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ISBN 978-88-04-73589-2
www.oscarmondadori.it
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno
lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive
o scomparse, è assolutamente casuale.
librimondadori.it
a pT
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Augustine il Primo
Alfred Quinque, il suo paladino
PRIMO SANTO AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO
Mercymorn la Prima
Cristabel Oct, la sua paladina
SECONDA SANTA AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO
ORTUS il Primo
Pyrrha Dve, la sua paladina
TERZO SANTO AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO
Cassiopeia la Prima
Nigella Shodash, la sua paladina
QUARTA SANTA AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO
Cyrus il Primo
Valancy Trinit, la sua paladina
QUINTO SANTO AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO
Ulysses il Primo
Titania Tetra, la sua paladina
SESTO SANTO AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO
Cytherea la Prima
Loveday Heptane, la sua paladina
SETTIMA SANTA AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO
Anastasia la Prima
Samael Novenary, il suo paladino
Ianthe la Prima
Naberius Tern, il suo paladino
OTTAVA SANTA AL SERVIZIO DEL RE IMPERITURO
Harrowhark la Prima
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Il tuo mondo era una scatola bianca sterile. Questa scatola era l’ospe-
dale a bordo della Erebos. L’Erebos era l’ammiraglia di classe Behemot
dell’Imperatore Imperituro. Ti aggrappavi a quelle informazioni come
farebbe un asfissiato con l’ultima boccata d’aria. Vivevi in una stanza
fredda e incolore piena di letti smantellati e scatoloni, e di tuo avevi
un letto, una seggiola e una spada. Avevano cercato di portarti via la
spada, una volta – avevano provato a portartela via con una qualche
scusa che non ti ricordavi con esattezza – e quel ricordo ti turbava
vagamente, era un ricordo rosso, bagnato e indefinito.
Non avevano più toccato il tuo spadone a due mani. Appariva e
riappariva in giro per la stanza, ovunque lo avessi lasciato cadere, soli-
tamente accompagnato da un misterioso tanfo di vomito. Ora ci dor-
mivi accanto, come se fosse il tuo grosso bebè d’acciaio. A dire il vero,
saresti stata felicissima di gettare quell’affare dritto nel cuore incan-
descente di Dominicus, visto che lo trovavi abominevole ed eri con-
vinta che volesse farti del male; ma era molto importante che non fi-
nisse mai nelle mani di qualcun altro.
Il che non ti aveva impedito di smussare la lama, scheggiare la luci-
datura e, in generale, di sputtanare il filo, per quanto vagamente po-
tessi rendertene conto. Ti intendevi così poco di spade – non ti eri
mai presa la briga di domandare; riuscivi a malapena a distinguerle.
Alcune erano strette. Altre erano larghe. Alcune erano grosse e altre
erano piccole. Questo spadone a due mani da soldato di fanteria era
enorme, aberrante e francamente malevolo, ed era anche una tua as-
soluta responsabilità – anche se non riuscivi a toccarlo senza met-
terti a vomitare col turbo.
Di tanto in tanto ti inginocchiavi vicino al letto e provavi a prega-
re. Con il Corpo lì non avevi nessuno da ringraziare e nessuna inter-
cessione da richiedere. Raggiungevi il massimo della pace in quello
stato drogato di dormiveglia sul letto, tenendo basso il ritmo cardia-
co sotto alle gelide stelle bianche, debilitata da una furia di cui conti-
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Eri rimasta in silenzio. Lui aveva proseguito: «Siamo andati alla Casa
di Canaan armati di un pettine a maglie strette, quando ti abbiamo
recuperata. Non abbiamo trovato nessun sopravvissuto e nessun al-
tro resto, e qualunque sia la fine a cui sono andati incontro quelli che
mancano all’appello – sempre che una fine sia giunta – è un miste-
ro che intendo risolvere. Fino ad allora, li ho dichiarati morti. Dam-
mi pure del precipitoso, ma preferisco che le Case piangano adesso,
Harrowhark, lasciando spazio a un futuro festeggiamento».
Era la bara semplice e scoperta ad attirare il tuo sguardo, quella
con la rosellina cerea; avevi capito all’improvviso quale fosse l’antico
cadavere canceroso congelato al suo interno. Il tuo sistema nervoso
stava cercando di elaborare molte emozioni in un colpo solo, ma poi
si era spento del tutto. Il Corpo si era avvicinato e ti aveva fatto gira-
re il viso, ma non poteva interrompere il repentino afflusso di ricor-
di frammentari.
L’Imperatore aveva detto, placido: «Deve tornare a casa, Harrow».
Non avevi guardato. «E la Settima Casa la accetterà?»
«Quella non è mai stata la sua casa» aveva detto lui. «Riporterò
Cytherea a riposare con i suoi fratelli e le sue sorelle.»
Sentivi male. Bruciavi. Le unghie del Corpo tracciavano un pre-
ciso rigagnolo freddo lungo la tua guancia bollente. Ti aveva impo-
sto di soffermarti, invece, sulle casse d’osso e pelle alle tue spalle, sui
morti che ora erano semplicemente addormentati e che erano stati
testimoni del più antico miracolo di cui eri a conoscenza. Parte della
tua promessa era stata mantenuta. Ti sarebbe piaciuto provare sol-
lievo, ma non ti ricordavi più come funzionava, a livello prettamen-
te ghiandolare.
Tu e Dio, ora, eravate in piedi uno di fronte all’altra. Potevi studiar-
lo senza timidezza: l’iridescenza lucente delle sue iridi, il nero inespu-
gnabile delle cornee e delle pupille, quel lungo viso squadrato, sofi-
sticato. Dio aveva delle rughe molto profonde sulla fronte e sotto agli
occhi. Le sue sopracciglia parevano afflitte, in qualche modo, ma il
resto del volto era spiritoso e mobile, ordinario e normale. Le fred-
de luci bianche della stiva di carico facevano risaltare tutti i punti in
cui la camicia era lucida per l’usura, smorzando il bruno caldo delle
mani e del viso fino a ridurlo a un banale ocra. Se l’avessi visto, sen-
za sapere chi fosse, l’avresti ritenuto assolutamente anonimo; ma tu
non potevi guardarlo e non sapere. Abbarbicato alla sua pelle c’era
un terrificante senso di divinità.
«Voi potreste resuscitarli» avevi detto, senza disturbarti a stabili-
re chissà che filtro tra il pensiero e la parola. «Solo voi ne siete capa-
ce. Ma non lo fate. Perché?»
«Non lo faccio da diecimila anni, e la ragione è sempre la stessa»
aveva detto lui. «Per la stessa ragione che mi impedisce di tornare alle
Nove Case. Il prezzo è troppo alto.»
Una vertigine. Forse eri caduta. Sotto alle tue ginocchia c’era la
griglia di metallo, che imprimeva segni rossi e dolorosi nella tua car-
ne, l’aria che filtrava dalla grata puzzava di collanti antistatici. Avevi
detto, rivolta ai pannelli: «Insegnatemi, mio Signore, a quantificar-
ne il prezzo».
Dio, invece, ti aveva aiutato a rialzarti. Ti aveva infilato le mani sot-
to le ascelle in una maniera normalissima e ti aveva tirata su in piedi,
e ti aveva stretto le braccia goffamente – una rapida strizzata imba-
razzante, come se volesse confortarti senza sapere come fare – pri-
ma di ritrarsi. Ti aveva detto: «Harrow, non ti inginocchierai davanti
a me. Non te lo permetterò, non finché non saprai esattamente che
cosa significa farlo. Mi addolorano queste tue manifestazioni di os-
sequio quando – se solo sapessi tutta la storia – potresti invece mol-
larmi un pugno in faccia».
Eri arrossita, protestando: «Mio Dio…».
«E non dovresti neanche chiamarmi Dio» aveva proseguito lui.
«Non comprendi il termine e non voglio essere Dio, per te. Non an-
cora. Sei un’invalida, non una discepola. Ascoltami. Lo puoi fare? De-
testo forzarti, Harrowhark, ma abbiamo così poco tempo.»
Quello non si poteva tollerare. «Sono ancora in possesso di alcu-
ne delle mie facoltà, mio Signore.»
«Be’, è quello che speriamo tutti» aveva detto lui.
Ti eri appoggiata alla bara che non conteneva Coronabeth Triden-
tarius, dato che si trattava di una lastra poderosa che il tuo peso non
avrebbe mai potuto danneggiare. La spada ti stava facendo venire il
mal di schiena. Il Principe Clemente era rimasto a osservarti men-
tre cercavi di rimetterti in piedi, le spalle incurvate dall’acciaio, e poi
aveva detto: «Harrow, ci troviamo ancora all’esterno del sistema di
Dominicus. Quando starai meglio, manderemo la Erebos alla Nona
solo perché pensavi di doverlo fare, per tramutarle in realtà. «Se tor-
nassi alla mia Casa, mi seguirebbero fin là.»
Lui aveva replicato: «Nessun Littore è mai più tornato a casa, una
volta comprese le ripercussioni… nessun Littore a parte una, che sa-
peva che l’avrei intercettata proprio per quel motivo».
Avevi lanciato un’altra occhiata alla bara spoglia. Non era partico-
larmente grande; il corpo che conteneva non era né alto né massic-
cio, non era imponente o maestoso. Ti eri sorpresa a commentare, di-
staccata: «E quindi l’idea è di insegnarmi a combattere quelle cose?».
«Non prima di averti insegnato come scappare» aveva detto l’Im-
peratore. «È una dura lezione da assimilare. Non si conclude mai. Ma
visto che fuggo da diecimila anni… sarò il tuo maestro.»
Dopo un istante ti aveva posato le mani sulle spalle e ti eri ritrova-
ta a fissarlo dritto in faccia, un viso strano e comune.
«Quello che intende» aveva detto il Corpo chiaramente «è che devi
imparare a usare quella spada.»
