circostante, triangolando
elementi che gli anziani analizzavano accigliati, discutendo in moda-
lità che non includevano te o Ianthe. Molto spesso voi due cenavate
in un silenzio tombale mentre – per riprendere l’astiosa definizione
di Ianthe – gli adulti parlavano.
Ti capitava di imbatterti in Augustine, da solo, nella sala d’addestra-
mento. Non faceva nulla di così pedestre e rassicurante come eserci-
tarsi, ma si guardava attorno – camminava avanti e indietro – riflet-
teva sulla possibilità di impugnare lo stocco, poi accantonava l’idea e
se ne andava. Augustine aveva passato gli ultimi diecimila anni ad al-

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lenarsi. Non sapevi neanche quale fosse la sua idea di “allenamento”.


Più di frequente con lui ci trovavi Ianthe, impegnata a eseguire la sua
solita trafila con la manualità grossolana di un ciocco di legno, che
mal si intonava al suo atteggiamento. Sul suo viso era perennemente
stampata un’espressione di sublime e coriacea resa, come a comuni-
care: “L’hai capito che non ci riuscirò mai, vero?”.
Dal canto tuo, ti avventuravi là dentro solo nelle ore piccole del-
la notte, troppo tardi perché qualcuno fosse ancora in piedi. A quel
punto, restavi in camicia, esoscheletro e pantaloni e, scalza, regge-
vi davanti a te lo spadone a due mani, sollevavi la punta e poi la ab-
bassavi, eseguendo una lunghissima e indicibilmente tediosa serie di
movimenti minimi, cercando di sentirti normale, cercando di capire.
Ti impegnavi davvero, in una maniera che avrebbe spezzato il cuore
a un qualsiasi spadaccino serio. Anche se ora le tue braccia rispon-
devano con più destrezza, anche se riuscivi a sollevare l’arma e sfer-
rare lentamente un colpo, non saresti comunque riuscita a salvarti la
vita, se fossi capitata tra le grinfie di un Araldo – un’entità che nes-
suno dei tuoi insegnanti aveva ancora trovato il modo di descrivere.
«Immagina» aveva detto Augustine, meditabondo, quando gliel’ave­
vi domandato, «immagina… il peggior tipo possibile di ape, ma con
un nonsoché di sanguinario, come se sapessi da sempre che si trat-
ta di un insieme molteplice di sangui. E qua parliamo di almeno tre
tipi diversi di sangue.»
«L’ultima volta che ne ho combattuto uno, ho tenuto gli occhi chiu-
si» aveva aggiunto Mercymorn, concludendo con una battuta finale
che considerava un trionfo: «E quando li ho riaperti mi sono accorta
che… ero riuscita comunque a farlo sanguinare!!!».
«Io gli Araldi li ho visti di rado, sai?» aveva risposto Dio, quando
finalmente eri andata a interrogare anche lui. «Ogni volta che arriva-
no mi isolo in un sacrario sigillato nel cuore del Mithraeum, in modo
che la loro follia non possa toccarmi. Nonostante tutta l’insonorizza-
zione che c’è, però, li sento… li sento sempre.»
Avevi detto: «Mio Signore…».
«Maestro…»
«La Santa della Gioia sarà attiva, quando saremo tutti nel Fiume»
avevi proseguito. «Anche il Santo del Dovere e il Santo della Pazien-
za. E Ianthe. Quattro Littori, che combattono con il perfetto braccio

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armato dei loro paladini. Maestro, abbiamo l’assoluta certezza che


morirò? Sarò dormiente, lo so, ma loro non saranno sufficienti per
proteggere i nostri corpi, mentre distruggiamo il cervello?»
«Ianthe è ben lontana dall’essere un perfetto braccio armato.»
Non sapevi perché, ma l’avevi difesa: «Sarà all’altezza della situa-
zione, Maestro. Lo fa solo per atteggiarsi».
«Non possiamo permetterci di atteggiarci» disse lui, ma sulle lab-
bra spossate c’era un accenno di sorriso. «Ianthe la Prima è una sor-
presa continua, per me. Se dovessi sdoganare un quarto epiteto, la
chiamerei la “Santa dello Sbalordimento”.»
Ti pareva che la cosa non si addicesse molto a Naberius, anche se
ormai ti risultava difficile ricordare il Principe di Ida. Era una faccia
e un paio d’occhi, e ben poco altro. Era come se il tuo cervello aves-
se ricoperto con una crosta tutto quello che ti era capitato. Ma avevi
insistito: «Mio Signore, non è certo che morirò».
Non aveva corretto quel “Mio Signore”. In quegli occhi inconcepi-
bili, petroliferi e lucenti, avevi scorto un guizzo che non sapevi deci-
frare. Dio aveva detto: «Harrowhark, in merito a quello e in merito a
tutto il resto, quel che posso dirti è che vivo nella speranza. E anche
che devi continuare a esercitarti con lo stocco».
E allora continuavi a esercitarti con lo stocco. In una di quelle tar-
de serate, mentre tornavi nei tuoi alloggi col cuore afflitto e i piedi
scalzi, grondante di sudore e con le braccia che gridavano vendetta
in tutti i punti sbagliati, le dita arrossate e spellate sotto i loro rive-
stimenti di cartilagine, eri arrivata all’atrio col pilastro carnoso che
precedeva l’anello abitativo e ti eri accorta che l’autoporta della tom-
ba di Cytherea era chiusa. Non era mai chiusa. Quella porta aper-
ta, come una ferita, e il lieve odore delle rose perpetue che sembrava
sempre diffondersi da quel monumento terribile erano una costan-
te. Ma ora era chiusa.
Ti eri fermata davanti alla porta, tornando a sentire la pacata in-
giunzione del tuo Imperatore: “Magari… evita”. In una maniera estre-
mamente concreta, aveva ragione. Non capivi a sufficienza le tue pau-
re per affrontarle. Non sapevi nemmeno se fossero reali. Quando eri
una bambina e ti fissavi su qualcosa che credevi di aver visto o sen-
tito, Crux ti diceva: «Avete visto quel che avete visto, mia Signora, e
l’unica cosa che potete controllare ora è la vostra reazione in merito».

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Avevi visto quel cadavere che camminava. Ora avresti reagito. L’ac-
ciaio della porta era vicinissimo alla tua faccia, appannato dal tuo fiato.
Con un movimento repentino, l’avevi aperta con una spinta.
Ti eri ritrovata di fronte a Ortus il Primo, la schiena scoperta rivol-
ta a te. Portava un paio di pantaloni del pigiama di flanella morbida,
nient’altro. Riuscivi a vedere gli sporgenti nodi tumorali della sua spi-
na dorsale, i fasci di muscoli che gli sormontavano le spalle. Il corpo
inerte di Cytherea era stato tirato su in piedi, con le dita che penzo-
lavano sull’avambraccio di lui, il candore del viso da colomba morta
mezzo coperto da quello di lui, i petali di rosa ridotti a un giallo ca-
rico, schiacciati dai piedi di lui. Sosteneva col palmo il collo di lei, lo
stelo di un giglio; la pressione delle sue dita su quella pelle spenta era
così delicata da non lasciare il minimo segno. Tu, che eri ormai così
abituata a quelle mani e a tutti i loro atteggiamenti più violenti, non
le avresti mai credute capaci di una delicatezza simile. Le rendevano
aliene al resto dell’uomo. E la stava…
Un calore scarlatto ti aveva invaso il collo, fino alla punta delle
orecchie. Il Littore che così spesso aveva cercato di ucciderti non si
era voltato, anche se in una frazione di secondo avevi già ispessito il
tuo esoscheletro raddoppiandone la densità, foderandoti il cuore con
spessi strati di smalto.
Ortus si era irrigidito a tal punto che le scapole stavano rischian-
do realisticamente di perforargli la schiena. Era diventato un’unica,
enorme gobba. Eri paralizzata in un vortice di confusione adrenalini-
ca, pronta a fronteggiare soltanto un suo inevitabile scatto omicida:
non eri pronta a gestire il tono di voce così poco Ortusesco che ave-
va usato per dirti, con calma, continuando a rivolgerti quella schiena
così vulnerabile: «Chiudi la porta, e vattene».
Avevi chiuso la porta. Te n’eri andata.
«Ho sorpreso il Santo del Dovere in un grave atto lussurioso» ave-
vi riferito a Ianthe circa un minuto dopo: nemmeno lei dormiva, ma
era seduta a letto con la lampada accesa, a scrivere annotazioni in-
garbugliate su un piccolo diario.
«Oh mio Dio» aveva commentato la Principessa di Ida. Sembrava
affascinata. Alla luce della lampada, le borse sotto ai suoi occhi risul-
tavano assai pronunciate. Due torsoli di mela giacevano in uno stato
di odorosa e perpetua decomposizione sul comodino: i suoi tentativi

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di arrestare il decadimento avevano fatto ammirevoli progressi. «Il


più classico dei vizi. Il più antico peccato delle scritture.»
«Tutti i maghi corporali» avevi commentato, gelida, «andrebbero
affogati nel sangue bollente.»
«Non dirmi che alla Nona non vi siete mai…»
«Da noi no.»
«Ah, ma mia cara e ingenua…»
«No.»
«Lasciamo perdere. Ma la stava proprio…?» (E qui aveva fatto un
gesto diabolico con le mani, che ci avevi messo un attimo ad afferrare.)
«Hai presente, no? Necrofilia turgida. Quell’atto d’amore che non
osa pronunciare il suo nome?»
Le avevi spiegato quello che avevi visto e lei aveva minimizzato
all’istante, leggermente avvilita.
«Oh, quello. E chi non l’ha fatto» aveva commentato Ianthe, ria-
prendo il quadernetto. Di qualsiasi cosa si trattasse, necessitava di
calcoli matematici decisamente sostanziosi. «Che noia. Sei entrata
troppo presto, ovviamente. Perlomeno adesso sai chi è stato a spo-
starla… per così dire.»
Dopo aver agitato le sopracciglia con aria polemica, era tornata a
dedicarsi alla sua matematica, senza più manifestare interesse. «Buo-
nanotte, Harrowhark.»
Non avevi intenzione di lasciarti sminuire con una simile disinvol-
tura. Eri rimasta lì in piedi, con il sudore che ti si raffreddava sotto
la camicia e la pelle che si appiccicava all’esoscheletro e avevi detto:
«Non sono le predazioni di un uomo malvagio a far andare a spas-
so Cytherea».
Ianthe aveva chiuso il taccuino, appoggiando brevemente la testa
pallida contro l’altiera del letto. «Un uomo malvagio» aveva mormora-
to tra sé e sé. E poi: «Io ci uscirei col Santo del Dovere. Nonagesimus,
questo non è il momento di interrompere dei Littori perfettamente
cresciuti mentre sono impegnati in un atto che, forse, a loro risulta
del tutto normale dopo aver passato diecimila anni con un ventaglio
di possibilità romantiche così limitate – dovresti sentire un po’ della
roba che mi ha raccontato Augustine, santo Dio! – e non è nemme-
no il momento più appropriato per sbandierare il fatto che non sei
solo un fallimento, ma anche un fallimento pazzo».

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«E tu non dovresti sbandierare la tua estrema mancanza di imma-


ginazione» avevi ribattuto. «Tridentarius, la mia posizione non è pre-
caria al punto da permettermi di ignorare quello che mi capita da-
vanti agli occhi.»
«Vero, ma… stavano proprio…?»
«Non presumere di sapere di che cosa stai parlando.»
«La tua posizione è precaria, cara mia» aveva detto Ianthe, allun-
gando il braccio sinistro per posare il taccuino sul comodino. «Lo sa-
pevi che Maestro ha chiesto a Mercymorn se potevano ficcarti nel
suo rifugio, mentre noialtri andremo a caccia della Bestia? Mercy-
morn ha detto di no, perché c’è un motivo se decomprimono quel-
la camera… o magari gli è venuto in mente che sarebbe carino asfis-
siarti di persona.»
Avevi ribattuto: «E tu lo sapevi che Maestro ti ritiene “ben lonta-
na dall’essere un perfetto braccio armato”?». Vedendo la sua espres-
sione, avevi aggiunto: «Di mio, nutro un odio viscerale per il pettego-
lezzo impiegato come insulto, ma mi sembra la tua arma principale
nella nostra conversazione».
La bocca di Ianthe si era ridotta a una fessura violacea: aveva la
pelle sbrindellata, ti eri accorta. «Ha usato proprio quelle parole?»
«Morirò, non è un segreto» avevi detto tu. Ma non avevi alcuna
intenzione di darti per vinta. Non eri mai morta prima. «Prender-
mela con te è uno sfogo, molto probabilmente. Ciononostante, sì, te-
stuali parole.»
Era rimasta lì, con lo sguardo perso nel vuoto, gli occhi fissi sul gi-
gantesco quadro del Littore scomparso da tempo immemore, il Litto-
re che considerava facoltativi gli indumenti. «Dio è una testa di caz-
zo» aveva mormorato.
La forza della rabbia istantanea che avevi provato ti stupì. Eri allibi-
ta dalla sua intensità. Ti eri sganciata lo spadone dalla schiena: i polsi
non erano proprio nella posizione giusta, ma era un buon tentativo.
La superficie opaca e calcificata della spada risucchiava la luce del-
la lampada, proiettando strane ombre sul piumino imbottito. Avevi
esclamato: «Non proferire blasfemie in mia presenza».
«Non minacciarmi con quell’aggeggio ridicolo. Non sai neanche
da dove viene.»
«È stato Dio a darmela.»

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«E non ti sei mai chiesta perché?»


Al tuo cervello erano bastate quelle mere sette parole per insorgere.
Qualcosa di caldo e spesso ti aveva invaso il fondo dei seni paranasali
– non provavi quella sensazione da lunghissimo tempo, non ti eri mai
avvicinata a sufficienza al tuo limite perché si manifestasse: ti sangui-
nava il naso. «Allora dimmelo tu il perché» le avevi risposto, piatta.
«Non posso» sbottò lei. «Mi hai maledetto la mandibola, psico-
patica di una vestale oscura di stocazzo! Sì, l’ho scoperto! A meno
che non mi voglia cimentare in un’operazione artigianale di chirur-
gia maxillo-­facciale, dunque, non posso spifferare niente a nessuno.
E ci ho pensato eccome alla chirurgia artigianale, ma non ho idea di
quanto si estenda il tuo sortilegio, perché non sono una tediosa stre-
ghetta ossea strinata. Rinfodera quella spada; ti assicuro che non ti
conviene prendertela con me.»
Le avevi detto: «Qui ti sbagli di grosso».
«Ti strangolerei con il tuo stesso grasso viscerale prima ancora che
tu riesca a evocare uno di quei tuoi scheletri merdosi.»
«Mettimi alla prova» le avevi detto. «Oh, mettimi alla prova, Ianthe.»
Vi eravate squadrate: tu, ai piedi del letto, la spada immobile – al
massimo delle tue capacità, il dolore confortante e familiare di quel
peso –, lei seduta in mezzo alle coperte disordinate, gli occhi che
parevano ghiaccio, terreno polare. Sapevi già come l’avresti fatto:
era ancora abbastanza stupida da tenere vicino al letto due cande-
labri ingioiellati coperti di topazi e di scaglie sopraffine di tarsi lu-
cidati. Era da lì che avresti estratto due cordoni di ossa petrose con
cui spiedarle le tempie, uno di qua e l’altro di là. Potevi far correre
il dito lungo il filo della spada, srotolando materia ossea da lì come
se fosse burro, nutrita e rafforzata dal sangue del tuo cuore. L’avre-
sti sparpagliata, conficcando paletti squamosi di falangi spesse nei
suoi palmi, nelle saldature tra le tibie e le fibule. A quel punto le sa-
resti saltata addosso e avresti usato tutto quello che avevi scoperto
osservando Mercymorn la Prima per fonderle la spina dorsale come
la fune di un impiccato.
Ianthe ti fissava e nel pallore della sua pelle e nelle ombre descrit-
te dalle sue labbra c’era la sua morte, ma anche la tua.
Poi rotolò di lato e si coprì la testa con il cuscino di satin.
«Accomodati. Ammazzami» aveva detto, la voce smorzata dall’im-

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bottitura spessa e dalla federa. «Devo addestrarmi con Augustine fra


meno di cinque ore e sono andata già a letto troppo tardi. La mor-
te è preferibile.»
Non avevi risposto, naturalmente. Ti eri limitata a rinfoderare la
spada, eri tornata in camera tua e ti eri messa a letto, sconfitta.

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Non era un segreto – per te come per chiun-
que altro in quell’aula scolastica claustrofobica e soffocante che era
il Mithraeum – che l’addestramento da spadaccina di Ianthe fos-
se arrivato al capolinea. Il Santo della Pazienza non aveva altro da
destinarle. L’inettitudine di Ianthe sarebbe stata un problema tra-
scurabile se non fosse perdurata anche quando si trovava nel Fiu-
me – e se i suoi dubbi non avessero inceppato i meccanismi auto-
matici del braccio armato di Naberius Tern. Avevi visto anche tu
come la postura forte, eretta e guascona della Ianthe sommersa si
sgretolasse ogni volta che il braccio destro lasciava cadere la spa-
da. Un blocco psicologico, sicuramente, ma che veniva proiettato
anche sull’ani­ma morta che doveva difendere il suo corpo quando
la mente si allontanava.
C’era più pressione su di lei di quanta ce ne fosse su di te. Le oc-
chiate che venivano rivolte a te erano ora meno critiche, perché per
quegli occhi eri già un cadavere.
Il tuo diciottesimo compleanno era trascorso senza che nessuno se
ne accorgesse, nemmeno tu. La sera prima, quando eri andata a let-
to, avevi pensato tra te e te: “Un altro anno”. Te lo ricordavi come l’a-
vevi sempre ricordato: un memoriale per i duecento che erano morti
contorcendosi, scalciando e soffocando mentre i loro neurotrasmet-
titori avvelenati andavano in sovraccarico. Li imploravi silenziosa-
mente di resistere, come facevi sempre. Non chiedevi mai perdono.
Poi ti eri addormentata. La maggior parte della gente avrebbe prepa-
rato una torta con la glassa, o qualcosa del genere.
Poco dopo il termine del tuo diciassettesimo anno avevi preso co-

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scienza di una realtà che ti accompagnava già da qualche tempo: Or-


tus il Primo doveva morire.
Il suo nome della Nona Casa non ti disturbava più, ora che sa-
pevi di Anastasia. Pareva ragionevole che la fondatrice responsabi-
le della definizione di parecchie delle convenzioni battesimali della
tua Casa avesse scelto di onorare i suoi compagni Littori, nel perio-
do che aveva preceduto l’imposizione di un velo di sacra segretezza
sui loro nomi. Si trattava solo di una coincidenza banale e disagevo-
le, come se Ortus portasse il nome di un animaletto domestico d’in-
fanzia ormai defunto.
La morte del Santo del Dovere era passata da “opzionale” a “neces-
saria” il giorno in cui ti eri resa conto del suo vero potere.
Il tuo corridoietto era il sogno di ogni necromante: stretto e facile
da barricare – barriere scrupolose, ovunque. Avevi spolverato l’inte-
ro vestibolo con uno strato impalpabile di ceneri rigeneranti, inca-
stonando ossa di ogni tipologia nelle spirali sulle pareti. In caso di in-
frazione, a chiunque stesse transitando sarebbero state strappate le
braccia dalle articolazioni, mentre le gambe sarebbero state risucchia-
te in una pozza profonda di ossa squagliate fino all’ebollizione che si
sarebbero appiccicate al corpo, strisciando verso l’alto come un gel
incendiario. Dopodiché, sarebbero stati trapassati da 4987 dardi af-
filati e flessibili fatti con la materia del tuo osso temporale: indistrut-
tibili, reattivi, istantanei.
Ma solo un imbecille si sarebbe fermato lì. I tuoi alloggi avevano i
finestrini. Se invadere lo spazio di qualcuno fosse dipeso da te, ti sa-
resti infilata una tuta – sapevi che un vero Littore non aveva manco
bisogno di quella –, ti saresti arrampicata all’esterno dell’anello abi-
tativo e avresti trovato l’inevitabile lacuna nell’armatura delle stanze.
Nei tuoi alloggi non esistevano lacune simili. Avevi studiato la plani-
metria e avevi passato ore appollaiata in cima a una scala di scheletri
a infilare grumi roventi del tuo sangue e della tua saliva nei condot-
ti che passavano sopra la pannellatura delle pareti. Eri andata nell’a-
rea di carico, avevi aperto un boccaporto e ci avevi buttato una sacca
piena d’ossa – poi eri tornata dentro, facendoti seguire dalle ossa che
ticchettavano parallele a te all’esterno dello scafo, guidandole fino ai
tuoi finestrini e usandole per erigere una barriera sul plex. Le ave-
vi spedite giù per gli scarichi del tuo lavandino a pompa e della can-

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dida struttura splendente della vasca da bagno. Per farti percepire le


avvisaglie di un’emicrania tensoria bastava la reazione delle barriere
a Ianthe Tridentarius che visitava la tua camera da letto. Si fosse an-
che accorta della polvere infinitesimale d’osso che le avevi soffiato sui
vestiti – su tutto il suo manto riluceva una patina di thanergia – non
aveva detto una parola, il che ti faceva sospettare che sapesse tutto…
e che in segreto ti stesse facendo ben di peggio. Non avevi trovato
nessuna delle sue trappole, il che ti rendeva nervosa.
Ovviamente, nessuno dei tuoi spazi poteva essere considerato si-
curo. Dormivi con lo spadone tra le braccia. Ti svegliavi spesso di so-
prassalto, per capire quanto rapidamente saresti riuscita a passare
all’azione. Senza un paladino adeguatamente digerito, potevi conta-
re solo su te stessa; dovevi impegnarti nove volte tanto. Ma pensavi,
perlomeno, di conoscere le tue vulnerabilità.
Ora avevi diciotto anni ed eri una Littrice della Prima Casa ma,
in un angolino segreto del tuo cuore, restavi mestamente aggrappa-
ta alle usanze della Nona. Nonostante le insistenze della Harrow de-
funta, che ti esortava a diventare una generalista, il tuo primo istinto
era la magia ossea. Le tue barriere erano barriere ossee; o, per certi
versi, barriere sanguigne. Non che non tenessi conto dei maghi spi-
ritisti – le tue barriere fornivano un contrasto ragionevole a qual-
siasi cosa, a ogni scenario sia certo che incerto: ma il nocciolo della
tua magia restava quello di una necromante della Nona Casa. Ed era
quella la tua rovina.
Quando accadde, stavi facendo il bagno. Le sale da bagno vecchio
stile del Mithraeum non erano provviste di apparecchiature soniche.
Ci si poteva solo lavare con l’acqua, cosa che avevi imparato ad ac-
cettare. Ianthe se ne rallegrava apertamente e continuava a dirti che
non la facevi scendere abbastanza calda; tu, comunque, non eri del
tutto convinta che l’acqua calda non fosse nociva. Facevi il bagno in
pochi centimetri d’acqua e a una temperatura che suppergiù si man-
teneva al di sotto di quella del sangue, avvolta nel tuo esoscheletro e
protetta dalle tue molteplici barriere ossee e, per chissà quale moti-
vazione cretina, ti consideravi al sicuro.
La barriera centrale del tuo bagno era vicino alla plafoniera del-
le luci, dove la lampada sporgente rendeva fragili e meno contigue le
piastrelle del soffitto. Non avevi notato nulla di anomalo finché non

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avevi scorto dei minuscoli granelli grigi nell’acqua della vasca, e non
avevi raccolto quell’acqua nei palmi, con le mani a coppa, pensando
che fosse sapone o credendo di essere particolarmente sporca. An-
che quando avevi visto il lieve stillicidio polverizzato delle ossa mo-
renti che ondeggiavano verso il basso, staccandosi dalla barriera sul
soffitto, avevi continuato a non afferrare del tutto la cosa.
L’osso macinato giaceva tra le tue mani, insensibile e inerte. Solo
quando avevi cercato di riamalgamarlo ti eri accorta che era morto,
morto come solo le ossa più vecchie negli anfratti più antichi del com-
plesso monumentale del Drearburh potevano essere morte: ossa la
cui thanergia residua si era prosciugata nel corso di quasi diecimila
anni, come l’acqua che sgocciola via da un forellino in un secchio, la-
sciandosi alle spalle della polvere calcarea troppo povera per rispon-
dere a un necromante. Se le ossa interrate nel Mithraeum fossero state
esposte al saccheggio del tempo e non cristallizzate dal tocco clemen-
te del Principe Imperituro, solo i loro strati più antichi avrebbero ret-
to il confronto con le scaglie che reggevi tra le mani.
Circa cinque secondi avevano separato la comparsa dei granelli e
della pioggerella dalla presa di coscienza: le tue barriere erano sta-
te distrutte. E poi avevi sentito un tonfo arrivare dal corridoio… e la
porta del bagno era esplosa, spalancandosi.
La tua reazione istantanea era stata quella di chiuderti in un boz-
zolo spesso di osso tendineo. Sarebbe stata un’ottima trovata, se solo
avesse funzionato. Nulla reagiva. L’esoscheletro ti era scivolato via
di dosso come se provasse dell’imbarazzo per te. Le borchie d’osso
che portavi all’orecchio erano intorpidite. Le scaglie d’osso che tene-
vi ben riposte nelle nicchie disseminate per tutto il bagno non si era-
no mosse di un millimetro, nonostante stessi cercando di attirarle a
te. Ogni osso nel tuo raggio d’azione era addormentato e immoto. Se
ti fossi tolta tutti i vestiti – cosa che, in realtà, avevi anche fatto – sa-
resti stata meno nuda di così. E ritto sulla porta, con la sua lancia, la
sua spada e quei teneri occhi verdi in quel coriaceo viso di cemento,
c’era il Santo del Dovere.
Aveva sollevato il braccio e ti aveva scagliato contro la lancia, mi-
rando al cuore. Ti eri buttata a destra così violentemente che l’intera
vasca da bagno si era inclinata su un fianco, ribaltandosi con un po-
derosissimo crack porcellanoso e un’alluvione di acqua tiepida che si

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era propagata sulle piastrelle lambendogli le punte degli stivali. La


spada che avevi appoggiato di traverso sulla vasca, col fodero d’osso
che si squamava cascando a pezzi come la glassa zuccherina su un
dolcetto, sferragliò a terra. Ti eri allungata per afferrarla, ma lui ave-
va fatto un passo in avanti calciandotela via.
Stavi strisciando ai piedi del tuo assassino in mezzo centimetro
d’acqua saponata e residui scheletrici granulosi. La lancia che ti ave-
va tirato e la spada che a malapena riuscivi a brandire erano fuori dal-
la tua portata. Le tue trappole stratificate e i tuoi piani d’emergenza
erano stati brutalmente vanificati. Eri bagnata fradicia, ed eri nuda.
Fu probabilmente la disperazione a salvarti la vita. Per tutta la
tua carriera necromantica ti eri allenata a spostarti per guadagna-
re spazio: per combattere da una certa distanza. Il Littore doveva
averlo previsto. Ti aveva già visto farlo. Ma non si aspettava che gli
saltassi addosso armata delle uniche ossa reattive che ti restavano,
le tue. Degli enormi aculei ti erano spuntati dalle ossa carpali all’at-
taccatura del polso – come una forsennata menavi fendenti al pet-
to, alla faccia, al braccio che reggeva lo stocco col nastro cremisi.
Avevi allungato i tuoi trapezoidi insanguinati e ricurvi e glieli ave-
vi piantati addosso, penetrando il tessuto della sua camicia sbrin-
dellata e la carne dei suoi muscoli pettorali, prima che ti sbattesse
la testa contro il pomello della porta. La parte posteriore del tuo
cranio si schiantò contro il rivestimento d’acciaio, ma lui si stava
sbilanciando e ti stava trascinando con sé. Mentre Ortus vacilla-
va, superando la soglia che vi separava dalla camera da letto, avevi
avuto una frazione di secondo a disposizione per capacitarti delle
tue barriere devastate, che giacevano in mucchietti e grumi essic-
cati nei pressi della porta, la tua cenere rigenerante stazionava sul-
la soglia, completamente prosciugata, come un agglomerato di an-
tichissime colle.
Aveva lasciato cadere la spada per disancorarsi i tuoi artigli dal
petto, mentre tu metabolizzavi quello che aveva fatto. Aveva stretto
tra le dita i tuoi spuntoni sanguinolenti e il sangue si era polverizza-
to, lui… annullava la thanergia. Non l’aveva assorbita e non te l’ave-
va rivoltata contro; l’aveva semplicemente disfatta, con la sdegnosa
facilità con cui si rovescerebbe una brocca d’acqua giù per uno sca-
rico. Gli spuntoni d’osso vivo, appena cresciuti dal tuo stesso corpo,

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appassirono in un istante riducendosi a stecchini friabili. Li spezzò


con le mani e li scaraventò via.
Eri stupefatta. Inorridita. Brandiva di nuovo la spada, il sangue
che gli scorreva lungo il braccio gliel’aveva ordinatamente riconse-
gnata in mano con un volteggio ordinato. Era troppo vicino per me-
nare un fendente con la lama, quindi si limitò a colpirti con forza la
testa, lateralmente, con l’estremità inferiore. La guancia ti si infossò;
avevi percepito la mandibola frantumarsi, e un paio di denti ti ruz-
zolavano liberi in bocca come dadi seghettati. La veemenza dell’im-
patto ti fece barcollare all’indietro – lui scartò e vibrò un colpo verso
il basso, in profondità, squarciandoti in un punto sotto le costole, da
qualche parte – e tu gli sputasti in faccia. Il sangue ti gocciolava de-
bolmente dalle labbra, punteggiando il pavimento.
I denti, d’altro canto, erano rimasti sospesi a mezz’aria per un istan-
te, sbocciando in fiori perfetti con quadruplici petali di smalto affila-
to, ciascuno angolato in direzione di un occhio verdeggiante. Avevi
sparato quei denti verso di lui, come proiettili. Proseguirono il loro
volo mentre tu cadevi di lato, l’equilibrio ormai perduto. Riuscivi a
sentire la frattura incavata sulla nuca; sentivi le tue arterie brachiali
che zampillavano in preda al panico.
Collassare conto la parete ti aveva impedito di vedere che cosa
era successo dopo. Cosa che non vide nemmeno lui, comunque. Ci
fu un rumore spiacevole e bagnaticcio, quando i denti raggiunse-
ro gli occhi.
Ortus non urlò di dolore. Un tempo ti sarebbe parso ammirevole.
Si limitò a girarsi – la spada in mano e la lancia che strascicava per
terra – e si precipitò fuori come una carica esplosiva, superando la
tua porta d’ingresso devastata, il tuo corridoio ingombro di barriere
sparpagliate. Ti lasciò lì per terra, appena oltre la porta del bagno, in-
trisa d’acqua, zuppa di sangue, mezza morta e sgomenta.
Alle ferite si poteva rimediare. Le arterie si potevano tamponare e
poi ricollegare. Si potevano ricucire le carni e far rimarginare la pel-
le. La dentina si ricostruiva facilmente, così come lo smalto, anche
se probabilmente ti sarebbe toccato rimodellare la mandibola diver-
se volte prima di recuperare il morso corretto. Niente di quello che
si era spaccato, sul cranio, ti si era piantato nel cervello e l’emorragia
era controllabile. Ma la tua pace era perduta, per sempre.

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Il Santo del Dovere avrebbe potuto oltrepassare le tue barriere quan-


do gli pareva. Il Santo del Dovere era un vuoto thanergico. Il Santo
del Dovere era la nemesi suprema di ogni adepto osseo. Non saresti
mai più riuscita a dormire.
Fu a quel punto che qualcuno, ovviamente attirato nelle vicinanze
dal trambusto in fondo al corridoio, scavalcò le macerie davanti alla
tua porta e sbirciò all’interno. Non ti serviva percepire la sua presen-
za per sapere che era lei: conoscevi il rumore delle sue scarpe.
«Harrow?» fece Ianthe in tono interrogativo, dai pressi della por-
ta. Poi si bloccò, chiaramente, e ti vide lì nuda, insanguinata, scar-
nificata dai tuoi stessi tormenti, con i piedi ancora schiumosi di sa-
pone. In un’allucinazione olfattiva, percepivi il suo odore: sudore,
muschio, vetiver.
Vedevi con chiarezza il tuo probabile futuro. Fino a quel momen-
to non avevi colto a pieno il pericolo.
Se Ianthe Tridentarius si fosse inginocchiata accanto a te, in quel
momento, indipendentemente dal disprezzo zuccheroso o dalla pa-
tina di condiscendenza Terzesca di cui si sarebbe servita, le avresti
rovesciato addosso il tuo terrore sanguinolento e impotente; nuda, le
saresti strisciata in grembo e avresti pianto, senza vergogna. Come un
verme, ti saresti trascinata verso qualunque appiglio residuo di sol-
lievo che avrebbe potuto offrirti. Tutta la tua disperata, vermiforme
e degradante brama di cordoglio l’avresti data alla tua sorella Littri-
ce con una sete spudorata, e da lì mai più saresti riuscita a fare ritor-
no. Lei sarebbe stata la tua fine, certa come il martello che colpisce
il sintetizzatore d’ossigeno della tua infanzia. Ti saresti protesa verso
di lei con il desiderio cieco di una malattia infettiva. Ti saresti prosti-
tuita a lei come la necrosi su una ferita.
Forse, dunque, le cose andarono per il meglio quando la Princi-
pessa di Ida, dopo una pausa pregna, disse: «Wow! Non mi immagi-
navo che sarebbe successo in questa maniera, zero». E avevi sentito
i suoi passi impazienti che si allontanavano, via, giù per il corridoio
da dove era arrivata. E poi era scomparsa.
Eri rimasta coricata sulle fredde piastrelle nere, fissavi gli aloni sul
soffitto, dove prima c’erano le tue barriere – eri stordita e dispera-
ta, quasi troppo morta per ricucirti da sola. In un recesso della tua
mente sentivi la Campana Secondariana che rintoccava, rintoccava,

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superando qualunque composizione sacra della Nona con un moti-


vo mai rivendicato a nessun suonatore del Sepolcro.
Con le labbra gonfie avevi scandito, ad alta voce: «Il Santo del Do-
vere deve morire».
E, sul letto, il Corpo aveva detto: «Sì».

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Il tuo letale giuramento non aveva dato seguito
a un generale accrescimento della solennità all’interno del Mithraeum.
Nonostante l’apocalisse che avevi subito, non molto era cambiato.
Tutti erano fin troppo occupati per interessarsene. La volta succes-
siva che ti eri seduta a discorrere con Maestro, il cuore in gola e il tè
testardamente intatto, lui non ne aveva nemmeno fatto parola. Lo sa-
peva, di sicuro. Doveva sapere tutto, di certo. Eri troppo orgogliosa
per implorare salvezza, ma troppo stupida per non lasciarti scappa-
re, come diversivo al tuo stesso panico: «Mio Signore, ho visto il San-
to del Dovere che baciava il corpo di Cytherea la Prima».
Un pezzo del biscotto gli era precipitato nel tè. L’aveva squadra-
to con sincera costernazione, rivolgendo poi a te uno sguardo col-
mo di altrettanta e sincera costernazione, tornando infine a concen-
trarsi sul biscotto. «Harrow… Harrowhark, detesto chiedertelo, ma
ne sei sicura?»
Perfino Dio non si fidava di te. «Maestro, ve lo giuro sul Sepolcro
Sigillato.»
«In queste circostanze non giurerei proprio su quello» aveva mor-
morato lui, usando il cucchiaino dentellato per ripescare un grumo
tremolante e sfaldato di biscotto alla cannella. Poi ti aveva fissata. Ave-
va gli occhi cerchiati di sonno, non indossava la sua aureola di falangi
infantili e foglie dalle sfumature perlacee, e i capelli parevano essere
stati spazzolati frettolosamente. Se li ravviò con una mano, come se
avesse percepito la tua occhiata critica. «Be’» aveva detto, alla fine,
«è una faccenda spiacevole.»
«Non è peccato?» Lo sapevi, sembravi una delatrice. Sembravi una

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pettegola ciancante, sapevi anche quello. Quello che avresti voluto


dirgli davvero era: “Mio Signore, ero nella vasca da bagno e lui è ar-
rivato, ha prosciugato la thanergia dalle mie barriere e io gli ho scop-
piato le palle degli occhi prima che potesse distruggermi. Non dormo
da quarantotto ore. Ho chiesto a Mercymorn quale potrebbe essere
il modo migliore per stimolare il mio cortisolo, per restare sveglia. E
lei me l’ha detto, mio Signore, e ora temo di aver combinato qualco-
sa al mio ipotalamo”. «Non lo trovate strano?»
«Solo per il fatto che l’unica persona per la quale Ortus abbia dimo-
strato dell’interesse – o qualcosa che ci si avvicinava – è stata Pyrrha,
se escludiamo i criminali a cui dava la caccia» aveva detto l’Imperato-
re delle Nove Case, «quando ha scaraventato fuori da un boccaporto
a calci quell’Edenita è stato come vedere uno sposo il giorno del ma-
trimonio. Senza un gran romanticismo, però… Harrow, lo conosco
da più di diecimila anni e la sua anaffettività è leggendaria. Ho osser-
vato sei altri Littori imbarcarsi in un’intera miriade di sconsigliabili
relazioni amorose, perché restare da soli per tutto quel tempo è dif-
ficile, ma lui mai. Era inespugnabile. Non posso credere che stia fa-
cendo qualcosa con Cytherea. Piaceva a tutti, piaceva anche a lui, ma
c’è un baratro tra l’apprezzare qualcuno e… il feticismo cadaverico.»
Avevi fissato, sentendoti lievemente ubriaca e indicibilmente pie-
tosa, il biscotto che ti eri ripetutamente rifiutata di mangiare.
Maestro aveva proseguito, in tono sommesso: «Probabilmente ci
consideri tutti un branco immortale di criminali depravati».
Tu non avevi replicato. Lui insisteva: «Harrow, fai qualcosa di nor-
male. Impara a farti da mangiare. Leggi un libro. Vai avanti e preparati
– le nostre vite ruotano attorno al fatto che tutti siano preparati… ma
prenditi un po’ di tempo per riposare. Hai dormito, ultimamente?».
Per la prima volta ti eri resa conto che Dio non era in grado di capirti.
E non gliene fregava niente a nessuno, e nessuno ti prestava un bri-
ciolo di attenzione, compreso il Santo del Dovere, che era più inte-
gro, più normale e più provvisto di entrambi gli occhi che mai. Non
avevi sperato troppo di avergli causato qualche danno permanente.
L’unica certezza del fatto che fosse capitato davvero era il persisten-
te odore di umidità che emanavano i tuoi tappeti.
Allora eri andata da Ianthe e le avevi chiesto come si preparava
una zuppa.

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«Oh, è facile» aveva detto la Principessa di Ida, spumeggiante. No-


nostante le crescenti critiche di Augustine lei non dava segno di in-
sofferenza, come ci si sarebbe invece potuti aspettare; anzi, a ogni fal-
limento pareva diventare ancor più spensierata. «Devi sminuzzare
una cipolla, la fai scaldare in fondo alla pentola, ci butti dentro delle
verdure e poi un po’ di carne. Non saprà di niente, quindi dovrai ag-
giungere qualche cucchiaino di sale… e a quel punto saprà di qual-
che cucchiaino di sale.»
In ottemperanza al volere dell’Imperatore, avevi preparato la zup-
pa. Non avevi mai visto cucinare nessuno, prima. Non ti piaceva. In
un cassetto della cucina c’erano dei manuali tecnici che affrontava-
no l’argomento e avevi spulciato quelli, invece di imbarcarti nella va-
riazione sul tema di Ianthe, a base di sale. Arrivata alla sera del terzo
giorno dopo il tuo bagno interrotto, non dormivi ormai da ottantasei
ore, ma avevi letto un libro e avevi preparato la zuppa per tre volte.
Nelle ore notturne rimanevi distesa sotto al letto, al buio, respirando
a malapena, con lo sguardo rivolto alle costole prive di polvere for-
mate dalle doghe metalliche del materasso… pregavi il cadavere del
Sepolcro Sigillato, o ripetevi tra te e te: “Oh, Dio! Oh, Dio! Oh, Dio!”,
finché non ti si impastava in un tutt’uno sulla lingua e si univa all’or-
chestra di sussurri che ti martellavano in mezzo alle orecchie, men-
tre attendevi un assalto che non arrivava.
Era anche stato in quel terzo giorno post-Ortus che la tensione nel
Mithraeum aveva raggiunto un suo peso e una sua definizione, come
l’acqua salmastra che si cristallizza. Non aveva nulla a che vedere con
te. Si trattava dell’ultimatum che Augustine aveva comunicato a Ianthe.
«Altri cinque giorni» le aveva detto. Lo sapevi anche tu perché
gliel’aveva detto a colazione, davanti a te e a Mercy. «Hai ancora cin-
que giorni, pulcina. Se a quel punto non sarai riuscita a usare corret-
tamente quel braccio, non mi disturberò più a insegnarti una mazza
di niente. Non sono interessato ai casi umani. Se così fosse, mi sarei
messo a istruire Harrow.»
In un’altra vita saresti stata invasa da una gelida furia, o ti saresti
perlomeno indispettita. In questa vita, ti stavi limitando a fissare il
coltello, e la forchetta e il cucchiaio, cercando di ricordarti chi facesse
cosa. Il cucchiaio, con quell’avvallamento concavo, serviva probabil-
mente a trasferire i liquidi. Sul retro avevi scorto il riflesso di Ianthe,

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che aveva posato il mento incolore sulla mano, spostandoci sopra il


peso della testa come se stesse ascoltando senza particolare interes-
se una favola della buonanotte.
«Come ritenete più opportuno, fratello.»
Tutti erano irascibili e accigliati – tranne Ianthe, e tranne te. Vagavi
per il Mithraeum con lo spadone sulla schiena e la mano mai troppo
lontana dall’estremità – pomolo – del tuo stocco. E preparavi zuppe.
Due giorni dopo l’ultimatum di Augustine, forse impressionato
dalla tua recente comprensione dei meccanismi zuppeschi o bramo-
so di coesione sociale, Dio – stanco – ti aveva chiesto di preparare la
cena per tutti. Avevi aperto altri libri di ricette – impiegando parec-
chio per dare una rinfrescata a pesi e misure, scegliendo anche gli in-
gredienti più appropriati dalle sale-dispensa grandi come capannoni
– e ti eri chiusa in bagno, a lungo, per fare quel che dovevi fare. Cen-
toventisei ore. Non sentivi più il dolore. Di tanto in tanto ti tremava
la mandibola, ma era quasi musicale.
Quella sera avevi preparato la zuppa con più perizia del solito. Se-
condo la ricetta, andava cotta molto a lungo. Facevi su e giù per la cu-
cina, distratta e spaventata dalle luci, mentre l’aria diventava sempre
più umida e un po’ dolciastra, a giudicare dall’odore. Quando il timer
aveva squillato, comunicandoti che era pronta, avevi quasi cacciato
un urlo. Ci avevi messo un po’ a spegnerlo. Avevi assaggiato il risul-
tato dei tuoi sforzi, dopo un attimo di titubanza: continuavi a dete-
stare i sapori decisi e avevi impiegato parecchio per comprendere i
gusti. La zuppa non sapeva di nulla in particolare, ma non avevi ag-
giunto le cucchiaiate di sale di Ianthe.
L’avevi trasferita in una grossa zuppiera e, quando gli altri si furono
accomodati attorno al tavolo, l’Imperatore servì tutti quanti, come fa-
ceva sempre: in quei primi giorni al Mithraeum, l’idea che il Dio delle
Nove Case ti servisse da mangiare ti terrorizzava, ma era fatto così.
Era contento di te. Ti aveva rivolto quel suo sorriso mesto e sghembo,
posandoti una mano sulla spalla, molto delicatamente, mentre riem-
piva la tua fondina. «Come ti dicevo, Harrowhark» aveva commen-
tato. «Prepara da mangiare. Leggi un libro. Sono le piccole cose…»
Mancavano due giorni alla scadenza imposta a Ianthe, e tutti i Lit-
tori mangiavano con una evidente carenza d’entusiasmo. Avevi os-
servato Ianthe sorbire una cucchiaiata mentre ti lambiccavi con le

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posate. La zuppa non aveva un aspetto malriuscito e ne andavi vaga-


mente orgogliosa: il biancore cremoso e dorato del liquido traslucido
nella pentola; la cipolla (non bruciata) che fluttuava a fettine bianche
e stratificate; l’arancione caramellato delle carote conservate. Ti eri
documentata sui vegetali, cercando di superare l’avversione che pro-
vavi per i loro colori: non volevi niente che potesse dissolversi com-
pletamente nella zuppa durante tutto il processo richiesto di cottu-
ra. «Manca il sale» era stato il responso di Ianthe.
«Troppo acquosa, ma non male come tentativo» aveva detto Au-
gustine con un’allegria forzata. «Serve del tempo per far addensare il
brodo, Harrow.» (L’avevi lasciato a addensarsi per ore, ma poi ci ave-
vi aggiunto un sacco d’acqua, presa dal panico.) «Non fraintendermi,
sorellina. Mangiare del cibo preparato da una nuova cuoca dopo die-
cimila anni è un’emozione vera. Ti darò una lista dei miei piatti pre-
feriti, così potrai sbagliarli in maniera avvincente.»
Il Santo del Dovere mangiava la tua zuppa a un ritmo stolido, di-
sinteressato e meccanico. Dalle cene precedenti ti eri accorta che non
gradiva alcuni specifici vegetali, quindi ce li avevi messi dentro tutti.
Privato di alternative solide, stava principalmente bevendo. Dio ave-
va inghiottito una cucchiaiata, aveva messo giù la posata e bevuto con
discrezione un sorso d’acqua. Non aveva commentato. I sessanta se-
condi successivi erano stati occupati dai suoni umidi e semimbaraz-
zati degli altri che mangiavano la tua zuppa.
«Se dobbiamo proprio presenziare a questi orridi pasti condivisi,
che qualcuno almeno intavoli una conversazione» aveva detto Mercy
con una punta d’astio. Stava selezionando dei pezzetti consistenti di
una qualche radice vegetale, mangiandoli aggraziata con la forchetta.
«Non posso tollerare di star seduta qui a mangiare del cibo mediocre
in silenzio. Quello posso farlo anche per conto mio.»
Dopo esserti presa un istante per smussare gli angoli delle tue parole,
avevi risposto: «È mediocre, sorella maggiore? Ho seguito una ricetta».
«Di Cassiopeia? Ecco, lei sì che era una donna che sapeva cucina-
re» aveva esclamato Augustine, con gli occhi color granito che si fa-
cevano benevoli e nostalgici sul viso lungo e aquilino. «Ma non sen-
za ferirsi, badiamo bene. John, ti ricordi quando si è mozzata mezzo
dito per tirare fuori la polpa dalla noce di cocco? E ce l’ha detto solo
quando avevamo già finito di mangiare. Ecco una lezione per te, Har-

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rowhark: confessa, subito, prima che qualcuno trovi un dito nella zup-
pa.» (Avevi sobbalzato, ma poi avevi cercato di sorridere; forse era
quello che ci si aspettava da te. Ianthe, vedendo l’espressione che ave-
vi stampata in faccia, rabbrividì visibilmente.) «Che carne hai usato
per insaporire il brodo? Se c’erano dei tocchi si sono squagliati tutti.»
Avevi chiuso gli occhi, cercando di riflettere. Era così difficile. Vo-
levi dormire, tantissimo. Stavi facendo così tante cose tutte insieme
– i tuoi ultimi residui di concentrazione erano stati dirottati verso
quell’istante. Per uno o due secondi ti era sfuggita la parola che stavi
cercando… ce l’avevi sulla punta della lingua – mentre eri impegnata
a costruire, minuziosamente, cellula stromale dopo cellula stromale.
«Midollo» avevi detto.
Il Santo del Dovere esplose, mentre il tuo costrutto gli emergeva
dall’addome. La zuppa era acquosa e mediocre, come tutte le zuppe,
ma in qualità di veicolo per convogliare emulsioni esplosive – midol-
lo diluito con acqua sufficiente da passare inosservato – era perfet-
ta. Una mezza dozzina di braccia lo crivellarono, nella delicata luce
elettrica propagata dai panelli sul soffitto. Avevi espirato, e una coa-
lizione di falci si era messa a distruggere intestini… polmoni… cuo-
re. Poi avevi puntato verso l’alto, in direzione del cervello.
E Dio aveva detto: «Basta».
Il mondo rallentò. Augustine e Mercymorn si bloccarono, fossiliz-
zati nell’atto di alzarsi dalle sedie. Ianthe si fermò, il braccio sinistro
immobilizzato, esteso per schermarsi il volto. Anche tu ti eri para-
lizzata, seduta al tuo posto con la schiena dritta: le tue ossa erano di-
ventate in qualche modo rigide e immote, e la tua carne fredda e ri-
gida attorno a quelle ossa. La tempesta di frammenti che proveniva
dal Santo del Dovere non si arrestò: si riversava sul tavolo come la
cresta di una cascata rosa, con un pliccheti-ploccheti sulle fondine, la
tovaglia e la scura superficie lucida del legno. Ma quel che restava di
lui si fermò, mezzo uomo, mezzo squarcio – i suoi anfratti più osce-
ni erano bianchi e incandescenti, interiora nude avvolte dalla spinta
secca-narici del potere di Dio.
L’Imperatore delle Nove Case – la Resurrezione, il Primo Rinato –
sedeva a un capo del tavolo, il viso banale punteggiato di materia ma-
ciullata, e i suoi occhi erano la morte della luce.
Il Necrore Supremo disse, con grande calma: «Sono passati dieci-

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mila anni da quando ho mangiato un essere umano, Harrow, e non


sentivo proprio il bisogno di fare il bis. Spiegami che cosa hai fatto».
Il tuo corpo non rispondeva, ma la bocca aveva margine di mano-
vra. Gli avevi detto: «Ho riconfigurato una porzione di cellule stami-
nali midollari in ossa sesamoidi. Con l’osso sesamoide ho creato un
costrutto».
«Harrowhark» aveva ribattuto lui, «non puoi aver percepito del
midollo osseo estraneo all’interno del corpo di un Littore. Nemmeno
Mercy ci sarebbe riuscita, anche se avesse stretto Ortus tra le brac-
cia per tutto il tempo.»
«Le cellule non erano estranee.»
«Prego?»
«Mi sono sezionata la tibia per fare la zuppa» gli avevi risposto.
Dio chiuse gli occhi, per un istante. E allontanò impercettibilmen-
te il piatto. Il tuo sguardo corse lungo il tavolo, fino a lui: i visi assen-
ti e remoti dei tuoi due insegnanti – in teoria –, l’eburnea immobilità
congelata di Ianthe, con i capelli che ormai viravano a un bianco ro-
sato, lo spazio fuori dai finestroni, dove anche gli asteroidi parevano
stazionare in un arresto sopito. Ti disse: «Devi sapere che non per-
metterò che vi uccidiate a vicenda proprio sotto al mio naso, Harrow».
«Mi ha attaccata nelle mie stanze. Ha prosciugato le mie barrie-
re personali.»
«Trattandosi del Santo del Dovere, quello è un complimento.»
Avevi esclamato: «Mio Signore, sono perseguitata. Soccombo».
«Harrow…»
«Non mi sto rivolgendo a voi come Harrowhark la Prima» disse la
tua bocca. «Vengo da voi come supplice. Non posso vivere così. Mio
Signore, vi ho contrariato, visto che proteggete lui e non me? Mi ren-
do conto di essere un rametto spuntato in confronto alla vostra spada
più affilata, ma perché vi disturbate a far vivere questo rametto? Non
posso vivere così. Non vivrò così. Non ho nessun posto dove andare.
Non ho nessuno da cui tornare. Sono un’assurdità.»
Vi eravate guardati dritto negli occhi, da un’estremità all’altra di
quel lungo tavolo insanguinato.
Dio aveva chiesto: «Harrowhark, quand’è che hai dormito l’ulti-
ma volta?».
Con tutta la dignità del Sepolcro Sigillato, del gelo della roccia che

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fu smossa e delle ossa che là erano state deposte, dell’immota acqua


salata che riluceva al cospetto del monumento sbiancato dove giace-
va il tuo mostro consacrato, gli avevi risposto: «Sei giorni fa».
L’Imperatore delle Nove Case si alzò in piedi.
L’incanto – di qualunque cosa si fosse trattato – si dissolse, come
un sole bianco che tramonta. Il tuo corpo collassò sulla sedia. Il co-
strutto che si stava dimenando allegramente per sgorgare dal Santo
del Dovere si ridusse a una nuvola di polvere rosa. La scheggia che
stavi guidando su per le vertebre cervicali, verso la sommità della spi-
na dorsale e verso il cervello, nel suo alloggiamento, semplicemente
scomparve: non eri in grado di stabilire se fosse stata distrutta o ri-
mossa. La concatenazione delle interiora di Ortus il Primo, sparse sul
tavolo come ricami sferruzzati, si dissolsero sfrigolando in una deli-
cata nebbiolina. Il respiro tornò a riempire i polmoni di tutti quanti
in un singulto sacrilego. Ortus si portò le mani alla pancia.
L’Imperatore non lasciò a nessuno il tempo di reagire ulteriormen-
te. Disse, in tono pacato: «La cena è finita. Potete alzarvi da tavola.
Ianthe… accompagna a letto tua sorella».
Tutti scostarono rumorosamente le seggiole in un pandemonio di
legno e piastrelle raspanti. Augustine disse: «Mio Signore…?». E Dio
rispose: «Andate. Andatevene e basta».
Ti sentivi strana e irreale, mentre Ianthe, con le labbra esangui, ti
sollevava di peso dal tuo posto. La pelle che stava toccando non era
altro che un sottile reticolo permeabile che conteneva la tua carne,
che consisteva di diecimila ragni. Si buttò il tuo braccio sulle spalle,
come se fossi un’invalida. Forse lo eri. Le gambe non ti sembravano
a posto. Anche la tua sorella maggiore, palesemente pallida come un
cencio e impegnata a scandagliarsi in cerca di grumi le lunghe cioc-
che di quella sua chioma di un rosa troppo maturo, si era alzata, ma
l’Imperatore le aveva detto: «Tu. Rimani» e lei si era bloccata.
Non ti era passato nemmeno per la mente di opporti a Ianthe, men-
tre ti accompagnava via. Ti saresti lasciata portare docilmente al ma-
cello senza una museruola o un guinzaglio. Alle tue spalle, il Principe
Benevolo stava dicendo, con toni di gran lunga più nefasti di quelli
che ti era capitato di sentirgli usare: «Sei giorni. Senza dormire. Ed è
comunque riuscita a strutturare uno scheletro completo partendo da
midollo diluito. Che altro ti è sfuggito, Mercymorn…?».

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Eri già sulla porta quando arrivò la sua risposta petulante: «Ma è
una follia! Ha solo nove anni!».

* * *

I Santi del Dovere e della Pazienza erano fuori in corridoio. Se uno di


loro avesse voluto trapassarti, non saresti riuscita a fermarlo. Li ave-
vi squadrati, nonostante i tentativi di Ianthe di portarti via alla svel-
ta: Augustine, che sembrava aver appena visto il fantasma di qualcu-
no che non gli piaceva particolarmente, e Ortus.
Ianthe stava cercando di farti girare dall’altra parte, ma avevi conti-
nuato a fissarli, anche mentre ti trascinava in fondo al corridoio. Au-
gustine armeggiava con una sigaretta, l’aveva accesa con il piccolo ac-
cendino arcuato d’argento che teneva nel taschino, e l’aveva passata
al suo fratello Littore. Ortus era impassibile. Non c’era traccia di san-
gue sui suoi vestiti. Non c’era nemmeno un tocco disperso di interio-
ra sulla camicia sdrucita o sul manto di madreperla che continuava
a stazionargli sulla spalla. Il suo viso non tradiva alcuna emozione:
non c’era la sorpresa che poco prima gli aveva invaso gli occhi dalle
palpebre marcate, non c’era rabbia e non c’era nemmeno disappun-
to. Aveva incrociato il tuo sguardo. Tu non avevi desistito.
E il Santo del Dovere aveva sollevato la sigaretta accesa, verso di
te, onorandoti con un inconfondibile cenno di saluto.

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Un giorno, lo sguardo di Harrowhark fu cattu-
rato dalla pioggia fine che spolverava il terrazzamento d’attracco e
dalle sagome nere che si stagliavano nella nebbia. Erano ferme sul
bordo della piattaforma. Si calò il cappuccio sulla testa, uscì sotto la
pioggia – stringeva fra le nocche le sue scaglie d’osso in modo che il
tempaccio o il sudore non le inumidissero – e si avvicinò a loro. Una
delle sagome nere si staccò da quella coperta di nuvole grigie e puz-
zolenti: alta e imponente, come il sole di mezzogiorno in mezzo alle
nubi. Era Coronabeth Tridentarius.
Voltava le spalle a Harrow e la sua chioma riottosa – mezza raccol-
ta da una reticella e mezza sfuggente – era bagnata fradicia, un am-
masso d’ambra scura e ondulata nella pioggia. Non aveva un’aria bel-
licosa e non stava litigando. Era immobile come una statua, sollecita
e in attesa come un cane.
La figura dietro di lei era molto più piccola e sottile, le vesti aset-
tiche della sua carica sfumavano in un grigio bluastro stinto, come
l’acqua. La treccia alta era così pallida da risultare bianca e la sua tu-
nica zuppa di maglia metallica emanava un bagliore bagnaticcio nel-
la nebbia. Harrowhark, con la sua andatura circospetta, aveva coper-
to solo metà della distanza che la separava da loro quando sentì Silas
Octakiseron dire chiaramente, sopra al picchiettare delle gocce: «Che
ovunque si trovi, là fuori, possa tutto il sangue del vostro sangue pa-
tire anche solo una frazione di quel che ho patito io».
E la spinse. La Principessa maggiore di Ida precipitò dall’orlo del-
la piattaforma d’attracco con una semplicità cignesca. Si era sempli-
cemente afflosciata oltre il bordo, senza accartocciarsi o contorcersi

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– l’istante prima c’era, una stella dorata, e un attimo dopo era spari-
ta. Andare in suo soccorso, non se ne parlava neanche. Il necroman-
te dell’Ottava Casa era rimasto fermo lì con le vesti bagnate e alaba-
strine scompigliate dal vento, la treccia da cui sfuggivano ciocche e
nastri. Non aveva neanche guardato di sotto.
Ma aveva visto Harrowhark.
«In guardia, Octakiseron» esclamò lei. «Le vestali nere hanno una
sola maniera di rispondere all’omicidio.»
«Le vestali nere hanno sempre avuto una sola risposta per tutto»
fu la replica, in quel suo tono profondissimo e abissale. La squadrò: li
separava una distanza di circa cinque corpi e, da lì, i suoi occhi appa-
rivano ombrosi, il viso bianco e affranto. «Sorse una domanda: “Per-
ché…” e le vestali nere risposero: “Perché sì”. Ora venite da me, cagna
notturnale, figlia della schiavitù, avete fatto quello che avete fatto e
ora venite qua a dirmi: “In guardia”? Come potrei mai?»
«Me ne infischio dei misteri e dei cripticismi del Bianco Calice»
fece lei. «Quel che mi interessa è che avete appena spinto a morte
una dei Tridentarii.»
«Morte?» disse Silas.
Si voltò di nuovo a osservare la nebbia mobile, le nuvole che oscu-
ravano il mare ribollente verso il quale Coronabeth stava probabil-
mente ancora precipitando. Più da vicino, Harrow constatò che era
tutto in disordine: aveva i vestiti macchiati e alcuni bottoni slacciati.
La pioggia e la nebbia l’avevano sferzato tremendamente.
Harrow si sfilò le mani di tasca e seminò le sue scaglie per terra. Da
ogni frammento – con il pop, pop, pop dell’emissione di thalergia che
percepiva in un angolo del cervello – edificò uno scheletro dotato di
tutte le appendici, allungando l’osso in fretta in modo che la cortec-
cia non si mescolasse all’acqua. Il lucore spento dell’osso compatto
brillava come marmo bagnato. Silas Octakiseron osservò arriccian-
do il naso i cinque costrutti che lei aveva completato.
«La sporcizia le insozza i piedi» mormorò. «Non si è ricordata del
suo scopo.»
«Per l’amor di Dio, in guardia, Octakiseron» fece lei. «O dovrò ab-
battere un uomo disarmato.»
E Silas disse: «Ma è così che va, quindi?».
Si voltò. Lei capì quello che voleva fare e i suoi scheletri schizza-

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rono in avanti sul cemento lucido di pioggia della piattaforma d’at-


tracco. Ma invano: Silas Octakiseron si era gettato nel vuoto, sen-
za il minimo timore, seguendo il corpo precipitato di Coronabeth
Tridentarius. Rimase brevemente sospeso nel vento e sotto la piog-
gia, come un uccellaccio bianco e lurido, e poi svanì.
Harrow si fece largo in mezzo alla sua squadra scheletrica e si fer-
mò sul bordo – la trattenevano per le braccia, per sicurezza – a scan-
dagliare con lo sguardo quell’ininterrotto banco virginale di nebbia
salata e maleodorante. Non c’era traccia di nessuno dei due adepti.
Molto più in basso, in lontananza, l’oceano mugghiava. Harrow cre-
dette di vedere lo scampolo di qualcosa che penetrava la nube. Il cuo-
re le martellava ritmicamente nelle orecchie e le parve di aver scor-
to, per quanto assurdo fosse, un fiotto improvviso di sangue acquoso,
come se la nebbia stessa fosse stata accoltellata; ma quando lo vide
era già sparito.

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Avevi perso un consistente lasso di tempo. Ti
eri ritrovata a fissare le viscere ombrose di una stanza, illuminata so-
lamente da una pozza di tenue luce gialla – una lampada su un co-
modino. Addosso avevi delle lenzuola fredde e scivolose. Per la pri-
ma volta in vita tua, avevi cercato di lasciarti sopraffare dal panico,
generando un picco di adrenalina, ma non aveva funzionato. Quel
meccanismo di innesco si era inceppato. Dopo troppi giorni passati
a produrre cortisolo, la tua ghiandola pituitaria era partita per una
vacanza non autorizzata chissà dove, lontanissimo da te, e non po-
tevi fare altro che rimanere lì coricata e stupefatta in quell’ambien-
te alieno.
Ma non così alieno. Dopo numerosi istanti d’instupidimento, ti eri
resa conto di essere stata messa a riposare nella bomboniera bianca e
dorata che era il letto di Ianthe, con la sua trapuntina gelida di satin
e i fiori di lillà ricamati con un filo di seta praticamente su ogni cen-
timetro della biancheria. Avevi cercato di impanicarti un’altra vol-
ta, dimenandoti sul materasso, ma avevi fatto pietosamente cilecca.
«Rimettiti giù» aveva detto la Principessa di Ida.
Era in piedi davanti alle finestre. Le ametiste che penzolavano
dall’elsa a cesto del suo stocco lampeggiavano e rilucevano nell’oscu-
rità: aveva il braccio sinistro ripiegato all’indietro e i piedi allargati in
corrispondenza del bacino. Teneva il braccio sinistro disteso davan-
ti a lei, spada in pugno. Stava angolando la spada seguendo una se-
quenza di posizioni meccaniche: lama puntata all’insù, lama puntata
all’ingiù, polso flesso per riportare la lama in posizione.
Ti eri messa a sedere a fatica. Era come se qualcuno ti avesse pun-

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zonato il cranio con un sacco di piccoli spuntoni che ti si piantava-


no nel cervello come degli uncini spinati ogni volta che ti muovevi.
«Stai giù, ti ho detto» fece Ianthe. «Pazza furiosa che non sei altro»
aggiunse, senza particolari inflessioni emotive. «Non posso credere
di aver mangiato una scodella intera di suora… era meglio se mi cac-
ciavo due dita in gola.»
La Principessa di Ida non pareva in sé: era una Ianthe più distac-
cata – un braccio staccato dalla sua articolazione; un dente strappa-
to dalla radice. Avevi la testa pesantissima. Per un istante ti era sem-
brato di essere tornata di nuovo a bordo della Erebos, quando non eri
altro che un agglomerato di lanugine e nebbia nera.
Lei aveva cambiato forma. Lo stocco si abbassò lungo il fianco si-
nistro – ruotò lentamente per coprirle il destro – guizzò in alto, in
un lampo metallico, in modo che la punta della spada fosse rivolta
al soffitto, in posizione di guardia. Poi ancora a sinistra, seguito da
un arco all’insù per parare un immaginario fendente alla testa o alle
spalle. Posizioni di parata che non conoscevi anche se avresti dovu-
to. Ianthe si stava esercitando in camicia da notte – un garbuglio re-
pellente di pallido pizzo dorato che le arrivava fino in fondo ai piedi
e che faceva somigliare il suo corpo affusolato e scattante a quello di
una mummia piena di vene verdognole – e persino tu eri in grado di
capire che i suoi movimenti erano goffi e macchinosi.
Ci avevi messo parecchio per dire: «Augustine». E la sua risposta
era stata immediata e impaziente: «Sei ancora sveglia? Sì. Ci si augu-
rava che il tuo leggiadro spettacolino serale, a cena, potesse conce-
dermi una proroga, ma niente».
Le avevi risposto, flebilmente: «Il Santo del Dovere… Ortus sa ri-
succhiare le barriere».
Ianthe aveva ribattuto con una greve volgarità. Poi aveva aggiun-
to: «Ecco perché hai smesso di dormire. Be’, se vuole attaccarti men-
tre sei qua, te lo dico in tutta franchezza, sarò ben felice di accoglie-
re quel pandemonio».
«Ma…»
«Dormi, Harry.»
Eri molto debole. Provavi una spossatezza che andava oltre la stan-
chezza; un affaticamento instabile, narcotico. Riappoggiando il capo
sul cuscino di Ianthe, avevi sentito l’odore sottile della mela in putre-

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fazione sul comodino, e sentivi anche il suo odore, e quel profumo ti


risultava ormai familiare. Era stata quella brama istintiva per il fami-
liare a demolirti. Avevi chiuso gli occhi e ti eri addormentata.

* * *

Non sapevi per quanto tempo avessi dormito. Non sapevi a quale
giorno corrispondesse quell’alba del tuo risveglio. Le luci diurne fil-
travano dalle coperture del letto a baldacchino con un candore cal-
do, un tepore agrumato a contornare i quadri nudi che adornavano
le pareti come festoni. Ti sembrava di aver dormito per cent’anni. La
trapunta di satin era fredda contro le tue braccia ed eri rimasta a gia-
cere lì nel letto di Ianthe comoda, inerte.
Gradualmente, avevi percepito un peso cospicuo in una depres-
sione accanto a te. Ti eri girata sul fianco, profondamente atterri-
ta, all’improvviso, dalla possibilità di vedere la proprietaria del let-
to; la tua spada era stata appoggiata sopra le coperte accanto al tuo
corpo, sulla trapunta, col fodero d’osso che irradiava un bagliore gri-
gio e smorto in quell’imitazione di luce solare. Era un’eventualità per
ogni verso preferibile a quella di risvegliarsi con davanti la faccia di
Ianthe “Amo La Mia Gemella – Ma Anche L’Omicidio” Tridentarius.
Poi avevi sentito respirare. Con un’inaspettata lucidità di mente – e
di anima – avevi scostato il piumino e avevi raggiunto, strisciando,
il fondo del letto. E davanti a te avevi trovato Ianthe, sul pavimento.
Era a pancia in giù su uno dei tappeti crema e oro che coprivano la
moquette color miele scuro, e tutt’attorno a lei si allargava una pozza
cremisi di sangue. Stava lì spiattellata in quel lago rosso come se fos-
se la sua ombra. I capelli lunghi le ricascavano sul viso e sulle spal-
le come un velo, e sbuffava a denti stretti, inalando in lunghi respiri
terrificanti, come una bestia agonizzante. Mentre la osservavi – una
spettatrice silenziosa sul suo materasso – si era tirata su sui gomiti
e aveva afferrato con entrambe le mani la lama scarlatta del suo pu-
gnale tridentato e se l’era piantata, furente, nella cucitura intollera-
bile del braccio destro.
Ianthe infieriva, ancora e ancora. La ferita continuava a rimarginarsi
– la pelle si ricuciva appena la lama veniva estratta. Il sangue si coagula-
va attorno alla cucitura in una fila serrata di denti e spilli, che lei cerca-

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va di sfruttare nel tentativo di squartarsi, ma il gomito aveva finito per


vacillare sotto al suo peso, facendola collassare sul tappeto fradicio. Il
pugnale le sfuggì dalle dita insensibili. Si schiaffeggiò la cucitura quasi
impercettibile, e poi ricominciò. Alla fine le sfuggì un gemito basso e rot-
to e si lasciò cadere su un fianco, raggomitolandosi in posizione fetale.
La tua mente era sgombra. I tuoi pensieri caldi e ordinati, come re-
duci da un passaggio nel pulitore sonico. Con ben poca trepidazione
ti eri inginocchiata accanto a lei. L’avevi fatta stendere sulla schiena
– lei ti aveva squadrato con occhi atterriti, mezzi azzurri, parzialmen-
te marroni, screziati qua e là di lavanda. La bocca era piegata in una
brutta smorfia di disprezzo per se stessa. Avevi già visto quell’espres-
sione un milione di volte, riflessa nel tuo specchio, ma mai su di lei.
«Harrow» aveva detto, esitante. Tremava.
«Sei una sciocca» le avevi risposto.
«Ah, anelavo la melliflua dolcezza delle tue parole» aveva detto Ian-
the. La bocca, per il dolore, virava quasi al violetto. «Ah, come ado-
ro la tua tenera compassione.»
Era un’ipocrisia bella e buona, ma eri troppo concentrata per cu-
rartene. Le avevi detto: «Va staccato in un colpo solo».
«Cosa…»
«Trova qualcosa da mordere.»
Ti guardava fisso, gli occhi trasformati in un guazzabuglio selvag-
gio di colori; era distesa davanti a te con addosso quell’orrenda cami-
cia da notte giallo ranuncolo, che ora era un miscuglio di rosa, oro e
rossi, come un fegato. Dopo un istante, aveva annuito: si era strap-
pata dal drappeggio della gonna una fettuccia sanguinolenta di piz-
zo giallo, l’aveva compattata in un cilindro e se l’era cacciata in boc-
ca. Aveva dei denti bianchissimi e la lingua rossa e umida.
Ti eri tirata su sulle ginocchia, ondeggiando un po’, e l’avevi per-
cepita per quello che era davvero: un sublime conglomerato di ossa
ricoperte di pelle e carne, con un’imbottitura soffice di preziosi mu-
scoli e parenchima. Posandole le mani sulle costole riuscivi a veder-
le lo scheletro, come se si fosse spogliata timidamente per te, come
se nelle sfumature aranciate della luce del mattino avesse raschiato
via capillari e ghiandole dalla rosa in boccio della sua scapola. Vede-
vi la curva della sua clavicola, una delicata piega che ricordava quel-
la di una campanula spiovente.

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Era così facile. Ora che avevi dormito, tutto era facile. Ti pareva
di esserti trascinata in giro in una cassa di piombo, e ora eri libera.
Come sempre, alla vigilia di un lavoro complesso, avevi pregato ad
alta voce: pregavi per la pietra che non andava scostata e per l’occhio
chiuso e il cervello immoto; pregavi affinché una donna che amavi ti
sostenesse mentre spogliavi una donna che no, non amavi, ma le cui
ossa avresti adorato come un sacramento. Ti eri inginocchiata sulle
sue cosce e, dalle nocche, avevi sfoderato una portentosa lama d’os-
so – Ianthe si era ritratta, solo quella volta – e tu ne avevi affilato un
bordo fino a raggiungere una sottigliezza traslucida e liquida.
Avevi staccato il braccio con un taglio netto sezionando il nodo del
legamento scapolare e rimuovendo l’omero. Ianthe urlava nell’ammas-
so di pizzo che le riempiva la bocca. Il sangue ti sgorgò sul petto come
l’ondata di marea della luna nuova, lo sentivi inzuppare i vestiti, filtra-
va e ti sgocciolava giù per l’ombelico. Avevi cauterizzato la carne in
un’unica soluzione, pinzando i vasi e allungandoti per posare le dita
nel punto precedentemente occupato dalla testa dell’omero. Poi avevi
ripianato la cavità con dell’osso spongiforme – per ottenere una base
su cui lavorare – e ti eri rigirata la sua spalla tra le dita. Sussultava a
ogni tuo tocco. Le grida di Ianthe si erano ridotte a squittii famelici.
Il braccio doveva essere suo. Non sarebbe stato un problema. Ave-
vi estratto una ragnatela di filamenti sottili di midollo rosso dall’ala
d’osso che le cingeva la spalla e, da lì – dai granelli osteoblastici più
minuti, da quel reticolo labirintico che fasciava il tessuto spugnoso e
il midollo –, l’avevi ricostruita. L’omero era stato un gioco da ragaz-
zi e avevi ricavato un sincero diletto dall’alloggiarlo nell’amabilissima
conca del radio, nell’abbraccio biforcato dell’ulna. Le avevi scolpito la
troclea trattenendo il fiato, inserendola nel suo umido incastro bianco.
Con la mano ti eri quasi viziata. Lo scheletro rammentava se stes-
so. Non ti serviva conoscere in maniera così intima la gassa d’aman-
te tracciata dalle ossa carpali – il lungo dente del lunato, il promon-
torio sporgente del trapezio – e nemmeno ti serviva conoscere l’arco
della falange distale, il fusto, la base. L’osso nuovo emergeva avida-
mente per lambirti le dita, come se foste amanti che si danno la mano
dopo una lunga separazione. Il tuo ruolo, con le ossa, non era tanto
quello dell’artista, ma della guida. Il momento dell’arte subentrava in
quel momento, e l’avevi messa in guardia: «Farà male».

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Ianthe si era tirata un po’ su.


Eri conscia dei tuoi limiti. Avevi capito cosa fare col suo corpo in ma-
niera innata – non era quello che voleva lei, ma ritenevi che sarebbe sta-
to sufficiente. Avevi punteggiato le ossa di tendini solo dove credevi che
fosse necessario per garantire il movimento. Avevi insufflato i nervi nel
lucido periosteo, dove i nervi non erano mai stati prima. Non una dota-
zione completa, ma quanto bastava. L’osso avrebbe chiamato altre ossa,
e i nervi avrebbero chiamato il cervello. Quando avevi passato le dita
su quel nuovo troncone di omero elettrificato, Ianthe aveva quasi spu-
tato il brindello di pizzo; quando le avevi posato il palmo sulla spalla e
l’avevi collegata, si era messa a singhiozzare, ritmicamente, sotto di te.
Quello che avevi ottenuto, alla fine, non era un braccio. Era un co-
strutto: uno scheletro sezionato, scarnificato. Ti eri seduta accanto
a lei, raggelata dal sudore e piacevolmente spossata, come reduce da
una lunga corsa. Avevi osservato Ianthe che si staccava dai denti quel
fagotto di camicia da notte zuppo di saliva e che, tremando, solleva-
va alla luce il suo braccio nuovo: la calda luce elettrica conferiva alle
ossa nude del suo braccio un’iridescenza dorata.
Il vecchio braccio giaceva sul tappeto, abbandonato e morto – pa-
reva compatirsi anche un po’. Le avevi detto: «Non mi sono distur-
bata con la carne».
Ianthe aveva commentato, perplessa: «Ma ho sensibilità, però».
«La maggior parte delle ghiandole nervose sono nel gomito.»
«Perché allora…»
«Il processo di guarigione Littoriale dipende dalle tue fibre nervo-
se, quello l’hai capito, no?»
«Ma tu non…»
«A me manca del tutto quello che avete voi» avevi risposto. «E sono
stata costretta a inventarmi un rimpiazzo. Ho osservato, e ho confron-
tato. All’inizio pensavo di potermi innestare il processo, magari… ma
non è solo una questione di nervi, anche se sono quelli che segnalano
la ricostruzione. Pensavo che, se avessi percepito un dolore sufficien-
te, qualcosa si sarebbe innescato per salvarmi. Non è andata così.»
Aveva aperto le ossa della mano destra, poi le aveva richiuse, strin-
gendole in un pugno sperimentale. Le avevi detto: «Ti servirà comun-
que un cuscinetto di tessuti o di cartilagine sulle ossa del palmo, per
tenere la spada. Consideralo un guanto.»

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Ianthe si era scostata da te, incrostata di sangue secco. L’avevi os-


servata pararsi davanti allo stocco tempestato di ametiste che aveva
lasciato nel fodero. L’aveva estratto, adagio, producendo quel flebile
suono metallico che ti faceva digrignare i denti. Si era rivestita la mano
scheletrica con un panetto di grasso color neon – non la tua soluzio-
ne prediletta, ma anche lei aveva le sue inclinazioni – e aveva solle-
vato la spada, saggiando quel nuovo peso in un braccio notevolmen-
te più leggero rispetto a quello sul pavimento. Aveva chiuso gli occhi.
Affondo. Il braccio rispondeva. Il movimento era reattivo, liqui-
do, fluido. Aveva sferrato un fendente, facendo poi guizzare il polso
nudo; ogni azione era pulita. Il corpo non era più suo – era bizzarro
come non riuscissi più a riscontrare traccia di quella Ianthe che pa-
rava e colpiva svogliata. Vedevi, invece, un paladino che sapeva che
cosa la vita avrebbe avuto in serbo per lui sin dalla culla, un paladino
al quale era stato messo in mano lo stocco non troppo tempo dopo.
Avresti potuto cambiarti gli abiti o lavarti via il sangue di dosso.
Ma tutto quello che fece la tua sorella Littrice fu buttarsi sulle spalle
la veste bianca di madreperla, che si depositò come neve all’aurora.
Non fece altro che assicurarsi lo stocco alla vita e infilare il pugnale
tridentato nella guaina speciale che le drappeggiava il fianco e, pun-
tandoti un dito contro, disse: «Torno fra un quarto d’ora. Non usci-
re da questa stanza».
Eri ancora debole e spaventata e l’assenza di Ianthe ti aveva ricor-
dato quanto fossi vulnerabile. Ma Ianthe non assecondò le tue prote-
ste. Né ci mise davvero un quarto d’ora. Ti eri rimessa a letto, seduta,
con le coperte tirate fin sopra le spalle e, con estrema lentezza e rigo-
re, il battito del tuo cuore era tornato alla normalità.
Erano passati venticinque minuti buoni prima che la porta si apris-
se di nuovo. Ti eri rannicchiata, pronta a fuggire di scatto, ma dopo-
tutto si trattava solamente di Ianthe – una Ianthe cambiata. Non era
un bello spettacolo. Provavi un attaccamento da artista per il brac-
cio destro, ma ne riconoscevi la scioccante giustapposizione, la carne
esangue vicino a quelle ossa esangui, quella violenta nudità inattesa.
La camicia da notte gialla si era asciugata in un’incrostazione mar-
rone e i capelli si erano seccati a chiazze di una tonalità molto simi-
le: una sorta di alone color carota che le lambiva le tempie e le punte.
Ma l’espressione sul suo viso era di sollievo manifesto. Era l’espres-

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sione di un bambino stupefatto che ammira uno scheletro appena


evocato che avanza a scatti, per la prima volta senza cadere. Era in-
candescente, avvolta da una tenue lucentezza che conferiva alla sua
pelle una certa cremosità, trasformando i tratti da maschera funera-
ria del suo volto assente in qualcosa di animato e vivo. Gli occhi era-
no di nuovo blu, con quelle svettanti pagliuzze brune come il fondo
di un oceano spalancato. Per la prima volta ti eri resa conto di quan-
to somigliasse alla sua gemella.
Stringeva ancora nella mano scheletrica lo stocco della Terza, la
lama sguainata davanti a te, e ti aveva detto, senza prendersi la briga
di nascondere il suo entusiasmo: «È una merda. Si romperà».
«Non tanto presto, Tridentarius. È cenere rigenerante.»
«I miei colpi non hanno lo stesso peso di prima.»
«Lui non ha compensato?»
Aveva fatto guizzare la spada in un lento arco splendente, ruotan-
do il polso. Ianthe aveva risposto, non senza un certo divertimento:
«Naberius ha sempre compensato».
Le avevi chiesto: «Che cos’ha detto Augustine il Primo?».
«Niente» aveva replicato lei, ed era scoppiata a ridere, scampanel-
lii suonati a distesa. Si era buttata sul letto, esultante: «Niente di che.
Mi ha buttata nel Fiume e si è fatto due giri contro al mio corpo… ha
funzionato, Nonagesimus. Ha funzionato. Ha detto che è rivoltante
e che me lo placcherà lui…» («Che pacchianata» avevi commentato.)
«… ma riesco a combattere come ho combattuto dopo essere diven-
tata Littrice, prima di perdere il braccio. Sono vera, funziono. Har-
ry, sono una Littrice.»
La sua euforia era contagiosa. Non ti feriva. Tu non eri una Littrice.
Le avevi detto: «Sentiti libera di ringraziarmi nel momento che più
riterrai opportuno».
Ianthe ti si era accostata all’improvviso, sul letto. Aveva buttato lo
stocco sulle coperte e, per la prima volta, ti aveva sfiorato la guan-
cia con la punta secca del distale del suo nuovo dito indice. Eri vul-
nerabile, ma non ti eri scansata. Ti aveva tamburellato sullo zigomo
e ti aveva dato un colpetto – uno solo – sulla punta del naso. Infine,
ti aveva premuto il dito nudo sul labbro inferiore.
«Ringraziarti?» aveva detto. «Harrow, ci hai goduto tantissimo.»
L’artiglio liscio dell’articolazione dell’indice era freddo contro la tua

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bocca. La testa di Ianthe era piuttosto vicina alla tua. La camicia da


notte le si apriva un po’ sul davanti. La Principessa di Ida aveva det-
to: «So già come ti ringrazierò» lasciandoti interdetta. Eri perplessa,
idiota totale di una ragazzina che non sei altro. Eri stanca, eri in im-
barazzo e fluttuavi, sostenuta dalla soddisfazione di aver fatto qual-
cosa di semiperfetto – di aver eseguito un miracolo minore di tua
concezione –, di essere tornata, per una manciata di minuti, a essere
Harrowhark Nonagesimus, la necromante più grande mai prodotta
dall’oscura sacralità del Drearburh.
Ianthe ti levò il dito dalle labbra, ti guardò fisso negli occhi e ti ri-
volse un sorriso fosforescente e sicuro.
«Ti aiuterò a uccidere il Santo del Dovere» disse.

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Giorni dopo, la pioggia incessante e quella nebbia
indecente si trasformarono all’improvviso in ghiaccio. Harrowhark
si svegliò nel cantuccio alieno dove ormai dormiva, rossa e screpola-
ta dal freddo. Gli alloggi della Seconda erano stati designati, tra tutte
le stanze messe a loro disposizione, come i meno sgocciolanti, gra-
zie alla loro ubicazione nei piani più bassi del lato meridionale della
Casa di Canaan, e la Luogotenente Dyas li aveva invitati senza il mi-
nimo entusiasmo a trasferirsi da lei. Avevano disposto letti e materas-
si di fortuna sul pavimento del suo salottino, i mobili spaccati spinti
negli angoli e ammonticchiati ai lati – e ora giacevano tutti quanti lì,
come le vittime di un massacro.
Erano una banda sconclusionata: Abigail Pent e suo marito, che
condividevano il letto a baldacchino in via di decomposizione pre-
cedentemente occupato dalla defunta Judith Deuteros; Protesilaus il
Settimo e la sua adepta intubata, che dormiva come un bebè sanissi-
mo avvolta in un fascio di tappeti, manti e di tutti i suoi vestiti di ri-
serva; Dyas, che dava l’impressione di voler solo continuare ad affi-
lare il suo stocco, senza mai più dormire, finché non fosse riuscita a
fargli spuntare almeno diciannove lame; e Ortus; e lei. Ortus aveva
piazzato il suo materasso tra il resto degli astanti e la porta: «Sarò io,
quell’argine» aveva esclamato portentosamente, nonostante Harrow­
hark si fosse accorta eccome che quello era il punto più asciutto e cal-
do. E basta, non restava nessun altro. Quando aveva domandato che
ne fosse stato dei bambini superstiti della Quarta, Pent aveva ribat-
tuto con una certa reticenza che li aveva già trasferiti. Harrow colse
il sottotesto e si rese conto di non provare rancore per la loro condi-

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zione – accantonati, via, in modo che il resto del gruppo potesse of-
frire un bersaglio più grande e succulento.
Il respiro le brillava davanti alla bocca, le facevano male le dita, an-
che se aveva dormito con i guanti. Il sole splendeva flebilmente die-
tro alle chiazze cesellate della foschia piumosa che ricopriva il vetro,
come un mosaico, vetro su vetro: ghiaccio! Harrow fu travolta di colpo
dalla nostalgia per il Drearburh. La nebbia all’esterno era così densa
che la Casa di Canaan pareva essere ascesa al cielo nottetempo – er-
gendosi nell’atmosfera in un’ovatta spessa e bagnata di nuvole e fo-
schia, color ovino lercio. Harrow non riusciva a vedere né il mare né
il cielo. Le sembrava che la pioggia, fuori, scendesse con meno vigo-
re, ma poi percepì che, invece del mormorio uggioso delle precipita-
zioni, ogni goccia si era solidificata in un proiettile di ghiaccio che il
vento frustava contro le spesse finestre di plex, producendo il rumo-
re di un colpo di fucile.
L’alba era sorta da poco. Harrow aveva dormito con le pitture e i
denti avevano il sapore dei pigmenti. Si avvolse il velo attorno alla
bocca, a mo’ di sciarpa, e si alzò silenziosamente dal letto. Gli altri
dormivano ancora, in amache silenziose come tombe: Ortus davanti
a lei, una collina nera e leggermente ansante; alla sua destra, Protesi-
laus Ebdoma, che dormiva con la spada sul petto come una specie di
monumento militare, uno di quelli per i quali lo scultore si era lascia-
to prendere un po’ la mano sul fronte dei muscoli; alla sua destra, la
sua necromante, i boccoli corti color cerbiatto che le carezzavano le
guance infantili; e alla sua sinistra, Dyas, coricata con gli occhi spa-
lancati e la spada sul cuore. Accostati all’impugnatura d’acciaio dello
stocco i guanti apparivano bianchissimi, così come erano bianchissi-
mi sul seppiato della pelle scoperta dei polsi.
La porta della camera di Pent si aprì sui cardini silenziosi, rivelando
il suo paladino: sguardo gentile, capelli ricci e una stupidità abomine-
vole. Era in ciabatte e portava due giubbe sopra al pigiama: vedendo
Harrowhark, portò l’indice alle labbra e le fece segno di seguirlo nel-
la sua stanza. Dentro, Abigail Pent era raggomitolata su un enorme
davanzale, un divanetto decrepito si stava disgregando ai suoi pie-
di. Ammirava la grandine che cadeva, con serena fascinazione. C’era
un odore tostato, come di cioccolato e polvere. Una stufetta elettri-
ca tossicchiava aria tiepida sul pavimento, con le pale che cigolava-

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no roventi. Le dita insensibili di Harrow valutarono che non stava ri-


scaldando un beneamato cazzo.
«Che tempaccio, là fuori» disse Pent a voce bassa. «Caffè?» (Il pro-
fumo di cioccolato doveva essere quello. Harrowhark accettò una
tazza, principalmente per scaldarsi le mani.) «C’è un insolito calo di
pressione… anche se, ovviamente, nel Drearburh non dovreste an-
dare soggetti ad alcuna condizione atmosferica, vero? Siete riuscita
a dormire?»
Harrow si limitò a rispondere: «L’ambiente non mi tange. Potrem-
mo facilmente trovarci in circostanze più disagevoli». La sua cella,
spesso, era stata anche peggio.
«Amen» sussurrò il paladino di Pent, reggendo il bollitore del caf-
fè, che eruttava vapore selvaggiamente. «È quello lo spirito. Faremo
di voi una vera Quinta, Reverenda Figlia. Non c’è male – non pos-
so lamentarmi –, maledizione, nel Fiume andrà ben peggio di così.»
«Almeno finché la Duchessa Septimus resisterà» fece Abigail, in-
disturbata da una nuova raffica di proiettili ghiacciati nelle vicinanze
del suo cranio. «Ho cercato di farla propendere per il letto… è rima-
sta molto scossa dal fatto che la coppia di Templari non si sia uni-
ta alla squadra. Le ho detto che non speravo di riuscire a convincere
Maestro Octakiseron al primo colpo… non mi ha voluto riferire che
cosa le abbia detto, so solo che “è stato odioso”.»
«Testolina di cavolo impudente» disse Magnus. «Se fosse figlio
mio, gliene darei io un paio di cose su cui riflettere. Non mi sorpren-
de che si sia nascosto.»
«Tuo figlio sarebbe fatto di ben altra pasta, vorrei sperare» com-
mentò sua moglie con un mezzo sorriso.
«Protesilaus doveva prenderlo a sberloni.»
«È strano» disse Abigail, ignorando le esortazioni manesche di suo
marito. «Non è da Ottavi nascondersi, di solito.»
Harrow giunse interiormente alla decisione di dire la verità. Non
fu particolarmente difficile. Aveva tenuto in serbo quella conoscen-
za solo perché una donna dalla lingua scodinzolante non apprezzava
il silenzio del Sepolcro. Inoltre – e in tutta franchezza – non era cer-
ta che quello che aveva visto fosse reale: ma ormai era passata quasi
una settimana ed era stufa del movimento che facevano le sopracci-
glia di Magnus Quinn quando pronunciava la parola “sberloni”.

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«Silas Octakiseron non si sta nascondendo» disse. «È morto.»