L’avevi squadrata, oltre la spalla dell’Imperatore. Lui aveva istinti-
vamente seguito il tuo sguardo, ma non avrebbe mai potuto vedere
quello che vedevi tu: le piaghe, dove le catene si erano strette attor-
no ai polsi della ragazza, al collo, alle caviglie. Non avrebbe potuto
percepire quei capelli lunghi, che le penzolavano umidi sulle spalle.
Erano di una sfumatura resinosa che, nella morte, poteva essere sta-
ta castana o dorata o chissà cos’altro. Non avrebbe mai potuto udir-
ne la voce – bassa, roca, musicale – o la sua inquietante somiglianza,
come un’eco, con altre voci che avevi conosciuto: quella di tua ma-
dre, di Crux.
Non avrebbe mai potuto sapere che, in realtà, il Corpo del Sepolcro
Sigillato non ti parlava più dalla notte in cui avevi massaggiato i coagu-
li violacei e gonfi di sangue sul collo dei tuoi genitori morti, in modo
che la loro dipartita per strangolamento non risultasse così ovvia. Non
avrebbe mai saputo che avevi camminato in sua compagnia, in tran-
quillità, per un solo anno, dopodiché solo nei sogni ti eri data appun-
tamento con lei. Non avrebbe mai saputo che, quando eri più piccola,
gli occhi del Corpo ti erano spesso apparsi neri, com’erano i tuoi, ma
che da quando ti contorcevi nell’agonia del Littorato i suoi occhi era-
no diventati di un giallo che ti dava le vertigini: un giallo bronzeo, in-
candescente, animalesco, la sfumatura ambrata del tuorlo di un uovo.
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tato di salire fino all’ultimo anello del pozzo per prendere a martella-
te le macchine di sintetizzazione dell’ossigeno. Sarebbe stata la fine.
Aveva trascorso la maggior parte della sua vita in silenzio; c’erano
stati parecchi momenti in cui aveva trovato che vivere fosse… diffi-
cile. Tedioso. Nelle giornate peggiori, fatuo. Ormai la memoria rie-
vocava quello che era successo in maniera molto neutra, e i dettagli
erano ininfluenti. In una giornata particolarmente brutta – in cui le
era parso che tutti la odiassero e in cui la cosa le era sembrata asso-
lutamente sacrosanta – coi pugni insanguinati e il cuore ammaccato,
aveva scritto un biglietto per spiegare il proprio suicidio ed era anda-
ta ad aprire quella porta. Inaspettatamente, il gesto non l’aveva ucci-
sa; e quel che non la uccise la rese curiosa.
Quando riuscì a oltrepassare la soglia era già molto più grande. Era
un inferno di trappole. Ma le trappole erano trappole della Nona, fat-
te di ossa e di scheletri ghignanti, che lei stessa utilizzava da quando
era un’infante. Alla fine, l’esperienza si rivelò meramente educativa.
Attraversò la caverna, irta di trabocchetti, e superò il fossato centra-
le d’acqua nera – che era profondo, e irto di trabocchetti – e poi si
arrampicò sull’isola (trabocchetti) fino al mausoleo ghiacciato (tra-
bocchetti assurdi) e, quando fu arrivata fin là – viva – ebbe la pos-
sibilità di guardare nella bara scoperchiata in cui giaceva la ragione
stessa della sua esistenza.
Il trionfo e la morte di Dio erano una ragazza. Forse una donna.
Harrowhark, al tempo, non avrebbe saputo come stabilirlo, mentre
il genere era solo un’ipotesi basata sull’interesse personale. Il cada-
vere era disteso nel ghiaccio, portava un sudario bianco e fra le mani
stringeva una spada bordata di brina. Era bella. La struttura dei suoi
muscoli era perfetta. Ogni arto era la rappresentazione scultorea di
un arto perfetto, ogni piede esangue era il simulacro esanime, dall’ar-
co slanciato, del piede perfetto. Ogni nero ciglio surgelato si posa-
va sulla guancia con una perfetta nerezza immobile, e il suo naso era
l’apice di quel che un naso avrebbe dovuto essere. Nulla di tutto que-
sto avrebbe potuto scalfire Harrow, se non fosse stato per la bocca,
in sé e per sé di un’imperfezione perfetta: leggermente sghemba, con
un solchetto sul labbro inferiore, come se qualcuno avesse impresso
un’ammaccatura delicata sulla curvatura, con la punta del dito. Har-
row, che era stata generata al solo scopo privilegiato di adorare quel
cadavere, la amò follemente a prima vista.
La morte di Dio, dunque, si rivelò anche la morte di Harrow. Ave-
va gestito le sue visite in maniera superficiale. I suoi genitori aveva-
no… scoperto… quello che aveva fatto, la portata del peccato che ave-
va commesso, e avevano reagito proprio come avrebbero reagito se lei
avesse mai ammesso di aver fatto a pezzi con un martello la macchina
di sintetizzazione dell’ossigeno. Di fronte all’apocalisse, avevano scelto
di darsi la morte con le proprie mani prima che un’altra morte potesse
reclamarli. Non si erano nemmeno arrabbiati. Fu con profonda com-
prensione e calma che sua madre, suo padre e il loro paladino legarono
cinque cappi – uno per Madre, uno per Padre, due per Mortus, uno per
lei. Poi si impiccarono senza quasi emettere suono o scalciare. Sarebbe
stato meglio, davvero, se Harrow si fosse impiccata al loro fianco. Sareb-
be stato meglio se si fosse raggomitolata nella tomba accanto alla don-
na che amava, lasciando che la temperatura gelida facesse il suo corso.
Ma Harrowhark – Harrow, che era duecento bambini morti; Har-
row, che amava qualcosa che non era stato vivo per diecimila anni –
Harrowhark Nonagesimus aveva sempre desiderato così tanto vive-
re. Era costata troppo per morire.
* * *
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Avevi ripreso conoscenza di colpo sulla tua brandina spoglia, non dis-
simile a un feretro, iperventilando.
Il cuscino sotto la tua testa era perfettamente asciutto. Tenevi la
mano sinistra sollevata davanti al viso, davanti alla luce, quella luce
bianca e uniforme con i suoi filamenti incandescenti di tungsteno.
L’unghia del pollice era integra e uniforme. Troppo uniforme? Avevi
ancora il vizio di mangiarti le unghie, quel tic spiacevole della tua in-
fanzia? Il grosso spadone a due mani era coricato accanto a te come
un bebè imperturbabile, e sul muro dei tuoi alloggi…
Niente. Nessun frammento d’unghia. Niente sfregi sulle pareti. Solo
una pila ordinata di casse. E su una seggiola accostata al tuo letto – la
seggiolina che di solito stazionava vicino alla porta, quella su cui ave-
vi sempre e soltanto visto l’Imperatore – c’era Ianthe Tridentarius.
I vostri sguardi si erano incrociati. L’altra Littrice nascente – la
santa della Terza Casa, le ossa dell’Imperatore e i legamenti dell’Im-
peratore, i pugni e i gesti dell’Imperatore – indossava uno splendi-
do manto madreperlaceo che riluceva di tutti i colori dell’arcobale-
no: un materiale impalpabile e iridescente che mutava violentemente
alla luce. La madreperla conferiva ai capelli di Ianthe una raccapric-
ciante tinta gialla, tirando fuori tutte le sfumature color senape della
pelle; aveva il viso chiazzato e gli occhi ridotti a due cavità insonni.
Aveva proprio un aspetto di merda. Avevi notato che gli occhi era-
no un bizzarro guazzabuglio di colori: un violetto slavato sgomitava
per farsi spazio in mezzo a un azzurro lattescente, screziato qua e là
da un castano caliginoso, più chiaro. Ianthe sedeva veramente trop-
po vicino a te e si era accomodata sulla sedia in una strana posizio-
ne, con le spalle sghembe. Era anche dotata di due braccia, uno in
più rispetto all’ultima volta che l’avevi vista. Nulla di tutto ciò ti tan-
geva particolarmente.
Quello che ti tangeva, invece, era l’espressione con cui la Princi-
pessa di Ida – la chioma pallida, tutta statura e gomiti, occhi cerchiati
d’ombre crepuscolari – ti stava osservando, un’espressione che facevi
fatica a ricordare di averle mai visto stampata in faccia. Ianthe era af-
fezionata alle pose e agli atteggiamenti languidi; esibiva un tedio ab-
bondante e artificioso, o sfavillava di una lieve malizia, a volte dava
persino mostra di autoironia e di un indolente senso dell’umorismo;
ma ora ti stava guardando con un’aria un po’ famelica, profondamen-
breve intervallo, il campo di battaglia dei suoi occhi era mutato. Sot-
to al palmo della tua mano, un’iride era ormai di quel violetto slava-
to, come un livido sbiadito o un fiore morente; l’altro era una mesco-
lanza di azzurro e castano. Quella massa lucente di eterocromie era
puntata su di te, assolutamente calma e sicura.
«Avrei apprezzato una spiegazione su quel che intendevi con “lu-
cidità”» si era lamentata. «Intendevi lucida nel senso di “Riconosco
gli oggetti e i loro nomi”? Intendevi lucida nel senso di “Non sono
più fuori come un balcone”, il che implica che tu non sia ancora ido-
nea? Non c’era verso che ti venissi vicino quando hai aperto gli occhi
per la prima volta. Le tue uniche modalità operative erano supervo-
mito e omicidio.»
«Dimmi come ne sei entrata in possesso» avevi gracchiato.
«Me l’hai cacciata in mano tu, pasticcino scheletrico che non sei
altro» aveva risposto lei rassicurante. «Forza. Prendila. È per te.»
Le avevi scostato la mano dalla fronte e l’avevi presa. Temevi fol-
lemente che ti avrebbero tremato le dita e che non avresti trovato il
modo di farle smettere. Sotto la potente luce bianca delle cabine ospe-
daliere, non riuscivi a scorgere alcun errore o artificio nella scrittu-
ra: era la tua, non si trattava di un falso eccezionalmente ben fatto.
Era scritto con il tuo sangue. Quando avevi toccato la superficie li-
scia, un sottoprodotto del plex, eri riuscita a vedere con l’occhio del-
la mente la punta del pennino, il morso delicato del metallo sull’in-
terno del tuo labbro.
Aprire la velina e appiattirtela sulle ginocchia era stato l’ultimo
grumo che si staccava dall’osso bollito. La lettera era scritta seguen-
do un cifrario della Nona Casa; il tuo codice cifrato, basato su quello
dei tuoi genitori e sviluppato quando avevi sette anni. Era incompren-
sibile per chiunque non disponesse del tuo rosario, del Maresciallo
Crux e di un centinaio d’anni da buttar via.
Avevi letto:
«Ti lascio sola un attimo» aveva detto Ianthe. Si era alzata in pie-
di e si era spostata vicino alla finestra, immersa nella luce della stel-
la più vicina.
* * *
Harrowhark…
Mentre ti scrivo, sono passate quarantotto ore dalla tua trasfor-
mazione in Littrice alla Casa di Canaan. Quando leggerai que-
sta mia, non ne ricorderai la stesura, perché l’Harrowhark che
l’ha scritta sarà ormai morta e scomparsa. La sua resurrezione
rappresenterebbe un fallimento e dev’essere evitata a ogni costo.
Questa lettera non può rispondere alle tue domande. Mi rife-
rirò a ciò che ho fatto con il termine di lavoro, e conoscerne la
natura implicherebbe per te un danno cospicuo. Ti fornirò in-
vece delle regole su come vivere il resto della tua vita. Visto che
la tua vita, ora, si estenderà auspicabilmente nelle miriadi a
venire, è di primaria importanza che tu non ceda alla tenta-
zione di disconoscerle. Sei la garanzia vivente delle promesse
che ho pronunciato. Infrangi la mia fiducia e, dai confini della
mia distruzione, imprimerò il marchio dell’eresia sul tuo Sepol-
cro, recidendo ogni legame con quel che giace sull’altare gelido,
dormiente e morto; rimuovendoti dall’adorazione dello stesso
e da ogni promessa di partecipazione alla di lei resurrezione.
* * *
«Vieni qua» avevi detto, con meno fermezza di quanto avresti voluto.
Ianthe – ancora ammantata dalla sognante luce delle stelle – ti ave-
va obbedito immediatamente, con quel sorriso segreto e cospiratorio
che non accennava a svanire, come un ragno nascosto in una scarpa.
Si era accomodata di nuovo sulla sedia vicino al letto e avevi notato,
ancora, il suo braccio sinistro – lo prediligeva, come se il destro fos-
se un fardello troppo pesante.
Avevi spostato le gambe, facendole penzolare dalla brandina ospe-
daliera, e ti eri levata il lenzuolame dalla faccia, pur disprezzando la
tua nudità. Aveva sgranato gli occhi spaiati, appena un istante, quan-
do ti eri alzata in piedi parandoti di fronte a lei e, meditabonda – la
spada era un metro e ottanta di acciaio avvoltolato nelle coperte leg-
gere, ma ritenevi che, per ora, una piccola distanza fosse accettabi-
le – avevi preso il viso di Ianthe tra le mani. Avevi premuto i pollici
sulla carne tiepida che ricopriva la mandibola. Quando le avevi in-
clinato il capo verso l’alto, la tua pelle scoloriva accanto alla sua; la
sua pelle scoloriva accanto alla tua. Sotto alle unghie avevi un legge-
ro alone di sangue secco.
Ti eri sorpresa ad accartocciare la bocca e gli occhi, come di fron-
te alla luce o a un sapore amarognolo; non potevi farne a meno. Ma
lo spregevole piano d’azione era ovvio. Ti eri abbassata e – porca mi-
seria – l’avevi baciata in bocca.
Quello, perlomeno, non se l’era aspettato – e come avrebbe potu-
to, che cazzo – e la sua bocca si era irrigidita contro la tua, lascian-
doti il tempo per lavorare. Ianthe, per te, era un buco nero, il nulla,
«Se non ti scoccia, ora vorrei rimanere da sola» avevi detto. «Ho
parecchio su cui riflettere.»
Ianthe aveva esclamato: «Che formulazione cortese!».
Si era tirata su le gonne e ti aveva rivolto un inchino: un movimen-
to splendido e naturale, le falde prismatiche strette tra le dita, ma che
trasmetteva anche derisione, in un certo senso. Quando aveva solle-
vato lo sguardo verso di te, i suoi occhi erano cambiati ancora. Erano
entrambi di quel lavanda stinto, ma screziati di castano chiaro, come
una costellazione di microscopiche pupille.
«Fai con comodo» ti aveva detto. «Ero convinta che il tempo fos-
se l’ultima delle nostre risorse, in questo momento… ma chi sono io
per giudicare il Re Imperituro, il Dio delle Nove Case?»
Le avevi risposto, perché ancora una volta non trovavi una ragio-
ne per non farlo: «Avresti dovuto disciplinare meglio Tern, se conti-
nua a combatterti così».
Ianthe ci aveva riflettuto. Dopo aver scostato l’elaborata elsa a cesto
dello stocco che portava al fianco, aveva sfoderato un lungo coltello
che, ancora una volta, ti aveva provocato una scarica di dolore incan-
descente giù per il lobo frontale. Era – anche se non ti eri mai presa la
briga di accertartene – l’arma secondaria di Tern, il suo pugnale tri-
partito, una lunga lama da cui ne fuoriuscivano altre due, dopo aver
pigiato chissà quale meccanismo nascosto; e in quel momento Ianthe
aveva attivato quel meccanismo e con uno snickt erano scattate come
un fuoco d’artificio due punte affilate di acciaio splendente. Pigiò di
nuovo e le lame rifecero snickt per tornare nel loro alloggiamento.
Ti piazzò davanti il palmo della mano, aperto. Senza un attimo di
esitazione, o cenno di dolore, o particolare trasporto, si trapassò la
carne del palmo col pugnale. Doveva aver provocato danni immen-
si – ai muscoli flessori, al nido delle ossa carpali – e gocce di sangue
color rubino le imbrattarono le maniche della veste lucente.
Quando lo estrasse, la ferita si ricucì come se nulla fosse. Lo tirò
fuori e basta, e la pelle si richiuse – la carne si ricompattò, elastica –
e il buco si riempì sfrigolando, lasciandole il palmo integro e intatto,
a parte alcune gocce di un rosso carminio. Le scrollò via e sparirono
polverizzandosi. L’avevi guardata e, per la prima volta, Ianthe brillava
avvolta dalla thanergia, come una brace che splende, rossa di calore.
«Tira fuori la mano» ti aveva ordinato.
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il mio ordine non è più l’ordine di Dio stesso? Non sono più una Lit-
trice della Grande Resurrezione, la seconda santa al servizio del Re
Imperituro? Ho perso il posto che mi spetta tra i Quattro – o, come
scopro ora, inorridendo – i Tre? Non sono forse l’ultima sorella a
servizio in un ossario di sorelle defunte, che hanno tutte sacrificato
le loro lunghe e diligenti vite affinché i vostri marmocchi bercianti e
i figli impestati dei figli dei loro figli potessero crogiolarsi nella luce
di Dominicus?».
L’altra voce si era interrotta. «No» aveva risposto. Ma poi, con una
punta di stoica meschinità, aveva aggiunto: «Eccellentissima Santa
della Gioia, perdonatemi, devo comunque domandarvi di attendere
la conclusione della riunione».
Ne era seguito un sospiro esplosivo. «Va tutto bene» aveva det-
to la voce, assolutamente pacata. «Va tutto bene, Luogotenente, ca-
pisco. Hai solo incontrato questa ragazzina e quell’altra ragazzina.
Non hai mai conosciuto un Littore. Non puoi capirlo… anche tro-
vandoti in sua presenza, comprendere fino in fondo è tutta un’altra
faccenda…»
La voce si smorzò e la persona che stazionava dietro alla tua sedia
si avvicinò alla persona che avevi di fronte. Quello che sarebbe acca-
duto dopo avrebbe flebilmente acceso il tuo interesse – non per al-
tro, ma non eri abituata a disporre di un posto in prima fila. Davanti
a te c’era una persona normale – l’altra era un buco nero, e ora sa-
pevi perché – dotata di due reni. Un improvviso uno-due di thaler-
gia emerse dal nulla, per quel che potevano saperne i tuoi sensi – no,
non erano pugni: era una specie di stilettata, una freccia di una pre-
cisione indicibile, una siringa – e ciascun rene si ritrovò imbottito
di angiotensine. Un affondo perfetto. La pressione sanguigna crol-
lò. Un corpo si unì alle scarpe e agli orli dei pantaloni di fronte a te
mentre l’ufficiale sveniva. La sedia ripartì, circumnavigando quell’or-
dinato fagotto umano.
La voce dietro la sedia stava borbottando:
«Che orrore… ignobile, davvero! Il personale della Erebos non ha
mai un briciolo di buonsenso… gliel’ho detto e ridetto che bisogna
sostituirli a ogni decade… che incubo, proprio. La mia presenza do-
vrebbe produrre il medesimo effetto di un allarme antincendio… io
non voglio aspettare… io non la voglio una tazza di tè. Non sto di cer-
te, che sei una – una neonata della Nona.» Stavi armeggiando con il
cappuccio con le mani malferme, per nasconderti il viso. «Da quanto
esisti?» ti aveva domandato brusca. «Da quanto, in anni?»