Entrambi la squadrarono. Gli occhiali della Quinta necromante era-
no appannati dal freddo e il sereno sguardo castano pareva filtrare da
una cataratta impalpabile. «Domando scusa?» fece lei.
«Lo stesso vale per Coronabeth Tridentarius» aggiunse Harrow.
«Non vi sono certezze sul destino degli altri componenti della Ter-
za Casa.»
«Entrambi…» cominciò Magnus, e sua moglie si affrettò a inter-
romperlo: «il Dormiente…».
Harrowhark disse: «No».
Raccontò alla Quinta Casa quello che aveva visto; anche se omise
la parte della nebbia insanguinata.
Magnus e Abigail si scambiarono quella che le parve una lunghis-
sima occhiata. Magnus appariva inquieto, mentre sua moglie sem-
brava pietrificata e stranamente rassegnata. Dopo quello scambio
imbarazzante e prolungato, il paladino tornò placido a sorseggiare
la sua tazza di caffè.
«Avremmo dovuto assegnargli una priorità maggiore» disse Lady
Pent.
Magnus ribatté: «Non ne sono certo».
«E ora è andato» fece lei, aggiungendo: «Per non parlare della Ter-
za… Reverenda Figlia, avete detto che è accaduto quasi una settimana
fa. Una settimana. E non vi è venuto in mente di riferircelo?».
Nel tono di Pent c’era una nota leggermente accusatoria. Harrow­
hark non ne andava un granché fiera, ma nemmeno si sentiva trop-
po meritevole di biasimo; si sentiva solo piccola, vuota e dura, come
la grandine che si schiantava con veemenza sulle finestre là fuori. La
stufetta emise un altro singulto di calore polveroso. «Dovevo esser-
ne certa» disse.
«Di cosa?» domandò Magnus.
A quello non occorreva rispondere, quindi Harrow non lo fece. Si
limitò a stringere il caffè caldo tra le mani e a guardarli fisso, rivol-
gendo loro il viso dipinto – che sapeva essere leggermente sbavato,
ma comunque inquietante – con i bianchi e i neri sacramentali del-
la Nona Casa. Non fu difficile sconfiggere Magnus Quinn in quella
gara di occhiate; crollò in circa cinque secondi e si mise a guardare
fuori dalla finestra, sospirando con parecchia enfasi.

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«Non avevamo bisogno di lui» commentò con convinzione.


Abigail fece: «Abbiamo bisogno di tutti».
«Non ho mai pensato che fosse niente di che.»
«La perdita più grave è quella di Tridentarius» disse Harrowhark,
stizzosa. E Abigail le rispose in una maniera che trovò piuttosto di-
stratta: «Sì… sì, lo credo anch’io. È solo che non mi aspettavo che…
se lei non c’è più, allora potrebbe voler dire che… Reverenda Figlia,
mi fareste un enorme favore?».
«Dipende dal favore in questione.»
«Vorrei che me lo leggeste» disse Lady Pent.
Posò la tazza di caffè ormai vuota sul davanzale gelido e si sfilò di
tasca una bustina di veline. Aprì la linguetta dello scomparto di plex
superiore e tirò fuori, con delicatezza, un foglietto di carta ingiallita.
La Quinta adepta usò le più estreme estremità delle unghie per spie-
garlo, con perizia e tenerezza. Harrow scattò in piedi, ma tra lei e la
porta non si sa come si era piazzato il paladino. Il sudore le imperla-
va il retro delle ginocchia e le pizzicava le orecchie mentre abbassa-
va lo sguardo sul foglio.
Harrow disse: «Vorrei coinvolgere il mio paladino nella conversa…».
«Avete bisogno di Ortus il Nono perché legga insieme a voi un pez-
zo di carta?» disse Magnus Quinn, con aperta e abbondante giovialità,
del genere che per fermezza, inflessibilità e cortesia ricordava quello di
un ordine. L’avevano fregata. Era una stupida. Aveva smarrito ogni ti-
more della Quinta Casa, e ora era finita in gabbia, in una gabbia in cui
solo la Quinta Casa poteva rinchiuderti: senza mai smettere di sorri-
dere, comportandosi come se tutta quanta la faccenda fosse in realtà
uno scherzo. Harrow assunse un’aria imperturbabile e deglutì lenta-
mente, in modo da nascondere il palese nodo che le stringeva la gola.
Temporeggiò. «È scritto piccolo.»
Pent commentò: «Trovate?».
La Quinta necromante non lasciò andare il foglio. Harrowhark fis-
sò quella grafia convulsa, rosso sangue: scarabocchi frettolosi e furi-
bondi, vergati con una tale enfasi da bucare il foglio.

MI RICORDERÒ DELLA PRIMA VOLTA CHE MI HAI


BACIATO – MI HAI CHIESTO SCUSA – MI HAI DETTO
MI DISPIACE, DISTRUGGIMI, SUBITO, MA VOGLIO

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BACIARTI PRIMA CHE MI UCCIDANO, E IO TI HO DETTO


PERCHÉ, E TU HAI DETTO PERCHÉ SOLO UNA VOLTA HO
CONOSCIUTO AMANDOLA ALL’ISTANTE UNA PERSONA
COSÌ PROFONDAMENTE PRONTA A BRUCIARE PER LE
SUE CONVINZIONI E LA PRIMA VOLTA CHE SONO MORTA
HO CHIESTO A LUI QUELLO CHE ORA CHIEDO A TE.
TI HO BACIATO E DOPO AVREI BACIATO ANCHE LUI
PRIMA DI CAPIRE CHE COS’ERI, E TUTTI E TRE SIAMO
ANDATI AVANTI A VIVERE RIMPIANGENDOLO – MA
QUANDO SARÒ IN PARADISO MI RICORDERÓ DELLA TUA
BOCCA, E QUANDO BRUCERAI ALL’INFERNO CREDO CHE
ANCHE TU TI RICORDERAI DELLA MIA.

Harrow declamò quello sproloquio in tono monocorde, piatto e


meccanico, affievolendosi su quel “mia”. Il paladino squadrava il fo-
glio, mentre la sua necromante squadrava lei.
«Leggetemelo» le disse lei, mantenendo quel tono piatto e duro
come la grandine.
Abigail tornò a rivolgere l’appunto verso di sé, trattandolo sempre
con la cura che si riserva a chissà quale inestimabile reperto.
«Mi spiace dirlo, ma i serpenti continuano a suscitarmi un fricci-
corio erotico» lesse.
Ci fu un breve silenzio. La grandine schiaffeggiò il vetro della fi-
nestra come se volesse trapassarlo per scaraventarsi dentro. Lun-
go i bordi si allargava una cordigliera di ghiaccio azzurrino pallido e
dove si era seduta Abigail restava una foschia limpida. Tutti e tre fis-
savano, con un certo distacco, le profondità della nebbia che vortica-
va rapida all’esterno – incurante del vento e immune alle raffiche di
grandine gelata – e le particelle di cenere che si stavano unendo alla
grandine nella tempesta, come se quel sovraffollamento di fenome-
ni atmosferici fosse stato potenziato dall’eruzione di chissà quale di-
stante cono lavico.
«Una lieve differenza, insomma» disse Harrow. E Abigail ammi-
se: «Per certi versi, sì».
Magnus disse: «Ma perché…».
«Sono pazza» lo interruppe lei. «Sono sempre stata pazza, fin da
bambina. Allucinazioni uditive. Vedo cose che non esistono. Ortus

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l’ha in buona parte mascherato, ma come avete appena constatato,


approfittandovene, alla mia vulnerabilità non occorre altro che la sua
assenza. Non vi ho parlato della morte di Silas Octakiseron perché
non ero certa di essere una testimone affidabile. Sono matta.»
Abigail Pent si tolse gli occhiali e se li infilò in una delle tasche su-
periori delle vesti. Si allungò per carezzare il braccio di Harrow, ma
Harrow trasalì, scostandosi; si accigliò lievemente, scusandosi soli-
dale, e ritirò la mano.
«Un segreto ben custodito» commentò lei. «Vorrei saperne di più,
prima o poi, se mai sarete incline a parlarmene. Ma, Harrowhark,
tutto questo combacia perfettamente con un’altra delle mie teorie,
se per tutto questo tempo vi siete solo limitata a esaminare le vostre
frustrazioni… avete mai pensato alla possibilità di essere anche…»
«Eccola, ci risiamo» fece suo marito, sfibrato. «Il complotto spiritico.»
«Magnus! Infestata» concluse sua moglie, trionfante. «Harrowhark
Nonagesimus… ritengo davvero che dovreste prendere in considera-
zione la possibilità di essere anche infestata.»

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Augustine era tutto sorrisi, ora che Ianthe la
Prima aveva superato quell’ultimo ostacolo. La sua palese soddisfa-
zione contribuiva parecchio ad alleviare la tensione gonfia e livida
che aveva permeato il Mithraeum. Trovavi quel suo sollievo franco
e aperto assai paternalistico, ma la tua sorella Littrice era di altro av-
viso o, perlomeno, faceva del suo meglio per dare sfoggio di apprez-
zamento. Eri andata ad assistere a un duello tra i due nella sala d’ad-
destramento, sedendoti in silenzio con lo stocco in pugno – persino
dal tuo punto di vista, che poi era quello della Nona Casa, ti pareva
che abbondassero le formalità inutili. Smancerie antiquate a profu-
sione e un sussiego da duellanti che a casa tua erano stati ormai da
quel dì dimenticati. Ianthe era una santa della Terza Casa e Augu-
stine un’anticaglia della Quinta; nessuno dei due muoveva un pas-
so senza prima stendere un tappetino o senza presentarsi a un pub-
blico composto da un migliaio di ossa monumentali dallo sguardo
quieto – più te.
Dopo il protocollo, però, toccava alle spade. Ti ricordavi così poco
di Naberius Tern, sia da morto che da vivo, ma da quello che avevi
potuto capire, sarebbe stato l’ultimo paladino di quell’intero univer-
so senza stelle a trovarsi meglio con un braccio scarnificato. Ciono-
nostante, Ianthe era guarita. Avevi coltivato la speranza, remota e in-
fantile, che Ianthe potesse ritenere estinto il tuo debito; che il fatto
che le avessi salvato la vita fosse sufficiente a svincolarti dal collare
dell’obbligo che ti aveva stretto attorno al collo.
«Manco per sogno» ti aveva detto. «Quando te lo chiederò, saprai
per certo che te l’avrò chiesto, Nonagesimus.»

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Il Santo della Pazienza aveva mantenuto la promessa di rivestirle


il braccio e, ora, sorprendevi spesso Ianthe a rimirarsi le dita metal-
lizzate, il bagliore burroso dell’oro sul triquetro. La tua sorella mag-
giore, il cui disagio e stizza crescevano di pari passo con la paciosità
di Augustine, ne aveva discusso con te nei corridoi: «Sei stata davve-
ro tu a erigere quell’agghiacciante edificio?».
«Sì» le avevi confermato.
«Ed è davvero osso autosintetizzante?»
«Sì» avevi detto. «Anche se non definirei il processo “sintesi”, dato
che il costrutto si limita a crescere in maniera perpetua riempiendo
uno schema scheletrico predefinito. È un’ulteriore dimostrazione di
come la risonanza topologica possa essere manipolata.»
Gli occhi di Mercymorn si assottigliarono riducendosi a fessure
uraganiche sotto le ciglia corte e folte. Era fasciata stretta dal bianco
prismatico del suo manto Canaanita, come se avesse freddo, e si era
tirata indietro la chioma color pesca come se dovesse portare il sog-
golo. Aveva commentato: «Capisco». E poi: «Chiaro. Chiaro. Quan-
to fa due più due?».
«Quattro…»
«Qual è l’osso più piccolo del corpo?»
«La catena degli ossicini uditivi, ma…»
«Come si chiama il Santo del Dovere?»
Avevi risposto: «Ortus il Primo» ma eri stata troppo lenta. Si era
allungata e ti aveva mollato un buffetto sulla tempia. Quello che Mer-
cymorn la Prima era in grado di fare toccandoti semplicemente la
tempia avrebbe potuto comportare la tua fine in maniera molto più
lineare rispetto a un incontro con il Santo del Dovere e la sua lancia…
ma ti aveva ripetuto: «Ortus». E poi l’aveva detto di nuovo tutto d’un
fiato: «Ortus-Ortus». Ti faceva male la nuca e avvertivi anche quel-
la fitta gelida di dolore che ti trapassava i seni sinusali e ti prendeva,
di tanto in tanto, nell’atmosfera secca del Mithraeum. Ti eri scansa-
ta di scatto – accostando le dita alle borchie d’osso che portavi alle
orecchie – ma non ti stava attaccando. Tu, così consapevole del tuo
corpo, non percepivi nessuna ghiandola sovraeccitata, nessun flusso
chimico, nessun vaso che si comprimeva.
L’unico cambiamento era rilevabile in Mercy. Il suo placido viso
ovale aveva assunto la medesima espressione che avevi visto, dietro a

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un velo sottile di interiora, il giorno che avevi fatto mangiare ai Litto-


ri il tuo midollo. Ti aveva squadrata, in silenzio, forse addirittura un
po’ smarrita; e aveva detto: «Non riesco a capire se sei un genio sen-
za precedenti, una pazza imbecille o entrambe le cose».
Poi aveva esclamato: «Bambini come pugni! Infanti come gesti!
Blah! Puah! Vivo nel peggiore dei mondi possibili».
E senza aggiungere altro, Mercymorn si era allontanata a grandi
falcate giù per il corridoio, nella direzione opposta, con le luci che
trasformavano in arcobaleni le sue vesti fascianti.
Quando avevi riportato la conversazione a Ianthe, non aveva di-
mostrato un particolare interesse. Quella era, per te, la pecca princi-
pale della tua sorella-santa: era dotata di una gamma predetermina-
ta di cose che meritavano la sua attenzione e la sua considerazione,
e metteva da parte tutto il resto. («Sei tu che rimugini su qualsia-
si cosa» ti aveva detto una volta, rispondendo a quell’accusa. «Rie-
sci a scovare presagi sacrileghi anche nel modo in cui la gente dice:
“Buongiorno”.»)
«È acida» aveva detto Ianthe. «Augustine dice che anni fa le è sal-
tata qualche rotella e, come un orologio rotto, “segna l’ora giusta due
volte al giorno, per caso”. Evitare, evitare.»
Quanto odiavi le frasi che cominciavano con «Augustine dice».
«Ma mi ha toccato la testa» avevi detto. «Stava cambiando qualcosa,
o cercava qualcosa… e io non ho idea di cosa sia.»
«Il tuo cervello» aveva suggerito Ianthe.
Più tardi eravate coricate insieme nel suo letto arzigogolato, abba-
stanza lontane da sfiorarvi con la punta delle dita, nel caso ti fosse
venuto da allungare una mano. Ti era toccato ammettere che quello
era l’unico posto in cui riuscivi a dormire sentendoti al sicuro, dato
che le tue barriere risultavano così eminentemente devastabili. Lo
scherno che dovevi tollerare a causa di quel bisogno di prossimità ti
causava una pena sopraffina, ma la completa interezza della tua vita
si stava ormai trasformando in un’umiliazione.
Dormire fianco a fianco, però, era… strano. L’idea era stata sua. Tu
avresti pure dormito sul tappeto, se non avessi ritenuto che ti avreb-
be messo in una posizione più vulnerabile al Santo del Dovere – sa-
rebbe stato troppo facile scorgerti dai finestroni, in caso di un assal-
to proveniente dal versante spaziale. Il trauma ti impediva di pigliare

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un cuscino e andare semplicemente a dormire nella vasca da bagno.


Ti coricavi sulla schiena in mezzo a coperte prese a prestito, indos-
sando vestiti di terza mano. Ianthe ti aveva dato una camicia da notte
color asfodelo, riesumata da un qualche cassetto decrepito pieno di
artefatti appartenuti alla paladina di un Littore morto da chissà quan-
to. Ti facevano somigliare a un’infiammazione epatica. L’occhio ti era
mestamente caduto sul quadro di fronte al letto che ritraeva una ti-
zia sublime con un sacco di capelli tra il dorato e il ramato, un sorri-
so trasognato e zero indumenti – nonostante brandisse uno stocco e,
per motivazioni che proprio ti sfuggivano, anche un melone.
Quella prima notte nel suo letto, avevi piazzato il tuo spadone am-
mantato d’osso tra di voi, e ti eri sentita meglio; lei, prevedibilmen-
te, ti aveva presa in giro. «Rilassati» ti aveva detto. «Non ti ho invita-
ta a un’orgia, Harrow.»
Da coricata, il quadro con quella donna nuda dalla bellezza tumul-
tuosa era proprio al centro del tuo campo visivo. Avevi mormorato:
«Ti credo… anche se non lo farebbero in molti».
«Ecco perché continuo a coltivarti, Harrowhark» aveva ribattuto
lei. «Per il sospetto che tu possa possedere del senso dell’umorismo.»
Le avevi risposto: «Non sono così boccalona da credere che la tua
unica motivazione sia questa».
«Ma certo che voglio qualcosa da te. Ma non è niente di persona-
le» ti aveva detto Ianthe. «Cerca di capirmi, Harry. Do sempre la pre-
cedenza all’opzione più intelligente… taglio i ponti che hanno biso-
gno di essere tagliati… cerco di entrare prima che chiunque altro lo
possa fare. È quello che ho sempre ammirato in te, quando eravamo
a… be’, ho promesso di non parlarne… sono molto brava a vedere il
quadro generale. E il fatto che tu sia viva fa parte, in questo momen-
to, del mio quadro complessivo.»
Entrambe eravate rimaste a fissare, in quel silenzio notturno di co-
perte e oscurità, il grosso quadro che avevate di fronte.
«Sono tutti autoritratti, sai?» aveva commentato, malinconica.
«Cyrus il Primo e la sua paladina dipingevano continuamente questi
nudi, insieme o l’uno dell’altra, li appendevano ovunque e li regala-
vano alla gente per il compleanno. Augustine mi ha detto che Cyrus
li aveva fatti portare tutti qui dalla Casa di Canaan.»
«Ma perché tu continui a tenerli?»

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HARROW LA NONA  /  271

«È il genere di energia che spero di poter portare con me nel futu-


ro» aveva detto Ianthe.
Eravate rimaste distese nella tenue luce blu abitativa delle ore not-
turne, non così vicine da potervi semanticamente definire due perso-
ne che “andavano a letto insieme”. Ma restavi comunque molto con-
sapevole della sua presenza: i capelli che parevano latte scremato, la
bocca scontenta, quel satin ambrato che indossava e che rendeva il
suo braccio così dorato e le sue vene così verdi.
«Il Santo del Dovere è ammazzabile» aveva detto lei. «Hai dimo-
strato di essere capace di ucciderlo, anche se non sei una Littrice re-
golamentare. Se dipendesse da me, quindi, sarebbe già morto.» (Non
ci credevi neanche lontanamente.) «Il vero problema è Maestro. Non
sono sicura che tu possa uccidere Ortus abbastanza alla svelta da evi-
tare che Maestro sfondi una parete strillando: “Non sotto la mia giu-
risdizione!”, riportandolo indietro da un colpo fatale.»
Le avevi domandato: «Allora che cosa proponi? Vuoi distrarre Dio?».
«È esattamente quello che propongo» aveva detto Ianthe. E ave-
va proseguito infervorata, nonostante il suono che avevi prodotto:
«Sono seria. Augustine ha detto che ci penserà lui… gliel’ho chiesto
come favore, e mi ha detto di sì».
«Augustine ti ha detto di sì? Augustine ha accettato di partecipa-
re all’omicidio di suo fratello Littore?»
«Su questa stazione esistono dinamiche di potere molto comples-
se» aveva detto tua sorella Littrice, con la quale intrattenevi una di-
namica di potere molto complessa. «Gli ho raccontato tutta la sto-
ria – non fare quella faccia, Harry, rischi che ti rimanga così – e lui
mi ha risposto che Ortus corre un po’ troppo a briglia sciolta e che
cosa creda di fare, Augustine non lo sa, ma prendere di mira te è sta-
to stupido, visto che verrai comunque divorata dagli Araldi, punto e
basta… scusami, testuali parole.»
Le avevi risposto senza particolare entusiasmo: «Apprezzo la
sensibilità».
«In ogni caso, lui è convinto che per abbattere la Numero Sette ci
si possa arrangiare anche con solo tre Littori, quindi se io raccoglierò
il testimone di Ortus, ora che non sono più “problematica” – come
puoi vedere la mia dose di calci nel sedere l’ho presa anch’io, Nona-
gesimus –, può garantirti un’ora, dopo cena.»

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«Quando?»
«Domani.»
«Come?»
«Non l’ha specificato – ma stiamo parlando di “Augustine il Pri-
mo”, figlia mia. È il primo Littore, il più vecchio. Questi tre sono i più
antichi in assoluto – e gli ultimi, pure –, ecco perché sono Pazienza,
Gioia e Dovere… tre virtù. Se Augustine distrarrà Dio, allora vuol dire
che distrarrà Dio. È molto vecchio e, per quanto detesti ammetterlo,
è brillante… è sofisticato… è subdolo. Comunque, io mi sono occu-
pata di lui, e lui si occuperà di Maestro, e tu ti occuperai di Dovere.»
«Hai già… pianificato tutto?»
«Battiti con lui e vinci, Harry. Prendilo come un risarcimento per
il braccio… mi sembri sorpresa.»
Ti eri sorpresa a mormorare, quasi più stupita di te stessa che per
lei: «Fiera guerriera della Terza Casa schierata! Con me galoppa, so-
rella ritrovata!».
Un rimescolio arrivò dal suo lato del letto – si era tirata leggermen-
te su a sedere, l’omero scoperto dalla pelle metallizzata vistosamen-
te appoggiato sulle coperte.
«Era una poesia?» aveva domandato.
«Ho i miei dubbi» avevi ribattuto, e lei si era rimessa giù. Poi le ave-
vi detto: «Accetto il tuo aiuto. Sono costretta ad ammettere di non
poterlo fare da sola».
«Vivo per queste tue riluttanti ammissioni» aveva detto Ianthe.
«Sarebbe stata una vera rottura se avessi detto di no. Ho già orga-
nizzato tutto.»
Eravate rimaste entrambe in silenzio. La copertura del letto a bal-
dacchino oscurava l’affresco sul soffitto eccessivamente decorato – un
sollievo per gli occhi. Le coperte erano più morbide delle coperte del
tuo alloggio, anche se trovavi il materasso troppo molle per risulta-
re davvero confortevole. Ci si sprofondava come in una fossa. Non
eri abituata a così tanti cuscini e non eri nemmeno abituata al brivi-
do scivoloso del satin sulla pelle, e non eri nemmeno abituata a sen-
tire il respiro di qualcun altro, impalpabile, accanto a te. Per un atti-
mo ti era parso che Ianthe si fosse addormentata.
Poi aveva detto, con noncuranza: «Coronabeth e io abbiamo pas-
sato separate solo tre notti in vita nostra e la seconda volta si è mes-

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sa a piangere così tanto che ha vomitato… spero che stia dormendo


bene, ora. Quando non dorme le vengono delle borse sotto gli occhi
così grandi che ci potresti portare l’acqua».
Ti sembrava che una risposta fosse doverosa, ma non volevi par-
lare di gemelle morte. Ti eri limitata a commentare: «Io ho sempre
dormito da sola».
«Non l’avrei mai detto.»
Avevi riscontrato una certa affettazione nel tuo tono, quando le
avevi risposto: «Io sono promessa al Sepolcro Sigillato, Tridentarius.
Dormivo su una brandina nella mia cella».
«Eri una suora timorata di Dio, me lo dimentico sempre… e per di
più hai sei anni, se diamo retta a Mercymorn. Quanti anni hai dav-
vero, Harry?»
«Diciotto, e la mia pazienza per quell’Harry si sta assottigliando.»
«Diciotto» aveva commentato lei, con un’aria da donna di mondo
estenuata e navigatissima. «Mi ricordo dei miei diciotto anni.»
«Ne hai ventidue.»
«C’è un universo di differenza, rispetto ai diciotto.»
Giacevi a letto come una scultura di marmo, il corpo distaccato e re-
moto. Il sonno e la sicurezza avevano attenuato il tuo senso di panico,
ma non l’avevano soffocato del tutto. Se Ianthe si fosse allungata per
toccarti il braccio, temevi che non avresti capito di chi fosse il braccio
che stava toccando. Eri terrorizzata che ti toccasse. Eri terrorizzata che
chiunque potesse toccarti. Avevi sempre avuto paura che ti toccassero.
Ma lei non ti aveva toccato. Invece, sonnolenta, ti aveva chiesto:
«Ti tieni davvero addosso tutte quelle lettere?».
Visto che ora vivevi in esilio dalla tua stanza, le conservavi in cap-
sule cave all’interno del tuo esoscheletro, la collocazione di ciascu-
na delle ventidue era scolpita nella tua memoria come uno degli in-
numerevoli teoremi. Avevi provato a infilartele semplicemente nella
veste, ma ti facevano frusciare. «Sì» avevi risposto, senza scendere
nei particolari.
E poi ti aveva allarmata, domandando: «Qualche rimpianto,
Harrowhark?».
«A proposito di che?»
«A proposito di tutto questo. Partire per la Casa di Canaan. Diven-
tare Littrice. Venire al Mithraeum.»

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Non ne eri affatto sicura. «No.»


«No, immagino di no» aveva detto lei, roca. «Sei stata più lun-
gimirante di me… io? Io non rimpiango mai niente, è una regola.
Buonanotte.»
Ti eri interrogata a lungo, al buio, su quel “buonanotte” che era ri-
masto lì sospeso, senza una replica. “Sei stata più lungimirante di me.”
Era il complimento più sincero che le fosse mai uscito dalla bocca, nei
tuoi riguardi. Non davi un particolare peso ai complimenti – accettarli
era un segnale di vanità ed elargirli era paternalistico – ma questo, nel-
lo specifico, ti riecheggiava in testa. “Sei stata più lungimirante di me.”
Prima di chiudere gli occhi avevi guardato la paladina di Cyrus il
Primo, anche se non per apprezzarne l’aspetto. Eri più colpita dall’idea
che fosse morta alla Casa di Canaan, quando il lavoro era ormai stato
completato – quando il teorema Littoriale era stato messo a punto. Il
suo necromante aveva conservato quei cimeli lugubri di proposito. Si
era circondato dei quadri che aveva dipinto, dei suoi ritratti e di quelli
della paladina la cui anima ora alimentava la batteria del suo cuore. Eri
fortunata a non dover soffrire per il ricordo del tuo paladino – tranne
quando prendeva talvolta la forma di un mal di testa che ti affliggeva le
tempie, o di parole che ti entravano in testa e che continuavi a risentire.
Alcune di quelle parole ti stavano pungolando proprio in quel mo-
mento. Le avevi recitate, tra te e te, nella quiete del tuo cervello:

Fiera guerriera della Terza Casa schierata!


Con me galoppa, sorella ritrovata!
In sella verso la morte, e il cimento!

In sella la testa alziamo; il cuore dell’empio


insanguinerà la nostra lama;
che sia la morte quel che ai malvagi portiamo…

E la morte per noi soli conquisteremo,


che ricompensa sia per le nobili gesta
che sull’incenerita piana dei corvi dispiegheremo!

Libro Undicesimo. Matthias Nonius e la seconda paladina della


Terza Casa si accingono a polverizzare – con un’estenuante dovizia

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di particolari – un’intera legione. A quel punto, la figlia della Terza,


gravemente ferita, dev’essere trasportata a forza in un deserto thaner-
gicamente irradiato mentre Nonius medita ad alta voce sulla natura
del destino fino al Libro Dodicesimo. Ti eri addormentata.

* * *

Il pomeriggio successivo, una busta era stata fatta scivolare sotto la


porta di Ianthe. Era carta di un marroncino scuro e cremoso, sigil-
lata con la ceralacca. Quando Ianthe l’aveva aperta, avevi sbirciato
il contenuto da sopra il suo gomito. Un unico foglio: anche quello
di carta vera, anche quello tinto di un cremoso color cuoio, verga-
to estrosamente con una calligrafia impeccabile in un inchiostro di
un blu profondo:

AUGUSTINE IL PRIMO, LITTORE


DELLA GRANDE RESURREZIONE, FONDATORE
DELLA CORTE DI KONIORTOS, PRIMO SANTO
AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO
DOMANDA ALLE SUE SORELLE MINORI
DI ONORARLO CON LA LORO PRESENZA

IANTHE LA PRIMA, OTTAVA SANTA


AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO

&

HARROWHARK LA PRIMA, NONA SANTA


AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO

LA CENA SARÀ SERVITA MEZZ’ORA


DOPO LO SPUNTARE DELLA SERA

ABBIGLIAMENTO: TENUTA FORMALE O DA CERIMONIA

La testa ti pulsava, rispondendo a una tediosa presa di coscienza.


«No» avevi detto.

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Ianthe ti aveva schiaffeggiato la spalla con l’invito, nella sua con-


sueta parodia della spensieratezza, che somigliava un po’ al farsi sbal-
lottare di qua e di là da un predatore mentre eri ancora viva. «Il pia-
no è questo, Harrowhark. Devi solo metterti comoda e ammirare il
mio maestro all’opera.»
Le avevi detto: «Non capisco come tu riesca a riporre la tua fidu-
cia in quell’uomo».
Non andava bene. Avresti preferito che ore e ore vi separassero
dall’orario prestabilito; avresti preferito un piano che non necessitas-
se di un invito formale, un dress code e una cena. L’ultima cena a cui
eri stata non era filata propriamente liscia e trovavi che un’altra fos-
se di cattivo gusto. Ma non avevi fatto i conti con la tua compagna di
stanza, che – in qualità di principessa della Terza Casa – considera-
va le cene l’equivalente delle tue orazioni mattutine.
«Ho ancora i miei paramenti ufficiali» avevi detto mentre faceva
a pezzi il suo armadio, tocchicciando ogni capo che conteneva pri-
ma di scagliarlo via.
«Ma non è più a quell’ufficio che appartieni. No-no.»
«Tecnicamente è corretto.»
«Non questa volta, figlia mia. Sono stufa di essere accostata a un
bastoncino di liquirizia spezzato a metà, con una tenda addosso… No.
Orrendo… nemmeno Corona se lo metterebbe. No… no.»
«La mia camicia e i miei pantaloni saranno sufficienti, allora. Con
sopra il bianco Canaanita.»
«Ancora peggio» aveva commentato Ianthe, estraendo dal suo al-
loggiamento quella che aveva tutta l’aria di essere una gonna a ruo-
ta di tulle in un viola notturno; la gonna e la ragazza ebbero una bre-
ve colluttazione prima che Ianthe riuscisse e scaraventarla dall’altra
parte della stanza. «No… sì, ma per una festa diversa e di gran lunga
migliore… no… no. A volte penso che l’Imperatore delle Nove Case
ti favorisca perché avete i medesimi gusti in fatto di abbigliamento.
Dio mio, ma cos’è questo? Quest’altro è un po’ troppo osé…»
Cominciavi a perdere le speranze. «Me lo scelgo io.»
Ianthe ti aveva squadrata; nei suoi occhi azzurro-castani non c’era
altro che beatitudine. «Harry» ti aveva detto, e te l’aveva detto dolce-
mente, «hai mai letto uno di quei romanzetti da quattro soldi in cui
l’eroina si sottopone a un cambio di look interiormente rivoluziona-

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rio, si trucca un po’ e poi va a una festa e tutti quanti le dicono: “Per le
ossa dell’Imperatore! Ma sei bellissima”. Oppure: “È la prima volta che
ti vedo davvero”. E se il protagonista è un necromante verrà descritto
tipo così: “La sua fragilità non faceva che accrescere l’effimerità del-
la sua insalubre avvenenza” eccetera eccetera, quindici pagine dopo
appare la parola “mugolio”, mentre alla pagina dopo c’è “capezzolo”?».
Le avevi risposto, con una certa enfasi: «No».
«Allora non condividiamo alcun riferimento comune. Per fortuna,
però, non è questo il caso» aveva aggiunto. «Nemmeno una dei pu-
gni e dei gesti dell’Imperatore potrebbe sottoporre Harrowhark No-
nagesimus a un rivoluzionario cambio di look… sexy, poi. Certe vol-
te mi sembri il funerale di uno scopino. Ma proprio se ti guardo con
la luce giusta, per di più… Oh, questo potrebbe andare, è anche il tuo
colore. Vieni qua.»
Reggeva un ammasso di stoffa nera, anche se mai un nero di quel
tipo era esistito nella Casa del Sepolcro Sigillato. Ti eri avvicinata con
manifesto orrore. Ianthe aveva srotolato un lungo drappo di quella
roba fosca e stellata, accostandotelo addosso; aveva tutta l’aria di es-
sere una specie di… immenso fazzoletto. Non era un vestito.
Quando gliel’avevi fatto notare ti aveva risposto, spigolosa: «Va-
lancy Trinit era alta come me, pesava più di noi due messe insieme e
– a giudicare dai suoi ritratti – non aveva un corpo particolarmente
arrendevole. Il tuo corpo, in confronto, si è arreso ai blocchi di par-
tenza. Spogliati.»
“Spogliati” era un imperativo al quale mai avresti pensato di obbe-
dire. Non ti eri tolta tutti i vestiti, ma avevi acconsentito a rimanere
in camiciola, perché era una camiciola lunga. L’esoscheletro offriva
una certa schermatura, anche se non bastava nemmeno lontanamen-
te a farti sentire a tuo agio. Eri rimasta lì impalata col mento all’in-
sù, aspettandoti una valanga di triviale scherno, ma lei si era limita-
ta a chiederti: «Puoi toglierti quel grottesco corsetto scheletrico?».
«No.»
«E la pittura in faccia?»
«No.»
«Non so neanche perché continuo a farti queste domande» ave-
va concluso.
Ti aveva avvolto quella specie di sciarpa attorno, l’aveva fermata

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con gli spilli e, sbuffando, se l’era ripresa. Non ti rimaneva altro che
metterti a sedere sul letto, mangiando una delle mele che non aveva
ancora usato per i suoi esercizi. Mangiavi e la osservavi, e avevi an-
che riletto l’invito. Ianthe – un classico per una maga corporale – si
era armata di ago e filo e si era felicemente votata al cucito. Aveva di-
chiarato che infilare il filo nella cruna dell’ago con la mano scarnifi-
cata era «facilissimo, giuro».
Sul retro del foglio c’era scritto: NEI MIEI ALLOGGI, DIECI MINUTI
PRIMA.
«Provatelo» ti aveva ordinato, a un certo punto.
Era poco più di un velo. Te l’aveva assicurato sopra una spalla, la-
sciandoti entrambe le braccia scoperte e intirizzite. Il materiale era
evanescente e sdrucciolevole come l’acqua; una volta rispuntata da
un paravento pacchiano, ti aveva stretto attorno al corpo quella roba
nera e luccicante. Non era un vero nero, era striato da uno scuro in-
daco chimico e, guardandoti allo specchio, la sfumatura trasformava
i tuoi occhi in pozzi senza luce. Sopra a quella distesa di nero azzur-
rato, tempestato di scintilline bianche intrappolate come filamenti iri-
descenti che germogliavano da un cadavere carbonizzato, le tue iri-
di erano svuotate di ogni colore.
Ianthe ti girava attorno, tirando e appuntando. Lo tolleravi solo
perché il suo tocco era disinteressato e clinico. Il tocco delle sue dita
vive, così come di quelle morte, non si soffermava a cincischiare. Era
come se fossi la sua salma patchwork. La sua abilità ti stupiva, ma lei
liquidò i tuoi complimenti: «Questa è una bazzecola. Naberius era
capace di ricamarti un’intera sopragonna senza nemmeno pungersi
un dito». La si sarebbe potuta interpretare come una virata che si av-
vicinava al sentimentalismo, ma aveva aggiunto: «Sarebbe stato bel-
lo se uccidendolo avessi ereditato anche il suo talento per il cucito».
La tua sorella Littrice ti aveva spazzolato i capelli, cercando di dar
loro un po’ di volume con le dita. Ora che erano così lunghi si pote-
va fare. Te li eri rasati praticamente a zero solo poco tempo prima:
si erano presi un bello spavento, ma erano ricresciuti a gran veloci-
tà. Avevi avuto il terrificante timore che quello fosse il tuo unico sin-
tomo solitario di rigenerazione Littoriale e non li avevi più tagliati.
Non avevi permesso a Ianthe di riempire i buchi che ti trapassavano
le orecchie con perle o orecchini metallici e avevi rifiutato di porta-

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re qualsiasi altro gioiello che non fosse d’osso, quindi non è che re-
stasse un granché da fare. Quando aveva finito, non avevi accolto il
tuo riflesso con un senso di shock disgustato, ma meramente con una
piatta e imbarazzante avversione. La parte peggiore era l’improvviso
manifestarsi della somiglianza con tua madre.
«Sono molto soddisfatta» aveva dichiarato Ianthe.
Tu avevi commentato, laconica: «Sembro un’imbecille».
«Stai bene abbastanza da rendermi orgogliosa del mio operato, ma
non così bene da spingermi a saltarti addosso in mezzo ai ciotolini
della frutta secca, consumata dalla lussuria» aveva detto. «Una cam-
minata sul ghiaccio sottile, ed è stata una camminata ammirevole,
da parte mia. Vai a sistemarti le pitture; hai il teschio tutto sbavato.»
In un atto di irrilevante ribellione, ti eri adornata col teschio sacra-
mentale della Sacerdotessa Schiacciata dalla Roccia Di Fresco Posata,
il teschio meno bello di tutto il canone. Al tuo ritorno, l’avevi trova-
ta al suo tavolino da toilette che si ravviava i capelli con una spaz-
zola d’osso. Portava un abito lungo di un viola acromatico – pallido,
quasi grigio, come il fumo di un falò a base di lavanda – e costitui-
to all’apparenza da un paio di strati di garza. La schiena era scoper-
ta e riuscivi a vedere le dentellature delicate della sua colonna verte-
brale, la pelle candeggiata che risaltava, addolcita e azzurrata contro
quella drappeggiatura impalpabile. Le lame gemelle delle scapole ti
apparivano stranamente nude e vulnerabili. Ti aveva detto, langui-
da: «Abbottonami» e tu avevi obbedito facendo crescere tre braccia
scheletriche dall’intelaiatura d’osso della sua sedia, ben felice di na-
sconderle le vertebre.
Ianthe portava il manto Canaanita sulle spalle, senza infilare le brac-
cia nelle maniche: tu eri felice di poter contare sulla copertura flebi-
le e diafana che ti offrivano. Si era allacciata la cintura con lo stocco
sui fianchi, tenendola lenta; tu ti eri caricata lo spadone sulla schiena.
Seguendo la tua co-cospiratrice lungo i corridoi del settore residen-
ziale verso le stanze di Augustine, un fremito di eccitazione ti aveva
scompigliato le pareti dello stomaco.
Così come i tuoi alloggi ben poco somigliavano a quelli di Ianthe,
gli alloggi di Augustine non somigliavano né ai tuoi né ai suoi. Gli in-
terni erano di legno scuro. La maggior parte delle pareti era occupa-
ta da librerie che andavano dal pavimento al soffitto e per terra non

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c’erano piastrelle ma una moquette foltissima. Era una stanza molto


più ingombra e vissuta. Su ogni superficie c’era un libro, o uno stilo, o
un paio di calzini piegati. C’erano poltrone barocche di pelle con pal-
lidi segni d’usura sui braccioli e sulla seduta, dopo tutti quegli anni,
e quadri raffinati con cornici di legno. Aleggiava un odore genera-
lizzato di lucido per legno e di colla di libri. Era una stanza più ami-
chevole di quanto ti saresti aspettata, partendo anche dal presuppo-
sto che ti aspettavi di tutto. L’ampio sofà ricoperto di tappezzeria era
zeppo di cuscini con le frange in confortevole disordine. C’erano vasi
di ceramica fini come gusci d’uovo sul tavolo piazzato davanti al va-
sto finestrone di plex – schermato da tendaggi giallo primula, al mo-
mento chiusi – pieni di fiori freschi di cui ignoravi la provenienza, in
sfumature dell’arancione, del rosso e dell’oro.
Il Santo della Pazienza era chino su uno specchio piazzato sopra a
un lavatoio di legno e sotto al manto indossava un completo di vec-
chia fattura. Trovavi a malincuore impressionante la vista di un arte-
fatto storico che veniva davvero indossato: pantaloni neri, una giacca
nera, una semplice camicia bianca col colletto alto, assai inamidato.
Augustine si era pettinato i capelli appiattendoseli sul cranio, impec-
cabili e lucidi, senza una ciocca fuori posto. In mezzo al colletto c’era
un buffo cravattino dal taglio ricurvo, che si stava allacciando a mo’
di fiocco voluminoso.
«Ben fatto, colombella mia» aveva detto allegramente a Ianthe,
prendendole le mani e baciandogliele. La rigidità che gli incornicia-
va gli occhi color cemento smentiva il suo buon umore. «Mi fai veni-
re in mente la statua di una qualche divinità perduta ripescata dalle
acque, il marmo intatto e i lineamenti dipinti ormai sbiaditi.»
«E ricoperta di alghe, muffa e viscidumi» aveva suggerito lei, la-
sciandosi baciare su una guancia e poi sull’altra. «Dovresti vedere
mia sorella.»
«Lo dici sempre» aveva risposto Augustine. Ti aveva squadrata e,
con tuo grande sollievo, non ti aveva baciata da nessuna parte; si era
limitato ad alzare le sopracciglia e a esclamare: «E dunque anche il
corvo può diventare un cigno! Ah, è proprio come ai vecchi tempi…
non avete idea delle baraonde che buttavamo in piedi, quando ave-
vamo l’ardire di riunirci. Facevamo festa come se fossimo alla vigilia
dell’apocalisse. Me ne ricorderò in eterno. John rideva di più, allora.

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Quasi sempre di quel pazzo di Ulysses, e per Cassiopeia, che dopo


un bicchiere di vino – uno solo – era già fradicia… benone, signori-
ne, posso illustrarvi come ce la giocheremo?».
Gli avevi chiesto: «Perché mi state aiutando a commettere un
omicidio?».
Si era ricontrollato quella piccola cravatta allo specchio, sisteman-
do un’imperfezione impercettibile, e si era raddrizzato.
«Per motivazioni personali, cara ragazza» aveva risposto, con quell’al-
legria glaciale che pareva costituire la sua prima linea di difesa. «Tan-
to tempo fa, se mio fratello minore avesse ritenuto opportuno farti
abbandonare questa valle di lacrime, non l’avrei fermato… ma sono
stato costretto ad ammettere, ormai da parecchio, che Ortus non dà
più retta a nessuno. Ha sempre coltivato certe sue ossessioni bizzarre,
che non si riusciva a sradicargli dalla testa nemmeno con un martello
pneumatico. Nel corso degli ultimi quarant’anni scarsi mi ha causa-
to più sofferenze di quanto io riesca ad ammettere. No, non ci penso
neanche ad abbandonarti qui. Monopolizzerò l’attenzione di Mae-
stro. E voi due taglierete la corda. E Harrow concluderà i suoi trucu-
lenti affari… se ne sarà capace, cosa di cui non sono affatto certo.»
«Ce la farà» aveva detto Ianthe, rovinando l’effetto con l’aggiunta
di un «probabilmente» e il Littore aveva continuato: «Ci può prova-
re. Una volta ho visto quell’uomo combattere contro una città inte-
ra. E non è stata la città a vincere. Sarà il primo ad alzarsi da tavola,
dopodiché si sposterà nella sala d’addestramento, è abituato così; ve
ne andrete al segnale».
Darlo per scontato ti pareva insensato. Gli avevi chiesto: «Si alzerà
da tavola?». E nel medesimo istante la Principessa di Ida aveva do-
mandato: «Quale segnale?».
«Non posso dirvelo; se ve lo aspettaste, il nostro Imperatore man-
gerebbe la foglia. Ma credetemi se vi dico che, quando vorrò levarmi
Ortus dai piedi, lo capirete su due piedi.» (Non ti sembrava un gran-
ché, come battuta).
Qualcuno aveva bussato seccamente alla porta. Ti eri appiattita all’i-
stante contro il muro, in modo da non risultare subito visibile quan-
do fosse stata aperta, e Ianthe aveva serrato le dita ossute sull’impu-
gnatura splendente – il pomolo – dello stocco della Terza Casa; ma
Augustine si limitò a dire: «Entra, ago della bilancia».

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L’ago della bilancia fece il suo ingresso. Era la Santa della Gioia.
La tua precedente insegnante ti ignorò, ripiegò nella tua alcova e
ignorò anche tua sorella, le cui pallide sopracciglia erano schizza-
te all’insù a una tale velocità e altitudine da rischiare seriamente di
bucare l’atmosfera. Mercymorn indossava un lungo drappeggio di
seta color pesca. Il manto bianco Canaanita le era completamen-
te scivolato giù dalle snelle spalle afflitte e stazionava adagiato su-
gli avambracci. Si era imprigionata i capelli in un nodo spietato e
splendente sulla nuca e non stava degnando di uno sguardo nes-
suna delle due.
Aveva detto: «Hai proprio un bel coraggio».
«Nemmeno lontanamente; mai avuto» aveva risposto lui, affabile.
«Accetti i termini dell’offerta?»
«Voglio sapere cosa state…»
«Prima accetta.»
«Accetterò se giuri sulla spada» aveva detto Mercy, con un fervo-
re sacrilego.
Lui aveva alzato lo stocco, ancora nel fodero. L’elsa era conica e lu-
cente, pareva fatta di rame, ed era ricoperta di decorazioni spunzo-
nate. «Giuro sulla spada di Alfred Quinque, il migliore fra gli uomi-
ni e fra i paladini, che i dettagli del tuo – ehm – coinvolgimento non
saranno da me divulgati o da me rivelati, e che non lasceranno le mie
labbra né i miei polpastrelli… nemmeno se ci costerà la morte» ave-
va aggiunto. A quel punto, il cipiglio aggrovigliato di Mercymorn si
era rilassato impercettibilmente: non era sollievo, ma il seme del sol-
lievo che cominciava a germinare. «Accetta.»
«D’accordo! Accetto» aveva detto lei. Poi si era guardata attorno e
aveva esclamato: «Lo sai, vero, che le bambine sono presenti? Devo
ucciderle o cosa?».
«Ignorale» aveva risposto Augustine. «Meglio che tu non sappia
perché sono qui. Senti… ho bisogno della tua piena collaborazione
in questo frangente, Gioia, e se così non sarà, considererò viziato il
voto che ho appena giurato di onorare.»
«Piena collaborazione! Piena!!!» aveva esclamato, sdegnosa. Avevi
notato che dalle orecchie le penzolavano dei corti fili di perle colti-
vate color albicocca; quando incrociò le braccia sul petto si misero a
vibrare. «Smettila di sprecare il fiato e spiegami il piano.»

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HARROW LA NONA  /  283

«Qualsiasi cosa mi farai dopo averlo sentito, non farmela al di sot-


to del collo. Non ho altre camicie stirate.»
«Piantala di tirarla per le lunghe! Dimmelo!»
Si era schiarito la gola e aveva proclamato: «Dios apate, in piccolo».
Avevi assistito – dal tuo posto in prima fila – all’acquietamento
dello sguardo sognante di Mercymorn; la calma nell’occhio del ciclo-
ne, prima che caricasse un pugno e lo centrasse in piena faccia. Non
era un cazzotto particolarmente poderoso – la testa gli scattò a ma-
lapena all’indietro, ma Augustine sbiancò come se il pugno di lei fos-
se stato un ariete da sfondamento. Fu colto da un conato, si piegò sul
suo lavabo ed espulse una boccata di denti – una vaschettata, saltel-
lante e picchiettante; si portò la mano alla bocca rossa e gocciolan-
te e chiuse gli occhi e, leggermente più grigio, tornò a raddrizzare la
schiena dopo qualche istante, passandosi la lingua sugli incisivi ap-
pena ricresciuti.
«In piccolo» aveva ripetuto appena gli era stato possibile, tiran-
do fuori un fazzoletto per tamponarsi la bocca. «In piccolo… quan-
te volte te lo devo dire?»
«Sei fuori di testa» aveva detto lei, vacillando.
«Credi che stia scherzando, Mercymorn?»
Si squadrarono. E quella che seguì fu una conversazione del gene-
re a cui avevi assistito solo in un’altra occasione, tra lei e Dio – quel-
lo scambio di alzate di spalle, parole abbozzate sulle labbra e aborti-
te al primo respiro – e a un certo punto lei gli chiese: «Gradiente?».
E lui le rispose: «Radiale» e poi regredirono nuovamente in quella
stenografia di espressioni facciali. A modo loro, ti parve più rapida
e meno coerente dello scambio che c’era stato tra l’Imperatore delle
Nove Case e lei, una vita fa, quando stavate lasciando la Erebos; alla
fine, però, lei si portò una mano tremante alle labbra, lasciandosi sfug-
gire un mezzo squittio: «Non ho il vestito adatto».
«È perfetto. Sembri un melone.»
«Ma detesto l’idea» aveva risposto lei, con un’evidente sincerità, e
Augustine l’aveva esaminata con quei suoi occhi inconsistenti e ave-
va detto: «Lo capisco. Allaccia le cinture, Joy; non ne morirai».
Il tuo sguardo aveva incrociato quello di Ianthe. Aveva seguito tut-
ta quella faccenda con totale fascinazione; e ora ti stava rivolgendo un
guizzo delle sopracciglia che, per quel che eri riuscita a capire, pote-

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va significare: “E chi lo sa?”. Per un istante avevi temuto che, trascor-


sa un’altra miriade, anche tu e lei sareste forse state in grado di so-
stenere una conversazione simile: che saresti riuscita a comprendere
i suoi intenti grazie alla piega della sua bocca, al suo respiro, arrivan-
do al punto di poter parlare senza dialogare.
Alla fine, Mercymorn aveva esclamato: «Blah!» aveva girato i tacchi
ed era uscita a passo sostenuto. Aveva spalancato la porta, strillando
ansiosa: «Vino bianco!» e con quell’epigramma criptico, era scomparsa.
Il Santo della Pazienza aveva detto: «È andata molto meglio di quan-
to mi aspettassi» senza degnare di uno sguardo il lavabo pieno di den-
ti sanguinolenti. «Forza… voglio presentarmi sul campo di battaglia a
braccetto con voi. Ianthe, alla mia destra. Non ho intenzione di strin-
gere quell’osso; la magrezza non mi è mai piaciuta – Harrow­hark,
non hai proprio guadagnato neanche un po’ di altezza, vero? Signo-
re mio! Restare cristallizzati nell’adolescenza, per sempre! Qualsia-
si cosa vedrete questa sera» aveva aggiunto, facendosi all’improvviso
serio come una tomba, «non intromettetevi.»
Alle sue spalle – mentre vi spostavate lungo il corridoio – la Prin-
cipessa di Ida scandì, tracotante: «Brillante! Sofisticato! Subdolo!».

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Saltò fuori che Augustine il Primo – Santo della
Pazienza, fondatore della Corte di Koniortos, luminare del Fiume…
al mondo da diecimila anni nonché il più anziano tra i santi, brillan-
te, sofisticato e subdolo – aveva architettato un piano scaltrissimo
per assisterti nell’omicidio del suo zelante fratello. Ecco qua il piano
scaltrissimo: far sbronzare pesantemente tutti quanti.
Due ore dopo sedevi in mezzo a un cumulo di macerie. I resti di un
pasto giacevano davanti a te, era molto più di quanto avessi mai man-
giato di tua spontanea volontà. Eri stata obbligata. L’unica alternati-
va era perdere i sensi. Una pira di candele diffondeva il suo bagliore
su una tovaglia di un candore nevoso, sull’argenteria che il Santo del-
la Pazienza aveva disposto con tanta perizia e sul piatto disseminato
di briciole che aveva in precedenza ospitato degli involtini di qual-
che genere, che erano però già stati mangiati – o ficcati chissà dove:
non lo sapevi, e non ti interessava. Le ossa splendenti degli eroi del-
le Coorte stazionavano come osservatori silenti lungo entrambi i lati
della stanza, e dalle loro espressioni prive di occhi percepivi una cer-
ta spossatezza.
Non eri certa di come fosse successo. La cena era iniziata come
tutte le altre cene, solo con più formalità. Forse la cucina di Augusti-
ne era più meticolosa e sontuosa, tendeva a cucinare in brevi defla-
grazioni violente, servendo il pasto in numerose parti distinte e non
tutto in una volta, cosa che – arrivando dalla tavola del Drearburh –
ti era parsa sconcertante. Non eri riuscita a concentrarti su quello
che stavi mangiando; sapevi solo che, arrivati ormai alla terza porta-
ta, avresti dovuto continuare o patirne le conseguenze. Il sapore del

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vino – che Augustine ti aveva già servito – non ti piaceva per nien-
te e non ti eri immaginata che potesse essercene così tanto. Rabboc-
cava i bicchieri prima ancora che riuscissi a finirne il contenuto, così
non eri mai nemmeno arrivata in fondo al primo.
Ora, in mezzo ai detriti fumanti della cena, lui e la Santa della Gioia,
e Dio e Ianthe avevano spostato le sedie radunandosi all’estremità del
tavolo. Le vesti della Prima Casa di Ianthe erano da qualche parte sul
pavimento, teneva i gomiti sul tavolo e aveva le guance rosa, il che le
conferiva una giovialità fasulla. Augustine si era tolto la giacca e se
ne stava lì seduto con la sua camicia bianca coi bottoni. La cravattina
che si era annodato alla gola si era sciolta del tutto e penzolava inerte
da ambo i lati del colletto sgualcito. Mercy era quella messa peggio:
la crocchia di capelli era precipitata e ora rimbalzava libera in cioc-
che pallide di un rosa dorato. Ridacchiava – sul serio.
Dio sedeva in mezzo a loro. Maestro si era arrotolato le maniche
fino ai gomiti; se si trattava di una camicia più bella o messa me-
glio rispetto a quella che portava di solito, non eri in grado di sta-
bilirlo. La coroncina di ossa e foglie gli era scivolata via dalla fronte
– probabilmente era da qualche parte in mezzo ai tovaglioli –, l’ul-
timo bottone era sbilenco e lui di tanto in tanto faceva il giro per
rabboccare i bicchieri dell’acqua a tutti, dichiarando con crescente
trasporto: «Continua a bere acqua, Harrow» come se l’acqua fosse
il miracolo più grande e impossibile mai elargito alle Nove Case. Il
suo sorriso continuava a increspare gli angoli di quegli occhi cer-
chiati di bianco.
Ogni tanto lanciavi uno sguardo dall’altra parte del tavolo all’uomo
che intendevi uccidere. Il Santo del Dovere aveva bevuto tanto quanto
Augustine, ma aveva un’espressione rocciosa e nemmeno un bottone
fuori posto. Più di una volta i vostri sguardi si erano incrociati, in uno
scambio che temevi fortemente volesse esprimere solidarietà. Non
ne eri sicura. Bevevi l’acqua. Stavi bevendo acqua in grandi quantità.
«Agli amici assenti» esclamò Augustine all’improvviso, alzando il
calice.
E tutti gli altri risposero: «Agli amici assenti» e alzarono i calici, e
bevvero. Ecco la tortura che si erano inventati; non avevi dubbio che
fossero state la Terza o la Quinta Casa a escogitare quella maledetta
regola – ogni volta che alzavi il calice e proponevi un brindisi pieno

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di sentimentalismo, tutti dovevano bere insieme a te. Tu procedevi a


sorsini. Non avevi nessun amico assente.
«E ai nostri paladini» disse la Santa della Gioia, di punto in bian-
co, dopo che tutti ebbero bevuto.
Augustine aveva sollevato di nuovo il bicchiere. «Brindo a loro. Ai
paladini. Non li meritavamo… e loro non si meritavano noi, come dico
sempre. Ad Alfred, Cristabel, Pyrrha, Loveday, Naberius… a tutti loro.»
L’Imperatore aveva scoccato un’occhiata impassibile alla santa sem-
pre più scomposta alla sua destra, ma lei non aveva accolto quel brin-
disi con rabbia. Aveva detto, semplicemente: «A Cristabel» e aveva
svuotato il bicchiere con un unico movimento violento. Quando Dio
aveva accostato la punta delle dita alla punta delle dita di lei, gli ave-
va strillato all’istante: «Non sono ubriaca!!!».
«Non lo penserei mai» aveva commentato lui.
Avevi osservato Ianthe bere dal bicchiere un’altra sorsata di quel
liquido pallido, giallo-mela. Si era sporta verso di te e aveva mormo-
rato, senza fiato: «Questa è la serata più bella della mia vita».
«Ho bevuto abbastanza in onore di Alfred nel corso degli anni,
quindi lasciatemi brindare a Cristabel» aveva detto il Santo della Pa-
zienza, e aveva bevuto, procedendo poi a far vorticare con aria medi-
tabonda il contenuto del suo calice. «A Cristabel, alla salute.»
Mercy aveva commentato, meno rancorosa: «Cristabel non ti è mai
piaciuta, nemmeno prima di quello che è successo».
«Col cazzo che non mi piaceva Cristabel» aveva ribattuto all’istan-
te, con la ragionevolezza circospetta e misurata di un uomo che avevi
personalmente visto scolarsi due bottiglie di vino. «Sai come la pen-
so a tal proposito… sai che non la ritenevo la miglior influenza per
Alfred… sai che pensavo che tirassero fuori il peggio l’uno dell’altra,
e non puoi dirti in disaccordo, credo.»
Dio aveva commentato: «Erano due persone molto simili».
«No» aveva detto Augustine. «Non lo erano, John. Lei era una fa-
natica e un’idiota – sì, Mercy, era così – e lui… era un uomo che rim-
piangeva di non esserlo. Ci è voluto sorprendentemente poco per
mettere mio fratello sulla cattiva strada.»
«Nessuno avrebbe mai potuto condurlo dove non voleva anda-
re» aveva detto Dio, e la sua pazienza assunse una sfumatura solen-
ne. «Lo sai bene.»

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«Mio Signore! Non dire così» aveva esclamato il suo Littore, abboz-
zando un sorriso. «Ho basato un’intera miriade sull’idea che avrei po-
tuto fargli cambiare rotta. Sarebbe stata questione di cinque minuti.»
La sua sorella-santa non commentò. Lanciò invece un’occhiata nel
bicchiere e lui riempì quell’intervallo imbarazzante con: «Comun-
que, brindiamo a una donna che non ha mai diviso le coscienze. A
Pyrrha Dve».
Tutti gli occhi – compresi i tuoi – percorsero fatalmente la tavola-
ta, fino al Santo del Dovere. Avevi impugnato lo stelo del tuo calice e
avevi guardato in faccia l’uomo che un tempo era stato il necroman-
te di una donna chiamata Pyrrha: era la stessa imperscrutabile assen-
za di espressività che ti eri trovata davanti nella vasca da bagno, e la
prima volta che lui aveva messo piede nella cappella del Mithraeum.
Aveva detto, categoricamente, con una sfumatura ammonitoria:
«Augustine».
«Sono serio. Non lo trovi stupefacente, persino dopo tutto questo
tempo? Nemmeno Mercy ha qualcosa da ridire su di lei.» («Perché
vengo costantemente dipinta come una persona ipercritica?» fece
lei, avanzando un’inevitabile critica.) «A Pyrrha, dunque, la donna
su cui ho cercato di far colpo coltivando il vizio del fumo – la pala-
dina, la leggenda, la sventola totale… John, per cortesia, smettila di
prendermi a gomitate, ho sentito “sventola totale” uscire anche dal-
le tue sacre labbra.»
L’Imperatore aveva protestato: «Rispettosamente! Rispettosamente».
Ortus aveva commentato: «Cambiamo argomento».
«D’accordo» aveva detto Augustine buttando giù un altro sorso di
vino, come se volesse fortificarsi. Al che Ianthe aveva suggerito: «Ai
nostri nemici, fratello maggiore».
«Sì! Splendido» aveva concordato con calore. «Un classico. Ecco
perché sei la mia apprendista, la mia prescelta, pulcina. Ai nostri ne-
mici – i nemici dell’Impero –, a quelli già approdati saldamente nel
Fiume, ecco. Non brinderò ai nemici vivi, ma beviamo ai nemici ca-
duti, perché con loro possiamo dimostrarci magnanimi. Beviamo al
Sangue dell’Eden, ormai asciutto.»
Sia l’Imperatore che Mercy avevano replicato, all’istante: «Sono
ancora in circolazione».
«Va bene, pedantoni… brinderò ai migliori fra loro, quelli che sono

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indiscutibilmente stati fatti fuori… non agli schizzati, agli idioti e agli
zeloti che rimangono, convinti di poterci bloccare con un missile nu-
cleare. La comandante non si sarebbe mai accontentata di un missi-
le nucleare… Signore, che bella festa ci aveva organizzato, altroché.
Merita qualcosa. Un brindisi, magari.»
Dall’altro lato del tavolo, ti eri accorta che il Santo del Dovere aveva
serrato le nocche, impercettibilmente. Eri molto perspicace, in fatto
di nocche. L’Imperatore scambiò la tua concentrazione per perples-
sità: «È successo prima che tu nascessi, Harrowhark». («Molto pri-
ma che tu nascessi» aveva aggiunto Mercy, rapace, «perché hai tre
anni.») «Non è proprio il genere di storia che merita di essere rac-
contata dopo… tre bicchieri di vino.»
«Figuriamoci se erano solo tre bicchieri di vino» aveva commen-
tato l’uomo alla sua sinistra.
«Quattro bicchieri di vino» aveva rettificato Dio, arrivando comun-
que a una stima inadeguata. «Questa è di sicuro un’ottima lezione per
voi, ragazze: non dovete mai sottovalutare nessuno. Un quarto di secolo
fa questi fanatici hanno scoperto l’esistenza delle Bestie Resurreziona-
li. Un’informazione secretata fino ai ranghi più alti della Coorte, badate
bene, quindi si è trattato di un vero sforzo spionistico e di un mezzo…»
«Ne erano al corrente» aveva detto Ortus. «Solo non sapevano
cosa fossero.»
«Scoprire cos’erano non li ha fermati. Hanno dato la caccia a una
Bestia… hanno sprecato metà delle loro navi per separare un Aral-
do dal branco… hanno ucciso quell’Araldo… e a questo proporrei un
brindisi…» («Agli Araldi uccisi» avevano declamato i due Littori più
anziani e avevano bevuto, seguiti a ruota da Ianthe. Tu avevi solo ac-
costato le labbra al bicchiere.) «Persino da morto un Araldo può por-
tare un necromante alla pazzia. Hanno smembrato quella cosa. Ci
hanno fabbricato coltelli. Ci hanno fabbricato asce. Ci hanno fabbri-
cato corazze. Cioè, tutta roba estremamente frugale, ma cribbio… la
loro comandante aveva pallottole d’Araldo.»
«Proiettili» aveva detto Augustine. «Dardi. Coltelli da lancio. Una
mira infallibile. Una volta mi ha centrato proprio in mezzo agli oc-
chi. Matta come una tigre in gabbia e tre volte più feroce. Per poco
non ti perdevamo per colpa sua, Ortus, un paio di volte. Dobbiamo
brindare alla Comandante Wake?»

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Il Santo del Dovere si alzò, facendo tintinnare i bicchieri. E proferì


la frase più lunga che ti fosse mai capitato di sentirgli dire: «Proba-
bilmente no. Con permesso. Sono stanco».
Lo osservarono allontanarsi in un silenzio denso. Maestro si alzò
da tavola, zitto, come se volesse seguirlo. Quando la porta si chiuse
alle spalle del Littore in fuga, Mercymorn sibilò: «Augustine, asino
che non sei altro». E lui protestò, serafico: «Sta benissimo».
«Se quello lo chiami stare benissimo…»
«… questo improvviso attacco di empatia mi pare piuttosto inso-
lito da parte tua, dato che…»
«… non è così difficile immaginarsi che magari…»
«Basta» aveva detto Dio, rimettendosi a sedere con una certa la-
boriosità. «Basta. Non ora che vi siete finalmente rimessi a parlare.
Questa è la conversazione più amichevole che io vi abbia mai visto
scambiare da… decenni, credo. Stop. Stiamo passando una magnifi-
ca serata. Harrow, non hai bevuto troppo, vero?»
Avevi bevuto assolutamente troppo e non vedevi l’ora di spurgarti
manualmente i reni. «No» avevi risposto e, in contemporanea, la tua
vicina di posto aveva esclamato: «Ovvio che sì!».
«Nessuno l’ha chiesto a te» avevi ribattuto, ma Ianthe stava trasci-
nando la sua sedia vicino alla tua, passandoti il braccio vivo attorno
alle spalle scoperte – cosa che te le fece percepire come meno scoper-
te e meno fredde, causandoti un conseguente risentimento – e stava
dicendo: «Dunque, dunque… Harry». (Sentendo quello spregevole
nomignolo, per il quale ancora una volta avevi augurato a Ianthe una
morte lentissima, Dio soffocò un sorriso.) «Lascia che ti dia il benve-
nuto nel mondo speciale della sorellanza: spiattellerò ai quattro ven-
ti tutto quello che fai, ti contraddirò a ogni passo e ti tirerò indietro
i capelli al mattino.»
Non volevi che Ianthe spiattellasse nulla di quello che facevi e nem-
meno che ti contraddicesse a ogni piè sospinto, e soprattutto non vo-
levi che ti tirasse indietro i capelli al mattino. Ma Dio disse, allegro:
«Un brindisi alle sorelle» e gli altri Littori si allungarono in cerca di un
bicchiere qualsiasi, purché contenesse qualcosa. Tu eri stata costret-
ta a riprenderti il tuo – Ianthe te l’aveva cacciato in mano – e a bere.
Augustine aveva proseguito: «Alle sorelle, e alle donne che abbia-
mo perso per strada».

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La bocca di Dio era allegra come sempre, ma i suoi occhi no. Ave-
va detto: «Devo unirmi a questo brindisi?».
Per la prima volta, avevi assistito a un momento di smarrimen-
to del Santo della Pazienza. «Le mie scuse, John. Non voleva essere
una frecciata.»
«Non fa più male… non sempre, almeno» aveva detto Dio, senza
smettere di sorridere.
La Littrice alla sua destra si stava ravviando i capelli; si srotolava-
no in una massa pesante che le avvolgeva le spalle, con la loro curio-
sa sfumatura color cuore di rosa gialla, quella tinta rosata, rossastra,
doraticcia che non risultava del tutto gradevole. Nel suo bicchiere
c’era ancora del vino, cosa che pareva poco realistica, e disse: «Ecco
qua un brindisi migliore… all’Imperatore delle Nove Case. Al Resur-
rettore. Al mio Dio».
«All’imperatore John Gaius, il Necrore Supremo!» esclamò Augu-
stine, svuotando il bicchiere.
Quello era l’unico brindisi a cui eri desiderosa di prendere par-
te; avevi bevuto, perché ti mantenevi salda nei tuoi principi, e anche
perché Ianthe ti stava fissando con l’espressione di scherno e di ve-
lata commiserazione di una che non si aspettava che avresti bevuto
davvero. Di conseguenza, avevi bevuto due volte.
«Non brinderò a me stesso» stava dicendo Maestro. «Non sono la
persona migliore mai venuta al mondo, ma non sono neanche un si-
mile narcisista.»
La Santa della Gioia sentenziò, con insolita ferocia: «Ma tu sei la
persona migliore del mondo».
«Brinderò a questo» fece Augustine.
Non riuscivi a soffermarti mai troppo a lungo sull’espressione di
Dio. Augustine si alzò in piedi, gli rabboccò il bicchiere e riempì an-
che quello di Mercymorn. Accostò il suo calice contro quello di lei con
un tintinnio cristallino – lei lo squadrò con occhi spenti e insensibi-
li – e bevvero in silenzio, affiancando l’Imperatore delle Nove Case,
lui da un lato e lei dall’altro.
Dopo un po’, lei disse: «Sarebbe stato bello avere qua con noi an-
che Cytherea».
«Per me no» fece il santo dall’altro lato. «Ci saremmo dovuti sor-
bire il suo argomento di conversazione preferito: “Chi ha il paladi-

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no più bono?”.» E non modificherei la mia risposta manco per tut-


to l’oro del mondo. Non me ne frega niente se aveva dieci anni più di
me, Pyrrha Dve mi attizzava più del fuoco dell’inferno.»
«Concordo» fece Dio.
«John, maiale.»
«Uno schianto totale» disse Dio. Lanciò una profonda occhiata a
Augustine, mandò giù un altro sorso di vino e poi aggiunse, in tono
cimiteriale: «Ma mai quanto tua madre, forse».
Vedere Augustine che mollava un pugno sul braccio del Principe
Imperituro e vedere il Principe Imperituro che sportivamente ricam-
biava la manata demolì una delle roccaforti della tua venerazione. Una
parte del tuo cervello si calcificò temporaneamente nell’ateismo. Non
credevi che le cose sarebbero andate così. Dal giorno in cui avevi ri-
cevuto la lettera al Drearburh, avevi pensato che il tuo periodo Litto-
riale sarebbe trascorso pregando e addestrandoti fra le magnificenze
dei misteri necromantici. Non pensavi, in tutta sincerità, che avre-
sti trascorso una parte del tuo tempo sbronzissima, indossando uno
scampolo di stoffa non più grande di un asciugamano e con le dita di
Ianthe Tridentarius che ti carezzavano svagate i capelli alla base del
collo. Per un istante, ti eri domandata se non avessi picchiato la testa
molto forte mentre salivi sulla navetta al Drearburh e se tutto quel-
lo che ne era conseguito non fosse stato altro che un’allucinazione.
Mercymorn aveva commentato, petulante: «Io ho sempre trovato più
carina Nigella». Entrambi gli uomini la rassicurarono: «Non hai tutti i
torti… Ottima scelta eccetera eccetera». Finché Augustine non affer-
mò, tristemente: «Ma che possibilità c’erano con Cassy nei paraggi?».
Ti eri voltata verso Ianthe e le avevi bisbigliato nell’orecchio, pale-
sando la tua disperazione: «Quando ce ne andiamo?».
«Non è ancora il momento» aveva mormorato. L’avevi guardata in
quegli occhi splendenti screziati di castano e ti eri lasciata assalire dal
panico: e se quel momento non fosse mai arrivato?
Mercymorn finì un altro bicchiere di vino – Maestro le scostò il
calice e, poi, premuroso, levò di mezzo anche la bottiglia più vicino
a lei, e poi rimosse anche tutte le altre bottiglie nel suo raggio d’azio-
ne – e appoggiò l’ovale placido del viso sul palmo della mano affu-
solata. Disse: «Ti sbagli, Augustine. Odi ancora Cristabel… odiavi la
mia paladina già prima che facesse quello che ha fatto».

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Lui si stava riempiendo il bicchiere e si bloccò a metà delle ope-


razioni. Non avevi idea di come qualcuno potesse bere quanto ave-
va bevuto il Santo della Pazienza e restare coerente. Aveva posato la
bottiglia e aveva risposto: «Ah, davvero?».
Dio disse: «Non è una conversazione in cui siete costretti a imbar-
carvi, nessuno dei due. Non ora. Soprattutto non dopo cinque bic-
chieri di vino».
«Siamo ben oltre i cinque. No. No, non c’è problema. “Non giudi-
cate e non sarete giudicati.” Lasciamelo riesumare di nuovo» aveva
detto Augustine, anche se ora il suo tono era leggermente instabile.
«Davvero, Mercy? Che Dio mi aiuti, non lo credo affatto.»
Lei aveva ribattuto: «Guardami negli occhi e ripetilo».
Augustine si era alzato in piedi, senza fare una piega. Si era pulito
meticolosamente la bocca con il tovagliolo e, nonostante Dio stesso
si fosse alzato a sua volta, di nuovo – aveva posato la mano sul brac-
cio di Augustine e l’aveva fissato, e qualsiasi scambio si fosse verifi-
cato tra loro era stato troppo fugace per essere classificato – si spo-
stò sulla sedia accanto a quella della Santa della Gioia. Si ingobbì un
pochino, in modo che i loro occhi fossero alla stessa altezza – alla
luce delle candele non riuscivi a stabilire se ti sembrassero orrenda-
mente decrepiti o non più vecchi di Ianthe – e le disse: «Gioia, quel
che è fatto è fatto. Sono morti. Il crimine è stato punito. Non odio
Cristabel».
Il viso di lei si fece selvaggio, liscio, implacabile. «Dillo di nuovo»
gli intimò.
«Non odio Cristabel» le disse, umile. «Mia cara, odio a malapena te.»
Per un istante ti eri aspettata di vedere un replay di quello che era
successo negli alloggi di Augustine, convinta che il diversivo sarebbe
consistito nella battaglia tra due Littori – che un po’ ti sarebbe spia-
ciuto perderti.
Non andò così. Con gli occhi stralunati, tumultuosi e sbilanciati,
Mercy si sporse e lo baciò.
Un orrorifico allarme ascendente ti esplose nel cervello. Non era
un bacio placido – e lui rispose all’istante e senza remore. I Littori si
stavano baciando come si bacerebbero due persone che nutrono una
marcata passione reciproca o che stanno cercando di passarsi un og-
getto nascosto da bocca a bocca. I Santi della Gioia e della Pazienza

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si baciarono con una familiarità fervida ed ebbra, senza preamboli o,


se è per quello, vergogna.
Dio stava cercando di dire qualcosa. Augustine si staccò da Mercy-
morn con un rumore che ricordava vagamente quello di un aspirapol-
vere che risucchia della carne macinata e – senza che deflagrassero
tuoni sacrileghi, senza che il velo dell’universo si squarciasse e senza
che la carne gli si squagliasse via da quelle ossa indegne – si voltò e
baciò pure l’Imperatore delle Nove Case.
Eri incollata alla seggiola. Eri paonazza dalle tempie alla sommità
della cassa toracica, animata da uno sdegno e da un’indignazione che
facevano a gara per guadagnarsi il primo posto dentro di te. Eri pie-
trificata, mentre Augustine, con cura, premura e assoluta determina-
zione, incollò la sua bocca alla bocca di Dio. Come se tutto ciò non
rappresentasse già terreno sufficientemente fertile per un’apocalisse
imminente, Mercymorn si alzò, ondeggiando; una spallina dell’abi-
to impalpabile le stava scivolando, precaria, giù per la spalla. Quan-
do Augustine si separò dalla bocca solenne dell’Imperatore, Mercy si
protese, afferrò Dio a piene mani per la camicia e lo baciò a sua volta.
Ianthe riuscì ad attirare la tua attenzione solo al secondo tentativo.
Alla fine, ti tirò su di forza e, senza che assolutamente nessuno pre-
stasse attenzione a voi due, ti trascinò a tutta birra fuori dalla stan-
za. Mentre Ianthe apriva la porta ti eri lanciata un’occhiata alle spalle
– Dio aveva appena sollevato di peso la Santa della Gioia e l’aveva de-
positata sul bordo del tavolo, e il Santo della Pazienza aveva la bocca
appiccicata al collo di Dio, una cosa terrificante – e Ianthe ti scortò
fuori come se ti stesse salvando da un incendio. Non avevi mai visto
tre persone che si palpeggiavano a vicenda – non avevi mai visto nean-
che due persone palpeggiarsi a vicenda. Ianthe aveva chiuso la porta
proprio quando le dita di Augustine avevano raggiunto i bottoni della
camicia dell’Imperatore e, in vita tua, non le eri mai stata così grata.

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«Il segnale era quello?» Il tuo tono risultava ver-
gognosamente acuto.
«Harry» aveva detto Ianthe, a sua volta un pochino strozzata, per
fortuna, «quando tre persone cominciano a baciarsi, è sempre il se-
gnale di qualcosa. Significa che bisogna smammare.»
Avevi ribattuto: «Mi sento poco bene».
«Sì. Sì, anch’io» aveva commentato accalorata, esprimendo un’i-
naspettata concordia. «È stato disgustoso, a dir poco. Ai vecchi bi-
sognerebbe sparare.»
L’illuminazione a pavimento irradiava il suo azzurro freddo, cer-
cando di blandirti verso il sonno circadiano. Un ufficiale della Coor-
te con delle mostrine grigie sulle maniche giaceva incorniciato nel-
la nicchia sul lato opposto con una maschera d’acciaio priva di occhi
che gli gravava sul volto. Sia tu che Ianthe ansimavate come se aveste
appena disputato una gara podistica travagliata e rumorosa. I capel-
li di Ianthe le scendevano giù per il collo in lunghe ciocche arruffate
color margarina e aveva del mascara sbavato sotto agli occhi, le costo-
le le facevano su e giù come se fosse in preda a un attacco asmatico.
Stringeva le scarpe col tacco nella mano scheletrica placcata, crean-
do un bizzarro accostamento. Il tessuto lavanda, impalpabile come
un respiro, aveva una macchiolina viola sul davanti, e la sua bocca
era rossa: si era mordicchiata le labbra e si erano tagliate, spaccan-
dosi. Ti eri resa conto con un sussulto d’inquietudine che tutte e due
eravate parecchio ubriache.
Ianthe si era passata la lingua sulle labbra ferite e aveva detto: «Ci
siamo, immagino».

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Le avevi risposto: «Ti sono riconoscente per il tuo contributo, Tri-


dentarius» ma prima che potessi fermarla, ti aveva attratto a sé con il
braccio vivo e aveva avvicinato la testa alla tua. Avevi compreso l’ine-
luttabilità di quell’evento solo un secondo prima che accadesse. Forse
c’era un universo oscuro in cui anche tu ti protendevi verso di lei; in
un altro le facevi scoppiare il cuore nel petto. In questo, mentre av-
vicinava la bocca alla tua, ti eri girata e il suo bacio era approdato sul
lato della tua mandibola. Tutte e due puzzavate di alcol. Impercet-
tibili tracce di sangue ti screziavano la guancia con i loro minusco-
li coaguli di thalergia profumata, mentre la sua bocca ferita te la ca-
rezzava con imprevedibile tenerezza. Sotto al tuo sterno si agitava un
tremolio rigido. Quando aveva alzato di nuovo il capo, il suo sguardo
si era fatto freddo e beffardo, come se la tua incapacità di accogliere
un bacio fosse un’ulteriore prova dei tuoi limiti.
Le avevi detto, con la bocca secchissima: «I miei sentimenti giac-
ciono interrati nel Sepolcro Sigillato».
«E lasciamoli lì a giacere» aveva commentato lei, derisoria e sen-
za particolare gentilezza. «Qualcuno potrebbe addirittura andarteli
a riesumare. Buona fortuna, Harry… cerca di non morire.»
E si era allontanata facendo ondeggiare le scarpe e il braccio mor-
to, canticchiando addirittura a mezza voce, stonata, prima di scom-
parire in fondo al corridoio: una statua di cera solitaria ammantata
di chiffon violetto, alta e incolore – a eccezione del metallo untuoso
del braccio scheletrico, che le luci trasfiguravano in tutte le sfuma-
ture dell’arcobaleno. Riuscivi a sentire il suo allegro canticchiare an-
che quando scomparve alla vista, mentre restavi impalata fuori dalla
porta della sala da pranzo, bloccata e raggelata.
Una volta scemato del tutto eri tornata a dedicarti al tuo assassinio.
Ti eri levata le scarpe e le avevi mollate lì, visto che eri ancora suf-
ficientemente sbronza da ritenerlo ragionevole. La maggior par-
te dell’alcol ti era già entrato in circolo, ma parecchio ti sciaborda-
va nell’intestino tenue. Mentre avanzavi in silenzio giù per i corridoi
piastrellati, superando le colonne di filo foderato di plex e tendini, ti
eri concentrata per smaltirlo attraverso i capillari, espellendolo poi
dai pori, finché non ti eri ritrovata grondante di sudore. Era più faci-
le spostare l’etanolo attraverso le membrane acquose che da qualsiasi
altro posto. La foschia che ti avvolgeva il cervello e il corpo evaporò

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e, dall’esoscheletro, avevi ricavato due lunghe fettucce di cartilagine


articolare e calcio coriaceo. Le avevi squagliate e le avevi impastate
con le mani, come argilla, finché non avevi ottenuto un globo uni-
forme di osso grigiastro.
Procedere con discrezione era fuori discussione. La segretezza ri-
chiedeva preparativi, ricerche, mappature, e a te non era stato con-
cesso il tempo necessario per nulla di tutto ciò. Avevi scoperto che il
tuo bersaglio sarebbe stato in sala d’addestramento solo dieci minu-
ti prima di cena. Eri anche stata costretta a escogitare un piano che
potesse funzionare su ogni possibile campo di battaglia. Il fermen-
to dato dall’adrenalina e l’alcol residuo risuonavano dentro di te – ti
sentivi surriscaldata e in preda al prurito, nonostante fossi fradicia
di sudore freddo come chi è appena stato investito da uno spruzzo
di sangue. Avevi subito più tentativi di omicidio di quanti se ne po-
tessero contare sulle dita delle mani – e dei piedi. Ti eri sorbita una
lunga e intollerabile cena che era culminata con due Littori decrepi-
ti che leccavano Dio. La tua bocca era stata quasi baciata. La calma
che era scesa su di te, mentre ti dirigevi ad ammazzare Ortus il Primo
era la calma esasperata di chi ne aveva già fin sopra i cazzo di capelli.
Ti eri fermata davanti alle autoporte della sala d’addestramento,
inchinandoti al cospetto dell’architrave nero con i suoi festoni iride-
scenti e i suoi mosaici sfarfalleggianti di ossa pelviche e colonne ver-
tebrali. Là dentro non c’era nulla da percepire, ma in ogni caso non
saresti mai stata in grado di percepire lui. Avevi premuto sulla tavo-
letta di ossidiana che apriva le porte; avevi fatto rotolare dentro la tua
palla con un lesto movimento rasoterra del braccio; avevi richiuso le
porte prima che potessero spalancarsi completamente.
Ci avevi riflettuto fin nei minimi dettagli. Il Santo del Dovere era
un vuoto thanergico. Fin lì ci arrivavi. Se avessi spedito là dentro un
costrutto scheletrico, in pochi secondi si sarebbe ridotto a un muc-
chio inerte di ossa sul pavimento. Ti eri interrogata sulla possibilità di
costruire un qualche meccanismo complesso costituito da stratifica-
zioni multiple – livelli interconnessi di ossa ricche di thanergia, col-
tivate appositamente dal tuo stesso corpo, che lo avrebbero costretto
a ruminarci dentro per un po’ – ma poi ti eri ricordata della facilità
con cui aveva sbriciolato anche le ossa che ti erano spuntate dai pol-
si e ti eri resa conto che il rischio sarebbe stato troppo alto. Non sa-

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pevi a quale velocità riuscisse a lavorare e non potevi basare l’inte-


rezza del tuo piano su una supposizione.
Quando Ortus il Primo ti aveva prosciugato gli aculei dei polsi,
l’avevi sentito. C’era stata una scossa consistente, come un interrut-
tore che scatta. Aveva stretto il periosteo tra le mani e aveva fatto
accadere qualcosa. Il che significava che si trattava di un’azione de-
liberata, non passiva. Era assolutamente logico, visto che un necro-
mante che disperdeva automaticamente la thanergia dall’ambiente
che lo circondava sarebbe stato un peso devastante per i suoi com-
pagni adepti. Se quel prosciugamento era un’azione conscia, richie-
deva una certa dose di concentrazione. Ciò significava che avreb-
be avuto bisogno di raccogliere le idee. E tu non potevi concedergli
quella possibilità.
La tua bomba era esplosa in una miriade di schegge ossee. Avevi per-
cepito la loro thanergia accendersi come un impulso elettrico, attraver-
so le pareti. Avevi trasformato la sala d’addestramento in una cazzo di
tempesta di grandine. Ogni frammento non superava i quattro centi-
metri; una lunghezza che bastava a uccidere, data la pressione con cui
erano stati proiettati verso l’esterno. C’era stata un’eruzione smorzata
di ticchettii – il vigoroso THWACKETI-THWACKETE-THWACK di
migliaia di dardi che si piantavano nel pavimento, sul soffitto, sulle pa-
reti, sui finestroni di plex spessi una spanna. Ti eri sfilata due borchie
dalle orecchie, avevi sparpagliato sei costrutti completi alle tue spalle
in uno slancio di puro ottimismo e avevi pigiato di nuovo la tavoletta.
La sala d’addestramento era un cumulo di macerie fumanti. I pavi-
menti di legno erano un tappeto maciullato irto di triboli d’osso. Le
luci elettriche in cima erano ridotte a barre crepitanti di rivestimen-
ti spaccati e fibra di tungsteno; le tue ossa erano ciglia che foderava-
no le cavità, spine setolose sul gambo di una rosa, peluria sottile sulle
zampe di un aracnide. Spuntoni affilati come rasoi si polverizzava-
no inoffensivi sotto ai tuoi passi, mentre ti precipitavi in quella sala
distrutta indossando poco più di una sciarpa e delle tue pitture, con
le mani foderate di collagene che stringevano lo spadone; eri pronta.
Il Santo del Dovere non c’era.
Avevi esclamato: «Cazzo».
E poi, con più aggressività: «Cazzo!».
L’omento incandescente di delusione che ti serrava il cuore fu una

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fonte inopportuna di distrazione. Avevi rinfoderato la spada sulla par-


te posteriore del tuo esoscheletro e – ricordando a te stessa che l’af-
fidarsi agli altri si era dimostrato, ancora una volta, un colpo violen-
tissimo ai dotti lacrimali – avevi spento le luci e coperto le estremità
dei fili con uno spesso strato di cartilagine, disinnescando così l’al-
larme antincendio. Poi ti eri allontanata da quelle rovine irte d’ossa,
umiliata e profondamente afflitta.
Ortus il Primo non era in sala d’addestramento. Perfetto. Ti aveva
già colta di sorpresa prima. C’era un solo altro posto nel Mithraeum in
cui l’avevi trovato in un momento simile, in cui era convinto che nes-
suno l’avrebbe disturbato; e fu così che, a passo svelto e con crescente
determinazione, eri tornata sui tuoi passi verso l’anello esterno e l’a-
trio residenziale, verso la stanza in cui un’altra Littrice giaceva inerte.
Il Santo del Dovere non era lì. E non c’era nemmeno il cadavere
di Cytherea la Prima. Una scia di sangue partiva dall’uscio spalanca-
to, baciato dal tenue bagliore delle luci elettriche. Si allontanava dal
catafalco su cui la santa necromantica aveva dormito così profonda-
mente. Il tuo cuore e il tuo cervello avevano obbedito quando avevi
intimato loro di immobilizzarsi e, per una manciata di secondi, eri ri-
masta ferma accanto a quel nastro ininterrotto di sangue, quasi sen-
za pensare – e poi li avevi recuperati entrambi, insieme al resto delle
facoltà, ormai sbrindellate dalla pazzia, che ti restavano.
Ti eri accucciata. Il sangue era lì da pochi minuti, una matassa ag-
grovigliata di carminio ricco d’ossigeno e di scarlatto povero d’ossige-
no: il sangue dell’atrio destro, espulso direttamente dal cuore. Ti eri
alzata ed eri entrata con circospezione nella sala, a piedi nudi. Sulla
parete dietro all’altare abbandonato c’era una macchia criminale co-
lor cremisi che imbrattava anche i petali incorrotti delle rose sempre
più mature. Distesa sul pavimento c’era la lancia di Ortus, bagnata e
lucida dalla punta fin quasi alla metà del fusto.
Non ti serviva un pennellino della Sesta Casa per ricostruire quella
specifica dinamica. Qualcuno si era fermato dietro al catafalco, con la
schiena rivolta alla parete; la lancia gli era o le era stata piantata nel
petto con un affondo poderosissimo ed era uscita dalla schiena – il
sangue era sgorgato dalla ferita per poi riversarsi in avanti quando la
lancia era stata tirata fuori con la medesima forza prodigiosa. A giu-
dicare dallo schifo che era finito sulle rose, l’assalitore doveva esser-

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si fatto anche lui una bella doccia. Al che, la vittima era stata trasci-
nata giù dall’altare fino all’atrio e, da lì, chissà dove.
L’arma apparteneva a Ortus; ma di chi era il sangue? Ti eri già spor-
cata le mani col sangue del cuore immobile di Cytherea; quello non
era il suo. Era possibile che Ortus avesse trafitto una terza entità, e
che poi avesse deciso di andarsi a nascondere per motivazioni perso-
nali con il suddetto corpo e con quello di Cytherea. Era probabile che
quella fosse la spiegazione più plausibile. Ma non era la più semplice.
Avevi seguito la lunga scia serpeggiante fuori dalla saletta. Conti-
nuava giù per il corridoio, svoltando bruscamente l’angolo in un cor-
ridoio che si immetteva in un anello più interno. Avevi spronato il tuo
esoscheletro, portandolo al trotto; i piedi gelati sguazzavano nel san-
gue ancora caldo e percepivi, avanzando di corsa, le impronte scar-
latte che ti lasciavi alle spalle. Avevi attraversato un corridoio sta-
tuario dall’illuminazione fioca, tra scheletri metallizzati e ingioiellati
degli eroi della Terza e della Settima, vestiti con i manti dorati e ver-
di dell’uffizio necromantico, con ametiste, topazi e smeraldi al posto
degli occhi; avevi virato di botto, scivolando un po’ nel sangue, im-
boccando una bassa porta di servizio.
Avevi attraversato sia l’anello residenziale che l’anello dei magazzi-
ni. Ora ti trovavi nell’anello tecnico e ambientale, con i sistemi d’ali­
mentazione, quelli di supporto vitale, lo smaltimento e i rifiuti. Le luci
erano flebili, lì. C’erano meno oblò e l’effetto era istantaneamente più
claustrofobico, più tubolare. Persino lì, nessuno spazio veniva spre-
cato: un memoriale vecchio di diecimila anni implicava che, anche
sotto le luci gialle e affilate dei pannelli di filtraggio e dietro all’enor-
me serbatoio gorgogliante dell’acqua, le ossa incastonate delle Nove
Case stazionassero in eterno, vegliando sugli interruttori etichetta-
ti con denominazioni tipo: STOP FLUSSO EFFETTORE – STOP FILTRO
EFFETTORE – STOP ESTRAZIONE EFFETTORE. Meglio ridursi in polve-
re nell’ossario del Drearburh che vegliare su STOP FLUSSO EFFETTORE
fino alla fine dei tempi.
Il sangue era ancora umido sotto alle tue dita dei piedi, anche se si
stava in qualche modo attenuando; si trascinava in un nastro quasi nero
verso le camere inferiori di filtraggio. L’avevi seguito fino agli scarichi.
Sgocciolava giù per una rampetta di scale metalliche che conduceva a
un ampio ambiente nelle profondità della stazione, non altrettanto zep-

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po di quell’accozzaglia di computer e meccanismi che c’erano di sopra.