Avevi sollevato di nuovo la testa traballante, come un’idiota, per
guardarla di nuovo in faccia. Per qualche motivo – e a te non serviva
mai una motivazione; eri bravissima a produrre una reazione senza
bisogno del benché minimo stimolo – la paura ti aveva assalita. Era
stato a quel punto che il Corpo era apparso dietro alla spalla della Lit-
trice, nei pressi delle porte. Il suo dolce viso morto fluttuava nei pressi
di quello della Littrice. Ti aveva fissato con i suoi occhi giallo-dorati,
dalle palpebre robuste, e aveva detto, piuttosto chiaramente, con una
voce che era un miscuglio tra quella di Aiglamene e di tua madre:
«Devi mentire, Harrow. Ora.»
«Quindici» avevi risposto all’istante, sperando che la tua stessa car-
ne non ti tradisse.
Lei aveva insistito: «Contando dal concepimento o dalla nascita?».
«Nascita.»
Quell’emozione le si dispiegò di nuovo sul volto, come un’incre-
spatura oscura che attraversa una massa d’acqua fugacemente agita-
ta. Tutto il suo corpo si contrasse per poi rilassarsi. Il fatto che per
te fosse un buco nero, privo di thanergia o thalergia in senso stretto,
non aveva importanza; bastava guardarle le spalle. Era sollievo. Puro
sollievo all’ennesima potenza.
«Blah» commentò lei.
L’ascensore si fermò con un sussulto. Le porte alle spalle della Lit-
trice si aprirono; lei si raddrizzò e poi ti guardò, dall’alto in basso. Il
sollievo era scomparso; il distacco permaneva.
«Ho domandato più volte all’Imperatore perché mai si sia conces-
so di rimanere fermo, esposto, così a lungo ai bordi del luogo a cui
non deve fare ritorno» disse lei. «Ed è saltato fuori che il motivo sei
tu. Uno scarto disperso della Nona che non c’entra niente… una nul-
lità. Ma lui era così sorpreso… gli ho detto: “Metti una clausola sull’età
nella lettera!”. Gli ho detto: “Se non lo farai saranno tutti pubescenti!”.
E ora ci tocca raccogliere quello che ha seminato. Sss.» (Per un istan-
te avevi pensato di aver avuto un’allucinazione uditiva, perché nessu-
no che aveva vissuto per diecimila anni – anzi, nessuno che mai era
stato vivo – avrebbe mai verbalizzato un sibilo.) «Be’, hai tre opzioni:
lani e adepti della Nona Casa, se non ricordavi male, erano scompar-
si in battaglia cinque anni prima. I numeri restavano numeri, privi di
contesto. Eri più interessata alla conversazione che si stava svolgendo
fuori dal portellone della navetta, davanti alla rampa: una voce sco-
nosciuta stava scandendo con fermezza: «Santa delle Sante, la Erebos
è il suo vascello. Parlo per ogni ufficiale comandante a bordo quando
vi esprimo tutta la riluttanza che proveremmo nel veder giungere a
una conclusione la sua ottantennale permanenza a bordo».
«Ottant’anni!!» fu la risposta, accompagnata ancora una volta da
quell’esplicito punto esclamativo extra. Era il risultato di un’estrema
irascibilità: la santa aveva una voce acuta e flautata, una voce giovane
per una persona che aveva già accusato sia te che Ianthe Tridentarius
di pubertà disdicevole, e ora bucava i timpani. «Ottanta. È vergogno-
so – avreste già dovuto capire l’antifona quando è arrivata la chiama-
ta per i nuovi Littori. Il suo trono è altrove, ed è là che deve fare ri-
torno, e ci sarebbe dovuto tornare trent’anni fa. Ora sei l’Ammiraglio
Sarpedon? Veramente? Ti chiami Sarpedon, giusto?»
«Sì» rispose l’ammiraglio, il cui titolo era stato pronunciato dal-
la Littrice col medesimo tono che avrebbe usato per dire Appestato
Capo. «E sono passati… vent’anni dal nostro ultimo incontro, Vene-
rabilissima Santa?»
«Suppergiù» concordò la Venerabilissima Santa, il cui epiteto ono-
rifico era stato enunciato dall’ammiraglio con un lieve e urbanissimo
sottotesto di figlia di puttana. «Comunque sia, voi ve lo siete tenu-
to per ottant’anni, mentre il Mithraeum ha patito la sua assenza per
un secolo.»
«State invocando il silenzio del trono» disse Sarpedon. «Lo state
rimuovendo dall’Impero.»
«Faccio un po’ fatica a invocare la voce del trono. Saremo a qua-
ranta miliardi di anni luce da qui.»
L’ammiraglio replicò, da sotto a un sottile strato di ghiaccio: «Ha
espresso, senza alcun segno di incertezza, il suo interesse per que-
sta guerra».
«Può benissimo coltivare un sollecito interesse personale da qua-
ranta miliardi di anni luce di distanza» disse la Santa della Gioia, no-
nostante avesse insinuato il contrario con veemenza. Il suo appellati-
vo cominciava a suonarti sempre più ironico. «Io non mi vergogno di
mignolo una delle volute, molto piano, come se temesse di farle male.
Gli ossuti ditini fetali e le foglie che gli cingevano i capelli continua-
vano a ondeggiare in una brezza inesistente. «Una splendida esecu-
zione… i livelli di anidride carbonica nel fissante sono quasi perfetti»
aveva commentato, tirando fuori una penna dal taschino. «Era trop-
po brava per morire per una cosa del genere, Mercy.»
«Non le ho detto di morire» sbottò Mercymorn. Con un clunk im-
provviso, il portellone spalancato della navetta cominciò a scendere,
cigolando nel punto in cui la rampa era scomparsa. Si incastrò nel
suo alloggiamento con un ka-chunk. «Una fanfara atriale assoluta-
mente eccessiva. Ti basta chiedere una spremuta d’arancia e l’equi-
paggio delle tue orrende ammiraglie parte in tromba col martirio.»
«Dirò a Sarpedon di assegnarle una decorazione» commentò lui,
pigiando sul suo tablet. «Dovrà farselo bastare. Non è proprio un rin-
graziamento adeguato per essersi quasi dissanguata.»
Il comunicatore vicino alla postazione di pilotaggio crepitò. La voce
dell’ammiraglio in questione disse con chiarezza: «Mio Signore, avete
il via libera per la partenza. Attendiamo il vostro ordine».
«Sganciare gli ancoraggi» disse l’Imperatore.
«Ancoraggi in fase di rilascio» rispose l’Ammiraglio Sarpedon. Poi
si schiarì la gola e attaccò con quella che ora ritenevi la preghiera più
comune: «Che il Re Imperituro, riscattatore della morte, flagello del-
la morte, vendicatore della morte, vegli sulle Nove Case e oda la loro
gratitudine…». E alle sue spalle le voci metalliche dell’intera squadra
della baia d’atterraggio si unirono al coro: «Che in ogni dove tutti si
affidino a lui…».
Ti eri girata per sbirciare dall’oblò. La penombra cavernosa dell’Han-
gar di Attracco Quattordici si stava rischiarando: stavano aprendo un
qualche condotto esterno e la navetta stessa si stava spostando lun-
go un binario, come se la stessero offrendo in sacrificio allo spazio.
La nerezza vellutata del mondo esterno si spogliò di fronte a te; stelle
fredde bruciavano in lontananza. Il Corpo si fermò in piedi accanto
a te, di punto in bianco, e ti ci volle tutto il tuo autocontrollo per non
allungarti a stringere l’orlo del suo sudario bianco e sporco, la carne
pallida e increspata del suo polpaccio. Stavi partendo – per dove non
lo sapevi – e non sapevi cosa provare.
Ianthe teneva gli occhi bassi, modesta e docile, come se quella ri-
Per fortuna Ianthe si era dimostrata ancor più petulante, e una fat-
tucchiera corporale fino al midollo, aggiungendo: «Non è neanche una
barriera fantasmatica sofisticata. Cioè, è splendida, impeccabile fin
nella coagulazione. Ma io facevo già cose del genere a cinque anni».
«Quel repellente fantasmatico impedirà alla nostra nave di frantu-
marsi» disse l’Imperatore. «Quel repellente fantasmatico farà scap-
pare urlando ogni singolo spirito solitario nel raggio di chilometri.
Per un po’.»
«Un minuto e trentatré secondi» disse Mercy.
Lui precisò: «Più o meno.»
L’Imperatore venne a inginocchiarsi davanti a te e a Ianthe, come
si era accovacciato di fronte a Mercymorn poco prima. Ti feriva an-
cora in una maniera indefinibile, vederlo degradarsi così: era come
se ti stesse sottoponendo a un test di obbedienza, sentivi di dover-
ti appiattire al suo cospetto, abbassandoti il più possibile. L’anello
candido attorno alla sua pupilla era bianchissimo. «Il vostro com-
pito sarà semplice, com’è la maggior parte delle cose molto diffici-
li. Io spingerò tutti noi nel Fiume, e trascinerò con noi la nave. Voi
dovrete custodire le vostre menti: posso portare i vostri corpi fisi-
ci, ma le vostre anime non li accompagneranno, non senza che le
teniate ben strette.»
«Trasferenza fisica oltre i confini liminali» avevi mormorato, sor-
prendendoti di quella conoscenza che sgorgava da te, come se non
fosse la tua. «È profonda magia spirituale della Quinta.»
«E io benedico la Quinta Casa e benedico anche la loro memoria
di ferro» disse l’Imperatore. «Si addentrano abbastanza per attirare
i fantasmi perduti. Restano sul confine e sventolano pezzi di carne e
materiale d’ancoraggio. Ma non si avvicinano alla riva.»
Con un tono interrogativo che ricordava molto di più quello della
sua sorella gemella, Ianthe disse: «Ma se venisse applicato a livello uni-
versale, rivoluzionerebbe la flotta. Non si consumerebbe carburante o
energia, si viaggerebbe all’istante. Saremmo veramente inarrestabili.»
Mercy scoppiò in una risata squillante e malevola. «Un necroman-
te potente all’apice delle sue capacità durerebbe dieci secondi nel Fiu-
me» disse Dio, rialzandosi in piedi. «La magia spirituale è la livellatrice
definitiva. La sua thanergia verrebbe prosciugata nella prima mancia-
ta di secondi… seguita dalla sua thalergia e poi dalla sua anima. Non
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mando le esche per la Bestia, ero là, e ho pensato tra me e me: “Mio
Dio, che cosa ne faremo della tua collezione di ceramiche? C’è così
tanta roba”.»
Ti eri coperta il viso con le mani, di nuovo spaventata dal non riu-
scire a chiudere gli occhi. Quando avevi schiacciato le palpebre ver-
so il basso, la luce era cambiata, e – questo te lo ricordavi, come se
l’avessi già fatto prima – avevi perso la percezione della complessità
visiva. La navetta era sparita, ma l’acqua no, e i corpi erano ovunque.
Ti eri smarrita in una faglia profonda. Delle pustole incandescenti e
sanguinolente ti erano spuntate ribollendo sulla pelle, ed eri conscia
di te stessa, non a livello strutturale ma in qualità di bagliore malatic-
cio: un bagliore malaticcio fra altri bagliori malaticci, uno, due, tre,
quattro, cinque, tutti attorno a te, uno sotto. L’urlo distante si smor-
zò. Ti eri resa conto che veniva da te.
Avevi aperto gli occhi. Osservavi la distesa di corpi dei bambi-
ni morti della Nona Casa, decifrando te stessa come un agglome-
rato ovarico di duecento capocchie di spillo luminose. Eri un sigil-
lo: eri un amalgama di fuochi. Il fluido ti era stato risucchiato dalle
cavità nasali, e con esso il cervello, presto disgregato. Eri stata dimi-
nuita. Eri una gola, eri un forno. L’acqua bolliva, incandescente, e la
pelle sciolta ti si staccava di dosso in fettucce arrossate, sempre più
piccole; le capocchie di spillo ribollivano dentro di te, e i corpi bolli-
vano fuori: eri la fame senza uno stomaco. Percepivi la depressione
thanergica dentro la bara, la curva di una mandibola infantile, l’arco
pallido di una bocca morta. Non capivi di essere in piedi, non capi-
vi di esserti messa a camminare, ma stavi facendo entrambe le cose.
Stavi morendo in quell’acqua calda; qualsiasi entità bramasse la tua
tuta di carne poteva prendersela.
«Harrowhark» aveva detto Dio. «Qui… qui da me, piccola. Non oso
toccarti. Vieni verso di me. Verso di me… Mercy, per l’affetto che ci
lega, non premere quel bottone.»
«Trenta secondi» disse Mercymorn, e più piano: «Mio Signore, stai
condannando le tue Case».
Riuscivi a vedere tutto. La navetta era un nido da quattro soldi,
una fusoliera e un rivestimento di metallo, impacchettato con plex e
gel antiattrito; fragile, in una maniera allarmante. Riuscivi a vedere
in una molteplicità di direzioni. Potevi scorgere la barriera sanguigna
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– quell’idiota con ogni probabilità era lo stesso Ortus. Alla luce del
sole che gli faceva lacrimare gli occhi, le ferite alabastrine dell’Ana-
coreta si erano trasformate in grossi rivoli di pittura. Non c’era be-
nedizione di un sacerdote della Prima che gli avrebbe garantito l’ac-
cesso all’Anastaseo, la tomba riservata ai guerrieri: era probabile che
Ortus sarebbe morto col sangue fresco di un eretico a bagnargli la
spada, se solo avesse trovato un eretico molto lento. «Quella è l’uni-
ca benedizione che desidero.»
Gli altri chierici bisbigliarono. «Incredibile» commentò Maestro.
«Lo adoro. Ti benedico in tal senso, doppiamente. Ora, qualcuno po-
trebbe andarmi a prendere la scatola?»
Quella che seguì fu una lunga e incomprensibile parata di paladini,
a cominciare da Marta la Seconda. Quando Maestro esclamò: «Ortus
il Nono» Ortus andò a ritirare il suo premio e fece ritorno per pre-
sentarlo alla sua necromante, come prescritto. Posò fra le mani guan-
tate di Harrow un anello con un’unica chiave assicurata al ferro: una
chiave di una noia e di una banalità singolari, con due denti e una te-
sta triangolare. Rimase a gravarle, pesante, sulla pelle nera del palmo.
L’omino scese dal suo sgabello, dai cui lati stava spuntando una
ragguardevole quantità di imbottitura – pareva un bombolone alla
crema su cui qualcuno si era seduto. Disse, sereno: «Ora vi illustrerò
qualcosa di nuovo, qualcosa che non dovreste sapere: riguarda la Pri-
ma Casa e il complesso di ricerca. La base della Casa di Canaan ri-
sale a prima della Resurrezione. Inizialmente abbiamo costruito ver-
so l’alto, per sottrarci al mare; poi abbiamo costruito verso l’esterno,
per proiettarci verso la bellezza… Questo era destinato a diventare il
palazzo del Maestro Clemente, dove avrebbe potuto lavorare, ospi-
tare la sua corte e vivere per sempre, supervisionando tutte le riedifi-
cazioni che si sarebbero dimostrate necessarie. Perché la Resurrezio-
ne non ha resuscitato ogni singolo oggetto rotto, come ben capirete,
e non ha creato nulla di nuovo. Si prospettava un duro lavoro… ag-
giustamenti, progetti, e furono necessarie grandi quantità di sangue,
sudore e ossa. Ma furono anni splendidi, anni felici. E quella fu l’epo-
ca antecedente ai Littori».
Bevve un sorso di tè, si concesse un rapido sospiro di soddisfazio-
ne e proseguì: «Erano discepoli, in principio. Dieci esseri umani nor-
mali della Resurrezione, anche se la metà di loro era già benedetta
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esserlo per te; le candele erano incartate in colori diversi, il che le fa-
ceva somigliare a gambi di fiori mascherati, o a lunghe dita inanella-
te. Un grande agglomerato di quelle candele splendeva all’estremità
dell’altare centrale, e sull’altare centrale c’era un corpo.
Eri a un funerale. Ne conoscevi la sposa; l’avevi uccisa tu.
Sedevi su una panca nella cappella dove giaceva il corpo cristal-
lizzato nel tempo di Cytherea la Prima. Per sopravvivere all’indeli-
catezza della tua presenza, avevi spedito il tuo cervello a veleggiare
altrove. Ti eri cacciata le mani nelle profondità velate delle tue ma-
niche madreperlacee, sprofondandoci dentro in modo che quella
garza nevosa color arcobaleno ti nascondesse il viso. Persino la vaga
pressione della lama contro la schiena non faceva che spalancare la
voragine nel tuo petto, facendoti battere il cuore all’impazzata come
se stesse cercando di costruire una barricata – perlomeno, però, lo
spauracchio di metterti vezzosamente a vomitare ti manteneva pre-
sente e sana di mente; non eri ancora così andata. Si trattava sempli-
cemente del quarto funerale a cui avevi presenziato e del cui cada-
vere eri responsabile.
La morta sull’altare era coperta di bocciolini di rosa, la rivestiva-
no in uno spesso strato, un bianco rosaceo come un osso nato da
una manciata di secondi. Le fasciavano le braccia; le spuntavano fra i
pallidi ricci castani e le schiacciavano i piedi. Sulla dolce bocca mor-
ta aleggiava un broncio mesto. Tanto tempo prima ti saresti messa
in posizione sull’inginocchiatoio – pelle umana morbida ed elastica,
burrosa, splendida – e avresti ringraziato il Sepolcro per aver vissu-
to abbastanza da assistere alla morte di un Littore, santificato in quel
modo, in un luogo simile. Ti saresti accostata i grani del rosario alla
bocca, stringendo una nocca fra le labbra, la nocca della tua bisnon-
na che rappresentava la Roccia, l’Universo e Dio. Ora ti stavi limitan-
do a riflettere sulla possibilità di svenire ancora.
Mercymorn era inginocchiata davanti all’altare. La lucente man-
tella bianca le ricadeva sulle spalle, e piangeva – non c’erano suoni
articolati in maniera udibile, ma le spalle sobbalzavano come se ogni
singhiozzo fosse un’esplosione. Digrignava i molari sonoramente, così
tanto da poter passare per noci buttate in una centrifuga. La Santa
della Gioia non poteva che piangere con furia e disappunto, non sa-
resti riuscita a immaginarla in altro modo.
mani. Uno stilo gli cascò dalla tasca e rotolò sul pavimento lustro di
nere piastrelle ossee. Era la prima volta che aveva dato l’impressio-
ne di essere mortale. L’umanità l’aveva sfiorato brevemente, come
un’ombra di passaggio.
Poi Augustine disse, senza troppa pertinenza: «Non l’avrei defini-
to “zuccheroso”. Per sua fortuna Cythe-re-a Love-day suonava bene.
Insomma, il mio allittererebbe in una maniera che non avrei potuto
– o non potrei? – tollerare».
«Lasciatemelo dire» fece Mercy immediatamente, comportando-
si come se Augustine non avesse mai proferito parola. «Non ho mai
pianto Loveday Heptane. Ha fatto una sola cosa buona in vita sua, e
lo sapeva anche lei.»
«Recitale l’eulogia» disse l’Imperatore, da dietro le mani. «Per ca-
rità di Dio, recitagliela comunque. Un’eulogia per entrambe.»