Là dentro riuscivi a comprendere la grande portata del Mithraeum. Fi-
nestre oblunghe di plex erano posizionate in alto sulle pareti e rotoli di
schiuma termica rivestivano carezzevoli un piccolo bunker, resisten-
te e privo di aperture, in cui erano inserite enormi valvole che si pro-
pagavano all’insù lungo i muri e verso camere sconosciute. Non sapevi
ancora perché la stazione fosse dotata di un inceneritore: per quel che
ne sapevi, i materiali di scarto non venivano distrutti ma riciclati. Brac-
cia meccaniche penzolavano sopra di te, in attesa di piazzare qualco-
sa nell’inceneritore attraverso il portello sulla sommità. A metà strada
lungo il muro principale, sopra al bunker, c’era un minuscolo pannello
di controllo con la schermatura di plex. Non si scorgevano punti d’ac-
cesso; la porta doveva essere da qualche parte su per le scale.
Il sangue si interrompeva bruscamente davanti al portello dell’in-
ceneritore. Come in un sogno, l’avevi seguito fino al capolinea. Incas-
sato nella porta c’era un pannello di plex di uno spessore immane, in-
giallito da fiamme antiche. Ci avevi sbirciato dentro.
Ortus il Primo era accasciato contro la parete più lontana della ca-
mera dell’inceneritore. Il suo torace era ridotto a una netta cavità san-
guinolenta, in corrispondenza del punto in cui la lancia gli aveva tra-
passato con precisione il cuore. In un essere umano normale avrebbe
comportato una morte subitanea, persino in un adepto abile. Lui gia-
ceva lì con il mento che gli penzolava verso lo sterno. Non c’era nes-
sun altro con lui nell’inceneritore.
Il duello fra te e il Santo del Dovere era già finito. Il tuo nemico era
stato ucciso senza che tu lo sfiorassi neanche con un dito. Ti senti-
vi un po’ defraudata.
La Santa della Gioia e il Santo della Pazienza erano… assorbiti…
da un’altra faccenda, una faccenda che coinvolgeva Dio e un’eretica
distribuzione tripartita della loro saliva. Ianthe ti aveva piantata in
asso, con le sue labbra spaccate e la sua solitudine gay; che si fosse
diretta, meno sbronza a ogni passo, verso la saletta in cui Ortus in-
combeva su una donna morta? Che il suo cuore disfatto fosse un ge-
sto compiuto a tuo beneficio? Lei si sarebbe lasciata dietro così tan-
to sangue; sarebbe venuta fin lì?
Il cadavere di Ortus si sforzava di respirare dentro all’inceneritore,
e tossiva, anche se non riuscivi a sentire il rumore.

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Eri rimasta a osservarlo, tremante, mentre si posava una mano sul-


la ferita aperta e livida, per nasconderla. Tutto attorno a lui, i mecca-
nismi dell’inceneritore si erano rianimati con un rombo. Ti eri gira-
ta e avevi guardato in alto. Nel gabbiotto impenetrabile di plex c’era
Cytherea, illuminata dalla potente luce bianca irradiata dai pannelli
sopra di lei. Stava facendo forza su una qualche leva che c’era là den-
tro; una donna morta che ti fissava con occhi scuri e velati, il viso
screziato di sangue secco, petali nei boccoli inerti.
La carne era morta, ma l’odio sul suo viso era vivo, vegeto e ani-
matissimo. Osservavi quel cadavere ambulante dentro all’angusta ca-
bina di controllo, quel fantasma di disprezzo radiante e, come para-
lizzata dal suo sguardo, l’avevi vista avanzare a spallate – si muoveva
come se stesse lanciando di qua e di là gli arti; si muoveva come se il
suo corpo fosse greve come il piombo e la flessione di ogni articola-
zione comportasse il sollevamento di una massa enorme – e, tenen-
do gli occhi puntati su di te, aveva azionato un interruttore.
Le valvole gemettero e si gonfiarono di calore. Il rumore era quello
di una specie di poderoso motore in accelerazione. E Cytherea si vol-
tò e, con ogni arto che penzolava a un ritmo diverso rispetto ai suoi
compagni, si allontanò zoppicando.
Dall’interno dell’inceneritore, Ortus ti fissò. Fra le ombre, i suoi oc-
chi parevano scurissimi. A sostenerlo non c’era alcuna scintilla di po-
tere necromantico, nessun movimento che potesse salvarlo: il terzo
santo al servizio del Re Imperituro ti fissava con un’espressione che
somigliava molto all’impotenza. Giaceva lì con il cuore esploso, un
uomo al cospetto delle fiamme.
Avevi pensato di raccogliere le sue ceneri in una scatolina e di te-
nertele. Avevi immaginato che genere di costrutto avresti potuto crea-
re con gli elementi costitutivi delle ossa di una Mano sacra, un uomo
che, in un atto di sacrilega trasgressione, aveva usato un’altra anima
umana per alimentare la batteria vorace del suo cuore. Avevi pensa-
to alla possibilità di dormire sei ore piene a notte, in un letto da sola.
Avevi pensato alla possibilità di dimostrare la tua sanità mentale: a
Ianthe, a Mercy, a Dio. Ti apprestavi a seguire Cytherea – a risalire di
corsa quelle scale, a piedi nudi, fino alle sale di filtraggio, e di inter-
cettare quel cadavere sbilenco e ondeggiante, di apostrofarlo. Avevi
immaginato la soluzione a quel mistero.

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E poi ti eri foderata le mani con spesse placche di cartilagine, le avevi


strette attorno alla maniglia del portello e avevi tirato con tutte le tue
forze. Nessun risultato. Dell’osso vivo ti era spuntato dai polpastrelli
formando falangi distali grossolanamente esagerate che avevi spez-
zato di netto alle loro estremità sanguinolente. Il dolore ti distraeva e
avevi lanciato un urlo sonoro per concentrarti di nuovo. Avevi sroto-
lato quel materiale osseo in una ragnatela sibilante di falangi e fram-
menti polpettosi di ossa palmari, conficcandoli nel portello; poi ave-
vi squagliato quelle estremità distali, trasformando il fluido in ceneri
liquide spesse un micrometro, un costrutto – veramente – minuto.
Avevi spinto quella brodaglia sciropposa nella microscopica fessura
nei cardini del portello. Il meccanismo dell’inceneritore si era inne-
scato con un rombo, da qualche parte nelle ventole sopra di te – il
Santo del Dovere era rimasto lì a osservare il flusso di liquido traspa-
rente che, da un ugello, gli annaffiava i piedi –, e tu avevi sradicato il
portello dai cardini; l’avevi scagliato dall’altra parte della sala, in un
moto folle, idiota e bellissimo. E ti eri addentrata tra i petali di un in-
cendio chimico. Un allarme strideva chissà dove sopra la tua testa,
come se stesse arrostendo a morte anch’esso.
Nell’istante in cui avevi scorto quella maledetta scarica di fiamme
bianche non ti eri resa conto che fossero abbastanza calde da scio-
gliere l’acciaio. Vedevi solo i passi da seguire per completare quello
che dovevi fare. Una delle braccia con i polpastrelli di cenere liquida
si era riconfigurata alle tue spalle in due scheletri, il cui rivestimen-
to esterno grondava cenere rigenerante. Li avevi spediti a razzo ver-
so Ortus, per trascinarlo via per i piedi. Avevi sezionato le loro spine
dorsali, plasmandole in una parete solida di osso rigenerante, in una
valanga tumultuosa di midollo perpetuo, puzzolente e liquido, tuf-
fandolo in quel fuoco come una barriera fatta di mille strati, il fuo-
co contro l’osso, che si strotolava, si strotolava e si srotolava mentre
le fiamme bruciavano, bruciavano e bruciavano. Ti eri raschiata via
il cazzo di smalto dai denti per aggiungerlo a quello strato fremente
e incandescente. Era la prima volta, da Littrice, mentre facevi defla-
grare una massa ossea di quella portata tra le fiamme di un incene-
ritore, che avevi contemplato il limite del tuo potere: e quel limite si
estendeva ancora così in lontananza verso il maledetto orizzonte che
manco riuscivi a scorgerlo.

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L’inceneritore sussultò. L’allarme ululava. Avevi afferrato Ortus e


l’avevi trascinato lungo una parete della camera come un mucchio di
ossa calde e squagliate che colavano dal portello. L’avevi trascinato
via da quel solido bruciacchiato, soffocante e letale, e l’avevi appog-
giato contro la paratia.
Era quasi del tutto inabilitato. Teneva gli occhi chiusi. Gli avevi
scostato le mani e avevi esaminato con più attenzione il cuore mar-
toriato; le ferite si stavano rimarginando, ma lentamente – molto più
lentamente di quanto avessi immaginato. Le labbra cianotiche lascia-
vano trasparire uno sforzo tremendo, mentre il suo cuore si ricuciva.
Era un Littore vecchio quanto una miriade. Non capivi.
Il Santo del Dovere aveva detto, con una sorta di roca solennità:
«Barriere sanguigne nuove. Tutte le sere».
Gli avevi risposto, troppo sorpresa per non sembrare una coglio-
na: «Cosa?».
Ti aveva detto: «Non posso prosciugare la thalergia… non la tha-
lergia fresca. Thanergia? Facile. Se è mischiata alla thalergia… mol-
to più complicato. Niente barriere ossee. Barriere sanguigne. Capito?
Barriere sanguigne nuove. Tutte le sere. Quelle non le so rompere».
Il tutto era uscito a singulti, all’apice di ogni respiro gorgogliante.
L’inceneritore stava continuando a espellere lava al calor bianco fatta
di ossa semiliquefatte dal tanfo penetrantissimo. Il Santo del Dovere
non aveva aperto gli occhi. Si era limitato a concludere, con ostina-
zione: «Sarai al sicuro da noi».
Ci sarebbero state domande più intelligenti da porgli, per tutta ri-
sposta. Ma quella che ti era venuta in mente prima – e, a tua difesa,
non era neanche male – fu: «Perché?».
Lui non rispose. Si accartocciò, girando il capo per tossire, una
tosse ancora più densa. Poi si era allungato e ti aveva posato la mano
insanguinata sulla testa, coprendoti quasi il viso, le punte delle dita
che ti sfioravano le tempie e le guance, come se volesse schiacciar-
ti, o benedirti.
«Lo so che sei qua» aveva gracchiato. «Uccidimi quanto ti pare. Ti
riconoscerei anche se il mio occhio fosse cieco… anche se il mio orec-
chio fosse sordo… come un’ombra che imbratta un muro, annientata
dalla luce… fermati. Non qui. Non ora. Lascia perdere, amore. Voglio
solo la verità… dopo tutto questo tempo.»

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Ortus lasciò cadere la mano e disse, determinato: «Voglio solo sa-


pere perché… allora… hai portato con te la ba…».
Una voce in fondo al corridoio, dall’altra parte della stanza, tuo-
nò: «Harrow!».
Sulle scale c’era Dio. Al suo fianco, scompigliata, c’era Mercymorn.
A qualche passo di distanza e ancor più scompigliato, c’era Augusti-
ne, con del rossetto sul colletto. Ortus non proseguì. Tu ti eri alzata
in piedi, l’aria che ti sfrigolava attorno alla punta dei capelli, schiaf-
feggiandoti la faccia. L’Imperatore si era fermato sui gradini insan-
guinati davanti a te – c’era qualcuno che si muoveva nel cubicolo di
plex – e poi se n’era andato sferragliando. Con un’improvvisa borda-
ta bianca alle cavità sinusali, il coagulo osseo si disgregò in grani fini
e poi, sotto ai tuoi occhi, si ridusse a un pulviscolo invisibile e soffice.
Avevi domandato, con insistenza: «Perché ho portato con me cosa?
Che cosa intendi?» ma Ortus aveva riaperto gli occhi, con quella loro
bizzarra tenerezza verdeggiante. Il suo sguardo ti trapassava, superan-
doti. Guardava in su, come se potesse penetrare lo scafo stesso del Mi-
thraeum; guardava in alto, attraversandoti, senza più proferire parola.

* * *

Quanto Dio credesse alla tua versione della storia – e quanto ci cre-
dessi tu, nel raccontarla di nuovo, paonazza per l’adrenalina, il rim-
pianto e la rabbia impotente e dubbiosa dello psicotico che sa cosa
ha visto ma è comunque in grado di rinnegarlo – non era chiaro. Era
molto stanco. La camicia era stata richiusa con i bottoni sbagliati nel-
le asole sbagliate. Eri nettamente consapevole del suo disappunto, ma
non lo comprendevi del tutto.
Dio, Mercymorn e Augustine esaminarono l’inceneritore, lascian-
doti in pace seduta nella sala di filtraggio insieme a Ortus. Non ti fi-
davi spesso dell’istinto, ma in quel momento non avevi paura di lui,
vedendolo lì seduto su una cassa capovolta – proprio come stavi se-
duta anche tu – segaligno, sconfitto, con quell’espressione vuota. Tu
eri arrabbiata e basta.
«Hai visto quel che hai visto» gli avevi detto. «Devi averla vista
quando ti ha infilzato. Il colpo è stato sferrato frontalmente, con la
tua lancia.»

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Ortus aveva replicato: «Non lo so».


«Eri cosciente. Mi hai parlato.»
Lui aveva detto: «Non lo so».
«Abbiamo conversato. Voglio sapere cosa significa.»
Lui aveva detto: «Non mi ricordo».
L’avevi guardato negli occhi, limpidi e verdi; la sua espressione non
era mutata, e nemmeno la sua voce. Non eri riuscita a evitare che la
tua assumesse un disprezzo incredulo quando gli avevi detto: «Non
ti ricordi?».
Il Santo del Dovere orientò il suo corpo verso di te. Stringeva lo
stocco; ma gli stazionava indolente nell’incavo del gomito, pareva più
una scopa abbandonata che un’arma pronta alla battaglia. Le soprac-
ciglia erano lievissimamente aggrottate, in una specie di increspatura
esausta. Ti aveva guardata e aveva detto, con un tono che conoscevi
da quando avevi otto anni: «Io, a volte… dimentico».
Era il tono – clinico, corazzato, mezzo sulla difensiva e mezzo com-
promesso –, il tono di qualcuno che ammette una fragilità definiti-
va. Ti risultava familiare perché l’avevi usato tu stessa. «Dovete sa-
pere che sono pazza».
Successivamente, quando il Mithraeum fu stato perlustrato, il corpo
di Cytherea non fu ritrovato sul suo altare; e Dio disse che non era riu-
scito a individuarlo in nessun punto della stazione, da nessuna parte.

* * *

Tornata nelle tue stanze – quelle stanze che ora ti risultavano fami-
liari, quasi accoglienti, ordinate e vuote – ti eri aperta una vena e ti
eri preparata a rimpiazzare tutte le tue barriere ossee col sangue. Ci
avevi messo delle ore. Non avevi completamente fortificato il plex
esterno, cosa che avrebbe richiesto un lavoro complesso e meticolo-
so di pilotaggio costruttivo, ma avevi collocato un garbuglio ulterio-
re di barriere attorno ai finestroni interni, sperando che quella solu-
zione provvisoria sarebbe bastata a garantirti una nottata di quiete.
Eri in piedi nel tuo corridoietto, intenta a soffiare una patina impal-
pabile di polvere ossea su una barriera sanguigna ancora fresca quan-
do avevi sentito dei passi fuori dai tuoi alloggi.
Eri rimasta immobile, in ascolto.

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«Spero sarai soddisfatto.»


«Neanche un po’.»
«Che farsa… che farsa grottesca, orrenda, miserabile.»
«Be’, per l’amor del cielo, come facevo a sapere che avrebbero fat-
to partire l’allarme dell’inceneritore? Dio santo, è sempre quello che
non spegni che si mette a suonare.»
«Come se l’avessi fatto apposta.»
«Se ti riferisci all’altro… hai rischiato seriamente di calcare un po’
troppo la mano. Nessuno potrebbe mai credere che ti sei sbronzata
così tanto per sbaglio.»
«Ma piantala» fu la risposta. «Ti ho quasi mollato un ceffone. Non
osare più usarla come leva, mai più. Tirarla in mezzo… insieme a quel
babbeo di tuo fratello, per giunta… quasi non vale la ricompensa.»
«È una fortuna che si sia rivelata utile in qualche modo, visto che
non lo è mai stata da viva. Sono fierissimo di essere riuscito a rima-
nere serio, maledizione. “Oh, Cristabel, tutto ti è perdonato!” Buo-
nanotte, Mercy; le mie labbra sono cucite, ma se decidi di stringere
un patto col diavolo, assicurati di vedere la merce in anticipo. Spero
che schiatterai prima che io possa pentirmene, e spero anche tu sap-
pia che un giorno strapperò il fantasma marcio di Cristabel dal tuo
cadavere e me la mangerò… Dove hai ficcato Cytherea?»
Altri passi. Una voce si alzò: «Te l’ho già detto e te lo ripeto: io non
l’ho neanche toccata, viscido figlio di puttana borioso che non sei
altro…». E poi: il nulla. Eri tornata alla chetichella nella tua stanza.
Finalmente eri riuscita a strapparti di dosso quella sciarpa che fin-
geva di essere un vestito, infilandoti una camicia da notte di tua pro-
prietà. Ti eri spazzolata i capelli e ti eri raschiata via le pitture, ti eri
lavata via il sangue, dove Ianthe ti aveva baciata, ed eri riuscita a co-
ricarti nel silenzio della notte con la spada al tuo fianco e quella se-
rata ormai alle spalle.
Accanto a te, il Corpo aveva sentenziato, piano: «La marea si è sol-
levata. Così il sole. Noi perdureremo».

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ATTO QUARTO
ACT ONE

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DUE MESI PRIMA DELL’ASSASSINIO DELL’IMPERATORE

Il quattordicesimo pianeta che ti avevano man-


dato a uccidere era il rigoglioso satellite thalergico di una piccola stel-
la incandescente. Era lussureggiante e terrestre, dotato di uno spesso
tappeto di vegetazione e di un’abbondante vita animale – e nessuno
era particolarmente impaziente di accollarsi la responsabilità di far-
lo fuori. Purtroppo, si trovava in pieno sulla traiettoria attuale del-
la Numero Sette; e la Numero Sette, per aderire alla descrizione di
Maestro, avrebbe considerato un pianeta del genere come un bel tor-
tino fumante. Eri la più giovane. Ricadde su di te, e su Mercymorn.
Il corpo di Cytherea non era mai stato ritrovato. Erano stati fat-
ti dei tentativi, nei primi giorni, per cercarlo, ma pareva che l’unico
ancora angosciato dalla faccenda fosse l’Imperatore. Sapevi che Au-
gustine sospettava di Mercymorn, anche se non sapevi perché; Ian-
the sospettava che fosse stato Ortus a nasconderla di soppiatto da
qualche parte, nonostante i tuoi dubbi. («Hai presente, no?» insiste-
va, «Per… “motivi sessuali”.»)
Non ti aveva biasimata per non essere riuscita ad ammazzarlo. Per
quanto potesse sorprenderti, non lo fece nemmeno il Santo della Pa-
zienza, che si era velatamente scusato per non aver tenuto conto – a
torto – degli allarmi dell’inceneritore. Non avevi percepito dei grandi
cambiamenti tra lui e Mercy – a parte il fatto che tendevano a perde-
re la pazienza l’uno con l’altra con una velocità lievemente maggiore
– o tra lui e Dio o tra lei e Dio. Non c’erano imbarazzi, non c’erano
pause quando si incrociavano a colazione, o in corridoio, e si strin-

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gevano il braccio con il medesimo – o con la medesima carenza di –


calore che si erano sempre dimostrati. L’assenza assoluta di una do-
verosa vergogna ti faceva sospettare che fosse già successo qualcosa
del genere tra loro, un pensiero che ti faceva venire voglia di loboto-
mizzarti da sola.
E, nonostante il soverchiante disappunto di Dio, il Santo del Do-
vere aveva cercato di ucciderti già altre due volte da allora. Ma an-
che lui sembrava essersene stancato. E le tue barriere avevano retto.
All’inizio della tua ultima escursione, la tua insegnante ti aveva col-
ta di sorpresa: quando eri atterrata sulla superficie del pianeta e avevi
confermato che l’atmosfera era respirabile – «Fai comunque attenzio-
ne a quello che respiri» ti aveva detto la Santa della Gioia. «I pianeti
sono sporchi» –, ti aveva dato uno zaino, una borraccia d’acqua e un
rilevatore e ti aveva ordinato di levarti di torno. Non c’era abbastan-
za spazio per far atterrare la navetta sulla regione polare, lussureg-
giante e boschiva, del pianeta, e di conseguenza te la saresti dovuta
sbrigare con una breve escursione.
«Puoi cavartela da sola» aveva detto Mercymorn. Era stata scorte-
se e irritabile, ma Mercymorn era sempre scortese e irritabile. Non
era di certo diventata meno scortese e irritabile in quelle ultime set-
timane: si era semplicemente astratta, come se i suoi occhi stessero
già scrutando il Fiume. «Io vado a occuparmi della lunetta qua ac-
canto. Sarà coperta di thalergia riflessa. Cronometrati – non perde-
re tempo –, la maggior parte della vita su quest’affare è nell’oceano,
ma nel caso io abbia commesso un errore, non farti divorare da chis-
sà quale creatura mentre sei immersa.»
Le avevi detto: «Sorella, come posso proteggere me stessa men-
tre mi immergo?».
«Qua la genietta di due anni non sono di certo io, o no?» aveva ab-
baiato lei. Gli occhi impetuosi erano cerchiati di rosso, continuava a
torcersi le mani e a guardarti da dietro le ciglia folte, mentre parlava.
«Tornerò tra sei ore, suppergiù. Arrivederci!»
Era la prima volta che restavi da sola su un pianeta sconosciuto. La
terra sotto ai tuoi piedi odorava di umidità e al suo interno si agita-
vano vermetti e piccoli coleotteri. Il fogliame era un violento tripu-
dio di verdi – verdi agrumati, freschi, e verdi bigi e scuri, da pineta,
e nel mezzo c’erano dei verdi bruniti e una volta frusciante e scroc-

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chiettante di foglie. L’aria era calda e bagnata, come l’interno di una


bocca. Il sole ti percuoteva il cranio coi suoi fasci di radiazione ultra-
violetta – socchiudevi le palpebre alla luce – e il sudore aveva inizia-
to ad arricciolarti i capelli sul collo. Avevano un bisogno urgentissi-
mo di essere tagliati.
Due giorni prima, Dio ti aveva portata nel suo salottino e ti aveva
dato un bicchiere d’acqua – il che dimostrava che aveva capito l’an-
tifona – e un biscotto – il che dimostrava che viveva nell’ottimismo.
E l’Imperatore delle Nove Case ti aveva detto: «Harrowhark, quan-
do il portello si richiuderà alle mie spalle, ti voglio in quella stanza».
Tu gli avevi risposto: «No».
«Harrow, non ci sono stati progressi. Va benissimo. Lo capisco. Ma
voglio darti più tempo… voglio che tu abbia un futuro.»
Gli avevi risposto: «Augustine il Primo mi ha addestrata nel Fiume.
La mia necromanzia là è impareggiabile, sin dalla prima volta. Quan-
do la Bestia arriverà, io sarò pronta ad accoglierla, sul suo terreno».
Dio ti aveva squadrata, storcendo la bocca in una specie di sorriso,
e aveva detto: «Sei persino più testarda di me. Credevo di aver ormai
saturato quella fetta di mercato».
C’erano stati giorni in cui avevi percepito il suo disappunto come
una morsa, come la pressione a lungo immaginata della corda sul-
le ossa della tua gola. Per un numero equivalente di giorni quei suoi
occhi da incubo avevano alleviato la tua spossatezza prosciugante
come una lunga sorsata d’acqua fresca. Il tuo amore per Dio era si-
mile all’amore che provavi per il bellissimo orlo alveolare della cresta
iliaca. Il tuo amore per Dio era come quei momenti sospesi appena
dopo il risveglio, quando non eri certa di chi fossi; in quei momen-
ti vivevi nella pelle di un’altra Harrow, una Harrow che capiva tutto
con la purezza della completezza. Venerare era un sollievo, dunque.
Una volta avevi pensato che la tua capacità di adorare si fosse estinta
quando i tuoi occhi si erano posati su quel viso nel Sepolcro, morto
e irresistibile, l’inumazione della bellezza. Eri sollevata nel constata-
re che qualche rimasuglio restava.
Ti eri tirata sulla testa il cappuccio della tua veste Canaanita di ma-
dreperla. La luce del sole la investiva, attraversandola e screziandoti
bagliori prismatici sulla faccia. Sopra di te stridevano gli uccelli. Non
erano creature grandi, e tu non li temevi, ma provavi quasi pietà per

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loro. Era una faccenda spiacevole, rimuovere l’anima di un pianeta in


quel modo: questa sarebbe stata la prima volta che lo facevi da sola, e
la prima volta che uccidevi un pianeta per conto tuo. Le creature non
sarebbero morte all’istante, insieme al pianeta. Ma, pian piano, sareb-
bero cambiate e, alla fine, si sarebbero ridotte a mutanti thanergici
incapaci di riprodursi. Una morte degna della Nona Casa, e la mor-
te che alla fine era toccata a tutti i pianeti virati.
Il terreno della foresta era nodoso e accidentato – per la prima ora
avevi camminato stoicamente, sorseggiando acqua. Quando ti eri stan-
cata, avevi trascorso una seconda ora fra le braccia di un voluminoso
scheletro, imponente e ondeggiante, levando di mezzo rami e foglie
mentre un secondo scheletro vi precedeva di gran carriera, abbatten-
do tutto quel ribollire di thalergia che si parava sul vostro cammino.
Era stato con una fitta di nostalgia che avevi ripensato al Drearburh,
e a casa: pensavi alla vasta spirale all’apice del tuo tempio, che dal li-
vello più profondo sembrava solo una capocchia di spillo, quella nube
inconsistente e acquosa di pompaggio atmosferico, e lo spazio morto
più in là. Ripensavi al mormorio delle preghiere in cappella. Pensavi
alla Campana Secondariana, al suo roboante fragore, al clangore della
sua lingua nera, al risveglio con quel CLANG… CLANG… CLANG…
come se un antico campanaro stesse iperestendendo i bicipiti anima-
to dalla sacra e tremula volontà di strattonare quella corda.
Il Corpo avanzava accanto al tuo costrutto. Il sole non scioglieva il
ghiaccio su quella chioma dalla colorazione indistinta. Il calore umi-
do della giungla attorno a te non la ostacolava, e la fatica non confe-
riva il minimo rossore a quelle braccia lunghe, asciutte e muscolose,
e nemmeno a quelle gambe gracili e snelle, o alle guance morte. Era
stata con te molto spesso, di recente.
Scorgevi tutti i segni della tua distruzione. Ti restavano pochi mesi
da vivere. Ormai si erano ridotti a settimane. Dio aveva ragione: non
eri cambiata, non ti eri aggiustata. Eri l’ultima fra i Littori, solitaria
e vulnerabile. Gli altri erano ormai lontani da te, volti alla Bestia Re-
surrezionale che era venuta a punire i loro peccati mortali e a ucci-
dere il loro Principe Clemente.
Eppure – là, in quella fettina di foresta aliena, in mezzo alle felci
e alle fronde, con il verde che si inarcava contro un orizzonte di una
verdanza più reticente, che sbiadiva nel blu oltremare – riuscivi qua-

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si a credere di avere la capacità di essere di nuovo felice. Eri una vo-


ragine non ancora riempita, ma persino un buco poteva trovare ap-
pagamento nel vuoto che conteneva.
A quel punto, anche se non lo sapevi, ti trovavi a un solo chilome-
tro di distanza dall’annientamento di quell’insostanziale appagamen-
to. Un buco poteva anche essere riempito con dei vermi.

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Dopo quattro ore, ti eri resa conto di essere se-
guita. La percezione molto flebile di una vasta presenza penetrava la
coltre di quella gran quantità di thalergia, rendendoti istantaneamente
irritabile – Mercymorn aveva sbagliato a valutare le caratteristiche del
pianeta. Era palese che in quella regione ci fossero grossi mammiferi,
e avresti dovuto escogitare un modo per posizionarti con prudenza
in modo che nessuno venisse a masticarti mentre squartavi l’anima
del pianeta. Il tuo fastidio si tramutò in sospetto quando si dimostrò
chiaro che quella firma thalergica stava seguendo te – si stava tenen-
do cautamente a un centinaio di metri di distanza, alle tue spalle, ri-
percorrendo i tuoi passi. Non che fosse difficile. I tuoi scheletri ave-
vano il passo pesante. Stavi lasciando una scia che anche un idiota
cieco sarebbe riuscito a seguire in una notte scura e senza luna; eri
tornata all’irritazione, che questa volta era diretta alla tua stessa stu-
pidità, e ti eri fermata.
Avevi aspettato il tuo predatore in una radura. Ti eri calafata una
superficie d’osso su quella terra ricca e rossa, in modo da poterti piaz-
zare su quella piccola piattaforma con la punta della spada che tocca-
va il tappetino, senza preoccuparti che qualche anellide ti strisciasse
sui piedi. Avevi fatto mente locale per assicurarti che nessun corpo
estraneo fluttuante si stesse facendo strada nel tuo sistema immuni-
tario. Avevi sepolto la testa nel cappuccio, ed eri rimasta in attesa.
La thalergia si avvicinava. Ti eri accorta, con un profondo e stri-
sciante senso d’orrore, che apparteneva a una persona.
E poi era apparsa una donna sul bordo della radura. Portava un cap-
pello appuntito per schermarsi gli occhi scuri e il viso, affilato come

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un paio di forbici, dal sole; era una donna con un manto grigio, le
estremità erano assicurate con un nodo voluminoso in vita per evi-
tare che strusciassero al suolo. Attorno al collo portava una borsa di
tela grezza, una paralizzante massa di thanergia in via di decomposi-
zione in mezzo a tutta quella vita chiara e comprensibile. Dalle spal-
le facevano capolino due foderi malconci e i capelli, fermati dietro le
orecchie, le arrivavano al mento ed erano di un castano pietroso, il
colore di una mattonella antica in un tempio abbandonato.
Usando una voce che non ti sembrava appartenesse a te, le avevi
detto: «Ho visto il tuo cadavere».
«Be’» aveva risposto Camilla Hect, tranquilla. «Non andarlo a dire
a tutti, o vorranno vederlo anche loro.»
Dalla distanza che vi separava, l’avevi ponderata con attenzione;
avevi anche ponderato quel cadavere con un cumulo di macerie al po-
sto della faccia, coricato su un telone di plastica. Le strida singhioz-
zanti degli uccelli attorno a te si risolsero in un borbottio indistinto.
Ti eri portata una mano all’orecchio destro e, scostando le dita, te le
eri ritrovate coperte da uno strato di sangue così denso da risulta-
re quasi violaceo. Si era avvicinata di un passo; tu ne avevi fatto uno
indietro, riequilibrando la distanza, e lei non aveva interrotto le ma-
novre di approccio. Osservavi la paladina della Sesta, e sanguinavi.
Nel cervello ti si era aperto un cassettino. Ti eri frugata nelle vesti
– l’esoscheletro ti aveva restituito una delle ventidue lettere, con un
monito a lungo tenuto a mente: NEL CASO LA INCONTRASSI, DA CON-
SEGNARE A CAMILLA HECT.
La cosa non ti aveva turbata. Molte di quelle lettere stabilivano cir-
costanze impossibili. E, ora, una di quelle circostanze impossibili era
proprio lì di fronte a te. Avevi passato la busta al tuo scheletro incom-
bente, che aveva attraversato la radura, gestendo in maniera ammi-
revole il tappeto bitorzoluto della foresta, per consegnare la lettera a
Hect, precedentemente defunta.
Lei l’aveva presa, aveva strappato la busta, aveva letto il contenu-
to e aveva alzato le sopracciglia; nel frattempo, tu eri rimasta lì a si-
fonarti il sangue fuori dalle orecchie. Aveva guardato la lettera; ave-
va guardato te; aveva guardato la lettera. Poi l’aveva appallottolata e
l’aveva fatta a pezzi.
«Okay» aveva commentato, alla fine. E: «Ti esce anche dal naso».

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Ti eri pulita la faccia, soffocando il crescente fastidio che provavi e


le avevi detto: «È previsto che io ne apprenda il contenuto?».
Hect si era schiarita la gola – facendoti sussultare – e aveva recita-
to, per filo e per segno: «Per i servizi precedentemente resi dalla tua
Casa: appellati alla roccia che resta eternamente immota, nella con-
sapevolezza che considererò la tua vita inviolabile e che, se mi sarà
possibile, ti aiuterò. Grazie».
Le avevi risposto, inorridita: «Non è vero».
«Era tutto lì, nero su bianco, Reverenda Figlia.»
“Reverenda Figlia” rimaneva un dolce sentire per le tue orecchie in-
sanguinate; ma avevi ribattuto, ben sapendo di risultare irascibile: «Non
posso che essere stata assai promiscua in fatto di favori, in passato».
«Immagino ritenessi di essere in debito con noi» aveva detto Camilla.
Era da parecchio che non ti trovavi in compagnia di qualcuno che
non fosse un Littore. Senza il minimo riguardo, avevi cercato di af-
ferrarla col tuo costrutto; eri allibita dalla velocità con cui Hect aveva
sfoderato quei grossi coltelli simmetrici da dietro le spalle, balzando
sul tuo scheletro come un sasso scagliato con la fionda. Il primo col-
po che sferrò, con l’impugnatura del coltello, polverizzò la cassa to-
racica, che si ricoagulò; ormai disprezzavi gli scheletri non fatti di ce-
neri permanenti. Lei entrò in scivolata, mirando al punto fragile sotto
al ginocchio, e fece barcollare in avanti il tuo costrutto. Le avevi in-
timato: «Desisti» ma lei gli aveva piantato un coltello alla base della
spina dorsale, l’aveva recisa e l’aveva tirata verso di sé con un twoing.
Avevi sentito la tua voce che si alzava per esclamare: «Ho bisogno di
sapere se sei reale!».
Aveva allontanato lo scheletro con una pedata; era spezzato in due
parti attonite, che si dimenavano per rifondersi insieme, comprenden-
do lentamente la portata del danno. Camilla Hect rinfoderò i pugna-
li con la medesima rapidità e ferocia con cui li aveva estratti, e disse:
«Niente movimenti bruschi».
«Io sono Harrowhark Nonagesimus» le avevi detto. «Sono la nona
santa al servizio del Re Imperituro. Sono l’osso del suo dito indice;
sono il suo pugno e i suoi gesti… sono una Littrice, Hect. Che spe-
ranze potresti mai avere contro di me?»
«Nessuna» fece Camilla.
E poi aggiunse, con calma: «Non ancora».

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Eri rimasta in silenzio. La testa ti pulsava. Gli uccelli erano mol-


to chiassosi e strillanti, e una moltitudine di odori si propagava per
la foresta – di aria umida, di terriccio umido, di tutte le cose che ci
strisciano sopra, con le loro insensate moltitudini di zampe e picco-
le appendici ramificate. Ti eri messa a sedere sul tuo ciocco fodera-
to d’osso e ti eri pulita la faccia. E le avevi detto: «Ho osservato il tuo
corpo che veniva ricomposto. L’ho esaminato personalmente. E ora
sei qua, a quaranta milioni di anni luce dalle Nove Case, e dichiari di
essere reale».
«Se hai intenzione di restare seduta lì a compiangerti, sei cambia-
ta» ti aveva detto. E poi: «Sto per avvicinarmi. D’accordo?».
Avevi squadrato con gelida apprensione quella resurrezione che ti si
approcciava. Non era manovrata come un burattino, come tua madre
e tuo padre; non era nemmeno un simulacro alla maniera della Setti-
ma. La sua thalergia brillava con la pura luce combustiva di un essere
umano forte e sano, e le morti minute che punteggiavano il suo cor-
po – batteriche, apoptotiche e autofagiche – producevano una tra-
ma thanergica che riuscivi a vedere con la stessa chiarezza con cui
vedevi il respiro che le smuoveva il torace. Ti eri allarmata profonda-
mente quando si era accosciata davanti a te e ti aveva esaminata con
freddezza; ti aveva guardato nell’orecchio sinistro, poi in quello de-
stro, ti aveva sbirciato gli occhi e su per il naso.
«Una bella emorragia intracranica» aveva commentato. «Uccide la
maggior parte di noi non-Littori.»
Le avevi chiesto: «Perché sei qui? Perché sei venuta qui ora? Come
fai a essere qui? Questo pianeta orbita attorno al santuario dell’Im-
peratore, Hect, si raggiunge solo tramite mezzi necromantici, e tu
sei morta».
«Per niente» aveva ribattuto lei. E, dopo una pausa, in quel suo
tono asciutto e secco: «Sono venuta a cercare te, Reverenda Figlia».
«Mi hai trovata. Dimmi a che scopo.»
Camilla si era sfilata la borsa a tracolla. La stringeva fra le mani, e
riuscivi a percepire la sua esitazione; e non ti sembrava proprio il tipo
capace di esitare. Col pollice si era soffermata ad accarezzare delica-
tamente il cordino di pelle della chiusura a coulisse, in cima, e poi te
l’aveva passata. In silenzio ti aveva offerto quella sportina malanda-
ta, grande all’incirca come le tue mani strette a coppa, come se fosse

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uno scrigno colmo di gioielli. Sapevi che cosa conteneva ancora pri-
ma di toccarla. Quello che non capivi era perché.
Avevi aperto la borsa e ne avevi estratto il contenuto sotto al suo
sguardo scuro e pietroso. Non era particolarmente piena. Ti eri ap-
poggiata quella cosa sul palmo, meravigliandotene.
Era un frammento spaccato di cranio umano – una cresta dell’osso
sovraorbitale e un’ansa interrotta del parietale, un pezzo di zigomo,
una scheggia che si sarebbe collegata verso il basso con la mascella.
Tutto lì. Come teschio, non è che fosse granché interessante – ma-
schio, sui vent’anni, morto forse da otto mesi – ma, come ricostru-
zione, era incredibile. La porzione era stata assemblata partendo da
frammenti, manualmente, e non da uno stregone osseo. Il più picco-
lo non era più grande della lunetta cuticolare di un’unghia. Era stato
riassemblato con perizia, passione e laboriosità, a partire dal teschio
di qualcuno che, poco dopo la morte o durante – sintomaticamen-
te – era esploso. C’erano delle microscopiche fessure in corrisponden-
za dei punti in cui era stato incollato. Te lo giravi e rigiravi in mano.
«Occhi» aveva detto Camilla.
Un esile gocciolio di sangue stava facendo capolino dal tuo dot-
to lacrimale destro. Te l’eri tamponato. Il tuo mal di testa era note-
vole, ormai.
Le avevi detto: «Il tuo necromante».
E lei, dopo un istante di esitazione: «Sì».
Anche quello era impossibile, visto che l’ultima volta che avevi vi-
sto il teschio di Palamedes Sextus, era punteggiato di propellente per
armi da fuoco proveniente dal proiettile che gli aveva fatto implode-
re la faccia. Ti eri asciugata il condotto lacrimale sinistro prima che
l’impassibile paladina potesse fiatare.
Le avevi domandato: «Che cosa vuoi da me?».
Camilla si era alzata in piedi.
«Il Guardiano è ancora lì dentro» aveva dichiarato.
Avevi aspettato, reggendo tra le mani quel manufatto, frutto di un
lavoro stupefacente. Dopo un istante ti aveva risposto: «È collegato.
Al teschio. Voglio che me lo confermi. Tutto qua».
Tutto qua. Avevi analizzato di nuovo il teschio. Era un osso vec-
chio di sei mesi ma ancora pervaso da una vivace thalergia. Tutti i
tessuti residui erano stati rimossi con perizia; non c’erano ciocche

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di capelli sul teschio polverizzato e nemmeno porzioni di materia


cerebrale secca sull’osso parietale. Avevi cercato di richiamare Pala-
medes Sextus alla memoria, e le tue orecchie avevano rinnovato la
loro insurrezione liquida. Quando avevi scandagliato in fretta e fu-
ria il tuo cervello in cerca della sorgente non avevi rilevato nulla di
particolarmente sbagliato, e la cosa ti aveva fatto sanguinare anco-
ra di più. Ti eri scrollata via il sangue dall’orecchio destro, e le ave-
vi detto: «Elabora».
«Grazie per non aver ridacchiato. Lui è là dentro» ti aveva ripetu-
to, con una certa ostinazione, ma mantenendo la medesima calma
asciutta. «È un redivivo.»
Eri rimasta così sinceramente basita da non poter reagire con qual-
cosa di grossolano come un sorriso, una risata, o dicendole: “Mi stai
prendendo per il culo, questa è buona!”. «No, non lo è» avevi com-
mentato. «Uno spirito aggrappato a un oggetto inerte – un fantasma
aggrappato a un oggetto inerte per un lasso di tempo così lungo –
dovrebbe aver perso coerenza ed essersi dissolto ormai da un pez-
zo. Non può camminare. Non può parlare. Non può percepire. Uno
spirito non si aggrappa con questa tenacia per mesi a qualche pez-
zetto di teschio.»
«Lui lo farebbe» aveva detto lei.
«Sono sicura che avesse una… personalità determinata, ma…»
«No, quel che intendo è che ha deliberatamente ancorato la sua
anima al suo corpo, con la magia spirituale» aveva detto la paladina.
«L’abbiamo pianificato. Nell’eventualità della sua morte. So che l’ha
fatto perché ho ricevuto il suo messaggio. Voglio solo assicurarmi di
aver raccolto la porzione giusta del teschio. Non avevamo conside-
rato la possibilità che ci fossero dei… pezzi. Se non è qua dentro do-
vrò andare a cercare gli altri.»
L’avevi guardata dritto in faccia. Camilla Hect era un contenitore
ermetico, con cerniere e serrature; la sua espressione era quella del
masso davanti al Sepolcro, inesorabile, impenetrabile. Ma i suoi oc-
chi… i suoi occhi erano scuri come la ghiaia mescolata al terriccio,
né grigi né neri, ma entrambe le tinte. Erano gli occhi di una stagio-
ne invernale che non promette una primavera. Confrontando quegli
occhi col resto del viso, avevi scorto una disperazione imbottigliata.
Ti aveva detto, con il medesimo dolore sordo, vuoto e duro come

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il diamante: «La Coorte ha portato via il resto di lui. E non so dove


possano averlo messo».
Non era stata la pietà a muovere la tua mano. Era stata la since-
ra curiosità di scoprire che razza di uomo avrebbe mai potuto sigil-
lare la sua anima al suo corpo frammentato prima di morire. Avevi
piegato le ginocchia e avevi accostato il polpastrello dell’indice all’os-
so parietale: avevi scandagliato ogni cellula di quell’osso in cerca di
un’anima residua.
E non avevi trovato niente.
Non era la prima volta che rimpiangevi la tua scarsa dimestichez-
za con la magia spirituale. Ti eri flagellata mettendo per iscritto pro-
prio quell’accusa: “La tua comprensione della magia corporea e spi-
ritica è esecrabile”. Ora i tuoi rimpianti avevano raggiunto il picco:
non eri nemmeno sicura se la tua incapacità di trovare un ragazzi-
no morto fosse dovuta all’assenza effettiva del ragazzino morto o alla
tua mancanza di studio.
Le avevi detto: «Se lo spirito si fosse in qualunque modo sposta-
to fino al Fiume, sarebbe impazzito. Se anche solo avesse mollato la
presa per un istante, o se non fosse riuscito a tollerare la prigione
delle sue ossa…». Camilla si era limitata a squadrarti. Ti eri addolci-
ta: «Un momento».
Quel puzzle di novantasei pezzi che la paladina definiva un cranio
non giustificava quello che stavi per fare. Avevi ricompattato ordi-
natamente il tuo costrutto scheletrico in un dischetto osseo, e avevi
reso inerte il tuo esoscheletro. Se li avessi lasciati, si sarebbero ridotti
in briciole, ed era meglio non consegnarle alcun indizio della tua vul-
nerabilità mentre eri incosciente. Ti eri spostata per sederti sull’erba.
L’avevi schiacciata col tuo peso. L’odore che emanava ti metteva l’an-
sia. Avevi deliberatamente deciso di non pensare a tutta la vita inset-
toide che si contorceva e strisciava sotto al sedile costituito dal tuo
manto. Avevi fatto aderire bene i piedi al terreno curvando dolcemen-
te la colonna vertebrale. Le barriere spirituali erano già state tracciate
sulla tua pancia e sulla tua nuca, anche se erano solo una questione
di superstizione, erette solo in caso di un’emergenza imprevedibile
in cui avresti dovuto manovrare fisicamente il tuo corpo nel Fiume.
Una mente senza la sua carne non avrebbe attratto uno spirito fame-
lico. La popolazione brulicante che avresti trovato qua non era inte-

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ressata al fatto che fossi ancora aggrappata o meno alla tua deliziosa
carne scintillante – in ogni caso, poi, eri intenzionata a dare solo una
brevissima occhiata. Ti eri sganciata la spada pesante dalla schiena
piazzandotela tra i piedi, avevi afferrato il teschio che tenevi in grem-
bo e ti eri immersa nel Fiume.
Avevi previsto di utilizzare il cranio per triangolare la posizione
del suo proprietario. Sarebbe stato altrimenti impossibile individua-
re uno spirito solo tra i milioni di miliardi – fantasmi innumerevoli,
una massa quasi infinita – che si aggiravano in quelle acque oscure.
«Il tempo e lo spazio funzionano diversamente nel Fiume, indipen-
dentemente da come ci entrate, pulcine mie» le aveva messe in guar-
dia Augustine. «Ancoratevi, quando vi lascerete alle spalle il vostro
vecchio abito di carne e mentre guaderete le acque. Aggrappatevi alla
geografia reale; siate consapevoli del vostro corpo; lasciate che sia il
vostro porto sicuro, a meno che non bramiate di essere trascinate in
un posto che non volete visitare.»
Tu, invece, stavi usando quel teschio come riferimento geografi-
co. L’acqua era molto fredda, quando l’avevi sentita richiudersi sul-
la tua testa. La sentivi densa e viscida come l’olio. Augustine aveva
tuffato te e Ianthe nel Fiume, per addestrarvi in vista di questo – per
farvi abituare a un Fiume che brulicava di pazzi, di folli e di affama-
ti – e sapevi cosa aspettarti. Ti saresti trovata in quell’acqua lurida,
con i denti, la carne decomposta, gli occhi ciechi e iniettati di san-
gue. Con un po’ di fortuna, saresti riuscita a vedere anche il fantasma
pazzo di quel teschio. Avresti potuto ottemperare al tuo dovere, con-
fermando che era andato ormai alla deriva da un pezzo e che anche
Hect avrebbe potuto mollare gli ormeggi e allontanarsi da quel do-
lore compresso e primordiale che quel racconto di fantasmi le aveva
cristallizzato addosso. Eri pronta al gelo e al senso di panico iniziale
degli spiriti che esplodono verso l’esterno, dal tuo corpo, quell’inda-
gine predatoria ma sicura nel tuo cervello… l’acqua torbida, anneb-
biata dal sangue vecchio…
… ed eccoti in piedi in una stanza. Le vesti bagnate sgocciolavano
su un pavimento di legno lucido.
La stanza aveva le dimensioni di una cella da penitente, grande ab-
bastanza per un letto e un tavolo. Meno penitenzialmente, il letto era
disseminato di cuscini, cuscinetti e coperte; il tavolo era egualmen-

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te ingombro di preparati e plichetti di carta, più una scodella smalta-


ta, macchiata. Una vecchia poltroncina era sistemata accanto al letto,
con lo schienale riassicurato alla cornice e una parte dell’imbottitu-
ra che fuoriusciva in tocchi schiumosi, squadrati e giallognoli. Sopra
al letto c’era una finestrella sporca che aveva resistito a ogni tentati-
vo di pulizia e che affacciava su un cortiletto agonizzante dove un’ac-
cozzaglia folta di rampicanti soffocati dal sale erano le uniche entità
verdeggianti in mezzo a una distesa di alberi rachitici e privi di foglie.
Una mensola reggeva alcuni libri rinsecchiti, fra cui ne spiccava uno
come un cadavere pasciuto in mezzo agli scheletri. Lo sguardo ti era
caduto sul titolo: Necromanti da marito.
«È uno di quelli storici» aveva detto una voce alle tue spalle. «Abella
Trine, inevitabilmente di Ida, è considerata un misero partito sul mer-
cato matrimoniale perché è troppo magra, è troppo abile nella magia
corporale – è specializzata nel tratto digestivo – e si acconcia la folta
chioma castana in una crocchia poco lusinghiera, dettaglio che vie-
ne sottolineato almeno due volte in ogni capitolo.»
Ti eri voltata.
Un uomo era fermo sulla soglia della stanzetta angusta. Era più
alto di te. Le vesti scialbe gli ondeggiavano attorno a un corpo la cui
magrezza sfiorava l’inedia. Stava giocherellando con un paio di oc-
chiali e ti aveva rivolto uno sguardo nudo – gli occhi erano di un su-
blime grigio pellucido: la morbidezza del carbone bruciato fin quasi
a sbiancarsi, con la limpidezza vetrosa del quarzo.
Aveva proseguito: «Ci sono alcuni pretendenti che si contendono
i suoi favori, anche se Abella è una tale scassapalle che non ho idea
del perché. C’è una spadaccina decaduta a cui mi sono abbastanza
affezionato, ma la narrazione non la apprezza perché va tutte le sere
a delle feste scollacciate, che per quanto mi riguarda sono un hobby
piuttosto indegno di biasimo… e poi Abella incontra questa vedova di
una tediosità folle che arriva dai sobborghi di Tisis, quel santo di suo
marito ha inghiottito una granata in guerra. Dopo due mastodontici
fraintendimenti, si mettono insieme e, a quel punto, c’è un salto tem-
porale e approdiamo al loro adorabile bebè, che parla con una zep-
pola foneticamente impossibile ed è già capace di plasmare un rene.
L’intera faccenda è di uno squallore indescrivibile». Si era risistemato
gli occhiali sul naso adunco. «Da quanto tempo, Reverenda Figlia.»

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E poi aveva fatto una cosa assolutamente tremenda. Si era avvici-


nato e ti aveva abbracciata forte – la stretta di un uomo che sta af-
fogando in acque profondissime e non può fare a meno di trascina-
re sul fondo con sé il suo salvatore. Ti aveva piantato le dita addosso
in una maniera che ti era poco familiare: saldamente, per vanifica-
re la possibilità che la persona che aveva di fronte potesse essere una
nuvola, o un miraggio. Ti aveva sollevata da terra con quel suo entu-
siasmo impetuoso e troppo confidenziale, e poi ti aveva rimessa giù,
guardandoti in faccia.
«Con permesso» avevi esclamato, con sgocciolante asprezza.
«Oh. Perdonami» aveva detto Palamedes Sextus. «Ho frainteso il
momento. È colpa della cattività. Nonagesimus, Camilla è…»
«Mi ha mandato lei» gli avevi detto, strizzandoti l’orlo bagnato. «È
viva e in buona salute.»
Aveva sospirato, sollevato.
«Oh, grazie a Dio» aveva detto, un po’ scosso. «Ringrazio Dio per
quella ragazza pazza, testarda e adorabile. A proposito... Harrowhark,
sei un balsamo per questi occhi esausti.»
Ti eri freneticamente tastata l’esoscheletro con le mani, ma sapevi
anche, mentre le tue dita aderivano a quella rappresentazione d’os-
so, che non c’era niente da fare. Là non c’erano lettere; non potevano
essere trasferite se non ne conoscevi il contenuto – e, in ogni caso,
non c’era mai stata una lettera destinata a Sextus. La Harrow prece-
dente non si era presa la briga di pensarci. Sapevi benissimo che ave-
va visto Hect e Sextus morti; perché prevedere la ricomparsa di una
ma non dell’altro? Quello era un mistero a cui non trovavi soluzio-
ne; eri completamente abbandonata a te stessa nell’assurdo miraco-
lo che era quella stanzetta.
E invece gli avevi detto: «Una proiezione. Una proiezione nel Fiume?».
«Direi che è sulla riva, anche se nemmeno quello è accuratissimo»
aveva commentato prontamente. «Non sono riuscito ad ancorarmi
al mio corpo come si deve quando sono stato sul punto di scindermi
nelle mie componenti fondamentali. Quindi ho costituito una specie
di bolla attaccata alla riva del Fiume e mi sono ancorato a quella a li-
vello cellulare – non con una corda molto spessa, ma con un sacco
di piccoli fili. Come una ragnatela, immagino. A patto che qualcuno
riuscisse a trovare anche solo un frammento di me, per quanto mi-

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nuscolo e molliccio, ci sarebbero comunque stati almeno un paio di


filamenti ancora attaccati a esso, con me all’altra estremità. O, per-
lomeno, la speranza era quella. Non potevo verificarlo sperimental-
mente, chiaro.»
Gli avevi detto: «Sono stata nel Fiume, Sextus, più di una volta,
sia spiritualmente che corporalmente. Lì dentro non si può costrui-
re una bolla».
«Okay, termine sbagliato, magari, però…»
«Nel Fiume non si può costruire! È una dimensione in flusso per-
petuo – qua lo spazio definito è un’assurdità –, è come provare a con-
finare il tempo con calce e mattoni.»
«Sì. All’incirca. Ma con la nostra stessa presenza nel Fiume, eser-
citiamo brevemente sia lo spazio che il non-spazio. L’acqua non può
trovarsi dove c’è l’aria. È come se l’aria istituisse temporaneamen-
te le sue regole in un’area localizzata. Se tu ti trovassi dentro una di
queste bolle, potresti compiere azioni nel rispetto delle regole dell’a-
ria – come parlare o accendere un fuoco – e che l’acqua non consen-
te. Come l’acqua respinge l’aria, il Fiume respinge istintivamente ciò
che si trova all’infuori di esso – non vuole nessun qua nel suo aldilà.
Quindi puoi imporgli le tue regole, per quanto in modo molto limita-
to… potrei scrivere almeno sei ottimi saggi su quest’argomento, Har-
row. C’è così tanto lavoro da fare.»
Avevi scandagliato rapidamente la stanza, ancora una volta, ed eri
rimasta colpita dall’insistente sensazione di familiarità che ti trasmet-
teva. Avresti dovuto riconoscerla. E la riconoscevi. «Questa è la Casa
di Canaan» gli avevi detto.
«Nel momento della mia morte» aveva confermato. «Le regole
sono limitate, come ti accennavo. Posso restare aggrappato alla con-
sapevolezza di me stesso, qua dentro, ma non alla mia necromanzia.
Non posso fare nulla. Tutto quello che ho è un fermo immagine della
stanza e, chissà per quale ragione, un solo romanzo rosa, che ho let-
to da cima a fondo almeno cinquanta volte. Grazie a Dio avevo una
matita in tasca; mi accingo a stendere un sequel su una porzione di
carta da parati.»
«Quanto siete riuscito a conservare?»
«Guarda fuori in corridoio» ti aveva suggerito.
Con cautela, ti eri avventurata oltre la soglia. Quella che avevi

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scambiato per un’uscita constava unicamente di una visuale dalla


porta, con un po’ di margine di manovra dato dalla visione periferi-
ca. Si estendeva di qualche spanna circa in tutte le direzioni, per poi
lasciare spazio a un immenso vuoto bianco: quando ti ci eri avvici-
nata e l’avevi spinto («Adagio» ti aveva ammonita Palamedes), avevi
scoperto che il bianco era solido, nonostante avesse un qualcosa di
vagamente gelatinoso e appiccicaticcio. Era un candore abissale. Era
un’assenza, che si era fatta tangibile.
Quando eri rientrata nella stanza e avevi appoggiato un ginocchio
sul letto per sbirciare fuori dalla finestra, la situazione non era cam-
biata. La visuale includeva sempre quel terrazzamento morto, un tan-
tino di mare e la pietra: allungando il collo per guardare di qua e di
là, ti si era rivelato quel medesimo biancore enorme e tremendo. La
finestra era bloccata e non si apriva.
Avevi commentato: «La barriera comincia dove il vostro campo vi-
sivo si è interrotto. È una derivazione di tutto quello che avete visto».
Lui aveva risposto: «E non cambia… il mare è fermo. Sembra che
si muova, ma non è così – è come una di quelle immagini olografi-
che, quelle che se le orienti in su o in giù ti mostrano un altro pez-
zo del disegno. Qua non c’è niente, e quel niente non cambia mai».
Ti eri seduta sul letto straripante di cuscini e avevi sollevato lo
sguardo verso il suo viso lungo e serio; cercavi di ricordare se l’avessi
mai visto, prima che fosse sommariamente spazzato via da una fuci-
lata. Ti stavi davvero sforzando. Avevi chiuso gli occhi, ma cauteriz-
zato sulle tue palpebre non c’era nulla, a parte un certo rossore. Gli
avevi detto: «Una mente umana non può vivere in questo modo, Sex-
tus. Restare bloccati in un luogo è la rovina di ogni redivivo, a meno
che non possieda un’ancora molto specifica. Ma prima o poi la pre-
sa si allenterà – la lascerà andare – farà ritorno al Fiume. Non pos-
so immaginare che genere di mente possa restare aggrappata a quel
confine, continuando a tenere duro».
«Io ci riesco, e mi spaventa» ti aveva detto, grave. «Senti. Da quan-
to tempo sono morto, Nonagesimus?»
«Otto mesi» gli avevi risposto, «suppergiù.»
Si era tolto le lenti spesse e ti aveva squadrata con un grigio orro-
re adamantino. Di faccia era bruttarello; sembrava un po’ un becco,
un mento e una mandibola accostati per scherzo – ma la bellezza di

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quegli occhi rendeva attraente tutto l’insieme, come se fossero una


muffa che colonizzava il resto della superficie.
Rantolò: «Otto mesi?».
«Non ho tenuto il conto con precisione, ma…»
«Cosa? Ma perché ci hai messo così tanto? Dovevi impiegarci al
massimo una settimana.»
«Vogliate perdonare la mia reattività apparentemente lumachesca»
avevi ribattuto, sentendoti ingiustamente accusata, «ma la vostra pa-
ladina mi ha portato le vostre ossa solo ora, e a proposito di quello ho
più di una domanda da porle…»
Le sopracciglia gli si stavano incrociando come spade. «Cos’è che
ha separato te e Cam, all’inizio?»
«Non ero al corrente di dover ottemperare a un debito di…»
«Voglio dire, lei non si sarebbe mai allontanata dal tuo fianco, se
solo le avessi concesso anche solo una mezza possibilità…»
Avevi perso la pazienza. Era difficile stabilire se ne avessi mai avu-
ta; avevi giusto sbirciato oltre l’orlo del baratro, per curiosità.
«Guardiano della Sesta Casa» gli avevi ingiunto, «perché vi com-
portate come se ci conoscessimo? Io sono Harrowhark la Prima, in
precedenza – e in eterno, per devozione – la Reverenda Figlia del
Drearburh: sono la nona santa al servizio del Re Imperituro, una fra
i suoi pugni e gesti. Non vi ho conosciuto in questa vita, e non vi co-
noscerò nella successiva.»
Si era paralizzato.
«Sei diventata Littrice» aveva detto.
«Il piano è sempre stato quello.»
«Non per la Harrowhark che conoscevo io. Dimmi che l’hai fatto
nella maniera corretta» le aveva chiesto, e nella sua voce c’era un’im-
pazienza, una concitata curiosità, qualcosa che ribolliva sotto alla
confusione. «Dimmi che hai completato il lavoro. Tu, fra tutti, sei
quella che avrebbe potuto mettere a punto la fase conclusiva, a par-
tire dal punto di inizio che avevo cominciato a decifrare. La tua pa-
ladina, Reverenda Figlia…»
«È diventata la fornace del mio Littorato» avevi detto tu.
Il Guardiano morto si era fermato. Ti guardava in faccia come se
con gli occhi potesse penetrarti il derma, la fascia e l’osso. E poi ave-
va commentato, mesto: «Dio prende… prende… e prende».

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Sopra di voi si udì un rombo immane. Era il rumore di un gran-


de meccanismo che si innesca, muovendosi su giunti non lubrifica-
ti, la turbolenza di un congegno che prende vita sferragliando. E poi
ne arrivò un altro, più lontano, e una luce brillante alla finestra che ti
fece venire in mente l’Imperatore. Il tuono, e una scarica di fulmini.
Gli occhi meravigliosi di Palamedes si sgranarono, e lui disse: «Non
è possibile» e si precipitò alla finestra.
L’avevi seguito. Un rovescio di pioggia si era infranto contro la fi-
nestra come un uccello. Dal vetro sporco – la luce immobile e sta-
tica all’esterno si era all’improvviso velata – avevi guardato di sotto.
Sul terrazzamento c’era una figura con una tuta arancione, fascia-
ta dalla testa ai piedi di scrocchianti materiali isolanti. Un dispositivo
respiratorio le copriva il volto. E, in una mano guantata, distinguibile
anche da quella distanza, l’avevi visto: un gigantesco fucile a doppia
canna. La sagoma vi fissava dalle lenti vuote del visore mentre il ven-
to si scatenava e i tuoni rombavano, ormai remotissimi.
Sextus stava dicendo: «Ma che diavolo…».
Con un tono che risultava estraneo anche a te, come se avessi sen-
tito quella parola solo nei sogni ma mai fosse stata articolata da una
lingua cosciente, avevi detto: «Il Dormiente».
Il Dormiente vi squadrò entrambi. Arrivò un’altra ondata improv-
visa di pioggia oscurante, e sparì. Tu e il necromante della Sesta Casa
vi eravate mossi come una persona sola: vi eravate appoggiati alla por-
ta della stanza, spalla a spalla, fino a chiuderla ermeticamente, facen-
do scattare il chiavistello, per quanto rudimentale. La tenevate chiu-
sa con tutto il vostro peso. E non si trattava di una massa notevole. Ti
aveva detto, concitato: «Nona, questo posto è alimentato da un singo-
lo teorema, tenuto insieme dalla fragilità della magia spirituale. Non
posso manipolarlo. Non posso modificare nessun elemento, non la
stanza, non i cuscini e nemmeno quel libro incredibilmente merdo-
so. Io non posso cambiare una virgola di questo spazio… ma chiun-
que venga da me può alterarne i parametri, e tu hai portato con te
qualcosa che li sta alterando. Vai».
Entrambi vi eravate paralizzati, sentendo un fruscio di passi fuori
dalla porta, il sibilo basso e asmatico dell’apparato respiratorio. Ave-
vate fatto pressione con ancora più veemenza contro la porta con i vo-
stri patetici corpi da necromanti. Gli avevi detto: «Non siate sciocco».

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«Vai. E vai via subito, Nonagesimus.»


«Non vi lascerò qua da solo con qualcosa che ho prodotto io, Ma-
stro Guardiano!»
«Somigli già di più alla vecchia Harrowhark – ma dico sul serio, vat-
tene da qui! Scommetto che se ne andrà insieme a te. Io me la caverò.
Dimmi solo una cosa, che cos’è che Cam ha raccolto, delle mie ossa?»
«Cinque centimetri di parietale destro, area zigomatica destra com-
pleta, estensione inferiore del…»
«È sufficiente. Tanto per sapere su cosa concentrarmi. Puoi pla-
smarlo in qualcosa di più utile?»
Gli avevi risposto, artica: «Io sono una Littrice, Palamedes Sextus».
«E me ne dispiaccio molto» ti aveva risposto. «Ma ho afferrato il
concetto. Qualsiasi cosa che sia in grado di articolare, va bene?»
«Ma…»
L’impatto contro la porta ti fece tremare fino alla punta dei pie-
di. Non potevi contare sulla tua magia in quella bolla nel Fiume; era
come il vuoto dello spazio, prima che avessi costruito quella fornace
dentro di te. La tua necromanzia era inerte e morta come la stanza
stessa. La tremenda paura che ti assalì fu una sorpresa. C’eri solo tu,
e c’era solo la sagoma del tuo corpo tratteggiata dalla tua mente, in-
sieme al fantasma di un uomo morto e a quella cosa che ti aveva se-
guita fin là dentro.
La porta reggeva ancora, ma entrambi lottavate per tenerla chiu-
sa. Il colpo successivo aveva fatto gemere i cardini agonizzanti. Pala-
medes si era voltato a guardarti e aveva spalancato la bocca per dire
qualcosa mentre una terza bordata vi aveva spostati entrambi un po’
indietro; vi eravate dati una zuccata e avevate sentito il determinato
raschiare metallico di un grilletto che veniva tirato.
Sextus ti guardava, massaggiandosi una tempia, sbalordito, come
se avesse colto chissà quale stupefacente frammento di infinito; non
avevi afferrato nemmeno lontanamente il sorriso affilato e fugace che
gli aveva illuminato il viso.
«Ammazzateci due volte e la colpa sarà di Dio» aveva detto, spor-
gendosi in avanti per stamparti un rapido bacio sulla fronte – che ave-
vi accolto con intensissimo disagio. Poi ti aveva ordinato: «Harrow­
hark, per l’amor del cielo, vai!».
Eri tornata a immergerti, e non avevi sentito il colpo di fucile; non

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per la prima volta, ti sentivi sopraffatta dal sospetto di trovarti in


mezzo a quello che credevi essere un paesaggio, scoprendo però, al-
lungando una mano, che si trattava solo di una gran quantità di carta
velina. Non eri l’ingranaggio centrale di un mistero, ma una passante
che osservava il trucco di un ciarlatano. Avevi seguito con gli occhi
una luce brillante o un colore, e ti eri accorta di soprassalto che quel-
la che stavi guardando era probabilmente la tua altra mano. Eri ferma
in un corridoio buio e non potevi girarti: e poi una breve esplosione
di luce ti aveva rivelato che non si trattava affatto di un corridoio, e
che non era mai stato buio.
Ma sei sempre stata troppo impaziente per fermarti a commise-
rare la tua ignoranza. Non avresti mai potuto immaginare che quel-
lo che aveva visto ero io.

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Quando ti eri tirata su a sedere, faticando a ri-
prendere fiato – anche se respirare non ti serviva –, inzuppata solo
del sudore che scorreva sotto le ossa dormienti del tuo esoscheletro,
non avevi visto la volta frondosa sopra alla tua testa, ma una porzione
bianca di tela velata. Eri stata spostata. Non eri nella posizione fles-
sa che ti avevano insegnato ad assumere, ma coricata, piatta. Avevi
la spada infilata sotto al braccio ed eri stata rovesciata su una coper-
ta sottile che ti permetteva comunque di percepire ogni filo d’erba
e ogni avvallamento irregolare del terriccio sottostante, di sentire il
sole pulsante sopra di te e il richiamo acuto delle creature circostanti.
Camilla Hect sedeva accanto a te e non aveva battuto ciglio quan-
do ti eri tirata su all’improvviso. Vi trovavate in una radura più am-
pia, con una gigantesca massa di frasche spezzate attorno. Alcune
erano state compattate in maniera produttiva per sostenere la tenda
sotto la quale eri stata coricata; dietro alla tenda si inarcava la pos-
sente pancia di una navetta.
La tua mente si concentrò stupidamente sulla forma e sulla foggia
bizzarra: non era una nave della Coorte, e nemmeno una navetta di
una qualsiasi fra le Nove Case, e non soltanto perché non c’era nean-
che un osso a fungere da decorazione. Era fatta di un acciaio di una
brillantezza estrema, con la schermatura calorifica che lo faceva sfri-
golare e una specie di radiosità tremolante che stazionava nei pressi
della superficie dello scafo. Era anche diffusamente ammaccata e ri-
gata: fosse stato per te, non l’avresti fatta sollevare a più di dieci metri
da terra, figuriamoci verso l’atmosfera o le profondità nere dello spa-
zio. Era piccola, non più di tre corpi di larghezza e tre di altezza e il

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pensiero che qualcuno ti ci cacciasse dentro a forza ti raggelava. Ma il


tuo disgusto e le tue paranoie erano state bloccate a mezz’aria da Ca-
milla, che con un’impazienza malcelata ti aveva chiesto: «E allora?».
Le avevi detto: «È lì dentro».
La paladina della Sesta Casa ti aveva lanciato un’occhiata; poi si
era lasciata cadere sulla schiena con un lungo movimento controlla-
to. Era rimasta a pancia in su a fissare il cielo con lo sguardo perso,
mezza adombrata dal telone, mezza rischiarata dalla luce. Alla fine
le era sfuggito un lungo sospiro tremulo e si era tirata di nuovo su a
sedere con la medesima tempestività.
«Bene» aveva commentato, con un sorriso fulmineo che le aveva
illuminato gli angoli del viso come una cometa nascente. Con quel
sorriso aveva assunto, in realtà, una somiglianza quasi ridicola con il
suo adepto. «E ora?»
Avevi soppesato tra le mani i frammenti del cranio, assemblati con
così tanta perizia, sperando che quell’“è lì dentro” non fosse diventa-
to un “era”. Poi avevi sbriciolato l’osso con le dita – la paladina, lì ac-
canto, si era lanciata istintivamente verso di te, ma poi si era ferma-
ta – e avevi triturato i frammenti tra i palmi finché non eri riuscita
a separare la colla che, grazie a Dio, era di derivazione chimica. Sa-
rebbe stato altrettanto probabile trovarsi di fronte a un derivato del-
la cheratina, il che avrebbe provocato una momentanea confusione e
un certo fastidio. La colla era spugnosa, come una collezione nodosa
di cisti gommose. L’avevi separata dal resto, rimanendo con una cre-
ta thalergicamente ricca. Avevi esaminato quel materiale malleabile
per un istante prima di tesserlo fra le mani.
Delle falangi emersero dall’agglomerato; poi una fila di distali, poi
una fila contigua di ossa carpali e una porzione articolabile di polso.
Non ti stava trasmettendo il piacere istintivo e purissimo del brac-
cio di Ianthe, ma era semplice ed era gratificante. Avevi detto: «Pos-
so tranquillamente darti una struttura scheletrica completa».
«No» aveva detto Camilla, alla svelta. Dopo una pausa, aveva ag-
giunto: «Mi causerebbe non pochi guai».
«Il Guardiano ha richiesto espressamente di potersi muovere.»
«Non intendo con lui» aveva detto la sua paladina.
Le avevi lanciato le ossa della mano e lei, di riflesso, le aveva pre-
se al volo. Avevi afferrato la tua spada e ti eri alzata in piedi e, prima

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che potesse impedirtelo, avevi circumnavigato quella stramba navetta.


C’era una specie di portello per il carico merci, o che poteva fungere
da ingresso, con la porta sorretta da un martinetto in modo che l’a-
ria fresca potesse circolare all’interno del velivolo. Ti eri fermata da-
vanti a quel portello spalancato, nella luce accecante del sole, sull’erba
schiacciata, e avevi guardato dentro. Tutte e tre le occupanti avevano
ricambiato il tuo sguardo.
La prima era la Capitana Deuteros, una donna il cui cadavere ri-
composto avevi visto crivellato di proiettili. Stava seduta e non in-
dossava il suo completo bianco della Coorte, ma un camicione lun-
go e scialbo di un colore indeterminato e un paio di pantaloni scuri.
Sembrava che dell’impeccabile adepta che avevi incontrato alla Casa
di Canaan restasse solo l’involucro, che risultava addirittura più fiac-
co del suo cadavere. Aveva perso parecchio peso sulla corporatura già
esile da necromante, le guance erano incavi scuri, e in grembo regge-
va un paio di stampelle.
Un’altra donna sedeva vicino a lei, con addosso una camiciona sgual-
cita di un’altra tinta indefinibile, ma che pareva fosse stata disegnata per
il suo regale utilizzo: era una donna che, l’ultima volta, avevi visto pre-
cipitare serenamente verso la morte. I lineamenti di Ianthe Tridenta-
rius si affacciavano sul viso di Coronabeth – un viso aurorale, con una
pelle polposa e lucente e la chioma fulva, gli occhi di un violetto puris-
simo, come prugne. Entrambe le donne si erano accomodate all’estre-
mità della navetta scarsamente ammobiliata, in mezzo a motori grosso-
lani disposti in un’accozzaglia che puzzava di lubrificante dietro a una
griglietta di metallo. In ogni angolo c’era una pila incasinata di casse.
La Principessa Ereditaria di Ida, però, dispersa e data per morta, riem-
piva quello spazio come una massa di fiori su un tumulo. Era in for-
ma perfetta e smagliante, tanto vigorosa quanto Deuteros era fragile.
Il terzo occupante che da lì dentro ti fissava non era una persona.
Era un gigantesco poster di velina in una cornice scheggiata, l’unico
accenno decorativo in quella navettina sciatta. Una fotografia a mezzo
busto di una persona ostinata e seriosa, con tutta evidenza una don-
na, che ti squadrava con la fissità di chi sta calcolando quanta fatica
dovrà fare per spezzarti il collo. Era vestita di nero fino al mento e i
capelli rossi le ricadevano arricciandosi sul collo e sulle spalle. Un fiu-
me di sangue denso e urticante cominciò a colarti dalle cavità sinusali.

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Quel ritratto ti aveva atterrita di più di qualsiasi altra cosa in cui ti


fossi imbattuta da quando eri diventata Littrice; ti faceva pisciare ad-
dosso dalla paura, fino all’ultima goccia titubante. Eppure, non avevi
mai visto quella faccia in vita tua.
La capitana della Seconda Casa fece, un po’ roca: «Nona?».
Ti eri pulita la faccia prima che le tue mani si precipitassero di nuo-
vo a percorrere l’esoscheletro. Avevi estratto senza fatica una delle
ventidue lettere, e avevi aperto quella che recitava: DA APRIRE SE IN-
CONTRI JUDITH DEUTEROS.
L’avevi decifrata senza nemmeno doverci pensare:

ALL’INDIRIZZO DI SUA SIGNORIA HARROWHARK


NONAGESIMUS, CONOSCIUTA PER SUO STES-
SO VOLERE COME LA REVERENDA FIGLIA, ORA
HARROWHARK LA PRIMA, DALLA MEDESIMA,
ORA DEFUNTA.

LETTERA #12 DI 24.


Se incontri Judith Deuteros, zittiscila. Uccidila, se
necessario.

Le ossa della mandibola di Deuteros si saldarono, chiudendosi; le


avevi incollato i molari inferiori ai molari superiori all’istante, appic-
cicandole la lingua al palato. Ti aveva detto: «Nnngh?».
Per precauzione, avevi ripescato una seconda lettera, anche se era
scritta in un alfabeto normale e l’avevi già letta:

ALL’INDIRIZZO DI SUA SIGNORIA HARROWHARK


NONAGESIMUS, CONOSCIUTA PER SUO STES-
SO VOLERE COME LA REVERENDA FIGLIA, ORA
HARROWHARK LA PRIMA, DALLA MEDESIMA,
ORA DEFUNTA.

LETTERA #5 DI 24.
Proteggi a ogni costo Coronabeth Tridentarius, anche a
costo di mettere a repentaglio la tua stessa vita. Il lavo-
ro sarà invalidato se contribuirai direttamente o indiret-

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tamente alla sua morte. Nell’interesse del lavoro, hai fa-


coltà di silenziarla, a patto di non arrecarle un dolore
significativo.

E in una calligrafia diversa:

P. S. O di arrecarle un dolore qualsiasi.


Nella tua:

P. P. S. Non posso garantire una completa assenza di dolore.

In quella della prima rettifica:

P. P. P. S. In realtà dev’esserci proprio una completa assen-


za di dolore.
Di nuovo nella tua:

P. P. P. P. S. Abbiamo congiuntamente propeso per «la minor


quantità possibile di dolore intrinseca all’impiego di una piena
azione necromantica».

E nella prima:

P. P. P. P. P. S. xoxoxoxo
Coronabeth Tridentarius era già balzata in piedi, sfoderando uno
stocco che conoscevi molto bene e la cui vista ti gelò nel profondo.
Era uno stocco della Nona Casa. La lama era di metallo nero, con
una guardia semplice e un’impugnatura del medesimo colore. Si pa-
rava davanti all’involucro muto a cui era ora ridotta Deuteros, pronta
all’azione con lo stocco in pugno e il braccio sinistro ripiegato dietro
la schiena. Somigliava così tanto a Ianthe da suscitarti uno stupore
alternativo; ma le avevi già fatto la stessa cosa – la lingua incollata al
palato, i denti ai denti – e tutto quello che riuscì a esclamare fu, dun-
que: «Nnngh!».

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Avevi sguainato lo spadone.


«Basta.» La paladina della Sesta si era unita a quel quadretto mer-
doso; aveva socchiuso le palpebre alla luce del sole, riducendole a fes-
sure. «Le ho già avvertite.»
«Lo faccio rispondendo a un’autorità superiore alla tua.»
«Palle» aveva risposto Hect, sintetica. «Liberale.» E poi: «Ma per-
ché quella spada è tutta ingommata, e chi ti ha insegnato a brandir-
la così?».
«Mi rifiuto di… Cioè?»
«Tieni le mani troppo vicine. Metti la mano sinistra in fondo, sul
pomolo, piega il braccio vicino al torace. Mano destra in alto sull’el-
sa, vicino alla guardia a croce, un po’ più su col pollice – ecco – così
è meglio.» Avevi eseguito, e lei aveva commentato: «Bene… non che
tu abbia i muscoli per un fendente ascendente, comunque. Okay. Ora
lascia andare Coronabeth e Judith».
Aggiustando la presa, trovavi assai meno difficoltoso reggere la
spada con la punta più in basso rispetto a prima. Avevi domandato:
«Perché siete qui? Perché siete tutte vive? Perché siete all’altro capo
dell’universo – con la vostra navetta –, a innumerevoli anni luce di
distanza dalle Nove Case? Perché i vostri corpi non sono stati ritro-
vati alla Casa di Canaan?».
Con la bocca ridotta a una raccapricciante distorsione cementa-
ta, Deuteros si era alzata in piedi con una stampella infilata precaria-
mente sotto al braccio, e si stava trascinando verso di te con una por-
tamento talmente marziale da contraddire in pieno la sua debolezza
fisica. Era ancora una capitana della Coorte, quella che ti si stava av-
vicinando in silenzio, gli occhi scuri, freddi e determinati; tu conti-
nuavi a reggere saldamente la tua spada foderata d’osso, anche se in
nessun caso l’avresti utilizzata per “ucciderla, se necessario”. La ca-
pitana scansò una Coronabeth palesemente riluttante – i loro sguar-
di si incrociarono e Judith scosse il capo per comunicarle un infini-
tesimale “no” – e si fermò a circa un passo di distanza davanti a te.
Poi ti afferrò per il manto madreperlaceo. Tu non avevi battuto ci-
glio. Ti aveva detto: «Nnngh – mmmf – nghaaagh» come se con la
pura forza della disperazione si potessero produrre suoni coerenti
con la bocca saldata. Camilla si precipitò al suo fianco sinistro e Co-
rona al destro, ma lei le scacciò agitando la stampella. La sua pre-

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sa era sorprendentemente forte e, mentre esclamava: «Nnnghhh!» le


avevi scollato labbra, lingua e denti. La curiosità ti ha sempre causa-
to un sacco di guai.
«Ngghyaaar… mettilo in guardia, Littrice! È stato infiltrato, male-
dizione, e io non posso fare niente! Sono una prigioniera di guerra!
Se lo ami, di’ all’Imperatore che il traditore ha già… Nghhhyugh…»
Quell’ultimo nghhhyugh non aveva nulla a che fare con te. Coro-
nabeth, impassibile, aveva tappato con la mano la bocca della capi-
tana della Seconda Casa e l’aveva trascinata via di peso, cosa assai
semplice da fare a una della Seconda per una con la statura della
Terza. Lo sguardo della gemella di Ianthe era di pietra, e l’espres-
sione che lei e la capitana si scambiarono trasmetteva antagoni-
smo, a dir poco. Judith era stata ignominiosamente reimpacchet-
tata entro i confini della navetta – Coronabeth aveva azionato una
leva col piede per chiuderla dentro –, il grosso portello ombroso
aveva cominciato a scendere con un cigolio, e tu eri rimasta a os-
servare l’oscurità che si riprendeva lei e la sua furibonda dignità da
soldatessa declassata, sotto allo sguardo gelido di quel ritratto fin
troppo familiare. Judith ti stava dicendo qualcosa a gesti, ma non
sapevi decifrare il linguaggio dei segni della Coorte. Non avevi mai
dato peso all’esercito.
Camilla stava raccogliendo la stampella. Aveva detto, nervosa: «Sen-
ti, dobbiamo andare. Non dovremmo nemmeno essere qui».
Avevi ribattuto: «Sei una povera stolta se pensi che vi lascerò an-
dar via come se…».
«Invoco la roccia che mai viene smossa» aveva detto all’istante. Im-
parava in fretta. «Lasciaci andare. Non dire a nessuno che siamo state
qui. Non fare altre domande. Non siamo più dalla stessa parte, Nona.
Io sono in debito con te. Ti devo tutto. Ma… le cose sono cambiate.»
Ora toccava a te ritrovarti con la lingua appiccicata al palato. Quel-
la che un tempo era stata la paladina della Sesta Casa ti squadrava,
impassibile. Aveva aggiunto: «Mi dispiace, se può aiutare».
Avevi ribattuto: «Non aiuta».
«Ci sta.»
«Lasciami chiedere una cosa» avevi detto tu. «Una domanda sola
– solo una – in nome di quanto ho appena fatto per te e per il Ma-
stro Guardiano della Sesta Casa.»

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Camilla ti aveva guardata, con distacco, e alla fine aveva detto:


«Chiedi. Ma non ti prometto di poter rispondere».
Le avevi chiesto: «Chi ti ha portata via dalla Casa di Canaan? Con
chi state, Hect?». «Voi li chiamate Sangue dell’Eden» aveva risposto.

* * *

Quella sera, Mercymorn era tornata a recuperarti sulla superficie di


un pianeta che avevi ucciso, senza che quell’assassinio ti avesse toc-
cato più di tanto. Anzi, non avevi sentito quasi nulla e avevi parlato
molto poco, il che assecondava in maniera eccellente le necessità della
tua insegnante, visto che nemmeno lei aveva niente da dirti, a parte:
«Puzzi di terra». Aveva preso i comandi e ti aveva riportata in silen-
zio al Mithraeum. Eri rimasta a guardare dall’oblò il pianeta sempre
più lontano – non pareva diverso, a parte forse le acque profonde che
circondavano l’equatore. Le gelide banchine giustapposte di ghiaccio
sembravano più frammentate e torbide di prima. Era perfettamen-
te defunto, con la sua saltellante popolazione di animali, ignari del-
la loro condanna a morte a lungo termine. I vermi brulicavano nella
fossa miserabile e fetida che eri tu.

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«Mi dispiace, Nona» disse Abigail nel medesi-
mo tono cauto e gentilmente esitante che si userebbe per spiegare
a qualcuno che il suo gatto, una volta cresciuto, non diventerà una
tigre. «Non sono per niente ferrata nella psicometria, e trattandosi
di uno stocco così vecchio avremmo bisogno sia di uno specialista
della Sesta Casa che di una gran botta di fortuna. Era di tua nonna
e risale a nove generazioni fa, dicevi? Ed è stato brandito, per quan-
to brevemente?»
«Quella» proferì la voce sommessa e funerea del paladino di Harrow­
hark, resa ancor più sommessa e funerea dal filtro creato dallo sciar-
pone, «era la natura della magnanima concessione.»
«E la lama è stata sostituita?»
«L’elsa è originale, a eccezione del rivestimento.» Pausa. «E di al-
cune porzioni del cesto.»
«Giusto. Non c’è la possibilità che ci sia finito sopra… del sangue?»
«È stata brandita. Raccontava storie sugli elogi ricevuti per il bi-
lanciamento della spada. Sarà stata toccata per, magari, venti o tren-
ta secondi.»
«Con i guanti.»
«È costume.»
«Ortus» gli disse. «Non sono preparata per un compito simile.
Credo che le nostre possibilità siano molto ridotte. Credo che equi-
valgano alla possibilità che Magnus inciampi per caso nell’ingresso
delle sale perdute del tesoro del Re Imperituro. Anzi, quello è deci-
samente meno improbabile, visto che sono arrivata alla conclusione
che si collochino lateralmente rispetto al complesso architettonico

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invece che… ma lasciamo perdere. Mi rincresce moltissimo… Reve-


renda Figlia, sei tu?»
Non era probabile che si trattasse di qualcun altro, lì fermo sulla
soglia e assai riluttante a entrare per ascoltare il resto della conversa-
zione. Harrowhark si era fermata lì in profondo silenzio, senza nean-
che far frusciare un lembo della veste, ma la necromante della Quinta
Casa aveva dimostrato un fiuto straordinariamente acuto per gli ori-
gliatori. «Siamo abituati a Jeanne e Isaac, sai?» commentò lei, come
se quella potesse rappresentare un’argomentazione che non necessi-
tasse di ulteriori spiegazioni.
Non c’era speranza di scomparire ritirandosi in corridoio, o di tro-
vare rifugio rispondendo audacemente: «No». La Reverenda Figlia
fece il suo ingresso nella biblioteca congelata come se fosse stata no-
tata proprio mentre era sul punto di entrare. Trovò la Quinta e la sua
controfigura di spadaccino in piedi accanto a una pila di vecchie map-
pe croccanti. Teneva la sua spada esile e rugginosa cortesemente in
equilibro sui palmi di fronte all’adepta dallo sguardo sereno. Lei sta-
va strofinando una specie di pasta trasparente sull’estremità nodosa.
Ortus, ammantato di nero, con gli occhi infossati e le pitture più de-
primenti che mai, aveva preso l’abitudine di indossare sempre le sue
bisacce nere di tela. Il cappuccio era stato scostato con spavalderia
dalla testa rasata di fresco – ci voleva un senso del dovere che scon-
finava nel martirio per rasarsi in quelle condizioni – e sembrava uno
che era stato sorpreso a scartare i regali di compleanno con un gior-
no d’anticipo. Il respiro si propagava dalla sciarpa nera che gli avvol-
geva il viso e il naso come una foschia pallida.
La nebbia sanguinolenta si era trasformata in nevischio; il nevi-
schio si era, a tempo debito, trasformato in ghiaccio. Una neve sof-
fice aveva preso a cadere come cenere vulcanica circa una settimana
dopo la prima tempesta di grandine. Mucchi di neve si addossavano
alle fessure nelle finestre e fiocchi fuggiaschi finivano in faccia a tut-
ti nei corridoi e nei passaggi più esposti della Casa di Canaan. Ca-
pitava che cadesse neve rossa, e il ghiaccio che si infilava nelle cre-
pe dei rivestimenti di pietra e nell’acciaio delle terrazze d’attracco
era di un carminio scuro e inquietante. I vegetali erano morti e loro
erano passati al cibo conservato. I costrutti con le fusciacche iride-
scenti avevano continuato a pescare nel mare salato ancora in mo-

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vimento, ma Maestro aveva dato un’occhiata a quello che avevano


preso e si era rifiutato di farlo cucinare – o di permettere a chiun-
que altro di vederlo.
Ciononostante, la neve e il ghiaccio sanguinante si dimostraro-
no il minore dei cambiamenti che la Casa di Canaan avrebbe dovu-
to affrontare.
Ortus rinfoderò lo stocco con più cautela che sottigliezza, e do-
mandò: «Come procedono i preparativi, mia Signora?». Esattamen-
te nello stesso istante, Abigail disse: «Non dovresti proprio andare in
giro non accompagnata, Harrow».
«Quinn e Dyas sono rimasti con me fino alla fine del corridoio. Ab-
biamo installato tutte le barriere» disse lei. Harrow non si era distur-
bata con sciarpe o scaldacollo e, di tanto in tanto, se ne pentiva: ave-
va le labbra spaccate, e lo stesso valeva per le sue pitture. Per quanto
s’imborotalcasse prima, il suo teschio aveva l’aspetto di un affresco
scrostato. «Indipendentemente dalla loro efficacia, ci comunicheran-
no qualcosa… se il Dormiente le innescherà muovendosi, allora vor-
rà dire una cosa; se il Dormiente non le innescherà muovendosi, al-
lora ne vorrà dire un’altra.»
«Non avrete cercato di spostare il sarcofago…» disse il suo paladi-
no, nutrendo solo un’infinitesimale scintilla di speranza.
«Ma certo che sì» disse Harrow, e lui chiuse fugacemente gli occhi,
accartocciando il viso in una smorfia. «Niente. È del tutto inamovi-
bile. Dyas ha sollevato la pannellatura per vedere fino a che profon-
dità si estende – è piantato lì come un pilastro. Non nutrivo grandi
speranze sulla possibilità di prenderlo e buttarlo così com’era nell’o-
ceano, ma ammetto di esserne rimasta sconcertata.»
Lui le disse: «Padrona, avreste potuto svegliarlo».
«E l’evento ci avrebbe insegnato qualcos’altro ancora» commentò lei.
«Vorrei solo che non vi prendeste libertà così enormi con la vo-
stra vita.»
Harrowhark disse: «Preferiresti che mi prendessi delle libertà enor-
mi con la tua?». Non intendeva risultare spietata; le era addirittura
parso di aver usato un tono rassicurante. Ma a Ortus si gelarono gli
occhi scuri nelle orbite, come se quel freddo pungente avesse gher-
mito anch’essi, e le labbra gli s’incurvarono all’ingiù. Le rispose, do-
cile: «Quello è il mio scopo, sì».

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«Detesti il complesso. Ti fa venire i sudori. Mi hai implorato di non


portarti là sotto.»
«Sì» confermò lui.
«Allora cerca di non mugugnare quando le cose procedono in ot-
temperanza alle tue richieste» fece Harrow. A quel punto erano en-
trambi indispettiti: lei sapeva che lui era irritato perché una conversa-
zione non si era svolta come l’aveva fin troppo pianificata, e lei sapeva
di essere irritata perché ogni volta che cercava di tenere a freno la
sua lingua tagliente come un rasoio, lui riusciva comunque a coglier-
ne i lati più affilati. Niente di quel loro scambio si allontanava dalla
normalità per il Sepolcro Sigillato, ma sin dal suo arrivo alla Casa di
Canaan, Harrow aveva cominciato a trovare tutto quanto… “caren-
te”, in qualche modo. Non fece nulla per arrestare l’emorragia quan-
do domandò: «Siamo d’accordo? Ci siamo chiariti?».
«Completamente» fece il suo paladino, abbattuto.
Abigail aveva fatto finta di essere molto impegnata, come solo un’ap-
partenente alla Quinta Casa è in grado di fare. Harrowhark stava ap-
prendendo che un rampollo della Quinta Casa sarebbe capace di fin-
gersi garbatamente occupato anche durante un omicidio, o un’orgia.
Ora Abigail disse, svelta: «Sono felice che tu sia qui, Harrow. Volevo
discutere con te di quello che accadrà dopo».
Si sedette al tavolo e si buttò dietro la spalla quella cascata di capel-
li castani, lisci e spazzolati meticolosamente – Abigail Pent avrebbe
affrontato con eleganza anche un terremoto, un incendio o un’inon-
dazione – e Harrowhark disse: «Ti riferisci agli “organi”, immagino».
«Sì. Non sono il massimo» fece Pent.
La neve si era accumulata; il ghiaccio, in ammassi rosati e incrinati,
aveva formato un motivo di felci miniaturizzate dalla sfumatura cilie-
gia sul vetro antico. Sulla loro scia, grossi tuboli striscianti e possenti
si erano fatti strada tra le crepe delle assi sul pavimento, o penzolavano
srotolati tra i rampicanti surgelati. Le tubature erano di un rosa limpido
e vivace, con venature più rosse sotto allo strato traslucido più superfi-
ciale. A intervalli regolari, ci galleggiavano dentro dei coaguli neri, anda-
vano di qua e di là, come pesci spaventati. Quando qualcuno li tagliava,
vomitavano un getto d’acqua lurida e la ferita si richiudeva da sola. Il
freddo si era acuito al punto da far congelare in un blocco solido la so-
stanza, una sorta di nube marroncina con una superficie gelida e fosca.

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I tubi non erano omogenei: di tanto in tanto s’imborsavano, o re-


stavano drappeggiati come tendaggi plateali lungo una parete o ca-
scavano dal soffitto, celando nelle loro membrane dei globuli bian-
chicci e delle perle bubbose. Gli abitanti superstiti della Casa di
Canaan erano unanimemente concordi con quanto affermato da
Dulcie Septimus: «Sono abominevoli, veramente. Tra l’abominevo-
le e il merdoso».
Abigail squadrò Harrow, seria, con le mani infilate in un paio di
guanti di lana di suo marito, che le stavano grandi, e disse: «Reveren-
da Figlia, ci appelliamo a te».
A Harrowhark si erano già appellati altri, ma raramente aveva-
no mai avuto meno di settant’anni. Tenne le dita guantate nelle pie-
ghe delle vesti, flettendole di tanto in tanto, e aspettò. La storica del-
la Quinta proseguì: «La mia conoscenza necromantica è settoriale, le
mie applicazioni nella pratica… superficiali. Non ho mai nutrito al-
cuna ambizione in tal senso. Sono in grado di manovrare uno sche-
letro, ma non ne so creare uno. Posso manipolare tendini e muscoli,
o stendere la pelle su uno squarcio, ma se la cosa possa essere tra-
sformata in un’arma, mi piacerebbe molto sapere come. E per quan-
to concerne la Duchessa Septimus…».
Visto e considerato tutto, Dulcinea Septimus era un miracolo cli-
nico. Per sua stessa ammissione, i suoi polmoni erano palloncini
sgonfiati dalle infiammazioni provocate dall’ultimo giro di polmoni-
te con cui aveva battagliato prima del suo viaggio alla volta della Pri-
ma Casa; il freddo avrebbe già dovuto seppellirla sotto a quelle spes-
se coltri di neve color ciliegia. Ma all’apparenza non sembrava che
ci fosse niente che non andasse in lei, a parte uno sporadico colpo di
tosse. Harrowhark era sul punto di bollarla come ipocondriaca cro-
nica, ma Septimus era, in effetti, la prima a sostenerlo: «Ho sempre
detto che pensare di essere malati è, probabilmente, quello che ti ren-
de ancora più malato» aveva affermato una volta, in un afflato di spe-
ranza, mentre eludeva i tentativi del suo paladino di farle inghiottire
una cucchiaiata di sciroppo dall’odore diabolico.
Abigail disse: «Dovrebbe essere inabilitata. È meraviglioso che non
lo sia. Ma la sua magia corporale è destinata all’autosostegno – dice
che il Mastro Guardiano della Sesta Casa le ha fornito delle istruzio-
ni quando erano bambini, anche se solo il cielo sa quanti anni avrà

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HARROW LA NONA  /  345

avuto, credo nove – e ha trascurato gli altri studi. Tu, la luogotenen-


te e Protesilaus il Settimo costituite la nostra prima linea».
Harrowhark evitò deliberatamente di guardare il suo paladino per
constatare come avesse accolto quell’affermazione. Aveva edificato
una violenta avversione nei confronti dell’eroico cavaliere della Set-
tima Casa; a lei pareva carino che si fosse trovato un hobby. Disse:
«Se la temperatura scende ulteriormente, c’è il rischio che io possa
diventare meno utile. Sto sperimentando con il midollo riscaldato
– per fare in modo che non congeli –, un’arte che posso dire di aver
appena inventato, per quel che ne so, ma è di una difficoltà insidio-
sissima. Non lo ammetto alla leggera».
«Oh, maledizione!» disse la Quinta necromante, con dolcezza.
«Diamine, diamine! Io a quello non ci avevo nemmeno pensato. Vo-
glio dire… perbacco, è affascinante, dovrai spiegarmelo nel dettaglio,
prima o poi, ma… cavolo!»
Harrowhark si strofinò le mani guantate sulle costole, sotto alle ve-
sti, e disse: «Sono tutte precauzioni. Sono ancora utile alla causa, al-
meno finché la temperatura non precipiterà».
«Allora il tempo gioca a nostro sfavore» fece Ortus.
«Il tempo ha sempre giocato a nostro sfavore» disse Abigail.
«Oh, il tempo… il tempo» disse una voce dalla soglia. «Il tempo si-
gnifica ben poco… ma la maestria sì. Questo tempio ha retto per die-
cimila anni, inviolato, nonostante i goffi maneggi del tempo… ma al-
lora il suo padrone era il Padrone, per il quale anche il Fiume apre le
sue acque. Il tempo non è nulla per il Re Perpetuo.»
Era Maestro. Portava la sua tunica bianca di lana con la sua splen-
dida fusciacca color arcobaleno, i sandali e la mantellina, ma non c’era
altro a tenere a bada il freddo. Brandiva una bottiglia di liquido color
mela e di tanto in tanto mandava giù una sorsata. Il tanfo che ema-
nava quella roba fece arricciare il naso a Harrow.
Di fronte al loro silenzio, proseguì: «Sono convinto che quella che
stiamo scontando sia una punizione per quello che hanno fatto loro.
Persino il diavolo si è inchinato a Dio per farsi legare il guinzaglio al
collo… e i discepoli avevano paura di lei! Non posso biasimarli! An-
ch’io ero atterrito! Ma quando il lavoro si è compiuto – quando sono
stato completato, come loro, e i nuovi Littori hanno scoperto il prez-
zo pagato – gli hanno intimato di uccidere quella creatura salmastra

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prima che potesse far loro del male… Oh, ma è una tragedia, esse-
re ficcate in una cassa e lasciate a giacere per il resto dell’eternità. È
accaduto a me, ma io ero solo un uomo, o forse cinquanta uomini…
Reverenda Figlia, la vostra intera casa poggia sul filo del rasoio, come
guardiani di un simile serraglio.»
Colse il suo sguardo posato sulla bottiglia e gli occhi azzurrissimi
furono attraversati da un guizzo un po’ folle. Con più calma, disse: «È
sciroppo di cardo, bambina mia. Non potrei sbronzarmici neanche se
mi ci mettessi d’impegno. E d’impegno ce ne ho messo».
Ortus disse: «Vi esprimete per indovinelli, vecchio».
«Allora lasciate che vi parli chiaramente» fece Maestro. «Adora-
te un mostro chiuso in una cassa e giocate a fare i padroni della sua
tomba. Ora siamo noi ad avere un mostro in scatola, ed è diventa-
to chiarissimo che mira a dominarci tutti. La Casa di Canaan non ha
mai cambiato colori o forme, nemmeno col succedersi delle stagioni.
Io lo so bene; abbiamo misurato tutto, dall’estate all’inverno, la tem-
peratura, le precipitazioni, l’acidità del mare stesso che c’è qua sotto
di noi, e non ha mai grandinato, non ha mai nevicato e, di certo, non
abbiamo mai visto delle fimbrie penzolare dalle travi. Lasciatemi ela-
borare una profezia, alla mia venerabile età: il Dormiente sta accu-
mulando le forze per svegliarsi del tutto, e colonizzare quel che tro-
verà. Ne ho timore! Dio! Ne ho un gran timore!»
Abigail disse: «Maestro, per favore, venite a stare qua con noi. Ab-
biamo dei letti… ci sono dei turni di guardia». Ma lui esclamò: «E
perdermi l’opportunità di morire? Ho passeggiato per i corridoi alle
tre del mattino, urlando a pieni polmoni: “Oh, sarebbe tremendo se
mi sparassero!” e il Dormiente non è comunque arrivato… è orribile
suscitare la pena di un mostro».
Piroettò bruscamente, buttando giù un’altra lunga sorsata dal-
la bottiglia. «Le vostre spade non scalfiranno la sua armatura» dis-
se, voltando loro le spalle. «Le sue armi faranno scempio della vostra
carne. Non si fermerà finché non avrà fagocitato la sua preda. E ri-
conoscerà solo la lama che c’è fuori… tutto quello che abbiamo noi
sono le lame di dentro. Le ha viste e le ha spuntate. Tra noi non re-
stano più eroi… e io dico, urrà!»
Maestro, in un folle moto d’euforia, fece un saltello e schioccò i
talloni uno contro l’altro, con l’ardore e l’energia di un uomo con un

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quarto dei suoi anni. «Urrà!» esclamò di nuovo. «Tutti nel Fiume con
noi, ragazzi! In cinquanta saremo un bel banco di pesci!»
Scaraventò con violenza la bottiglia contro il tratto di tubo più vi-
cino, fuori in corridoio. Harrowhark rimase a guardare l’organo ros-
so e lucido che si lasciava andare a un blarp umido e sguisciante; la
bottiglia ci rimbalzò contro mestamente e, mentre Abigail e Ortus le
si facevano più vicini, ruzzolò tristemente sotto a un altro lembo di
membrana rosata. Un po’ del fluido aspro che conteneva si rovesciò sul
pavimento di legno malandato. In una manciata di secondi, perfino i
residui di quell’alcol cominciarono a coagularsi in fiocchi di ghiaccio.
«Ti sta venendo a prendere, Reverenda Figlia!» esclamò Maestro.
«Oh, sta venendo per te… e una volta che ti avrà presa, una volta che
la roccia sarà stata scostata, una volta che la tomba sarà scoperchia-
ta, l’Imperatore delle Nove Case non conoscerà più la pace! Il Re è
morto! Lunga vita al Re!»
Maestro imboccò il corridoio in una follia di saltelli, come un bam-
bino, schiaffeggiando grumi oblunghi e tremolanti di muco, tra un ur-
letto e l’altro. I suoi fischi e le sue grida continuarono a riecheggiare
lungo le antiche pareti anche quando scomparve alla vista.
Il gelo che Harrow percepiva sotto alla tela nera e spessa dei suoi
paramenti le sembrò un vecchio amico. Le bruciavano le dita, come
se le avesse tenute troppo vicino al fuoco. Il suo paladino e la stori-
ca non riuscivano a riscaldarla, per quanto fossero vicini: era come
se fosse rimasta sola nella stanza. Quando Abigail la sfiorò, fece un
sobbalzo: le aveva posato una mano sulla spalla come se non fosse
più grande del duo disperso della Quarta Casa, una ragazzina goffa
al cospetto della morte.
«Be’, Maestro può andare a farsi friggere» commentò indispetti-
ta Abigail Pent.

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UNA SETTIMANA PRIMA DELL’ASSASSINIO DELL’IMPERATORE

In quegli ultimi giorni lunghi e terribili prima del-


la fine – in quei giorni smorti, asfissianti e claustrofobici che restavano
in agguato ai confini delle tue notti come predatori in attesa di vederti
collassare – avevi ricominciato a pregare. Non perché avessi qualcuno
in particolare a cui rivolgere le tue preghiere. Ti aiutava e basta, in una
maniera ineffabile e specifica, contare i tuoi grani d’osso da preghiera,
recitare le orazioni dell’infanzia che avevi imparato quando eri ancora
così piccola da non riuscire a vedere oltre lo schienale della panca di
fronte. Eri pervasa dal ricordo sconcertante di Mortus il Nono che ti
tirava su per guardare tua madre che celebrava la messa; prima di po-
ter essere accolta nel santuario, sedevi davanti, in braccio al paladino
di tuo padre, in modo che non ti toccasse fissare per l’intera cerimonia
lo schienale di pietra di una sedia finemente impolverata. Ti ricordavi
di aver di gran lunga preferito le manone forti e tristi di Mortus che se-
derti vicino alle prozie. Ti dava un pezzetto pungente di menta piperi-
ta da succhiare, come se ti fosse mai servito qualcosa che ti aiutasse a
fare silenzio. Era stata l’ultima presunzione di immaturità di cui avevi
potuto beneficiare. Avrai avuto tre anni, probabilmente.
Se pregavi per qualcosa, pregavi per la lucidità. Pregavi di poter
guardare in faccia ogni Littore superstite affinché il Corpo ti indicas-
se, in silenzio, l’apostata. Pregavi che potesse trattarsi di Cytherea,
traditrice persino da morta, e che il suo cadavere fosse stato in qual-
che modo sparato fuori dal Mithraeum da un condotto. Pregavi af-
finché tutta quella faccenda finisse per dimostrarsi un’illusione, e

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talvolta finivi per convincertene; avevi immaginato che i morti del-


la Casa di Canaan fossero ancora vivi e che si facessero improbabil-
mente strada nelle giungle del tuo pianeta-vittima, lontanissimo da
dove i loro cadaveri riposavano. Ma allora perché le loro bare sulla
Erebos erano vuote? E perché, ora, una delle tue lettere era sparita e
altre due erano state aperte?
Ogni volta che ci pensavi, dei fiotti ramificati di sangue denso e in-
candescente ti sgorgavano dalle orecchie e, ormai, i tuoi condotti udi-
tivi erano perennemente macchiati di marroncino scuro. Pregavi di
vivere ancora per qualche settimana.

* * *

Un mese prima, dopo aver svagatamente reciso la giugulare del tuo


quattordicesimo pianeta, stavi pregando in questo modo quando un
fragoroso allarme aveva cominciato a martellare i corridoi del Mi-
thraeum. Non ne riconoscevi la struttura ritmica e delle luci rosse
che lampeggiavano ansiose avevano rimpiazzato il tranquillizzan-
te bagliore blu delle lampade abitative che costeggiavano le pareti.
E poi una paratia massiccia scivolò sul tuo finestrone. Ti eri ferma-
ta davanti a quella luce che si piegava e riverberava in quella maniera
assurda, di fronte al plex, ed eri rimasta a osservare un grosso pan-
nello di metallo che scivolava nel suo alloggiamento con uno sferra-
gliamento silenzioso e una potente vibrazione, tagliando fuori lenta-
mente la luce. Le tue stanze erano sprofondate nell’oscurità, a parte
quel concitato lampeggio rosso; la sirena non si arrestava e tu eri ri-
masta in quel buio sfumato di rosso, irrigidita dall’attesa incomben-
te, pronta a morire.
Quando avevi sentito la voce dell’Imperatore delle Nove Case che
gracchiava dal comunicatore vicino alla porta, ti ci eri precipitata. Sta-
va dicendo: «Qui J.G., cessato allarme. Littori, mi ricevete?».
«Qui A.A. Cessato allarme.»
«Qui G.P. Cessato allarme.»
Una pausa. Poi avevi sentito le modulazioni fredde e distaccate di
Ianthe, come se non l’avessero nemmeno svegliata. «Nessuno ha an-
cora ritenuto opportuno concedermi un nome in codice, ma comun-
que, tutto bene anche qui.»

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Augustine: «Tu sei I.N., ovviamente. Harrow è H… sì, Harrow è H».


«Qui H.O.» avevi detto all’istante, ignorando i distinguibilissimi ri-
solini di Ianthe.* «Tutto bene. Che succede?»
E Dio aveva chiesto, concitato: «Mercy, mi ricevi? Chi ha fatto par-
tire l’allarme?».
Il comunicatore crepitò. Qualcuno respirava affannosamente. Poi il
sistema fu scosso da un brontolio – il richiamo animalesco di un do-
lore inconsapevole – che non somigliava alla Santa della Gioia. Sem-
brava una tempesta di statica, un singhiozzo strozzato, seguito da un
forte tonfo umido e orribile.
L’Imperatore aveva detto: «Che qualcuno mi apra la porta, così po-
trò andare da lei».
Ortus aveva ribattuto: «Sono più vicino io».
Un altro rumore appiccicaticcio di contatto. Poi Mercy aveva ri-
sposto, roca: «No. No. Sono cosciente. È solo che… meno di un se-
condo di visuale. Ho distolto lo sguardo, mio Signore, ma l’ingran-
dimento ottico… proprio al centro… è qui! La Bestia Resurrezionale
è arrivata! Il settimo colosso, della stessa nidiata di quella che ha as-
sassinato Cyrus il Primo, compagna di branco di quella che ha ucci-
so Ulysses il Primo, proprio quella per cui Cassiopeia si è sacrifica-
ta. Oh, Dio – John, certe volte vorrei essere in grado di morire – l’ho
vista! L’ho vista, è azzurra come gli occhi di Loveday! Sa cosa hai fat-
to ai suoi simili, e riesce a vedere l’anima mortale della mia paladina
che mi brucia nel petto!».
Il clank meccanico di una porta che si sbloccava si sentì anche sulla
linea. L’Imperatore disse: «Grazie» e poi il suo canale si chiuse. Nes-
sun altro parlò più.
La sirena si spense. Continuò a riecheggiarti nelle orecchie per un
bel pezzo. La voce di Augustine gracchiò sul canale, con una certa ir-
ritazione: «Che babbea. Lo sa che non bisogna guardarle, non entro
il raggio di un chilometro nella traiettoria d’arrivo prevista. Be’, è ar-
rivata in anticipo, e lo siamo anche noi. Tornate tutti a letto».
Ed eri tornata a letto. Le paratie non si erano risollevate. Avresti
poi scoperto che sarebbero rimaste così; avresti poi scoperto che il

*
  Ianthe se la ride perché ho, in inglese, è un’abbreviazione di whore, “puttana”. (N.d.T.)

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Mithraeum sarebbe stato sottoposto a un’ulteriore schermatura nei


giorni successivi, per impedire che lo sguardo dell’Imperatore delle
Nove Case si soffermasse su quello che si stava avvicinando. Ma quel-
la notte ti eri limitata a restare coricata accanto al Corpo e avevi no-
tato che i suoi occhi erano sgranati e che, nell’oscurità, erano dorati
come una maschera funeraria.
Le avevi chiesto: «Mia amata?».
E lei: «Sta arrivando» con lo stupore più pregno di trepidazione
che mai avevi riscontrato nella sua voce bassa e polifonica – e pro-
prio in quel momento aveva usato la voce del paladino di tuo padre.
E: «È vicino!».
Aveva mai manifestato stupore, prima? Si era mai sentita a disa-
gio? Eravate distese viso contro viso, a pochi centimetri dallo scin-
tillio umido della sua pelle che avrebbe dovuto lasciare un’impronta
sul cuscino, da quel labbro inferiore increspato. Gli occhi, che le luci
notturne avevano fatto virare all’ambrato malaticcio di un livido in
via di guarigione, ti trapassavano. Il Corpo era tribolato: in quel po-
sto sospeso, così vicino al termine della tua vita, ti pareva naturale
aggrapparti a lei. La paura della morte aveva riplasmato la tua devo-
zione in disperazione, o forse desiderio. Avevi allungato una mano,
infilandola in quel groviglio di capelli congelati sulla nuca; avevi an-
nullato la distanza che vi separava e avevi baciato quella sublime boc-
ca cadaverica.
Non potevi, ovviamente. Là non c’era niente. Il contatto la face-
va dissolvere, come per qualunque altra delle sue allucinazioni. Non
l’avevi toccata. Forse non ti eri nemmeno protesa verso di lei. Il Cor-
po ti osservava con un’espressione che temevi tremendamente po-
tesse essere di pietà.
Le avevi detto: «Per favore» e ti eri avvicinata di nuovo. Un’ondata
di stordimento ti aveva sopraffatto. Ti eri schiacciata contro la tunica
che le si increspava sulla curva della spalla; le avevi posato una mano
sulla pancia. La sua dignità non fu scalfita da quest’urgenza trivia-
le, da quella frenesia grossolana; o forse, ancora una volta, non avevi
fatto niente. Le avevi ripetuto: «Per favore».
Come se non avessi oltrepassato alcun confine, e superando le gri-
da ruvide e mute che sentivi nelle orecchie, il Corpo disse: «Me ne
devo andare per un po’» e avevi rimpianto tutto.

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«Ho sbagliato» avevi detto.


Il più minuscolo accenno di cipiglio aveva attraversato quella geli-
da fronte irrespirata, e ti aveva chiesto: «E come?».
Non sapevi nemmeno da dove cominciare per risponderle. Il Cor-
po si era proteso, allungando le dita, come se avesse voluto chiu-
derti gli occhi: eri troppo stanca per immaginare la sensazione che
ti avrebbero trasmesso quei polpastrelli sulle palpebre, come quel
pollice avrebbe potuto accarezzarti il ponticello del naso. Ave-
vi chiuso gli occhi, reagendo obbediente. E poi – come il povero
mucchietto triste col cuore spezzato che eri – ti eri addormenta-
ta profondamente.
Al mattino, il Corpo non c’era più.

* * *

«Ecco la nostra strategia d’intercetto» aveva detto Mercymorn.


Aveva spinto un grosso pezzo di plex bianco opaco davanti al ta-
volo da pranzo, dove tu, Ianthe, Augustine e Ortus eravate andati a
sedervi, con l’Imperatore a un’estremità, occupato con il suo lavoro
– il tablet, i diagrammi, gli stili e le veline. Erano quasi passati ormai
due mesi dalla morte del quattordicesimo pianeta. Tutte le paratie sui
finestrini erano abbassate da settimane. La sensazione generale era
quella di vivere in una scatola, cosa che a te non tangeva granché: nel
Drearburh non c’erano finestre, anche se rispetto a lì c’era un senso
di profondità che ti aveva fatta sentire più libera, in quella collezione
piatta di anelli e corridoi.
La tua insegnante torreggiava con il suo manto Canaanita di fron-
te a quell’assemblea scombinata – aveva l’aria fragile di un fiore bian-
co con un cuore di pesca marcio – e aveva cominciato dicendo: «La
fase di intercetto potrebbe durare tre ore. O magari otto. Potremmo
metterci una settimana… partite dal presupposto che le tempistiche
sono labili e procedete di conseguenza. Il prossimo!».
La Santa della Gioia disegnò sulla lavagna bianca di plex un gran-
de tubo cilindrico, con un pennarello nero a punta grossa. Segmen-
tò ed etichettò il cilindro dalla sommità fino all’estremità inferiore,
separando con ordine ogni intervallo: EPIROICO. MESOROICO. BATI-
ROICO. BARATRON.

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«La porzione più consistente dello scontro si svolgerà qui, come


di consueto» aveva spiegato lei, sottolineando con enfasi EPIROICO.
«Dobbiamo servirci della riva il più possibile. Una volta che la Bestia
si stancherà – e ve ne accorgerete perché cercherà di scappare – la
trascineremo giù, nello strato mesoroico, poi nel batiroico e, a quel
punto, nel baratron. Una volta lì, lo stoma si aprirà… e ce la spinge-
remo dentro. Facile!!!»
«Per niente» aveva aggiunto Mercymorn con voce acida, nel caso
qualcuno avesse potuto fraintenderla.
Ortus aveva commentato: «Resto dell’idea che dovremmo guidar-
la verso il basso sin dall’inizio».
«No, grazie! Qua non peschiamo mica tutti con l’arpione. Il pros-
simo!» aveva esclamato, ma il Santo del Dovere non aveva ancora fi-
nito; come capitava di tanto in tanto, persistette, inesorabile come la
forza di gravità. Aggiunse, ostinato: «Il nostro scontro più gestibile
con una Bestia si è svolto nello strato batiroico».
«Sì, e la Numero Otto non era stanca, quando siamo riusciti a por-
tarla fino al baratron, e a Ulysses il Primo è toccato trascinarla oltre
lo stoma e, mentre noi conversiamo, sta marcendo all’inferno! È una
Bestia Resurrezionale, tesoro mio! Grazie! Il prossimo!!!»
Da capotavola, con gli occhi cerchiati di bianco ancora abbassa-
ti sulle carte, l’Imperatore disse, sommessamente: «Il suo è stato un
gesto d’eroismo».
«Oh, ma il problema è che gli eroi crepano sempre» fece Augustine,
che stava tormentando un bordo della tovaglia con le lunghe dita ele-
ganti. «Non puoi nemmeno dichiarare che qualcuno è un eroe finché
non muore eroicamente. Ho pensato che l’attacco discendente fosse
un’ottima trovata quando voi due l’avete escogitato, Ortus, ma ades-
so sappiamo che l’ultima spinta da assestare a una Bestia deve esse-
re improvvisa e definitiva. Avrei preferito combattere per altre nove
ore e avere Ulysses seduto qua, ora, a stuzzicarci per buttare in pie-
di un festino piccante, invece di averlo dovuto guardare mentre lot-
tava corpo a corpo con quell’affare, sparendo.»
«Quanto li odiavo quei festini piccanti» aveva detto Mercymorn,
con una veemenza quasi lacrimevole, e Augustine le aveva risposto:
«Lo sappiamo, Gioia. Lo sappiamo».
Ti eri soffermata su Ianthe. Non tollerava le riunioni, o una qual-

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siasi altra attività organizzata nella quale sarebbe stata costretta a ge-
stire le opinioni altrui, il che ti risultava strano visto e considerato che
aveva passato una vita intera attaccata alle gonnelle della sorella ge-
mella. Sedeva con il braccio pallido incrociato sull’oro splendente di
quello scheletrico, entrambi orrendamente incorniciati dallo sfondo
madreperlaceo e iridescente della sua veste. I capelli le spiovevano in
una lenzuolata sottile e liscia sulle spalle, e teneva la testa appoggia-
ta allo schienale come se fosse sul punto di addormentarsi. Ti aveva
lanciato un’occhiata; tu avevi distolto rapidamente lo sguardo, ma ti
aveva sorpresa a fissarla.
Più tardi ti eri ritrovata a pregare che la traditrice non fosse Ianthe,
nonostante avessi visto con i tuoi occhi Coronabeth, viva, fra le brac-
cia del Sangue dell’Eden: la gemella che, per quel che potevi saperne,
era l’unico essere umano che Ianthe amava più di quanto amasse se
stessa. In nome di questa sorella, Ianthe ti aveva guardata dritto negli
occhi mentre ti piantava un coltello nel palmo della mano.
Perché pregavi per l’innocenza di Ianthe, quando era così dubbia?
Non era costume della Nona Casa pregare con una tale credulità deli-
berata; eppure pregavi comunque, sapendo che la propensione di Ian-
the per la tergiversazione avrebbe potuto bloccare l’intero universo.
Quella serpe calcolatrice disse, svogliata: «E la forma fisica? È dav-
vero invulnerabile?».
«Se mantiene la traiettoria attuale, triangolando ho stabilito che si
poserà… qui» fece Mercy, fissando al plex con dei magneti tondi una
mappa dello spazio circostante. Eri sconvolta da quanto il punto di
atterraggio sembrasse lontano dal Mithraeum; la tua ligia precettri-
ce aveva stimato la posizione, se leggevi correttamente il diagramma,
da qualche parte nell’orbita di un pianeta a cinque miliardi di chilo-
metri di distanza. «La cintura di asteroidi implica che ci ritroveremo
con ondate di Araldi di appena venticinquemila unità circa: non può
caricare con l’intera cavalleria.»
Ianthe disse: «Sappiamo dov’è. Bombardatela».
«Ci abbiamo già provato, pulcina, come ti ho spiegato» disse il suo
insegnante, ma con una certa gentilezza. Aveva estratto il suo arma-
mentario di cartine e una bustina dal contenuto mefitico e si era mes-
so a rollarsi una sigaretta. «Lo strato di materia morta e di Araldi è
spesso duemila chilometri.»

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«Mandate un Littore a penetrare lo strato, per piazzare la bomba


più vicino. Lo farò io, se il coraggio nel cuore dei miei superiori an-
ziani mancherà.»
Ortus disse: «Ci abbiamo provato». E Mercy aggiunse: «Cytherea
è andata fuori di testa per settimane. E con “fuori di testa” non in-
tendo irascibile, intendo proprio folle, matta. Non ha nemmeno toc-
cato la superficie».
«Non che sbarazzarci del corpus non possa tornarci utile» dis-
se l’Imperatore. «Lo sarebbe. Quando Cyrus ha attirato il corpus
in un buco nero, Ulysses ci ha riferito che sbarazzarsi del cervello
è stata la cosa più semplice del mondo, è scivolato nello stato dor-
miente, ed è riuscito a portarlo giù a uno stoma da solo… ma ci
abbiamo rimesso Cyrus. E Cassiopeia ha pilotato il corpo nel Fiu-
me per seguire il cervello, ma solo Cassy ci sarebbe potuta riusci-
re… o Augustine.»
Era una mezza domanda. Augustine disse: «Io non sono Cassy,
John. Per me è tutta una faccenda teoretica».
E Dio disse: «Spero che rimanga teoretica. Comunque, quel male-
detto affare se n’è a malapena accorto. Accantona gli Araldi, Ianthe.
Lasciali al tuo braccio armato».
Tu avevi chiesto: «E come si sconfigge la Bestia? Che aspetto ha?
Come ci attaccherà? Che cosa dobbiamo aspettarci?».
Mercymorn prese il pennarellone e si mise a scarabocchiare sul
plex, piazzando il suo nuovo oggetto al centro dello strato epiroico.
«Questa è la bestia» dichiarò.
Augustine disse: «Quello è un muffin».
«Io ci vedo una nuvola, ma con la faccia» fece Ianthe. «Se prendia-
mo quel ghirigoro là per un occhio.»
Tu avevi commentato: «Io pensavo fosse un fiore». E Dio disse:
«No, sì, sono d’accordo… ha un che di fiorellesco».
E Ortus aveva proclamato: «A me sembra un serpente in un
cespuglio».
«Vi odio tutti» esclamò Mercymorn, accalorata. «Vi odio da mil-
lenni… a parte te, mio Signore.»
«Grazie» disse Dio.
«Vorrei solo rinchiuderti in una cella» fece la sua Littrice, ora me-
ditabonda, «e riempire la cella di acido… per ogni volta che ti è scap-

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pata un’osservazione frivola, o ti sei messo a mangiare noccioline a


una riunione dell’Ammiragliato della Coorte, o hai detto: “Che vuoi
che ne sappia io, sono soltanto Dio”. Ti farei trascorrere mille anni
così. A quel punto, mi diresti: “Mercy, ho imparato a non fare più tut-
te queste cose, perché detesto farmi versare addosso l’acido”. E io ti
direi: “È proprio per quello che l’ho fatto, mio Signore. L’ho fatto per
te e per il tuo impero”. Ci penso spesso» concluse.
L’Imperatore delle Nove Case disse: «Ho mangiato le noccioline,
con discrezione, solo una volta».
Eri intervenuta: «Ma proseguiamo, accettando convenzionalmen-
te che quel disegno rappresenti la Bestia».
«Sì! Grazie» disse la tua insegnante. «Ma l’ho notata, la scelta
di utilizzare “convenzionalmente”, e gradirei rammentarti, infante,
che ho odiato anche te a prima vista. Il cervello della Bestia si collo-
cherà nello strato epiroico, e ci attaccherà come gli pare. Ogni Be-
stia è differente. Ne ho ormai combattute parecchie, e ogni Bestia
si distingue molto dalle altre… la Numero Due secerneva mercurio
e si è riconfigurata in centinaia di spuntoni. La Numero Sei conti-
nuava a risucchiarci con questi enormi sfinteri e ci sommergeva di
vermi. Non riesco nemmeno a ricordare che aspetto avesse. Mi ri-
cordo la Numero Quattro… era una creatura umanoide con un viso
bellissimo. Mi teneva sott’acqua e, nonostante parlasse con una voce
soave non faceva che ripetere: “Crepa, crepa”… e mi ricordo la Nu-
mero Uno come un enorme macchinario incoerente… quando l’ho
vista ho pensato che avesse una coda poderosa e un migliaio di pi-
lastri spezzati sulla schiena, ma poi Cassiopeia l’ha percepita come
un mostro meccanico con le ali fatte di spade e cornoni di mielina
foderati di tombe.»
Fu il Santo del Dovere ad aggiungere, inquieto: «La Numero Otto
era una testa gigante».
«Con delle pinne da pesce» fece Augustine, trasognato. «Le costo-
le erano bende insanguinate, e i denti le spuntavano dal cranio, tut-
ti ingarbugliati sul muso come un nido. Era rossa, e aveva un unico
occhio verde che le si spostava per tutto il corpo… insomma» disse,
tornando coi piedi per terra, forse dopo aver scorto qualcosa nella
tua espressione e in quella di Ianthe, «non sono un bello spettacolo,
ecco cosa intendiamo.»

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Ianthe disse: «Allora stiamo perdendo tempo, sorella maggiore.


Non possiamo pensare di combatterla».
«Possiamo pianificare il nostro schieramento» fece la Santa della
Gioia, tutta compita. «Vi prendete la vostra sezione della Bestia e vi
concentrate su quella. Tu, neonata imbecille, prenderai l’area est. Au-
gustine penserà all’ovest. Ortus il nord. Io mi occuperò di quello che
c’è a sud del suo fulcro centrale, indipendentemente da che aspetto
potrà avere quel punto, e di qualsiasi cosa si tratti… è possibile che
non riusciremo nemmeno a capirla spazialmente, ma a parte questo,
combattetela e non state tra i piedi agli altri.»
Avevi domandato: «E io?».
Nessuno ti guardò, a parte Mercymorn. Lo sguardo di Ianthe era
orientato in una direzione totalmente diversa, forse rivolto all’est che
le era stato assegnato; Augustine si stava accendendo una sigaretta
rollata con puntiglio, e il Santo del Dovere stava semplicemente stu-
diando la schermatura che copriva il finestrone che soleva affacciare
sullo spazio. Persino Dio non sollevò gli occhi dalle faccende ammi-
nistrative – chissà poi quali – che richiedevano l’attenzione del Prin-
cipe Imperituro. Gli unici occhi per te erano quelli di Mercy: un ura-
gano infinito e rossastro, che affondava in quelle profondità sabbiose
affacciate su uno specchio d’acqua grigio.
«Non metterti in mezzo» aveva detto.
Augustine elaborò, disinvolto: «Cerca di capire dove può esserci bi-
sogno di te, sorellina. Forse la Bestia presenterà qualche vulnerabilità
che puoi segnalare. O potrebbe cercare di attaccarci dall’esterno, il che
implica che potresti tornarci utile lungo il perimetro. Sii flessibile».
Si sarebbe trattato di una richiesta perfettamente ragionevole, se
il suo significato non fosse risultato così palese. “Non distrarci con
la tua morte.”
Il Principe Clemente commentò con aria svagata: «Ha ragione,
Harrowhark. Per quel che posso capirne io, è utile avere qualcuno
che può spostarsi lateralmente, senza l’obbligo di mantenere un’uni-
ca posizione… in ogni caso, comunque, come per la maggior parte
dei piani ben strutturati, nemmeno questo resisterà al contatto con il
nemico. Fai quello che ritieni più opportuno e tutti gli altri si impe-
gneranno a non ostacolare i tuoi scheletri… possiamo fare una pau-
sa-tè, Mercy? Sto boccheggiando».

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La sorella che più si approssimava alla tua età non si alzò, come fe-
cero tutti gli altri quando Dio chiese di mettere su il bollitore. Conti-
nuava a fissare il disegno nero, e domandò, senza particolare appren-
sione: «Ma che cos’è lo stoma?».
Mercy disse: «Augustine, le avrai ben parlato dello stoma». Il tono
era accusatorio, ma lui si limitò a ribattere: «No. Non vedevo il moti-
vo di spaventarla. Perché… tu ne hai parlato a Harrowhark?».
Ovviamente, nessuno ti aveva detto niente a proposito dello sto-
ma. La tua insegnante disse, con insofferenza: «Non lo vedrà mai!
Perché disturbarsi?».
«Se fosse per me, lascerei Ianthe al sicuro nel mesoroico. Noi tre
vecchie ciabatte saremo più che sufficienti a trascinarla giù» disse
Augustine, secco. Lo sguardo languido di Ianthe, con le sue screzia-
ture brune, si orientò su di lui come se le energie le bastassero a ma-
lapena. «Quella cosa ha una forza attrattiva gravitazionale devastan-
te. Non è roba da neofiti.»
«Perdonami, ma è possibile che non tutti quanti noi arriveremo
vivi al momento in cui quella cosa si stancherà, quindi dovresti pian-
tarla di arrotolare fasce attorno a quella tua neonata strepitante e…»
«Non hai mai preso sul serio lo stoma, ecco perché tutta la tua Casa
del cazzo ci si attacca come a una grottesca mammella…»
«Non essere volgare…»
«È la bocca dell’inferno» disse Dio.
Era in piedi nello spazio liminale che separava la sala da pranzo
dalla cucina, la latta dei biscotti stretta tra le mani. Gli abiti, indos-
sati troppo a lungo, erano pieni di pieghe e sulla tempia c’era una
leggera sbavatura blu – aveva scritto con l’inchiostro e poi se l’era
toccata. Disse: «Uno spazio di autentico caos – e con “caos” inten-
do l’abisso e anche l’imponderabile – situato sul fondo del Fiume. Il
Letto del Fiume è foderato di bocche che si spalancano all’approc-
ciarsi di una Bestia Resurrezionale, e nessuno spirito si avventura
più in basso dello strato batiroico. Chiunque sia entrato in uno sto-
ma non ha più fatto ritorno. È un portale che conduce al luogo che
non posso toccare… un posto che non comprendo del tutto, dove
il mio potere e la mia autorità sono completamente insignificanti.
Scoprirete che pochissime anime sprofondano fino al baratron. Se
credessi nel peccato, direi che sono morte zavorrate dai propri pec-

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cati, il che le ha posizionate più vicine allo spazio destinato ai rifiu-


ti. O, perlomeno, è così che noi l’abbiamo utilizzato. È lì che mettia-
mo le Bestie Resurrezionali. Nel bidone della spazzatura… insieme
a tutti gli altri scarti».
Poi esclamò: «Allora, chi vuole un biscottino?».

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L’atmosfera sul Mithraeum si cristallizzò in
un’agonia arroventata dall’attesa. Camminavi giù per un corridoio
e trovavi Augustine e Ortus che combattevano – le palpebre incol-
late in un’unica linea rosata e incandescente mentre si esercitavano
a occhi chiusi, in angoli angusti, gli stocchi che guizzavano come la
luce sull’acqua – per poi fermarsi apparentemente a caso, prima che
il Santo della Pazienza dicesse qualcosa tipo: «Va bene; di nuovo, ma
in apnea» e si udisse un improvviso soffio pulsante, mentre entram-
bi espellevano l’aria dai polmoni. In quei frangenti, di solito, imboc-
cavi un altro corridoio.
I Littori facevano anche quello che forse avrebbero dovuto fare
sin dall’inizio, organizzando sessioni istruttive, spesso contraddit-
torie e pianificate con molta elasticità, per Ianthe – per te. Vi spo-
stavate in massa nel Fiume, lasciandovi alle spalle i vostri corpi in
morbide curve a forma di C – il tuo, perlomeno, tutti gli altri stava-
no dritti in piedi – e facendo crepitare la sabbia argentea della riva
sotto ai piedi mentre i tre santi vi conducevano entrambe ad assem-
blare barriere. Niente sangue, carne o ossa lì: i primi due potevano
essere saccheggiati e le ultime trascinate via da una corrente capric-
ciosa. Raccoglievate pezzetti di legno asciutto – legno asciutto? – e
pietre dai colori slavati – pietre? – dalle rive del Fiume oltre la mor-
te, e raccoglievate covoni interi di giunchi dall’affilatura inclemen-
te e piante alte e piumose, quelle con fusti affusolati e fibrosi, lunghi
quanto te e pieni di foglioline sottili e ingarbugliate. Un vento ler-
cio e salino vi frustava il viso mentre plasmavate barriere coi detriti
che, all’apparenza, crescevano sulla riva. E nessuno spirito vi passa-

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va accanto per guadare le acque – nessuno spirito si trascinava fuo-


ri dall’acqua dello strato che Mercymorn aveva definito “epiroico” –
erano già fuggiti verso climi diversi.
«Sono terrorizzati, quei poveri bastardi» aveva commentato
Augustine.
Non c’era ancora nulla da vedere nel Fiume; niente cervello, nes-
suna traccia della Bestia, nessuna nebbiolina in lontananza che indi-
casse un’anomalia. Quando riprendevi conoscenza, scoprivi che eri
l’unica seduta in un cerchio di Littori in piedi, i loro visi come velina
immacolata, gli stocchi in pugno, le armi secondarie pronte. Il Santo
del Dovere con la sua lancia. Il Santo della Pazienza con la sua daga.
La Santa della Gioia con la sua rete. Ianthe con il suo pugnale triden-
tato. Fissavi quei visi, intorpidita, domandandoti quale avrebbe fini-
to per tradire Dio.
All’inizio di quell’ultima settimana, eri ancora convinta che sare-
sti sopravvissuta, nonostante nella riunione operativa si fosse dato
per scontato il contrario. A metà di quell’ultima settimana, l’Impera-
tore delle Nove Case, il Necrore Supremo, ti aveva invitata nelle sue
stanze dopo cena, per parlare; quando ti eri seduta su quella poltro-
na ormai familiare davanti a quel tavolino ormai altrettanto familia-
re – il grande finestrone ridotto a una piatta oscurità, la nave ridotta
a un ventre al cui interno tutti vi annidavate –, lui ti aveva sorpresa
offrendoti dell’acqua e un cracker molto elementare. Ti eri ritrovata
a rosicchiarne i bordi: sapeva solo di farina e di sale.
«So che hai detto di no, l’ultima volta» cominciò Maestro. «L’ho
rispettato. Non te lo proporrò di nuovo, voglio solo dirti che… se in
qualunque momento, prima che le ultime serrande si abbassino… se
in un qualunque momento prima che Mercymorn mi sigilli lì den-
tro… verrai da me e mi chiederai di essere chiusa dentro insieme a me,
sarai esaudita. Hai ancora diecimila anni davanti a te, Harrowhark.»
Non ti eri soffermata su quello. Invece, gli avevi detto: «Mio
Signore?».
«Maestro.»
Avevi detto: «Siete il Principe Imperituro. Siete il Necrore Supre-
mo. Perché vi rinchiudiamo in una stanza senza aria?».
Lui si era appoggiato allo schienale e aveva incrociato le dita sulla
pancia. «Mi colpisci nel vivo, Harrowhark» aveva commentato, affa-

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bile, con le sopracciglia castane che si increspavano nel mezzo. «Io


sono la vostra salvezza e la vostra luce. Chi dovrei temere, io?»
«Non era mia intenzione» avevi ribattuto, sporgendoti in avanti.
«Voglio solo capire. Vi prego.»
«Che cosa succede al tuo corpo quando ti immergi, Harrow? Quan-
do vai nel Fiume?»
Avevi ormai superato la soglia che ti richiedeva di rifletterci su. «Il
corpo entra in uno stato di insensibilità. Il Littore non percepisce nul-
la di quello che lo circonda, in nessun modo; perfino la necroman-
zia si blocca. Invece, è l’anima secondaria a uscire allo scoperto – il
meccanismo di protezione – ed è in grado di brandire una spada an-
che se la sua mente è andata… senza pensiero cosciente o una pro-
pria coscienza, ma con una perfetta padronanza dell’arma.» A patto
che la cosa funzionasse a dovere.
L’Imperatore delle Nove Case si tamburellò le dita sulla cintu-
ra. Ti faceva ancora un pochino male fissare quegli occhi tremen-
di: le iridi come ombre nere del bianco Canaanita, quell’assenza iri-
descente di colore, un’ombra piuttosto che una tinta; la purezza di
quell’anello bianco; e poi il nero compatto della sclera. Non ti ci eri
mai abituata.
«Una miriade fa, ho risorto nove pianeti» aveva detto lui. «E ho
riacceso la stella centrale, e l’ho chiamata Dominicus. Come monito.
Dominus illuminatio mea, et salus mea, quem timebo? Dio è la mia
luce. Harrowhark, se io mi immergessi… entrerei in quella condizio-
ne di sospensione, e io sono Dio. Che cosa succederebbe se, a qua-
ranta miliardi di anni luce da qua, il mio popolo guardasse all’insù e
vedesse Dominicus affievolirsi e poi spegnersi? Che cosa succedereb-
be se la Casa stessa su cui poggiano i loro piedi morisse un’altra vol-
ta, mentre io volto loro le spalle?»
Gli avevi detto: «Quindi, se voi morite, le Case muoiono con voi.
La stella che riscalda il nostro sistema collassa, e… diventa un pozzo
gravitazionale, se capisco bene?».
«Sì. Un buco nero, come quello che ha inghiottito Cyrus» aveva
risposto lui. «Posso solo sperare che sarete già tutti morti. Oh, ci sa-
ranno ancora le navi della Coorte… pianeti occupati… una diaspora
di noi tutti… ma saremo così pochi, e così tante persone ci odiano, e
il mio lavoro non è ancora compiuto. Non posso assistere a un’apo-

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calisse del genere, Harrow. Credo tu sia l’unica tra i Littori che possa
davvero comprendere a pieno l’idea di “apocalisse”… non è una mor-
te data dal fuoco. Non è nulla di spettacolare. Tu e io quasi preferi-
remmo la fine, se si manifestasse sotto forma di supernova. È l’ine-
sorabile tramonto del sole, senza la speranza di un altro mattino.»
Entrambi eravate sprofondati nel silenzio.
«Se combattessi le Bestie Resurrezionali lascerei le mie Case a mo-
rire» disse lui. «Se combattessi gli Araldi, potrei diventare pazzo, il
che implicherebbe la medesima cosa. Quindi mi chiudo qua – mu-
rato, in realtà – per impedire che le Nove Case diventino Zero Case,
con farcitura di sofferenza.»
Sembrava esausto. Sembrava molto triste. Aveva detto: «Ripeto.
Non sei l’unica ad avere dei limiti».
«Posso farvi una domanda, Maestro?»
«Non ti sei ancora stufata?»
Gli avevi chiesto: «Chi era A.L.?».
Spalancò gli occhi. Dio si raddrizzò sulla sedia e ti squadrò con sin-
cero stupore, e disse: «Sei sicura di voler imboccare proprio… quella
strada? Svisceriamo prima tutte le altre, quelle meno imbarazzanti.
“Come nascono i bambini?” Lì me la posso cavare, senza problemi.
Voglio dire, non che frema dalla voglia, ma sono pronto. Ho questo
libricino che parla di bebè, corpi, amici e famiglia. Tu e Ianthe state
prendendo precauzioni?».
Ora toccava a te tirarti su dalla poltrona e intonare, costruendo ogni
sillaba con la stessa enfasi rigida che avresti dedicato a uno scheletro:
«Noi… non siamo… intime».
«Perdonami… Cioè, avete più o meno la stessa età, non so più
come funzionano le cose oggi, sul serio, tutti quanti siamo stati vivi
per così tanto tempo…»
«Non c’è nemmeno nulla di sentimentale… o, in tutta franchezza,
nemmeno di platonico…»
«Scusami! Scusa. Scusa» aggiunse lui. «Non dovrei dare per scon-
tate queste cose.»
Se le pitture avessero potuto cuocertisi in faccia e sbriciolarsi come
argilla, l’avrebbero fatto. Se avessi potuto convincere il Santo del Do-
vere a fare irruzione, trapassarti come uno spiedo e portare in pro-
cessione il tuo corpo maciullato in giro per la stanza, l’avresti fatto.

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Avevi accennato ad alzarti. «Se ho esagerato, Maestro, perdonatemi.


Ritiro la domanda.»
«No» fece lui. «Parliamo di lei. Parliamo della mia guardia del corpo.»
Con circospezione, ti eri rimessa a sedere.
Dio disse: «L’hai sentito da Augustine e Mercymorn».
«Sì.»
«Non sarebbe da Ortus. Povero Augustine. Povera Mercy. Si sentono
ancora in colpa… continuano ancora a portare il peso della loro parte di
biasimo. Credo che sia arrivato il momento di raccontarti di A.L., sì.»
Pronunciò il suo nome, come entrambi i suoi santi capricciosi ave-
vano fatto, con le due lettere chiaramente separate: avevi sentito sia la
A che la L. Disse: «Sta per un paio di cose. Uno scherzo, prevalente-
mente. La chiamavo spesso Annabel Lee. Anne Laurie. Quando l’ho
incontrata la chiamavo solo Prima, Uno. Aveva un nome vero, ma l’ho
sepolto con lei e nessuno lo pronuncia più. È morta ormai da quasi
diecimila anni, ma continua a vegliare su di me, come un ricordo, se
non altro… Annabel Lee era la mia… come posso chiamarla? Guida?
Amica? Speravo così tanto che…».
Non sapevi come replicare. Ma lui non pareva aver bisogno di una
risposta. Dio disse: «Lei è stata la prima Resurrezione. È stata il mio
Adamo. Quando la polvere si è depositata e ho osservato quel che era
rimasto e quel che non c’era più, mi sono ritrovato completamente solo.
Il mondo era stato annientato, Harrowhark. Un attimo prima ero un
uomo e un attimo dopo ero il Necrore Supremo, il primo necroman-
te e, aspetto ancor più rilevante, un padrone di casa senza inquilini».
Gli avevi chiesto: «Maestro, che cosa ha distrutto la Casa della Prima?».
«Niente di che» fece l’Imperatore, cercando di sorridere. Fu un mo-
mento orribile. «L’innalzamento del livello dei mari e una reazione nu-
cleare a catena, fissione su larga scala… da lì è andato tutto a rotoli.»
Quella sommessa ammissione ti fornì i primi dettagli che avevi mai
captato sull’estinzione pre-Resurrezione. Come capita con ogni mito-
logia, ti sembrava tutto lontano e irreale. Proseguì: «Non era una bel-
la polvere in cui restare, Harrow. Ero stordito… ero allibito… e lei è
stata la mia protettrice e la mia unica compagna, e anche la mia col-
lega nell’apprendimento dell’arte di imparare a vivere di nuovo. È sta-
to maledettamente difficile. Non ero mai stato Dio».
Qua perse il filo. Poi continuò: «È vissuta abbastanza a lungo da

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vedere cos’è successo alla Casa di Canaan. Non che le interessasse


molto. La mia prima Resurrezione non era un essere umano norma-
le, Harrow, e fingere le costava fatica. La rabbia era il peccato che la
tormentava. Era una caratteristica che avevamo in comune. E quan-
do il prezzo per il Littorato è stato pagato, quando le emozioni han-
no raggiunto il loro picco… abbiamo scoperto il prezzo del nostro
peccato. La mostruosa punizione. Essere inseguiti per il nostro cri-
mine fino ai confini dell’universo, portare in viso la macchia del no-
stro peccato, che ci segue come un tanfo mefitico. È morta dopo il
primo, terribile assalto».
Non gli avevi detto: “Mi dispiace”; non gli avevi offerto empatia.
Così come per tanti altri misteri, anche questo si era rivelato triste e
banale: l’Imperatore delle Nove Case aveva qualcuno e, poi, come tut-
ti i suoi Littori, l’Imperatore delle Nove Case aveva perso qualcuno.
Era la tua storia. Era la storia di Ianthe. Era la storia di Augustine, di
Mercymorn e di Ortus. Era la storia di Cytherea e di tutti i Littori che
erano morti durante quel lungo e oscuro lasso di tempo.
«Capisco perché i primi paladini portano i titoli delle loro Case»
disse Dio. «Ha senso. Ma è una corruzione dell’originale. Lo sai per-
ché, davvero, sei “la Prima”? Perché, molto concretamente, tu e gli
altri siete tutti figli di A.L… nessuno di voi ci sarebbe, se non fosse
stato per lei.»
E poi l’Imperatore delle Nove Case posò la tazza vuota del tè, con
dentro i rimasugli e le briciole del biscotto alla cannella. Non avevi
idea, in quei secondi che seguirono al clink delicato sulla superficie
del tavolo, mentre l’universo tratteneva il fiato, che stava per dirti la
cosa peggiore che ti avessero mai detto. Le linee pazienti e sottili che
gli attraversavano la fronte si incresparono, insieme al contorno di
quegli occhi calorosi, e disse: «Mi piace pensare che somigli a te. Sa-
resti una figlia pazzesca, Harrowhark. Certe volte mi lascio traspor-
tare da un desiderio, mi sarebbe piaciuto che fossi stata mia».
C’era stato un momento, nella tua vita, in cui ti eri convinta di es-
sere sul punto di vuotare il sacco davanti all’altare di Ianthe Triden-
tarius. Ti era stata concessa una tregua. Ma per te, in quell’istante,
non c’era pace. Non avevi venduto il midollo della tua anima per un
paio d’occhi rubati e un po’ di premura buttata lì. Quello che ti de-
molì – idiota abbandonata che non sei altro – non fu tanto Dio, crea-

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tore della Nona Casa, l’Imperatore che tutto concede, il Principe Cle-
mente; la tua fine apparve con le sembianze di un adulto fatto e finito
che ti diceva che gli sarebbe piaciuto se fossi stata sua.
Avevi scaraventato il bicchiere sul tavolo. Si era frantumato in un’in-
fiorescenza d’acqua, con una moltitudine frammentata di schegge a
fare da sepali. Eri salita sul tavolo. Scricchiolava sotto al tuo peso. Dio
si stava alzando, per fermarti, ma avevi già piantato le ginocchia sui
vetri; ti eri inginocchiata umilmente su quei frammenti affilati come
rasoi, premendo i palmi sulle schegge, e ti eri accartocciata in una pe-
nitenza umida e sanguinante al suo cospetto.
Lui disse: «Harrow, no». Era sconvolto. Ti disse: «Ti prego, Harrow­
hark, mi dispiace. Ho ovviamente detto un’immensa stupidaggine…
tendo a farlo, eh… non era mia intenzione ferirti». Disse: «Diecimila
anni, e sono ancora un tale sciocco».
Avresti potuto riferirgli del traditore. Invece gli avevi detto: «Sono
entrata nel Sepolcro Sigillato».
Dopo un attimo, Dio aveva ribattuto: «Non è vero».
«Le barriere della roccia sono state facili da bypassare» avevi spie-
gato. «La discendenza di Reverende Madri e di Reverendi Padri è stata
responsabile del loro mantenimento per anni. Le barriere e gli sbar-
ramenti successivi sono stati più complicati. Avevo nove anni quan-
do ho cominciato e, arrivata ai dieci, ero ormai riuscita a superare il
pozzo. Ho passato un anno intero a lavorare soltanto su quelle ser-
rature. Quando sono arrivata alla barriera sanguigna sulla pietra, la
barriera del guardiano del sepolcro, non sapevo come disinnescar-
la. Resta la struttura magica più complessa che io abbia mai visto. È
stata la mia prima visione del Necromante Divino… ma, un giorno,
quando avevo dieci anni, ho deciso di porre fine alla mia vita, mio
Signore, e a volte penso sia quello che mi ha permesso di oltrepassa-
re la soglia del guardiano del sepolcro. L’ho aperto; ho visto l’acqua
salina che lambisce la riva pietrosa, e mi sono avvicinata al sepolcro.
Ho visto il Sepolcro e ho posato lo sguardo sulla vostra morte. I miei
genitori si sono uccisi a causa della mia eresia. Ho visto ciò che giace
là dentro e lo amerò fin’oltre la mia inumazione. Io… io ho peccato,
mio Signore? Quel giorno ho ucciso entrambi i miei padri?»
Ansimavi, emettendo minute e affilate espirazioni che ti risaliva-
no dal fondo della gola. Eri inginocchiata sui vetri rotti con la fronte

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sul tavolino davanti a lui, inzuppata di sangue e d’acqua; non piange-


vi, ma solo perché non sapevi più come si facesse.
L’Imperatore delle Nove Case era rimasto in silenzio per cinque se-
condi al massimo. A te, erano sembrati centinaia di migliaia di anni.
E poi disse, con grande delicatezza: «No, non l’hai fatto».
Avevi schiacciato il viso contro la superficie del tavolo e avevi chiuso
gli occhi con una tale violenza che la pressione ti pizzicava le soprac-
ciglia e le guance. Non c’era stella che stazionasse con l’immobilità che
avevi tu in quel momento, alla fine della combustione dell’idrogeno,
in attesa col fiato in gola di sbarazzarsi del suo strato più superficiale.
E disse: «Harrow, qualsiasi cosa pensi di aver fatto, non l’hai fatta».
«Ho aperto la porta esterna.»
«D’accordo» fece lui.
«Ho risalito il corridoio.»
«Lo accetto, anche se quella roba è una trappola mortale, letteral-
mente» commentò lui.
«Ho violato la barriera e ho fatto rotolare il masso…»
«È qui che ti sbagli» disse lui.
Non avevi sollevato il capo, ma gli avevi risposto: «Avevo dieci anni,
ma non ero una bambina. Mi sono posta un unico obiettivo. Ho stu-
diato per un unico scopo. Non prendete in considerazione i miei li-
miti, mio Dio: io non sono una persona, sono una chimera».
«Non ci addentreremo in quel tema, ma non devi pensare che io
stia liquidando il genio di una decenne determinata e necromantica-
mente potenziata» disse lui. «Non dico che non l’hai fatto perché non
eri abbastanza brava. Harrowhark, quel che voglio dire è che nessu-
no può essere abbastanza bravo. Non c’è una scappatoia. Ho costrui-
to quella tomba con Anastasia, ho progettato ogni centimetro, e non
ho incluso un punto d’ingresso. Non ho mai voluto che quella tom-
ba venisse aperta, da uno o dall’altro lato. Quella barriera l’ho fat-
ta io, io soltanto, e non risponderebbe al più potente dei miei Littori
così come non risponderebbe al piccolo necromante più tignoso del-
le Nove Case. La loro efficacia sarebbe identica.»
La supernova del tuo cuore si spense; sbiadì, con la stessa rapidità
con cui si era accesa; diventò dura, minuscola, densa. Avevi solleva-
to leggermente il capo e un frammento di vetro ti si era staccato dal-
la tempia, appeso a un filo di sangue rosso.

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«Non può essere distrutta» proseguì lui. «Non può essere neutra-
lizzata. Non può nemmeno attenuarsi; la sua magia è la mia magia.
La discendenza dei Reverendi Guardiani del sepolcro si è affannata
nel nome di un malinteso, se hanno creduto che la roccia potesse es-
sere scostata da qualcuno che non fossi io. È una barriera sanguigna
pura, Harrowhark. Qualsiasi cosa pensi di aver fatto – in qualunque
camera fasulla costruita attorno alla tomba tu sia incappata –, non
c’è nessuna possibilità che tu abbia penetrato quella autentica. Mi di-
spiace così tanto. Sei rimasta coinvolta in una tragedia basata su un
fraintendimento.»
Eri ridotta all’incoerenza delle tue componenti costitutive. Vole-
vi dirgli: “Ho visto il Corpo”. Volevi dirgli: “Ho visto il sepolcro”. Ma
ancora una volta, davanti a un fatto compiuto, eri scossa dal dubbio.
L’incertezza dei folli. La condanna dei pazzi. Nessuno ti aveva visto
superare quella soglia. Nessuno ti aveva vista uscire. Non avevi idea
di quello che ti stesse leggendo in faccia; si era accovacciato e osser-
vava quel tuo stordimento cieco e sanguinante con quegli occhi infer-
nali, e ti carezzò col pollice la tempia, dove si era piantata la scheggia
di vetro, e ti risistemò dietro l’orecchio una ciocca di capelli ribelle
con la delicatezza ordinata e naturale di un genitore.
Poi gli occhi di Dio si spalancarono in una frazione di secondo e la
sua voce si fece del tutto diversa quando ti domandò: «Harrowhark,
chi diavolo ti ha manomesso il lobo temporale?».
Il tuo corpo ruzzolò giù dal tavolo, con una reattività così rifles-
siva e fulminea che non eri certa se quell’azione fosse il frutto di un
tuo sforzo cosciente. La tua carne annaspò per alzarsi in piedi, irta
di frammenti di cristallo e dozzine di tagli che ti avevano trapassato i
vestiti. Ti eri voltata. L’Imperatore aveva esclamato: «Harrowhark?»
mentre ti allontanavi barcollando dal tavolo. E con un tono più la-
mentoso: «Harrowhark!» mentre sbandavi inesorabilmente verso la
porta, ma non ti seguì. In qualche modo la tua mano schiacciò il pul-
sante che la fece aprire – e in qualche modo la tua carne si trascinò
via da lui – e avevi camminato, camminato e camminato.
Mentre la porta si chiudeva forse avevi sentito: «Maledizione,
John… maledizione.» Ma l’ultima cosa che avresti fatto era fidarti
delle tue orecchie.

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Avevi cominciato ad accettare l’idea della tua
morte solo dopo quella serata terribile. Era impossibile ignorare i mol-
teplici segnali di desolazione. Per esempio, il Corpo aveva tenuto fede
alla sua promessa ed era scomparso. Era stata la tua silenziosa com-
pagna sin dall’inizio del Littorato – aveva fedelmente rispettato l’ap-
puntamento segreto con te – e la mattina, dopo il sonno, non riuscivi
a ricordare il tragitto di ritorno verso la tua stanza e ti eri resa conto
che non sarebbe tornata. Nessuno sarebbe venuto a salvarti. La strada
verso la tua morte era spianata, e la donna meravigliosa che giaceva
incatenata al marmo non era riuscita a sopportare di vederti avanza-
re verso quella meta; o forse non era mai esistita a parte che nel so-
gno febbrile di una bambina di dieci anni.
Le ore si dilatarono fino al punto di rottura. Mangiavi con un’im-
passibilità meccanica, anche se avresti preferito non farlo. Ti lavavi
e ti vestivi senza un barlume di interesse. Ora, quando l’occhio ti ca-
deva sul tuo riflesso nello specchio, lo accoglievi con un certo stu-
pore schifato, come se non avessi mai visto prima la tua faccia e, in
tutta onestà, pareva che fosse proprio così. Durante una delle ultime
giornate, avevi scoperto con distaccata costernazione che stavi cer-
cando di lasciare i tuoi alloggi senza nemmeno applicarti le pitture.
Avevi pensato di provare a scrivere una lettera. A chi? A Crux?
Alla Capitana Aiglamene? Alle tue spregevoli prozie? A Dio, a Ian-
the? Dovevi organizzare il tuo funerale, con l’obiettivo di battere i
frugali ventiquattro minuti della Santa della Gioia? Una volta avresti
chiesto che il tuo cadavere fosse rispedito alla tua Casa, affinché fos-
se murato nell’Anastaseo, l’ultima figlia nella discendenza dei guar-

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diani del sepolcro: ma forse anche il tuo involucro vuoto avrebbe at-
tirato un redivivo planetario. No, il tuo corpo non avrebbe mai più
potuto fare ritorno a casa. Avevi deciso di esordire scrivendo: “But-
tatemi fuori da un boccaporto”, ma grazie al cielo quell’espressione
puerile di autocommiserazione ti fece ripigliare un pochino, e rinun-
ciasti anche solo a cominciare.
L’unico vero vantaggio, in quell’ultima manciata di giorni, fu quel-
lo del guerriero dalle mille cicatrici: una in più non ti avrebbe più po-
tuto danneggiare. C’era molto poco che potesse sorprenderti, e mol-
to poco che potesse ancora disgustarti. Ma la penultima notte prima
dell’arrivo presunto della Bestia Resurrezionale, ti era caduto un guan-
to vicino al letto; ti eri dovuta inginocchiare per recuperarlo. E avevi
scoperto che, ben infilato sotto al letto – nascosto nell’oscurità dove
anche tu ti eri distesa in attesa del Santo del Dovere – c’era un cada-
vere inerte: il corpo disperso di Cytherea.
Eri rimasta acquattata in quello spazio tra l’intelaiatura e il pavi-
mento, di fianco al letto, per parecchio tempo. Non avevi percepito
nessuna thanergia estranea nella tua stanza e nemmeno tracce di un
teorema ostile. Persino in quel momento, Cytherea giaceva docile e
polverosa, vuota sotto ai tuoi occhi. Avevi allungato le dita per tastar-
le un braccio: ed eccolo lì, l’onnipresente tocco di Dio che la mante-
neva incorrotta, con il caldo sentore agrumato della sua necroman-
zia divina che ti martellava la base delle cavità sinusali. Se ne stava
coricata e immobile come una bambola abbandonata. Le avevi addi-
rittura detto: «Alzati. Ti ho vista» ma quel comando non la smosse,
chissà per quale ragione.
Allora non ti eri domandata come avesse fatto quel cadavere a far
breccia nelle tue barriere, che riapplicavi con solerzia ogni sera con il
sangue fresco. Avevi esaminato il corpo; avevi serrato le caviglie mor-
te e i polsi morti nella morsa di due robuste pinze d’osso; e poi avevi
marciato giù per il corridoio, e quando Ianthe aveva risposto al tuo
nevrastenico bussare con un sonnacchioso: «Nonagesimus, ma che
cosa…» non le avevi lasciato il tempo di finire la frase e l’avevi trasci-
nata nella tua camera da letto, prendendola per l’oro gelido del suo
braccio scheletrico.
Non aveva protestato e nemmeno offerto un commento, volgare
o meno. Era troppo sorpresa. Quando le avevi fatto segno di guarda-

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re sotto al letto, Ianthe ti aveva squadrata alzando le sopracciglia; ma


si era tirata su la camicia da notte e si era chinata per ispezionare lo
spazio tra il materasso e il pavimento.
E dopo un lungo istante ti aveva chiesto: «Cos’è che dovrei vedere?».
Avevi attraversato un momento incandescente di panico allarman-
tissimo; ma quando ti eri chinata insieme a lei, il cadavere della Lit-
trice era ancora lì, morto e immobile con le sue manette d’osso. Le
avevi detto: «È proprio là.» Lei non ti aveva risposto. Avevi insisti-
to: «Il corpo, Tridentarius. Il corpo di Cytherea. Il corpo di Cytherea
è sotto al mio letto».
Lei non rispondeva. Avevi aggiunto, involontariamente: «È a pan-
cia in su, braccia lungo i fianchi, piedi a un angolo di trenta gradi».
Ianthe si era tirata su, spolverandosi le ginocchia. Ti squadrava con
un’espressione che non riuscivi ad analizzare bene nella luce attenua-
ta, sapevi solo che era stata apparecchiata con grande cura. Ti aveva
detto: «Io… non vedo niente, Harrowhark».
L’avevi fissata. La Principessa di Ida aveva abbassato gli occhi, poi
aveva distolto lo sguardo, tornando però a squadrati deliberatamen-
te, come se le costasse fatica. Avevi capito: era in imbarazzo.
«Stai dormendo?» ti aveva chiesto, con tatto.
«È a mezzo metro da noi, Tridentarius.»
«Non ti biasimerei se la risposta fosse no; i miei sonnellini rigene-
ranti sono seriamente azzoppati, al momento.»
«Toccala. Vai là sotto.» Lei non si era mossa. Le avevi ripetuto:
«Toccala».
Ianthe si era alzata in piedi in silenzio, e le lunghe gonne della sua
camicia da notte – una seta arricciata di un giallo canarino brillante
che la faceva somigliare a un limone elegante – le si radunarono fru-
scianti e pacifiche attorno ai polpacci. Ti aveva detto: «Torno a letto».
Nonostante gli strati di tessuto cicatriziale morto, nella tua anima
c’era ancora abbastanza linfa per risponderle: «Ianthe, per l’amor di
Dio, abbi pietà».
Si era fermata sulla soglia. Quel giallo violento faceva sembrare bian-
chi i suoi capelli, conferendo alla sua pelle un colore che non si riscon-
trava in nessun’altra carnagione. Ti aveva detto, con leggerezza e poco
riguardo: «Buona notte, Harrowhark» ed era uscita dai tuoi alloggi.
Avevi guardato la porta. Avevi guardato sotto al letto. Ti eri avvi-

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cinata al lavandino e avevi aperto il rubinetto per poterti buttare in


faccia l’acqua più fredda che se ne potesse ricavare: avevi inspirato
cinque volte e cinque volte espirato. Avevi abbassato le palpebre, fa-
cendo ruotare gli occhi nelle orbite. A quel punto, eri tornata a guar-
dare sotto al letto.
Cytherea era sparita. C’erano i tuoi ceppi d’osso appiccicati alle tra-
vi del pavimento. Ti eri allontanata suppergiù per tre minuti. Nes-
suna barriera infranta. Avevi perquisito il resto della stanza, ma non
avevi trovato cadaveri. Ti eri coricata sul letto e, se solo ne fossi stata
capace, avresti potuto piangere amaramente per l’acuto desiderio di
trovare sollievo. Ma non potevi; e nessun sollievo arrivò.

* * *

L’ultimo giorno, per l’ultima volta, il Santo del Dovere cercò di ucciderti.
Stavi uscendo dall’atrio dell’area abitativa… ti eri fermata, per un
secondo, all’ingresso della tomba dove il corpo di Cytherea non ri-
posava più in pace, forse nella speranza che potesse rimaterializzarsi
sotto ai tuoi occhi, riscrivendo la realtà… e quando inevitabilmente
non era accaduto, te n’eri andata, augurandoti di trovare i rimasugli
degli avanzi di qualcuno da sgranocchiare in cucina.
Ortus era apparso dal nulla e ti aveva colpita come il martello di
Dio. Ti era saltato addosso appena avevi messo piede in corridoio:
ti aveva scaraventata contro il muro con tutto il peso del suo corpo,
producendo un immane crunch e concludendo prematuramente la
lunga permanenza nell’aldilà di uno scheletro cesellato e tempestato
di perle nere che era stato fissato alla parete che ospitava una volu-
minosa fascina cascante di fogliame d’ebano. Ti eri automaticamen-
te risistemata gli oblunghi spezzati delle ossa nasali mentre lo scara-
ventavi via, risvegliando il monumento incrinato in una batteria di
palmi che stantuffavano in avanti, sostenuti da una poderosa artico-
lazione sinoviale. Si era schiantato contro la parete opposta e tu ave-
vi battuto in ritirata giù per il corridoio, sanguinando un po’ e misu-
rando la distanza che ti separava dalla sua lancia.
Ti aveva abbaiato: «Sguaina la spada».
Avevi allungato il braccio all’istante verso la lama foderata d’osso
che tenevi agganciata alla schiena. Lui ti aveva detto, con una punta di

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frustrazione: «Lo stocco» e tu eri rimasta lì a guardarlo e basta. Bran-


diva la lancia nella mano sinistra, la punta era un presagio di sventura
affilato come un rasoio, e nella destra stringeva lo stocco, disadorno
a parte il nastrino scarlatto; un decrepito bouquet funerario giace-
va scomposto ai suoi piedi. Ortus non si rasava la testa da suppergiù
una settimana, e la peluria sul suo cranio ossuto era una calotta di pa-
gliericcio bruno-rossastro, come uno schizzo di sangue dimenticato.
«Non hai motivo di uccidermi» gli avevi detto, meravigliandoti
all’improvviso della semplicità con cui eri giunta a quella conclusione.
Il Santo del Dovere non ti rispose. Era ritto in mezzo al corridoio
con il volto impassibile. Avevi proseguito: «La Bestia Resurreziona-
le sarà qui fra poche ore. Morirò. E tu vieni ad ammazzarmi ades-
so?». Lui non rispondeva. «Non è il gesto di qualcuno che vuole sba-
razzarsi di una zavorra. O mi vuoi ammazzare per divertimento – ne
dubito – o per rabbia – non sono certa del perché – o per tornacon-
to personale.»
Ortus ti squadrò di nuovo. Poi rinfoderò quel suo stocco sobrio e
orientò la terrificante punta della lancia verso il soffitto.
«Ti sbagli» disse.
«In che modo?»
«Sei ancora una zavorra.»
«Spiegami.»
Credevi che non ti avrebbe risposto. Ma poi aveva proseguito, a
scatti, come un uomo che cerca di dire qualcosa di difficile in una
lingua che non sa parlare bene: «Non andare nel Fiume. Falla finita,
da sola. Prima che facciano breccia. Tagliati l’ossigeno. O quel che ti
pare». Vedendo la tua espressione, Ortus aveva aggiunto, come se si
trattasse di una vera spiegazione: «Così non… soffrirai».
«Perché la mia sofferenza dovrebbe interessarti?»
«Perché sono io quello che ha fallito, con te» aveva detto, secco.
«Mano troppo leggera.» E: «Mi dispiace».
E, cosa ancor più orribile di tutte: «Non è stata una mia idea».
A quel punto, il Santo del Dovere aveva girato i tacchi e ti aveva
piantata lì, scomparendo nella bocca del corridoio, verso l’atrio dell’a-
rea residenziale e oltre. Eri stata folgorata all’improvviso dalla con-
vinzione che l’universo non ti avrebbe giudicata se ti fossi coricata in
quel corridoio, scrollandoti di dosso quindici anni per poi abbando-

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narti a uno sclero monumentale; se avessi percosso i freddi pannelli


del pavimento sotto di te con le mani e i pugni, singhiozzando. Sare-
sti morta con così tante domande prive di risposta, saresti passata a
peggior vita senza capire un beneamato cazzo di niente.
«Di chi è stata l’idea?» gli avevi gridato dietro, con la voce che si
acutizzava in uno strillo. «Di chi?»
In un certo senso, aveva aiutato. Nulla poteva potenziare la tua de-
terminazione a vivere come qualcuno che ti suggeriva che fosse me-
glio morire. Dieci minuti dopo eri in cucina in uno stato che somi-
gliava molto al brio a mangiare gli avanzi di uno stufato, ingozzandoti
con quell’ultimo pranzo prima dell’apocalisse. Ed eri arrabbiata. E da
arrabbiata sei sempre stata una vera cagacazzi.

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Gli Araldi della Numero Sette – il fantasma di un
pianeta assassinato a sangue freddo nei domini di Dominicus – arri-
varono quella sera, circa quarantatré minuti prima dello spegnimento
previsto delle luci abitative. Erano già state abbassate per conservare
energia, visto che, all’apparenza, il meccanismo di difesa imprigiona-
to all’interno di un Littore non aveva bisogno della luce per combat-
tere – né di percezioni sensoriali di alcun genere, anzi; Mercymorn
aveva detto che non percepivano nemmeno il dolore. Al contrario di
loro, tu avevi generalmente bisogno della luce e sentivi male, ma eri
anche la Reverenda Figlia della Nona Casa. Il primo aspetto era ne-
goziabile, il secondo era irrilevante.
Quando il primo Araldo sfondò la guardia d’onore di asteroidi
del Mithraeum, non fu particolarmente terrificante. Avevi comple-
tato i tuoi preparativi. Sedevi sul pavimento, di fronte alla finestra
che affacciava sul niente. Ti eri tolta lo spadone e te l’eri appoggiato
davanti, come se si trattasse di un talismano a te caro e non di una
reliquia rivoltante e straniante, un fardello spaccaschiena che la de-
funta te stessa ti aveva ordinato di portare. Ti ci eri quasi affeziona-
ta, tranne quando lo guardavi – a quel punto ogni benevolenza ve-
niva neutralizzata.
L’emissario della Bestia atterrò su una porzione dello scafo del Mi-
thraeum molto lontana da te. Non ne avevi sentito l’impatto né il ru-
more. Solo quando la voce di Augustine era emersa dal comunicato-
re – «Impatto confermato. Quadrante occidentale, terzo anello, sala
macchine» – ne avevi registrato l’esistenza.
La voce di Dio: «Fra quanto ti troverai nell’aura?».

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«Dipende. Nuovo impatto. Sempre occidentale, terzo anello, stes-


so punto. Si stanno concentrando? Impatto. Quadrante nord, anello
abitativo. Ortus, è abbastanza dalle tue parti.»
Stridore. «Sto bene.»
Altra statica: la voce di Mercy. «Meno chiacchiere sul canale. Aspet-
tate finché non sfonderanno. Prima cercheranno di schiacciare noi e
poi metteranno a ferro e fuoco la stazione.»
«Nessuna alterazione della temperatura» disse Dio.
Poi l’avevi sentito: quel primo thump vibrante, dal suono sembrava
sorprendentemente vicino. Da sopra di te – orientarsi era difficile; le
percezioni thanergiche irrilevanti – quella che dal rumore si sareb-
be detta una piccola meteora aveva colpito lo scafo del Mithraeum.
Silenzio prima, silenzio dopo. Nessun ruggito in lontananza, perce-
pito attraverso il tremolio dello scafo e delle paratie – niente frago-
ri mostruosi, niente di spettacolare. I messaggeri della Bestia Resur-
rezionale erano arrivati senza fanfare e, per un istante, avevi provato
del risentimento nei confronti di quell’anticlimax.
Augustine, sul comunicatore: «Confermato. Quadrante orientale,
abitativo. È da voi, ragazze. Non mordetevi la lingua».
Pensavi si trattasse di una delle solite battutine di Augustine, fin-
ché la paura non ti investì.
Ti investì sotto forma di odore. Le narici fremevano e avevi la
testa piena di uno strano tanfo petrolifero, che rievocava antiche
macchine; ma c’era un substrato dolciastro, come il vomito. Ti as-
salì come un’emicrania a grappolo. E poi il pugno – come quelli ai
reni della Santa della Gioia – alla parte bassa dello stomaco, che ri-
saliva lungo la linea di mezzeria del tuo corpo, afferrandoti il cuo-
re fra i denti e scrollandolo. I palmi ti si inondarono di sudore. Dal
profondo della gola ti era risalito un singulto gorgogliante – avevi
cercato di chiudere gli occhi come se potessero offrirti una via di
fuga, ma non era quello il caso – e ti eri sbilanciata in avanti, ansi-
mando, i battiti strepitanti, le orecchie assordate. All’improvviso ti
eri convinta che ci fossero delle cose minuscole che ti strisciavano
sulla pelle – ti eri grattata gli avambracci come una forsennata –,
tremavi convulsa, come se potessi scrollartele di dosso; ti toccavi
le orecchie come un’ossessa; inorridivi quando una ciocca scompi-
gliata ti ricadeva sulla fronte.

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Ma per quanto sbandassi – ti tormentassi… percepissi…–, com-


battevi anche. Ti eri trasformata in un’inspirazione e un’espirazio-
ne – ti eri ridotta a un’unica sensazione, seguendola dalle estremi-
tà inferiori, dalle dita dei piedi, per poi risalire lungo ogni linea del
tuo corpo, fino al cocuzzolo della testa. Mentre quella sensazione
saliva, anche lo sdegno che provavi per quella pazzia estranea sta-
va montando. Ti bastava già abbondantemente dover gestire la tua.
Dopo una manciata di minuti, ti eri ripresa e quel che restava era
solo un vago imbarazzo, il desiderio di grattarti e uno sfogo blan-
do da calore.
Ianthe urlava nel comunicatore. Tutti quanti aspettarono educa-
tamente che finisse.
Le avevi detto: «Tutto qua?».
E con uno scoppio di risa, Dio aveva risposto: «Sarà così finché non
faranno breccia, Harrowhark».
La voce della Principessa di Ida scaturì dal comunicatore, un po’
rotta. «Quanto manca?»
«Più di un’ora» fece Mercy.
E Augustine aggiunse: «Tenetevi forte, piccoline. Il divertimento
comincia adesso».

* * *

La tua stanza era sprofondata da un bel pezzo in un’oscurità qua-


si totale, eliminando ogni possibilità di distrazione dal poderoso
thump, thump, thump oscillante dei corpi che, uno dopo l’altro,
si schiantavano sulla grande massa che già foderava lo scafo. Non
c’era niente da vedere – le paratie erano abbassate – ma riuscivi a
percepire quella vibrazione terribile, a sentire il gemito della chi-
tina sul metallo, la cataclismica lacerazione prodotta dagli artigli
fungini sull’acciaio.
Faceva molto freddo. Una patina traslucida di gelo ti ricopriva le
guance, i capelli, le ciglia. In quell’oscurità soffocante, i tuoi respiri
erano fili di fumo grigio e bagnato che risalivano alla superficie. Di
tanto in tanto ti lasciavi scappare un grido, il che non ti imbarazzava
nemmeno più. Comprendevi la reazione del tuo corpo a quella pros-
simità. Urlare era il meno, date le circostanze.

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La voce di Dio, molto calma, arrivò dal comunicatore: «Dieci mi-


nuti alla breccia».

* * *

E ti eri avviata verso la morte come un’amante.

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Epiparodos
NOVE MESI E VENTINOVE GIORNI PRIMA DELL’ASSASSINIO
DELL’IMPERATORE

«Queste due sono indirizzate a te» disse Harrow­


hark Nonagesimus. «Vanno aperte solo in seguito alla mia morte o al
manifestarsi dell’altra eventualità, anche se nutro ben poche speran-
ze che tu non le apra nell’istante esatto in cui mi girerò dall’altra par-
te. Le altre ventidue sono scritte in un codice inespugnabile che solo
io posso decriptare, è interpolato con un falso codice civetta che, an-
che solo posandoci sopra lo sguardo, maledirà te, la tua famiglia e le
ossa dormienti dei tuoi antenati fin quando il nome di Ianthe Triden-
tarius non continuerà a essere bisbigliato e udito da orecchio necro-
mantico. Ventiquattro, in tutto.»
«Per quanto mi riguarda, mi sarei fatta bastare una barriera san-
guigna» disse Ianthe.
«Le barriere sanguigne sono per chi manca d’immaginazione» fece
la ragazza dal viso eccezionalmente snudato. La Nona necromante
senza pitture si rivelò essere una suorina dal volto smilzo e dalla man-
dibola diamantata, con sopracciglia scurissime separate da una ruga
d’espressione accrocchiata – il suo aspetto era stupefacente, di certo,
persino spirituale, un ottimo soggetto per un dipinto, per chi fosse di-
sposto ad accontentarsi di La Nona Casa Ingrugnata. «Visto che non
posso ragionevolmente aspettarmi di non sanguinare più per la pros-
sima miriade, non posso fare affidamento su una barriera sanguigna,
e non dovresti farlo nemmeno tu. Vogliamo procedere o no, Terza?»
«Potrebbe non funzionare.»
«Me l’hai già rammentato.»

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«Te lo ripeterò. L’operazione potrebbe non riuscire. O potrebbe


funzionare, ma solo in via temporanea. Potrebbero manifestarsi ef-
fetti collaterali di ogni genere: disfunzioni fisiche – se affaticherai
troppo il cervello, con un qualsiasi intervento di tipo chirurgico po-
trebbe semplicemente rimarginarsi – e se stai facendo quello che so-
spetto tu stia facendo, il tessuto cicatriziale ti organizzerà un’allegra
gita all’inferno. È una faccenda pesantemente sperimentale. E andan-
do più dritta al punto, è una roba da squilibrati totali, cazzo.»
I loro sguardi si incrociarono nello specchio. La ex Reverenda Fi-
glia se ne era sistemato uno davanti e uno sopra la testa, retto da due
scheletri dalla disposizione docile che palesemente adorava. Ianthe
continuava a non comprendere il fascino ipnotico dell’oscura predi-
lezione per l’osso; era come se qualcuno avesse deciso di rendere la
magia corporale meno flessibile, meno precisa, e molto meno inte-
ressante da guardare. Com’era quella battuta? La Nona Casa conosce
un migliaio di sfumature di bianco sporco?
Abbassò lo sguardo sul vassoietto degli attrezzi – bisturi, sega, una
bottiglietta d’acqua con un nebulizzatore – e si stupì a dire: «Nona.
Forse questa è un’obiezione fuori tempo massimo, ma mio malgra-
do eccola qua. Spiegami cosa stai facendo. Raccontami i dettagli di
questo tuo piano fosco, oscuro e nebuloso. Se non lo fai, non pos-
so assicurarti di non essere a tanto così dal vederti trasformata – dal
mio bel posto in prima fila, per giunta – in un fantoccio balbettan-
te, o peggio. Un vegetale. Un ciocco di legno. Una rubrica di consi-
gli della Quarta Casa».
La suora non le rispose. Ianthe modulò il suo tono rendendolo il più
sommesso e suadente possibile, e insistette: «Aiutami a capire per-
ché conta così tanto per te, Nona. Pensa a quello che hai promesso.
Rifletti su quello che sono e su quale utilità potresti ricavare da me.
Io sono una Littrice. Sono una principessa necromante di Ida. Sono
la necromante più brillante della mia generazione».
«Ti piacerebbe» fece Harrowhark.
«Stupiscimi, allora» disse Ianthe, inamovibile.
Allo specchio, quel viso inconsueto e spitturato, si irrigidì. Le labbra
si compattarono fino a ridursi al marroncino pallido delle rose, cine-
ree. Ianthe si sorprese a riflettere su quello che quella faccia avrebbe
potuto farci – il labbro superiore era delicatamente incurvato, come

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se il pittore non fosse riuscito a trattenersi dall’aggiungere un abbel-


limento in un punto che credeva nessuno avrebbe notato; l’arco di
quel prolabio si avvicinava alla poesia. La guancia era di una leviga-
tezza irragionevole, considerando la quantità di biacca topologica che
quei pori della Nona Casa dovevano aver subito; le palpebre carno-
se, incavate, infoltite dalle ciglia nere, un vezzo che nessuno in quel
mausoleo ermetico aveva pensato di estirpare. E tutto questo senza
nemmeno tener conto che quella faccia era tesa e scavata dai segni
famelici del supplizio; che si era appositamente rasata la testa quasi
a zero, lasciando solo delle capocchiette nere a punteggiarle il cranio.
E poi c’erano gli occhi, in sé e per sé: quel solenne nero senza luce
che, indipendentemente da qualunque rictus il volto della suora po-
tesse assumere, non riusciva a celare la donna; ora si affacciavano dal
viso di Nonagesimus con un fascino muto e scorticato, severi e tu-
multuosi come un muscolo spellato.
«Ti impressionerò così» disse la Nona necromante, funesta, pri-
ma di zittirsi.
Poi riprese: «L’ho chiesto a te per un motivo. La motivazione non
ha a che fare col tuo genio, di cui ammetto l’esistenza. Chi reinge-
gnerizza all’inverso il processo Littoriale non può essere che un ge-
nio. Ma non ho visto nient’altro che mi abbia persuasa a credere che
tu sia più di… una specie di ginnasta necromantica, che si esibisce in
trucchetti spettacolari senza preoccuparsi della teoria. Non sei nem-
meno del calibro di Sextus».
«No» fece Ianthe, svagata. «Ma la testa di Sextus è esplosa, dimo-
strando al mondo che non aveva tenuto conto proprio di tutto.»
«Potrò anche essermi dimostrata necromanticamente superiore
a Sextus; ma lui era una persona migliore di me. E tu non sei degna
nemmeno di ripulire i resti sanguinolenti di quel cervello dalla pare-
te» disse la Nona. «Sei un’assassina, una truffatrice, un’imbrogliona,
una bugiarda, una spiona e incarni i peggiori difetti della tua Casa –
proprio come me – ciononostante, non l’ho chiesto a te perché sei
una Littrice, Terza. Non te l’ho chiesto nemmeno perché la tua co-
noscenza della materia è considerevolmente maggiore della mia.»
«Dimmelo, allora, perché sono proprio stufa di star qua a sentire
l’elenco dei miei difetti» disse Ianthe, con più impazienza.
L’adepta dell’ombra si guardò allo specchio. Quei grandi occhi neri

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erano delle pozze vuote: voragini abissali – una macchia di petrolio


nel buio – o orbite ancora da riempire.
«L’ho chiesto a te perché tu sai cosa significa» le disse a singulti,
«essere… fratturata.»
È di queste piccolezze che è fatto il dolore.
«Harrowhark» disse Ianthe. «Lascia che ti dia un consiglio. È gra-
tuito e intelligente. Tornerò sui miei passi – ovvero accoglierò con
la più benevola e dolce disposizione d’animo tutto quello che hai già
fatto per me – se ammetterai che stai scappando. E che scappare è
da stupidi e da bambini. Tu sei una Littrice. Hai pagato il prezzo. La
parte più difficile è finita. Sorridi all’universo, ringrazialo per la sua
generosità, e prendi posto sul tuo trono. Ora non devi più risponde-
re a nessuno.»
«Se credi davvero che sia tu che io non siamo più indebitate che
mai» disse la ragazza, «sei un’idiota.»
«Chi altro è rimasto? Cosa è rimasto?»
Nonagesimus chiuse fugacemente gli occhi. Quando si riapriro-
no, uno… non era corretto. Fissò il suo riflesso eterocromatico, il suo
sguardo notte-giorno, quelle iridi celestialmente scompagnate. Una
nera. Una dorata.
Poi la Littrice della Nona Casa disse, stringata: «Stiamo perden-
do tempo. Aprimi».
«Sarà peggio per te, alla fine. Nonagesimus.»
E Harrowhark tuonò: «Fallo, codarda sleale, me l’hai giurato! Sco-
pri il cervello: guidami… e lascia che da lì in poi me ne occupi io! C’è
ancora tempo, e me lo stai rubando!».
«D’accordo, sorella» disse Ianthe, allungandosi per prima cosa sul-
lo scalpello. Il martello sarebbe stato il successivo; il martello per la
mano viva, lo scalpello per quella morta. Lo piazzò in alto sull’osso
frontale, aguzzò lo sguardo e si calibrò. «È ora di mandarti il cervel-
lo a puttane.»
E vibrò il colpo.