Augustine si allungò e strinse la spalla dell’uomo che era diventa-
to Dio e del Dio che era diventato uomo e che, evidentemente, con-
tinuava a invocarsi da solo; il Littore si alzò in piedi con un grugni-
to, come se sentisse male, e andò a piazzarsi ai piedi dell’altare. Ora
ti rendevi conto che sì, era alto, anche se non particolarmente impo-
nente. Ma c’era qualcosa di estraneo alla vita reale nei lineamenti del
suo viso, come se una volta avesse visto qualcosa di terribile che gli
era rimasto incastonato nelle guance e sulla fronte. Si scostò il man-
tello della Prima Casa e infilò i pollici nei passanti della cintura dei
pantaloni eleganti – il manto bianco gli fluttuava attorno alle spal-
le come un soprabito, impalpabile e bellissimo – e si schiarì la gola.
«Cytherea era stupenda» disse con semplicità. «Diecimila anni e
non le ho mai sentito pronunciare una sola parola cattiva, a meno che
non si trattasse di qualcosa di molto divertente. Ci amava senza riser-
ve, tutti quanti, il che dimostrava sia la sua pazienza che le sue enor-
mi capacità… è stata una valente Littrice e un’adorata Mano… e Lo-
veday ce l’ha donata, quindi che Dio benedica Loveday, immagino.»
Mercymorn posò la mano vicino alle roselline paffute. Stava cer-
cando di contenersi, ferrea. La sua voce si fece flebile e stranamente
sottile quando disse: «Poteva essere una sciocchina insopportabile.
Ma in generale era un’adorabile sciocchina insopportabile, ed è stata
una morte indegna di lei».
Rivolse lentamente quegli occhi tempestosi e sognanti verso le
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tasse così evidente. Prese l’innocuo pezzo di carta che Abigail Pent
le aveva dato da esaminare e lo aprì.
Quando vide quel che c’era scritto le parve che il suo sguardo fos-
se diventato stroboscopico; la calligrafia rossa e marcata pareva flut-
tuare sulla pagina, le lettere si affollavano e addossavano le une sul-
le altre mentre leggeva:
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tro, finché l’acqua non ti arrivava alla vita e potevi riaprire gli occhi.
Riuscivi a vedere il punto in cui l’anima del pianeta si stava dibatten-
do. I fantasmi si erano scansati come se un sollecito colpo di spazzo-
la li avesse rimossi da quell’impetuoso rivolgimento pneumatico. Una
Bestia Minore. Niente Bestia Resurrezionale, ovviamente: quel ghast
neonato avrebbe avuto bisogno di almeno mille anni di macerazioni
malintenzionate per diventare qualcosa di anche solo lontanamen-
te paragonabile a una Bestia vera. O così ti era stato riferito. Tu una
Bestia vera non l’avevi ancora vista. Ora stringevi tra le mani lo spa-
done, che si era fatto leggero come il perdono. Ti eri issata in posi-
zione eretta e, rivolta alle ribollenti acque grigie, fradicia fino all’osso
di quella spuma sporca e sanguinolenta, avevi cominciato ad avan-
zare verso il maelstrom.
Sapevi, senza arrischiarti a lanciare un’occhiata alle tue spalle, che
Mercymorn la Prima era ferma sulla riva, intenta a osservarti con aria
critica e con l’orlo delle perlacee vesti Canaanite ormai zuppo. Era
possibile che stesse accogliendo con una smorfia l’allargarsi dell’alo-
ne. Lì nel Fiume i suoi occhi burrascosi si facevano indagatori, due
gorghi di un grigio vermiglio sempre più sgranati, dolorosi da guar-
dare. Eri contenta che Mercy potesse constatare la tua attitudine agli
spiriti, un’abilità che ti stavi impegnando a morte per perfezionare.
Eppure, eri anche contenta che non si avvicinasse troppo, ti avrebbe
distratta mentre ti avvicinavi a quell’anima che sussultava e si contor-
ceva: un guazzabuglio da incubo di organico e inorganico, che nel suo
complesso altro non era se non un miraggio fasullo di materia spiri-
tuale. Era una massa di facce rocciose sanguinolente e in via di sgre-
tolamento; un esapode con zampe pelose da insetto, irte di aculei ri-
vestiti d’argilla. Era in prevalenza grigio, ma di un grigio maciullato,
viscido e sabbioso, che suppurava come qualcosa di organico ma so-
migliava comunque alla pietra. E ora stava scappando.
Mercymorn si era messa a strepitare dalla riva, la voce un urlo
smorzato dal vento e dallo sciabordare stridulo delle onde rimesco-
late: «Se la sta battendo!!!».
Tu avevi rinfoderato la spada e ti eri tuffata. Meglio stare vicino
alla creatura che dover gestire spiriti importuni. La superficie dell’ac-
qua si divideva al tuo passaggio, torbida e untuosa – odorava di san-
gue e sapeva di fogna. Ti eri aperta il polso e ti eri lavorata i dista-
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larino d’osso che faceva capolino dal colletto della tua camicia, l’estre
mità superiore del tuo esoscheletro fatto in casa. «Potresti pensarci
tu, Harrowhark. E forse te lo lascerei addirittura fare, visto che sia-
mo commilitone. Visto che siamo intime.»
Ti eri alzata in piedi, più che disgustata. Ti eri chinata a raccoglie-
re lo spadone, con l’esoscheletro che scricchiolava. «Non sono anco-
ra impeccabile, quando si tratta di carne» avevi puntualizzato. «Non
dico che non mi ci avvicinerei… ma tu vuoi qualcosa che io non pos-
so darti. E nemmeno si tratta di qualcosa che sono preparata a darti.
In tutta onestà, il fatto che tu me l’abbia chiesto mi rivolta abbastan-
za. C’è ancora della zuppa in cucina?»
«Oh, in abbondanza» aveva detto Ianthe, che non sembrava esser-
si offesa per il tuo rifiuto. Era una cosa assolutamente impossibile da
stabilire, con Ianthe. «L’ho fatta io. È obbrobriosa.»
Esistevano forse due alleate più improbabili di te e lei, una la fi-
glia del mistico Drearburh, l’altra della vanagloriosa Ida? Non era
un legame nato dalla stima reciproca; se non altro, più approfondi-
vi la conoscenza di Ianthe, meno incline diventavi a scambiarla per
una persona piacevole. Si presentava come una torta eccessivamen-
te guarnita: era ricoperta da uno strato così spesso di glassa, di fon-
dente e di giuggiole che per trovare un po’ di sostanza sarebbe ser-
vita una seria operazione di scavo. Come necromante, era un genio,
anche se eri convinta che facesse troppo affidamento sulle scorcia-
toie e gli stratagemmi. Aveva una mente di un’acutezza eccezionale.
Non temeva il rigore. Ma era anche ossessionata da quello che pote-
va celarsi al di sotto del Fiume e, anche se detto da te poteva risulta-
re un filino ipocrita – da che pulpito –, era una scorbutica del cazzo.
Ma era una scorbutica che aveva conquistato il Littorato. Una scor-
butica che ora eri tenuta a chiamare sorella, anche se pensavi che fa-
cesse più male a lei chiamare sorella qualcun’altra rispetto a quanto
urtasse te. Era una scorbutica che un’entità defunta aveva rispetta-
to a sufficienza da includerla nelle operazioni. Una scorbutica che ti
aveva trovata, quasi disorientata a morte, fuori di te e precipitata in
disgrazia dopo aver trapassato con la tua spada lo sterno di una don-
na morta, e aveva commentato semplicemente: «Dovevi staccarle an-
che le braccia». Forse esistevano alleate più plausibili, ma la tua non
ti aveva ancora ammazzata.
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E in tutti e due i casi la colpa era solo tua, e avresti dovuto saper-
lo. Il primo scivolone riguardava la faccenda della tomba di Cytherea.
L’Imperatore aveva deposto il cadavere di Cytherea la Prima in
una piccola cappella che si apriva sull’atrio centrale della zona resi-
denziale, un po’ troppo vicina per farti sentire a tuo agio. L’atrio era
un pozzo da cui si irradiavano dei condotti-corridoio che portavano
ad altri anelli della stazione. Il pavimento era un sublime mandala di
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ossa sottovetro – ossa di mani –, ogni metacarpo era tinto del colo-
re corrispondente alla sua Casa, in un tripudio di sfumature che an-
davano dal bianco allo scarlatto per la Seconda e dal bianco al blu ol-
tremare per la Quarta. Attorno al mandala c’erano delle tesserine di
pietra marrone che ticchettavano seccamente quando le si pestava.
Non c’erano delle vere e proprie finestre, solo delle potenti luci elet-
triche inserite in fori rotondi sul soffitto e, nel mezzo, pendeva un
leggiadro lampadario di cristalli bianchi. La sala era sostenuta da tre
mastodontiche colonne dagli spigoli rivestiti d’acciaio, in una caco-
fonia di cavi esposti sotto al vetro temperato. Quei cavi erano un fa-
sciame d’ossa, con filamenti di grasso lucido avvolti attorno ai fili di
rame, a rimpiazzare il plex; trasudavano thalergia pura e il loro sco-
po non ti appariva ancora palese. Di tanto in tanto, l’osso intero di un
braccio faceva capolino dal suo nido di cavi foderati di grasso giallo
e morbido. Ne avevi desunto che non si trattasse di un altro monu-
mento alla memoria.
Sul lato della sala rivolto a est c’erano nove arcate decorative. Ave-
vi ormai analizzato con attenzione ogni singolo arco. Le piastrelline
marroni del pavimento proseguivano sulle pareti, incastonate fino
a mezza altezza in quelle arcate, diventando poi frammenti di ve-
tro di ogni possibile colore. Al centro di ogni vortice policromo c’e-
ra l’alloggiamento per una spada. Alcuni alloggiamenti erano vuoti,
altri reggevano degli stocchi. Uno in particolare finiva sempre per
attirarti: uno stocco nero con l’elsa a cesto fatta di cavicchi d’eba-
no. All’estremità di ciascun cavo c’era una zanna canina, una sola,
e in fondo – il pomolo! – c’era un nodulo morbido e consunto d’os-
so tinto di nero.