* * *

Mentre Harrowhark dormiva, immersa in un sonno da cui era pos-


sibile non si svegliasse più, il viso attraversato dai segni di una spos-

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satezza tignosa e sofferta, Ianthe si mise seduta e la osservò. Non


aveva avuto il permesso di assistere all’intero procedimento; per un
certo lasso di tempo era stata costretta a stazionare dietro a un pa-
ravento, girandosi i pollici mentre quelle mani dilettantesche e para-
noiche frugavano qua e là in un modo che, auspicabilmente, avreb-
be impedito a Harrowhark di coordinarsi a sufficienza per pisciare,
se al mondo ci fosse stato anche solo un briciolo di giustizia. Ora po-
sava le dita su quel cranio pelato, cercando di decifrarlo, cercando di
vedere con esattezza quel che gli era stato fatto.
Si arrese dopo pochi minuti – era impossibile da stabilire con il loro
livello di privacy Littoriale, nemmeno così da vicino. Niente emorra-
gie, di sicuro. Era tutto al suo posto. Forse una piccola riduzione del
lobo temporale, qualche grumo fuori servizio in quelle stesse circon-
voluzioni del temporale, ma potevano essere lì già da prima. Come
ultima dimostrazione di meschinità, Ianthe attirò fuori dal cuoio ca-
pelluto una nuova coltivazione di quei capelli di un nero senza luce,
e armeggiò coi follicoli in modo che sputassero fuori un piccolo ex-
tra, condannando la suora della Nona Casa a scorciarseli quasi inces-
santemente. Sono le piccole cose che contano di più.
Si piazzò accanto alla porta e osservò il respiro che riempiva im-
percettibilmente quei polmoni, dentro… e fuori… e dentro. Sul viso
c’erano degli aloni di sudore che in quella luce sembravano lacrime.
Stuzzicò la sua immaginazione per pensare a Harrowhark che si ad-
dormentava piangendo, come ogni bambina col cuore spezzato. Che
stupida. Che atto distruttivo, romantico, ridicolo. Era sempre una ben
precisa tipologia di coglione che si approcciava in quel modo all’amo-
re – coglioni molto bravi e talentuosi, che erano ultra abituati a usare
le mani per stringere le redini e non sapevano come gestirsi quando
non le avevano più in pugno… e nemmeno disponevano della perso-
nalità necessaria per riprendersele.
Ianthe aveva quel tipo di personalità. E aveva anche qualche anno
di vantaggio su Harrow.
«Un giorno sposerò quella ragazza» disse ad alta voce. «Potrebbe
giovarle.» E: «Ma più probabilmente no».
E poi Ianthe la Prima andò a trovare un uomo, a proposito di una
regina.

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ATTO QUINTO
ACT ONE

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40
??? ??? ???

Harrow Nova brandiva lo stocco nero con la


punta verso l’alto, in direzione dell’anello superiore. Teneva il braccio
secondario incrociato sul petto, la noccoliera accostata alla clavicola,
dove la catena nera di Samael Novenary tintinnava stonata – vero ac-
ciaio nero del Drearburh, ogni anello una testa di morto, la chiusura
pesante una farfalla di pelvi d’osso imbottito di piombo. Aveva i ner-
vi d’acciaio; le sue budella erano di un materiale meno nobile, a causa
di una bizzarra mescolanza di paura e furia. Avevano assunto la con-
sistenza di una zuppa pastosa, del porridge caldo. «In guardia» disse.
«Harrow» fece il paladino che aveva di fronte, «non dobbiamo far-
lo per forza.»
«Allora ritira ogni tua pretesa e riconoscimi come prima paladi-
na, bietolone, verme, mollaccione che non sei altro. Ti sono superio-
re in ogni aspetto. Non possiedo né la tua stazza né la tua forza ma
mi sono addestrata per uno e un solo obiettivo, e questa opportuni-
tà non mi verrà negata.»
«Sì, Harrow; ma mio padre mi ammazzerebbe» disse lui.
Ortus Nigenad incombeva mestamente su di lei. Gigantesco nelle
sue vesti e stivali nuovi – bisacce nuove comprese –, con lo stocco di
sua nonna. Gli stivali nuovi e lo stocco glieli invidiava, ma le bisac-
ce no. Erano stati appena prodotti – ossidiana e il tipo di tela più re-
sistente, dovevano aver dato fondo alla tesoreria. Harrow si doman-
dò con amarezza se i suoi genitori non avessero venduto qualcosa.
Ortus era tutto muscoli e grasso; possedeva l’enormità richiesta

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a un moderno paladino della Nona Casa che lei non aveva mai avu-
to la minima speranza di eguagliare. Non ci aveva mai provato. Har-
row si era resa conto, sin dagli albori della sua carriera, che se non
poteva contare sulla stazza, sul peso e nemmeno sulla considerevole
ampiezza, avrebbe invece dovuto lavorare sulla velocità, la tecnica,
la destrezza. L’aveva stabilito quando aveva suppergiù cinque anni.
Vedendosi negare le armi, Harrow aveva scalato il monumento
Anastaseo e aveva recuperato la catena di Samael, la sacra reliquia del
servo guerriero dei guardiani originari della tomba, morto da tempo
immemore; per quel peccato era stata obbligata a spogliarsi di fronte
all’altare davanti al quale si parava oggi, mentre il Reverendo Padre
la prendeva a frustate sulla schiena, finché non era intervenuta la Fi-
glia. Ora Harrow aveva la catena, ma la Figlia non le aveva mai per-
messo di scordare quella sua intercessione.
«Harrow» disse il paladino dal volto teschiato e dal lugubre aspet-
to – quando si era congedato dal suo incarico, cinque anni prima,
Mortus aveva impresso il teschio su suo figlio, nel momento stesso
in cui l’erede necromantica adottata designava ufficialmente Ortus
come suo primo paladino; le linee delle cicatrici spiccavano nitida-
mente sotto le pitture – «non ti lasceranno mai andare. Vorrei tanto
che lo facessero. Non fremo dalla voglia di partire per la Prima Casa
– non oso immaginare di servire un Littore, per non parlare di ritro-
varmene uno davanti, come all’epoca di Nonius.»
«Matthias Nonius non ha mai incontrato nessun cazzo di Littore.»
«Dalle cronache risulta chiaro che…»
«Mancava mezza pagina!»
«Una suggestiva integrazione stabilisce con chiarezza che…»
«Io sono la figlia della Nona Casa» fece lei, interrompendo qual-
siasi cosa volesse spiegarle a proposito di quella suggestiva integra-
zione. «Sono la promessa non mantenuta e i denti insanguinati del
teschio mai baciato. Riconosco di essere una crudele delusione. Po-
trò anche essere stata sostituita – e potrò anche non essere la vera
erede dei misteri che appartengono solo alla Reverenda discenden-
za – ma brandirò la spada! Se non sono un’adepta, allora è mio dirit-
to impugnare la spada!»
Ortus Nigenad si asciugò il sudore dalla fronte. La luce delle can-
dele lambiva le dolorose incisioni sul suo volto, ma la sua espressione

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non si intonava alla loro temibilità. I panieri d’osso che portava sul-
la schiena emettevano un piacevole fruscio, come la buca della sab-
bia dei bambini.
«Harrow» disse. «Non è nemmeno per lei che desideri brandire
quella spada.»
«No» rispose. «Spero che la cuociano viva nell’olio bollente. Spe-
ro che precipiti in una voragine davanti a una gran folla di spettato-
ri. Spero che qualcuno le prenda a cesoiate i tendini dei talloni. Avrei
una voglia matta e assolutamente sincera di vederlo succedere. Com-
prerei pure il biglietto.»
Ortus disse, tremebondo: «Ma lo sai che è piuttosto…».
«No.»
«E che sta perorando…»
«Continua la frase» fece lei, «e conoscerai il dolore.»
«Harrow» le disse, mogio, «farei cambio col secondo paladino in
un batter d’occhio. Sarebbe comunque un grande onore, servire come
paladino in seconda del Drearburh! E restare a casa, prendendomi fe-
delmente cura della famiglia, senza avventurarmi tra le braccia ostili
dello spazio, verso casate sconosciute! Ma anche se io dicessi: “Sì, ri-
conosco Harrow Nova come mia superiore”, tua… la Reverenda Ma-
dre e il Reverendo Padre non lo accetterebbero. Dovresti uccidermi,
prima che possano prenderti in considerazione. Ed essere ucciso è
l’ultima delle mie ambizioni.»
«Hai ragione» disse Harrow.
Il suo sollievo era palpabile. Le spalle gli si afflosciarono in avanti,
anche se era possibile che quello dipendesse dalle bisacce che gli ac-
centuavano la scoliosi. Aiglamene lo rimproverava sempre per la po-
stura. «Guarda Harrow. Dritta come un monumento» era solita dire.
«Tu te ne stai lì in piedi come uno stramaledetto amo da pesca.» Or-
tus si appoggiò pesantemente a una panca, sospirando sollevato, e
disse: «Grazie. Bene. Sono contento».
«E la considero una solida argomentazione» proseguì Harrow.
Scostò la spada dal petto e srotolò la catena dalla spalla, afferran-
done l’estremità ferrata tra le dita guantate. La furia che vorticava
dentro di lei si era risolta in un moto torrentizio, come metallo cola-
to in uno stampo e, al solito, la spada era diventata un’estensione del
suo braccio. «Preparati a morire, Ortus Nigenad. Raccomanda la tua

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anima al Sepolcro Sigillato, alla roccia e alle catene, e spera che gal-
leggi sulla superficie del Fiume.»
«Per carità di Dio, Harrow, per favore.»
Le loro voci avevano viaggiato. La porticina della sacrestia si spa-
lancò; il Maresciallo Crux apparve, decrepito, abbigliato con i suoi
pellami ammuffiti più formali, il viso disfatto atteggiato in un’espres-
sione inorridita, le mani macchiate che tremavano per l’indignazione.
«Spade sguainate!» sbraitò. «Spade sguainate nel nartece… davanti
all’altare, al cospetto delle mense votive, sotto allo sguardo delle ico-
ne! Ci infanghi. Ci insozzi. Degradi questo luogo.»
«Perdonatemi, Maresciallo» disse Harrow.
«Non sto parlando con te» gracchiò Crux, con solenne dignità. Crux
era l’unica fonte affidabile di sostegno nella vita di Harrow; era un so-
stegno che veniva sempre impartito in una maniera che risultava or-
rendamente iniqua per chiunque altro, ma era comunque sostegno e,
per quanto malaccetta la rendesse, non l’avrebbe scambiata con la te-
nerezza di chiunque altro. «Sto parlando con il primo paladino. Or-
tus il Nono, sciocco che non sei altro, dovresti essere più giudizioso.»
«Perdonatemi, Maresciallo» fece Ortus umilmente, come era sua
consuetudine, come se c’entrasse qualcosa. Certe volte Harrow lo
odiava per questo.
«Mi rifiuto» disse Crux, sdegnoso. «Vai, corri dalla tua sciroccata.
Hanno quasi terminato i preparativi.»
Il primo paladino si irrigidì e, con una lievissima sfumatura di bia-
simo, borbottò qualcosa. Il tenore di quel suo mormorio non bastava
a renderlo difensivo; Ortus, per quanto avesse superato i trenta, non
poteva fare altro che bofonchiare di fronte al maresciallo.
Crux abbaiò un suono troppo decrepito per essere una risata.
«Come dici? Cos’hai detto, imbecille? Non dovrei chiamarla così? Ma
strozzati… datti fuoco… sotterrati. Se avrai il fegato di andare a riferire
a quella sgallettata come la chiamo, la mia opinione di te migliorerà.»
Ligio al dovere e senza offrire autodifese più sostanziose di un enor-
me sospiro afflitto, Ortus si avviò in direzione della sacrestia. Mentre
si allontanava, borbottò: «Triste è il giorno in cui spediamo un detri-
to a farci da campione… triste è il giorno in cui mandiamo un rifiuto
a farci da spada. Harrowhark» – solo Crux aggiungeva quell’-hark;
veniva meticolosamente eliso da chiunque altro, perché ricordava

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alla gente che era… – «devi avere più riguardo per la tua arma, e non
sguainarla davanti all’altare».
Le si accostò malfermo, scosso da una tosse pastosa, e aggiunse un
sussurro roco e chiaramente udibile: «Abbiamo dei pellegrini qui, per-
sino ora. Sarebbe opportuno scusarsi».
C’erano dei pellegrini; era in imbarazzo per non essersene accorta.
Dovevano essere entrati senza che ne avesse percepito la presenza.
Due visitatori erano chini sugli inginocchiatoi, con le loro vesti eccle-
siastiche nere bordate di marrone attorno alla spalla destra a esplici-
tare l’appartenenza a una determinata Casa. Infilò lo stocco nel fo-
dero sdrucito, si riavvolse alla spalla la catena che aveva lucidato con
tanta perizia e si profuse in un inchino poco convinto in direzione
dell’altare, prima di avviarsi lungo la navata.
Vedendola arrivare, una dei pellegrini si abbassò il cappuccio. Por-
tava gli occhiali e la folta chioma castana era ordinatamente raccol-
ta all’indietro con una retina nera, come da usanza; l’uomo accanto a
lei si era rasato la testa e continuava furtivamente a passarci sopra le
mani, come un bambino alla prima tonsura. Harrow fu sorpresa di
vedersi rivolgere dalla prima pellegrina un sorriso stanco e tribolato,
come se la donna la conoscesse già. Era il classico sorriso rammari-
cato che si riserva a chi ha toppato un esame perché non ha studia-
to abbastanza. Harrow non l’aveva mai vista prima in vita sua. Non
la conosceva. Non conosceva suo marito.
Solo che… come faceva a sapere che quel tizio era il marito di quel-
la donna?
«Non è così che va» disse Abigail.

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??? PRIMA???

La musica scartavetrava le orecchie di Harrow­


hark. Ai suoi sensi allarmati pareva che gli strumenti a corda, le vio-
le, il piano, suonati insieme rispondendo a modulazioni meticolose e
di buon gusto, si stessero scatenando a tutto volume dritto nelle sue
cavità timpaniche. Dentro all’anfiteatro faceva molto caldo e, nono-
stante il delicato bagliore delle candele – e nonostante le luci elettri-
che fossero state smorzate per garantire una sommessa attrattività al
massacro assortito di quella folla, nella sua panoplia di tinte che ca-
vavano gli occhi – le pareva comunque che gli occhi le sanguinasse-
ro. Il velo ufficiale delle Reverende Figlie le era stato tirato indietro
e appuntato sul capo – e messo così non le sarebbe servito a niente.
La folla, perlomeno, si diradava in modo considerevole nelle vici-
nanze della loro delegazione: indipendentemente dallo stupore susci-
tato dall’occasione e indipendentemente dalla scarsità di spazio nella
sala, nessuno voleva davvero accostarsi alla Nona Casa. Harrowhark
se ne compiaceva per due ragioni. Uno, perché odiava la gente che si
accalcava; due, perché in quella penombra, e un po’ da lontano, c’era-
no meno possibilità che gli altri ospiti notassero la sciatteria dei loro
paramenti cerimoniali. I ricami delle sue vesti erano stati rammen-
dati con fili dal colore più simile possibile al nero originale, ma non
proprio identico – era il problema perpetuo del nero. Il broccato del-
le sue gonne era rigido per essere stato mal riposto. Non si vergogna-
va dell’antico diadema e della torque che portava al collo. Entrambi
erano stati rimossi con delicatezza dal cadavere di un’antenata, pri-

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ma che l’antenata si polverizzasse con un sibilo sotto al fascio di luce


della torcia. Ma non gradiva che le macchie di ruggine comunicas-
sero la loro povertà.
Harrowhark si tormentò i bordi del velo. «Quel maledetto affa-
re non serve a niente se lo tieni giù» disse la sua capitana, sottovoce.
«Non intendo competere» disse Harrowhark, senza muovere le lab-
bra ma inclinando in maniera quasi impercettibile il viso verso la donna
al suo fianco. «E se lo facessi, non competerei mai con la mia faccia.»
«Sì, ma ne avete comunque una» disse la donna più anziana con
calma. «Quella è la prima cosa che la Nostra Divina Signora vorreb-
be trovare in una sposa: la presenza di una faccia. È un requisito per
l’attraenza.»
«Non è per quello che siamo qui. Al contrario di qualunque altro ere-
de di Casa presente, io non… sventolerò la mia mercanzia in vetrina.»
«Solo l’Imperatrice sa cosa mai potremmo sventolare» borbottò
Aiglamene.
Le altre sette Case presenti si pavoneggiavano come uccelli impe-
gnati in una stagione degli accoppiamenti particolarmente barocca. Il
suo cosiddetto primo paladino ne pareva avvintissimo; annotava ver-
si su un pezzo di velina che si infilava con discrezione in tasca ogni
volta che lo sguardo di Harrow si soffermava su di lui. Le altre Case
si erano mescolate in uno spettro di colori, intrecciando danze come
un caleidoscopio di lustrini viventi. Bianchi lindi della Coorte con
nastri variopinti che concentravano il colore su polsini e mostrine;
abiti lunghi di un candore iridescente e di una smorfiosaggine stra-
tegica, con allori tinti a cingere il capo per comunicare l’appartenen-
za di Casa; necromanti con vesti di ogni genere, nessuna delle quali
pareva particolarmente pratica. C’erano tutti a eccezione della Sesta
Casa, che non pareva avere rappresentanti tra i ballerini, ma sedeva
in una pozza grigia accanto al muro con un serafico atteggiamento
da tappezzeria, come se fossero collettivamente un ragazzino goffo
che non riesce a trovare una partner. Indossavano tutti il medesimo
grigio colomba morta e chiacchieravano tra di loro. In una situazio-
ne diversa, Harrowhark avrebbe potuto tentare un approccio intro-
duttivo, ma aveva altre faccende a cui pensare.
Una principessa della Terza Casa alta e dalla corporatura stupefa-
cente aveva scelto di andarsi a sedere in mezzo a loro come una far-

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falla in una palude grigia: indossava una casacca di seta dorata e un


paio di braghe che scoprivano un polpaccio troppo tonico per esse-
re quello di una necromante. Reggeva un bicchiere di champagne e
rideva per qualcosa che le era stato detto. Il resto della nobile Casa
di Ida tentava a intermittenza di ripescarla, come se farsi vedere in
compagnia della Sesta la designasse come un soggetto che non ave-
va speranze di conquistare le attenzioni di Sua Altezza Divina, ma la
Terza principessa continuava a scacciarli a gesti.
La trepidazione di Harrowhark si faceva febbrile ogni volta che
qualcuno le si accostava. Non sapeva perché il cuore le battesse così
forte; non sapeva che cos’è che le facesse così paura, a parte la cal-
ca ingestibile e i rumori e le luci eccessive. Sapeva di avere gli occhi
troppo sgranati sotto le pitture sacramentali – un teschio elegante
battezzato semplicemente “la Catena”, che si esercitava a eseguire da
mesi – quando una coppia priva di codazzo le si avvicinò. Un uomo
e una donna, lei con un accenno di corporatura necromantesca: l’uo-
mo la teneva sottobraccio e, con l’altra mano, pareva intento a man-
giare un canapè infilzato su un bastoncino – Harrowhark, dunque, si
rifiutò di soffermarsi su di lui. La donna portava un abito di satin con
lo strascico di una scura sfumatura color cacao e, quando si fermò di
fronte a Harrowhark, tossì, con discrezione, nel guanto scamosciato.
La semplicità dell’abito rivelava poco di lei, ma il taglio comunicava
qualcosa in più e il piccolo diadema d’oro appollaiato con noncuranza
sulle lucide trecce castane lasciava intuire parecchio – forte e chiaro.
«Lady Abigail Pent» disse Harrowhark, che si era esercitata anche
in quel campo.
«In tutta onestà» fece Abigail, «mi dispiace proprio irrompere qua,
perché adorerei vedere dove va a parare questo guazzabuglio.»
«Anch’io» disse il primo paladino di Harrowhark, alle sue spalle.
Magnus aveva finito il suo canapè e aveva aggiunto, con entusia-
smo: «Concordo. Questa roba è il massimo. Avete mai mangiato dav-
vero degli stuzzichini da festa, Lady Harrowhark? Perché, in caso con-
trario, questa è un’ottima approssimazione. Non sanno di niente, ma
sono salatissimi».
Harrow disse, gelida: «Pardon?» prima di ricordare che non avreb-
be mai riconosciuto di vista Lady Abigail Pent.
«Non è andata nemmeno così» disse la Quinta…

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MESE??? MORTE

«Luogotenente!» tuonò una voce. «Aspetti…


per cortesia.»
Uscendo dalla sala riunioni, ancora un po’ prosciugata dall’espo-
sizione spaziale – aveva scoperto tardivamente che, dopo la prima
settimana, tenersi addosso in un punto visibile il proprio panetto
di terriccio tombale era considerato da mollaccioni, e se te lo tene-
vi nell’uniforme faceva un bozzo –, Harrowhark si fermò e piroet-
tò in direzione dei due soldati alle sue spalle. Si rese spiacevolmente
conto che sarebbe stata costretta a rivolgere loro il saluto, e lo eseguì
puntuale: nonostante le mostrine bordate di blu appuntate sul pet-
to indicassero che il loro grado era pari al suo, le mostrine di acciaio
brunito sull’altro lato del bavero testimoniavano che i due erano già
stati in missione sul campo. Non si trattava di una gran sorpresa, nel
contesto della propensione militaresca della Quarta Casa. Aveva già
sentito una gran quantità di battutacce sul fatto che le reclute della
Quarta Casa sarebbero state da accogliere con una medaglia al valo-
re e una cassa da morto. Ma erano molto giovani. Erano addirittura
più giovani di lei, il che era grottesco. Li riconobbe ancor prima che
finissero di ricambiare il suo saluto, il che era ancora peggio.
Chiese con un certo sussiego: «Luogotenente Tettares. Luogote-
nente Chatur. Necessitate dei servigi del Nero Anacoreta?».
«No, anche perché a chi mai servirebbero» fece la Luogotenente
Chatur, con i riccioli a cavatappi raccolti sulla nuca. Nemmeno con lo
stocco allacciato in vita corrispondeva all’idea di prima paladina che

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Harrowhark si era fatta. Con sguardo critico – ricambiato – squa-


drava Harrow alla quale era stato consentito di portare le pitture – le
erano stati permessi i gioielli conformi al suo rango – e, come cappel-
lana, le era addirittura stato concesso un accenno di paramenti, an-
che se si trattava solo di una frugale mantella della Coorte che si ab-
bottonava sulla spalla ed era utile quanto un osso glassato. Il bianco
inamidato dei pantaloni e della giubba sembravano sottrarle ogni so-
stanza. La bambina di fronte a lei, ben più sostanziosa, stava dicen-
do con una vocetta penetrante: «Ho sentito che gli è toccato esumare
un libro per capire come lavorate voialtri, perché sono cinquant’an-
ni che non abbiamo un monaco nero».
«Con permesso, allora… Luogotenente. Luogotenente.»
«Vi prego di perdonarla, è pessima» disse rapido il suo necromante.
(«Grazie tante, eh?»
«È vero o no?») «Sentite, volevo presentarmi. Ovviamente sapete già
chi sono. Ma visto che dovremo completare l’addestramento insie-
me – siamo gli unici eredi di una Casa a essere entrati alle medesime
condizioni di partenza –, non penso sarebbe stupido fare fronte co-
mune. E siete qui senza un paladino. Nessuno sa perché la Reveren-
da Figlia si sia arruolata per il combattimento sul campo. Ma io non
posso certo giudicare – io sono il Barone di Tisis, e molto probabil-
mente ci massacreranno e vesseranno finché non saremo mezzi mor-
ti. Ora che siamo tutti quanti qua, vorrei che fossimo amici. Pace?»
Harrowhark fissò la mano guantata che le era stata offerta e poi
il proprietario della suddetta mano. Si era tolto di recente una gran
quantità di orecchini e aveva i lobi crivellati di piccoli forellini vuo-
ti, come se fosse la vittima recente di un’azione di guerriglia sartoria-
le. Entrambi i visi erano rivolti verso di lei senza traccia del disgusto
che aveva inizialmente sospettato; il loro entusiasmo, le toccava am-
metterlo, era sincero. Non gli strinse la mano, ma si allungò per ca-
rezzargli brevemente la punta delle dita con le sue, e disse: «Mi sen-
to di sconsigliartelo. La Coorte ha… osteggiato la mia inclusione».
«Oh, a quello non ci devi badare» fece la paladina con noncuran-
za. «Noi avremmo potuto tappezzarci le pareti con le veementi let-
tere della Coorte che sono arrivate. Non sei l’unica. La Coorte dete-
sta quando l’erede-erede si arruola. Hanno cercato di farci prendere
gli orecchioni, sul serio…»

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HARROW LA NONA  /  397

(«Non hanno veramente cercato di farci prendere gli orecchioni. È stato il mio fra-
tellino a farci prendere gli orecchioni.»)
«… c’è una caterva di regole su come chiedere l’autorizzazione al
combattimento, e se ci sarà una guerra ci spediranno nelle retrovie,
quindi se sei sveglia la prima cosa che devi dire al tuo ufficiale supe-
riore è: “Perdonatemi, non voglio che il mio rango si intrometta tra
me e le truppe”, e a quel punto ci si potrà “dimenticare” di seguire la
direttiva di sicurezza e ti potranno designare al fronte post-thanergi-
co, dove la cosa interessante è… ma vuoi venire al bar?»
Harrowhark non voleva andare al bar. I Luogotenenti Tettares e
Chatur la accompagnarono comunque in mensa, un posto che si era
ripromessa di non visitare mai a meno che non fosse assolutamente
necessario. Si sentiva straordinariamente esposta, lì in coda, sotto gli
sguardi di tutti gli ufficiali in addestramento; quell’ammasso di ne-
cromanti e spadaccini, uomini e donne delle Nove Case che avevano
superato esami o sganciato soldi o fatto qualsiasi altra cosa si faces-
se nelle altre Case per aggiudicarsi il rango di ufficiali. Lei era l’unica
con una mostrina placcata di nero da luogotenente; era l’unica con
le maniche bordate di nero. Nel frattempo, il duo della Quarta conti-
nuava ad alimentare una fiumana di chiacchiere irrilevanti, come due
cascate umane. Crux avrebbe detto che parlavano troppo per avere
una lingua sola. Se fosse stata una maga corporale – che l’Imperato-
re non volesse – avrebbe di certo dovuto tenere a bada la tentazione
di asportare loro anche quell’unica lingua che avevano in dotazione.
Harrow tornò a soffermarsi sulla paladina che cianciò, entusiasta:
«… già provato il caffè?».
Il caffè, in tutta sincerità, era agli ultimi posti della lista delle prio-
rità di Harrow. Ma di fronte all’inspiegabile ardore della Luogotenen-
te Chatur, riuscì solo a produrre un gelido: «No».
Uno strano fremito attraversò il viso della ragazzina, come se stes-
se facendo del suo meglio per non scoppiare a ridere. Ma disse: «Non
somiglia per niente a quello che c’è a casa. Ci sono dentro stimolanti
extra e altra roba – tipo degli acidi – per l’esposizione spaziale. Bio-­
adattivo… Isaac, com’è che era?».
Lui incrociò gli occhi piccoli, sospirò un po’ e poi sciorinò: «Bio-­
adattivi a riassorbimento inibitorio».
«E noi come lo chiamiamo?»

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«BARI» fece lui.


«Ecco, BARI! Dà al caffè un sapore strano, ma se lo prepari nel
modo giusto, con tipo le spezie e il resto, diventa buonissimo. La Co-
orte non funzionerebbe senza gli addetti al caffè. Volevamo provare
la mensa di questo ponte perché hanno una nuova barista fenome-
nale. Anzi, una BARI-star.»
Harrowhark si ritrovò all’inizio della fila, punto oltre il quale, con
tutta evidenza, la attendeva questa BARI-star; quando scandagliò il
bancone con lo sguardo, le si annodò la lingua.
«Fammi indovinare» disse una voce. «Lo prendi nero.»
Si allungò per afferrare la tazza. L’inserviente la spinse verso di lei
nel medesimo istante – in quell’atto di trasmissione, le loro dita si
sfiorarono goffamente e, in un momento mummificato nel tempo,
si guardarono.
L’addetta al caffè era una ragazza che Harrowhark non aveva mai
visto prima, anche se durante l’addestramento doveva aver fatto par-
te anche lei del suo plotone. Così, in maniche di camicia e grembiule,
con uno strofinaccio buttato sopra la spalla che nascondeva le mostri-
ne, era impossibile stabilire la sua provenienza: le braccia che spun-
tavano dalle maniche arrotolate scoprivano muscoli tonici e asciutti,
un po’ lucidi per il sudore e l’umidità generata da tutto quel trambu-
sto. Ma fu la faccia a spedirle i neuroni per un giro di giostra thaler-
gica. Quando Harrowhark vide quel viso, rilevò una bizzarra vam-
pata di calore che dalle profondità del piloro si propagava verso l’alto
fino al colletto della sua giubba della Coorte. Poi le attraversò le guan-
ce, il naso, la fronte, le tempie. L’altra ufficiale sorrise, era un sorriso
fermo, prolungato, un po’ sghembo; Harrow era elettrizzata dal fat-
to che, sotto a quel cespuglio di capelli rossi pettinati alla meno peg-
gio, gli occhi erano…
«Assolutamente no» disse Abigail, accanto a lei.

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43
LA SERA PRIMA DELL’ASSASSINIO DELL’IMPERATORE

Harrow si dimenava sul materasso, buttando giù


boccate frammentarie d’aria. Si agitava come un animale a cui aves-
sero sparato; delle braccia la tenevano giù – «Resta con noi, Nona,
forza» stava dicendo qualcuno – e uno spasmo improvviso la gher-
mì, facendola tremare dall’interno finché non ebbe la certezza che
sarebbe saltata fuori dalla sua stessa pelle. Un coro di borbottii som-
messi la sovrastava, voci concitate, di cui nessuna le risultava sensa-
ta: «Siamo stabili…?».
«Lo spero; un altro strattone del genere e riporterà indietro i bam-
bini, e non credo di poter sopportare la prospettiva di rispedirli di
nuovo là fuori…»
«Perché proprio ora?»
«Ma non era…?»
«In tutta onestà preferivo alcune di quelle lì rispetto a…»
«No. Sono meglio le regole che abbiamo» si intromise la secon-
da voce. «Non abbiamo idea di quali siano le limitazioni in quegli al-
tri scenari.»
Un altro respiro e la sua gola si rifiutò, chiudendosi per protesta;
Harrow girò il capo e tossì, offesa, atterrita… aprì gli occhi e il mon-
do le si precipitò incontro.
Si svegliò convinta di avere di fronte Dominicus incorniciato da
un cielo azzurro, un azzurro tremulo e irreale, uno sfondo insensa-
to. Una voce familiare – quella di Magnus – disse con gentilezza: «Va
tutto bene. Va tutto bene». Il cielo era il soffitto e il soffitto era quel-

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lo di una stanza decrepita della Casa di Canaan, velato dal fiato bian-
co e incandescente che usciva dalla gola di Harrow. Quando il mon-
do finalmente le assestò il pugno allo stomaco che caricava da un bel
pezzo, un ululato aggrovigliato le uscì dalla gola e il fatto di essere in
grado di produrre un baccano del genere la sconvolse. La memoria
investì Harrowhark Nonagesimus con la forza gravitazionale ineso-
rabile di un satellite risucchiato via dalla sua orbita e lanciato incon-
tro alla morte sulla superficie del pianeta a cui è legato; il mondo la
investì come una caduta.
Un vortice di facce, di movimenti. Harrow si rese conto di non es-
sere sconvolta, dopotutto. Era consumata. Era il pagliericcio che ali-
mentava l’incendio che le divampava nel cuore, il cervello la spugna
asciutta da dare alle fiamme, la sua anima un ammasso di gas incan-
descente. Non poteva affrontarlo. Non lo poteva affrontare, nella ma-
niera più assoluta e strutturale.
«Harrow?» disse qualcuno lì vicino, qualcuno di familiare; aveva
lo sguardo annebbiato.
«Se ti dimentico, che anche la mia destra possa essere dimentica-
ta» scandì la sua bocca. «E più ancora, se null’altro che la morte può
separarmi da te.»
E, incerta: «Griddle».
Le mani dovevano essersi ritirate; si ritrovò a faccia in giù sul ma-
terasso a singhiozzare come non singhiozzava da quand’era bambi-
na. Qualcuno disse: «Tutti fuori. Via…». Ma era più di quanto potesse
assimilare in quel momento. Harrow era troppo stupita dalla capaci-
tà del suo corpo di espandersi per ospitare la disperazione. Era come
se quel che sentiva si raddoppiasse sotto ai suoi occhi, allargandosi,
come una caduta lungo una rampa infinita di scale. Piantò le dita nel
materasso e pianse per Gideon Nav.
Smise di piangere solo quando il suo corpo arrivò all’esaurimen-
to fisico. Le lacrime non potevano più fluire da un occhio incollato;
e nemmeno i singulti da una gola spellata. Per parecchio tempo sep-
pellì la faccia nella porzione bagnata di materasso su cui aveva pian-
to, annusando l’imbottitura vecchia e sentendo quel dolore che si era
moltiplicato in un universo.
Si tirò su a sedere. Respirò. Schiacciò il viso nel lembo della veste
nera e consunta e si asciugò le lacrime, riducendole a tracce gelate sul-

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le guance. Harrowhark si guardò attorno, e la ruvidità sanguinolenta


della sua gola la rese roca quando domandò, asciutta: «Cosa ho fatto?».
«Questa in realtà è una domanda alla quale speravo potessi rispon-
dere tu» disse Abigail Pent.
Era l’unica rimasta nella stanza. Harrow la osservò con occhi nuovi.
Persino da quella nuova prospettiva, Pent era uguale a com’era sem-
pre stata. Ordinata, anche se un po’ sgualcita ai margini, come se si
fosse davvero accampata in una Casa di Canaan gelida e non avesse
avuto la possibilità di farsi un bagno per un bel po’ – occhi castani e
pelle luminosa, una figlia della Quinta in tutto e per tutto. Aveva una
sciarpa che le cingeva i capelli impeccabili ed entrambe le mani era-
no infilate in una grossa muffola gonfia.
Per la precisione, non era il cadavere martoriato che lei e Gideon
avevano rinvenuto ai piedi della scaletta del complesso: il corpo con
l’addome squarciato, con una chiave ordinatamente sigillata in un
rene. Sembrava viva, insomma, viva e vegeta.
«Tu sei morta» disse Harrowhark. «Septimus ti ha uccisa. La Lit-
trice mascherata da Septimus.»
«Sì» confermò la Quinta adepta. «È stato spiacevole. Senti, dete-
sto chiedertelo, ma l’hai… fatta fuori? Nessuno di noi ne è certo.»
«Nav e io le abbiamo trapassato lo sterno con la spada» disse Har-
row, e deglutì un coagulo di saliva che le bruciava in gola. Il cervello
macinava come un meccanismo surriscaldato; riusciva quasi a senti-
re l’odore della polvere incandescente. Il momento in cui si sarebbe
dovuta rimettere in sesto era passato da un pezzo.
Le disse: «Dammi un minuto».
«Fai con calma» rispose Pent.
Il freddo non preoccupò Harrow finché, come d’abitudine, non
cercò di riscaldarsi dall’interno, fino al nocciolo, e scoprì che non ne
era capace. In qualche modo, lì non era una Littrice. Spingere di qua
e di là le sue cellule ematiche le aveva fatto percepire quell’antica fit-
ta famelica per la thanergia che non avvertiva più da un anno buo-
no. Chiuse gli occhi in modo che le uniche sensazioni che potessero
assalirla fossero quelle termiche – il bruciore in via di arrossamento
delle guance e delle mani – e il nero delle sue palpebre, vuote come
le pagine di un libro ancora da scrivere.
Sessanta secondi. Prendersi di più sarebbe stato un gesto di auto-­

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indulgenza. Aprì gli occhi e disse: «Lady Pent. Parlami della came-
retta della tua infanzia».
«Era grande come questo salottino, forse» rispose prontamente
Pent. «Due letti con la testiera contro il muro opposto alla porta. Da
piccola mi piaceva che il mio fratellino dormisse di tanto in tanto
nella mia stanza. Pareti color primula di velina adesiva, un grazio-
so cromio del Principe Imperituro – un tantino strabico –, un pan-
nello Vit-D al posto della finestra, con sopra un motivo a rotazio-
ne. Le ossa del braccio di mio nonno sopra alla porta. Un tavolino
rinforzato dove giocavo con le bambole o leggevo, con una nicchia
sotto. Mi ci dovevo rifugiare nel caso un jet zonale fosse riuscito
a superare lo sbarramento. Stelle fosforescenti dipinte sul soffitto,
un gancio sul muro per i miei guanti e la veste. Non ci pensavo da
anni. Perché?»
«Test iniziale» disse Harrowhark. «Tralasciando la flessibilità del
solipsismo metafisico, ho una conoscenza pressoché nulla della Quin-
ta Casa e di come la sua gente viva lì. Più insensatezze fossero state
incluse nella tua risposta, più sarebbe stato probabile che tu fossi una
proiezione costruita dal mio cervello.»
Abigail rise, ma con una punta di rammarico: era la risata di una
donna che aveva aperto un libro perduto da molto tempo scoprendo
però che la pagina più necessaria era stata strappata.
«Reverenda Figlia» commentò lei, «sono stata accusata di pa-
recchie cose, ma questa è la prima volta che vengo considerata
un’allucinazione.»
«Ma sei…»
«Un fantasma» disse la donna, sorridendo. «Una rediviva, per la
precisione.»
Poi aggiunse: «C’erano così tante cose che volevo chiederti. Così
tante altre che ho dato per scontate! Ho creato uno schema arbitra-
rio per le tue scelte quando, forse, non ne esisteva nemmeno uno, il
che è un errore vergognoso per un’accademica. Dunque, smantellia-
mo tutti i miei preconcetti. Sei una Littrice, ora. Vero?».
«Sì» disse Harrow. Gideon. Sangue. Un’inferriata spezzata. «Non
era mia intenzione, alla fine. Ma… sì.»
Lo sguardo di Abigail si fece intenso; lei si sporse in avanti. «Una
scommessa vinta» disse, con mesta soddisfazione. «Ottimo. Quando

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ti sei resa conto di quello che ti stava succedendo? Quando ti sei resa
conto di quello che stava accadendo all’altra anima?»
Era più semplice rispondere a quella domanda in maniera mecca-
nica. «Nei primi giorni. Sapevo che sarebbe stata assorbita. Avevo ca-
pito che avrei inavvertitamente distrutto la sua anima – il processo si
era già innescato. Ma non era compiuto. Avevo tempo. Ho deciso di
rimuovere la mia capacità di incorporarla… rimuovendo la mia ca-
pacità di comprenderla.»
Ora era più facile da ricordare. Una litania. La stessa cantilena da
recitare, come quella dell’Ottuplice Mondo. Poteva quasi vivere se-
parata dalla sofferenza. «Ho preso la parte del mio cervello che la
rammentava… che capiva la sua anima… e l’ho scollegata. Poi ho co-
struito dei sistemi piuttosto grossolani in modo che non mi venisse
accidentalmente ricordato… sapendo che quei collegamenti poteva-
no riaprirsi se li si stiracchiava di qua e di là. Ho avuto una compli-
ce… qualcuno che sapeva manipolare il tessuto grasso del cervello
meglio di quanto potessi fare io. Ho trasformato il mio cranio in un
costrutto, programmato per esercitare pressione su lobi specifici. E
ha funzionato, Pent. Ha funzionato» disse. «È stato stupido. Una so-
luzione basata sulla forza bruta. Ma ha funzionato.»
Abigail la squadrò con grande attenzione, con un’espressione di-
versa da quella di prima. Harrow sapeva di risultare un po’ irascibile
quando esclamò: «Che c’è?».
«Stiamo facendo due discorsi diversi, credo» fece la Quinta adep-
ta, sfregandosi i palmi guantati. «Non mi riferivo all’anima preserva-
ta che ti ha reso Littrice, Reverenda Figlia… nonostante anche quel-
lo mi abbia aiutato ad aggiungere qualche pezzo. Harrowhark, mi sto
riferendo all’anima invasiva.»
«Invasiva in che…?»
«Sei infestata» disse Abigail con calma. «Ho ipotizzato che avessi
scelto deliberatamente questo campo di battaglia, evocando un eser-
cito che combattesse al tuo fianco. Non riuscivo proprio a capire per-
ché avessi scelto noi. Ora lo so, ma mi pare che tu non ne fossi con-
sapevole. Sei posseduta da uno spirito rabbioso, Harrowhark, e stai
perdendo la guerra.»
Harrow cercò istintivamente di espandere le sue riserve di gras-
so; faceva un freddo davvero sconvolgente. Fu costretta a bloccarsi

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quando si rese conto di non riuscire a identificarne la posizione sot-


to alla pelle delle braccia, figuriamoci accrescerle. Era un limite che
trovava familiare: era il limite con cui si era confrontata per tutta la
vita, quando era una “Nona” e non una “Prima”. La fornace del suo
potere era sparita.
Si protese verso la memoria dell’altra se stessa… no; era indegno
di lei scindere se stessa in due metà, Harrow Primaria e Harrow Se-
condaria, come se dovesse seguire due campane. Erano tutte un’uni­
ca Harrowhark, in abiti diversi. E non se la stava cavando meglio ora
che le sue vesti erano nere – in un certo senso se la passava molto
peggio. Ma i ricordi erano lì.
“Pensa a cosa succede quando soffi dell’aria nell’acqua, fai le bolle…”
Il gelo si era fatto ancora più pungente. Il vento ululava contro la fi-
nestra rabbuiata. Nel suo cervello non faceva bel tempo. Disse: «Sia-
mo nel Fiume».
«Sì» disse Abigail. «È stata anche la mia prima epifania.»
«Questa è una mia creazione.»
«Sì. I parametri li hai stabiliti tu» disse Abigail. «Ce ne siamo resi
conto procedendo per esclusione, visto che alla fine ciascuno di noi
si ricordava di se stesso. Tu no. Ortus era convinto sin dall’inizio che
si trattasse di opera tua… mi dispiace non avergli creduto.»
Quella circostanza le avrebbe fornito un successivo diletto menta-
le. «Ho creato una bolla nel fiume, come Sextus. Ma inconsciamente,
rozzamente…» Sextus l’avrebbe di certo giudicata una gran cialtro-
na. Sarebbe stato un enorme sollievo poter avere Palamedes Sextus
lì con lei, in quel momento, anche solo per potergli offrire un misero
ringraziamento. Ma sarebbe stato orripilante farsi vedere da lui così
dura di comprendonio: «Perché la Casa di Canaan? Perché Ortus Ni-
genad? Per riempire il buco nella mia memoria».
Per fortuna, Pent era più svelta ad afferrare. «Non hai rimosso i ri-
cordi della tua paladina, Harrowhark. Credo che una cosa simile su-
peri anche i poteri di un Littore. Li hai falsificati. Li hai rivestiti con
qualcosa che poteva apparire plausibile.» Che spreco, per una donna
così, aver concluso la sua vita ai piedi di una scaletta.
«Ma perché apportare così tante modifiche? Perché la narrazio-
ne è così diversa? Non è così che è andata, per niente. Capisco che…
che Gideon dovesse essere… assente, ma perché…»

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«Non è un disegno che stai tracciando tu, Harrow» disse Pent. «È


uno spettacolo che stai dirigendo. Hai allestito un palcoscenico nel
Fiume, hai ripescato dei fantasmi per farti da attori, hai stabilito de-
terminate regole per far seguire il copione al tuo cast. Ma ora un altro
regista sta cercando di dirottare lo spettacolo, e la lotta per il control-
lo, dietro le quinte, sta filtrando nell’azione che si svolge sulla scena.
Vogliono cacciarti.»
«Ma chi?»
«Non lo so» fece Abigail, con candore. «E ci sono altre discrepan-
ze sulle quali speravo potessi fare luce. Perché hai convocato solo al-
cuni di noi, come spiriti? Perché gli altri appaiono come… costrutti
variamente grotteschi? La Luogotenente Dyas era sicura che Judith
fosse sbagliata prima ancora che morisse, tanto risultava una paro-
dia confusa di se stessa.»
«Non avrei mai potuto richiamare lo spirito della Capitana Deute-
ros» la interruppe Harrow. «Deuteros è viva.»
Abigail si sporse animatamente verso di lei. «Dillo a Dyas. Lo vor-
rebbe sapere di sicuro. Le principesse…?»
«Vive.»
«Il loro paladino…?»
«Colazione.» Di fronte alla perplessità di Abigail, Harrow specifi-
cò: «Ianthe Tridentarius è una Littrice».
«Diamine. Sarebbe dovuto toccare a Coronabeth. Ianthe non è mai
stata propriamente tagliata. La Sesta…»
«Camilla è viva. Palamedes… esperisce circostanze estenuanti.»
Di fronte a quel secondo giro di sbigottimento, elaborò: «Il Mastro
Guardiano trovava l’idea di morire… inopportuna».
Abigail si illuminò. «Non aggiungere altro.»
La necromante della Quinta Casa sospirò, visibilmente compiaciu-
ta. Era la gioia semplice di aver scoperto che qualcuno tra loro era so-
pravvissuto, al contrario di lei. Un senso di colpa profondo deflagrò
all’interno della cassa toracica di Harrow. Pent mormorò addirittu-
ra: «Il Re che veglia sul Fiume è magnanimo» il che colmò Harrow di
un’altra sensazione completamente diversa.
Portò con sé una reminiscenza di una stupidità così violenta da la-
sciarla stupefatta per non averci pensato subito. Si tastò l’addome,
fulminea. Chiuse gli occhi. Si sbilanciò all’indietro, incurvando dol-

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cemente la spina dorsale… impugnò le redini del Fiume e camminò


nell’acqua, e avanzò, e avanzò.
E, per metterla giù come avrebbe fatto la sua paladina… non suc-
cesse una beata mazza di niente. Non riusciva ad accedere al Fiume.
Non ne aveva percezione. Non percepiva l’ancora del suo corpo; pro-
prio come era capitato con la rimozione della sua magia Littoriale,
non c’era una via d’uscita. Era intrappolata all’interno della bolla, si
dimenava come un pesce all’amo. E da qualche parte nel Mithraeum…
«Il tempo» disse Harrow concitata. «Come si inserisce nel tempo,
tutto questo?»
«Partendo dalle mie supposizioni sulla magia spirituale e sulla na-
tura della coscienza» disse Abigail, «questo… livello esiste solamen-
te quando sei limitatamente vigile o non vigile. Quando dormi, o se
vieni sottoposta a una perdita di conoscenza, o se ti trovi in un altro
modo sconnessa dagli stimoli esterni. Non ho percepito nessuna frat-
tura temporale – da questo lato è un flusso continuo. Immagino che
la simulazione giri all’interno della concezione del tempo della tua
mente dormiente, è in un certo senso contratta e dilatata… Quanto
tempo è passato nel… ehm… mondo reale?»
«Nove mesi.»
«Signore benedetto.» Era sinceramente sconvolta. «La mia stima
era di circa otto settimane. Oh – alla mia famiglia sarà stato comu-
nicato, forse… si staranno chiedendo dove diavolo è andato a finire
il mio spirito. Il mio povero fratello… i genitori di Magnus… la mia
collezione di felci…»
«Lady Pent» disse Harrowhark con fermezza, «lasciate perdere
le felci. Nel mondo reale sono stata pugnalata a morte. Il luogo che
ospita il mio corpo sta per essere invaso da mostri thanergici crea-
ti da un redivivo galattico. Sono, per dirla brutalmente, con un piede
nella fossa. La mia anima è sotto assedio e ho sovrascritto i miei veri
ricordi con una bolla dimensionale piena di fantasmi, che ora è sta-
ta in tutta evidenza colonizzata da una specie di poltergeist. Per quel
che posso saperne, sono bloccata qua dentro. Non riesco a uscire. E
sto per morire – potrei già essere morta, anzi – il che non fa che ren-
dere tutto questo discorso piuttosto speculativo.»
La finestra si incrinò. Lì per lì Harrow pensò si trattasse di quel
vento ululante e omicida; ma, sotto ai loro occhi, un tentacolo rosa

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errante, che strisciava e serpeggiava crepitante di ghiaccio, si infilò


come una funicella in un buco nel vetro rotto. Un lungo tubo pulsan-
te. Uno sfintere si apri all’estremità e, da quel buco scaturì una pila
ticchettante di vetrini piatti di plex, della tipologia che si utilizzereb-
be per conservare un campione cellulare. La porta della camera da
letto si spalancò: il precedentemente defunto Magnus Quinn era lì,
con addosso un cappotto gigante di pelliccia e le guance scavate dal
freddo, e disse loro: «Stanno facendo breccia nei muri, mia cara».
«Di’ a Protesilaus e alla Luogotenente di non toccarli.»
«Troppo tardi, e non mi sento di biasimarli, quegli affari sono
immondi…»
«Lascia il tuo corpo al tuo corpo, Reverenda Figlia» disse Abigail,
alzandosi in piedi malferma, i denti che battevano. «Se tu fossi morta
dall’altra parte, qua saremmo già svaniti tutti. Se muori qui, però, la tua
anima sarà perduta per sempre. Ora, in questo momento, sei viva…
ci assicureremo che, se il tuo corpo sopravviverà, resterai al timone.»
Harrow lottò per farsi sentire, sovrastando le urla del vento. «Ma
mi hanno trapassato lo stomaco! Che sta succedendo là fuori?»

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QUELLA STESSA SERA, LA SERA PRIMA DELL’ASSASSINIO
DELL’IMPERATORE

La lama dello stocco ti si ingarbugliava nella pel-


le. Grosse matasse di derma continuavano a risalire lungo il filetto
centrale, incerte su dove dirigersi una volta arrivate lì; come gli orga-
ni intrecciati tra loro dentro al tuo addome – come quei tessuti in-
terstiziali che si infrangevano contro quella lama invasiva – la punta
insanguinata tremolava, spinta di qua e di là dal tessuto che ricresce-
va. Ti avevano trafitta alle spalle ed eri collassata all’indietro sull’im-
pugnatura dello stocco. Il debole della lama puntava all’insù, spun-
tandoti dal torso.
E tu te n’eri andata e mi avevi lasciata lì.
Mi sono appoggiata sui tuoi palmi, ho ridistribuito il peso sui tuoi
piedi – la lama era ancora piantata lì –, mi sono puntellata contro il
muro del corridoio e ti ho fatta alzare. Ti tremavano le gambe. L’u-
nica cosa che mi è venuta in mente di fare è stata avvolgerti le mani
nella veste, contare fino a tre e spingere all’indietro la punta dello
stocco il più in fretta e il più energicamente possibile. Il rumore che
ha fatto…  non gli rendo giustizia se dico che ha fatto SCHIIILIIICK,
che poi non descrive nemmeno il dolore che si prova quando prendi
trenta centimetri d’acciaio, te li spingi in mezzo alle interiora e te li
fai uscire dalla schiena. Per quanta cautela ci si metta, non è comun-
que mai abbastanza. La spada era caduta sulle piastrelle con un tin-
tinnio triste, e io mi sono fermata per qualche istante, e quando poi
mi sono allungata per riprenderla tu eri… già guarita. Così. Niente
più dolore. Niente più ferita.

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L’elsa era così calda e scivolosa di sangue che era difficile da affer-
rare. Eri a mani nude. Mi sono serviti diversi tentativi. L’impugna-
tura era fatta di legno lucidato o di plex, e le tue dita non si chiude-
vano nel modo che mi aspettavo, probabilmente perché erano più
corte delle mie.
Eravamo in un corridoio stretto e sudaticcio, scuro, illuminato sol-
tanto da un binario sottile di luci rosse, in alto. Da qualche parte suo-
nava un allarme, e c’era un remoto ronzio, un rumore bianco, tipo
quello che fa un macchinario guasto. Eri fradicia di sangue e dove non
eri fradicia di sangue eri fradicia di sudore. L’aria ondeggiava di ca-
lore. Stare in quel corridoio era come stare in piedi vicino a un falò,
uno che ti bagnava pure.
Intorno a te c’era questo sfacelo di sangue, sparpagliato allegramen-
te sul pavimento e sulla parte inferiore delle pareti, come se qualcu-
no ci si fosse rotolato dentro – eri stata tu, immaginavo. Ma non ce
n’era così tanto. Non si era trattato di un combattimento. Chiunque
ti avesse infilzata col tuo stesso stocco non ti aveva dato la possibilità
di un testa a testa. Non eri nei paraggi per imbestialirti, ma anche se
ci fossi stata ti avrei detto di non badarci; tra i miei programmi c’era
di farglielo rimpiangere, più di quanto avessero mai rimpianto qual-
cosa nella loro vita di merda.
Lago di sangue: presente. Aria caldissima: presente. Grosse ossa
equivoche ovunque: presenti. Guardavo la tua mano per tenere il
conto – che mano era, sotto a quel sangue, le dita, i tuoi palmi picco-
li con la loro assoluta mancanza di muscoli tendinei – mentre la real-
tà mi attraversava. Un po’ come una bella inferriata di ferro, adesso
che mi ci fai pensare.
Te n’eri andata. Mi avevi lasciata lì da sola. Dentro di te.
«Cazzo» ho detto. Non era la mia voce. «Cazzo. Oh, merda. Ma
porco cazzo. Aiuto. Blah. Aaargh.»
Nell’oscurità di quel corridoio caldo e ossuto, qualcosa era entra-
to nel tuo campo visivo – nel nostro; nel mio – il che perlomeno mi
aveva aiutato a mettere in stallo un tracollo fisico ed emotivo com-
pleto. Era un’assurdità di vespa, osso e carne – una roba da incubo,
ed era vivo e quando mi aveva visto si era fermato.
La massa principale di quel coso era installata su una struttura
umanoide, ma stiracchiata – tipo una persona che cammina come un

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granchio, i piedi piatti e le mani per terra, girate all’indietro, l’addo-


me che svetta allegramente per aria. Ma quando dico “mani” e “piedi”,
devi pensare a delle mani e dei piedi passati per un tritadocumenti e
poi assicurati di nuovo insieme, ossa esposte e carne, con un guscio
arancione punteggiato di nero. Tutto questo era sormontato da gros-
se placche toraciche lucenti, un grosso affare a forma di diamante, e
da un addome con un vitino sottile. In cima, in alto, soggiornava il
teschio enorme di qualcosa che avrebbe potuto essere di tutto, a pat-
to che non si trattasse di niente di umano. I contorni erano oscura-
ti da fette consistenti di carne pulsante, verdastra, combusta, e qua e
là qualcuno ci aveva appiccicato sopra dei lunghi peli maligni spessi
come le tue dita. Che non erano poi tanto spesse. Vorrei rettificare:
le tue dita vanno benissimo. Delle poderose mandibole seghettate da
coleottero spuntavano da ambo i lati delle fauci del teschio, grondanti
di un liquido fumante. Le apriva e le chiudeva meditabondo mentre
stava lì ritto – anzi, sospeso: delle ali trasparenti lo sostenevano, frul-
lando così rapidamente che tra il vapore, il sangue, il calore e il buio
non le avevo nemmeno viste subito. E mentre lo osservavo, delle ca-
pocchiette fluttuavano nei crateri neri delle orbite del teschio, prima
che da quei buchi emergessero dei giganteschi bulbi oculari bagnati.
Quello sì che sarebbe stato uno splendido momento per tornare.
Sarebbe stato assolutamente grandioso. Certo, sono una gran figa
spaccaculi, ma lì per lì non è che aiutasse molto – ero nel corpo sba-
gliato con in mano una spada che non avevo mai usato, e tu non ave-
vi muscoli, zero, e io non mi sentivo affatto bene. Stavo male. Avevo
bisogno di una pausa. Ma il mostro si era messo a stridere, un frinire
belante a doppia gola, due suoni simultanei, entrambi merdosissimi,
con quelle palle degli occhi che continuavano a girare, girare e girare.
Ho allineato il tuo piede avanzato con la caviglia arretrata, ho chiu-
so il pollice sull’estremità dell’elsa della tua spada, in basso, il che di-
mostra che puoi mettere uno spadaccino guerriero dentro al necro-
mante ma non puoi… aspetta… ferma lì.
E avevo esclamato: «Maledizione, te l’avevo detto di fare pesi».
La creatura era partita nella nostra direzione, zampettando a una
velocità incredibile. E ne era seguito un puttanaio conclamato.
Per noi. Non per quell’affare. L’affare era in forma smagliante. È
saltato fuori che, avvicinandosi, le ali si sono sollevate abbastanza da

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scoprire un malefico pungiglione grosso così che gli usciva dall’ad-


dome – e quella bocca da sega circolare ci aveva spruzzato dritto ne-
gli occhi e a pressione altissima un getto di liquido trasparente, getto
che ho schivato per un pelo tirandomi davanti alla faccia il tuo braccio
fradicio di sangue – bei momenti, visto che il liquido, s’è poi scoper-
to, era un mostruoso acido pazzo. Ho sentito la veste che sfrigolava
al mero contatto, poi ho sentito sfrigolare anche la tua pelle – senti-
vo dei lembi che ti si staccavano dal braccio, prima di tessuto e poi
strati epidermici veri e propri – e ho fatto un paio di passi indietro e
ti ho morsicato la lingua tipo tre volte – ma facendo dei buchi, pro-
prio – tanto i nostri recettori del dolore erano ancora tutti sfanculati.
Non dico che non facesse un cazzo di male cane, perché era così, ma
quando sono riuscita a scrollarmi via dal pastrocchio che era diven-
tato il nostro braccio il grosso di quello sputacchio immondo d’inset-
to, ho scoperto che la tua pelle stava ricrescendo a vista d’occhio. Che
bel trucchetto, cavolo. Cioè, Nonagesimus, porca miseria.
Ho parato sopra la testa un fendente del pungiglione, che goccio-
lava un fluido limpido da una punta che avrebbe potuto cavare un
cuore, e il braccio che avevo preso a prestito ha mollato un colpo di
spada – anche quella presa a prestito – contro la bocca seghettata.
Ho tirato un calcio al pungiglione con il tuo piede stivalato, che è sta-
to un po’ come colpire un muro con un piumino per spolverare, ho
schivato un altro fiume di acido e poi, scusami tanto, ho girato i tac-
chi e sono scappata per salvarti la vita, cazzo.
Mi sono buttata nella stanza più vicina. La camera da letto. Mi sem-
brava di sapere com’era disposta, ma non avevo mai veramente avu-
to la possibilità di usare i tuoi occhi. Vivere dentro di te – se comin-
cio non la smetto più, quindi dobbiamo per forza procedere oltre – è
stato come vivere in un pozzo, e ogni volta che riuscivo a rimettermi
a galla, in superficie, era come se qualcosa mi trascinasse di nuovo
sul fondo come un panno steso ad asciugare. Non mi sto lamentan-
do, voglio solo che tu lo sappia. Anche così, ne sapevo abbastanza da
riuscire a fare irruzione nel tuo corridoio e superare i resti di quella
barricata di cenere che avevi costruito come un’idiota, puntando ver-
so quell’unica cosa che sapevo avrei trovato dove l’avevi lasciata, con
il suo spesso fodero bianco completamente frantumato tutt’attorno.
La creatura si era intrufolata dopo di me, continuando a emette-

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re quella specie di mezzo pigolio belante di merda, e ci aveva sputato


addosso un altro getto di saliva malvagia. Mi sono buttata per terra,
ho mollato lo stocco e ho afferrato l’elsa del mio spadone a due mani.
Che era, per la cronaca, in una condizione abominevole, porca troia.
Avrei dovuto spiegarti così tante cose. Ma non ne ho avuto il tem-
po. Non lo sapevo. Non sapevo di dover specificare: “Una spada non
resta affilata per conto suo, sacco di spazzatura della Nona Casa che
non sei altro”. Non sapevo di doverti dire: “Se butti una spada nell’os-
so molliccio, il metallo si sforacchia più di una miniera di ferro, mer-
dina necromantica nevrastenica che non sei altro”.
Ma credo che la cosa principale che avrei dovuto dirti fosse: “Ti
sei scoperchiata il cranio con una sega piuttosto di legarti a qualcu-
no. Ti sei ridotta il cervello a un minestrone pur di scappare da qua-
lunque cosa non fosse la libertà al cento per cento. Mi hai ficcata in
una scatola e mi hai seppellita, piuttosto che rinunciare al tuo stra-
maledetto piano.
Harrowhark, io ti ho dato tutta la mia vita e tu non l’hai nemme-
no voluta.”
Anzi, cancelliamo. La cosa principale che avrei dovuto dirti era:
“GLI SQUAT SONO UN BUON PUNTO DI PARTENZA, O MA-
GARI UN PAIO DI SALTELLI SUL POSTO, NON È DIFFICILE”.
Mentre stavo lì con la spada stretta nelle tue mani, l’elsa ci morde-
va la pelle, ma niente di letale. Ormai c’erano un paio di calli su quei
palmi soffici da necromante, ed ero fiera di te.
Quando ho intercettato il primo colpo di quel pungiglione grondan-
te di veleno, i nostri limiti sono diventati palesi – quel primo colpo ti
ha fottuto gli estensori, riverberando lungo gli avambracci e risalendo
fino ai bicipiti gracilini come se una squadra d’assalto miniaturizza-
ta ti si fosse infilata nei tendini per far esplodere tutto. Il dolore arri-
vava a ondate. Ma qualche motore antico aveva ripreso vita, avvian-
dosi per me come non aveva mai fatto per te, probabilmente perché
io sono una brava ragazza e tu sei una suoraccia malefica, e ci ha di-
vorate quasi simultaneamente: ha rinnovato quei muscoli sbrindella-
ti, ha ricucito quella moltitudine di taglietti microscopici. Il mio pri-
mo fendente ha frantumato il pungiglione, e quella cosa spregevole
ha rinculato, ma poi ci ha squarciato una guancia prima che potes-
si abbassarmi – ma quello che mi premeva davvero era la sensazione

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di vapore superriscaldato nelle nostre braccia, e il movimento, e l’ar-


co del mio spadone che descriveva una bella sventagliata pulita nel-
la pancia di quell’insettoide vomitevole.
La creatura si era accasciata in due metà. Si era appallottolata nel-
le convulsioni dell’agonia; quelle dita umanoidi di mani e piedi si ar-
ricciarono ai margini della sagoma, e tutte le parti carnose si stava-
no sgonfiando e raggrinzendo, mentre delle budella che puzzavano
di putrido si riversavano fuori dal buco nel teschio che faceva da boc-
ca. In quell’asfissiante inferno buio, il tanfo della morte era intenso. E
le tue spalle non smettevano di tremare, nemmeno quando mi sono
appoggiata al letto.
È stato solo in quel momento, quando ci ho viste nello specchio
vicino alla cassettiera – quando ho visto me stessa, dentro di te, sen-
za ancora dire niente – che ho afferrato quello che avevi fatto. Il tuo
viso era un casino. Era una diamine di mescolanza stranissima di noi:
quel tuo cavolo di mento appuntito, la tua espressione testarda, le so-
pracciglia scure; eri meno malandata dell’ultima volta che ti avevo vi-
sta, ma più sfibrata di quanto mai avessi creduto possibile. Avevi delle
increspature sbavate attorno agli occhi ed eccoli lì, anche agli ango-
li della bocca, i segni di questa immane tristezza spossante. Riuscivi
sempre a lasciarti tutto il resto alle spalle, ma non ti liberavi mai di
questa cazzo di tristezza assoluta.
La pittura teschiata ti gocciolava lungo le guance per il sudore, il
sangue e anche per colpa mia – me l’ero strofinata via per sbaglio.
Avevi i capelli decisamente troppo lunghi. Ti si appiccicavano giù per
il collo e prudevano veramente un casino. E tutto quanto si riassu-
meva nella stessa Harrowhark Nonagesimus. Angolosa. Feroce. Ter-
ribile. Ma, allo stesso tempo, non era così.
Motivo principale: dalla tua faccia spuntavano i miei occhi. La for-
ma era la tua, ma le iridi giallo-ambrate erano così fuori posto sul tuo
viso come la mia spada, brandita da quei braccini sottili e affannati.
Nemmeno l’espressione era corretta – la mia espressione “cazzo vuoi?”
era molto diversa dalla tua espressione “cazzo vuoi?”. Era come guar-
dare il tuo guscio vuoto che andava in giro; come i burattini svuota-
ti in cui avevi trasformato Pelleamena e Priamhark. Solo che quello
doveva essere stato più semplice. Quello era il tuo guscio, ma dentro
c’ero anch’io. Dio, è difficile resistere ai doppi sensi.

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Ho detto, roca: «Torna qua. Torna qua subito, o ti farò dire le peg-
giori stronzate che riesco a farmi venire in mente. Roba orrenda e
grezzissima. Indegna addirittura di me, tanto per chiarirci».
Nessuna risposta.
«Ooooooh, Palamedes. Sono considerevolmente meno intelligente
di te. Ficcami la lingua in bocca e lascia che ti ci sbatta contro la mia.»
Niente.
«Trovo che le ossa non siano niente di che.»
Forse eri morta.
«Ohhhhhrr, Gideon, sono stata una vera cretina a credere che una
vasca piena di decrepita carne surgelata fosse la mia ragazza. Ti pre-
go, fammi vedere come si fanno le flessioni. Inoltre, sono palesemente
attratta da t… no, maledizione, questo è triste e basta. Che gran muc-
chio di scemenze.» Stavo perdendo le staffe. Ma forse erano le tue staf-
fe. «Torna qua. Odio questa storia. Mangiami, diventiamo un Littore
vero. Non mi sono buttata su un cancello per questo, Nonagesimus.»
Rumori. Movimento. Un altro zampettamento stridente, vicino
alla porta. E poi un altro.
Mi ero scordata che ce ne sarebbero stati più di uno. I tuoi ricordi
non erano successi a me e, anche se avevo avuto un posto in prima fila
per assistere alla maggior parte di quella roba, era stato come guar-
dare uno spettacolo con gli occhi bendati. Se volevo sapere qualcosa,
dovevo andare a frugare deliberatamente in mezzo alle tue stronzate.
E me ne ero dimenticata perché sono un’idiota. Faceva troppo caldo
in quella stanza e le mie budella – le tue budella – erano così fredde.
Mi ero scrollata via di dosso quella stupida mantella bianca – che, per
la cronaca, è ridicola in una maniera assurda, diamine, come se Silas
Octakiseron si fosse messo a pescare dal cassetto della roba glittera-
ta – e avevo provato a farti tornare indietro contando sulla pura for-
za della speranza, sulla pura forza del desiderio.
Zero. Mi ero buttata la spada in spalla. Le tue braccia avevano ri-
sposto con una vampata.
«Prenditi il tempo che ti serve» avevo detto. «Non preoccuparti,
tesoro. Terrò acceso il fuoco qua a casa.»
E gli Araldi sono arrivati a frotte.

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UN CERTO LASSO DI TEMPO PRIMA DELL’ASSASSINIO
DELL’IMPERATORE

Le sale della Casa di Canaan erano silenziose e fo-


derate di neve cadente: rossa di sangue nuovo e marrone o nera per
il vecchio. Ovunque, duttili tubi organici e noduli linfatici pulsavano
rosati, disposti a bolle attorno ai telai delle porte e ai pilastri lungo i
corridoi. Fuori dalle finestre, reti allungate di organi si erano avvin-
ghiate attorno alla torre come venefiche ragnatele appiccicose. Sof-
focavano la pietra. Filtravano dalle finestre e, a intervalli, fremevano
incerte, eruttando fiotti d’acqua sanguinolenta e schiumosa.
Era abominevole; ma Harrowhark era più interessata ai bizzarri ri-
fiuti che punteggiavano la neve, il mobilio in via di decomposizione
e il mollicciume pavimentizio di tubazioni e fosse cerebrali. Pipette,
di nuovo; contenitori di vetro spaccato pieni di liquidi scuri, con gru-
mi misteriosi che ci galleggiavano dentro; e scheletri frantumati, che
giacevano nella massa strisciante di tubi o su montagne fatte all’ap-
parenza di compresse e pillole. Lì per lì, il suo cervello passò in ras-
segna prima gli scheletri – era la Casa di Canaan, ergo, c’erano degli
scheletri – ma poi un senso di familiarità si affacciò dentro di lei: al-
cuni di quegli scheletri non indossavano le fusciacche o i paramenti
della Prima Casa, ma impugnavano gli attrezzi del Drearburh.
«Continuiamo a muoverci» disse Magnus Quinn, con il tono ami-
chevole ma inamovibilmente ferreo di un genitore che accompagna
un bambino piccolo in bagno. «Non abbiamo tempo per ammirare
il panorama.»
Rimase di nuovo indietro e disse: «Ma dov’è questa stanza?».

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Abigail disse: «Vicino. Gli altri saranno già arrivati, se è andato tut-
to secondo i piani… dammi la mano; dobbiamo uscire».
Il freddo vi colpì come un manrovescio sulla bocca. La neve cadeva
a lenzuolate rapide e accecanti, bruciando la pelle. L’odore gettò tutti
in preda ai conati. La Quinta la condusse lungo una corda assicurata
a un terrazzamento esterno – la nebbia impenetrabile non riusciva a
mascherare il ruggito del mare più in basso e nemmeno il fatto che la
maggior parte della balconata fosse sparita. Poi scesero di nuovo, in
un corridoio così ingombro di gorgoglianti tubi rosa che Harrowhark,
che la tallonava, dovette sfiorarli per scendere una rampa di scale.
Quello era un territorio familiare. Un vestibolo, buio e claustrofo-
bico. Luci difettose in alto, che crepitavano come matte. Ai piedi delle
scale, delle porte di vetro si aprivano su uno spazio precedentemen-
te occupato dalla piscina – ora piena di acqua sanguinolenta, scura,
zeppa di forme galleggianti. L’acqua del Fiume. Abigail si avvicinò a
un arazzo appeso a una parete e, scostandolo con la spalla, rivelò un
passaggio angusto che portava a una sala che Harrowhark conosce-
va bene. Disse: «Assolutamente no».
«Non è chiusa» disse Magnus. «Ed è stata risparmiata… niente
pioggia di sangue, niente di molliccio.»
Harrow rimase stupefatta da un livello ulteriore di consapevolezza
e di presa di coscienza mentre Abigail si approcciava all’imponente
porta Littoriale dalle colonne massicce, con i suoi animali cornuti in
rilievo e la traversa di pietra nera e marmo scolpito. Bussò eseguen-
do una perentoria sequenza di colpi a cui, dopo un istante, fu rispo-
sto con uno scalpiccio dall’interno. Non si trattava semplicemente di
una porta chiusa dei tempi passati; era la stanza di una persona. E per
quanto riguardava il proprietario…
La porta si spalancò come uno sbadiglio. La fila di luci elettriche
illuminò la vecchia area del laboratorio: una fila di panche con un as-
sortimento di sedute consunte e butterate; libri e vetusti raccoglitori
ad anelli ammassati in un angolo; un mosaico di ossa incastonato alle
pareti; e il poster su velina di un costrutto a sei braccia con un corpo
massiccio e una testa dal cranio piatto, il vecchio dominatore della
sala di Reazione. La vera Settimus era lì, curva su un plico di veline.
Le scartabellava come se stesse cercando qualcosa. Poco lontano era
stato creato un assembramento di seggiole, c’era un divano fodera-

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to di pelle e un lungo tavolo dove la Luogotenente Dyas stava dispo-


nendo un’antica collezione di armi da fuoco rugginose. E poi c’era la
scaletta che portava su al soppalco con la sua libreria, la sua poltrona
e i suoi due letti; seduto in poltrona c’era Ortus Nigenad, il suo pri-
mo – o secondo? – paladino.
Il paladino di Septimus aveva aperto la porta. Harrowhark restò
nuovamente sconcertata da Protesilaus Ebdoma, che non aveva mai
visto da vivo; se chiunque altro l’avesse visto da vivo, non sarebbe mai
stato possibile scambiare uno zombie ciondolante per la sua versione
autentica. Cytherea era una Littrice e per lei non sarebbe stato diffi-
cile fare di meglio; semplicemente, aveva ritenuto che non ne valesse
la pena. Harrowhark aveva pensato sin dall’inizio che quella donna
desse mostra di un ego suppurante, ma non era mai riuscita a con-
vincere Gideon a guardare oltre quegli occhi graziosi e a quegli abi-
ti dalla morbidezza fasciante. Protesilaus li accolse con un inchino
cordiale e dichiarò, con la sua voce profonda e sonora: «Maestro si è
rifiutato di unirsi a noi».
«Oh, cielo. Zampetta ancora in giro nella speranza di morire,
immagino.»
«Non saprei, Lady Pent.»
Lo spazioso appartamento era più pulito e più… vissuto rispetto a
quando lei e Gideon avevano aperto per la prima volta la porta, sac-
cheggiandone i misteri. Vedendo la sua espressione, Pent spiegò: «Mi
serviva un posto dove tenere i bambini, all’inizio».
«I chi?»
«Hai evocato anche Jeannemary e Isaac insieme al resto della ciur-
ma» disse con calma Abigail. «La prima cosa che ho fatto è stata esco-
gitare un modo per farli tornare al Fiume. Non se ne volevano an-
dare, ma li ho obbligati. Avrei fatto lo stesso per chiunque altro – se
solo Silas me l’avesse chiesto; quel che può essere accaduto alla sua
anima mi preoccupa orrendamente.»
La concentrazione di Harrow tornò ad affilarsi. «Avete modo di
andarvene?»
«Sì.»
«E allora perché non lo fate?»
«Chiunque sia rimasto» rispose Abigail, «ha scelto di rimanere, e
di rischiare la propria vita… o la propria anima, dovrei dire.»

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«Ma qual è il rischio? Si può nuocere a uno spirito?»


«Uno spirito può essere intrappolato» fece Abigail, «intrappolato
com’è intrappolato ogni spirito nel Fiume… so che potrebbe lasciar-
ti interdetta, Harrow, quindi approfondirò. Il Fiume è pieno di folli,
coloro che cercano di attraversare…»
Magnus tossì pacatamente, alla maniera della Quinta Casa, e dis-
se: «Che aspettano il tocco di nostro Signore nel giorno di una se-
conda Resurrezione».
«Che cercano di attraversare, amore mio» proseguì sua moglie, pa-
ziente, «per raggiungere quello che si cela oltre; che si ammassano in
un’imponente moltitudine senza fine, pazzi, privi di direzione; o peg-
gio, che sono rimasti imprigionati sul fondo, un aspetto di cui cono-
sco molto poco… temendo tutto quello che so. Jeannemary e Isaac,
che hanno già sopportato così tanto e che non hanno mai fatto nulla
di male, a parte cercare di farsi vicendevolmente un piercing alla lin-
gua, avrebbero meritato di solcare leggeri queste acque. Per Harrow­
hark non sarebbe mai dovuta esistere la possibilità di interrompere la
loro avanzata – no, tesoro, non zittirmi. Lei conosce l’eresia.»
A modo suo, quella era un’orrenda calunnia rivolta al Sepolcro Si-
gillato, a ciò che vi giaceva e alla Nona Casa per l’eternità. Quando
era più giovane, e considerevolmente più stupida, se la sarebbe potu-
ta prendere. Ma ora a Harrow non interessava più. Era pesantemen-
te distratta. Sostenne il fermo sguardo castano della donna che aveva
di fronte, con quei capelli in ordine e le muffole morbidose, e disse:
«Sono trascorsi migliaia di anni dall’ultima volta che qualcuno si è
preso la briga di credere a quel che c’è oltre il Fiume».
«Eppure io ci credo più che mai, ora che sono morta» ribatté Abi-
gail, sorridendo.
«Ma Dio…»
«Sono fermamente convinta che l’Imperatore Magnanimo non sap-
pia nulla di quella landa inesplorata. Non ha mai sostenuto di essere
onnipotente. Per tutta la vita ho desiderato sottoporgli le mie scoper-
te» disse, meditabonda. «Credo ci sia un’intera scuola necromantica
che non possiamo nemmeno cominciare ad approcciare finché non ne
riconosceremo l’esistenza… credo che questi secoli passati a sbeffeg-
giare l’idea che ci sia uno spazio oltre il Fiume abbia soffocato bran-
che intere di magia spiritistica, e sono convinta che il declino della

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Quinta Casa sia totalmente da imputarsi al nostro raggiungimento


di uno stadio di instupidimento e di autocompiacimento, nel nostro
approccio… Oh, spero ardentemente che mio fratello abbia trovato i
miei appunti! C’è qualcosa qua nel Fiume che è andato terribilmente
storto, Harrow, e mi auguro che tu possa scoprire di cosa si tratta.»
La Luogotenente Dyas non sollevò lo sguardo dall’ennesimo fuci-
le che piazzò sul tavolo e disse: «Occupiamoci prima di quello che è
andato storto qua».
«Giusto. Tu non mi consideri un’eretica squilibrata… vero, Mar-
ta?» domandò Abigail con improvvisa concitazione.
«No. La Seconda Casa non si arrovella sul Fiume» fece Dyas. «E
se lo facessimo ci sarebbero solo altri moduli da compilare. Quinn,
fammi vedere dove hai trovato quei proiettili.»
Harrowhark si era sorpresa a evitare le scale con lo sguardo, e an-
che la poltrona; era da codarda, ma ora guardò dritto da quella par-
te. Ortus incrociò il suo sguardo con una certa tranquillità. Sedeva in
poltrona con il cappuccio abbassato, e aveva aperto un libro; lo sta-
va usando come oggetto di scena per scrivere qualcosa, indisturbato,
su un pezzetto di velina. Salì quelle scale come uno sposo titubante,
arrancando verso un uomo che l’aveva conosciuta ogni singolo gior-
no della sua vita.
Arrivata in cima, gli chiese: «Da quanto lo sapevi? Te ne sei accor-
to sin dall’inizio?».
«No» fece lui. «Non del tutto, finché non ho parlato con Lady Pent
e Sir Magnus, circa una settimana fa. A tratti ricordavo, e poi una
manciata di secondi dopo mi dimenticavo di aver ricordato qualco-
sa. A volte sapevo, e altre volte non sapevo niente. Mi rendo conto
che non abbia molto senso» aggiunse, con umiltà.
«Ortus» gli disse. «Niente inchini e genuflessioni con me. La mia
famiglia ti ha ucciso.»
«No. Il Maresciallo Crux mi ha ucciso, e pure mia madre» disse, e
abbassò gli occhi quasi neri sul foglio in equilibrio sul libro, annotan-
do qualcos’altro. «L’ho capito quando abbiamo scoperto la bomba. Il
pilota l’ha trovata a metà strada, e ha fermato la navetta in modo che
potessimo esaminarla; e mia madre piangeva e strillava mentre lui e
io cercavamo di capire com’è che funzionava, ma ovviamente nessu-
no lì era esperto di bombe.»

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Le si strinse il cuore. Gli disse: «Me ne assumo la piena responsabilità».


«Vorrei che non lo facessi» disse Ortus.
«Sono stata io a chiedergli di mettervi su quella nave. Stavo cer-
cando di…»
«Non importa quel che stavi cercando di fare» disse lui, prenden-
do la velina e infilandosela in tasca. «Se sei colpevole… sei colpevole
solo di aver concesso al maresciallo i mezzi per assassinarmi. Il Ma-
resciallo Crux non era un brav’uomo… eppure, forse, ha fatto quello
che credeva fosse appropriato. Se avessi detto, magari: “No, devo ri-
manere e fare il mio dovere, assistendo la Reverenda Figlia secondo il
suo volere”, allora avrei vissuto. Ma sono stato un vigliacco, e ho per-
messo a mia madre di sovrastarmi. Mia madre era forte… così forte,
ho saputo, che il suo spirito ha perdurato oltre la morte. Io ero debo-
le. Sono sempre stato debole, Harrowhark, mia Signora.»
Lei lo interruppe: «Non chiamarmi così».
«Le mie scuse, Reverenda Figlia.»
«Non chiamarmi “mia Signora”» gli ripeté. «Non mi devi nulla.
Non mi devi fedeltà. Non mi devi alcun servigio. Anche se il modo
in cui ho trattato Gideon Nav va oltre ogni possibilità di descrizio-
ne, ho trattato te in una maniera che neutralizza ogni pretesa di leal-
tà da parte tua. Non devi rimanere, Nigenad, chiedi a Pent di farti
attraversare la barriera e di farti tornare nel Fiume.» Come se il Fiu-
me fosse l’opzione migliore, poi. Gli disse: «Nel Fiume sarai relativa-
mente al sicuro».
Ortus posò la penna sul bracciolo della poltrona malandata. Si por-
tò le mani al corpo, con goffaggine – c’era sempre così tanto Ortus,
troppo anche per lui, troppo per sentirsi a suo agio: non sapeva cosa
fare con le dita, non sapeva come sistemarsi su quella poltrona che
riempiva completamente, non riusciva nemmeno ad accettare il fat-
to di occupare dello spazio. Le domandò: «Com’è morta Gideon?».
Lei chiuse gli occhi e si perse in quell’irrealtà frastornante d’oscu-
rità: di instabilità infinitesimali, di equilibri perduti. Erano trascor-
si così tanti mesi: eppure, allo stesso tempo, aveva perso Gideon Nav
solo tre giorni prima. Era la mattina del terzo giorno in un universo
senza la sua paladina: era la mattina del terzo giorno – e tutto quello
che i recessi del suo cervello riuscivano a dire, in una sublime agonia
stupefatta, era: “È morta. Non la vedrò mai più”.

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Harrow disse: «Assassinio».


Ortus fece: «Pensavo che…».
«Un Littore ci ha messe con le spalle al muro» disse lei. «Io ero
completamente esaurita. Camilla Hect, la nostra compagna, aveva
già subito ferite multiple.» L’inconscia malagrazia che aveva riser-
vato a Camilla Hect era un ulteriore colpo alla sua dignità; era una
ragazza che, in realtà, avrebbe dovuto prendere per mano e ringra-
ziare a profusione per ogni volta che aveva cercato di salvare la sua
paladina. «Nav aveva una rotula fratturata e un omero rotto. Si è tra-
fitta il cuore su un’inferriata perché pensava che l’avrei usata per di-
ventare un Littore. Sputerò in faccia a chiunque mi venga a dire che
si è suicidata; era in una situazione impossibile ed è morta cercando
di uscirne. È stata assassinata, ma ha manovrato il suo omicidio per
permettere a me di vivere.»
Ortus aveva un’espressione affranta: una tristezza meditabonda e
impalpabile, non la tristezza poderosa che indossava come le sue pit-
ture sacramentali.
«Cos’è meglio?» le domandò. «Una morte ignobile per mano di
qualcun altro o una morte eroica per mano propria? Come la si po-
trebbe narrare? Nel primo caso – abbattuta dal nemico – finirei per
provare un tale odio per il nemico… ma nel secondo – una morte or-
renda da lei stessa orchestrata – chi mi rimarrebbe da odiare? Chi
mai il poeta può giudicare? L’eterno dilemma.»
«Ortus, questo non è un poema» fece lei.
«La odierai, immagino» disse, e Harrow pensò di capire che cosa
intendesse, finché aggiunse: «Non farlo. Se c’è una cosa che so del-
la nostra giovane Gideon… se c’è qualcosa di lei che anch’io ho capi-
to… è che faceva tutto deliberatamente».
Ben poco nel corso della vita di Harrowhark era riuscita a imbaraz-
zarla, fino a quel momento. Uno sconosciuto l’aveva sorpresa nuda.
Era stata baciata da una Ianthe la Prima mezza sbronza. Aveva am-
messo davanti a Dio le sue trasgressioni apocalittiche, e le era stato
cortesemente fatto notare che non conosceva nemmeno se stessa. Era
stata messa nel sacco da Palamedes Sextus, surclassata da Cytherea
la Prima, demolita da Gideon Nav.
Nulla di tutto ciò era riuscita a umiliarla così visceralmente come
lo strillo strozzato, belante e incontrollabile, il pianto di una bambi-

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na, a cui si abbandonò in quel momento, facendo girare di scatto ogni


testa di quella stanza affollata nella sua direzione: «È morta perché io
gliel’ho permesso! Tu non capisci!».
Ortus mollò il libro. Si alzò dalla poltrona. La prese fra le braccia.
Il paladino morto la stringeva con una fermezza serena e modesta; le
carezzava i capelli come un fratello, e le disse: «Mi dispiace così tan-
to, Harrowhark. Mi dispiace per tutto… mi dispiace per quello che
hanno fatto… mi dispiace di non essere stato un degno paladino per
te. Ero tanto più grande di te e troppo egoista per assumermi le mie
responsabilità, troppo atterrito dall’idea di fare qualcosa di difficile o
di doloroso. Ero debole perché essere deboli è facile, e perché il rifiu-
to è difficile da accettare. Avrei dovuto saperlo che non era rimasto
proprio nessuno… avrei dovuto vedere la crudeltà di quello che Crux
e Aiglamene ti spingevano a sobbarcarti. Sapevo quel che era succes-
so a mio padre, e ho sospettato a lungo riguardo ciò che era accadu-
to ai Reverendi Padre e Madre. Sapevo di essere stato risparmiato, in
qualche modo, dal morbo della nursery, e che la verità aveva portato
mia madre al dissesto mentale. Avrei dovuto offrire il mio aiuto. Sa-
rei dovuto morire per te. Gideon dovrebbe essere ancora viva. Ero,
e sono ancora, un uomo adulto, e voi, due bambine abbandonate».
Avrebbe dovuto odiare dal profondo dell’anima tutto quello che le
stava dicendo. Lei era Harrowhark Nonagesimus. Era la Reverenda
Figlia. Lei era al di sopra della pietà, al di sopra della tenerezza di un
membro della sua stessa congregazione che la riduceva alla stregua
di una bambina abbandonata. Il problema è che non era mai stata
una bambina; lei e Gideon erano diventate donne prima del tempo ed
erano rimaste a guardare la loro infanzia che si sgretolava, riducen-
dosi a un mucchio di polvere. Ma c’era una porzione della sua anima
che voleva ascoltare – voleva sentirselo dire più dalle labbra di Or-
tus che dalle labbra di Dio. Lui c’era stato. Lui le era stato testimone.
Harrowhark si sorprese a dire: «Tutto quello che ho fatto, l’ho fat-
to per la Nona Casa. Tutto quello che Gideon ha fatto, l’ha fatto per
la Nona Casa».
«Entrambe avevate più fegato a sette anni di quanto io ne abbia mai
avuto in tutta la mia vita» disse Ortus. «Siete le più degne eroine che
la Nona Casa abbia mai prodotto. Lo credo davvero. Ed è per questo
che rimarrò. Io non sono un eroe, Harrow, non lo sono mai stato. Ma

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ora che sono morto, senza la speranza di poter fare qualcosa di eroi-
co da vivo, spererò nell’eroismo nella morte. E dunque combatterò il
Dormiente insieme a te.»
Era difficile stabilire che cosa fare con quel tipo di contatto. Vole-
va ritrarsi con tutta l’anima, ma allo stesso tempo aveva sbloccato un
meccanismo primigenio e infantile dentro di lei, come se quell’ab-
braccio fosse uno specchio: qualcuno ti metteva davanti un’imma-
gine che ti permetteva di vedere te stessa, invece di vivere con una
supposizione di come potesse essere la tua faccia. Non era come il
tocco di suo padre o di sua madre. Quando si era accostata per la pri-
ma volta alla tomba, fremendo per la meraviglia, aveva fantasticato
sulla possibilità che le dita ricoperte di ghiaccio del Corpo si muo-
vessero impercettibilmente verso le sue. Gideon l’aveva toccata dav-
vero; Gideon le era andata incontro, fluttuando nell’acqua salata con
quell’espressione decisa e scoperta che aveva prima di ogni combat-
timento, la bocca resa incolore dal freddo. Harrow aveva accolto la
sua fine, ma subendo una ferita mortale di ben altro genere – ed era
diventata, per la seconda volta, se stessa. Si staccò da Ortus, con più
riluttanza del previsto.
Ortus disse: «Vieni di là. Ascolta il piano. Ho aiutato anch’io ad
architettarlo… non è complicato, ma è l’unico piano che abbiamo».
«D’accordo» disse lei.
Harrow si chinò per recuperare il libro che Ortus alzandosi aveva
fatto cadere, aprendosi sul foglio. C’era un messaggio ancora leggibile,
scritto in un inchiostro sbiadito e con una calligrafia marcata e fitta:

UNA CARNE, UNA FINE


G. & P.

Lei e Gideon avevano passato in rassegna il contenuto dei casset-


ti. Cenere di sigaretta. Bottoni. Spazzolini da denti abbandonati da
tempo. Un antico sigillo della Seconda Casa. Coti e pistole. Ora sa-
peva a che cosa corrispondeva quella P: Pyrrha Dve.
Ma quella G? E se qualcuno avesse alterato l’osso temporale per in-
fluire sul lobo timpanico in modo da sovrascrivere una parola spe-
cifica con qualcosa di diverso? Il suo aggiustamento nasceva con lo
scopo di beccare un nome, ma aveva finito per beccarne due. Mer-

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cy, Augustine e Dio dovevano averla creduta pazza. E per quanto ri-
guardava il Santo del Dovere…
«Non si chiama Ortus» disse, completamente allibita.
Trovò Ortus che, fissandola con il medesimo stupore inerme, si av-
venturò in un: «Prego?».
«Pensavo che avessi preso il nome da lui – ma non è così» disse
lei, con le conclusioni che si dispiegavano davanti a lei come un den-
te scomposto, in una ributtante e nuda magnificenza di smalto e ner-
vi. «Il mio meccanismo ha funzionato fin troppo bene. Non ha tenu-
to conto del contesto. “Ortus” non deriva dalle tradizioni Littoriali.
Ma se invece il nome di lei, sì? Se l’avessimo battezzata accidental-
mente così per lui?»
Ma che cosa poteva significare? Mercymorn aveva detto che i loro
nomi erano considerati sacri e dimenticati, a eccezione di Anastasia,
che non era mai arrivata al Littorato. Perché il nome di un santo ne-
cromantico veniva evocato in un modo simile?
Il foglio le si ripiegò sul pollice. Sulla seconda facciata – molto più
recente – Harrow lesse:

L’UNICA COSA CHE LA NOSTRA CIVILTÀ POTRÀ MAI


IMPARARE DALLA VOSTRA È CHE QUANDO CI SI
RITROVA CON LE SPALLE AL MURO E LE TORRI CHE
CROLLANO TUTT’ATTORNO E CI SI GUARDA BRUCIARE
L’UN L’ALTRO RARAMENTE DIVENTIAMO EROI.

Aprì la bocca per fare una domanda al suo secondo paladino mor-
to a proposito della sua prima paladina morta – uno schema che co-
minciava a somigliare meno a una tragedia e più a un segno di trascu-
ratezza – ma, al piano di sotto, Abigail stava dicendo: «Harrowhark?
Ortus? Se siete pronti, sarebbe meglio darci da fare. Dulcie ha trova-
to delle candele di sego di buona qualità – per il sangue nessuna spe-
ranza, ovvio – ma con i bambini l’approccio “fuoco e parole” si è di-
mostrato già sufficientemente incisivo…».
Sia la Quinta adepta che il suo paladino avevano l’espressione feli-
ce e quasi soddisfatta di chi sta per imbarcarsi nella sua attività pre-
diletta, come un’escursione o una partita di scacchi, mentre la pala-
dina della Seconda Casa aveva due fucili sulla schiena e l’espressione

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compatta di un soldato della Coorte che sta per imbarcarsi nella sua
attività meno prediletta. Ancor prima di chiederlo, Harrow sapeva già,
col cuore pesante di una maga ossea, quello che tutti quanti si appre-
stavano a fare, ma domandò comunque.
«Qual è il piano, Pent?»
«Be’, lasciamo che siano i fantasmi a seppellire i fantasmi» le dis-
se. «Con l’aiuto di tutti, esorcizzerò il Dormiente.»

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LA NOTTE PRIMA DELL’ASSASSINIO DELL’IMPERATORE

Senti, avevo le migliori intenzioni riguardo al


tuo corpo. Sapevo fin troppo bene che stavo andando in giro con dei
vestiti presi in prestito, e non volevo stropicciarli, incasinarli, buche-
rellarli o, in generale, causare danni a lungo termine. Tutta la supe-
riorità morale che mi ero guadagnata buttandomi su uno spuntone
per te sarebbe svanita all’istante se al tuo ritorno ti fossi ritrovata con
un braccio solo, mezzo piede e il culo sfondato.
Ma la realtà era questa: ci sono volute cinque di quelle api da in-
cubo perché imparassi a gestire la tua presa, la tua forza di base, la
forza delle tue braccia, i tuoi muscoli della coscia e la tua altezza
– e i vincoli operativi con cui mi sono dovuta confrontare in cia-
scuno di questi aspetti riguardavano la “mancanza di”. Anche se ti
fossi tonificata un solo muscolo, pesavi comunque la metà di me.
Mi hanno sbatacchiata di qua e di là come uno dei tuoi scheletri
e in quella camera da letto ronzante, lercia e rovente sono mor-
ta tre volte.
L’unica cosa che ha impedito loro di assalirti in massa era la caren-
za di spazio: si muovevano come una squadra coordinata, ronzante
e schioccosa. Per vincere, dovevano soltanto sommergerci – e lo sa-
pevano. Io ho giocato sullo spazio e la posizione, tenendo lo spado-
ne basso sul fianco perché avevo bisogno di offrirti ogni possibile co-
pertura – ne ho tenute a bada tre con degli ampi diagonali, e poi ho
dovuto sovracompensare perché il peso della mia spada si tirava die-
tro anche te, e una di quelle api mortali ha fatto un ballettino tutto

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ondeggiante col cranio sulla nostra destra e mi ha piantato dritto nel


fianco quel suo gigantesco pungiglione.
È entrato tutto – alla base era largo una mano e ti ha riempito le in-
teriora di acido sgocciolante. Ho abbassato la guardia di botto e l’ho
spezzato, ma ti è rimasto conficcato dentro, il che non era proprio
quel che volevo succedesse – e la creatura è caduta all’indietro e io
mi sono messa a menare colpi alla cieca, barcollando, e il pungiglio-
ne si è gradualmente sfilato con un pop. Mi è toccato tenere la spada
sollevata sopra la testa con una mano sola perché l’altra mi serviva
per tenere tutto quanto dentro di te; c’era della roba che usciva, Har-
row, non so con precisione di che roba si trattasse perché non sono
una cazzo di necromante. Chiamiamolo intestino tenue. Di qualun-
que cosa si trattasse, sarebbe dovuto rimanere ben raggomitolato al
sicuro nel tuo addome ma si stava impegnando parecchio per fuggi-
re. Ci saremmo dovute accasciare e morire, esclamando tristemen-
te: «Oops».
E invece no. Le spire scivolose sono tornate al loro posto quando
ho fatto pressione, e ho dovuto scostarti la mano prima che la pelle
ti ricrescesse sopra le dita. Ci ho spostate sulla porta del bagno e ho
provato a restringere il campo; ho polverizzato il cranio a un coso che
stava zampettando verso di me e gli ho reciso quegli schifosi pistilli
neri che aveva al posto degli occhi – erano tutti diversi; ognuno ave-
va un teschio diverso, e ce n’era uno che invece della mandibola se-
ghettata aveva la bocca circondata completamente di aculei velenosi,
che sparava tipo frecce su ogni superficie, e dopo un po’ non mi sono
nemmeno più presa la briga di scrollarteli via dalle braccia. Eravamo
ancora in piedi. La cosa più importante era quella.
Ne avevo appena accecato uno quando lo spadone è stato afferrato
da un paio di mandibole – non avevi abbastanza forza perché io riu-
scissi a strapparglielo via – e ce n’erano altri che si accalcavano sulla
porta. Smadonnavo e strattonavo e delle fauci teschiate si sono chiu-
se di scatto vicino all’elsa e alla guardia. Non ho tirato. Non portavi i
guanti. E ti ha morsicato via il pollice, miseria porca.
Lascia che te lo ripeta ancora: scusami. Non era il mio pollice e
non dovevo permettergli di staccartelo a morsi. Ammetto in toto che
è stata colpa mia, ma quei figli di troia avevano una fame che solo
un pollice poteva placare. Non importa – mi sono messa a urlare e,

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mentre cercavo di afferrare di nuovo quella stramaledetta spada l’ho


visto mangiare il tuo pollice –, questi sono dettagli importanti, non
perdere il filo – e il tuo pollice è ricomparso in neanche mezzo mi-
nuto. L’ho osservato crescere. Il moncherino zampillante è cresciuto
in un osso completo, e poi ci è cresciuta della carne tutt’attorno, ma
nel tempo di un respiro, e poi si è tutto richiuso con la pelle nuova e
l’unghia. L’ho piegato attorno all’elsa e funzionava come se non fosse
appena stato masticato da una vespa zombie.
Insomma, mi sono piazzata sulla porta e ho continuato. Il punto
migliore a cui mirare erano le giunture delle diverse parti – il torace
e l’addome – perché le placche sulle zone mediane erano dure come
l’acciaio. Alcune delle vespe che sotto erano tutte braccia si diverti-
vano a caricarci con la velocità di un ariete: le ho segate in due. Altre
avevano quattro gambe e amavano saltare, e io gli spazzavo via i pie-
di appena si alzavano da terra. Ho dovuto uccidere quella che ti ave-
va mangiato il pollice infossandole il cranio col pomolo della spada,
ancora e ancora, finché non ha smesso di muoversi.
Appena mi è parso di aver tolto di mezzo l’ondata che ci aveva as-
salite in bagno, mi sono allontanata dalla porta – e siamo morte per
la terza volta. Uno dei mostri era in agguato, e ha preso la rincorsa
per piantarti il pungiglione nel cervello, ma l’ho parzialmente schiva-
to e ti ha solo mandato a sbattere la testa contro il muro.
Harrow, l’ho sentito. Ti ha fratturato il cranio, cazzo. Ero terroriz-
zata. Stavo subendo il genere di situazione di merda che avevo subi-
to solo una volta, con la felice consapevolezza che sarebbe tutto finito
presto. Bambina mia, quell’ape ti ha spiaccicata. Un cranio non do-
vrebbe fare dei rumori del genere. Il rumore che ha fatto per ricom-
porsi era addirittura peggiore – come un uovo che scoppia di nuovo –
ma visto che stava salvando l’unico cranio che hai, era musica per le
mie orecchie. Ho squartato quell’ape dal torace in giù e ha sommerso
sia me che la moquette con una quantità incredibile di budella puz-
zolenti e di ossa e di sangue verde.
Alla fine, ci siamo ritrovate in un mare di api spaziali morte, e tu eri
inconcepibilmente a posto. Non ti facevano nemmeno male le brac-
cia, non più. Non avevi più il tuo pollice originario e ti avevo sma-
nacciato gli intestini, che è una cosa che può capitare, che ne so, solo
al quarto appuntamento, ma stavi bene.

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Era ormai chiaro che la stazione brulicasse di quegli affari. Tu te n’e-


ri andata e io non sapevo dove cazzo ti fossi cacciata. Le nostre uni-
che alternative reali erano rimanere lì e combattere o andarcene da
lì e combattere: lì dove eravamo le api non sarebbero di certo dimi-
nuite. E faceva sempre più caldo, soprattutto in quella stanza piena
di mucchi fumanti di insettoni redivivi.
Non avevi i guanti. Non avevi nessuna armatura. Quando ti ho tol-
to il manto, che a quel punto era uno straccio pieno di vomito, ho sco-
perto che senza alcuna motivazione apparente avevi la pelle coper-
ta da un gran casino di ossa. Mi è spiaciuto doverle staccare, nel caso
fossero state di qualche utilità, ma di qualunque formula necroman-
tesca ti fossi servita per appiccicartele addosso, non stavano più fun-
zionando e rendevano ancora più difficile farti distendere le braccia.
Allora ho chiuso gli occhi, ho frugato sotto la camicia e le ho tirate
via tutte, ti ho legato i capelli, ho preso la tua spada e me ne sono an-
data. Non ho guardato e ti ho a malapena sfiorata. Non arrabbiarti.
C’erano altri rumori che riecheggiavano lungo i corridoi, ormai.
Riconosco il suono dell’osso contro la spada, quando lo sento. C’era
questo immane mormorio ronzante degli Araldi invasori, e si erano
aggiunti altri di quei belati stridenti abbaiosi, ma c’era anche il cazzo
di suono assolutamente inconfondibile di uno stocco in azione. L’al-
larme gracchiava. Non mi sono messa a correre, ma ho trotterella-
to piuttosto alla svelta giù per il corridoio e poi, mescolato all’allar-
me, ho riconosciuto un ulteriore suono: c’era qualcuno che urlava.
In una biforcazione del corridoio, ho trovato la fonte. Araldi morti
giacevano in un semicerchio disordinato attorno all’ultimo membro
vivente e arretrante della loro banda, e a combattere contro quest’ape
– sbraitando come una forsennata – c’era Pippa Inversa Suprema: la
Littrice che chiamavi Mercymorn.
Strepitava, ubriaca di un purissimo terrore ululante, e si lanciava
di tanto in tanto nella direzione sbagliata, come se avesse lo sguardo
annebbiato. Sono entrata nella sala, senza sapere cosa fare, senza sa-
pere come aiutarla. Nonostante le urla, si stava facendo valere – lo
stocco era uno spillone d’acciaio che balenava dentro e fuori, evitando
le fauci scattanti dell’Araldo e piantandosi nell’orbita oculare nera, in
una pioggia di gelatina. Attorno al suo braccio secondario erano av-
volti i lembi lucenti di una rete. Dopo un colpo andato a vuoto – solo

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ali, nient’altro – si era lanciata contro l’Araldo e gli aveva posato la


mano nuda sulla testa. E l’Araldo era tipo imploso.
Il teschio era sparito, polverizzato, e il torace era collassato su se
stesso come un palloncino sgonfio, mentre le interiora gli si squa-
gliavano via lungo la schiena, quasi con delicatezza. Si era affloscia-
to e, quando era rimasto immobile, la Littrice aveva smesso di urla-
re. Sulla faccia le scendevano dei rivoletti di sangue ed ero convinta
che fosse ferita, ma poi mi sono resa conto che le uscivano dagli oc-
chi, come lacrime. Se ne stava lì piantata con le spalle che sussultava-
no e la mano sulla faccia, con delle ciocche rosso-rosate che le spun-
tavano dalla treccia. Pareva illesa, ma non era un bello spettacolo.
E poi ha guardato dritto verso di noi, prima che potessi schizzare
a nascondermi in corridoio.
La Littrice chiamata Mercymorn ti fissava – non ho mai visto nes-
suno così profondamente sconvolto dallo scoramento. Non si tratta-
va solo di paura: era una specie di immenso panico squassato dal do-
lore, un pozzo di terrore infelice. Era la faccia di qualcuno che aveva
appena visto il suo unico amore buttato a calci in un tritacarne e rie-
merso dall’altra parte sotto forma di mucchio di salsicce.
«Dunque è ora che vieni da me, Prima» aveva detto, sfibrata. «Ar-
rivi ora… alla fine di tutto.»
Sembrava che si aspettasse qualcosa. Non sapevo che cosa dire. Non
c’era verso che potessi spacciarmi per te; ti conoscevo troppo bene.
Mentre entrambe restavamo in attesa, in silenzio come delle idiote,
la sua paura mutò – aguzzò lo sguardo – e la bocca si ammorbidì, ab-
bandonando la linea morbida del terrore preventivo; e disse: «No».
E poi di nuovo: «No.» Ed era così vecchia, Harrow, non so come tu
abbia fatto a sorbirti tutti questi bastardi di una vecchiaia incredibi-
le – era vecchia com’era vecchia Cytherea, e aveva degli occhi asso-
lutamente abominevoli. Mi facevano accapponare la pelle. Quando
ci ha guardate, era come se riuscisse a vedermi attraverso, e stava ve-
dendo un casino di merdate che manco avevo mai sentito nominare.
La Littrice disse: «Non sei venuta, vero? Tu non sei lei. Quello scher-
zo di natura mi avrebbe già assalita… non è mai stata capace di com-
portarsi da umana. Ma tu stai in piedi come un’umana – te ne stai lì
imbambolata come un’umana – tu sei umana». Lo disse con un cre-
scente disgusto inorridito. «Non capisco, però! Ormai Harrowhark

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doveva già essere stata divorata! Doveva morire ore fa, e gli Araldi
sono ovunque!»
«Signora» ho detto io. «Mi stai dicendo che sei stata tu a pugnala-
re la mia necromante?»
«Sì, e mi avrebbe dovuto ringraziare!!!» ha esclamato la Littrice,
profondamente deconcentrata. «Non è stato poi così tremendo… le
ho smorzato i nervi, in un moto d’affetto mal riposto e l’ho spostata
fuori in corridoio di proposito, in modo che se la mangiassero più alla
svelta. E una volta che avessero cominciato a mangiarsela viva sareb-
be già stata pazza e non avrebbe sentito niente! Ma tu sei l’anima…
sei l’anima della paladina che si era infilata in un recesso del suo cer-
vello! Che cos’è successo ai tuoi occhi?»
«Passiamo a una domanda migliore» avevo detto io, sollevando la
spada con le tue mani. «Abbiamo già ucciso un Littore, lo sai, giusto?
Io e Harrow? Lo sai che abbiamo già fatto pratica?»
«Oh, ma chiudi il becco, paladina di Harrow» aveva risposto, iste-
rica. «Sto cercando di pensare. Tu non sei lei – non è lei che ti gui-
da – ma hai i suoi occhi. Perché? Quando mi hanno mostrato il tuo
corpo non mi è venuto in mente di controllare gli occhi. Che stupi-
da, Mercy. Una svista. Credevo di sapere cos’eri, anche se non vole-
vo crederci…»
E io le ho detto: «Ma di che cazzo stai parlando?».
«Sto parlando del fallimento dell’operazione Nona Casa» aveva ri-
sposto lei.
E aveva inclinato di lato quella sua testa color fiore, facendosi rica-
scare i capelli sudati sulla faccia, in quel calore sfrigolante e soffocan-
te, e ci ha squadrate e ha detto, in un tono che pareva quasi sedato:
«Pensavo che la comandante fosse soltanto una ragazza cattiva… una
stacanovista che metteva il lavoro prima della famiglia. Era il tipo…
ma si sarebbe trattato di una coincidenza troppo grossa. Lasciami
pensare. Lasciami pensare. Le bambole gliele ho fatte io – erano per-
fette – e lei deve aver pasticciato con… con l’emissione» aveva detto,
all’improvviso, con trasporto. «Per forza l’ha uccisa! È sempre stata
un’arrogante! La cogliona sapeva che Gideon era sulle sue tracce!»
Qualcosa dentro la tua testa aveva fatto spang quando abbiamo
sentito il nostro nome. Lì per lì suonava stranamente pastoso, irrea-
le, come se fossimo sott’acqua. Ma poi il dolore è sparito.

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La Littrice aveva continuato, strizzando quegli strani occhi rossastro-­


nebulosi come se stesse per piangere: «E poi Gideon ha rovinato tut-
to. E poi la comandante ha rovinato tutto. E poi tu hai rovinato tut-
to. Questa storia sarebbe potuta finire diciotto anni fa. Ma ora è un
pastrocchio… ora dovrò risalirmi tutto il Fiume fino alla casa base e
farmi largo a forza in quell’orrenda setta sepolcrale di Anastasia solo
perché la comandante ha sempre creduto di essere tanto sveglia. Non
so perché Gideon fosse così ossessionato da lei… la bellezza non gli è
mai interessata, e anche conversare con lei era repellente».
Non avevo idea di come cazzo rispondere a questo profluvio incoe-
rente. Aveva detto, sfibrata e petulante: «Prego? Non hai la lingua?
Tu… tu… mutante, errore, merdoso fallimento con gli occhi bovini
che non sei altro. Ho bisogno di pensare. Ho bisogno di pensare. Ma
perché hai quegli occhi, adesso? A meno che…».
E poi, fra tutte le diavolo di cose che avrebbe potuto fare, la voce le
si era spezzata in un gran singulto tremolante. Camminava su e giù. A
un certo punto, aveva buttato indietro la testa come se volesse met-
tersi a gridare, e quei capelli di un colore assurdo le erano scesi ser-
peggiando lungo la schiena. Ma non diceva niente, se ne stava solo lì
in una pozza di luce. Poi era tornata a rivolgersi a noi.
Quando aveva parlato, finalmente, si era fatta gelida e inerte. «Ci sono.
Ho capito. Lipocromo. Recessivo. Tu sei la prova. Lui ci ha mentito… e
tu sei la prova di cui avevo bisogno, nient’altro. Non dovrò introdurmi
da nessuna parte. Non devo tornare indietro.» Un’espirazione. «Buon
Dio… a Cytherea sarebbe bastato guardarti una volta per arrivarci.»
E io le avevo detto: «Di che cosa cazzo stai parlando? Di che cosa
diavolo stai parlando? Un altro Gideon? Chi?».
«Il Littore inviato a uccidere tua madre» aveva detto Mercymorn.
«Ma la madre di Harrow…»
«Non sto parlando a Harrowhark, rimbambita di una bambina mor-
ta» aveva esclamato, sdegnosa. «Sto parlando con te… Nav… Gideon
Nav… Gideon! Che barzelletta… abominio, eresia che non sei altro,
ambizione fallita in ritardo di diciannove anni.»
Mi dispiace, Nonagesimus. Non sapevo che cosa fare. Magari avrei
dovuto girare i tacchi e andarmene da lì, trovare un posto dove rin-
tanarmi in attesa del tuo ritorno. Ma le ho detto: «Che… cosa… c’en-
tra… mia madre?».

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«Perdonami. Errore mio. Non dovrei usare quel termine» aveva


detto la santa necromantica. Buttando indietro entrambe le spalle,
si era pulita via dalle guance quelle lacrime sanguigne ormai diluite.
«Quanto avrebbe detestato la parola “madre”.»
E aveva sollevato lo stocco, si era lentamente srotolata quella rete
dal polso, che era cascata sul pavimento in grandi grovigli ondulati.
Mercy aveva concluso: «È ora di cancellare i miei errori. Cristabel di-
ceva sempre che sono un tipo ordinato».
Schizzò in avanti tenendo lo stocco vicino al corpo, trascinandosi
dietro la rete – cazzo se era veloce –, scostò con un colpo la mia pa-
rata fiacca, in ritardo di un secondo buono, e ci trafisse dritto al cuo-
re. Pulita. Era un affondo semplice, sostenuto da una forza enorme,
proprio al centro del tuo cuore, che sotto la mia supervisione era già
stato sputtanato una volta di troppo. Un affondo chirurgico, esatto.
Il suo stocco era un ago affusolato e, se tu ci avessi incise, aprendo-
ti, avresti probabilmente scoperto che la lama sottile aveva trapassa-
to la massa centrale dell’aorta. Mercymorn lo ritrasse con il medesi-
mo movimento preciso e fulmineo e fece un passo indietro, lo stocco
che grondava sangue. Fu quello il suo errore.
Mentre veniva infilzato, il tuo cuore si richiuse sullo stocco: men-
tre lo stocco veniva ritirato, il tuo cuore si rimarginò, avvolgendolo.
Il taglio così vicino allo sterno si rimarginò all’istante, rapido quan-
to il suo affondo, come una puntura immunizzante nel Drearburh.
Mi ero messa in posizione, con la spada, e l’avevo vista sgranare gli
occhi, impercettibilmente.
«L’hai imparato un po’ troppo tardi quel trucchetto, infante» ave-
va commentato la Littrice.
Ho attaccato. Lei ha parato, automaticamente. Con un colpo di
spada le ho spostato lo stocco di lato e ho fatto qualche passo indie-
tro. Avevo bisogno di spazio. Ho cercato di ricordare tutto quello che
avevi imparato su quella strega con gli occhi pazzi, ma era come far
girare le rotelle nel fango. Non volevo che mi toccasse, di questo ero
certa, anche se non sapevo bene perché. I vapori del calore stavano
trasformando la sala in una nebbia sudaticcia, rendendo la luce ros-
sa che scaturiva dagli allarmi sopra le nostre teste uno strobo tenten-
nante. Pareva che si stesse muovendo anche quando era ferma – si li-
mitava a stare ritta lì, perfettamente immobile, con quello stocco dal

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bilanciamento splendido ancora bagnato del tuo sangue e quella rete


in mano che sembrava scossa da uno spasmo. Non potevo fare altro
che girarle attorno, la spada in posizione di guardia davanti al tuo to-
race come se, questa volta, potessi proteggerti il cuore. Sarei andata
nel panico anche se mi fossi trovata nel mio corpo; ma ero nel tuo, e
lei sapeva qual era l’unica carta che potessi giocarmi. Che cazzo po-
tevo fare, minacciarla coi tuoi pollici che ricrescevano da soli?
Aveva fatto saettare la rete. Quell’aggeggio stramaledetto sembrava
una ragnatela impalpabile, ma c’erano dei pesi; credevo che la usas-
se solo per immobilizzare, non come una cazzo di bola. Mi ha bec-
cato una caviglia e ti ha mandato al tappeto perché continuavo a non
capire bene come gestire la tua massa – tutta l’aria ti è uscita di bot-
to dai polmoni e ci ha trascinate da lei. Con un guizzo del braccio ci
ha rivoltate e ci siamo trovate prone davanti a lei. Ha girato lo stocco
verso il basso: pollice sul pomolo, elsa alta sopra la testa, pronta per
un affondo verticale che ci avrebbe centrate proprio in mezzo agli oc-
chi, trapassando la cartilagine e entrandoti nel cervello con un’incli-
nazione ascendente.
E poi c’è stato un click aptico e il rumore poderoso di una deflagra-
zione che ha sbrindellato il petto della Littrice in uno sfanculamento
totale. Si è sbilanciata in avanti; ci ho levate di mezzo con un ruzzo-
lone. Mercymorn era in ginocchio, e urlava. Non per il dolore, ma nel
modo in cui l’avevo sentita urlare all’inizio, quel belato gorgogliante
di terrore assoluto, le braccia e le gambe che tremavano in spasmo-
dici contorcimenti involontari. Poi si era accasciata sul pavimento in
una pozza di sangue che si allargava man mano.
Mi sono alzata in piedi con la spada, ansimando; sulla soglia da cui
ero entrata anch’io c’era una donna. Reggeva sulla spalla un grosso
fucile a canna doppia, e le volute di fumo che uscivano dall’estremi-
tà rilucevano in quell’afa rossa.
Indossava una tunichetta bianca, sporca di sangue. Era a piedi
nudi. Anche la testa era nuda. I riccioli di quel castano pallido era-
no crespi per l’umidità e l’aria rovente, e il viso era troppo pallido,
gli occhi scuri ed esanimi, non di quell’azzurro incandescente che
somigliava all’acqua radioattiva. L’avrei riconosciuta ovunque. L’a-
vevamo uccisa noi.
Ho ansimato: «Dulcinea» perché ero una zuccona. E poi: «Cytherea».

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La Littrice morta aveva armeggiato di nuovo col fucile di gros-


so calibro – l’aveva aperto ad angolo con un click, e altri filamenti di
fumo sottile erano emersi dalla bocca delle canne. Portava una tracol-
la di proiettili, ne aveva preso uno e l’aveva fatto scivolare nella can-
na, richiudendoci sopra il corpo del fucile. Era stata incredibilmen-
te veloce e non ero riuscita a seguirla bene. Mercymorn continuava
a contorcersi e a strillare – non mi sembrava che stesse morendo per
davvero, ma aveva la schiuma alla bocca come un animale rabbioso.
Cytherea mi fissava con quell’espressione impassibile e l’occhio
spento: e poi, molto lentamente, aveva abbassato l’arma.
Non sapevo che cosa dire – “Grazie? Cos’è, il quinto round, or-
mai?” –, non era necessario che dicessi niente, perché aprì la bocca e,
anche se la voce era quella di Cytherea, quel tono sassoso, duro come
un chiodo non le apparteneva. «Addio» aveva detto.
E il cadavere di Cytherea si era voltato e, con il fucile spianato, era
tornato pesantemente in corridoio; era un’andatura greve e faticosa,
come se sentisse male. Ero troppo allibita per fare qualsiasi cosa. Ero
rimasta lì a guardare quella schiena esile – quelle scapole pronuncia-
te e dolenti, i bozzi lievi della colonna vertebrale.
Mi dispiace. Magari le sarei dovuta andare dietro. Cioè, mi imma-
gino quel che mi avresti detto tu. Tutto quello che posso dire io è che
le cose alla Casa di Canaan erano complicate e, certe volte, c’è una
ragazza carina, più grande di te, che ti dedica un sacco di attenzio-
ni, perché è annoiata o chissà che altro, e tu ti ritrovi in questa situa-
zione dove magari state flirtando o magari no, ecco, e poi salta fuo-
ri che è un’antica guerriera che ha ammazzato tutti i tuoi amici e che
adesso ce l’ha anche con te, e poi morite entrambe e lei rispunta se-
coli dopo nel caldo rovente di una stazione spaziale sacra e, cioè, è
complicato. Capita di continuo, ecco cosa intendo.
Non potevo fare altro che restare lì con la spada spianata, mentre
la Littrice si dimenava per terra di fianco a noi, ed esclamare: «Ma
che cazzo sta succedendo?».

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Posizionarono le candele descrivendo un
cerchio attorno al sarcofago del Dormiente. Abigail era impegnata a
tracciare un immenso diagramma col gesso, che necessitò di parec-
chio tempo visto che ogni manciata di minuti era costretta a infilare
di nuovo nel guanto le dita arrossate e insensibili, o lasciare che suo
marito le riscaldasse le mani strofinandole fra le sue. Harrowhark di-
segnò delle barriere all’apice di ogni candela, come da istruzioni ri-
cevute, accovacciandosi vicino al viso sorridente e non più intubato
di Dulcie Septimus.
Niente neve, là sotto. Grandi ghiaccioli simili a stalattiti sembravano
destinati a sgretolarsi; un reticolo di un rosa oleoso era stato teso da
uno spuntone all’altro, gelato dal freddo. Detriti di vetro rotto e poz-
zanghere stagnanti di fluidi ghiacciati ingombravano ogni angolo, vi-
rando a un grigio verdognolo sotto al ronzio doloroso delle luci. Funi
di tubi e ghiaccio penzolavano attorno alle imboccature di ogni cor-
ridoio radiale nella sala ennagonale, ondeggiando sulle targhe che un
tempo avevano dichiarato lo scopo di ogni passaggio. Le uniche lettere
ancora visibili sotto a quelle viscere pendule e pulsanti erano una S, il
CO che un tempo aveva designato CONSERVAZIONE, l’OB che una volta
era appartenuto a OBITORIO e un TRE quasi completamente oscurato.
La cassa di cristallo al centro della sala era così annebbiata dal freddo
che non si riuscì a pulirla nemmeno quando la Luogotenente Dyas,
una donna che, come Harrow stava cominciando rancorosamente a
constatare, non temeva né il dolore né la morte – dopo averli esperi-
ti entrambi –, la sfregò con la manica. In quelle condizioni non era-
no in grado di vedere l’interno, il che probabilmente era un sollievo.

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L’enorme lavagna bianca con la vecchia intelaiatura di metallo, il


suo calendario sbiadito e le chiazze marroni ospitava di nuovo del te-
sto. A Harrowhark era preso un colpo quando l’aveva visto:

CAPOLINEA. PRECIPITO. L’OSSIGENO NON BASTERÀ


PER COPRIRE LA DISTANZA E NON DIROTTERÒ
L’ENERGIA DAL CARICO. INVECE TI COSTRINGERÒ
A GUARDARE OGNI ISTANTE MENTRE MI PRENDO
L’ULTIMO PRIVILEGIO CHE TU NON PUOI GODERTI FIGLIO
DI PUTTANA SORPASSATO CHE NON SEI ALTRO.
SPERO CHE ENTRAMBI SIATE DISPIACIUTI QUANTO ME.

Disse a Ortus: «Pensavo che i messaggi fossero allucinazioni, an-


che se non ho mai avuto allucinazioni del genere, prima. Era più fa-
cile credere che stessi soccombendo di nuovo alla pazzia».
«Harrow» le disse lui, «sono arrivato alla conclusione che tu non
sia mai stata pazza… chi può giudicare la pazzia, d’altronde?»
Se non si trattava di pazzia, la situazione le pareva ben peggiore.
Avrebbe odiato ritrovarsi controllata da lei. Si sorprese a ribattergli,
secca: «Che succede, allora?».
«La mente può sopportare la pressione fino a un certo punto prima
di sviluppare delle deformazioni» le disse lui, meditabondo. «È stra-
no: anni e anni dopo la sua morte, sentivo spesso il rumore che face-
va… il modo in cui armeggiava con la maniglia, con l’impugnatura…
mio padre, fermo davanti alla porta della mia cella.»
Harrow gli domandò: «Ti mancava?».
Ci aveva riflettuto su. Nell’oscurità di quella grande sala centrale in
quel complesso sotterraneo – un posto in cui lui non era mai appro-
dato prima, e in cui lei sentiva di aver lasciato così tanto di se stessa,
nonostante avesse percorso quei corridoi rivestiti di metallo solo per
poche settimane – somigliava a una vecchia statua, a un paladino del-
la Nona Casa scolpito nella roccia di qualche tomba profondissima.
E le aveva detto, pensoso: «Di tanto in tanto immaginavo che tor-
nasse in vita, solo per poterlo guardare mentre moriva. Una fantasia
che mi dava sollievo».
Harrowhark si era accosciata accanto allo spirito della necromante
della Settima Casa e tracciava barriere con puntiglio, usando l’estre-

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mità smussata di uno spillone. Tutti a parte Harrow erano andati da


Abigail a farsi incidere le barriere sui palmi: il tempo che ci mise a ca-
pire che si trattava di contro-barriere – e che a lei non ne occorreva
una – la imbarazzò. Loro erano i morti. Per il momento, lei era viva.
Dulcie scambiò l’espressione di Harrow per curiosità riguardo al tu-
bicino mancante. Si tastò una narice e disse, allegra: «Abbiamo pen-
sato che non ne avessi veramente bisogno. Non sto respirando affatto
male. Abigail e io abbiamo ipotizzato che qui istituiamo in una certa
misura le nostre regole; ecco perché non sono conciata troppo male».
Harrow disse: «Questo spiegherebbe perché eri condizionata da-
gli stimoli fisici… perché avevi bisogno di mangiare, e perché perce-
pisci il dolore».
«Sì, e ho sempre creduto che se mi fossi fatta otto ore di sonno, un
po’ di stretching e non ci avessi pensato troppo, non mi sarei aggra-
vata affatto» disse l’adepta, rivolgendole quel suo sorriso sprecato,
tutto fossette, che era l’unica cosa che Cytherea era riuscita parodi-
sticamente a replicare con una certa accuratezza. Disse: «Pal dice-
va sempre che sarei stata la sua rovina. E io ero… lui e io non siamo
nemmeno riusciti a incontrarci. Non me ne sono mai andata dav-
vero da Rhodes. Che bastardata. L’hai uccisa quella Littrice, vero?».
«Sì» fece Harrowhark.
«È stata una cosa rapida?»
«Più rapida di quanto si sarebbe meritata» fece Harrow.
«Ha pugnalato Protesilaus prima ancora che riuscisse a tirare fuori
la spada dal fodero» disse lei, incidendo uno svolazzo nella sua bar-
riera. «Poi ha cominciato a farmi delle domande. Chi erano i miei
amici? Stavo abbastanza bene da presentarmi in pubblico? Ero spo-
sata? Le ho raccontato un bel mucchio di stronzate» concluse Dulcie.
«Sapevo che avrebbe preso il mio posto – pensavo che magari Ca-
milla, almeno lei, avrebbe capito che c’era qualcosa sotto… ma nien-
te da fare. Non ricordo nemmeno di essere morta… gentile da par-
te sua, suppongo.»
Non c’era traccia di risentimento sul suo viso, sfibrato prima del
tempo, profondamente solcato dai segni del dolore e dell’affetto. Con
i riccioli tagliati corti e gli occhi teneri, sotto una certa luce Dulcie
Septimus sembrava una bambina; sotto un’altra, pareva più vecchia
di Magnus. Aveva un sogghigno sbilenco che scopriva dei minuscoli

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dentini bianchi e in quel sorriso non c’era il minimo accenno di pietà


o di condiscendenza.
«Non capisco perché tu sia qui» disse Harrow, buttando alle ortiche
la circospezione tipica della sua Casa. Le disse, con sincerità: «Non
ti conosco. Ti ho a malapena vendicata. Non mi devi alcuna lealtà, e
vale anche per il tuo paladino».
«Oh, Protesilaus è qui perché non potrebbe fare altrimenti» fece
Dulcie con noncuranza, posando una delle candele e, senza vergo-
gna alcuna, infilandosi le mani nella camicia per riscaldarsele contro
la pancia. «Lo adoro, ma è una tale palla. Quanto vorrei che non fos-
se mai venuto con me alla Casa di Canaan. Mi sento malissimo. Sa-
rebbe dovuto rimanere a casa con la moglie e i figli – sua moglie in-
treccia arazzi e coltiva fiori per hobby. Sono andata a stare alla loro
fattoria subito dopo la mia polmonite perché erano convinti che la
temperatura media che c’era lì potesse giovarmi. Se vedo un’altra rosa
mi metto a urlare… ma ormai non corro più il rischio. Non preoc-
cuparti per Protesilaus. Non può fare a meno di essere così favolosa-
mente e goffamente eroico.»
«Ma tu…»
Il sorriso di Dulcie si fece feroce; le labbra si arricciarono, eviden-
ziando che alcuni di quei denti bianchissimi erano leggermente ap-
puntiti. Anche gli occhi smorti parvero sollevarsi agli angoli. Non
era più languida, ma ansante, viva – e mai come in quel momento le
aveva ricordato una fatina maligna. Harrow si ricordò che Palamedes
Sextus aveva trasformato la sua vita in una guerra, pur di inseguire il
desiderio di sposare quella donna.
«L’unica cosa che mi ha impedito di essere chi volevo essere» dis-
se lei, «era il timore che sarei morta presto… e ora che sono morta,
Reverenda Figlia, ne ho le tasche piene delle rose e ardo di vendetta.»
Al che, si sfilò le mani dalla pancia e tornò allegramente a ritoc-
care la barriera.
Non ci misero molto a completare il cerchio. Lavoravano in silenzio
e con destrezza. Quando finirono, il sarcofago era avvolto in un enor-
me circolo di barriere reticolari ancorate alle candele. Abigail, però,
pareva insoddisfatta. «Detesto fare qualsiasi cosa agli spiriti senza dar
loro da mangiare» disse, «e qua non abbiamo del sangue vero… non
c’è niente per adescarlo. Vorrei tanto sapere a che cosa si sta aggan-

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ciando – qual è il collegamento thanergico, e perché è riuscito a se-


guirlo risalendo fino a te. Harrowhark, davvero non hai nessun indi-
zio su chi potrebbe averti infestata? Nessuno dei suoi significanti ti
comunica qualcosa? La tuta? Il sangue? Il fucile?»
Il cervello di Harrow, per quanto fosse ancora un guazzabuglio,
non era più un casino in una stanza buia. La memoria le aveva do-
nato una piccola torcia con cui illuminare il disordine. Si ricordò dei
cenni smozzicati alla Coorte: «Una spada regolamentare da fante-
ria. A due mani».
«La spada» disse lei. «È di Gideon. Ma nessuno degli altri signifi-
canti corrisponde.»
«La spada è appartenuta a qualcun altro prima di lei?»
«Non che io sappia. Aiglamene ha insistito per darla a Griddle dal-
le forniture del Drearburh. Ho firmato l’ordine. La cassa era ancora
chiusa.» La luce non si stava dimostrando utile abbastanza: stava di-
speratamente smuovendo a calci le montagne di detriti del suo cer-
vello. «Ho odiato per anni quella maledetta spada. Non so perché; la
sentivo strana… rancorosa. Non posso negare di aver spesso dato per
scontato che quella lama sarebbe stata l’ultima cosa che avrei visto.
Non lo so» concluse, frustrata.
«Non importa. Sono certa di aver fatto ben di peggio con molto
più materiale a disposizione» disse Abigail, perentoria. «Spostati sul
perimetro. Sei assegnata a Dulcie, io affiancherò Magnus con Prote-
silaus… e poi c’è Ortus.»
«Ortus non dovrebbe combattere.»
«Lo desidera moltissimo. Spero non ci sarà un combattimento.
Sei pronta?»
A Harrow dolevano le labbra; le labbra di tutti erano leggermen-
te spaccate e sanguinanti, e sulle sue così come su quelle di Ortus,
la pittura scrostata creava un mosaico squagliato di un rosa grigia-
stro. Si sorprese a tormentarsi con la punta della lingua le crosticine
screpolate che ormai dimoravano sul suo labbro inferiore. Sollevò lo
sguardo per vedere il viso gentile di Abigail Pent, che era morta; e le
disse: «Ho un grande debito nei tuoi confronti. Mi hai dato così tan-
to, in cambio di così poco».
«Oh, Harrow, che tu sia benedetta. Sono sempre stata una ficcana-
so» le rispose lei, sorridendo. «Non ringraziarmi per essermi impic-

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ciata. Mi hai chiesto di venire, e io sono venuta. Mi rendo conto che tu


non me l’abbia chiesto di proposito, ma mi piace pensare che un gra-
nellino della tua anima abbia percepito che ti trovavi in una situazio-
ne di bisogno e, magari, tra sé e sé deve aver pensato: “Quanto vorrei
che Abigail Pent fosse qua”. Ci vuole un bel po’ d’ego per essere una
psicopompa. Ti ringrazio per avermi permesso di diventare la tua.»
E rivolse un inchino a Harrowhark, con immane grazia. Harrowhark
ricambiò l’inchino, e si ritrovò a dire, di tutto cuore: «Che il corpo del
Sepolcro Sigillato protegga te e i tuoi, Pent».
«Sai cosa c’è là dentro?» domandò Abigail, con gli occhi che le
brillavano.
Harrowhark si schiarì la gola e disse: «Sì».
«È qualcosa di intensamente misterioso?»
«Sì.»
«Dio, adoro le tombe» disse la necromante della Quinta Casa. «Pro-
prio così. Il sipario si apre… luoghi, persone.»
In quel riecheggiante silenzio metallico, si disposero tutti quanti
lungo il perimetro del diagramma. Harrowhark aveva attinto a pie-
ne mani dai panieri di Ortus e se ne stava ben piantata in mezzo a un
mucchio croccante di ossa perfettamente polverizzate. Osservò Abi-
gail e Magnus che attraversavano in punta di piedi, scansando con
passo leggero ogni linea che avrebbero potuto sbavare con le scarpe.
Si scambiarono un bacio solenne. Assistere a quel gesto di intimità
non la imbarazzò; anzi, trovava un qualche vago interesse nel vede-
re un matrimonio dipanarsi di fronte a lei. C’erano numerose con-
troindicazioni che gravavano sui matrimoni tra una necromante e il
suo paladino e, qualunque fosse la strada che Abigail e Magnus ave-
vano deciso di imboccare, doveva essere stata difficile: sapeva che il
matrimonio aveva preceduto il paladinato, il che probabilmente ave-
va reso le cose meno grottesche per entrambi. Si baciarono con la ra-
pidità e la castità di due bambini; Magnus le sfiorò una guancia e le
disse, piano: «Buona fortuna, mia cara». E lei rispose: «Anche a te».
Tutto lì. Niente di più e niente di meno.
Non aveva ancora la benché minima certezza che i suoi scheletri
sarebbero stati in grado di gestire quel freddo gelido e miserabile. Se
doveva sottostare alle regole del suo stato pre-Littoriale, sarebbe sta-
to difficile. Le candele ansimavano e sfarfallavano, ma continuarono

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sportivamente a bruciare. Protesilaus era fermo di fronte alla sua ne-


cromante. Ortus era al fianco di Harrowhark, una grossa massa am-
mantata di nero alla periferia del suo campo visivo che tremolava un
pochino per il freddo e, forse, anche per la paura.
La Luogotenente Dyas le stava davanti. Harrow le aveva riferito,
in laboratorio, che Judith Deuteros era viva, e ne aveva ricavato un
secco: «Lo sospettavo» in risposta. Dyas aveva iniziato ad allonta-
narsi, ma poi aveva sorpreso Harrowhark voltandosi ed esclamando,
all’improvviso: «Gli farà vedere i sorci verdi» in un tono non partico-
larmente meno catatonico, sebbene la sua espressione fosse tutt’al-
tro che neutra.
Magnus si fermò nel punto focale del cerchio, rivolto al sarcofago
congelato. La sua necromante non assunse alcuna posizione partico-
lare. Teneva una brocca fra le mani, una di quelle dell’assortimento
che Protesilaus aveva trasportato con cautela giù per la scaletta del
complesso, e Harrow non sapeva che cosa ci avessero messo dentro.
«Ecco la libagione, per quel poco che potrà valere» disse Abigail.
Versò con attenzione un po’ del contenuto della brocca ai piedi del
sarcofago. Un fugace rivolo di liquido biancastro e lattiginoso formò
una pozzanghera alla base, inerte al gelo.
«Giungesti per conquistare» disse, versando un altro rivoletto.
«Giungesti con furia» disse, e ne versò un altro po’.
«Giungesti brandendo antiche armi» disse, e ancora un altro.
«Giungesti con una spada della Nona Casa» disse, e un altro ancora.
«Giungesti a reclamare un corpo» disse, e capovolse la brocca, la-
sciando cadere le ultime gocce pallide. «Altro non sappiamo. Fanta-
sma inerme, questa non è una supplica… giungiamo invitati; da dove
arrivi tu? Io sono un’evocatrice di spiriti della Quinta Casa. Abigail
per le mie madri, Pent per il mio popolo. Io, che sono morta e arriva-
ta qui nel pieno dei miei poteri rispondendo alla chiamata della Lit-
trice che aspiri a soppiantare. Io reciderò il legame thanergico che ti
collega a questa donna, e ti ingiungo di andartene all’inferno.»
Abigail sfilò la mano dal guanto gonfio e la posò con coraggio, nuda,
sul pannello frontale della bara di vetro ghiacciato. Non trasalì per
il freddo. Un glaciale bagliore azzurro le si diffuse dal palmo, come
se qualcuno avesse acceso una torcia sotto alle dita della necroman-
te. Harrow provò una fitta famelica di desiderio per i suoi legittimi

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poteri – per comprendere quel teorema con gli occhi di un Littore.


Non poté fare altro che rimanere lì a osservare con i sensi smorzati.
Dopo un istante, l’adepta disse: «Il legame si estende fuori da que-
sto luogo, Harrowhark. Lo spirito è collegato a un oggetto fisico di
qualche tipo».
Harrow disse: «E quindi?».
«Oh, possiamo tirare fuori lo spirito da te» fece Abigail. «Ma non
possiamo scacciarlo dalla sua altra ancora. In altre parole, solo per-
ché lo bandiamo da qui non significa necessariamente che lo bandi-
remo anche da là, fuori dal Fiume… ma diamo un bello strattone de-
ciso e vediamo cosa emerge.»
La luce delle candele si intensificò. Se prima ardevano con una blan-
da fiammella gialla, ora bruciavano con la stessa veemenza azzurra
emanata dalla magia spirituale delle mani di Abigail.
Abigail domandò: «Chi sei?».
E con un lampo sodico scaturito dalle mani di Abigail, il coper-
chio del sarcofago si spalancò con una tale veemenza da scardinar-
si, schiantandosi sul pavimento. Uno dei pannelli annebbiati del gelo
che aveva subito violenze assortite dalla Luogotenente Dyas esplose
in una cascata di frammenti. Abigail barcollò all’indietro, ma poi ri-
guadagnò l’equilibrio.
Dentro non c’era niente.
Dal corridoio alle spalle di Harrow – il corridoio che avrebbe do-
vuto condurre all’obitorio – una voce gracchiò, filtrata dalla masche-
ra di un respiratore: «Bel tentativo».
Un click asciutto e dimesso; uno scoppio potente che riecheggiò
nelle orecchie di Harrowhark, e un crunch, mentre il proiettile desti-
nato a lei si conficcava nella lastra d’osso massiccio che si era mate-
rializzata alle sue spalle. La lastra esplose all’impatto, proiettando sca-
glie a mezz’aria e sbalzandola in avanti su quel pavimento gelato col
suo diagramma accuratamente tracciato. Una fitta familiare di dolo-
re le attraversò la testa. Le tempie le pizzicavano, imperlate di sudore
sanguigno. Erigere un semplice scudo le era davvero costato così tan-
to? Le sue riserve erano sempre state così scarse, persino da piccola?
Rotolò sul fianco, e qualcuno la afferrò per un braccio e la trascinò
dietro al catafalco: Ortus. I partecipanti radunati si erano precipita-
ti in cerca di qualsiasi riparo potessero trovare, principalmente alle

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imboccature di STERILIZZAZIONE – SALA PRESSIONE – CONSERVAZIO-


NE. Tutti a eccezione di Protesilaus, che aveva sfoderato lo stocco ed
era rimasto lì come ultimo baluardo, il mantello che sfumava nel ver-
deazzurro alla luce delle candele divampanti. Si era buttato dietro al
collo un capo della catena di metallo lavorato, al quale era annodato
un nastro di un verde sbiadito; il paladino morto della Settima se la
fece scivolare giù per la spalla e cominciò a frustarla in un lento cer-
chio parallelo al corpo, ogni anello fendeva l’aria con un sibilo acuto.
«Non attaccare!» urlò Abigail.
Il Dormiente gli si parava davanti, occupando il suo condotto: la ma-
schera che splendeva smorta alla luce delle candele, quell’enorme fu-
cile con l’impugnatura di legno stretto fra le braccia, l’arancione della
tuta d’emergenza vivido come un grido. Il Dormiente non era, in fin
dei conti, particolarmente alto o massiccio e la voce che emergeva da
quella maschera non era disumana. Anzi, era la voce di una donna.
«Voi maghi non imparate mai» disse la Dormiente.
La canna del fucile si sollevò di scatto con uno schiocco spaccatim-
pani. Protesilaus si era già messo esplosivamente in moto – con una
grazia notevole per un uomo così grosso, era balzato di lato, scaglian-
do l’estremità sibilante della catena verso il mostro arancione che si
avvolse a doppio giro attorno alla canna, bloccandola saldamente. La
Dormiente si limitò a buttare via il fucile e, mentre Protesilaus cer-
cava di liberare la catena, un altro le apparve tra le mani; questo era
molto più piccolo e Harrow ci mise un po’ anche solo a rendersi con-
to che si trattava di una pistola.
La Dormiente avanzò, sparando un colpo a ogni passo, la mano
che stringeva la pistola sostenuta dal palmo dell’altra. Quei colpi fa-
cevano un rumore più acuto e netto, come lo schiocco di una frusta.
Il Settimo paladino vorticava la catena davanti a sé, una ruota sfuma-
ta a mezz’aria, e una delle luci sul soffitto si frantumò in una pioggia
di scintille. La Dormiente gettò via la pistola, accelerò all’improvvi-
so e proiettò il corpo fasciato dalla tuta in una rovesciata, staccan-
do i piedi da terra e carpiando con un’agilità così fluida che persino
Camilla Hect sarebbe stata costretta a commentare con uno scalma-
nato: “Okay”. Protesilaus si era posizionato per ricevere l’attacco, ma
non si era aspettato che la sua nemica lo scavalcasse; quando fece per
muoversi e cominciò a voltarsi, la Dormiente era ormai di nuovo in

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piedi, con l’ennesima pistola in mano. Piroettò leggiadra e gli sparò


alla base della schiena.
Un pop. Una chiazza bagnata gli si allargò sull’addome. Protesilaus
cadde. Accanto a Harrow, Ortus mugolò terrorizzato. La Dormien-
te si voltò verso di loro, teneva la pistola sollevata in cerca di una li-
nea di tiro, con un ricciolo di fumo che usciva dalla bocca dell’arma.
Quando non trovò nessuna testa o nessun arto sporgente in cui fic-
care un proiettile, arretrò, puntò la pistola alla sagoma prona di Pro-
tesilaus e – senza nemmeno guardare – fece fuoco altre due volte.
Il corpo fu scosso da uno spasmo, poi restò immobile. Dulcie urlò.
Scese il silenzio, a eccezione del respiro ansimante e impanicato di
Dulcinea, intervallato da una tosse lacerante. Il corpo di Protesilaus
giaceva lì, pesante e inerte sul metallo freddo del pavimento del com-
plesso, in qualche modo più vivace in quella morte di quanto lo fosse
mai stato in qualità di burattino vuoto della settima santa.
«Ascoltate la vostra capa» disse la Dormiente. «Non attaccate. Non
sono qui per voi, ma non crediate di non poter morire di nuovo. Da-
temi la ragazza, e sarete liberi di tornare all’inferno da cui siete ve-
nuti, qualunque esso sia.»
Abigail disse, da un punto più o meno riparato: «Stai scherzando».
La sagoma con la tuta arancione sollevò la pistola e sparò un colpo
al soffitto. Udendo il frastuono, Ortus si rattrappì; Harrow gli piantò
le dita nel braccio, per quanto non sapesse che tipo di conforto avreb-
be mai potuto procurargli con quel gesto.
«Harrowhark» la chiamò la Dormiente.
La Dormiente lo scandì lentamente, come se non l’avesse mai pro-
nunciato prima: «Har-row-hark» come se fossero sillabe stranissime.
Ma il fatto che un mostro la stesse chiamando per nome non era l’a-
spetto più raggelante. Era il disprezzo limpidissimo con cui lo disse,
come se il suo stesso nome fosse una maledizione.
La Dormiente proseguì: «Qui non puoi nuocermi. Se ti consegne-
rai a me, gli spiriti saranno liberi di andarsene. Se non lo farai, vi an-
nienterò tutti. Questo è l’unico accordo possibile. Vi concedo un con-
to alla rovescia, partendo da dieci, poi l’offerta scadrà. Dieci.»
Harrowhark disse: «Chi sei tu?».
«Per te non è rilevante. Nove.»
«Non tratto con gli sconosciuti.»

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«Per me non è rilevante. Otto.»


Septimus uscì allo scoperto. Era rimasta acquattata, scattando dall’u-
scio dietro al quale si era nascosta verso il riparo offerto da un ban-
cale di attrezzature. Le candele tremolanti delineavano la sua ombra
enorme e sobbalzante. Era rimasta esposta solo per un secondo, ma la
Dormiente aveva puntato la piccola pistola nera con la stessa noncu-
ranza con la quale Harrow avrebbe indicato qualcosa col dito, e ave-
va fatto fuoco. Il braccio fasciato d’arancione assorbì il rinculo, flet-
tendosi. Dulcie strillò e cadde, la gamba spazzata via da sotto di lei.
Harrow chiuse gli occhi per un istante; poi cominciò a rovistare nei
panieri di Ortus, scandagliandoli in cerca dei pezzi migliori, i polpa-
strelli scivolosi di sudore. Ortus ansimava a denti stretti.
«Sette» scandì la Dormiente. «Sei. Cinque…»
«È il mio momento, immagino» fece Magnus Quinn.
Harrow l’aveva completamente perso di vista quando era comin-
ciata la sparatoria e aveva dato per scontato che fosse con Abigail
che, a giudicare dalla voce, doveva trovarsi da qualche parte vicino
a Dulcinea. Ora spuntò dal passaggio immediatamente a destra ri-
spetto a quello da cui era entrata la Dormiente. Si buttò addosso alla
Dormiente da dietro, prima che potesse girarsi per contrastarlo, e la
afferrò con le braccia, stringendola con forza attorno alla vita e im-
mobilizzandole i gomiti lungo i fianchi.
Dall’altro lato della sala, Marta Dyas si precipitò fuori dal suo pas-
saggio, col busto flesso. La Dormiente riuscì a liberare un braccio a
sufficienza per far fuoco ad altezza del fianco, ma lo sparo si pian-
tò nella parete metallica con un vivace schiocco incandescente. Dyas
si tuffò in un rotolamento laterale – un movimento assai meno bel-
lo rispetto alla rovesciata inconcepibile della Dormiente, ma dotato
dell’efficacia scarna di un lungo allenamento – e si rialzò brandendo
il pesante fucile con l’impugnatura di legno che la Dormiente aveva
gettato via. Se lo premette contro la spalla, trasformandosi nel ritrat-
to di chissà quale antica soldatessa su un remoto campo di battaglia,
il bianco della sua uniforme della Coorte che riluceva di un azzurro
pallido in quel mare di candele ultraterrene, e fece fuoco.
Dyas sobbalzò all’indietro per il rinculo e un buco si spalancò nella
tuta arancione della Dormiente, in alto, al centro del petto. Ma non
seguì nessun fiotto di sangue; la Dormiente si dimenava nella mor-

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sa di Magnus, ma restò salda. Dyas sparò di nuovo, e di nuovo, e ap-


parvero altri due squarci, radunati attorno al primo. Harrow scorse
una parvenza di nero sotto al tessuto vivace, ma niente di bagnato o
di rosso, e la Dormiente continuava ad agitarsi con foga nella stret-
ta di Magnus.
Dyas lasciò cadere il fucile e avanzò di corsa, la mano che guizzava
verso l’impugnatura del pugnale che portava al fianco. La Dormien-
te fece scattare la testa all’indietro; era alta all’incirca come Magnus
e l’effetto che ottenne fu di colpirgli violentemente la faccia con il re-
tro del cranio – chissà poi che cranio c’era sotto a quel cappuccio in-
forme. Lui grugnì, ma non allentò la presa. Dyas era quasi riuscita a
colmare la distanza che li separava, pugnale sguainato e vista aguz-
zata, quando la Dormiente alzò entrambe le gambe da terra, si rac-
colse le ginocchia al petto e scalciò con veemenza.
Gli stivali colpirono Dyas al petto, mentre arrivava a passo di cari-
ca. Magnus, lasciato inaspettatamente a sorreggere tutto il suo peso,
barcollò e cadde all’indietro. Finirono tutti e tre per terra insieme.
Dyas e la Dormiente si rialzarono con una rapidità quasi analoga,
forse Dyas si era dimostrata impercettibilmente più veloce, il coltel-
lo ancora stretto nella mano sinistra. Menò un fendente diagonale,
dal basso verso l’alto; la Dormiente le bloccò il braccio con il gomito
flesso, poi avanzò di un passo e le mollò una ginocchiata nella pancia.
Harrow la sentì esalare un respiro sgonfio e sorpreso. La Dormiente
si avvicinò, afferrò il braccio di Dyas che reggeva il coltello, lo anno-
dò in chissà quale presa complicata, e torse. Il pugnale cadde con un
tintinnio musicale sulle pannellature di metallo gelido. Magnus si sta-
va rialzando laboriosamente, la bocca e il mento scarlatti del sangue
che gli colava dal naso, pronto a sguainare lo stocco; la Dormiente la-
sciò Dyas in un mucchietto scomposto sul pavimento, con un brac-
cio che spuntava fuori, e gli sparò allo stomaco. Harrow non aveva
nemmeno visto la pistola materializzarlesi in mano.
Magnus si accartocciò; Abigail urlò. Dyas si era tirata di nuovo
su, reggendosi sulle mani e sulle ginocchia, ma la Dormiente le sfer-
rò un calcione nelle costole, spedendola a pancia all’aria. Le puntò la
pistola in faccia.
«Quattro» disse.
La massa abbattuta di Protesilaus il Settimo si sollevò all’improv-

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viso da terra, schiantandosi con violenza contro la Dormiente e sbal-


zandola lontano da Dyas. Sollevò la pistola, ma lui era già troppo vi-
cino. Le picchiò la catena, avvolta a grappolo, contro la tempia, con
una forza sufficiente a frantumarle l’osso. La frustata spostò di lato la
maschera della Dormiente, e lei barcollò, con la pistola che le scivo-
lava via dalle dita. Protesilaus allentò la catena e si slanciò stendendo
entrambe le braccia e, sulle prime, Harrow pensò che intendesse af-
ferrarla come aveva già provato a fare Magnus. Poi capì: le aveva av-
volto la catena attorno al collo, da dietro, come una garrotta, e aveva
cominciato a stringere. Contro i suoi muscoli, persino la tuta volumi-
nosa della Dormiente appariva piccola. Il sangue scorreva generosa-
mente dai tre fori frastagliati che gli si aprivano sulla schiena, scen-
dendo giù per le cosce e i polpacci e gocciolando per terra.
«Ho già conosciuto la morte una volta» fece lui in un sussurro roco.
«E giuro che non ne subirò un’altra.»
«Sei un tipo sveglio» gracchiò la Dormiente, la voce ancora strana-
mente distorta, come se parlasse attraverso un comunicatore. «Stia-
mo capendo come funzionano i limiti, vero? Non importa. Le rego-
le sono le mie.»
Dyas si era rimessa in piedi e aveva sguainato lo stocco, ma esita-
va: pareva in attesa di scoprire se la garrotta del Settimo avrebbe pro-
dotto risultati più efficaci di quanto avessero fatto i suoi proiettili. La
Dormiente allungò le braccia come se stesse cercando di sistemare
i polsini di una veste invisibile e una pistola le apparve in ciascuna
mano guantata. Si protese all’indietro, tirò il grilletto camuso della
pistola che stringeva nella sinistra, la accostò al ginocchio di Protesi-
laus e fece fuoco. Si sentì uno schiocco smorzato; lui ruggì per il do-
lore e si accasciò su un fianco, come se qualcuno gli avesse calciato
via il bastone che stava usando per sorreggersi. Quando la catena si
smollò, Dyas caricò, colpendo la Dormiente al cuore con uno splen-
dido affondo pulito. La punta del suo stocco penetrò nella tuta e rim-
balzò, tartagliando di lato come se avesse trafitto un pilastro di fer-
ro massiccio. La Dormiente scacciò la lama con il braccio e colpì la
mandibola della paladina con il calcio dell’altra pistola, mandandola
al tappeto come un sacco di porri nevosi che sfuggono dalla presa di
un trotterellante automa del Drearburh. Poi piazzò lo stivale con la
punta d’acciaio sulla gola di Dyas.

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Harrow colse l’attimo, si alzò in piedi e lanciò. Un lungo lancio


rasoterra…
E la Dormiente sparò al grumo d’osso che stava plasmando a mez-
z’aria. Il braccio della Dormiente si muoveva più in fretta di quanto
un braccio potesse muoversi; il proiettile si era dimostrato più preci-
so, forse, di quanto un proiettile potesse essere. Mentre l’osso si ridu-
ceva in polvere, nessuna forma ne scaturì. Harrow lo sentì diventare
inerte al momento dell’impatto, come se il Santo del Dovere l’avesse
toccato, prosciugandolo. Un velo gelido le avvolse il cuore.
«Tre» disse la Dormiente. «Qui siamo al livello base. Avete affer-
rato? Niente magia. Niente trucchetti. Nessuna delle vostre cazzate
schifose. Lo faccio da anni. Nell’istante in cui vorrò che finisca, finirà.»
Harrow riuscì a sentire Dulcinea che imprecava debolmente. Per-
lomeno era viva. Si schiacciò contro il fianco gelido della bara e do-
mandò, alzando la voce: «Cosa succede? Cosa succede se mi prendi?».
Ortus esclamò, concitato: «No, mia Signora».
La Dormiente rispose: «Morirai. Non soffrirai, non necessariamen-
te. Non sono qui per torturare nessuno».
«E?»
«Avrò il tuo corpo.»
«E?»
«Finirò.»
«Finirai cosa?»
«Questa non è una conversazione. Due.»
Harrow sbirciò sopra al bordo del sarcofago. Magnus e Protesilaus
erano entrambi riversi sulle lastre in una pozza di sangue; entrambi
si muovevano ancora, ma non davano l’idea di potersi rialzare. Dyas
era coricata sulla schiena, gli occhi chiusi per la crescente pressione
del piede stivalato della Dormiente – emise un suono flebile e stroz-
zato e, quando con una mano tastò freneticamente nei dintorni in
cerca della sua spada, la Dormiente le levò il piede dal collo per pe-
starle la mano. Crunch.
«Uno» disse la Dormiente.
Accanto a Harrow, nascosto dal sarcofago, Ortus si schiarì la gola.

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Harrow, se avessi avuto le idee più chiare, avrei
finito la Littrice; era completamente indifesa e aveva già cercato di
farti fuori una volta. Invece ci ho riportate nel corridoio rovente – si
stava riempiendo di fumo o di vapore, e gli allarmi si accendevano
come dei pazzi e non riuscivo a trovare nessun indizio su dove po-
tesse essere andata Cytherea. Ho scelto una direzione e mi sono av-
viata giù per un altro corridoio. In quello che stavo percorrendo c’era
una scia di api morte, i teschi che guardavano per aria, mollicciume
verde spruzzato in grosse ragnatele lungo il passaggio – ho levato di
mezzo un’ape viva anch’io, ma si stava trascinando giù per il corri-
doio con un paio di buchi da arpione già aperti nell’addome, quin-
di non potevo aggiungerla veramente alla mia conta. Sono arrivata a
una grande sala aperta, in penombra: soffitti alti, un tavolo enorme
spinto di lato e avvolto da cerate.
C’erano Araldi morti ovunque. Era un troiaio di dita rattrappite
e di mani umane inquietantissime. Il pavimento grondava di bava e
ossa. Uno schifo totale, orribile. Non ti sarebbe piaciuto per niente.
Dopo quella distesa gigante di vespe spaziali redivive, nel buio
più pesto, c’era un’area cucina con qualche altra ape morta. Una ve-
ste bianca macchiata di verde era stata abbandonata sulla soglia e, in
piedi su una credenza…
Lì per lì non l’avevo riconosciuta. L’ultima volta che l’ho vista era
col culo per terra che strillava dopo l’inaspettato divorzio tra il suo
braccio e la sua spalla. Sulle prime credevo che portasse una specie
di guanto di metallo dalla spalla in giù, ma il chiarore che arrivava
dal corridoio le aveva accarezzato la pelle dell’omero, dorata e scu-

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ra, l’articolazione che scivolava silenziosa rispondendo al movimen-


to delle ossa gemelle dell’avambraccio, lo stocco stretto nelle dita os-
sute che si chiudevano su un disgustoso cuscinetto di grasso, dove ci
dovrebbe essere stato il palmo. I capelli e la pelle erano incolori; ve-
dendomi, il viso pallido le si era illuminato.
«Harry» aveva detto. Harrow, era sinceramente felicissima di ve-
derti. Il sorriso sulla faccia smunta della gemella era autentico. «Har-
ry, sei…»
Mi sono avvicinata e, cazzo, le ho rovinato di brutto la giornata.
«Viva, stronza» ho detto.
L’espressione le si era indurita come se le avessero buttato la faccia
nel cemento a presa rapida. Nella penombra, il suo volto era una pal-
lida chiazza fluttuante dai lineamenti velati: non riuscivo a immagi-
nare come fossero gli occhi, ma sapevo che non erano i suoi. Era or-
mai ascesa da un bel pezzo al rango di doppia faccia di cazzo. Ianthe
si era buttata una ciocca di capelli inzuppati di bava dietro la spalla, si
era appoggiata alla parete della cucina e mi aveva detto: «Oh… sei tu».
Nonagesimus, mi dispiace. Per tutta la vita ho fatto mediamente la
brava. Niente di perseguibile a livello criminale, perlomeno. Ho fatto
un sacco di merdate di cui non vado fiera – alcune le rimpiango, altre
no. Mi pento senza dubbio di non aver buttato Crux a pedate giù per
una rampa di scale e di non essere rimasta lì a guardarlo fare: “Ouch,
ah, le mie ossa” a ogni gradino, il che adesso che ci rifletto forse non
mi aiuta a perorare la causa che sto cercando di portare avanti qua
– ma insomma, non sono mai stata uno schifo completo. Potrai con-
cordare, mi auguro.
Ma quando ho visto quella pennellona malmostosa e ho sentito
quell’«Oh, sei tu» così diffidente… come se non ti avesse mai presa
per il culo; come se non avesse finto di non vedere un cadavere che
era palesemente lì; come se non ti avesse mai incasinata di proposito
o non si fosse mai presa gioco di te; come se non ti avesse mai vista
vulnerabile e non ne avesse approfittato schioccandoti davanti quelle
labbra pallide da mummia; come se non ti avesse mai messo le mani
addosso o non si fosse mai fatta desiderare da te, senza immaginare
che sarebbe arrivata la resa dei conti…
Ci sarebbe stata eccome una stramaledetta resa dei conti, Nonage-
simus… non c’era conto che non le avrei fatto pagare.

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Le avevo detto: «Vuoi essere presa a calci in culo subito o vuoi che
ti prenda a calci in culo più tardi, o entrambe le cose?».
«Per cortesia, affrontiamo la questione da gentildonne» aveva det-
to Ianthe, senza troppe speranze.
«Che diavolo, no! Ti staccherò il culo, tutto intero, ecco cosa farò»
le avevo risposto. «Ti piacerebbe? Vuoi che Harrow ti faccia ricresce-
re un bell’osso nuovo del culo quando avrò finito di strapparti quel-
lo vecchio? Apriamo le danze, Tridentarius.»
«Non sta succedendo davvero, non è possibile.»
«Neanche le piaci, okay? Sono le ossa e basta. A lei piacciono le ossa.»
«Uno dei numerosi dettagli di cui ora ti trovi tragicamente sprov-
vista.»
«Vieni giù» avevo insistito. «Battiti con me.»
«Avrei dovuto immaginarmelo nell’istante in cui i tuoi passi han-
no nuovamente offeso quest’universo che mi avresti lanciato una di
queste sfide ridicole» aveva proseguito lei, sfibrata. «Ma com’è che ti
chiamavi? Goblin? Gonade? Dammi una mano.»
«Il tuo paladino sapeva come mi chiamavo» le avevo detto. «Co-
rona sapeva come mi chiamavo. Lo sai anche tu come mi chiamo.»
Lei era rimasta in silenzio in silenzio.
Avevo commentato: «Gonade non era niente male. Piuttosto
spassoso».
«Grazie.»
«Goblin no.»
«Non è una bella giornata. In questo momento sono veramente
stressata. Non starmi addosso.»
«Ti concederò altri tre minuti di ragionevolezza, dopodiché ti pe-
sterò così forte che finirai per somigliare a una bandiera della Quarta
Casa» le avevo detto, abbassando la spada. «È finita? Hai fatto quel che
dovevi fare, hai presente, no? Combattere contro quel cavolo che era?»
«La Bestia Resurrezionale?» aveva chiesto lei. «No, se proprio vuoi
saperlo. Ci siamo scontrati per un po’. Mercymorn è sparita… nessuno
se lo sarebbe mai aspettato. Poi Harrowhark è andata al tappeto. Quello
ce lo aspettavamo, anche se avevo sperato che… la faccenda si è com-
plicata. Dopo che Augustine ha mollato il colpo non avevo intenzione
di rimanere là sotto con una squadra di due persone. Quella creatura
è… grossa. Sono risalita in superficie. Ed eccomi qua. Ed eccoti qua.»

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«Se ti riferisci a quella pippa inversa, quell’asina con la rete» le ave-


vo detto («Sì, Mercy» aveva risposto Ianthe all’istante), «ha piantato
una spada nella schiena di Nonagesimus. L’ultima volta che l’ho vi-
sta, si stava dimenando in una pozzanghera.»
Il viso bianco si era affilato, nell’oscurità. L’avevo sentita inspirare.
«Sei sicura che Mercy abbia cercato di uccidere Harrow?» aveva do-
mandato, dopo un istante.
«Sì.»
«Ma non ha alcun… Perché dovrebbe fare una…?»
«Non venire a chiedere a me delle cazzo di informazioni. Non po-
trei essere più disorientata di così.»
«Aiutami a scendere, Nona» mi aveva chiesto. «Non posso cammi-
nare sopra a quella roba senza soccombere al potentissimo impulso
di urlare e di lasciare andare la vescica, e dobbiamo parlare, tu e io.»
Le avevo aperto un passaggio a pedate – o facendo rotolare via un
po’ di api con le tue braccia, spostandole fuori dalle scatole a spallate
finché uno stretto sentiero non era stato liberato per far passare Ian-
the, che per tutto il tragitto non aveva mai smesso di rabbrividire. Una
volta arrivate in corridoio, si era presa una pausa di qualche istante,
appoggiandosi contro il muro, incorniciata da una decorazione os-
sea incredibilmente pacchiana – tutti quegli scheletri coi loro com-
pletini, e i busti mummificati nelle nicchie, e quei ventagli di braccia
piene di gioielli o di spade o di chissà che altro. Quel posto sembra-
va una festa dov’erano tutti morti. Si era bloccata quando avevamo
sentito quel ronzio infernale che arrivava dal fondo del corridoio, se-
guito da un grido.
«Stai qui» le avevo detto.
«Ma fottiti» aveva risposto lei, greve. «Non sono diventata l’otta-
va santa al servizio del Re Imperituro per spedire Gideon Nav a fare
l’eroina al posto mio.»
«Perché sei ascesa al Littorato, allora?»
«Il potere supremo… e i poster con la mia faccia.»
Legittimo.
Il corridoio finiva in uno slargo su un ambiente più ampio, palese-
mente allestito per mettere in mostra ogni singolo trofeino squallido
del Re Imperituro. La sala era perimetrata da colonne d’osso che tra-
sudavano per il caldo – rivoletti di condensa sgocciolavano giù per i

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bassorilievi pallidi – e, nonostante fossi lì pronta con la mia spada, era


troppo tardi. Le api erano già stecchite. Penzolavano ordinatamente
dai soffitti intrappolate in reticoli strangolanti di tendini, stritolate a
morte, fiotti consistenti di secrezioni verdi gocciolavano dai loro cada-
veri sulle piastrelle bianche e nere. Nel pandemonio, alcune delle lam-
pade erano state frantumate e, persino in quel momento, dondolava-
no pericolanti dal soffitto, sfarfallando su quello scenario orripilante.
Una sagoma era ferma in corridoio, respirava affannosamente nell’in-
cavo del gomito. Non aveva nemmeno sguainato lo stocco, anche se
qualcuno a un certo punto doveva per forza averlo fatto, visto che le
api morte giacevano a mucchi nell’angolo, ordinatamente segmenta-
te. Era il Littore che chiamavi il Santo della Pazienza, vivo e illeso, a
parte il lucore del sudore e del sangue su quei lineamenti snob da ari-
stocratico. Ero rimasta ancora una volta colpita da quanto i Littori
sembrassero sempre vagamente irreali – o come se fossero più reali
di chiunque altro, più presenti, dipinti a tinte più sature. Continuava
a lisciarsi con una mano la capigliatura chiara e grigiastra, appiatti-
ta all’indietro, e sembrava impegnato in una seria riflessione sull’op-
portunità o meno di mettersi a vomitare a spruzzo. Quando ci aveva
viste ferme sulla soglia, si era avvicinato e aveva sbottato: «Pulcina,
dobbiamo tornare laggiù. Gideon non è riemerso in superficie, quin-
di sta combattendo quell’affare infernale da solo. Aiutami a trovare la
tua sorella maggiore… aspetta un secondo, Harrow?». Il suo stupo-
re si era tramutato quasi all’istante in un fastidio distratto: «Per cari-
tà dell’Imperatore, Harrowhark, se eri sopravvissuta, non avresti po-
tuto, perlomeno, tuffarti per assisterci nel…».
Ma si era bloccato all’improvviso, e ci fissava.
Fissava la tua faccia. Aveva guardato i miei occhi sul tuo viso nel-
lo stesso modo in cui li aveva guardati l’altra Littrice, e tutto il colo-
rito che poteva esserci sul suo si era prosciugato.
Ai miei tempi ne ho viste di cose – spade, fotografie di signore che
hanno accidentalmente smarrito i propri indumenti, un mucchio
di cadaveri… roba eclettica, forse, anche se non della più ampia va-
rietà – ma non ho mai visto nessuno guardare qualcosa nel modo in
cui quei Littori guardavano noi. Mercymorn ci aveva squadrate come
se fossimo l’illustrazione vicino a “infelicità” sul dizionario. Augusti-
ne ci guardava come se fossimo l’ultima cosa che mai avrebbe visto.

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«John» aveva ansimato. E: «Gioia». E poi… se l’era data a gambe,


cazzo.
Quando ci ho fatte voltare verso di lei, Ianthe ci osservava con una
cauta curiosità semisospettosa. Non aveva mai mostrato tutte le sue
carte. Il fatto che torreggiasse su di te era abbastanza merdoso – ti
superava in altezza di una testa intera, un giunco candeggiato e spia-
cevole di essere umano. Non mi era mai sembrata così alta alla Casa
di Canaan, ma non ero abituata al tuo punto di osservazione.
«Misteri su misteri» era stato il suo unico commento. E poi: «Come
detesto vedere te nel suo viso».
«Ti restano solo due minuti prima che ti molli un pugno dritto nel
buco del culo» avevo risposto io.
«Seguimi. Non abbiamo molto tempo – indipendentemente dalle
tue minacce offensive di violenza sessuale» aveva detto lei. «Cielo, il
tuo pugno è così grande, mentre il mio buco del culo è così piccolo.»
«Datti una mossa e basta, Tridentarius! Non sono ancora pronta a
ridere alle tue battute del cazzo!»
Soffocando un conato ogni volta che ci avvicinavamo alla carcassa
suppurante e sfaldata di un’ape spaziale, cosa che ci forniva un prete-
sto molto più comodo per deriderla invece che reagire alle sue labbra
beffarde che scandivano la locuzione “buco del culo”, ci aveva condot-
te ai suoi incredibili alloggi bianchi e dorati. Ero quasi troppo stressa-
ta e distratta per apprezzare a pieno il quadro stupefacente di quella
paladina gnocca che reggeva un melone, col suo amico necromante
in piedi su un plinto e il vento che soffiava foglie in giro per aria per
nascondergli il pacco. Quella sì che era arte. Era valsa assolutamen-
te la pena di morire per ammirarla di persona.
«Spicciati. Ho una lettera per te» aveva detto Ianthe.
Harrow, era la tua calligrafia. Mi aveva porto una grossa busta ri-
gonfia con la tua calligrafia, diceva: DA CONSEGNARE A GIDEON NAV,
e io mi ero sentita… strana. Mentre la stringevo tra le mani il tem-
po si era ammorbidito e non stavo nemmeno badando all’espressio-
ne di scherno divertito – a malapena represso – stampata sulla faccia
dell’altra ragazza. Era la tua calligrafia brusca e indispettita, più bru-
sca e indispettita che mai, come se ti fossi messa a scrivere di fretta.
Avevo ricevuto così tante lettere con quella calligrafia, piene di insul-
ti e di soprusi. Avevi toccato quella lettera, e io… il fatto che tu non

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fossi lì con me mi stava ammazzando due volte, lo sai, vero? Mi sta-


va distruggendo stare lì nel tuo corpo, cercando di mantenerti i pol-
lici attaccati, senza poter nemmeno sentire la tua diamine di voce,
lo devi sapere.
Ho aperto la busta – l’avevi sigillata bene, anche se ero piuttosto
certa che Tridentarius l’avesse nel frattempo aperta, era proprio il
tipo – e ho trovato un foglietto di velina con i bordi ancora frastaglia-
ti, dove l’avevi strappato. La lettera era avvolta attorno a un ammas-
so di angoli neri e ripiegati: vetro affumicato, montatura nera sottile,
lenti specchiate. Una stanghetta era un po’ piegata ma, nel comples-
so, avevi conservato i miei occhiali da sole.
Te li ho messi immediatamente sulla faccia. Erano un pochino trop-
po grandi per te. Continuavano a scivolarti giù per il naso. Mi era toc-
cato ripiegare le asticelle dietro le orecchie per farli stare fermi. Con
gli occhi nascosti, al sicuro, ho aperto il foglio, e diceva una sola cosa
– quattro stramaledette parole stupide, e basta. Nessuna spiegazio-
ne Nonagesimusescamente succinta. Zero istruzioni. Niente coman-
damenti. In un certo senso, avrei ucciso qualcuno pur di trovarci una
di quelle tue liste di regole su come avrei esattamente dovuto tratta-
re il tuo corpo, sull’obbligo di farmi la doccia con tutti i tuoi vestiti
addosso – cosa che, per la cronaca, già avevo in programma di fare.
Ma già quasi sapevo quel che avevi scritto, quindi non so perché
ne sono rimasta così sorpresa.

UNA CARNE, UNA FINE.

Il che non mi ha fatto felice, Harrow. Non ha colmato il mio cuo-


re di una nostalgia tenera e sentimentale. Mi hai incastrata. Era tut-
ta una tua macchinazione. Un compito solo ti avevo lasciato, male-
dizione. E invece mi hai fatto ruzzolare una pietra addosso e mi hai
voltato le spalle. Ho passato tutto quel tempo ad affondare e a riaf-
fiorare dentro di te, ancora e ancora, e tutto questo solo perché, alla
fine, tu non sei riuscita a sopportare di fare l’unica cosa che ti ave-
vo chiesto di fare.
Volevo che tu mi usassi, maligno fagotto di ossa doppiogiochista
e ossessionato dalle carcasse che non sei altro, coglionazza esaurita!
Volevo che tu vivessi e non morissi, testa di cazzo con la fidanzata

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HARROW LA NONA  /  457

immaginaria! “Una carne, una fine” può andare a farsi fottere, Har-
row. Ti avevo già dato la mia carne, e ti avevo già dato anche la mia
fine. Ti ho dato la mia spada. Ti ho dato tutta me stessa. L’ho fatto
sapendo che avrei rifatto tutto quanto da principio, senza esitazioni,
perché tutto quello che ho sempre desiderato è che tu mi divorassi.
Il che, incidentalmente, è anche quello che mi ha detto tua ma-
dre ieri sera.
«È proprio una romantica» aveva chiocciato Ianthe.
Ho accartocciato la velina e te l’ho cacciata in tasca.
«Tridentarius» ho detto, e ho dovuto fare un bel respiro per evi-
tare di squarciarla in due. Poi ho proseguito: «Se continui a compor-
tarti come se la conoscessi – non tanto come se ci tenessi a lei, ma
proprio come se sapessi la benché minima cosa di lei – ti terminerò
seduta stante. Tutto quello che le hai fatto, l’hai fatto perché era sola.
Credevi che a nessuno gliene fregasse un cazzo di Harrowhark No-
nagesimus. Ti sei trastullata con lei perché lo trovavi divertente. Ma
lei non ti ha mai dato niente. Non sei arrivata da nessuna parte».
Gli occhi di Naberius si erano assottigliati. Odiavo quegli occhi su
quella faccia; continuavo ad aspettarmi di sentire l’odore di quel gel
per i capelli. Ianthe si era seduta sul letto con le lunghe gambe sec-
che incrociate al ginocchio, quel viso di cera era solo l’ennesimo mo-
numento celebrativo di quel maledetto funerale fluttuante, e aveva
commentato: «E tu sì?».
«Di che cosa stai parlando?»
«Sto parlando del “dimenticare”, brutta suorina guerriera con la lin-
gua lunga» mi aveva detto, analizzandosi le unghie e rimuovendo con
un breve brivido di nausea un secco grumo verdastro dal pollice. «Dio
santo! Dovresti provare a portare via a me i ricordi di Coronabeth…
ti ammazzerei con le mie mani. L’amore – non fare quella faccia, ra-
gazzina, ho amato in abbondanza –, il vero amore è cumulativo. Si
conserva qualsiasi cosa… ciocche di capelli… una busta che possono
aver leccato… un bigliettino con scritto: BUONGIORNO, semplicemen-
te perché l’hanno scritto per te. L’amore è un redivivo, Gideon Nav,
e accumula materia amorosa attorno a sé, perché altrimenti non ha
casa. Non sto dicendo che non ci tenesse a te. Si tiene al proprio pa-
ladino, non si può farne a meno… ma ho osservato Harry mentre si
riorganizzava il cervello in modo che potesse svuotarsi di te.»

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Le ho riso in faccia.
«Oh, cazzo» ho detto, quando sono riuscita a fermarmi, perché
era strano sentirti sghignazzare così tanto. Scusami. È stato proprio
uno spasso. «Credi di riuscire a ingelosirmi? Credi che qualsiasi cosa
io abbia fatto l’abbia fatta per farmi amare da lei? Non lo sai. Non te
l’ha nemmeno detto.»
La sua espressione non era cambiata. I lineamenti esangui erano
stati addestrati ad assumere un’aria vispa e interessata, ma quegli oc-
chi oleosi castano-ghiaiosi sembravano quelli di un serpente.
«Illuminami» aveva detto.
«Frena, non voglio soprassedere… Harry?»
«Mi pareva carino. Delucida, Gideon, non abbiamo tutto il gior-
no, sul serio.»
«Te l’ho accennato prima. Non le piaci, punto e basta. A lei piac-
ciono le ossa. Ha dato il suo cuore a un cadavere quando aveva dieci
anni» ho spiegato. «È innamorata del reperto refrigerato da museo
del Sepolcro Sigillato. Avresti dovuto vedere che faccia aveva quan-
do mi ha raccontato di quella strappona surgelata. L’ho capito appe-
na l’ho vista. Io non le ho mai fatto fare una faccia simile… non po-
trebbe amarmi, nemmeno se la volessi costringere. Non può amare
te. Non può nemmeno provarci.»
Lei aveva ribattuto, con fin troppa circospezione: «Oh, ma per fa-
vore, come se…» ma l’avevo interrotta.
«Non attaccare con: “Mi stavo solo trastullando un po’ con lei,
mwah ha ha”, perché non ci crederò mai. Il tuo piano ti si è rivolta-
to contro, Tridentarius. Hai contratto il morbo. Riconosco i sintomi
della Nonagesimite. Ti eri già messa in fila per una bella iniezione ro-
vente di Vitamina H.»
Ianthe si era rapidamente grattata la fronte con la mano d’osso.
«Un cadavere, sul serio?» aveva commentato, con una noncuran-
za non del tutto convincente.
«Lei vuole il tipo M» avevo detto. E: «La M sta per “morta”». E:
«Mi dispiace».
«Credo di dovermi fare un goccetto» aveva detto Ianthe, borbot-
tando tra sé e sé. «Tutto quel putiferio per il Santo del Dovere. Che
piccola ipocrita.»
«Non credere che tutto questo ti farà ottenere anche il più micro-

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scopico briciolino di pietà da parte mia» avevo aggiunto. «Se sei con-
vinta che io abbia fatto tutto quello che ho fatto per farmi amare da
lei, allora non sai un bel niente né di lei né di me. Sono la sua paladina,
cogliona! Ucciderei per lei! Morirei per lei. Sono morta per lei. Avrei
fatto tutto quello di cui aveva bisogno, qualsiasi cosa, prima ancora
che si rendesse conto di averne bisogno. Sono la sua spada, controfi-
gura da quattro soldi di Coronabeth, faccia di colla che non sei altro.»
Sarò sempre la tua spada, mia umbratile sovrana; nella vita, nella
morte, in qualsiasi cosa ci sia oltre la morte e la vita e che ci vorran-
no scagliare contro, a te e a me. Sono morta sapendo che mi avre-
sti odiata perché ero morta; ma, Nonagesimus, il tuo odio ha sempre
significato per me molto più dell’amore di chiunque altro in questo
universo stupido e incandescente. Almeno ho avuto la tua comple-
ta attenzione.
Ianthe stava masticando stizzita una ciocca di quei capelli color
osso ingiallito. Ho aggiunto: «Devi mollare il colpo. Già sono stata la
cosa peggiore che le sia mai capitata, e non ha proprio bisogno dei
tuoi tentativi di superare il record, tipo: “Scommetto di poter rende-
re la situazione doppiamente merdosa”».
L’ho osservata mentre scavallava e riaccavallava le gambe. Aveva
smesso di analizzarsi le unghie. Mi ha squadrata con un’espressione
inquisitoria, quasi analitica, le ciglia pallide che incorniciavano gli oc-
chi del suo uomo morto. Non aveva dei bicipiti per niente malvagi, a
dire il vero, c’era della muscolatura definita in quel braccio supersti-
te color latte scremato. Niente da narrare ai posteri, ma lei perlome-
no non doveva vergognarsi totalmente. Al contrario di te.
«Ti sbagli, sai» mi aveva detto, flemmatica. «È una rivelazione in-
teressante. Forse fornisce addirittura un po’ di contesto. Ma il mio…
attaccamento… nei confronti di Harry non è nemmeno lontanamen-
te quel che credi che sia. Non sono la sua paladina, la sua servitrice o
la sua schiava. Io sono una Littrice… Harrow è una Littrice… e i se-
coli ci legheranno, che lei lo voglia o no – Nav, se vai avanti con quel
movimento, se mentre parlo continui a far finta di farti una sega, ti
mostrerò che aspetto hanno i reni di Harrow.»
«Ecco! Ecco a che cosa mi riferisco» le avevo detto. «Non farmi ve-
dere i suoi reni. Non pensarci neanche ai suoi reni. Non fare niente
coi suoi maledetti reni. Contieniti. Non guardare il suo sangue, non

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leccarle le ossa, non fare nessuna di quelle merdate che i necroman-


ti, mentendo, dicono di non fare quando si ritrovano in due e la si-
tuazione si scalda.»
Aveva sollevato la spalla dorata.
«Che ti devo dire» aveva commentato. «Ho sempre adorato un po’
di frattaglia-frattaglia.»
«Ribalta tutto quello che ti ho appena detto» le avevo risposto.
«Sposiamoci.»
«Ah, ecco il romanticismo che aspetto da una vita intera» aveva
chiosato lei, affabile. «Babs mi diceva sempre che sarebbe arrivato an-
che per me… o, perlomeno, una volta mi ha detto: “Vai a farti fotte-
re all’inferno”, cosa che ho interpretato come un giro larghissimo per
esprimere lo stesso concetto. Non ho altro per te, Gideon: ora usci-
remo dalla mia camera da letto e ti porterò da Maestro.»
L’Imperatore delle Nove Case. Il Necrore Supremo.
Le ho risposto: «No, grazie. Sono a posto così».
«Deve sapere. Lui può aiutarti.»
«Credo che mi coricherò qua in attesa che le cose si aggiustino da
sole» avevo suggerito.
«Vuoi che Harrowhark torni a rivendicare la legittima proprietà del
suo corpo, o no?» mi aveva domandato con una certa ragionevolezza.
Sapeva che non potevo controbattere a quell’argomentazione e,
quando mi aveva guardata in faccia, aveva aggiunto: «È la tua occa-
sione, Gideon. Se vuoi aiutarla, l’unico modo è questo». E, come ter-
za pugnalata: «Vorrei anche rammentarti che una Bestia Resurrezio-
nale sta incombendo su di noi, su di lei, in questo preciso istante».
Se solo tu fossi tornata, forse non avrei finito per seguire Ianthe
Tridentarius per presentarmi al cospetto di Dio. Ma tu non eri torna-
ta; eri sparita. Nel frangente in cui ci trovavamo poteva anche essere
positivo, in tutta onestà. Continuavo a non sapere se mi avresti presa
a calci in culo per quella conversazione o se ti saresti dispiaciuta per
me. Ma sapevo bene quale fosse l’alternativa peggiore.