La sala laterale in cui avevano piazzato Cytherea non era altret-
tanto decorata. Dalla porta sempre aperta la si poteva scorgere diste-
sa su una barella, circondata da candele che non parevano mai spe-
gnersi o squagliarsi, ricoperta da quei boccioli di rosa rubicondi che
a loro volta non sembravano mai aprirsi o decomporsi. In quei due
miracoli avevi individuato il tocco del Divino Imperatore. Di tanto
in tanto lo vedevi là dentro, impegnato in una conversazione som-
messa col cadavere, come se stesse parlando a un bambino che dor-
me; anche Augustine ci andava, qualche volta. Mercy in un’occasione
sola. Non avevi mai visto l’altro. Anche tu ti ci eri avventurata spes-
va lanciato un’occhiata strana. Aveva detto: «No». E poi, con più gen-
tilezza, come se avesse ricavato una qualche illuminazione dalla tua
espressione: «No, svitata. Niente».
E non gliel’avevi più chiesto.
Avresti potuto scrivere molto altro: “Gli occhi non sono più torna-
ti lilla, dopo il Fiume. Il braccio continua a essere un punto debole.
Piange ancora di notte. È impossibile che si tratti di anemia, conside-
rando la dieta costituita principalmente da carne rossa e mele. Caren-
za regolare di sonno. Invidia il mio legame con Maestro. Sa troppo”.
Le altre sezioni erano più nutrite:
Preferisce Ianthe.
Una fonte di perpetuo fastidio per te. Non eri mai stata la preferita
di nessuno, in qualunque ambito, e non intendevi cominciare ades-
so. Ma l’idea che la Principessa di Ida avesse trovato il modo di car-
pire l’affetto di un’altra persona ti provocava un travaso di bile. Eppu-
re, sin dal principio, Augustine aveva manifestato un’inclinazione per
lei, e lei, dal canto suo, aveva sfoderato tutto il suo arsenale di sorri-
sini civettuoli, ciascuno dei quali pareva aver trascorso un mese ad
aggirarsi nel deserto prima di essere catturato e impiegato per quel-
lo spettacolo circense.
La si vedeva spesso al suo fianco, completamente assorbita dalle
perle di saggezza elargite dalle labbra del Santo della Pazienza; beve-
va quantità calamitose di tè rovente con un’espressione analoga alla
sua, cosa che ben poco si intonava ai suoi occhi cerchiati e alla boc-
ca bianca; e, anche se con meno tranquillità, accoglieva i suoi inse-
gnamenti nel lungo salone d’addestramento con le sue tavole di le-
gno lucido, un legno così nuovo da farti tentennare ogni volta che
ci appoggiavi sopra un piede. Solo in quelle circostanze parevano in
disaccordo, visto che il cosiddetto Santo della Pazienza finiva sem-
pre per esaurirla ogni volta che Ianthe prendeva in mano uno stocco.
Fumava le sue sigarette pesantissime e la metteva alla prova. Lei
affrontava sempre le esercitazioni con la spada con una noia incre-
dibile: «Pensavo che il punto fosse proprio quello di delegare questo
aspetto, fratello maggiore» l’avevi sentita commentare più di una vol-
ta. Lui non ci metteva molto ad arrabbiarsi. Per quel poco che pote-
vi capirne tu, lo stile di Ianthe era perfetto. I suoi movimenti eccelsi.
Non faceva mai cadere la spada né mai ci pasticciava, il che dimo-
strava ancora una volta quanto poco fosse quel poco che potevi ca-
pirne tu. Ma c’era qualcosa che a lui non garbava in quel braccio de-
stro che brandiva la spada.
«Molla» gli avevi sentito dire una volta.
Una volta che eri esausta, avevi chiesto a Ianthe: «Non ti dà sui ner-
vi stargli continuamente dietro come fai sempre? Raccogliere la sua
roba? Sorridere scoprendo bene i denti?».
«I miei denti sono di un biancore estremo e me li spazzolo con co-
stanza, quindi non vedo alcun problema nello sfoggiarli» aveva ri-
sposto Ianthe.
«Accendergli le sigarette e cinguettare “Che argomento affascinan-
te, fratello maggiore”.»
«Intendo adottare quell’abitudine» aveva detto Ianthe. «Sigarette!
Su una stazione spaziale! Che sfoggio di baldanza!»
«Ti svegli mai pensando tra te e te: “Quand’è che la Principessa di
Ida è diventata questo servile ammasso di melma?”.»
Lei ti aveva sorriso, con quei suoi denti ben spazzolati e candidi.
Gli occhi, che un tempo erano stati di un gelido color lavanda, ora
erano azzurri, punteggiati di pagliuzze castane, più canzonatori che
mai. «Quasi tutti i giorni» ti aveva detto. «Oh, per l’amor del cielo,
Harrowhark, sorridere e star lì ad ascoltare delle storie – per altro in-
teressanti – sui suoi diecimila anni non è un supplizio. Soprattutto se
la cosa potrebbe convincerlo a pensarci due volte prima di abbando-
narmi a una Bestia Resurrezionale pronta a divorarmi. Sostenere la
truffa di Corona per più di vent’anni mi ha insegnato che la vergogna
è un privilegio. Siamo cuccioli, tu e io: io con la mia zampetta sfigata
e tu che insisti di potercela fare da sola anche se ti mancano tre gam-
be. E che Dio ci aiuti entrambe, perché siamo circondate dai lupi.»
Ianthe aveva concluso quell’allarmante discorsetto dandoti un buf-
fetto sotto al mento. Eri troppo oltraggiata e allibita per schivarla.
Aveva proseguito: «Mostra loro il tuo lato più malleabile, Harry. Po-
trebbe salvarti la vita».
Mago spiritista.
teranno molto meglio di quanto possiate fare voi perché non hanno
paura degli Araldi, sono immuni. Ho vissuto per un tempo lunghissi-
mo ma, quando vedo un Araldo, le ginocchia mi diventano comunque
di burro. Terribile. Il mio paladino se ne frega. Ho rimosso la parte di
lui che avrebbe potuto farlo quando sono diventato Littore… ecco il
vantaggio fondamentale di cui dispone. Il vostro corpo non può – e
non riuscirebbe a – usare la necromanzia senza di voi. Il potere non
scorre in ambo le direzioni.»
Ianthe aveva detto: «Ma se siamo nel Fiume, allora gli spiriti…».
«Siete una proiezione. Non possono nuocervi» aveva risposto il
Re Imperituro. «E non li vedrete nemmeno. Nessuno spirito si avvi-
cinerà mai a una Bestia sommersa.»
Si era appoggiato allo schienale della sedia. Dio aveva una postura
serena e distesa, le spalle leggermente spioventi ma dritte; era mobi-
le e vivace. In qualche modo, sembrava sempre più vivo di chiunque
altro nei paraggi, ma comunque dissociato rispetto a quello che tu
consideravi “vivere”. Un’eclissi a forma di uomo. «E poi la combattia-
mo» aveva detto con semplicità. «Come combattiamo contro qual-
siasi altra cosa.»
Augustine aveva aggiunto: «La respingete con le barriere. Fate a
pezzi tutto quello che spedisce nella vostra direzione. Fate appassi-
re quella falsa pelle. Avrà una forma, così come anche noi abbiamo
una forma, nel Fiume, ed è vulnerabile come lo siamo noi. Dovete far
presa sull’anima, saldamente, e fare a pezzi la maledetta. Alla fine, se
la sposserete, riuscirete a esorcizzarla completamente. È una redivi-
va… la rediviva di un inferno molto specifico».
L’Imperatore aveva detto: «Una volta sconfitta, può essere ricaccia-
ta a forza giù nell’abisso, e da là non potrà fare ritorno».
«Speriamo» commentò Augustine. «Oh, Signore, lo speriamo
proprio.»
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Paladina controversa.
Anatomista.
* * *
188
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mento che portava il suo nome e dove giacevano le ossa sacre degli anti-
chi custodi del sepolcro e dei caduti in battaglia. Scoprire che era esistita
veramente ti aveva scossa nel profondo; le stanze che occupavi – quel-
le stanze vuote, incolori e silenziose – erano state predisposte per lei.
Mentre te ne stavi seduta lì come facevi spesso, muta e immobile,
la statua di te stessa, di fronte all’Imperatore delle Nove Resurrezio-
ni, intrappolata tra l’insofferenza e il piacere di ascoltare le sue paro-
le, lui non aveva aspettato che fossi tu a chiederglielo. Aveva detto:
«Fra tutti noi, solo Anastasia l’ha sbagliato. Aveva fatto troppe ricer-
che. Tipico di Anastasia. Ci aveva visto dentro dei sentieri che sem-
plicemente non esistevano. Una volta – dopo aver ripulito tutto – mi
aveva chiesto di porre fine alla sua vita. Ma le ho ovviamente detto di
no. Aveva ancora così tanto da dare. Successivamente le avrei chiesto
qualcosa di molto più grande e assai più tremendo. Avevo un corpo
e mi serviva una tomba… potresti già essere al corrente del corpo,
Harrowhark, e ancor meglio conoscerai il Sepolcro».
In quel momento, il Corpo era in piedi vicino alla tenda che copri-
va l’oblò di plex che si affacciava sul campo di lenti asteroidi rotanti,
il manto madreperlaceo che le scivolava dalle spalle nude e flessuo-
se, ancora umida come se l’avessero appena estratta dal ghiaccio della
sua tomba. Eri rimasta a guardare una gocciolina d’acqua che le sci-
volava lungo la colonna vertebrale.
«Il sepolcro che doveva rimanere sigillato in eterno» avevi com-
mentato, trovando stranissime quelle parole. «La pietra che non do-
veva mai essere scostata. Quello che conteneva doveva rimanere se-
polto, inerte, con l’occhio chiuso e il cervello immoto. Ho pregato ogni
giorno affinché vivesse, ho pregato perché dormisse.»