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«Io dell’Imperatore sono il Braccio; non persistete
nel duello; non v’è mio pari con la lunga lama…»

La voce di Ortus Nigenad riverberò nel complesso bordeggiato


di ghiaccio e soffocato dalle frattaglie come uno dei colpi di pistola
della Dormiente. Il suo corpo imponente, lo stesso che Harrowhark,
nella crudeltà della giovinezza, aveva ritenuto potesse fare miglior fi-
gura da morto, con le ossa collocate nel monumento di famiglia, di-
mostrò di essere dotato di un paio di polmoni declamatori capaci di
risvegliare i defunti.
La voce di Abigail si unì alla sua, anche se la sua era disperata e, in
un certo senso, feroce: «Nigenad, mi sopravvaluti!».
«Giammai, mia Signora! Parimenti impareggiabile nell’arte misti-
ca. Prostratevi sui ginocchi e rallegratevi della mia clemenza; il vo-
stro coraggio è possente.»
Libro Quinto. Il meno prediletto di Harrowhark.
«Oh, Signore» sentì esclamare Abigail. «Dio aiutami, ti prego.»
Tonfi pesanti di stivali si approcciarono al sarcofago. Harrow non
osava sporgere il capo dal lì dietro, e comunque sapeva già cosa avreb-
be visto. Invece, sparpagliò una manciata di cenere sminuzzata in
un’ampia mezzaluna, circondando lei e Ortus e sollevandola in un
muro frastagliato di osso calvariale, alto due metri e spesso un dito: il
lato parietale posteriore, il più duro e spesso, riusciva a gestirlo anche
in quel suo stato pre-Littoriale. Il guscio assorbì un po’ della poten-
za della declamazione di Ortus, rendendola più piatta e meno tonan-
te ma, quando proseguì, risultò comunque incredibilmente sonoro:

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«Ancor più possente è la follia se ancor pensate di opporvi a me. Il Lit-


tore aveva parlato, e il silenzio discese…».
Il muro d’osso andò in frantumi. Impossibile. Harrow ora ricorda-
va con chiarezza la barriera d’osso che aveva evocato per circondare
se stessa, Gideon e Camilla Hect, in quegli ultimi istanti agghiaccian-
ti nel giardino terrazzato. Era quasi completamente esaurita, eppure
la sua barriera aveva tenuto a bada un attacco determinato da parte
di uno dei pugni e dei gesti dell’Imperatore per almeno un minuto.
Cytherea aveva diecimila anni ed era depositaria di un potere necro-
mantico senza limiti. La Dormiente aveva una tuta arancione sforma-
ta e una collezione di armi da fuoco. Eppure si stava facendo strada
a spallate nel muro di Harrow con movenze indispettite e disgusta-
te, come se non fosse altro che una tenda inattesa di ragnatele sotto
l’arcata di una catacomba. L’osso diede a malapena segni di rottura;
si limitò a sfaldarsi in grumi, come dell’intonaco vecchio che si stacca
da un soffitto. La Dormiente insinuò la parte superiore del suo corpo
in quel rottame sbriciolato, la pistola spianata davanti a lei, e sparò a
Ortus nella pancia.
Ortus si portò automaticamente una mano alla ferita, e tutto diven-
tò immobile. Scostò la mano insanguinata e la fissò, come se ne fosse
affascinatissimo. Lo sguardo di Harrow passò dal buco nel suo addo-
me – piccolo e netto, come se avessero usato un trapano – al volto di
lui, e poi alla Dormiente, ancora incastrata per metà in quell’assur-
da fessura sbrindellata che si era aperta in quello che avrebbe dovu-
to essere osso massiccio. Un filo di fumo si sollevava dalla pistola, e
quella faccia coperta dalla tuta non rivelava nulla.
Il suo paladino si schiarì di nuovo la gola, e disse, sussultando, tor-
nando a far risuonare quell’immane lamento tonante: «Nonius, ferit…».
Gli toccò deglutire. «Nonius, ferito…» Ma non riuscì a continuare.
Il cuore di Harrowhark si accartocciò come stagnola. Lei si ag-
grappò ai bordi frastagliati del suo muro e lo spinse in avanti, forte,
sbalzando la Dormiente all’indietro e proiettandola in aria. Sollevò i
grumosi detriti scheggiati e li plasmò in costrutti – era così facile per-
sino in quel momento, lo trovava semplice sin da quando era bambi-
na – uno, due, tre, quattro scheletri ticchettanti che si avventarono
sull’assalitrice per squartarla e artigliarla con le mani scarnificate. La
Dormiente si era rimessa in piedi per fronteggiarli. Sparò nel cranio

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al primo e l’intero corpo si ridusse in cenere – anche se non era pro-


prio così che avrebbe dovuto funzionare – e fece lo stesso al secon-
do. Il terzo riuscì ad afferrarle il braccio libero prima di beccarsi un
proiettile nella colonna vertebrale e sgretolarsi in un mucchio di ri-
fiuti. A Harrow pulsavano le orecchie, il cuore le martellava e si sen-
tiva la pelle bagnaticcia, ma rastrellò altri quattro costrutti perché se-
guissero i primi. Non sapeva perché Ortus fosse impazzito proprio
adesso, ma quando la Nona Casa avanzava, la sua Reverenda Figlia
doveva marciare con essa.
Ruggì, anche se la sua voce somigliava più a una trombetta squil-
lante, a un allarme lamentoso: «Nonius, nella dolia delle ferite, sangue
sputò e a lui rivolse un fosco sorriso; la spada nel pugno mai tremò…».
Dietro di lei, Ortus disse debolmente: «Harrow…».
«Spavaldo ribatté al santo: “È dunque vero che…”» e lì esitò. Le ri-
sposte di Nonius erano i punti in cui, generalmente, si metteva a pen-
sare a qualsiasi altra cosa ci fosse nell’universo.
Si rese conto che Abigail stava salmodiando: la sua voce non tradi-
va la minima paura, alcun accenno di disperazione. Le parole si fon-
devano insieme come la cera che imperla il bordo di una candela, su-
blimando in un liquido pallido, coagulandosi in gemme che si fissano
a metà strada lungo la rastrematura. Harrow colse la sua supplica, di-
strattamente: «… quando approderò alla mia patria, nelle sue sale la
mia famiglia celebrerà sacrifici per voi: il migliore del nostro sangue,
il più fresco; il migliore del nostro sangue, il più antico…».
Mentre Harrow annaspava, Ortus mormorò: «“Il vostro potere è
vasto…”».
Lei proseguì, precipitosamente: «“… il vostro potere è vasto, o ser-
vitore della sapiente Canaan; non v’è speranza di eguagliarvi in mae-
stria, o in destrezza e nemmeno in corporal vigore…”».
La Dormiente polverizzò un ultimo scheletro con un pugno guan-
tato che parve aver sferrato quasi con sufficienza. «È finita» proclamò,
e puntò la pistola alla testa di Harrow.
Le candele eruttarono fiammate di un blu crisantematico, alte due
metri buoni. Il tempo sembrò farsi gelatinoso e Harrow, con le brac-
cia spalancate, osservò le ossa che aveva sparpagliato bloccarsi a mez-
z’aria, come delle candide stelle cadenti. Il fuoco si elevò stridendo.
Lanciò un’occhiata verso il lato opposto della stanza: Magnus, Dyas

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e Protesilaus giacevano là, nello stesso punto in cui erano stati abbat-
tuti; ecco Dulcie Septimus, puntellata contro uno stipite con gli oc-
chi sgranati e selvaggi; ed ecco…
Abigail Pent che sfolgorava come il pinnacolo di un azzurro sole
alieno. Lunghe protuberanze di luce le scaturivano dalle dita: sem-
brava stringesse tra le mani un libro, con tutte le pagine che attin-
gevano da quella medesima radiazione blu. In quel freddo inquieto,
Harrow si accorse che Abigail era bagnata fradicia: avvolta nei caldi
bagliori nebulosi della magia spirituale, si era sbarazzata delle giacche
e dei guanti e stava lì ritta con addosso soltanto un abito e il manto,
le braccia nude. Un tanfo assalì Harrow come una palata di neve: ac-
qua, salamoia, sangue. Una moltitudine di voci si sollevarono in quel-
la di Abigail, e urlarono.
Quel tempo gelatinoso si scollò. Si udì un crack quando la Dor-
miente sparò, e un secco spang metallico. Nulla trapassò il cranio di
Harrow. Un’ombra si sollevò davanti a lei, e conteneva tutte le ombre
della stanza. Le candele non erano più dei maestosi pilastri di luce
azzurra, ma si erano contratte in ondivaghe fiamme nere. Si pietri-
ficò, udendo il suono di una grande campana: BLA-BLANG… BLA-
BLANG… BLA-BLANG.
La Prima Campana del Drearburh, della Nona Casa, rintoccava so-
noramente nell’atrio di quel laboratorio. E una sagoma si frappone-
va tra Harrow e la Dormiente.
La figura portava una corazza di laminato nero che non rientrava
ormai da anni e anni fra le predilette della Coorte. Una corazza di fi-
bra, opaca e non lucidata, scura, invece che d’ossidiana splendente,
fatta di piccole placche sovrapposte che si stratificavano lungo tutta
la sua superficie. Il resto dell’armatura era più contemporaneo: bra-
ghe nere di tela infilate in gambali neri di pelle e plex, e il cappuccio
rigido e poco pretenzioso del Drearburh, non calato sul capo ma ab-
bassato sul collo. Guantoni lisi di polimero nero, non più sofistica-
ti di quelli di Griddle.
Una di quelle mani guantate stringeva uno stocco di un metal-
lo nero senza luce, con una guardia e un’elsa semplici; anche se da
quell’elsa ticchettavano file minute di nocche da preghiera, che termi-
navano nell’inconfondibile – anche alla luce delle candele – intaglio
del Teschio Smandibolato. Nell’altra mano c’era un semplice pugna-

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le di metallo nero, la lama spianata orizzontalmente a poche spanne


dalla faccia di Harrow, dove aveva bloccato a metà della sua corsa il
proiettile della Dormiente.
Il nuovo arrivato girò il capo per spostare il suo sguardo dalla Dor-
miente a Harrow. Grazie a quelle fiammelle nere e singhiozzanti, quel-
lo che riuscì a scorgere di quel viso era… piuttosto ordinario. Capelli
scuri del Drearburh, tagliati abbastanza corti ma non rasati secondo
la foggia sacramentale. Le pitture teschiate erano estremamente sbri-
gative: una manciata di linee tracciate lungo la mandibola inferiore e
sul mento, una mera suggestione di denti e osso.
Fiamme ondeggianti ammantavano Abigail Pent. Sembrava terro-
rizzata, esilarata e assolutamente stupefatta; sembrava remota, come
se non fosse più davvero con loro. Gli occhiali le erano scivolati giù
dal naso e, in quella sfolgorante aura azzurra i suoi occhi si erano fat-
ti bui, liquidi, e ferali. La Quinta Casa amava rivestirsi di grandi arie
di civiltà, con tutte quelle buone maniere e i convenevoli, ma erano
evocatori di spiriti, conversavano con i morti. E i morti erano selvaggi.
La Dormiente si scostò e abbassò la pistola.
«Nono era il mio nome» disse il nuovo arrivato. «Nono era il mio
cuore, e Nona era la mia patria. Alla vostra chiamata sono accorso.
Nessuno può far ritorno dal Fiume, se non a un rituale di sangue im-
brigliato; ditemi, perché sono stato attirato qui?»
E Abigail disse: «Pronuncio il vostro nome, Matthias Nonius, pa-
ladino della Nona Casa. Vi incarico di proteggere la Reverenda Figlia
del Drearburh e di trucidare i suoi nemici».
«Non sprecate il fiato» disse il fantasma di Matthias Nonius. «Tale
è stato il mio compito da vivo; perché mai nella morte tal sollecito
dovrebbe occorrermi?»
Harrowhark esclamò, prevalentemente tra sé e sé: «Oh, Dio».
Discorrendo, il nuovo arrivato si era spostato leggermente verso
destra, seguendo una traiettoria circolare e allontanandosi da Har-
row. La Dormiente gli aveva tenuto la pistola puntata addosso per tut-
to il tempo, cauta, come se fosse in attesa di scoprire che cosa avreb-
be fatto. Ora sparò, e Nonius scattò. In una lunga evoluzione liquida,
parve appiattirsi ed estendersi; il suo corpo si trasformò interamente
in un unico mezzo per convogliare energia nella lama del suo stocco,
come uno spillone che esce di botto da una scatola a molla. La punta

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penetrò in un fianco arancione, e la Dormiente barcollò all’indietro.


Da quel nuovo squarcio, Harrow vide sgocciolare del liquido scuro.
In qualche modo, il corpo di Nonius si ripiegò al suo posto, lo stoc-
co brandito con l’elsa bassa e la punta rivolta verso l’alto, al volto della
sua avversaria. Nonius riprese la sua lenta deriva circolare.
«Un attrezzo per sterminare bestie» commentò lui. «Quale guer-
riero mai impugnerebbe una simile arma rendendo onorevole servi-
gio in combattimento? Che la dignità abbia del tutto abbandonato le
Case dall’ultima volta che vidi la luce delle stelle, o siete forse un pre-
done o un tagliagole?»
«Sei solo un fantasma come il resto di loro» disse la Dormiente
ma, questa volta, la voce piatta che scaturiva dalla maschera era scal-
fita da una punta d’incredulità. «Non ci sono regole speciali per te.»
«In vita non fui null’altro che un uomo» concordò il fantasma. «Ma
la Nona Casa mi elargì i suoi onori e mi rese, per quanto indegno fos-
si, suo servitore. Mia è la voce del Sepolcro, e la mia forza è la forza
del Nero Cancello… ma perché parlo in versi?»
La Dormiente sparò due volte, ma la spada saettò diagonalmente
davanti al corpo di Nonius, l’elsa all’altezza del volto, prima ancora
che Harrow riuscisse a sentire i colpi. Un proiettile rimbalzò via nell’o-
scurità; l’altro parve colpire l’armatura, e Nonius sussultò lievemen-
te all’impatto, ma ancora una volta la lama guizzò così rapidamente
e con tale precisione che il movimento risultò a malapena plausibile
alla vista. La Dormiente si lasciò scappare un’imprecazione attutita
da dietro la maschera e lasciò cadere l’arma, che sferragliò sulle pia-
strelle. Poi fece scattare la mano all’indietro e la fece riemergere da
dietro la schiena con in pugno un fucile decisamente più lungo e ro-
busto con una canna tozza e smussata che persino allo sguardo poco
avvezzo di Harrow sembrava non promettere nulla di buono. La Dor-
miente se lo appoggiò con entrambe le mani contro la spalla e mirò
alla faccia di Nonius.
«Tornatene all’inferno» disse, e premette il grilletto.
Ci fu un piatto scatto metallico, e non successe niente. Ci riprovò:
niente. Buttò da una parte l’arma che, prima ancora di toccare il pa-
vimento, fu rimpiazzata da una lunga carabina elegante. Questa pro-
dusse un clunk vuoto, e una distinta mancanza di qualsiasi altra cosa.
La Dormiente arretrò di qualche altro passo, la maschera di plex

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era più impassibile che mai. Nonius la seguì, senza accorciare le di-
stanze ma mantenendole inalterate, facendo eco ai suoi spostamenti.
«T’occorrerebbe una miglior manutenzione» le suggerì.
«È tutta la vita che uccido feccia magica come te» ringhiò la Dor-
miente. Questa volta l’oggetto che le si materializzò in mano non era
un’arma da fuoco: era una specie di cilindro tozzo. Lo fece scattare
verso il basso e un sottile manganello nero, lungo suppergiù una tren-
tina di centimetri, si estese telescopicamente all’infuori con un suo-
no che somigliava a quello di un chiavistello che si incastrava al suo
posto. «Li ho ammazzati con le pistole, le bombe, i coltelli, il gas e,
quando non avevo a disposizione nulla di simile, mi sono avvicinata
molto e gli ho piantato i pollici negli occhi. Puoi agitare quello spie-
dino per aria quanto ti pare, amico. Te lo ficcherò in gola.»
«Spero ardentemente che siate una guerriera» commentò Nonius,
sollevando la mano che stringeva il pugnale. «Perché, Dio mio, cer-
tamente non siete un’oratrice.»
Balzarono entrambi in avanti nel medesimo istante. Al primo schioc-
co del plex contro il metallo, Harrow si lasciò cadere accanto a Ortus.
Lo afferrò con le mani e, per non correre rischi, anche con un paio di
braccia scheletriche, e cominciò a trascinarlo al riparo.
Lui non collaborava. Era troppo occupato a guardare. Un po’ come
Abigail, era assolutamente rapito; non si trattava di chissà quale sta-
to ancestrale di primigenia adorazione spiritica, ma si trovava – a oc-
chi sgranati – in un paradiso che solo lui poteva comprendere. Non
aveva mai visto Ortus con quell’aria trionfante. Non aveva mai visto
Ortus nell’occhio di un ciclone di sua creazione.
Gli domandò, concitata: «Cos’hai fatto?».
«Oh, io non ho fatto niente» rispose, senza fiato. «Pent… Pent è un
portento. Scriverò odi per Pent.»
«Le scriverai dopo, adesso spicciati…»
«Se dovessi andare incontro alla mia morte definitiva, qui» dis-
se, «morirò dopo aver conosciuto l’unica felicità che mi sia mai sta-
ta concessa.»
«Oh, chiudi il becco e muoviti» esclamò lei disperata. Se tutti i suoi
paladini erano così entusiasti di morire, il problema era decisamente lei.
Lui non si mosse. Stava sorridendo. «Anche tu hai contribuito a
questo miracolo, Harrowhark. La tua enfasi era quasi perfetta.»

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«Fa dei “foschi sorrisi” almeno venti volte solo in quell’atto, Nige-
nad» sbottò lei. «Trovagli una nuova locuzione.»
Saltò fuori che una quantità relativamente limitata di thanergia era
tutto ciò di cui avesse bisogno per arrestare il flusso di sangue dalla
ferita. Le funzioni degli organi principali erano stabili a sufficienza
– chissà poi cosa voleva dire, con esattezza, nel caso di un fantasma –
e non aveva intenzione di impelagarsi in riparazioni complesse dei
tessuti in quelle circostanze. L’addestramento precoce di Harrow si
era svolto in cripte gelide e male illuminate, ma quella specifica crip-
ta continuava a sembrarle faticosamente buia e gelida in maniera in-
gestibile. Dopo aver appoggiato Ortus contro una parete a distanza
di sicurezza dal combattimento, si voltò per guardare cosa fosse suc-
cesso agli altri.
I necromanti e i paladini sopravvissuti – che dovette rammenta-
re si trovavano lì proprio perché non erano sopravvissuti – si erano
dislocati in silenzio attorno al perimetro della sala. Abigail era sedu-
ta per terra, ancora avvolta da una corruscante fiamma azzurra, suo
marito la cingeva col braccio e si appoggiava pesantemente a lei con
un’espressione segnata dal dolore: nessuno dei due stava osservando
con una particolare gioia, ma piuttosto con una concentrazione fa-
melica, una fredda trepidazione. Dulcinea e Protesilaus si erano riu-
niti, strisciando, lasciandosi alle spalle una lunga scia di sangue, per
incontrarsi, esausti, in un punto mediano. Solo la luogotenente era
riuscita a rimettersi in piedi, con la precisione impassibile e la schie-
na dritta di una donna che assisteva a un’esercitazione su un campo di
parata. Sembrava sul punto di ordinare l’alt con un colpo di fischietto.
Harrow sospettava che un fischio non sarebbe bastato a bloccare
quello specifico duello. Non somigliava a nulla che avesse visto alla
Casa di Canaan e nemmeno alle esercitazioni del Mithraeum, che si
svolgevano a una velocità e con una maestria sovrumana, ma in ma-
niera in qualche modo asettica, parevano più danze che combatti-
menti. Lì c’erano due persone che avevano passato la vita a non fare
altro che combattere e, ora, libere dalle catene della carne e del tem-
po, stavano focalizzando tutta la loro essenza sull’obiettivo di assas-
sinarsi a vicenda.
Se Gideon fosse stata lì… no, se Gideon fosse stata lì, Harrow non
avrebbe comunque potuto sperare in una telecronaca. Griddle non

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sapeva come farla, una telecronaca. Sarebbe rimasta lì a sbuffare a


denti stretti, borbottando estasiata parole che non avevano alcun si-
gnificato per nessuno a parte lei, roba tipo: “Che gran gioco di gam-
be” in un tono che lasciava trasparire che, se ci fosse rimasta secca
in quell’istante, quel gioco di gambe avrebbe in qualche modo rap-
presentato l’apice della sua esistenza. Nemmeno sarebbe mai riusci-
ta a spiegare un combattimento a Harrow in termini che le risultas-
sero comprensibili. Ma se la sua paladina fosse stata lì, Harrow era
piuttosto certa che si sarebbe risucchiata i molari dalle loro sedi per
la pura intensità dell’emozione.
Gideon, assistendo a quel testa a testa, avrebbe potuto valutare il
mostro anonimo ribattezzato la Dormiente per quello che era vera-
mente. Da viva doveva aver avuto ben pochi eguali – sempre che ce
ne fossero stati. Il suo popolo – qualunque esso fosse – doveva aver-
la custodita come la propria campionessa più sublime. Era una com-
battente prodigiosa: veloce, brutale, implacabile nello sfruttare le oc-
casioni vantaggiose, terrificante per forza e aggressività. Brandiva un
coltello seghettato dall’aria micidiale nella mano sinistra e stringeva il
manganello nella destra, che usava per colpire occhi, inguini o qual-
siasi altro punto riuscisse a raggiungere. La pesante tuta non pare-
va rallentarla affatto, e l’agilità felina che stava dimostrando era de-
gna della sua precedente acrobazia; continuava a flettere il corpo per
sottrarsi ai fendenti, inserendo nel mix del suo assalto complessivo
gomitate, ginocchiate e addirittura calci. In lei non c’era traccia del-
lo stile da esibizione del combattente infiocchettato: si batteva come
se volesse ucciderti, sperando di farti pure soffrire.
E il suo avversario era Matthias Nonius.
Mille anni prima, il Drearburh aveva prodotto Matthias Nonius.
Era diventato primo paladino solo piuttosto tardi – in realtà la versio-
ne corretta avrebbe dovuto essere Matthias il Nono, ma Harrowhark
non aveva mai sentito nessuno riferirsi a lui in quella maniera. Non
le era mai stato descritto diversamente da “il più grande spadaccino
della nostra Casa”. Era piuttosto basso di statura – la lunghezza del-
le braccia rientrava nella media – e nessuno di quegli aspetti poteva
essere esatto. Ortus aveva sempre dato l’impressione che Nonius fos-
se alto tipo tre metri e largo due. Ma il fantasma di Nonius era rie-

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merso dalle nebbie della leggenda somigliando più a un mite chieri-


co che a un guerriero.
Ma con la spada in mano – una lama nera inghirlandata di pre-
ghiere della sua Casa – e il pugnale nella secondaria – un’altra lama
nera e semplice della tipologia che usavano portare i cappellani o le
monache – era poesia. Era di un’immobilità assurda, il che le pareva
contrastasse le regole di qualunque duello con lo stocco; stazionava
leggiadro in un punto, i piedi posizionati parallelamente al bacino,
mentre la Dormiente si avventava su di lui, lo randellava con quell’af-
fare nero sulle costole, menava il lungo coltello verso l’alto, all’inter-
no coscia, e nessun colpo andava a bersaglio. Nonius li parava sereno,
come se avesse studiato l’elenco delle mosse in arrivo. Non sembrava
nemmeno fare fatica a bloccare l’azione fulminea del pugnale, o del-
la mazza, o dei calci: si limitava a starsene piantato lì nel bagliore del
lume nero delle candele, facendo di se stesso una barricata.
E poi si muoveva. Aveva una reattività che Harrowhark non aveva
mai riscontrato in nessun altro essere umano: era come se la gravità
avesse modificato le proprie regole apposta per lui. I suoi movimen-
ti non erano mai affrettati o approssimativi. Metteva tutto se stesso
in ogni singolo fendente di spada, e la Dormiente cominciava a san-
guinare. Ormai la tuta era percorsa da una mezza dozzina di strappi,
e tutti quanti erano macchiati di rosso.
Ma non bastò a fermarla e nemmeno a rallentarla e, gradualmen-
te, lo stava sfiancando. Nonius finiva sempre per stancarsi, nei com-
battimenti prolungati. Dal Libro Primo al Libro Quarto non aveva
eguali – gli bastava lanciare un’occhiata ai suoi nemici per uccider-
li – ma successivamente Ortus aveva ritenuto opportuno aggiungere
lunghi duelli molto dettagliati che coinvolgevano il suo idolo e una
manciata di nobili e onorevoli rivali. Se un malvagio avesse beccato
Nonius, c’erano buone probabilità che sarebbe stato presente alme-
no per le successive dieci pagine, anche se per metà ci sarebbero sta-
ti solo dialoghi.
La Dormiente abbatté la sua mazza sul cranio di Nonius con una
forza sufficiente a incavarglielo. Nonius si scansò e le assestò una pe-
data sull’esterno del ginocchio, destabilizzandola, e colse l’opportu-
nità per aprirle uno squarcio pulito lungo la coscia con la punta dello
stocco. Il sangue macchiò il pavimento. Mentre scivolava nuovamen-

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te in posizione di guardia, Harrow si accorse che gli indumenti di lei


erano cambiati. La tuta spaziale arancione brillante si era chissà come
trasformata in una tuta di fibra da combattimento che rassomigliava
parecchio a quella di Nonius, con una pettorina imbottita attraver-
sata da svariati squarci sanguinanti e da un paio di gambiere di un
amalgama di plex. Il completo continuava a essere di quel medesimo
arancione ammonitore, il che contribuiva a produrre un effetto mol-
to strano. Il cappuccio disadorno con la lastra facciale era diventato
una bizzarra maschera curva di una tinta che pareva oro scuro, pla-
smata per riprodurre in modo stilizzato un volto orgoglioso col naso
adunco e due buchi a fessura per gli occhi. Solo il coltello e il manga-
nello restavano inalterati.
Allibita, sollevò lo sguardo e constatò che anche la stanza stava
cambiando. La struttura a nove lati era la medesima – porte su ogni
parete e il grande catafalco al centro – ma le soglie ora erano arcuate
e cerimoniose, invece che squadrate e industriali. Gli scuri pannel-
li di metallo erano diventati blocchi di pietra scuri di una tipologia
familiare – anche se il pavimento, con i suoi cerchi di candele e i ri-
masugli del diagramma, era sempre di piastrelle metalliche punteg-
giate di ghiaccio. Porzioni di ragnatele carnose restavano aggrappate
alle pareti, ma qua e là erano sparite insieme ai cartelli che copriva-
no. Nell’angolo tra due arcate ora sventolava un’unica bandiera nera
e sbrindellata, che recava la bianca effigie del Teschio Smandibolato.
Non si trattava di uno specifico ambiente del Drearburh in cui Har-
row avesse mai messo piede, ma era indiscutibilmente una sala del-
la Nona Casa.
“Con la nostra stessa presenza nel Fiume, esercitiamo brevemen-
te sia lo spazio che il non-spazio.”
“La lotta per il controllo, dietro le quinte, sta filtrando nell’azione
che si svolge sulla scena…”
Era stata così lenta di comprendonio, ancora una volta. La Dor-
miente si era ritrovata nell’impossibilità di utilizzare le sue armi da
fuoco perché nella Noniade le armi da fuoco non esistono. Ortus le
disprezzava: persino i soldati nemici senza nome che Nonius fron-
teggiava venivano sempre descritti con le loro lance o le loro maz-
ze. Proprio come la forza dell’odio della Dormiente si era tradotta in
un’irragionevole capacità di contrastare la necromanzia di Harrow

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– il potere di abbattere muri massicci e ridurre costrutti in polvere a


mani nude –, ora la forza della devozione di Nonius per la Nona, ri-
fratta attraverso il prisma dello sciagurato poema di Ortus, stava so-
vrascrivendo le regole della Dormiente. Persino le ferite, si rese conto
con un sussulto, erano corrette. Ogni volta che Nonius si scontrava
con un degno avversario, entrambe le parti si ritrovavano grondanti
di sangue dopo aver subito una sequela di ferite in prevalenza sceno-
grafiche. In un duello decisivo nel Libro Nono, Nonius e un paladino
rivale combattono per un’ora piena, sanguinando entrambi copiosa-
mente per tutto il tempo e, alla fine, si scambiano una semplice stret-
ta di mano declamando epigrammi sul valore invece che collassare
congiuntamente per shock ipovolemico.
La Dormiente aveva assunto il controllo dei ricordi inscenati da
Harrow, la storia che il suo cervello si raccontava da solo a proposito
della Casa di Canaan, e li aveva usati per proseguire con la sua guer-
riglia contro le Nove Case. Ora Matthias Nonius – o, perlomeno, la
versione di Ortus Nigenad di Matthias Nonius – stava cercando di
trasformare il tutto in un poema epico.
Non che ce la stesse propriamente facendo. Lo spazio era in flusso.
Sotto allo sguardo di Harrow, il pavimento cominciò a brillare in una
serie di lastre di pietra nera lucida, ma le lastre si dissolsero come neb-
bia poco dopo essere comparse, e la pannellatura di metallo riappar-
ve. La Dormiente colpì con la mazza la guancia di Nonius, facendogli
perdere l’equilibrio, e proseguì sferrandogli una malevola pugnalata
nella pancia; lui la deviò con il forte della lama, ma con goffaggine, e
la Dormiente trovò il modo di mollargli una ginocchiata al fianco e,
tanto per non correre rischi, gli percorse il braccio armato per tutta
la lunghezza con la punta del coltello, prima che lui riuscisse a spin-
gerla via e a tornare in posizione di guardia.
Fecero una pausa, respirando affannati. Il sangue macchiava pla-
tealmente la bizzarra armatura arancione, sbocciando in riccioli e
petali allarmanti; si vedeva meno sulle pelli nere del Drearburh, ma
il pavimento attorno ai piedi di Nonius era schizzato di rosso. La
maschera dorata della Dormiente restava perfetta e in ordine, men-
tre Nonius si era procurato uno squarcio lungo la guancia e un lab-
bro spaccato.
«Pochi altri combattenti sì feroci ho incontrato. Eguagliarvi in arme

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è come battersi con cento indegni» le disse, il che era esattamente il


genere di cosa che ci si aspettava che dicesse.
«Sei bravo, ma sei solo un altro zombie del cazzo» fece lei, dal can-
to suo. La voce risultava ancora roca e sfumata, anche senza il respi-
ratore della tuta.
«Chi è stato il vostro maestro in vita? Quali erano le insegne e la
lama che portavate?» le domandò lui. Nonius dava sempre mostra di
una malsana curiosità a proposito della gente che cercava di uccider-
lo. «Quale missione v’impone di scontrarvi con me?»
«Mia maestra in vita fu la vendetta» disse la Dormiente. «La mia
missione è di… maledizione, non mi metterò di certo a parlare così
anch’io.»
«Immergetevi nel Fiume con orgoglio» disse lui, e nel suo tono c’e-
ra qualcosa di sinceramente affranto. «Tornate alle sue acque turbo-
lente… risparmierei con gioia una tale combattente.»
Lei si avventò su di lui, rapida e bassa. Con la mazza gli fermò la
spada, menando poi un fendente verso l’alto col coltello, come se vo-
lesse impalargli la gola – si era rigirata chissà come la lama nella mano
in movimento, così che la parata di lui col pugnale andasse a vuoto.
Il manico del coltello lo colpì sotto al mento, proiettandogli la testa
all’indietro. Un lungo fiotto di sangue sottile gli colò dalla bocca e ri-
mase sospeso a mezz’aria per un mezzo secondo di troppo. Persino
mentre cadeva all’indietro, la sua parata fallita tracciò un arco nello
spazio che li separava e le sfiorò le costole, la punta del pugnale che
descriveva una perfetta parabola esile e rossa.
Dall’altro lato della sala, oltre al duello, Harrow vide Dulcie Septi-
mus che cercava di uscire zoppicando dalla sua porta. Il suo paladi-
no, che si era alzato puntellandosi contro lo stipite, allungò un brac-
cio e la tirò indietro, producendo una reazione di indignato oltraggio
che le si dipinse sul volto. Lui lanciò un’occhiata a Ortus, e si scam-
biarono un serioso e militaresco cenno d’assenso e comprensione.
Harrow mormorò: «Septimus ha avuto una buona idea. Se evoco
un costrutto ora – prendendo la Dormiente alle spalle – Dyas non è
gravemente ferita, e ha ancora la sua spada…».
«Nonius non combatte in gruppo» commentò Ortus, a denti stretti.
«Nigenad, ti rendi conto che tutto questo non è letteralmente un
poema, vero?»

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«Hai visto cos’è successo con le pistole» fece lui. «Qui le regole sono
tutto, Harrowhark; se le infrangiamo, saremo perduti, ne sono certo.»
Harrow si morse il labbro. Più il combattimento si faceva scompo-
sto e brutale, più pareva favorire la Dormiente. Nonius non riusciva
a portarsi alla distanza giusta per brandire correttamente il suo stoc-
co; lo teneva sempre più addossato al corpo, usandolo più come uno
scudo che come il bisturi che lei sapeva dovesse essere. Il pavimen-
to tra i due avversari era un’unica grande macchia di sangue in cui i
piedi slittavano in cerca di un appiglio. Harrow continuò a guardare
e Nonius fece qualcosa di scaltro con il pugnale e uno dei colpi del-
la Dormiente finì largo; lei perse l’equilibrio per un istante e lui col-
se la palla al balzo per fare un passo indietro, liberare la spada e mu-
linarla per un affondo…
Lei gli abbatté la mazza sull’incavo del gomito con tutta la sgrazia-
ta brutalità di un macellaio che taglia la carne. Nonius urlò, e lo stoc-
co nero del Drearburh scivolò dalle sue dita insensibili per finire sul
pavimento, sferragliando. Lei si avvicinò, tirò indietro la testa e gli
sbatté la maschera d’oro sul viso scoperto, producendo uno scrocchio
agghiacciante. Lui barcollò all’indietro e finì mezzo spalmato sul sar-
cofago vuoto, portandosi la mano ora libera agli occhi. La Dormien-
te avanzò, lo sguardo impassibile della maschera tramutato in un ghi-
gno dal sangue fresco.
«Bel gioco di gambe, pezzo di stronzo» gli disse, e sollevò il coltello.
Matthias Nonius si staccò dalla bara come la collera dell’Impera-
tore. Le si avventò contro con tutto il peso del corpo, trascinando-
la via, per poi vibrare un colpo di coltello al suo fianco scoperto. Lei
parò con il bastone e lui le assestò una ginocchiata nella pancia, la
afferrò per la nuca con la mano libera e le mollò un’altra ginocchia-
ta in gola. Si avvinghiarono – Harrow riuscì a sentirla tossire dietro
la maschera – e lei riuscì a scrollarselo via di dosso con una spallata,
ma lui si ripresentò all’istante con una coltellata che per poco non le
scucì le budella. Harrow per un attimo gli scorse il volto, ormai quasi
del tutto ricoperto di sangue: aveva il naso rotto e le labbra e il mento
umidi di frattaglie. Aveva sangue negli occhi e nei capelli, e una per-
fetta espressione di freddezza omicida. Era come se perdere lo stocco
avesse schiuso dentro di lui dei ceppi invisibili. Non sembrava nem-
meno arrabbiato; somigliava semplicemente alla fine, in forma umana.

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La Dormiente agitò il manganello. Lui le afferrò il braccio, lo tor-


se e le sferrò un colpo col gomito, dall’alto verso il basso. Il braccio
si spezzò con un suono umidiccio. Poi la prese per il collo come se
volesse avvicinarsela per baciarla, e le piantò il pugnale nella pancia.
Lei lasciò cadere il coltello, che andò a unirsi alla mazza sulle pia-
strelle, e lo prese per la gola con tutte e due le mani. Lui la spinse con-
tro il muro e per un istante rimasero lì a lottare. Poi lui si liberò dalla
stretta e si scostò, lasciando l’elsa del pugnale a protrudere oscena-
mente dal tessuto arancione che le copriva il ventre.
Mentre lei la afferrava con la mano nel tentativo di estrarla, Pro-
tesilaus il Settimo lasciò la sua porta e si fece avanti di qualche pas-
so; aveva staccato la spada ancora rinfoderata dalla cintura, allungò
il braccio e proiettò per aria l’intero involto. Nonius prese al volo con
una mano insanguinata il fodero splendidamente decorato. Estras-
se la magnifica spada della Rosa Intonsa e, intanto che la Dormiente
si trascinava via dalla parete, brandendo il pugnale che grondava del
suo stesso sangue, le piantò la lama nel cuore.
Infilzò la Dormiente fino all’impugnatura; e mentre lei cadeva, di-
menandosi, lui scivolò a terra insieme a lei, sostenendola con l’altro
braccio. Solo quando la Dormiente smise di muoversi ritirò la spada
con un serico sussurro bagnato.
Le candele deflagrarono nella loro ultima fiammata nera e poi si
smorzarono in un baluginio. Attorno a loro si propagò un suono che
somigliava a una gran quantità di salsicce che venivano fatte preci-
pitare da una certa altezza, mentre i tubi drappeggiati e i legamen-
ti cadevano per terra, rimbalzando inerti prima di dissolversi in un
pulviscolo rosato. I ghiaccioli caddero, uno alla volta, squagliandosi
prima ancora di colpire le piastrelle. Ci fu un mormorio di fondo se-
guito da un plink, e le luci elettriche sul soffitto si accesero all’improv-
viso, riversando verso il basso una spoglia luce bianca: l’inclemenza
del filamento incandescente. Harrowhark attraversò lo spazio e si in-
ginocchiò accanto allo spadaccino fantasma della sua Casa, che sta-
va delicatamente scostando la maschera dal volto della Dormiente.
I lineamenti erano ormai inerti. Erano chiazzati di sangue sgorga-
to dal naso e dalla bocca, ma a parte quello non erano distorti da al-
tri danni. Una massa di capelli pettinati all’indietro era stata infila-
ta nel colletto, ma alcune ciocche erano scappate, appiccicandosi in

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volute rosse sulla fronte e sulle guance. Quel viso morto, orgoglioso
e inclemente li squadrò tutti finché Nonius non richiuse quegli oc-
chi ciechi. Harrowhark era stupefatta; non capiva.
Le fiamme azzurre non avvolgevano più i palmi e le gonne di Abi-
gail. Si era inginocchiata a sua volta sulla grata dura di metallo e, sen-
za curarsi della scomodità, domandò: «Harrow, la conosci?».
La Dormiente aveva il viso inconfondibile del ritratto sulla navet-
ta, sul pianeta che aveva ucciso. La donna affissa alle spalle di Coro-
na e Judith – quella donna familiare dallo sguardo spietato – aveva
combattuto per usurpare l’anima di Harrowhark.
«Affatto» rispose lei.
Nonius si tirò in piedi. Si pulì la spada presa in prestito sulla coscia,
girando la lama di qua e di là, per poi porgerla a Protesilaus, che un
po’ sorreggeva Dulcie e un po’ si stava facendo sorreggere da lei; non
era chiaro e, in entrambi i casi, la situazione era ridicola.
«È più sudicia di quel che meriterebbe» disse. «Una lama di tal gui-
sa sarebbe da restituire meglio che insanguinata e con i miei più sen-
titi ringraziamenti.»
Protesilaus esclamò: «Vorrei far conoscere a tutta la mia Casa il pri-
vilegio che mi è stato concesso. Se potessi vivere ancora, consiglie-
rei all’intera Settima di visitare il Drearburh in cerca di insegnamenti
sull’arte. Se mi restassero ancora cinque minuti da vivere, li impie-
gherei tessendo le vostre lodi. Non parlerei d’altro che della reveren-
za che nutro per voi, e per la Nona Casa e per la sua impareggiabile
maestria nella spada».
«Come sprecare cinque minuti, mi verrebbe da dire» borbottò la
sua necromante, sotto voce. Il paladino di Harrowhark sorrideva con
una gioia a malapena celata.
«Mia Signora» disse Nonius.
Si era voltato verso di lei; le rivolse un inchino composto. Lei si in-
chinò di rimando, e disse: «Spero che le vostre ossa vengano bene-
dette nell’Anastaseo, per i vostri servigi».
«Le mie ossa caddero ben lungi da casa» disse il paladino con un
lieve sorriso. «Giammai, ritengo, un viandante incapperà più nel
punto in cui giacciono, per quanto lontano le sue peregrinazioni lo
portino. Trovarmi al cospetto di una tale Reverenda Figlia è una suf-
ficiente benedizione, sapere che la mia Casa ergesi ancora salda e in-

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domita, fiera di fronte ai suoi oppositori. Ma continuo a non sapere


perché parlo in versi.»
Ortus stava dicendo ad Abigail: «Mia Signora, siete voi che andre-
ste elogiata. Il vostro atto necromantico dovrebbe riecheggiare per le
Nove Case come il ritornello morente di una canzone. Vorrei essere
ancora in vita per poter completare la mia grande opera e cominciar-
ne un’altra seduta stante: la chiamerei La Pentiade, e magari potrei
alternare versi da cinque stanze a versi da nove – una totale frattura
rispetto al mio primo lavoro, ma che comunque lo richiamerebbe –
vi trasformerei nel poema che già siete, Lady Abigail».
«Ti avevo già chiesto di smetterla di provarci con mia moglie» fece
Magnus e, vedendo la faccia di Ortus, puntualizzò all’istante: «Sto
scherzando, ragazzo mio! Sto scherzando! Ma le battute non esisto-
no da voi alla Nona? Spiegherebbe parecchie cose…».
«Ortus» disse Abigail, seria. Era la prima volta che Harrow la vede-
va anche solo leggermente scomposta. I capelli, di solito, erano rav-
viati fino a risultare lisci come uno specchio, ma ora sembrava che
l’avessero appena trascinata di faccia per l’ossario. Grondava sudore.
Continuava a strofinarsi le mani con discrezione e Harrow si accor-
se che erano ustionate. «Ortus, non avrebbe dovuto funzionare. Non
avevamo alcun diritto di evocare lo spirito di Matthias Nonius. La tua
spada non ci offriva alcun legame percorribile con lui – non avevamo
alcun collegamento thanergico – non avevamo niente, a parte il ma-
noscritto che mi hai consegnato… mi sono permessa di correggere
alcune sviste grammaticali, spero non ti dia fastidio.» (Harrowhark
era sicura che Pent non avesse idea del colpo terribile che aveva ap-
pena sferrato alla gratitudine che Ortus provava per lei; a giudicare
dalla fulminea espressione traumatizzata che gli aveva attraversato il
volto, sarebbe stato più gentile costringerlo a mangiare il libro.) «Mi
trovo nella stupefacente condizione di aver creato un collegamento
con un redivivo per mezzo di – ecco – della pura forza di volontà.»
Il redivivo, ora, si rivolse a Ortus. In piedi uno accanto all’altro, Or-
tus lo sovrastava di testa e spalle. Harrow si aspettava che la sua me-
desima espressione di sbigottito orrore si manifestasse anche sul viso
del suo paladino; ma mentre Ortus guardava il fantasma che aveva
passato una vita intera a adorare – ecco un’altra cosa che lei e lui ave-
vano in comune – arrossì violentemente.

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«Sono indegno di voi» gli disse, con semplicità.


«Non risponde a verità, mi appare chiaro» disse Matthias Nonius.
«Se la Quinta dice il vero – se fu la tua arte a offrirmi quell’ancora
che mi restituì intero a voi, qui, che mi diede un corpo e una lama
per battagliare – è stata la vostra arte, e non la mia forza, la suprema
fonte della nostra vittoria.»
Harrow distolse lo sguardo. In lontananza, nel complesso, c’erano
altri rumori: il ghiaccio che si scioglieva, delle viscere che schiocca-
vano. Trovò eccessivamente pesanti le stratificazioni delle sue vesti;
doveva essere così anche per gli altri, che sotto ai suoi occhi comin-
ciarono a sbarazzarsi di cappotti e guanti. L’aria sembrava più leg-
gera. Quella foschia puzzolente se n’era andata. Mentre si strotola-
va lembi di tessuto da attorno al collo, qualcosa la spinse di nuovo a
concentrarsi sul volto della Dormiente.
Quella donna non era morta serenamente; i suoi lineamenti si era-
no stabilizzati in un’espressione che si avvicinava più alla determina-
zione che alla pace del riposo tombale. Quando il rigor mortis si fos-
se manifestato – si sarebbe sviluppato, in quel mondo parodistico? –,
l’insieme si sarebbe potuto calcificare ulteriormente in disperazione.
Il mento era pronunciato; la mandibola testarda, l’angolazione rino-
frontale del naso a malapena riscontrabile, con le narici dilatate come
quelle di un grosso gatto. Era la mandibola, e anche qualcosa degli oc-
chi e delle sopracciglia, che continuava a distrarre Harrow.
Qualcosa di grigio spuntava sotto a una piega del colletto arancio-
ne, contro la pelle morta della gola della Dormiente. Si accovacciò e
usò un dito per agganciarlo. Era un giro di catena sottile. Tirò, con
cautela, ed emerse anche il resto: semplici anelli di metallo, disador-
ni a parte una piastrina d’acciaio lunga più o meno come il suo pol-
lice. Girò la piastrina. Sull’altro lato era stata incisa con precisione
un’unica parola: AWAKE.
«Reverenda Figlia» la chiamò con deferenza Nonius.
Si rialzò e si voltò verso di lui. L’antico fantasma della sua Casa
continuava ad avere un aspetto tremendo; aveva restituito lo stoc-
co e il pugnale ai loro rispettivi foderi, ma il volto e la gola erano un
orrore di sangue rappreso, rigato qua e là di sudore. Gli occhi scuri
erano iniettati di sangue, i capelli impiastricciati e il labbro spacca-

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to stava iniziando a gonfiarsi. Lasciava impronte rosse e appiccicose


ovunque si spostasse.
Le disse: «Tracce del nemico ancor persistono? Esistono ancora
nemici che avrebbero l’ardire di nuocervi?».
«Anche se ci fossero, io non ho modo di saperlo» rispose lei. «Pent,
riesci a percepire tracce residue della presenza invasiva?»
«La tua anima è di nuovo tua, ma lo spirito continuerà, sospetto,
ad avere un punto d’appoggio dall’altra parte. Sconfiggerlo qui non
implica che sia stato distrutto di là. L’unico modo certo per bandire
un redivivo è distruggere l’ancora fisica in cui risiede prima che possa
fuggire dall’involucro. Gli oggetti inanimati possono essere distrutti;
anche i cadaveri, se si rimuove il cervello. Ma, Harrow, abbiamo altri
problemi per le mani» disse Abigail.
I rumori dei filamenti di tessuto che si abbattevano sul pavimento
erano diventati rumori di fondo. In quel momento, però, la Casa di
Canaan ruggiva ancora: non con una particolare ferocia, ma con una
specie di timido disagio balbettante, come se altre porzioni della sua
facciata si stessero disgregando. Una lenzuolata di polvere cadde dal
soffitto, splendendo dolcemente sotto alle luci bianche che tremola-
vano, accendendosi e spegnendosi. Gli altri alzarono lo sguardo ver-
so le cascate di polvere con vari gradi di preoccupazione, a eccezio-
ne di Abigail, che pareva in mesta attesa.
«Ascoltatemi, tutti quanti. Non abbiamo molto tempo. La bolla si
sta deformando» disse, rapida. «Dopo molteplici evoluzioni separate
ci sono troppi punti in cui non concorda più con se stessa.»
Magnus disse: «Un’altra riorganizzazione? Produrrà un nuovo
scenario?».
«No» rispose sua moglie. «I ricordi si sono ricomposti e l’intrusa se
n’è andata. Non ci sono più detriti che la conchiglia possa addensa-
re in una perla. E in base a quello che sta accadendo all’esterno con…
Tutti quei fattori esterni stanno conducendo la bolla alla sua conclu-
sione naturale. Noi spiriti dobbiamo tornare nel Fiume, o rischiamo
di essere assorbiti o espulsi dall’anima di Harrow.»
Un altro brontolio basso da chissà dove. Il remoto schianto musicale
di chissà quale parete o porzione che si accartocciava lentamente su se
stessa, una grande massa di particelle che scivolava, ammucchiandosi.
Nonius disse, all’istante: «Se ho ottemperato al mio dovere nei vo-

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stri confronti e nei confronti della mia Casa, ce n’è un altro a cui devo
assolvere; un debito antico che ripagherò, se mi sarà possibile. Posso
lasciare questi lidi con la vostra benedizione, mia Signora?».
Ortus commentò, assorto: «Un debito?».
«Un’infame bestia infesta questo ramo del Fiume, un re fra i mo-
stri» disse lui. «Un rivale e alleato la combatte, solingo, e accolgo con
rancore la gloria di un duello a tal punto impossibile. Lasciatemi li-
bero di assisterlo.»
Una terrificante consapevolezza afferrò il cuore di Harrowhark. Era
rimasta lì per quello che le sembrava un tempo così lungo da accan-
tonare i problemi pressanti dall’ora: la realtà che persisteva là fuori,
e il fatto che fosse ancora viva, nonostante gli ultimi momenti di coe-
renza che aveva vissuto. Un re fra i mostri nel Fiume. E, forse ancor
peggio, la consapevolezza di aver perso una disputa decennale e cara.
«Vi riferite a un Littore» disse Harrow. «Avete davvero combattu-
to contro un Littore.»
«Il terzo fra i santi che servono l’Imperatore Imperituro, una delle
sue mani» confermò lui. E poi, nel caso non avesse afferrato: «Il san-
to che omaggio reca al dovere».
«Perché sta combattendo da solo?» gli domandò lei. Un panico
crescente, stranamente distaccato, le stava risalendo dalla base della
colonna vertebrale. «Dove sono Augustine e Mercy? Dov’è Ianthe?»
«Non conosco tali nomi. Persino il suo mi sfugge. Ci incontrammo
tanto tempo fa, e con lui ho duellato» fece Nonius. Lei evitò molto
deliberatamente di guardare Ortus. Si stava comportando abbastanza
bene da non dire nulla; ma se l’avesse anche solo guardata con un’a-
ria che si avvicinava in maniera remota al compiacimento, gli avreb-
be preso le caviglie a calci.
Un altro rombo dall’alto, un frastuono molto più insistente. Har-
row disse: «Ma siete già mezzo morto… la Bestia Resurrezionale ter-
rorizza gli spiriti…».
«Non sono mezzo morto» disse lui. «Io sono morto, niente più; ma
non ho timore. Questo combattimento ha affilato le mie armi e risve-
gliato i miei sensi. Mi sono, se volete, riscaldato… il che, dato il con-
testo, mi rendo conto non sia la miglior scelta di termini.»
Ortus disse: «Verrò con voi». E, all’istante, Protesilaus esclamò:
«Anch’io».

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«Ortus» fece Harrowhark. «No. Non sai di cosa stai parlando, non
ne hai idea. La Bestia nel Fiume è l’anima di un pianeta morto, ve-
nuta a uccidere l’Imperatore. Se c’è un solo Littore a sfidarla… è già
morto, Nigenad.»
Non avrebbe potuto dirgli nulla di peggio. Gli occhi gli brillaro-
no mentre proclamò: «Ho vissuto quasi tutta la mia vita nella paura,
Harrowhark, mia Signora. Non sprecherò la mia morte nella paura.
Mi rendo conto ora di non temere più nulla… non la morte… non
le leggi… non i mostri. Avanzerò, prima di poter cambiare idea e di-
ventare, ancora una volta, un codardo. Anche se non potrò fare qua-
si altro che guardare, lasciami andare». Di fronte al suo stupore, ag-
giunse, affabile: «Che cos’altro mi resta, Harrow?».
E lei capì che trattenerlo sarebbe stato inutile. Da fifone, Ortus si
era dimostrato enormemente testardo; era inevitabile che da corag-
gioso fosse ancora peggio. Non sapeva cosa dire. Avrebbe dovuto rin-
graziarlo? Ringraziarlo ora? Ordinargli cordialmente di non sprecare
la sua adrenalina fantasmatica su una creatura che non poteva spe-
rare di comprendere?
Ma Pent, con più tatto, stava già parlando: «Credo sinceramente che
il Fiume possa essere attraversato, Nigenad. Vieni con me e Magnus.
Il tuo aiuto per trovare Jeannemary e Isaac potrebbe tornarci utile…».
«Se c’è un passaggio, lo troverete di certo» disse lui, calmo. «È stato
per me un sollievo, nella mia disonorevole morte, aver avuto la pos-
sibilità di incontrarvi. Scriverò comunque La Pentiade. Dovrà solo
essere un poema più breve… molto breve, se quel che dice Harrow è
vero. Il mio cuore è determinato a seguire l’eroe della mia Casa e l’e-
roe della Settima.»
«Sarò onorato di trovarmi al vostro fianco, Ortus Nigenad; mai più
dubiterò della determinazione della Nona» fece l’eroe incredibilmen-
te tedioso della Settima, che poi si schiarì la gola e declamò:

«Nella tempesta, l’albero è grato alla radice,


Non al ramo».

«Ben detto» fece Ortus.


«Viene da un mio lavoro più esteso» ammise Protesilaus.
Alle loro spalle, la Luogotenente Dyas dichiarò: «Vado anch’io».

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Si voltarono tutti a guardarla. La mano ferita stringeva stoica lo


stocco; Harrow notò che si era assicurata l’impugnatura al guanto con
un pezzo di cavo, in modo che non potesse sfuggirle. Era insanguina-
ta, inzaccherata e in disordine, ma perfettamente calma. «Vengo» ri-
badì. E si strinse nelle spalle. «Regole della Coorte.»
«Ma quale regola della Coorte, Marta?» domandò Abigail, basita.
«Niente birra per i cagasotto» fece Dyas. E, dopo una pausa: «Po-
trebbe non essere la formulazione ufficiale, ma è così che è sempre
circolata».
Magnus commentò, più che divertito: «Questa non l’avevo mai
sentita».
«A me è capitato, devo ammetterlo» fece Matthias Nonius.
Gli sguardi di tutti si concentrarono su Harrow, come risponden-
do a un segnale fatale: leggende, soldati, poeti, Magnus.
«Nonius. Nigenad. In tutta onestà, non posso trattenervi» disse lei,
alla fine. «Avete entrambi servito la vostra Casa abilmente, e vi rin-
grazio entrambi. Nonius, se siete in debito con il Santo del Dovere, il
vostro aiuto potrebbe tornargli utile. Andate. Devo fare ritorno an-
ch’io il più presto possibile.»
Lui fece un passo indietro e le rivolse un inchino. Era un movimento
privo di pretese, assolutamente modesto. Nella Noniade avrebbe for-
se occupato mezza pagina. Non c’era tempo per lanciarsi in un qua-
lunque discorso ma, nonostante i dodici libri in cui Ortus celebra-
va la sua verbosità, non sembrava il tipo da farne uno; tutto quel che
disse fu: «Grazie e addio. Guida spirituale della Quinta, potete invia-
re noi quattro al limitare delle rive?».
«Senza problemi» disse Abigail. Si fece avanti e posò una mano sul-
la spalla di Protesilaus e di Ortus, osservandoli da dietro gli occhiali
spessi, e disse rapidamente: «Volete per…».
«Per la Settima» disse Protesilaus.
«Per la Seconda» disse Marta.
«Per la Nona» disse Ortus.
Le candele divamparono di nuovo, quella fiamma nera che minac-
ciava di incenerire il soffitto, e la Casa di Canaan parve oscillare di
nuovo come scossa da chissà quale terremoto – le luci sul soffitto sfar-
fallarono e si spensero per un istante – e tutti e quattro i paladini spa-
rirono, facendo ritorno nel Fiume. Harrow si sorprese a immaginarli

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con l’occhio della mente: emergendo da quelle acque torbide di fron-


te al Santo del Dovere, con la sua lancia e la sua spada, al cospetto di
qualcosa che incombeva alle sue spalle, più grande di quanto l’occhio
potesse comprendere. Più azzurro della morte; inimmaginabile, che
si avvicinava per accogliere i quattro spadaccini defunti e il Littore.
Non aveva detto addio. Harrow aveva raramente la possibilità di
dire addio.

* * *

Le luci sfarfallarono di nuovo. Un vapore sottile stava fuoriuscendo


dalla griglia sotto ai loro piedi, portando con sé un vago sentore di
fumo. Le candele si erano spente del tutto, e le loro esili anime sati-
nate stavano ascendendo ai cieli nelle intravature metalliche. C’era un
odore pervasivo e persistente di polvere bruciata, e il rombo continuo
del delicato impilarsi delle rocce e del metallo deformato. Si fissaro-
no con lo stupore estenuato di chi è stato abbandonato: Harrowhark
e i fantasmi di Dulcinea Septimus, Magnus Quinn e Abigail Pent.
Con una crescente agitazione che non riusciva davvero a placare,
Harrow si sorprese a domandare, secca: «Qual è il mio ruolo in que-
sto esodo, Pent?».
«Se rimani, non c’è il rischio che tu assorba te stessa o che tu espul-
ga te stessa» disse Abigail, con un tono da cui traspariva una cer-
ta cautela. «Sei l’anima ospite, e puoi essere rimossa solo in manie-
ra deliberata o con il genere di violenza tentata dalla Dormiente. Gli
spiriti desiderano sempre far ritorno ai loro corpi, e si consumano in
loro assenza. Le uniche vie d’uscita per te, ora, sono il Fiume – ab-
bandonare completamente il tuo corpo – o semplicemente tornare
a casa, e svegliarti.»
Gideon.
L’aveva sbalordita, quando ancora erano alla Casa di Canaan, come
la totalità di se stessa pareva sempre risalire a Gideon. Per un bre-
ve e meraviglioso lasso di tempo, aveva accolto quel fatto: quel mi-
crocosmo di eternità tra il perdono e la lenta agonia incomprensibile
della caduta. Gideon che si arrotolava le maniche della camicia. Gi-
deon screziata d’ombra, che infrangeva promesse. Un’idiota con una
spada e un sorriso asimmetrico aveva dimostrato di essere la fine di

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Harrow: la sua apocalisse, più repentina della morte dell’Imperatore


e, insieme a lui, del sole.
Poteva lasciarsi andare, o poteva tornare al suo corpo, e lasciar an-
dare lei.
Nav aveva preso la sua decisione, di fronte a una morte in entrambi
i casi imminente. Il libero arbitrio di dire: “Harrow muore” o “Harrow
vive”. E lei aveva detto – e vaffanculo a lei per averlo detto –: «Har-
row vive». Il che aveva richiesto un bilanciamento opposto: «Gideon
muore». E ora era tornata a quello che aveva sempre desiderato: la
scelta di poter dire “Sì” e la scelta di poter dire “No” con l’ago di quel
“No” che scivolava fatalmente nell’altro verso, in direzione del “Sì”.
Disse: «Se torno indietro, distruggerò la sua anima in via definitiva».
Fu Magnus che fece un passo avanti e squadrò Harrow, faccia a fac-
cia. E forse lo percepiva con più acutezza, adesso: perché lui era l’uo-
mo che, per usare le parole di Gideon di una vita fa, era stato buo-
no con la sua paladina. Ora aveva le labbra contratte, ma i suoi occhi
erano più gentili che mai. E la gentilezza era un coltello.
«Tutta questa storia si è verificata perché ti sei rifiutata di affron-
tare la morte di Gideon» disse lui, assestandole una pugnalata più
precisa di quelle che un Nonius avrebbe mai potuto sferrare. «Non ti
biasimo. Ma dove saresti, in questo momento, se ti dicessi: “È mor-
ta”? Conservi le sue cose come un’amante che conserva dei vecchi
bigliettini, ma con la sua morte, tutte le cose che la rendevano “Gi-
deon” sono andate perdute. È così che funziona il Littorato, giusto?
È morta. Non può tornare, anche se la tieni nascosta in un cassetto
che non puoi nemmeno guardare. Non stai aspettando la sua resur-
rezione; ti sei trasformata nel suo mausoleo.»
Sua moglie guardò Harrow in faccia e mormorò: «Magnus, ti sei
spiegato» ma lui stranamente la ignorò.
«Lo sapevi che Abigail mi ha mollato quando avevamo diciassette
anni? Ho conservato un angolino strappato del suo carnet di ballo per
tre anni. Non c’era nemmeno scritto sopra qualcosa, non c’erano le sue
iniziali, e manco le mie. Era solo l’angolino strappato di un carnet.»
Una delle luci si staccò dal soffitto sopra di loro trascinandosi die-
tro una cascata di scintille e si frantumò sulla griglia lì sotto. Per Har-
row, suonò come una campana a morto.
«Questo è il tuo angolino strappato del carnet» disse Magnus. «Sei

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una ragazza sveglia, Harrowhark. Potresti dedicare un pezzetto di quel


tuo cervello alla lezione più difficile: quella del dolore.»
La pioggerellina di pulviscolo era diventata una tempesta e qual-
cosa andò a sgretolarsi contro la parete della lavagna. Se la distruzio-
ne della Casa di Canaan avesse continuato a progredire a quel ritmo,
anche se si fosse trattato di una specie di cambiamento metaforico,
avrebbe finito per – in un senso assai poco metaforico – spiaccica-
re tutti quanti. Le regole erano regole. Se un pezzo del suo paesaggio
psicologico fosse caduto addosso ad Abigail, a Dulcie o a Magnus, si
sarebbe trattato di una seconda morte. I loro spiriti sarebbero stati
cancellati dall’esistenza, resi addirittura incapaci di entrare nel Fiu-
me. Si avvicinarono, radunandosi attorno a lei, come piante che per-
cepiscono la luce del sole: come se fosse l’occhio del ciclone, anche la
devastazione sembrava gravitare attorno a lei e la terra sotto ai loro
piedi era salda.
Harrowhark si sorprese a studiare il volto di Dulcie: mostrava una
strana immobilità ripiegata che la stava facendo apparire di nuovo
vecchia, quelle lievi rughe sigillate su entrambi i lati della bocca che
raccontavano la lezione di una sua sofferenza privata. Harrow disse:
«E poi c’è il Fiume».
«Il Fiume significa pazzia» disse Abigail all’istante. «Non sei mai
stata là in qualità di anima disancorata. Non sai com’è. Non ho la
più vaga idea di cosa accadrebbe all’anima secondaria di un legame
Littoriale se l’anima ospite abbandonasse il suo corpo… tu sei viva,
Harrow­hark – e questo ha un peso quando si parla di anime. La tua
anima brama il tuo corpo, e senza qualcos’altro da abitare, non pos-
so prometterti nemmeno che, nella tua follia, troveresti in qualche
modo la via del ritorno, trasformando tutto questo in speculazione.»
Persino dopo aver domato i suoi sentimenti, la voce di Harrow suo-
nava flebile, infantile e lamentosa. «Non c’è nulla che io possa fare pri-
ma di entrare nel Fiume che mi garantisca di rimanere dove sono?»
«No» disse Abigail. «È il Fiume. Si muove. Dovresti imboccare la
via dei redivivi e viaggiare lungo un collegamento thanergico, e an-
che quella sarebbe una follia: raggomitolarti dentro a… non saprei…
dentro a una teiera, restare aggrappata senza senno o comprensione,
impazzendo lentamente. E, come dicevo, la tua anima anela al tuo
corpo. Che cosa accadrebbe se ti perdessi, soccombendo prima o poi

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alla follia, e venissi riassorbita, producendo una specie di amalgama –


sai bene anche tu che cos’era Maestro –, un guazzabuglio che fonde
insieme la tua anima e dei frammenti di quella di Gideon? Harrow­
hark, ti trovi di fronte a una grandezza nota e a una serie di ignoti or-
rendi. Non arretrare verso l’ignoto.»
«Se si trattasse di me» disse Magnus, «tornerei a casa, e vivrei, vi-
vrei per lei.»
Dal corridoio arrivò un formidabile schianto, seguito da un tremen-
do scricchiolio mentre, poco distante, una trave precipitò. Il frastuono
fu sconcertante. Era come se il mondo stesse urlando e si stesse ac-
cartocciando tutto intorno a loro. L’evocatrice di spiriti della Quinta
Casa abbandonò ogni contegno e prese le mani di Harrow fra le sue,
e le disse: «Mi dispiace così tanto, Harrow. Quanto vorrei che le cose
potessero andare in maniera diversa. Mi dispiace immensamente».
Il soffitto sopra di loro si incrinò e vacillò, ma tenne. Harrow os-
servò i visi stravolti che aveva davanti: i lineamenti ora seri del pa-
ladino della Quinta, il suo volto allegro che ormai aveva guadagna-
to una sua dignità sovrannaturale; sua moglie, la storica, una donna
che, ora le era chiaro, sapeva di non poter mai degnamente vendica-
re. La tragedia del genio e di una morte inutile. Una perdita irrepa-
rabile per l’universo.
Come se l’universo non potesse sopportare ulteriori buchi; come
se il tessuto dell’universo non fosse già diventato una serie di rita-
gli nella sua trama ricamata, collegati dai sottili e friabili ponti di
coloro che restavano. La trama avrebbe potuto sostenersi da sola,
con tali assenze? Sarebbe riuscita, proprio lei che un tempo si rite-
neva assai ferrata in materia di assenze, a perdurare da sola? La ri-
sposta era “No”, palesemente; non era nemmeno pronta ad ascolta-
re quella domanda.
Eppure… eppure…
Harrowhark disse: «Dovete andare prima che il tetto vi crolli
addosso».
Abigail le rivolse un mezzo sorriso spossato e mesto. Un autentico
moto d’imbarazzo della Quinta Casa. «Non finché non mi dirai cos’hai
intenzione di fare. In loco parentis, non so se mi spiego. Temo di sen-
tirmi responsabile per te, e ho bisogno che tu mi prometta che vivrai.»
«Gideon l’ha già deciso per me» disse Harrow. Non era davvero

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spaventata; ma le sue mani sì, tutto lì, e tremavano indipendentemen-


te dai suoi sentimenti.
Il primo blocco di soffitto precipitò con una pesante e immota le-
vità. Il contraccolpo fece perdere a tutti l’equilibrio. Abigail, Dulcie
e Harrow si rifugiarono in via provvisoria sotto al braccio che Ma-
gnus, in modo automatico e completamente inutile, aveva allungato
sopra di loro, come una specie di ombrello umano molto ottimista.
Harrowhark disse, spiccia: «Pent; Quinn; Septimus; me la cavo male
con i ringraziamenti e ancora peggio con gli addii. Dunque, non mi
ci addentrerò».
Magnus provò ad accennare: «Ma hai…».
«Un giorno morirò e verrò seppellita sottoterra e a quel punto po-
trai venire a illustrarmi la questione» disse Harrow, e scoprì, in fin
dei conti, che non si stava davvero rivolgendo a loro. «Fino ad allo-
ra… temo di dover vivere.»
«Allora non si tratta di un addio» fece Abigail, e si allungò verso
di lei per ripiegare dietro all’orecchio di Harrowhark una ciocca di-
spersa di capelli, un moto istintivo da cui Harrow non riuscì a tro-
vare il modo di sentirsi umiliata. «Sono convinta che ci rivedremo.»
Magnus disse, rapido: «Jeanne mi ha detto di dire “Ciao” a Gideon
da parte sua. Se dovessi vederla prima di noi…».
«Anche se non c’è una particolare fretta» disse la Quinta evoca-
trice di spiriti. Al che, in quel medesimo bagliore azzurro, spariro-
no, senza cerimonie, lasciandola da sola… con Dulcinea Septimus.
Le lievi increspature all’interno della bolla non avevano reclama-
to la Settima. Se ne stava lì in piedi, in mezzo alla polvere che cadeva
e ai rumori dell’acciaio stridente, la pelle come una ragnatela di una
rarefazione orripilante e quei riccioli corti di un castano zuccheroso,
appiccicati al cuoio capelluto come il fantasma del sudore e del san-
gue. Harrowhark, basita e stranita, le si avvicinò mentre il mondo si
sgretolava attorno a loro.
«Oops! Rieccomi qua, non faccio mai quello che mi dicono di fare»
disse Dulcie. «Ancora un istante, per favore.»
Harrow disse, con conciso stupore: «Spicciati e vai. Se mai mi ri-
troverò di fronte a Palamedes Sextus, non ho la minima voglia di
spiegargli perché ho messo di nuovo in pericolo Dulcinea Septimus».
«In realtà, vorrei correre il rischio di rimanere qui ancora un mo-

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mento e di farmi spiaccicare riducendomi in niente» fece lei. «La Set-


tima è convinta che il niente sia l’unica cosa davvero bella, comun-
que. Quindi nah.»
«Septimus, se qua si tratta di farmi tornare regolarmente nel mio
corpo, puoi fidarti: non cambierò idea.»
Dulcinea, con quel volto bizzarro che era al contempo il gemello di
quello di Cytherea e il suo antipode, le rivolse un sorrisino di una tri-
stezza straordinaria, che mai si sarebbe intonato alla faccia della Lit-
trice. Si protese e strinse una mano di Harrow nella sua, mentre uno
dei corridoi alla loro sinistra crollava integralmente.
«In realtà, ti devo dire una cosa» fece lei.

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TRENTA MINUTI PRIMA DELL’ASSASSINIO DELL’IMPERATORE

Per tutto il tempo, mentre Ianthe mi guidava giù


per quei corridoi inquietanti a strisce arcobaleno, mi sono doman-
data che cazzo ti fosse successo, Harrow. Ero piuttosto convinta che
da un momento all’altro mi sarei ritrovata a galleggiare sott’acqua, ed
eccoti lì, pronta a salvarmi il culo, evitandomi di finire a stringere la
mano all’Imperatore delle Nove Case. Non ho mai voluto incontrare
Dio. Nessuno incontra mai l’Imperatore, nei fumetti. Dio è sempre
apparso solo sotto forma di lettera indirizzata a qualcuno che veniva
stralciato dalla storia, perché se ne doveva andare a servire il Princi-
pe Imperituro. Ero irrazionalmente certa che bastasse l’atto stesso di
vedere Dio – ecco, quella sì che sarebbe stata la fine della storia. Era
un modo per far spazio a un nuovo personaggio.
Eravamo arrivate davanti a una porta assolutamente anonima, soc-
chiusa – e insisto su quell’“anonima”, si poteva scambiare l’ingresso
delle stanze dell’Imperatore per il ripostiglio delle scope. Ianthe si
era fermata di botto.
Avevo afferrato anch’io; quella porta non doveva essere aperta. Ian-
the si era portata l’indice alle labbra e, senza fare rumore, aveva spin-
to ancora un po’ la porta; eravamo entrate di soppiatto in una piccola
anticamera male illuminata e analogamente pallosa, con un’altra por-
ta socchiusa alla nostra sinistra che conduceva in un salottino strana-
mente familiare. Un tarlo, in un anfratto del cervello: sapevo che eri
stata là dentro, ma era bizzarro perché alcuni ricordi mi sembrava-
no miei e altri ricordi mi arrivavano come sussurri da un buco in una

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parete. Tridentarius si era appiattita contro la parete che confinava


con il salottino, in modo da poter sbirciare attraverso la fessura, e io
avevo fatto lo stesso perché sì, okay, ero curiosa, va bene?
Nella stanza c’era Cytherea. Il corpo di Cytherea, con la schiena ri-
volta verso di noi. Era stata meticolosamente legata a una poltronci-
na con un cordone di tendini dall’aria rognosa. Non riuscivo a vede-
re con chi stesse parlando.
«… non è una domanda difficile» stava dicendo qualcuno, senza
una particolare preoccupazione. «Non hai niente da nascondere, do-
potutto. Voglio solo sapere… come? Sul serio, sono più impressiona-
to che incollerito.»
La voce era ancora ghiaiosa. «Ti incrimino per gli atti perpetrati
con l’intento di distruggere, del tutto o in parte, la razza umana…»
«Comandante.»
«… e per i quali l’unica sentenza possibile è la morte; ripetuti ec-
cidi di massa, la completa disintegrazione delle istituzioni politiche
e sociali, di linguaggi, culture, religioni, di ogni svago e libertà indi-
viduale all’interno delle nazioni, per mezzo di…»
«Comandante Wake» disse lui. Dal tono sembrava che si stesse
stropicciando la faccia con la mano; ci fu un’esalazione attutita. «Ho
già sentito tutto quanto.»
«Chiamami col mio nome completo, o non nominarmi affatto.
Che io sia dannata se non coglierò l’occasione di sentirti pronuncia-
re la formula.»
L’Imperatore delle Nove Case sospirò.
«Comandante Awake. Awake Remembrance of These Valiant Dead *.
Ricordate quei morti valorosi» disse lui.
«Tutto quanto.»
«Non riesco a credere che tu ti senta nelle condizioni di poter pre-
tendere qualcosa da me.»
«Tutto quanto, Gaius!»
Ci fu il suono preparatorio di un’inspirazione.

*
  Awake remembrance of these valiant dead è una citazione dell’Enrico V di William Shake-
speare. (N.d.T.)

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«Awake Remembrance of These Valiant Dead Kia Hua Ko Te Pai Snap


Back to Reality Oops There Goes Gravity*» recitò d’un fiato. «Giusto?»
«Sono parole morte… una catena umana che si snoda nel passa-
to per diecimila anni» disse il cadavere. «Che effetto ti hanno fatto?»
«Sincera tristezza che sconfina in un gran divertimento» disse Dio.
«Possiamo parlare?»
Nella stanza era sceso il silenzio. Quei capelli morti aggrovigliati
si erano completamente immobilizzati. Lui cominciò: «Stai cercan-
do di suicidarti per procura da quando ti ho trovata, Wake. Ricono-
sco quando qualcuno cerca di costringermi a fare qualcosa, e tu ti stai
comportando come una donna che desidera moltissimo che io pon-
ga fine alla sua vita».
«Telepatia» commentò lei. «I dieci miliardi ti hanno donato an-
che quella?»
«Magari l’avessero fatto» disse l’Imperatore. «Wake, ti stai compor-
tando come se la tua missione fosse conclusa, e vuoi che io ti elimini
dall’equazione.» Silenzio. «Qual era la missione?» Silenzio. «Com’è
andata a finire? Che cosa stavi cercando di fare?»
«Non ho intenzione di parlare con te.»
«Sappiamo entrambi che non è vero.»
Un impercettibile clink ceramico. Era probabile che l’Imperatore si
stesse bevendo un tè. Ianthe aveva lo sguardo perso a mezz’aria e si
era rincantucciata più che poteva nell’angolo. Dividevamo quell’an-
fratto con un manto bianco appeso a un gancio, e lei si era incuneata
dietro al manto, come se stessimo giocando a nascondino. Non po-
tevo che fare altrimenti, e mi era toccato osservare qualsiasi cazzo
di cosa stesse succedendo là dentro da dietro un sottile velo di quel-
la veste, appiccicata a Ianthe, quindi, per cortesia, riservami un mi-
nimo di solidarietà.
Lui le disse: «Il Sangue dell’Eden è morto con te, Wake. Qualsiasi
azione ulteriore è solo un rantolo agonizzante».
«Sappiamo entrambi che non è vero.»
«Non avresti mai bombardato la mia flotta con delle testate nucleari.»

*
  Kia Hua Ko Te Pai è un pezzo dell’inno nazionale della Nuova Zelanda, in lingua mao-
ri. Snap back to reality oops there goes gravity è un verso di Lose Yourself di Eminem. (N.d.T.)

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«Però, sai parecchie cose di me» disse il cadavere. «Magari quan-


te ne so io su di te.»
«C’è tantissimo che non so di te» rispose Dio. Da dietro il manto
avevamo scorto un breve lampo di movimento – si era alzato in pie-
di. Avevo intravisto un gomito e un braccio che reggeva una tazza; si
era appoggiato a una poltrona appena fuori dal nostro campo visivo.
«C’è parecchio che voglio sapere. Perché proprio la Nona Casa, tanti
anni fa, Wake? Là non c’è niente.»
Lei rimase zitta. Il braccio gesticolò, tazza compresa, e lui continuò
a incalzarla: «Gideon» – mi suonava sempre strano – «ci ha messo
due anni interi a rintracciarti e a ucciderti. Nonostante ti avesse tra-
sformata nella missione della sua vita, hai comunque avuto tempo in
abbondanza per nuocere. Perché sprecare la tua occasione con la mia
Casa più piccola? Se ti fossi infiltrata nella Terza avresti potuto cau-
sare dei danni seri. E non si è trattato di una coincidenza. Hai igno-
rato il bersaglio-fantoccio nell’atmosfera… hai trovato le coordinate
esatte della Casa.» Un silenzio ancor più prolungato. Lui le suggerì:
«Di questo vuoi parlare?».
Silenzio.
«Sei uno spirito redivivo da quasi vent’anni, Wake. È straordina-
rio… sei davvero tutto quello che dicevano che fossi.»
Silenzio.
«Non sei una necromante…»
«La necromanzia è una malattia che hai propagato tu» fece lei.
«La necromanzia va spazzata via in maniera strategica e deliberata.»
«Non blateriamo fanatismi, Comandante, non ti infliggerò la mor-
te per questo… e danneggi anche la tua causa» le disse con calma.
«Ho accesso a innumerevoli foto adorabili di bebè necromantici con
il loro primo ossicino. Non sono di certo neonati paffuti con le guan-
ciotte grasse, ma hanno un loro nonsoché e a nessuno piace associa-
re il concetto di “bebè” a “spazzare via”.»
«Quanti bebè sono morti per la bomba, Gaius?»
«Tutti quanti» disse lui.
E dopo un istante, riattaccò: «Non sono affatto interessato a gioca-
re questa partita, Comandante. Acceleriamo le operazioni. Mi dirai
quale collegamento thanergico hai seguito per arrivare fin qui, per-
ché di sicuro non eri nel corpo di Cytherea alla Casa di Canaan, e mi

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dirai che cosa stavi facendo nella Nona Casa diciannove anni fa. In
cambio, io ti rimetterò nel Fiume, dove dovresti stare… chi c’è lì?»
Credevo che ci avessero sgamate finché non ho sentito la porta ester-
na spalancarsi – e per poco io e Ianthe non siamo rimaste spiaccica-
te là dietro. Del movimento, uno svolazzo di tessuto bianco e il tenue
clink di Dio che posava la sua tazza di tè. Incastrate in mezzo agli ap-
pendini dietro la porta, ci era rimasta solo la visuale di due persone
con addosso dei manti bianchi stazzonati, rivolti compostamente nella
direzione in cui doveva trovarsi Dio. Erano la Littrice che aveva cerca-
to di ucciderti e il Littore che si era spaventato vedendo la mia faccia.
Silenzio generale. L’intera stanza stava trattenendo il respiro. Do-
vevano essere passati solo un paio di secondi prima che l’Imperato-
re dicesse, concitato: «La Numero Sette…».
«La Numero Sette può succhiarcelo, per quel che mi riguarda» dis-
se Mercymorn. Il suo tono era piatto: la calma inflessibile di chi si è
già scalmanato a sufficienza. «È finita, John. È venuto tutto alla luce…
ci sono voluti diecimila anni, ma è venuto tutto a galla.»
Nessuna risposta. Tutti gli occupanti della stanza erano immobili
come dei modellini in una casa di bambole.
Poi lui domandò, con una certa perplessità: «Ma cosa è venuto a
galla?».
«Sarebbe una delusione, immagino, se vuotassi il sacco ora» dis-
se il Littore chiamato Augustine, dopo un istante. «Ma procedi. Pro-
vaci. Confessa, e sii l’uomo che vorrei che tu fossi, invece dell’uomo
che apparentemente sei.»
«Sentite, non per fare il brillante a sproposito» disse Dio, «ma…
sono nei guai?»
La Santa della Gioia si mise a sedere sulla poltroncina vuota e scop-
piò in un pianto rabbioso. Si prese il volto fra le mani e singhiozzò
violentemente per tipo quattro secondi – insomma, non per molto –
e poi si rialzò in piedi. In apparenza, si era sfogata.
«Perché forse potrebbe non essere il momento più appropriato»
fece lui, «visto che abbiamo… compagnia.»
Ancora una volta, credevo ci avessero beccate. Ma lui stava indi-
cando la persona che occupava il corpo di Cytherea, ancora legato
all’altra poltroncina. Entrambi i Littori la fissarono come se non l’a-
vessero notata prima.

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«Mercymorn la Prima, Augustine il Primo, vi presento la Coman-


dante Wake Me Up Inside* – le mie più sincere scuse se mi è uscito
male» disse l’Imperatore. «Wake… Mercy… Augustine.»
«Oh, ci conosciamo» fece il cadavere, con immensa soddisfazione.
Sia Augustine che Mercy sguainarono i loro stocchi con un lungo
sussurro metallico. Non riuscivo a vederli in faccia. Accanto a me,
non riuscivo nemmeno a sentir respirare Tridentarius: in quanto Lit-
trici, magari neanche ne avevamo bisogno. Non scalpitavo per im-
barcarmi in quell’esperimento.
La voce dall’altro capo della stanza disse: «Rinfoderateli».
Non lo fecero. E nemmeno si avventarono sul cadavere legato…
Wake. Aveva girato il capo per guardarli. Aveva dei petali nei ca-
pelli. Dio disse, piano: «Vi siete già incontrati, Comandante? Puoi
approfondire?».
«Ho incontrato la tizia. Lui non l’ho mai visto. Lei faceva da por-
tavoce per entrambi.»
Mercy disse: «Non può essere. Non sta succedendo. Non può succe-
dere davvero». E l’altro Littore commentò: «Evidentemente sì, invece».
E Dio proseguì: «In quale contesto?».
«Stavano lavorando per me» disse la Comandante morta.
Mercymorn ribatté: «Ti stai sopravvalutando o non la racconti giu-
sta di proposito?».
L’altro Littore la interruppe: «Gioia…». Ma lei stava dicendo, con-
citata: «Oh, ma lasciamo che accada! Se sta succedendo davvero, che
succeda… avevamo un accordo, Wake! Dove diavolo ti sei nascosta
per diciannove anni?».
«Dove… mi… hai… lasciata, che cazzo» ringhiò lei. «Nelle mie
ossa. Poi in una spada. In… quel… buco… di… merda.»
Augustine disse: «Mercy, non perdere tempo. Se questa è veramen-
te la signora in questione… allora Gideon ha dimostrato, ancora una
volta, di essere inadatto a svolgere qualunque compito che non con-
sista nel preparare porridge e semplici stufati».
La figura sulla sedia si dimenò con un’improvvisa e animatissima
violenza contro i legacci, facendo sussultare gli stocchi impugnati da

*
  Wake me up inside è un verso di Bring Me To Life degli Evanescence. (N.d.T.)

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ciascuna mano Littoriale. Il cadavere disse: «Brutti bastardi doppio-


giochisti, siete stati voi a mettermelo alle calcagna…».
«Lo sapevi che ti stava inseguendo, hai passato due anni a scap-
pare da lui…»
«Non mi avevate detto che era a quarantott’ore da me e che cono-
sceva il mio bersaglio!»
«Se tu avessi rispettato la tabella di marcia sarebbe stato irrilevan-
te. Sei stata tu che non sei riuscita a ucciderlo la prima volta – tu che
hai ritardato di un giorno intero la consegna –, oh, e adesso so il per-
ché» strillò Mercy. «Sei tu che non hai rispettato il piano, facendo di
testa tua…»
«… stregonerie cialtronesche necromantiche…»
«… e a quel punto hai fatto la cosa peggiore che in assoluto si po-
tesse fare…»
«Ho fatto quello che dovevo fare!» ruggì la sagoma sulla sedia. Or-
mai sembrava aver perso definitivamente la brocca. Dal suono, pare-
va avesse la bocca impastata, appiccicata di sputacchi di saliva, anche
se ero piuttosto sicura che i cadaveri non potessero produrre saliva.
Comunque. «Ho fatto quello che andava fatto quando quelli finti sono
morti – anche se voi due sanguisughe rinsecchite non mi avete spie-
gato un beato cazzo di quello che stavo facendo davvero! Riscontrare
la presenza di segni di vita? Recuperare un campione? Se avessi sapu-
to allora quello che so adesso, quel posto l’avrei bombardato e basta!»
«E ora vuotiamo il sacco» fece Mercy. «Ora, temo verrà tutto a gal-
la. L’avresti fatto, non è così? E quando avevi giurato che avresti aiuta-
to a evacuare le Case, anche in quel caso non facevi sul serio, vero?»
«Basta» disse Dio, adagio.
E tutti si bloccarono.
Ci fu un lampo di… non so che cosa. Se si trattava di necroman-
zia, era di un genere che non avevo mai percepito prima. Troppo re-
pentina: più sapore che teorema. In bocca avevi questo sapore agru-
mato. Tutti quanti chiusero il becco, il che, in materia di incantesimi,
doveva tornare piuttosto utile.
«Wake?» disse lui.
«Cosa?» Un tono di un’impaziente irascibilità; senza fiato, confor-
me alla sua reale assenza di respirazione. La sua voce era irta di vaf-
fanculi affilati.

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«Risponderai alla mia domanda, ora? Perché sei andata alla Nona
Casa, diciannove anni fa?»
«Per forzare il Sepolcro ed entrarci.»
C’è un’emozione che non è esattamente paura, e mi piacerebbe che
qualcuno si inventasse una parola per descriverla, Harrow, perché in
quel momento non avevo un modo per farlo, maledizione – era una
sensazione che cominciava dai talloni e risaliva su per le gambe fino
alla spina dorsale, la sentivo nelle tue mani, la sentivo sulla tua lin-
gua. L’avevo sentita formicolarti dietro la nuca. Il cuoio capelluto ti
si era increspato di una leggera elettricità statica.
Ma forse una parola c’era: “presagio”.
«Ma non si può entrare nel Sepolcro.» Dio pareva sinceramen-
te interessato, ma in una maniera molto noncurante, come se stes-
se ascoltando i risultati di una gara. Era il grado di interesse di qual-
cuno che ascoltava la conclusione di un aneddoto a una festa. «Non
senza di me.»
Il cadavere rispose fosco: «Ero armata».
«Non importa quali armi avessi portato, Comandante…»
«Ho avuto la bambina» disse Wake. «La bambina che ho dovuto
incubare personalmente per nove cazzo di mesi, quando i simulacri
fetali che mi hanno dato quei due sono morti.»
«Oh, Dio, era tua» disse Augustine, inorridito. «Credevo che aves-
si usato in vitro uno di quelli di Mercy…»
«Ho detto che sono tutti morti» fece Wake. «I fantocci sono morti.
Gli ova sono morti. Solo il campione era ancora attivo, non ho idea di
come, visto che erano trascorse dodici settimane dal fatto, ma a ca-
val donato non si guarda in bocca.»
«E allora l’hai usato su te stessa» disse Augustine. «Cosa non si fa
per la rivoluzione, eh, Wake?»
«Mi stai giudicando?»
«Giudico solo la tua intensa capacità di illuderti.»
«Mi assicuro sempre che un lavoro venga completato.» Wake sem-
brava annoiata. «Mi avete spedita là fuori per uccidere un bambino
e aprire quelle porte. Il bambino di chi non era importante, per quel
che mi riguardava. Ho custodito quella cosa sotto al mio cuore… ho
vomitato tutte le mattine, il primo trimestre… l’ho sentita scalcia-
re… mi è toccato indurre il travaglio e partorire su una navetta, da

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sola, sapendo che ormai Gideon stava recuperando terreno… sape-


te, ho dato un soprannome a quella cosa, durante la gravidanza. La
chiamavo Bomba.»
A quel punto sarebbe potuto succedere di tutto. Mille futuri si sro-
tolarono davanti a me.
«Okay. Fatemi capire» stava dicendo Dio. «Hai portato una neo-
nata – una neonata che hai creato dentro di te, ottimo lavoro, è quel-
lo il metodo classico – in modo da ucciderla e generare una gigan-
tesca reazione a catena thanergica all’entrata? Quanto vorrei che
Harrowhark fosse qui; le farebbe bene sapere che al mondo c’è altra
gente con un’immaginazione paragonabile a quella dei suoi genitori.
Ma non sei una necromante; non avresti mai potuto manipolare l’e-
splosione thanergica. Voglio dire, è terrificante, ma non avrebbe mai
funzionato…»
Mentre parlava, qualcun altro era entrato nell’anticamera. Era un
uomo che sembrava essere stato scarnificato a sangue da una mac-
china per il vento senza essere mai guarito del tutto; un tizio segali-
gno, bitorzoluto e tendineo, con la faccia di uno che aveva preceden-
temente sofferto la fame e che di recente si era ustionato. Accrescendo
la lunga lista di pezzi da museo a bordo di questo posto, portava una
pistola agganciata al fianco e, sull’altro lato, uno stocco semplice con
un’elsa a cesto e un pezzetto di nastro rosso legato al pomolo. Aveva
gli abiti macchiati di muco verde, così come la veste scintillante che
portava, il cappuccio che gli copriva la testa… si chiuse la porta alle
spalle e si voltò a guardare Ianthe e me, con quella strana faccia grat-
tugiata e quegli occhi scuri, e a quel punto mi risultò chiaro che sì, ci
avevano sgamate in pieno.
Scostò i manti. Ci fissava, Harrow. Poi ci rivolse questa bizzarra
espressione mezza sogghignante, come se volesse dirci: “Scusate”, e
allungò una mano. Ero così fuori di me che non avevo fatto una pie-
ga quando ti aveva levato gli occhiali dal naso. Se li era infilati e poi
aveva lasciato che le vesti tornassero a coprire me e Ianthe, avvian-
dosi dritto dritto in quel troiaio di situazione.
Augustine aveva alzato il capo e aveva detto, roco: «Gideon?».
La donna legata che ormai ero piuttosto certa fosse mia madre
– che indossava il corpo di una tizia per la quale mi ero presa una
cotta e che, a sua volta, aveva usurpato l’identità di una tizia che ave-

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va assassinato, finché io non mi ero buttata su uno spuntone per far


sì che la mia capa la ammazzasse – girò il capo.
Harrow, mi ricorderò finché campo (o finché crepo) l’espressione
sul suo viso. Per la prima volta, aveva sorriso – un sorrisino polvero-
so e sghembo, totalmente alieno rispetto alla bocca di Cytherea, che
mi aveva sorriso spesso ma mai in quel modo. Era il sorriso che ri-
volgeremmo a un nostro vecchio compagno di cella che è appena tor-
nato in prigione, una cosa del tipo “mal comune…” – o, più precisa-
mente, il sorriso di qualcuno che esce di prigione dopo aver scontato
una condanna molto lunga e che trova qualcuno ad aspettarlo. Una
presenza che trasmette una pace totale, qualcuno che non ci sarem-
mo aspettati di trovare. Era un po’ beffardo. Profondamente solleva-
to. Era un sorriso che diceva: “Sei tornato per me?”.
Il Littore che mi aveva preso gli occhiali si sfilò la pistola dalla cin-
tura prima che qualcuno potesse fermarlo. Si avvicinò fulmineo, ac-
costò la canna alla base del collo di Cytherea e premette il grilletto.
Un rumore umido. Il corpo sussultò e la testa si afflosciò, uscendo
dal nostro campo visivo.
Dio urlò: «Gideon!».
«Wake» disse Gideon II… I? Come se quella fosse una spiegazio-
ne esaustiva.
Ci fu del movimento. Poi Dio disse, mesto: «Maledizione, Gideon,
il suo spirito è completamente sparito». E Gideon commentò: «Bene».
Augustine intervenne, agitato: «La Numero Sette…».
«È scappata.»
«Ma che… che cosa, è scappata? L’hai messa in fuga?» Quan-
do non seguirono delucidazioni, Augustine domandò: «Ma… e sei
sopravvissuto?».
Mercymorn intervenne: «Non è importante, in questo momento!
Non me ne frega niente della Numero Sette! Voglio che senta anche
Gideon. Voglio che sappia per cosa è morta Pyrrha».
Ora, finalmente, l’Imperatore diventò visibile. Si mise serenamen-
te a sedere sulla poltrona che Mercy aveva abbandonato, davanti al
cadavere legato che si era beccato un colpo in testa. Sembrava un ti-
zio qualunque. Aveva i capelli tagliati corti, castano scuro, senza ul-
teriori sfumature. Aveva un viso lungo, squadrato e comune. E gli oc-
chi erano un casino folle, totale: dei pozzi di un nero profondo, un

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nero piatto e privo di riflessi. Persino da dove mi trovavo, riuscivo a


scorgere la luce bianca che circondava le iridi: un perimetro gelido e
sfarfallante. In quel momento, teneva il mento appoggiato sui pugni, i
gomiti sulle ginocchia e quel bianco splendeva in direzione di Mercy.
«Credo che tu stia saltando un capitolo della storia» disse Dio. «Stai
tralasciando una parte, temo… perché credi che non conti? Sei in im-
barazzo? Gideon, eri a conoscenza del fatto che, quando hai permesso
alla Comandante Wake di spingersi fin dove è arrivata… fino alla Nona
Casa, fino a una delle nostre Case, dal nostro popolo… era incinta?»
Una pausa. «Ne ero a conoscenza» fece Gideon Modello Classico.
«E perché diavolo non me l’hai detto?»
«Perché pensavo che fosse… mio.»
Un moto generale di disappunto percorse la stanza – una specie di
yeeeuuurgh strozzato da parte di Mercymorn, una risata – era una ri-
sata? – esausta di Augustine. Stava ridendo, in effetti – in un modo in-
quietante e privo di gioia, una gran risata stanca, spossata, finché non
affondò la faccia nella mano. Nemmeno a quel punto riuscì a fermarsi.
E Gideon Senior disse: «Perdonami, John. Non ne sapevo nulla»
il che mi sarebbe sembrata una cosa strana da dire se non fossi stata
troppo occupata a fissare Cytherea.
L’Imperatore disse: «Anch’io ho commesso degli errori, Gideon…
ma avresti potuto dirmelo».
E Gideon Base disse: «Non sapevo di doverlo fare».
«Ma per quanto tempo è andata avanti questa cosa?»
«Quasi due anni.» Dopo un attimo, aggiunse: «Era complicata».
«Ci scommetto. Quindi il piano era di uccidere il figlio di un Lit-
tore» disse Dio, meravigliandosene flemmaticamente. «Il figlio in
fasce di un Littore, un neonato, per innescare una reazione a catena
thaner­gica. Un piano coi fiocchi. Ma sapevate entrambi che non po-
teva funzionare… di sicuro tu lo sapevi che non poteva funzionare.
Augustine, che cazzo, fumati una sigaretta, sei isterico.»
Il suono che Augustine stava emettendo si avvicinava a una risa-
ta; si avvicinava anche a non essere affatto una risata. In preda a una
pura agitazione, il Santo della Pazienza sbottò: «Smettila di prender-
ti in giro da solo, John!».
«Tutti quanti si stanno comportando in maniera molto opaca,
oggi» fece Dio.

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«Lo sai che sappiamo anche noi come funzionano le barriere san-
guigne» disse Mercymorn. Lei non sembrava in preda all’isteria; si
era scambiata di ruolo con Augustine, inaspettatamente, e ora era
misurata e calma, quasi trasognata. «Non ce l’hai mai tenuto segre-
to. Ho sempre pensato che fosse un po’ un’esagerazione, Maestro…
sei sempre stato così puntiglioso con quella storia del non sanguina-
re mai… ma una volta Cassiopeia mi ha raccontato una cosa molto
interessante a proposito delle barriere sanguigne. Diceva sempre che
sarebbe stato più appropriato chiamarle barriere “cellulari”, perché
funzionano grazie agli enzimi thalergenici… che si possono simula-
re con una sostanziosa emissione thanergica e il sangue di un paren-
te stretto. Un genitore. Un figlio.»
L’Imperatore commentò, come se stesse parlando a una bambina:
«E come siete riusciti a…» e poi si bloccò.
E poi disse: «Mercy». E poi: «Augustine». E ribadì: «Mercy…». E
poi: «Augustine…».
«Non mi soffermerei a riflettere sui dettagli pratici, se fossi in te»
disse Augustine, tirando fuori una sigaretta. Se la cacciò all’angolo
della bocca. Se la cavava bene. Non gli tremavano nemmeno le mani.
«Non ne vale la pena.»
«Ma è successo solo…»
«Quella volta? Già, una serata pianificata da cima a fondo per cin-
quecento anni» disse il Santo della Pazienza. Accese la sigaretta. «Dios
apate, alla grandissima. Avevamo bisogno del tuo – ehm – materiale
genetico, e quello era l’unico modo. Erano passati dieci anni dall’ulti-
ma volta che Gioia e io ci eravamo trovati nello stesso posto. Eri così
maledettamente circospetto, John. Niente vulnerabilità, niente di-
strazioni. Saresti diventato paranoico se… avessimo fatto un secon-
do giro. Santo Dio, sembra tutto così volgare. Immagino di aver feri-
to i tuoi sentimenti. Dio mio, spero di sì. In questo momento, scopro
di sperarlo profondamente.»
«Non è possibile. Mi rifiuto di crederlo. Come avete anche solo…»
«Mercymorn» disse Augustine in tono pratico.
«Non ho neanche…»
«Mercymorn» ripeté Augustine. Fece un tiro di sigaretta e disse:
«Scusami, Gid, non volevo che sapessi tutti questi sordidi particola-
ri… siga?».

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«Ucciderei per averne una» fece Gideon, Sapore Vero.


Scese un ulteriore silenzio mentre il Santo della Pazienza accende-
va un’altra sigaretta e la passava al Santo del Dovere. Il cadavere vuo-
to di Cytherea giaceva immobile e silenzioso sulla sua poltrona. L’Im-
peratore le stava fissando la sommità del cranio, probabilmente dove
c’era il foro d’uscita del proiettile, ma io non lo vedevo. L’altro Littore
era appoggiato al muro e guardava la finestra oscurata.
«E quindi» disse l’Imperatore, «Gideon… hai buttato Wake fuori
dal boccaporto… e lei e la bambina sono morte durante il tragitto?»
«No» fece Mercymorn con un filo di voce. «Non è morta.»
Mi ero divincolata dai manti. Ianthe aveva cercato di bloccarmi; le
avevo scansato la mano con uno schiaffo. Avevo fatto sette passi per
uscire da quella piccola anticamera e per raggiungere il centro del-
la stanza dove sedeva l’Imperatore. Stavo lì in piedi, col fiato corto,
il mio spadone malandato stretto fra le tue mani, senza sapere cosa
fare con le tue braccia, senza sapere cosa fare con la tua faccia. C’era
questo enorme ruggito folle che ti riecheggiava nelle orecchie, come
una statica ravvicinata, ed era come guardare un film dal di fuori
– come se fossimo entrambe state sbalzate via dal posto di guida, No-
nagesimus, e qualcun altro l’avesse occupato.
Ma nessun altro aveva in mano i comandi. C’ero solo io.
Tutti si voltarono a guardarci. Nessuno fiatò. Mi ero fermata die-
tro alla poltrona occupata dal cadavere, con quel grosso buco scuro
sulla nuca. Degli esili fantasmi grigi prodotti dalle sigarette si arric-
ciolavano verso la luce.
«Io sono…» dissi.
Il mondo vorticava.
«Io sono viva, che cazzo» dissi – il che non era nemmeno vero, e mi
stavo impanicando; con tutto quello che avevo fatto, con tutto quello
che avevo passato, e mi stavo impanicando lo stesso.
E l’Imperatore della Nove Case, il Necrore Supremo, si alzò dalla
poltrona per osservarti… per osservarmi; esaminò il mio viso, esa-
minò il tuo viso, esaminò i miei occhi nel tuo viso. Ci mise, tipo, un
milione di miriadi. La statica che ti ronzava nelle orecchie si dissol-
se in un grido inarticolato. La sua espressione era solo… teneramen-
te perplessa; un po’ meravigliata.
«Ciao, Sono Viva Che Cazzo» disse lui. «Io sono Papà.»

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Quando avevo, tipo, sei anni, facevo un gioco: cer-
cavo di trovare lo scheletro di mia madre in mezzo al gruppo. Sceglie-
vo uno scheletro che pensavo fosse il suo e mi fermavo nei campi dei
porri nevosi a osservarli spaccare pietre per trasformarle in ghiaiet-
to, all’infinito, li guardavo setacciare il pacciame. Facevo finta che il
costrutto che avevo scelto sapesse che c’ero io a osservarlo, fingevo
che mi mandasse dei messaggi in codice. Tre zappate di fila nel ter-
reno seguite da una pausa volevano dire: “Ciao”, perché capitavano
così di rado da suscitare la credulità del supplice. Quando avevo set-
te anni la capitana mi aveva informato che mia madre non era ancora
nemmeno entrata in rotazione. Era stata bollita e spedita fuori quan-
do ne avevo compiuti otto.
Ti ricordi quando eravamo piccole e io ti avevo chiesto di smetter-
la di tormentarmi, porca miseria, perché magari i miei altri mamma
e papà erano, tipo, importanti? Io me lo ricordo. Che prove abbia-
mo, mi avevi risposto tu. Che prove… non abbiamo, ti avevo detto
io, e tu avevi detto che comunque non importava, e io ti avevo chie-
sto perché non importava, e tu mi avevi dato dell’idiota e ce le era-
vamo suonate per un po’. Poi ti avevo detto, che succede se qualcuno
viene a cercarmi e mi dice: «Sono io, il tizio più importante del mon-
do, ecco la bambina perduta che stavo cercando. D’ora in poi, quindi,
tutti dovranno smetterla di trattarla di merda e ucciderò tutti quan-
ti qua dentro per quello che le hanno fatto – Crux è il primo della li-
sta». E tu mi avevi spiegato che se qualcuno fosse arrivato a cercar-
mi saresti andata dai tuoi genitori e mi avresti fatta rinchiudere in un
armadio e avrebbero detto che ero morta di «malfunzionamento ce-

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lebrale» che ora so non essere una vera malattia, dunque immagino
che sì, ora ti sentirai una stupida, vero?
Eri furibonda. Mi avevi detto: «Non importa chi possono essere…
non contano niente e non stanno venendo a prenderti».
Andavo a sedermi vicino alla nicchia di mia madre e la aggiorna-
vo su qualsiasi cosa. Roba tipo: «Aiglamene dice che ho sistemato la
posizione delle mani quando paro e carico dal lato sinistro, parten-
do bassa». Roba tipo: «Oggi Harrowhark è stata una stronza colos-
sale». (Quello glielo riferivo regolarmente). Roba tipo: «Adesso rie-
sco a fare novantasei addominali in due minuti». Cazzate complete
da quattordicenne. Sul serio, cretinate di classe A+.
Era peggio, quand’ero piccola. Mi ricordo la volta che mi hai sor-
presa a dirle: «Ti voglio bene» e non mi ricordo neanche cosa mi avevi
detto, ma mi ricordo che ti ero saltata addosso… ti avevo schiacciata
a terra, cazzo. Sono sempre stata molto più grossa e molto più for-
te di te. Ti sono saltata a cavalcioni e ti ho stretto il collo finché non
ti sono usciti gli occhi dalle orbite. Ti avevo detto che probabilmente
mia madre mi aveva voluto molto più bene di quanto te ne volesse la
tua. Mi avevi graffiato la faccia finché il mio sangue non ti era sgoc-
ciolato lungo le mani; avevi la mia faccia intera sotto a quelle cazzo
di unghie. Quando ti ho lasciata andare non riuscivi neanche ad al-
zarti in piedi, sei strisciata via e hai vomitato. Avevi dieci anni, Har-
row? E io undici?
È stato quello il giorno in cui hai deciso che volevi morire?
Ti ricordi quello che dicevano sempre quelle stronze delle prozie…
«Soffri e impara»?
Se avevano ragione, Nonagesimus, quanto ancora possiamo tolle-
rare, tu e io, prima di raggiungere l’onniscienza?

* * *

«E ora arriviamo al cuore della questione» disse la Littrice che chia-


mavi Mercymorn.
Si era alzata e si era spostata vicino a noi – e Dio mi fissava, e fissa-
va lei, poi ancora me, sostenendo il mio sguardo. Era quello a pietrifi-
carci lì dov’eravamo. Quando quegli anelli bianchi fluttuavano verso
qualcun altro, il sangue tornava ad affluirti al cervello; quando tor-

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navano a guizzare su di me, sbiancavo e mi irrigidivo di nuovo, muta


e stupida, un contorno galleggiante.
Ci osservava, massaggiandosi una tempia come se avesse il mal
di testa. E poi commentò, con un sospiro enorme: «Ah. Gli occhi».
«Già, gli occhi» disse lei. «Tua figlia… gli occhi di Alecto.»
Un brivido gelido gli percorse il volto. La bocca si indurì. Disse,
sommesso: «Non chiamarla…».
«Alecto! Alecto! Alecto!» ribadì Mercy, stridula. Gli altri Littori sob-
balzarono a ogni reiterazione, come se avessero ricevuto una pugna-
lata spirituale. «John, stai cercando di attaccare briga con me per evi-
tare il litigio che vorrei intavolare io con te. Una tattica degna del più
pietoso tra i matrimoni. Quelli sono gli occhi di A.L., mio Signore…
proprio lì nel tuo codice genetico.»
«Potrebbero esserci un’infinità di spiegazioni» commentò Dio con
calma.
«Sì» fece Augustine. Spense la sigaretta nella tazza di tè vuota. «Po-
trebbero esserci. Ci hai offerto spiegazioni su qualsiasi cosa, nel corso
degli anni. Ma alcune non reggevano, una volta analizzate… era la que-
stione del “potere” che non sono mai riuscito ad afferrare bene, sai? Io
misuro il potere e risalgo fino alla sua fonte, John. È l’abilità in cui mi hai
chiesto di eccellere. E più esaminavo il tuo, meno i conti mi tornavano.»
«Questa storia deve averti turbato per parecchio tempo, allora» dis-
se Dio, alla fine. «A.L. ha sempre infastidito voi due più di chiunque
altro… se sono un tale bugiardo, perché non vi ho mentito a propo-
sito di lei? Vi ho detto la verità sulla resurrezione di Annabel, e alla
fine l’avete uccisa, proprio per quello.»
«Mio Signore» disse Augustine, in tono formale, «ci hai detto la
verità su Annabel – su Alecto – perché anche lei sapeva la verità, e
non sei mai riuscito a controllarla. Persino dopo due secoli, non sono
sicuro che sia mai riuscita a mentire. Ecco che cosa mi ha fermato la
mano così a lungo. Come avresti potuto chiedere ad Alecto la Prima
di mentire… come avresti mai potuto convincere quel mostro pazzo
a imbastire anche l’inganno più semplice?»
Dio disse: «Non chiamarla così».
«Era un mostro, John!» abbaiò Augustine. «Era un maledetto mo-
stro con un costume da essere umano! È stata un mostro dall’istante
in cui l’hai risorta, e poi non hai fatto altro che peggiorarla!»

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Sulla stanza scese il silenzio. L’aria si era raffreddata, in qualche


modo, ma continuava a esserci un’afa appiccicosa che odorava del
sudore collettivo. Sapeva di profumo caldo, di sigarette e di paura.
Dopo un istante di immersione in quel silenzio, il Santo della Pa-
zienza disse: «Ho alzato la voce. Me ne scuso».
«Non preoccuparti» disse Dio, con voce calma.
Mercymorn stava digrignando i molari, producendo un rumore di
cuscinetti a sfera scaraventati in un tritacarne industriale. Si bloccò
e disse, pensosa: «Sai, però, tutti quanti pensavamo che fossi solo af-
fezionato a quella cosa orrenda… anche se era cattiva in ogni senso
possibile, la odiavamo tutti…».
«Io no» fece Gideon Zero.
«Oh, ma stai zitto, Gideon – mio Signore, voi due avevate affronta-
to insieme i primi tempi; aveva senso che non volessi ucciderla. Sia-
mo venuti da te, allora, siamo venuti da te e ti abbiamo implorato di
sbarazzarti di lei. Ti avevamo detto che era troppo pericolosa… sa-
pevamo che le Bestie erano in avvicinamento e sapevamo anche che,
in parte, stavano venendo per lei. Ci avrebbe fatto divorare vivi, tutti
quanti.» Gli occhi di Mercy si erano quasi fatti distanti, come se stes-
se rivivendo quella discussione da capo. «Alla fine, avevi ceduto. L’a-
vevi uccisa, per noi. Ma non abbiamo mai saputo come avevi fatto.»
«Annabel Lee… non era il tipo da morire» disse l’Imperatore. «Sa-
rebbe più corretto affermare che l’ho spenta.»
«Sei tornato da noi e ti abbiamo chiesto: “È morta?”» disse Mercy.
«E tu avevi risposto: “Non riuscirei a renderla più morta di così”… e
ricordo anche, mio Signore, che avevi pianto.»
«Be’, ero molto triste» disse Dio, con ragionevolezza.
«Già! Lo eri!» esclamò Mercy, come per accogliere un’attesa con-
ferma. «Eri molto triste… ma non hai biasimato noi. Ci hai detto che
capivi. Avevi detto che avresti fatto quel che era giusto per i tuoi Lit-
tori. Ma volevi onorarla, quindi le avevi costruito una tomba e ave-
vi piazzato Anastasia a sorvegliarla… per noi era tutto assolutamen-
te sensato. Quel che non aveva senso eri tu.»
Dio si appoggiò di nuovo il mento sulle mani. «Cosa c’entro io?» disse.
Mercy e Augustine si lasciarono entrambi scappare dei suoni vuoti
e latranti che non appartenevano al medesimo universo delle risate.
«Il tuo potere non deriva da Dominicus» disse Augustine. «Prende

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la sua energia da te. Non c’è alcuno scambio, alcuna simbiosi. Non at-
tingi nulla dal sistema. Fa completamente affidamento su di te, come
ben sappiamo tutti. Sei Dio, John. Ma – come amano tanto eviden-
ziare gli Edeniti – una volta sei stato un uomo. Da dove deriva que-
sta transizione? Da dove arriva il tuo potere? Pur ammettendo che la
Resurrezione sia stata la più imponente reazione thanergica mai in-
nescata, nel corso del tempo si sarebbe dovuta prosciugare. Ma poi
Mercy mi ha detto – in un classico attimo di meschinità da Mercy –,
mi ha detto: “Di cos’ha paura Dio?”.»
Quegli occhi cerchiati di bianco si chiusero, e il cuore quasi ti si ri-
lassò nel petto.
Lui commentò, in modo piuttosto irrilevante: «Voi due avete solo
fatto finta di odiarvi, quindi?».
«No» esclamarono in coro, scandalizzati. E Augustine precisò: «Ma
non ci siamo mai detestati così intensamente da non poter lavorare
insieme. Ha preservato la nostra sincerità. Non ho mai voluto crede-
re a nulla di quel che mi diceva Gioia… non volevo crederci quando
mi ha detto: “E se non avesse mai veramente soppresso A.L.?”. E poi:
“E se non fosse riuscito a sopprimere A.L.?”.»
Gli occhi si spalancarono. Si spalancarono su di te e su di me. Que-
gli anelli bianchi, come un’emicrania; quell’interno nero, iridescente,
come il catrame, una farfalla, o un vetro di ossidiana.
E lui disse: «Riassumete, per cortesia. Tendete entrambi a eccede-
re coi preliminari».
Augustine disse: «Non hai ucciso Alecto. E non era soltanto la tua
guardia del corpo».
Mercymorn disse: «Alecto era la tua paladina».
L’Imperatore non si mosse.
Augustine disse: «Sono gli occhi, John. Quei maledetti occhi do-
rati che ha sempre avuto, come quelli di un gatto. Quando ho visto
la giovane Harrowhark, là dietro…» agitò il pollice nella nostra dire-
zione, il che in qualche modo riuscì a spaventarmi, immagino per-
ché ero ormai convinta che si fossero dimenticati che eravamo nella
stanza, «… con gli stessi identici fanali, ammetto sinceramente che il
mio primo pensiero è stato: “Porco cazzo, si è svegliata”».
«Ma non aveva alcun senso, ovviamente» proseguì lui. «Perché se
A.L. fosse apparsa sul Mithraeum, sarebbe stata più… peculiare che

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mai. Per quale altra ragione gli occhi di Harrowhark sarebbero dovu-
ti cambiare? Per lo stesso motivo che ha fatto cambiare i nostri oc-
chi. Il completamento dell’Ottuplice Mondo. Aveva raggiunto il vero
stato Littoriale.»
«Il che implicava» disse Mercy, riprendendo il filo, «che alla pala-
dina dell’infante, in qualche maniera, erano toccati gli occhi della tua
Annabel Lee. Non c’era la minima possibilità che il codice genetico di
Alecto – se ipotizziamo che ne avesse uno, cosa di cui per la cronaca
non sono convinta – fosse andato a finire in un neonato della Nona
Casa… ma c’era, invece, una possibilità molto concreta che il tuo co-
dice genetico l’avesse fatto, perché Augustine e io ci siamo impegna-
ti estremamente a fondo per mettercelo.»
«Tutta quella fatica per spalancare il Sepolcro Sigillato» disse Au-
gustine, «solo per ottenere la risposta che cercavamo sotto forma di
un’adolescente morta che sfoggia i tuoi geni. Non sono mai stati gli
occhi di Alecto. Erano i tuoi, John. Alecto ha avuto i tuoi occhi dall’i-
stante in cui tutti noi l’abbiamo vista per la prima volta. E quegli straor-
dinari occhi neri che hai sempre portato… sono sempre stati i suoi.»
Harrow, non riuscivo ad afferrare bene tutta la faccenda, perché la
teoria necromantica per me è un gran mucchio di stronzate fumanti
anche quando non sono troppo impegnata a gestire Emozioni Com-
plesse, ma quell’ultima parte era risultata strana persino a me. Avevo
visto Ianthe portare gli occhi di Tern, come un funerale sulla sua fac-
cia. Mi ero specchiata e avevo visto il tuo viso con degli occhi molto
più attraenti e fichi, e anche quello era… strano. Mi ero immaginata
che il cambiamento d’occhi è quello che capita quando due persone
diventano una sola. Non è quello che succede quando due persone
si “scambiano di posto”. Nessuno avrebbe mai visto quel coglione di
Naberius sculettare in giro con un paio di brutti occhi viola abban-
donati sotto alla pioggia, perché lo scambio di occhi Littoriale si ba-
sava sul fatto che uno stocco gli avesse trapassato il cuore. Non c’era
alcuna possibilità che un paladino finisse per ritrovarsi con gli occhi
di un necromante.
A meno che il paladino non fosse riuscito a morire.
Mercy si allungò per prendere la sigaretta di Augustine. Lui glie-
la passò senza fiatare; la osservò mentre la aspirava furiosamente al­
l’estremità, mentre la cartina sottile si incendiava d’arancione sulla

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punta, mentre la schiacciava – distratta e presa dalla frenesia – nella


tazza vuota. Poi lei gliela ripassò senza dire una parola.
«Ci hai mentito, John» disse lei.
E con un singulto aggiunse: «Esiste uno stato Littoriale perfetto…
un processo Littoriale perfetto che preserva il paladino, e tu ci hai fat-
to credere che non fosse possibile. Ci hai lasciato credere di essere
riusciti a metterlo a punto… ma nessuno doveva morire. Alfred, Pyr-
rha, Titania, Valancy, Nigella, Samael, Loveday, Cristabel… sei rima-
sto a guardare mentre uccidevamo a sangue freddo i nostri paladini,
e non era necessario che nessuno di loro morisse. L’avevi già fatto tu.
Ma tu l’avevi fatto in quel modo perfetto!!!».
Il Santo del Dovere era impietrito. Augustine spense la sigaretta;
Mercymorn si torceva le dita. E Dio sedeva sulla sua poltrona, fis-
sandosi le mani.
Ci fu un fruscio accanto a noi. Tridentarius era emersa dal suo na-
scondiglio in mezzo alle vesti e si era fermata al mio fianco. La sua
espressione era vuota, non tradiva alcuna emozione. Tridentarius con-
tinuava a non scoprire le sue carte, le stringeva al petto, saldamente.
Mercymorn disse: «John, se mi hai mentito a proposito di qualcos’al-
tro, su come il pianeta è morto, sull’estinzione della nostra specie… o
se solo avessi ammesso tutto quanto e mi avessi detto che avevi le mani
legate, o che avevi agito per il bene comune, e ci avessi aggiunto qual-
che altra sciocchezza un po’ infiocchettata… io ti avrei perdonato».
«Mi avresti detto di avermi perdonato» fece l’Imperatore. Continua-
va a guardarsi le mani. «Ma credo che si sarebbe trasformato in ran-
core… lo so che si sarebbe trasformato in rancore. Il perdono non esi-
ste, Mercy. Ci sono solo la stramaledetta verità e la beata ignoranza.»
Lei ribadì: «Alfred, Pyrrha, Titania, Valancy, Nigella, Samael, Lo-
veday, Cristabel».
«Erano miei amici» le disse, con semplicità. «Anch’io li amavo.»
Augustine intervenne: «Devo saperlo. Definiamola pure curiosità
morbosa… Anastasia non ha frainteso il procedimento, vero? Ci era
quasi arrivata – alla maniera giusta per farlo. Sapevo che stava colla-
borando fittamente con Cassiopeia… non mi sembrava plausibile che
io fossi riuscito a diventare Littore in circostanze concitate e appros-
simative riuscendo ad azzeccare tutto, e che Anastasia avesse com-
binato un casino in un contesto di laboratorio».

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Dio lo squadrò.
«Sì» disse, anche se il suo tono era remoto e confuso, come se fos-
se alle prese con i postumi di una sbronza. «Sono stato l’unico a cui
ha permesso di osservare il suo tentativo. Aveva capito che la chia-
ve stava nell’eseguire l’Ottuplice più lentamente – più metodicamen-
te –, ma restava comunque più una coincidenza che qualcosa di de-
liberato. Ma non è così semplice: non l’ha eseguito in modo corretto
e io l’ho bloccata. È andata nel panico a metà strada. Non era riusci-
ta a portare completamente dentro di sé l’anima di lui – se fosse ac-
caduto, la morte di Samael avrebbe ucciso anche lei… erano entram-
bi in pericolo. L’ho ucciso io per lei e lei, al tempo, l’aveva capito.»
«È la verità o è la verità che racconti a te stesso?» domandò Augustine.
«Qual è la differenza?» disse Dio.
E poi disse, con quello stesso tono remoto, di un gelo tombale:
«Come dovrei ottenere l’assoluzione? Cos’altro mi resta da fare?».
E Augustine disse: «Interrompi la tua missione, John. Rinuncia
a quello che so stai cercando sin dall’inizio. Smettila di espanderti.
Smettila di assemblare questa cartografia sconcertante, questa forza
d’invasione. Mi ci sono lambiccato per cinquemila anni e non credo
di capirlo davvero nemmeno ora. Ma lascia perdere. Lasciali andare.
Nessuno deve più essere punito per quello che è successo all’umanità».
L’Imperatore delle Nove Case si voltò a guardarlo.
«Augustine» disse, «se l’uomo che eri – l’uomo che eri prima di
morire, prima della Resurrezione – potesse sentire quello che mi hai
appena detto, ti strapperebbe la trachea.»
Augustine commentò: «Grazie per la conferma». E rimase in silenzio.
Fu Mercy a dire: «John» in una preghiera tremula – ogni sfuma-
tura metallica era sparita dalla sua voce ed era stata sostituita da una
tenerezza spudorata. «John, ti sbagli.»
«Come se non lo sapessi» disse l’Imperatore, ma quegli occhi fiam-
meggianti bordati di bianco si sollevarono verso il viso di Mercy.
«Io ti perdonerò» disse con coraggio, e deglutì tre volte in rapida
successione. Augustine la fissò con un’espressione di crescente incre-
dulità. «Resta una cosa… un’ultima occasione. Se riuscirai a fare que-
sta cosa per me… se riuscirai a farmelo credere… ti perdonerò tutto.
Cancellami la memoria, se vuoi. Quell’infante idiota di Harrow­hark
l’ha fatto. Escogiterò il modo per fartelo fare anche a me. Ti permet-

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terò di strapparmi il cervello, se vuoi. Ma ti perdonerò, se farai solo…


una… cosa.»
Augustine disse, assente: «Mercy, non farlo».
«Non l’hai mai amato quanto l’ho amato io» disse lei, senza disto-
gliere lo sguardo da John. «È arrivato il momento. Questa è l’occa-
sione per Mercymorn l’inamabile – Mercymorn l’ipercritica – di di-
mostrare che è la più meritevole del suo nome… ogni volta che mi
hai detto che non capivo il cuore umano, che non avevo sentimen-
ti, che sapevo solo venerare senza adorazione… stai a vedere, Augu-
stine. Io sono la seconda santa al servizio del Re Imperituro. Ti darò
una lezione sul perdono.»
«Non sai neanche cosa significa quella parola» fece Augustine.
Dio osservò questo scambio. Poi si alzò in piedi, si tastò una tem-
pia col pollice, lo sguardo piantato su Mercymorn: i suoi occhi somi-
gliavano a morbida polvere insanguinata, una sostanza marroncina,
grigiastra, rossastra amalgamata tutta insieme.
«Mercy» le disse, roco. «Dimmi cosa devo fare e lo farò. Farò qual-
siasi cosa. Andrei fino ai confini dell’universo, se mi dicessi che po-
trei soffrire abbastanza – subire abbastanza… imparare abbastanza –
da essere veramente perdonato. Dimmi.»
Quegli occhi sanguigni e tempestosi si colmarono di lacrime den-
se. Augustine la squadrò e poi, di punto in bianco, appoggiò la schie-
na alla parete e si lasciò scivolare giù, fino a ritrovarsi seduto; la po-
stura della sconfitta assoluta.
«Guardami e dimmi che amavi Cristabel» gli disse lei, rauca. «Guar-
dami – negli occhi – e dimmi che non hai mai avuto intenzione di
nuocerle.»
Dio le prese le mani fra le sue.
«Amavo Cristabel» le disse.
«Dimmi che non hai mai voluto che le accadesse qualcosa di male»
fece lei.
«Amavo Cristabel» disse lui. «Non ho mai voluto che a Cristabel
accadesse qualcosa di male. Mi dispiace tanto. Mercy… mi dispiace
tanto.» Lei ormai era una tempesta di lacrime; gli schiacciò la faccia
contro il petto e si afflosciò, come se le avessero tirato una sassata
alle spalle. Lui la strinse a sé e disse: «Mi dispiace così tanto. Vi ama-
vo tutti – vi adoravo tutti –, credevo di fare la cosa giusta».

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Lei era un cartoccio di disperazione. «Dimmi che ti dispiace di aver


mentito, bastardo!»
«Vi ho mentito» disse lui. «Sono morti per causa mia… li ho la-
sciati morire perché pensavo fosse più semplice… e l’ho rimpianto
per quasi diecimila anni. Ti amo così tanto, Mercy; amerò voi tre fino
alla fine dell’eternità, finché di me resteranno soltanto gli atomi resi-
dui del Dio e dell’uomo che vi ha amati.»
«Ti perdono, per tutto» sussurrò lei.
E piantò le mani dentro di lui.
L’Imperatore delle Nove Case si smembrò, strato dopo strato. Fu
istantaneo, ma al contempo così lento – di una cazzo di lentezza as-
solutamente incredibile –, era come se potessimo vedere ogni sin-
golo istante, tu e io. Esplose, fluttuando. Il corpo di Dio si separò da
ogni singola sua porzione divina. Ci fu una breve fiammata di quel-
la magia da panico sinusale, che sfrigolò mentre Mercymorn, chissà
come, disconnetteva simultaneamente tutti i suoi circuiti. Era come
se all’improvviso fosse diventato nove milioni di particelle magneti-
che che si respingevano a vicenda. Quella divinità necromantica in
un involucro umano – non si trattava, dopotutto, soltanto di un in-
volucro umano? – scoppiò. Si scisse in porzioni, poi le porzioni si se-
pararono ancora e la sala affogò in una nebbiolina rossa. La nebbia si
trasformò in polvere e la polvere si ridusse al niente, finché Mercy-
morn non rimase lì in piedi da sola, fradicia di sudore – e di un qual-
che altro liquido, ma roba pulita.
Mercy si voltò, si rivolse a Augustine. Ora non piangeva più.
«Tutto è compiuto» disse.
Lasciandomi nuovamente orfana, anche se il tuo cervello non mi
permise di indugiare troppo su quella faccenda.

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Il Santo della Pazienza si alzò in piedi e le andò
incontro. Lei allungò le braccia e gli artigliò la camicia.
«Volevo essere io a farlo» disse lei, con una bizzarra calma ultra-
terrena. «Non volevo che lo facessi tu. Non volevo che lo facessi tu,
Augustine, dopotutto… il peccato doveva ricadere su di me.»
«Abbiamo qualche ora» disse lui, malfermo. «Se ci tuffiamo nel
Fiume adesso…»
«Possiamo vedere il nostro popolo morire a distanza ravvicinata»
fece lei. «I pianeti morti potrebbero essersi già inabissati fuori dall’or-
bita… non lo sappiamo e basta. Non sappiamo quanto ci vuole per
disfare la Resurrezione. Milioni di persone… la nostra gente, a mi-
lioni… no, lo dovevo fare io. Non sono molto simpatica, Augustine,
e non sono mai stata molto buona.»
E per la prima volta, la voce di Ianthe, ormai affossata in un sus-
surro: «Sorella maggiore, che cos’hai fatto?».
«Ho ucciso Dominicus» disse Mercymorn. «Ho ucciso la Seconda,
la Terza, la Quarta, la Quinta, la Sesta, la Settima, l’Ottava, la Nona…
e la Prima, ma chi se ne frega dopotutto? Lui è morto. È andato. Ciò
che teneva unito deve ora disfarsi. Il sole dev’essere morto all’istan-
te, e quei bibliotecari grigi saranno i primi ad accorgersene – poi la
Settima, e Rhodes… ma ogni sistema che John abbia mai collocato
al suo posto cesserà di esistere. Ogni Casa udirà le grida agonizzanti
dei propri sistemi vitali… ora.»
In qualche modo sono riuscita a dire: «Dobbiamo farli uscire tut-
ti. Subito».
«Non c’è modo» disse Mercy, gelida come la morte.

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Tra tutti quanti, fu proprio Ianthe a dire: «Come fai a dirlo? Non
vuoi nemmeno provarci?».
«Dominicus collasserà in una manciata di minuti, pulcina» disse
l’altro Littore. Anche lui aveva la flemma di un condannato a morte.
Mi ero già imbattuta in quella calma, una volta, e non apparteneva
a un essere umano vivente: era la calma sul viso di una ragazza an-
nientata, trafitta e maciullata su un letto su cui le avevo detto io di
stendersi. «Formerà un buco nero a cui nessuno in quel sistema po-
trà sfuggire. Le Nove Case sono finite.»
«Le Nove Case non ci sono più» gli fece eco Mercy. «È finita… è
fatta. Abbiamo sempre pianificato un’evacuazione di massa… ma ho
avuto la mia occasione… e l’ho colta. L’ho colta, Augustine. E ora mo-
rirò, e affronterò il Fiume.»
«No» disse Augustine.
«Augustine, mi hai promesso che dopo averlo fatto ce ne saremmo
andati da qualche parte e ci saremmo buttati nel sole più vicino…»
«È successo quando era solo una fantasticheria» rispose lui. Era
come se nella stanza ci fossero solo loro due. Il Santo del Dovere strin-
geva delle braci ardenti nel palmo, più statua che uomo; Ianthe fissa-
va il vuoto, sembrava una bambina, nonostante l’altezza. Piccola. Stu-
pefatta. Non voglio nemmeno sapere che aspetto avessi io. Augustine
disse: «Doveva succedere a patto che il piano si svolgesse in condizio-
ni perfette. Condizioni che non avremmo mai potuto rispettare, sin-
ceramente. Hai colto la possibilità che avevi, e dovevi coglierla, e ora
le Case sono morte. Le Bestie Resurrezionali sono ancora là fuori».
«Non puoi costringermi a farlo.»
«Hai un compito, Gioia» disse lui. «Se ti uccidi adesso, lascerai tut-
to in un disordine estremo, e non sarebbe da te, no?»
Lei esclamò disorientata: «Non era questo l’accordo».
«Peccato» commentò Augustine. «È fatta… visto che hai deciso di
sporcarti le mani in modo che le mie potessero restare pulite, dovrai
vedertela col fatto che hai scelto l’uomo sbagliato con cui stringere
un patto suicida. Io li odio. Cristabel avrà anche demolito tutto l’ot-
timo lavoro che avevo fatto con Alfred, ma eccoci alla resa dei conti.
Andremo a radunare le navi – tutte quelle che rimangono –, negozie-
remo la pace al meglio delle nostre possibilità, porteremo gli Edeniti
dalla nostra parte. E poi troveremo un posto dove adempiere all’anti-

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ca promessa… là fuori, da qualche parte, esiste una casa che non sia
stata pagata col sangue; non sarà per noi, ma sarà per chiunque sia
stato risparmiato. I bambini nascono sempre. Le Case vengono sem-
pre costruite. E i fiori appassiranno sulla tomba della necromanzia.»
Lei deglutì a ripetizione. «Augustine…»
Il Littore la prese tra le braccia, in silenzio; si strinsero come due
bambini che si svegliano di soprassalto in preda a un incubo. Altret-
tanto silenziosamente, si staccarono.
Lei disse, a bassa voce: «Aveva ragione lui. Non può esistere il
perdono».
«Allora non cercheremo il perdono, ma cercheremo di dimentica-
re» disse lui. «Seppelliscimi accanto a te in una tomba senza nome,
Gioia. Sappiamo che era quella l’unica speranza possibile per noi, che
avremmo vissuto per occuparcene, fino in fondo… e per pregare per
la nostra stessa cessazione. Oh, ci odiamo ancora, mia cara, ci siamo
odiati troppo a lungo e con troppa veemenza per smettere… ma le
mie ossa riposeranno vicino alle tue.»
Augustine sollevò il capo, per la prima volta, per rivolgere un’oc-
chiata al suo pubblico impietrito, di cui probabilmente il membro più
vivace era il cadavere di Cytherea, che mia madre aveva ormai ab-
bandonato del tutto.
«Niente rappresaglie, Gideon?» domandò lui. Il suo volto era mor-
talmente livido. I suoi lineamenti erano immobili, ma le sue mani no.
«Credevo volessi bruciare insieme a lui sulla pira.»
Aprii la bocca per replicare; ma sobbalzai quando l’uomo dall’aria
scorticata con addosso i miei occhiali da sole disse: «No».
«Mentirei se ti dicessi che non ne sono sorpreso» disse Augusti-
ne, «ma mentirei anche se ti dicessi che non sono soddisfatto. Ecco-
ci qua, noi tre, alla fine… Alpha, beta e gamma.»
Gideon lanciò un’occhiata alla sigaretta spenta che lui teneva tra le
dita, e poi disse: «Be’. Augustine, c’è una cosa che dovresti sapere…».
Luce bianca.
Ti candeggiò le cavità interne del naso e il fondo della gola. Ti uscì
dolorosamente dalle orecchie. Ti sanguinò fuori dalle palle degli oc-
chi. Non era un flash di luce, più… una repentinità; quando scompar-
ve – come se non fosse mai esistita, ma si fosse trattato solo di un’al-
lucinazione luminosa –, il tempo si fermò.

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Quella luce aveva risucchiato i colori dalla stanza – tutto era di-
ventato una galoppata al rallentatore di grigi, di occhi colti nell’istan-
te di sgranarsi, di bocche che si spalancavano in un ventaglio a tinte
pietrose di shock. Avevo cercato di farci girare dalla parte opposta,
come se si trattasse di una granata – e poi, in quel grigio dalle mille
sfumature, vidi… il rosso.
Particelle polverose si stavano materializzando a mezz’aria… emer-
gevano dalla mia bocca, si liberavano ondeggiando dai capelli di Ian-
the. Sulle prime, una sfumatura di un pallore morbido, come il rosa
di un’alba, poi un color ciliegia più acceso, poi uno scarlatto scuro.
Fluttuavano sospese, esitanti, per poi transitare inesorabilmente ver-
so un punto, come pulviscolo che danza in un raggio di sole. Una po-
tente folata denudante percorse la stanza come un flagello, frustando
quei bruscolini verso l’alto, in un vortice cremisi. Il pulviscolo si tra-
mutò in sabbia, la sabbia diventò un aggregato; e poi l’incandescente
materia rossa si coagulò in osso.
Accadde in un istante. Accadde nel corso di un’intera miriade. Un
costrutto rosso e umido si ricompose come un lavoro a maglia, e poi
si espanse gorgogliando dal suo centro, un fiotto caldo di carne rosa
pallido e di nervi… uno schizzo bitorzoluto di organi, violetti scuri e
vellutati, ciliegie puntinate grossolanamente, volute di intestini e mor-
bide curve lucide di viscere… palloncini bianchi in ogni orbita ocu-
lare, coaguli di un bianco perlaceo a fare da imbottitura… il guizzo
di una lingua rossa e bagnata in una mandibola da cui germogliava-
no i denti. L’insistenza percussiva e pulsante di un cuore, rapidamen-
te celata da un rigonfiamento di bronchi che scivolavano per forma-
re grandi e soffici sagome polmonari – rivestite repentinamente dai
muscoli, poi abbigliate dalla pelle con una modestia ormai fuori tem-
po massimo –, la pelle che si adombrava di un delicato rivestimen-
to di peli sulle braccia e sul petto, capelli scuri che si ondulavano so-
pra alle sopracciglia, creando increspature e pieghe sopra al cranio.
La calda gelatina bianca degli occhi si tinse di nero, come se ci fosse-
ro state spremute dentro gocce di petrolio – si espandevano in ondi-
ne nere e splendenti, macchiandoli di un ebano di una nitidezza as-
soluta –, gli anelli bianchi affiorarono in superficie come se fossero
stati gettati nell’acqua, ogni pupilla nera e opaca andava a occupar-
ne il punto centrale.

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L’Imperatore delle Nove Case – il Re Imperituro, il Principe della


Morte, il Necrore Supremo – era in piedi alle spalle di Mercymorn.
Allungò una mano nuda. Il torace di lei esplose verso l’esterno in una
cascata rovente di costole, carne e diaframma. Il suo corpo barcollò
in avanti – lui le toccò la parte posteriore del cranio e qualcosa fece
crack – e la Santa della Gioia stramazzò a faccia in giù di fronte a
Augustine, il cui petto era decorato dai resti profanati del suo cuore.
L’Imperatore si accovacciò e sfilò il manto bianco dalle spalle mor-
te di Mercy. Ci avvolse dentro il proprio corpo nudo – chiudendolo
vezzosamente – e si sgranchì la mandibola, arricciando la punta del
suo naso appena cresciuto.
«Bene» commentò, e chiuse gli occhi per un attimo. Poi disse: «Il
sole si è stabilizzato. Spero che la Sesta Casa non sia arrostita nel
brillamento».
Roteò le spalle come un blasonato combattente, e disse, colloquia-
le: «Non mi è mai piaciuto fare le pulizie di casa tutte in un colpo
solo, ma mi pare sia necessario, no? Rendiamo le cose molto sempli-
ci e molto chiare. Farò una domanda a ciascuno di voi. Se mi darete
la risposta giusta, vivrete. Se non lo farete…» tastò la gamba di Mer-
cy con il piede nudo, «… sapete già cosa succede. Non dovrei essere
obbligato a farlo, non credete? Questa faccenda è davvero inoppor-
tuna e imbarazzante, vero?».
Augustine serrò le labbra; ecco qua. Dio disse: «Mercymorn ha fat-
to un lavoro splendido. Deve essersi addestrata per migliaia di anni,
per metterlo a punto. Ma non sono arrivato dove sono arrivato gra-
zie alla mia capacità di morire, giusto?».
Il Littore disse: «Le Bestie Resurrezionali…».
«Non possono uccidermi.»
«Sembravi spaventato…»
«Sembrare è deliberato. Ma questo non è un Q&A. Diamoci una
mossa. Gideon» disse. Poi ci guardò, ci rivolse un mezzo sorrisino
sghembo e disse: «Gideon Episodio Uno, intendo. Gideon il Primo
– il terzo santo al mio servizio –, le mie dita e i miei gesti. Amico,
non ce l’ho con te per la storia di Wake. Non sono nemmeno arrab-
biato perché non sei riuscito né ad aggiustare né a sopprimere Har-
row. Voglio soltanto la tua lealtà. Ci posso contare, o no?».
«Hai la mia lealtà» disse Gideon.

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«Bene. Vai a metterti su quel lato della stanza, sì, proprio lì.» Il San-
to del Dovere si spostò per piazzarsi dell’altro lato della poltrona, lon-
tano da Augustine, lontano dai due cadaveri, senza nemmeno lancia-
re loro un’occhiata di sfuggita. Poi Dio disse: «Okay, Ianthe la Prima
– l’ottava santa al mio servizio –, le mie di…».
«Avete la mia lealtà» lo interruppe Ianthe.
«Scelta» disse lui, mentre Ianthe attraversava la stanza. «Palese en-
tusiasmo. Ottimo materiale. Ecco cos’è che mi piace di te, Ianthe, non
speculi sulle tue scommesse. Ora… non posso chiederlo a Wake an-
che se so già cosa mi risponderebbe. È un vero peccato che tu l’ab-
bia uccisa, Gideon, avevo in programma di tenerla in circolazione…
aveva parecchio da raccontarmi, e poi perché fare lo stronzo con la
madre di tua figlia? A proposito…»
E guardò noi.
Io esclamai: «Sei tu che hai ordinato a quel bastardo di pestare Har-
row?». Il mio lavoro era quello, dopotutto.
Dio disse: «Stavo cercando di salvarla».
Anche quello era il mio lavoro. «Vattene al diavolo, Papi.»
«Non è una domanda per te» disse lui, con pazienza. «Sei la mia
bambina; cavolo. Non voglio darti un ultimatum il primo giorno che
passiamo insieme. Parleremo più tardi di te e di me. Non posso re-
cuperare tutti gli anni in cui non ci sono stato, tutte le patatine frit-
te calde che non ti ho potuto comprare e le recite scolastiche a cui
non sono venuto, ma ucciderti per sfuggire a una relazione disordi-
nata sarebbe un po’ troppo bieco da parte mia. In più, quello non è
il tuo corpo. Preferirei non punire Harrow per i tuoi colpi di testa.»
Siamo state lanciate dall’altro lato della stanza, non forte. Le tue
ossa e le tue polpe si fermarono dolcemente accanto a Ianthe prima
ancora che potessi serrare la presa delle tue mani sulla spada.
Poi l’Imperatore si rivolse a Augustine.
Si fronteggiarono senza aggressività. L’Imperatore sembrava un ti-
zio che aspettava in accappatoio sul primo gradino, salutando qual-
cuno che sgattaiolava a casa parecchie ore dopo il coprifuoco. Il pet-
to del Littore era schizzato di sangue rosso e caldo del cuore, che gli
colava a rivoletti lungo il manto. Qualche spruzzo leggero gli era an-
dato a finire anche in faccia.
«Anch’io avrò quest’opportunità?» domandò lui.

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«Sì» disse l’Imperatore. «Ce l’avrai. Non l’ho offerta a Mercy per-
ché Mercy mi ha fatto proprio incazzare, mi spiace dirlo.»
«Comprensibilmente» concordò Augustine.
«Augustine il Primo» disse l’uomo che era Dio, e il Dio che era uomo.
«Il mio primo santo. La mia prima mano, il mio primo pugno e gesto.
Giurerai di nuovo di essermi fedele, tabula rasa, nuovo inizio? O no?»
Lui mormorò: «Avevi detto che il perdono non esiste».
«Io perdonerò lui, come Dio perdonerà me» declamò l’Impera-
tore. «Forza, giurami lealtà, figlio mio… fratello mio… mio amato…
Littore… santo.»
Augustine sollevò lo sguardo verso il Signore. I suoi occhi erano del
medesimo grigio che li aveva colorati anche durante l’arresto del tem-
po. Si guardò il sangue sul petto; guardò il gruppo radunato sull’altro
lato della stanza: io che mi dimenavo nella tua pelle gelata. Ianthe.
Gideon. Il cadavere di Cytherea sulla poltroncina. Il corpo collassa-
to sul pavimento, i capelli di Mercymorn che si sparpagliavano non
troppo lontano dal suo piede in grovigli rosei e insanguinati. Guar-
dò il Dio delle Nove Case.
«No, John» disse.
E Augustine sollevò la mano.
Un tuffo nauseante. Come essere scaraventati in aria, Harrow,
quell’assenza di peso all’apice di una caduta verticale, il vomito; il
sussulto prima di montare su quel vecchio ascensore malandato per
scendere al monumento, ma alla milionesima potenza. Una lamenta-
zione di metallo squarciato. Ci fu un enorme WHUNK ondeggiante
– ci ammucchiammo tutti da un lato mentre la stazione si inclinava.
Le poltrone si ribaltarono – anche il cadavere di Cytherea ruzzolò via,
non più legato per i polsi o da nessun’altra parte – e io ero di nuovo
capace di mobilitare la tua carne, anche se quello probabilmente non
era il momento più adatto per muoversi. La paratia esterna si staccò
dal finestrino, e la vidi. Vidi l’acqua.
Dio era caduto; era schiacciato contro la parete. La luce inondava
la stanza – una luce strana, sovrannaturale, avviticciata. Bolle allar-
mate e canalizzazioni d’aria si addossavano alla finestra di plex men-
tre l’intero Mithraeum veniva trascinato in un’acqua sempre più scu-
ra, marroncina, sanguinolenta.
Il plex si incrinò, vibrò e poi cedette. Il Fiume irruppe attraverso la

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finestra in un torrente ad alta pressione. L’Imperatore venne risuc-


chiato fuori, nell’acqua, e Augustine si tuffò per seguirlo, e Ianthe si
buttò dietro a Augustine. Harrow, l’unico motivo per cui anche noi
non siamo state risucchiate fuori è perché ero stata trattenuta da uno
strattone delle braccia muscolose e asciutte del santo di cui condivi-
devo il nome. Mi stava trascinando via dalla falla mentre la stazio-
ne si inabissava verticalmente, ti reggeva sotto un braccio mentre si
arrampicava verso l’anticamera che si stava rapidamente angolando
verso l’alto, mentre io rimanevo aggrappata alla mia spada.
«Ma vai a farti fottere» abbaiai, atterrita.
Mi disse: «Sai fare della necromanzia?».
«No, io non la so fare la necromanzia...»
«Allora vieni con me» disse.
L’acqua saliva mugghiando alle nostre spalle. Il Santo del Dovere
spalancò a forza la porta che conduceva agli alloggi privati dell’Im-
peratore, richiudendosela alle spalle mentre strisciavamo lungo un
corridoio sinuoso, dove un rivolo d’acqua stava già gocciolando nel
passaggio da qualche apertura. Un altro gemito metallico in lonta-
nanza, un frastuono accartocciato e schiacciante; avanzavamo cer-
cando di far presa, rimbalzando giù per il corridoio. L’ho seguito su
per un raccordo stretto, e poi sono inciampata e gli sono cascata ad-
dosso mentre la stazione basculava in un’altra direzione, cadendo su
un memoriale che ora si era cappottato.
«Anello esterno. Più stabile» disse lui.
«Ma…»
«Spicciati. Siamo bersagli ambulanti.»
Mi spicciai. La stazione continuava a ondeggiare avanti e indietro
mentre veniva sballottata nell’acqua, la pressione la spingeva di qua
e di là sull’asse laterale. Un allarme ululava, da qualche parte. Avevo
ansimato: «Che diavolo è successo…».
«Augustine ha buttato l’intera stazione nel Fiume» fece lui. «Ab-
biamo varcato fisicamente il confine – corpo, anima, tutto.» E, con
noncuranza: «Vorrei che mi avesse lasciato il pacchetto».
«Ma che cosa dovrebbe voler dire…»
«Questo» disse lui.
Avevamo raggiunto un altro anello. Lì il plex era integro – le pa-
ratie si erano sollevate per la veemenza della caduta, ma il plex non

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aveva ceduto, non ancora – ed eravamo così inclinati in avanti che in


pratica camminavano sui finestrini. Il Fiume si apriva davanti a noi:
una fonte luminosa proveniente dalla stazione rischiarava l’oscurità
delle acque come un faro.
Stavamo affondando alla svelta, in profondità, sempre più giù. Dei
tristi rumori scricchiolanti continuavano a propagarsi sopra alle nostre
teste, come se fossimo un’armatura che veniva compressa tra due mani
enormi. Il Fiume era così indefinito che mi sembrava quasi che galleg-
giassimo, immobili – l’unica cosa che forniva una contestualizzazione
ai nostri movimenti erano le piccole sagome in caduta libera, là fuori.
Augustine e l’Imperatore – Dio, l’uomo che aveva inconsapevol-
mente contribuito alla metà di me – si dimenavano mentre affon-
davano, risucchiati verso il basso da una corrente invisibile. L’acqua
fremeva attorno a loro. Forse si trattava di una qualche titanica bat-
taglia necromantica ma, da quassù, mentre cadevamo al loro fianco,
con l’acqua del Fiume che si scostava ribollendo dai loro corpi, pa-
reva semplicemente che si stessero prendendo a pugni. Avevo visto
anche l’esile fantasma bianco nella loro scia, doveva trattarsi di Ian-
the che si tuffava al loro inseguimento.
Avevo chiesto: «Che cosa facciamo? Abbandoniamo la nave? Nuo-
tiamo fino alla superficie?».
«No» disse Gideon. «Augustine ci ha immersi in profondità. Sia-
mo arrivati già giù fino al baratron, credo. C’è un bel pezzo prima di
arrivare alla superficie.»
«Posso trattenere il fiato.»
«Divertente. Il fiato non è un problema… non hai bisogno di re-
spirare nel Fiume.»
«Ma allora nuotiamocela via, maledizione, detesto questo…»
«Ascolta la stazione. Senti quello scricchiolio? C’è della pressione
quaggiù. Non è la pressione dell’acqua, è il peso del… Fiume, di qua-
lunque cosa si tratti, non l’abbiamo mai davvero capito. Farebbe fuori
una persona normale in pochi secondi. Tu e io non dureremmo mol-
to più a lungo. E poi ci sono gli spiriti. La Numero Sette se n’è anda-
ta, quindi torneranno presto.»
La stazione si inclinò di nuovo. Gli chiesi: «Okay. Tu sei un necro-
mante. Hai intenzione di fare qualcosa, o che?».
«Il mio necromante è morto» disse Gideon.

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Prese i miei occhiali da sole e se li levò da quella faccia spigolosa


e devastata e mi guardò, con degli occhi che mi avrebbero immedia-
tamente stupita, se mi fossi presa la briga di consultare i tuoi file di
memoria. Erano di un castano scurissimo, con una specie di guizzo
rosso; il marrone di una roccia vetrosa fratturata, amalgamata a una
pupilla buia, erano occhi che lasciavano trasparire molto poco. Si in-
tonavano meglio alla sua faccia rispetto a quelli di un verde scintil-
lante che avevi visto l’ultima volta.
«Ha combattuto da solo per ore» disse lo sconosciuto. «Poi con
un manipolo raffazzonato di cavalleria, comandato da quel tesoro di
Matthias – un pazzo. Avevano quasi fatto fuori la Numero Sette…
quasi. Gideon non è mai riuscito ad abbandonare un combattimen-
to, anche quelli destinati alla sconfitta.» Prima che potessi replicare,
aggiunse: «Lui e tua madre, uguali».
«Perché tutto deve sempre risalire a… mia madre?» esclamai io, la
mia voce che si assottigliava fino a diventare uno squittio, un pallon-
cino che si sgonfia. «Chi sei tu? Come diavolo fai tu a conoscere mia
madre, che per la cronaca mi sembrava proprio una stronza?»
«Il mio nome è Pyrrha Dve» disse lo spirito in questione. «Coman-
dante della Seconda Casa, capo della Divisione Speciale Spionistica
di Trentham, paladina di un Littore morto. Ci siamo compartimen-
talizzati dall’Ottuplice Mondo, proprio come te e la tua ragazza – an-
che se io sono stata un incidente, e lui ha preso da me più di quanto
non sia stato portato via a te. Sono riuscita a nascondermi, persino a
lui. Due anni prima che tu nascessi, il mio necromante ha comincia-
to una relazione con tua madre… senza sapere che anch’io stavo fa-
cendo la stessa cosa, usando il suo corpo.»
«Ma che cazzo» commentai.
«Era la donna più pericolosa che avessi mai incontrato – a parte
me» disse Pyrrha Dve. «Hai ragione, però. Era veramente una gran
stronza.»
A quel punto ero fuori di testa e praticamente demente, quindi mi
ero limitata a squittire, tipo: «Ma allora cosa facciamo?!».
«Non ne ho idea» dissero… disse lei… disse lui, con calma. «Am-
birei a tirarci fuori da qui vive, ma le nostre probabilità non sono
spettacolari. Se stiamo ferme, finiremo schiacciate o divorate. Se
nuotiamo, è possibile che verremo comunque schiacciate o divo-

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rate. Io guarisco più in fretta di un essere umano normale, ma non


così in fretta.»
Prima che potessi perdere completamente la brocca, Pyrrha inspirò
rapidamente, a denti stretti, e disse: «È quello il tuo piano, Augustine?».
Mi ero attaccata al plex. Il Fiume mi assalì acquistando profondi-
tà visiva.
Ci trovavamo in un vortice enorme, illuminato dal furioso baglio-
re elettrico della stazione in caduta libera. Fuori – un chilometro più
giù, probabilmente – c’era il ventre pallido del Fiume, punteggiato di
promontori rocciosi. E proprio sul fondo… l’acqua ribolliva. La sta-
zione beccheggiò in avanti, e si riusciva a vedere tutto chiaramente.
Si era spalancato un buco. Era grande abbastanza da inghiottire
l’intero Drearburh, avanzando anche dello spazio. Era un’immensa e
orripilante voragine buia, con dei margini strani e maligni; mi erano
servite le luci intermittenti per rendermi conto che i margini del buco
erano degli enormi denti umani. Ciascuno sarà stato alto sei corpi e
largo due, con i bordi finemente seghettati degli incisivi. I denti fre-
mevano e tremolavano, come se la voragine salivasse. E in quella vo-
ragine non c’era niente; il buco era più nero dello spazio, quel buco
era il tunnel smangiato della realtà.
E là – precipitando verso il centro – lottavano avvinghiate le sa-
gome in miniatura di Augustine e dell’Imperatore. Ianthe si era un
po’ staccata da loro, in qualche modo, fluttuava molto più in alto.
Ci voleva un bel fegato per posizionarsi sopra a quella vastità spa-
lancata piena di denti seghettati. Mi toccò rivalutare Ianthe Triden-
tarius alla luce di quella dimostrazione di cazzutaggine assoluta-
mente galattica.
«Lo stoma si è aperto per John» disse Pyrrha, e il suo tono era di-
staccato, invece che trionfante o affranto. «Deve averlo scambiato per
una Bestia Resurrezionale.»
L’Imperatore era in difficoltà. Pensavo che potesse semplicemen-
te uscire dal Fiume – o fare quello che aveva fatto a Mercy, disinte-
grando Augustine in pezzi piccolissimi –, ma una specie di corrente
li sbatacchiava di qua e di là come fantocci. Augustine si era aggan-
ciato a lui, chissà come. Stava trascinando l’Imperatore verso il fon-
do, inesorabilmente, verso quella bocca. Più su, la stazione gemette;
il plex davanti a noi stava producendo uno squittio acuto.

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Augustine e Dio rotearono e rotearono nell’acqua, e poi emerse-


ro le lingue.
Un’eruzione dalla voragine. L’acqua ribollì verso l’alto in una mol-
titudine di enormi bolle sanguinolente. Dei tentacoli linguali simili
a stelle filanti fecero la loro comparsa – erano del rosa modesto che
caratterizza le lingue normali, non spuntate dall’inferno –, ce ne sa-
ranno stati come minimo un migliaio, che si contorcevano, perlu-
stravano, si slanciavano alla cieca fuori dalla bocca. Pyrrha sobbalzò.
Fremevano all’unisono, selvaggi ed eccitati – la corrente si rimesco-
lava in un frenetico pandemonio –, ci fu una potente trazione nau-
seabonda e il Mithraeum cominciò a scivolare di nuovo, in avanti…
ondeggiando… scorrendo.
«Siamo nella corrente, ora» disse Pyrrha con calma. «Verremo ri-
succhiati, se la bocca non si chiude.»
E io: «E la cosa non ti preoccupa? Non dovremmo fare qualcosa?
Non dovremmo, che ne so, levarci dal cazzo?».
«Sono rimasta intrappolata nei recessi di un cervello per diecimila
anni, e il mio necromante è morto» commentò l’altra paladina. «Le
emozioni sono difficili da gestire, in questo momento. Ma ho una ri-
voltella carica.»
«E quindi… ingoiamo una pallottola per una?»
«È un’alternativa» fece Pyrrha. E: «Scherzo». E: «Più o meno».
Al centro di quella centrifuga, le lingue avevano fatto breccia, i
due necromanti avvinghiati ora dovevano vedersela l’uno con l’altro
e con un frenetico nido elettrizzato di tentacoli rosa e bagnati. Spire
di sangue si sollevavano nell’acqua mentre quei muscoli grotteschi e
infernali si dissolvevano completamente – sbrindellati – distrutti. Ma
l’Imperatore si dimenava ancora: uno gli si era arrotolato attorno alla
gamba mentre con una mano stringeva il polso di Augustine, e anche
Augustine lo teneva stretto con la sua, in una specie di parodia di vi-
cendevole salvataggio. Un’altra lingua serpeggiò all’insù, verso Ian-
the, e lei spedì una frustata di sangue a fendere l’acqua.
Augustine gesticolava. Da così lontano, mi sembrava che stesse ur-
lando, senza speranza, senza produrre suoni – superando il linguag-
gio – nell’acqua; forse Ianthe riusciva a capirlo. Una lingua lo strat-
tonò verso il basso. Lui la scalciò via, ma mentre alcune appassivano,
altre prendevano il loro posto. Lottando, in qualche modo finì per

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spingere l’Imperatore in un letto di quelle cose, se ne stavano lì in ag-


guato, frenetiche e gli si avvilupparono alle gambe… e lo stoma risuc-
chiò tutto verso il basso.
Il Mithraeum seguì il movimento. Non ero riuscita a vedere cosa
fosse successo prima che tutto si rivoltasse – pezzi di stazione si stac-
carono; vedevo del metallo che rimbalzava sul Letto del Fiume, poi in-
tere sezioni della stazione, poi detriti –, pannelli e macchinari, fram-
menti di scafo che si avviticciavano verso il basso per raggiungerlo.
Il gigantesco peso complessivo della stazione stava lentamente avan-
zando verso lo stoma famelico.
Si incagliò contro una superficie rocciosa. Avevo sentito l’acqua
fluire e del metallo che si spezzava. Ne avevo abbastanza.
«Vaffanculo tutto» esclamai.
Pyrrha chiese: «Pallottole… acqua… o attesa?».
Mi ero già confrontata con questa scelta. Le diverse morti. La mor-
te attendista; la morte ottimistica. Harrow, l’ultima volta che ho scel-
to di morire, sono morta con il tuo viso davanti – sarebbe stata l’ul-
tima cosa che avrei guardato. Lascia che ti sveli un segreto: è stato
facile andarmene pensando che non avrei dovuto vederti morire. È
stato così semplice dare le dimissioni prima di te.
E ora ero là, da sola, con il tuo corpo in ostaggio, in una stazio-
ne spaziale sul fondo del Fiume e stavo per essere risucchiata da una
specie di atroce sottomondo che si spalancava solamente per le ani-
me non-morte di mostruosi pianeti. Potevo decidere di spararmi, la-
sciarmi stritolare dall’acqua o aspettare che a stritolarmi fossero sva-
riate tonnellate di metallo. O potevo scegliere di vivere e di lasciarmi
trascinare all’inferno.
Mi piacerebbe poter dire di aver pensato a te. Harrowhark, c’era-
no così tante cose che volevo dirti. Mi sarebbe piaciuto pensare a te,
sull’orlo di una fine che superava di parecchio la mia comprensione, che
l’ultima parola sulle tue labbra sarebbe stato il tuo nome, pronunciato
da me, mentre sprofondavo verso il cuore buio di chissà quale aldilà.
Ma tutta la mia vita e la mia morte mi erano precipitate addosso.
Era saltato fuori che ero la figlia di Dio – hey, Maresciallo, suca! –,
ma anche nulla più di un candelotto di dinamite. Non ero altro che
una mossa in una partita di scacchi che durava da migliaia di anni.
Voglio dire, chiaro, stavo pensando anche a te; se avessi potuto spe-

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gnere quell’interruttore l’avrei spento anni fa, ma quel che contava


di più era che… ero completamente fuori di testa, un’incazzatura da
Nona Casa coi turbocontrocazzissimi.
Mentre tergiversavo, Pyrrha mi sabbiò con un serafico: «Tua ma-
dre avrebbe scelto la pallottola».
«Be’, ottimo… Madre può andarsene a stendere» le dissi io.
E ispirandomi a te, ho piantato la mia spada nel plex mugolante.
Ha ceduto. Siamo finite tutte e due a culo all’aria per l’onda d’ur-
to di tutta quell’acqua schiumosa, lercia e schifosa – mi sono dovu-
ta appiattire a terra – e l’intero corridoio si è deformato: era come un
palloncino scoppiato. Siamo rimbalzate contro a tipo venti superfici
e, mentre l’acqua ci sommergeva, ci siamo precipitate entrambe ver-
so il buco sul lato della nave. Ci siamo infilate in un tunnel che si sta-
va restringendo e sfaldando e siamo andate avanti, finché non ci sia-
mo ritrovate fuori.
Io non so nuotare, ma chi se ne fotte. Non riuscivo neanche a capi-
re se Pyrrha avesse ragione a proposito della respirazione. Era come
se avessi Crux in piedi sul torace. Qualcosa di tremendo capitò alle
tue orecchie. Vorticavamo, vorticavamo e vorticavamo nell’acqua, e
per la prima volta ho pensato che sì, quella era veramente la fine. Ero
sicura che le palle degli occhi ti stessero per scoppiare nel cranio.
Ma non lo fecero e, dunque, riuscivo a vedere cosa stava succeden-
do mentre ci staccavamo dal corpo devastato della stazione spazia-
le agonizzante. In alto, oltre al nido di lingue, Ianthe pareva volare
– era una velina bianca fluttuante nel cuore del vortice – mentre Dio e
Augustine si dimenavano insieme. Le lingue si erano ritratte fin quasi
all’orlo della bocca, e Dio non stava vincendo. Quelle lingue demonia-
che l’avevano quasi completamente avvinto nella loro morsa, mentre
Augustine lo schiacciava giù. Le lingue sembravano più interessate
all’Imperatore che a Augustine, anche se non è che ignorassero Au-
gustine in toto. La disperazione di Dio risultava palese anche ai tuoi
bulbi oculari in via d’offuscamento.
Se Augustine avesse voluto liberarsi e togliersi di mezzo, avrebbe
dovuto smettere di combattere. O avrebbe potuto continuare a lottare,
assicurandosi che lo stoma prendesse l’Imperatore, e in questo modo
essere a sua volta fagocitato. Sopra a entrambe le opzioni ce n’era una
terza che fluttuava come una farfalla impanicata. Ianthe avrebbe po-

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tuto fare la differenza. Se Augustine avesse assestato a Dio un altro


bello spintone giù verso l’inferno, e se poi Ianthe l’avesse tratto in sal-
vo dalle lingue, probabilmente sarebbero riusciti entrambi a scappare.
Ero rimasta a guardare, flebilmente, mentre Ianthe alzava le brac-
cia. La corrente si fendette, l’acqua affluì attorno a lei in riccioli spessi
e opachi, rossi di sangue – le lingue saettarono tutte insieme.
Osservai Ianthe che scendeva in picchiata. Strappò via le lingue
dall’Imperatore delle Nove Case e lo sgarbugliò, liberandolo. Le lin-
gue si annodarono in una rete che trascinò Augustine giù, silenzio-
samente, verso quella bocca famelica, verso quell’inferno dove solo i
demoni andavano a finire.
Tridentarius, da manuale. Aveva avuto un’opportunità, e non solo
se l’era bruciata, ma se l’era bruciata in una cazzo di maniera tal-
mente colossale e spettacolare che c’era da sorprendersi a non por-
tarle del rancore odiosissimo. Ianthe, che prendeva le parti del tizio
che aveva mentito a tutti su tutto. Ianthe, che pugnalava alle spalle
il suo paladino, un’altra volta. Ianthe, col mondo intero sulla bilan-
cia, che allungava la mano e schiacciava sul peso con scritto sopra:
MALE. Risalì e scomparve, celata da un’esplosione acquatica. Le lin-
gue si ritrassero e i denti si ripiegarono, facendo richiudere quell’im-
mane vuoto masticante.
Poi la pressione ti ghermì i polsi, e il petto ti si incavò.

* * *

Harrowhark, lo sai che – a quanto pare – se muori annegata ti passa


davanti tutta la vita? Quello che non sapevo, mentre morivo e ti por-
tavo con me – dopo averti tenuta in vita per quanto, ben due ore? –
era se le avrei viste tutte e due. Tipo, alla fine di tutto, si sarebbe trat-
tato ancora solo di te e di me, stratificate una sull’altra come siamo
sempre state? Un’ultima fusione dei margini tra di noi, come l’acqua
rovesciata su un contorno inchiostrato. Acciaio sciolto. Sangue me-
scolato. Harrowhark-e-Gideon, Gideon-e-Harrowhark, fino in fondo.
Ma quando tutto era diventato nero e io ero morta per la secon-
da volta, non ti avevo vista. Non vedevo nemmeno me stessa. L’ulti-
ma cosa che ho visto è stata una grande luce solare: una sagoma sfo-
cata, che entrava e usciva dai bordi. Sulle prime mi era sembrata una

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donna, una donna con la faccia grigia e gli occhi spenti, con un viso
così bello che quasi faceva il giro e diventava repellente; una donna
con i miei occhi, attenuati nel giallo scuro della morte, con i capel-
li che ricascavano in ciocche plumbee e bagnate. Mi ero resa conto
con esasperata indignazione che, alla fine di tutto – dopo tutto quel-
lo che avevo passato… dopo le ultime parole, l’ultimo colpo, l’ultima
goccia di sangue nell’acqua –, la tua finta fidanzata morta era venu-
ta a reclamarti.
E aveva detto, con una voce due volte sbagliata: «Massaggio car-
diaco. Lo sterno è fratturato, lo so; ignoratelo. Abbiamo bisogno che
il cuore pompi. Al mio segnale».
Mani premute. E siamo morte.

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MEZZ’ORA FA

«Ne sei sicura» disse Harrowhark.


«Ma certo che non ne sono sicura» disse Dulcie Septimus. «Ma
sono una necromante della Settima Casa – o almeno lo ero, da viva.
Abigail non avrebbe mai potuto percepire quello che ho percepito
io, quando abbiamo guardato entrambe fuori. Non sono un’esperta
di anime redivive, ma quando si tratta di marionette so il fatto mio.
E il tuo corpo non è manovrato come quello di un burattino, Harrow
– qualcosa lo sta muovendo, e non un frammento solo. Non è nem-
meno il fantasma, perché la sensazione era completamente diversa
da quella della Dormiente.»
Quegli occhi blu la squadrarono con grande attenzione mentre lei
fissava, senza vederli davvero, i muri del complesso: stavano ceden-
do, schiacciati da un’enorme pressione che arrivava dall’alto, l’intero
castello si stava sottoponendo a un’ordinata autodemolizione control-
lata. Si ripiegava e cambiava, come stretto nella morsa di un pugno
gigantesco.
Gli squarci lungo i lati – quegli enormi tratti di parete e tramez-
zi – avevano cominciato ad alterarsi in una maniera che non aveva
mai visto prima. Non si affacciavano più sull’oscurità: si affacciava-
no sulla medesima assenza inflessibile e bianca di spazio e di tempo
che aveva già visto dentro a un’altra bolla. Una ferita incolore e abis-
sale; la contrazione della sua mente; i suoi limiti all’interno del Fiume.
«Potrebbe non significare niente» disse Dulcie.
Harrowhark si sentì domandare, distaccata: «Perché me l’hai detto?».

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Di nuovo quel sorriso dolente, come l’ombra di un’antica gioia.


«Perché volevo che sapessi tutta la verità» disse la figlia defunta
della Settima. «La completa, dissezionata e scalognata verità. La ve-
rità, senza imbellettamenti. La sporca verità. Pal e io siamo sempre
stati dei fanatici, su quel fronte. Mi hanno raccontato così tante bugie
in vita mia, Harrowhark, e non volevo tornare nel Fiume dopo aver
commesso a mia volta l’omicidio della bugia a fin di bene. Ti prego di
capirmi, mi sto comportando da egoista. Ma volevo che lo sapessi.»
Quando guardò di nuovo Harrowhark in faccia, e constatò come
fosse mutata, le disse con semplicità: «Mi dispiace».
«C’è una differenza tra conservare il frammento di un carnet di
ballo» disse Harrowhark Nonagesimus, «e assicurarsi l’ultimo ballo.»
Un altro corridoio si accartocciò su se stesso. L’ingresso di STERI-
LIZZAZIONE si deformò e il soffitto si inclinò all’improvviso a un’an-
golazione allarmante, facendo stridere qualsiasi cosa ci fosse là so-
pra. Il soffitto si squarciò come un temporale; una consistente fila di
piastrelle precipitò sulle loro teste. Harrowhark arretrò contro il sar-
cofago, e lo spettro sfibrato, con i suoi occhi febbrili, le soffiò un ba-
cio con le labbra secche e sparì sotto a una nuvola di detriti, clango-
re metallico e un delicato bagliore azzurro.
Il cuore di Harrow martellava come non aveva mai martellato pri-
ma. Pensava che quel battito non potesse essere vero; si trovava nel
suo sogno, e il ribollire del suo cuore era semplicemente un’altra fan-
tasia del subconscio. Ciononostante, martellava, e pure forte.
Disse, ad alta voce: «No. Me ne andrò da qui».
Si piantò davanti al sarcofago della Dormiente, e raccolse quelle
sfrangiature bianche, morbide e solide, e fece scoppiare la bolla e il
Fiume si riversò all’interno.
Le precipitò attorno in brandelli, chiaro e impalpabile come i ri-
masugli di una ragnatela. L’acqua filtrava a spruzzi da buchi bianchi,
fluendo all’interno con un frastuono incombente: quell’acqua insan-
guinata e salmastra che esisteva solamente nel Fiume. Era stata sol-
levata da uno spruzzo d’acqua gelida e lurida – ma non era così; le
sembrava di essere tornata a percorrere il suo lungo corridoio nero…
Poi Harrow tornò ad annegare nell’acqua salata. Le braccia di Gi-
deon la circondavano. Erano nella vasca della Casa di Canaan, e la
sua paladina l’aveva appena trascinata sotto. Aveva trattenuto istin-

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tivamente il fiato, anche se al tempo si era sentita serena; annegare,


aveva pensato, sarebbe stata una morte più dolce di quella che meri-
tava e, al tempo, morire tra le braccia di Gideon le era parso assolu-
tamente corretto. Riusciva a sentire le dita di Gideon che le affonda-
vano in basso, nella schiena, sentiva la camicia che le si gonfiava nella
piscina mentre fluttuavano verso il fondo, avvinghiate.
La testa di Harrow riemerse in superficie. Un sottile strato di ghiac-
cio si aprì tremolante mentre lei emergeva, annaspando per respira-
re, la pelle che bruciava per il freddo. I suoi contorcimenti avevano
prodotto un’increspatura in quelle acque nere e tormentate, senza
però interrompere il loro delicato e ondivago lambire della riva fra-
stagliata. Sopra la sua testa la cattedrale rocciosa della caverna bril-
lava in una volta mesta di vermi luminescenti, che si accendevano e
si spegnevano fatui. Erano tutti non-morti: creature redivive in os-
servazione, che si dimenavano in un’eterna inquietudine sulla pietra
del Sepolcro Sigillato. Harrow era a casa.
Harrow fluttuò, non verso la riva ma verso l’isola al centro, verso il
mausoleo nero di vetro e ghiaccio, che stazionava silenzioso e rifles-
sivo sotto a quel mare di vermi morti. Si issò sul bordo e rimase lì di-
stesa, la pelle accapponata, mezza surgelata, tremante e insensibile in
quello strano calore che preannunciava la morte ipotermica. Eppure
Harrow non sentiva il dolore; non sentiva nulla, a dire il vero, a par-
te la benaccetta sensazione del ritorno a casa: quell’inconsueta fami-
liarità, minuscola e piacevole, di ritrovare un vecchio libro un tempo
amatissimo, o qualche altro reperto dell’infanzia.
Ormai impaziente, issò in posizione eretta le sue carni gelate. Sfilò
sotto a quei pilastri come aveva fatto da piccola, seguendo un sentie-
ro che percorreva ancora nei sogni. Era più esausta che infreddolita;
la testa le si riempì di quella soffice stanchezza pesante che accompa-
gna il troppo camminare senza aver dormito a sufficienza, una lunga
giornata di lavoro senza riposo o pause. Arrivò al mausoleo e si avvi-
cinò alla Tomba vera e propria.
Le catene, nei loro grandi fori, erano spezzate e aperte. Il ghiac-
cio si arrampicava lungo i lati di un altare vuoto. Sul letto di ghiac-
cio e vetro, sul cuscino a forma di pietra per poggiare il capo, nel
luogo del riposo definitivo dell’unico vero amore di Harrow, giace-
va una spada.

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Era lo spadone a due mani che dimorava sul fondo della bara del-
la Dormiente, proprio come Dyas l’aveva visto.
Harrowhark era tornata a casa, e non aveva paura. Non sapeva per-
ché lo stesse facendo, ma entrò nella bara vuota e prese la spada tra
le braccia. Era colma di una certezza soporifera e confortante, come
se, invece che in una tomba gelata, fosse stata adagiata in un letto e
qualcuno le avesse rimboccato le coperte e sprimacciato il cuscino.
Sentiva le palpebre pesanti come le catene spezzate sparpagliate at-
torno al catafalco. Abbracciò la spada senza vergogna; quei due me-
tri scarsi di acciaio non le incutevano più alcuna paura.
Qualcosa le scrocchiò sotto a un fianco. Non l’aveva notato quando
ci era entrata; era stato infilato da una parte, lungo il lato della bara.
Quando allungò il braccio per portarselo davanti al viso, scoprì che
era una massa consistente di velina da riviste. La copertina stropic-
ciata mostrava una donna con un’uniforme della Coorte che si allon-
tanava così tanto dalla versione ufficiale da non limitarsi solo a sfida-
re la credulità, ma la spezzava proprio in due: una giubba bianca di
almeno tre taglie troppo piccola, stivaloni e nient’altro.
Il ghiaccio le sembrava gentile e caldo; la pietra cedevole come il
cotone. Harrow si coricò dove il Corpo era rimasto a giacere, perfet-
tamente a suo agio, perfettamente comoda, e lanciò un’occhiata ap-
pannata al titolo.
«Quinta Casa. Tette in prima linea» lesse, e si sorprese a sorridere
tra sé e sé, non poteva farne a meno. Mormorò: «Nav, asina che non
sei altro, non è nemmeno una vera pubblicazione».
Poi ci fu un’enorme oscillazione laterale, come se si trattasse di
un’esplo­sione, o del movimento di una culla. Gli occhi si chiusero.
Stesa nella tomba che si era impadronita del suo cuore, lontana in
una landa che mai aveva visitato, Harrowhark Nonagesimus si ad-
dormentò, o morì sul colpo, o entrambe le cose.

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Epilogo
SEI MESI DOPO L’ASSASSINIO DELL’IMPERATORE

L’aria densa e pesante di una sera d’estate. Il co-


prifuoco che stallava il traffico, fuori, a una lenta processione funebre,
con il sole incandescente che bitorzolava la strada di clangori mollic-
ci di cemento e asfalto. Quello che le piaceva di più era il modo in cui
la nebbiolina della combustione dei veicoli colonizzava i raggi mo-
renti del sole in arancioni e rosa carichi, gli arancioni che si faceva-
no scarlatti, gli scarlatti violetti, i violetti nel dolce blu scuro mortale
della notte. Le strisce anticecchino che ricoprivano le finestre come
una patina gelata trasformavano tutto in sagome vaghe, ma i colori
restavano intensi anche se le forme erano un pastrocchio. E il mor-
morio dei clacson del traffico sottostante – lo sporadico blart basso
e lamentoso di un cargo da trasporto – era trasformato dagli edifi-
ci alti in un’eco orchestrale. Lo spiraglio aperto della finestra lasciava
entrare l’aria esterna, odorosa di plastica riscaldata dal sole e di sca-
richi, che le arruffava il sudore quasi asciutto nei capelli.
Quell’ora del giorno era uno spartiacque. Bloccava il pomeriggio,
con i teli neri che venivano appesi alle finestre, e lei si metteva a se-
dere in quel caldo denso, schiacciante e claustrofobico, e le persone
che vivevano con lei le portavano le ossa. Viveva con tre persone: la
persona che andava al lavoro per lei, la persona che la istruiva e la
persona che si prendeva cura di lei. La persona che la istruiva spes-
so le dava queste ossa da riordinare («Come ti sembra sia più nor-
male, a sensazione»), a volte solo da tenere, o in mano o nell’incavo
della guancia. Poi le ossa potevano essere riposte in segreto, le tende

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da oscuramento si potevano togliere e si poteva aprire un pochino


la finestra, e una volta che la temperatura scendeva di qualche gra-
do, lei si spostava alla sbarra per gli addominali, o faceva le flessioni,
o la persona che si prendeva cura di lei le metteva in mano la spada
– «Come ti sembra più normale» di nuovo.
E poi quando ormai si era fatto tardi, scendevano giù per trenta
piani di scale fino al livello della strada, aprendosi un varco in mez-
zo a sacchi abbandonati di vestiti, o contenitori di alluminio per l’a-
sporto, la calca delle altre persone, che puzzavano di quel sudore di
un giorno dopo l’altro passato a lavorare in un ufficio torrido, o il su-
dore di un giorno dopo l’altro passato fuori al caldo, o il sudore di
un giorno dopo l’altro di paura. La portavano al negozietto all’ango-
lo con le sue grandi barricate di snack, pillole, opuscoli e magliette
sottili da quattro soldi, e la facevano sedere sulle sedie – che avreb-
bero dovuto essere bianche – a sentire l’aroma della friggitrice acce-
sa, per poi spiluccare dei pezzi croccanti di patata, o della frutta dol-
ce sparata in padella, o della carna di salsiccia in pastella, lasciandole
abbastanza tempo, dopo, per leccarsi le dita scottate e salate. Lei e
la persona che si prendeva cura di lei andavano in un posto diverso,
prima, dove il cibo costava meno e le salsicce erano più sugose, ma
il tizio che friggeva il cibo, lì, una volta aveva detto, in tono ammo-
nitore: «Scotta» solo per constatare che lei si era già riempita la boc-
ca con un casino di roba fritta e filamentosa. Il tizio aveva commen-
tato, ridendo: «Dovrebbe essersi ustionata le labbra, eh?» ma no, le
sue labbra non si erano bruciate. Aveva a malapena sentito male. Per
qualche ragione, per quel motivo, non foraggiavano più quel signo-
re lì delle salsicce.
Là fuori, nei sobborghi, i soldati pattugliavano la città, con le armi
spianate e gli scudi antisommossa buttati sulle spalle. Avevano un’aria
sudicia e rabbiosa, al caldo, sotto agli elmetti e ai grossi visori riflet-
tenti. Certe notti sentivano il pop-pop-pop-rat-ta-ta-ta di una spara-
toria e, quelle sere lì, chiudevano le finestre e dormivano sul pavimen-
to del bagno con addosso la maggior parte dei loro vestiti.
In sere come quelle, al buio, girando il viso per premere le guan-
ce accaldate contro la ceramica fresca delle piastrelle, analizzava la
faccia della persona che si prendeva cura di lei. Guardare quel viso le
dava conforto: era risoluto, tagliente, una faccia superbamente im-

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perscrutabile, che non si scomponeva di fronte al carillon stizzito dei


clacson dei veicoli e nemmeno al baccano di qualcuno che urlava dal-
le stanze vicine, trapassando le pareti sottili. Sentiva di essere sem-
pre stata affezionata a quella faccia, a quei capelli scuri, tagliati in un
caschetto affilato; e amava senza riserve gli occhi, quei grandi occhi
splendenti, con la tinta dell’iride mescolata con una tale maestria e
delicatezza da apparire priva di qualsiasi sfumatura o ombra, un gri-
gio limpido e bellissimo.
E le domandava, pigra, più come una preghiera che come un’in-
giunzione: «Hai capito chi sono?».
«Non ancora» disse Camilla.

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Ringraziamenti

Vorrei esprimere ancora una volta la mia più vasta gratitudine alla
mia agente, Jennifer Jackson, infaticabile quanto gentile e altrettanto
spassosa. Jennifer è un essere davvero fuori dal comune e non sono
ancora riuscita a scombussolarla. Dopo un anno, non ho ancora tro-
vato le parole giuste per ringraziare Carl Engle-Laird, editor ed eroe,
ma se anche ci riuscissi, lui si limiterebbe a eliminare tutte le para-
tassi. Carl, so che questo universo significa tantissimo per entrambi.
Grazie per avermi accompagnata in questa folle corsa.
La squadra di creature angeliche della Tor.com: Ruoxi Chen, Chri-
stine Foltzer, Irene Gallo, Giselle Gonzalez, Mordicai Knode, Caroline
Perny, Renata Sweeney, Natalie Zutter, così come Matt Johnson della
Macmillan Sales, tanto per fare solo qualche nome. Ecco, sono tutti
angeli dark in giacca di pelle. So che è stato svolto più lavoro per me
di quanto io possa comprendere a pieno, e il loro sostegno, l’entusia-
smo e la gentilezza costanti sono stati incredibili. Sono anche grata a
Tommy Arnold, per l’incredibile lavoro alla copertina, e a Jamie Staf-
ford-Hill per il design e la grafica altrettanto incredibili.
Ringraziamenti specialissimi a Clemency Pleming e a Megan Smith,
sempre le mie prime lettrici, che dai miei ultimi ringraziamenti si sono
sposate. Maz, sei la sua paladina; è illegale.
A tutte le persone che hanno avuto la possibilità di leggere il ro-
manzo prima dell’uscita, dimostrandosi enormemente gentili, pron-
te a parlarne e incoraggianti: grazie mille. Vorrei poter elencare qui
tutti i loro nomi, ma sono troppi e hanno fatto per me così tanto che
temo di scordarmi qualcuno. Il lavoro infaticabile di librai, recenso-
ri, blogger e colleghi autori mi ha riempita di gratitudine e di equi-
parabile stupore.
Sono molto grata alle persone che mi sono state accanto e hanno
ascoltato i miei brontolii: Lissa, Bo e Ben, i West, Ben Raynor, Chris
Douglas. La mia classe della Clarion rimane uno scrigno di tesori.
Isabel Yap è un faro per molti, ma un falò per me; come ho riporta-

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to nella dedica, Gideon la Nona non esisterebbe senza di lei, letteral-
mente, e Harrow la Nona ha nei suoi confronti un debito enorme e
diverso. Grazie ancora alla mia famiglia per l’amore infinito e il soste-
gno, specialmente a Andrew, che non riesce comunque a stare cin-
que minuti senza raccontare alla gente di quando ho mangiato trop-
pa mousse al cioccolato.
Harrowhark Nonagesimus non ha avuto nessuno che le mettes-
se sotto la lingua degli antipsicotici solubili al gusto di banana per la
sua infermità. Io sì, e dunque vorrei ringraziare tutti i professionisti
che, durante il mio passato, hanno dovuto somministrarmi dei me-
dicinali, perché loro sono sempre stati carini e io molto spesso no.
Ringrazio infine Matt Hosty, che ha pulito altro sangue, messo in
infusione altro tè e senza il quale questo libro sarebbe stato soltanto
un biglietto di scuse. Matt, sei la parte migliore di questo libro. Non
vedo l’ora che tu legga il prossimo. Non vorrei sconvolgerti, ma è pie-
no di... ossa.

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