La tua voce riemergeva, dragandoti il cervello, che ti dragava il cuo-
re, che attingeva dalle profondità untuose e imbrattate di sudiciume
della tua anima. Gli avevi chiesto: «Dio, chi avete sepolto?».
Maestro si era tormentato una tempia col pollice e poi si era tor-
mentato l’altra tempia con l’altro pollice. Aveva preso un biscotto e
l’aveva inzuppato nel tè ormai tiepido, poi l’aveva mangiato, aveva fat-
to mulinare il tè nella tazza e l’aveva rimessa giù di nuovo. «Ho sep-
pellito un mostro» aveva detto.
Dal lucore dell’oblò di plex, accanto a una tenda di twill bianco asso-
lutamente ordinaria, il mostro sepolto si voltò, lasciandosi rischiarare
dalla luce delle stelle immortali. La curva della sua guancia… le folte
ciglia nere che le incorniciavano gli occhi dorati… il solco, come l’im-
pronta di un pollice, che le premeva come un bacio sull’arco di Cupido…
ti eri accorta di esserti messa a tremare solo quando Dio in persona si
era allungato per immobilizzarti il polso, in modo che non ti rovescias-
si il tè sulle ginocchia. Ti aveva passato inutilmente un altro biscotto.
«Mangia, non è difficile» ti aveva detto, premuroso. «Prendi-
ne due, mettiamo su un po’ di riserve di grasso. Ti piace la poesia,
Harrowhark?»
«Non sono mai stata una fan» avevi ribattuto con fervore.
«La poesia è una delle ombre più spettacolari che una civiltà può
proiettare nel tempo» aveva detto lui. «Forza… mangia, ti fanno bene.
Ecco qua, farò finta di leggertela dal mio tablet, anche se in realtà è sta-
ta con me per più di diecimila anni. Questa è la mia parte preferita…»
Quella sera, il Corpo aveva acconsentito ad abbracciarti. Eri stata
vicinissima a percepire quelle lunghe braccia cingerti il collo, la vita.
Eri stata così vicina al sentire la pressione di quell’aggraziata fronte
contro la tua, quel corpo affusolato, snello e morto che gelava il tuo
fino a farti rabbrividire, anche se in realtà non percepivi alcuna fred-
da coscia cadaverica aderire alla tua dall’anca al ginocchio. Eri nel Mi-
thraeum da quasi otto settimane. La spada che avevi immerso nel tuo
sangue arterioso era incastonata nell’osso e ti gravava sulla schiena.
Non sapevi più com’era non avere paura.
Con la tua malaugurata buona memoria per la poesia riuscivi an-
cora a sentire la voce di Maestro, in quel suo tono basso, consolato-
rio, banale, che si arrotolava su se stessa nella tua testa:
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rowhark non aveva mai visto niente del genere; era un cilindretto esi-
le di rigido tessuto epiteliale mucoso.
«È favoloso, vero?» disse a Harrow, a mo’ di “salve”. Aveva una voce
dolce e melodiosa, solo leggermente affannata. «È un drenaggio bron-
chiale. Mi scende giù fin nei polmoni.»
«Non avevo mai visto nulla di simile» ammise Harrow.
«Non avreste potuto» commentò la Settima necromante, rapita.
«L’ha inventato lui, quando aveva quindici anni.»
A Harrowhark pareva una stupidaggine troppo grossa per poterci
credere, ma non c’erano margini di ambiguità nel gesto di quella don-
na. Con la mano, rivestita da una pelle sottile come carta, stava indi-
cando uno dei cadaveri senza volto, quello sprovvisto di stocco. Non
si sarebbe più dovuta sorprendere scoprendo che le relazioni tra tut-
ti gli eredi delle Nove Case parevano intime, o incestuose, o familia-
ri, o avverse. Non si sentiva esclusa. Si sentì a malapena disallineata
quando Abigail disse: «Sei sicura che sia lui, Dulcie?».
«Lasciami un minuto» fece – a quanto pare – Dulcie. Chi mai avreb-
be permesso di farsi chiamare “Dulcie” in circostanze che non pre-
vedessero la minaccia di tortura per affogamento era una domanda a
cui Harrow non desiderava che l’universo fornisse risposta. «Ho pre-
so un campione dal pomolo della porta; ho due impronte. Se corri-
spondono, quindi, potremo ricavarne qualcosa…»
La persona che rispondeva a quel ributtante Dulcie si riaccomodò
sulla sedia e il suo paladino la spinse accanto a uno dei corpi, e poi
vicino all’altro. Harrowhark la osservò lavorare. Raschiò con delica-
tezza il palmo di ciascuna mano in fase di irrigidimento, all’altezza
del polso – prelevò una porzioncina infinitesimale di ciascuna coscia,
sbottonando entrambi i pantaloni senza arrossire e senza fare nean-
che una smorfia – pulì quel che c’era sotto le unghie («Per la thaler-
gia batterica, sai») e, alla fine, sospirò.
«Quella a sinistra è Cam, quello a destra è Pal» sentenziò, dando
prova del suo desiderio di lastricare il mondo di diminutivi. «È stato
il Dormiente a farli fuori?»
«È solo un’ipotesi» fece Harrowhark, mentre quel bietolone del ma-
rito di Abigail commentava: «Lo spero proprio, che diamine».
«Magnus» disse Abigail, con una punta di biasimo.
«Be’, se non è stato il Dormiente, allora ci sono due pazzoidi con
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punta. Avevi freddo sotto alla camicia da notte, che ti stava già corta
di gamba quando eri partita per la Casa di Canaan e che ora era an-
cor più misera. Con l’esoscheletro che raspava sonoramente in quel
silenzio nero, avevi preso la spada foderata d’osso dalla posizione che
occupava nel letto accanto a te, come un’amante. L’avevi sollevata, ap-
poggiandoti la lama rivestita sulla spalla, di piatto, le mani avvolte a
coppa attorno all’estremità del manico – sempre pomolo, si chiama –
ma senza allacciarti lo stocco che l’Imperatore ti aveva dato.
Fuori dalle tue stanze, in corridoio, c’era più luce. La bassa pan-
nellatura gialla e splendente proiettava deformi ombre scheletriche
su e giù per i monumenti alla memoria del Mithraeum. Erano stati
smorzati fino ad assumere quella tenue sfumatura azzurro-ambrata
che si confaceva alle ore dedicate al sonno, trasmettendo consisten-
za più che visibilità. Per i tuoi occhi abituati al Drearburh, comun-
que, il corridoio era inondato di luce. Ecco perché l’avevi vista così
nitidamente.
Era ferma nel punto in cui il passaggio curvava, suppergiù a una
quindicina di metri da te. Delineava ombre strane in quel tenue chia-
rore giallo e freddo, il delicato bagliore candido della veste che splen-
deva come una lama di luce nell’acqua verde. Nei pallidi riccioli ca-
stani c’erano ancora rimasugli di petali e i suoi occhi erano troppo
scuri perché si potessero distinguere, ma ti ricordavi di quell’azzur-
ro da incubo. Cytherea ti aveva vista, si era girata verso di te e aveva
cominciato ad avanzare.
Quell’andatura! Quell’andatura strascicata, sconcertante e stri-
sciante! Il corpo faceva oscillare le braccia in avanti per darsi slancio,
le cosce rigide e le ginocchia bloccate, il braccio destro che si sposta-
va a tempo con la gamba destra, ridicolo, agghiacciante. Quelle dita
morte, fossilizzate, afferrarono un braccio ossuto avvolto in una pati-
na di foglia d’oro, con le nocche tempestate di ametiste come un nu-
golo d’occhi, e lo fecero cadere per terra. Cytherea ci inciampò – sen-
za che la testa smettesse di puntare verso di te, quegli occhi sbarrati
incollati ai tuoi – e il corpo si spalmò, sussultando sul pavimento. Il
cadavere cominciò ad avanzare come un verme, sospinto in avan-
ti dall’azione delle gambe, gli avambracci che sbatacchiavano sulle
piastrelle, speronando le ossa benedette di chissà quale fedele cadu-
to fino a levarle di mezzo, come se niente fosse. Pareva che una cala-
mita fosse stata conficcata in quella carne, una calamita che brama-
va una forza polare dentro di te.
L’accrocchio si avvicinò, strisciando. Tu eri una Littrice consa-
crata: Harrowhark la Prima, nona necrosanta del Re Imperituro,
erede di un potere conquistato a caro prezzo che bruciava dentro
di te come una fusione. Definirti una delle necromanti più poten-
ti dell’universo non sarebbe stato un atto di arroganza. Avevi lan-
ciato un’occhiata a quell’inesorabile e mostruosa diatriba di arti e
te l’eri svignata.
Eri tornata precipitosamente nei tuoi alloggi e avevi chiuso la porta.
Ti eri grattata l’interno della bocca – cavando sangue con le unghie,
morsicandoti la lingua – e avevi spalmato la tua saliva arrossata sulla
porta, tracciando frettolosamente i vortici di una barriera sanguigna,
spingendo senza riflettere anche una seggiola sotto alla maniglia. Ti
eri buttata per terra, col cuore che si dimenava contro le sbarre della
prigione della tua cassa toracica.
C’era solo silenzio. Il tuo corpo era la fonte principale di rumore:
il tuo respiro strozzato, il sangue che pompava chiassoso, i denti che
stridevano. Tutto il resto rimaneva in un buio e in un silenzio profondi.
E poi, dalla porta, quella porta sigillata da una barriera che avreb-
be dovuto rovesciare i suoi teoremi verso l’esterno al minimo tocco
di una magia estranea – dalla porta arrivò il suono flebile di qualcu-
no che gratta l’acciaio con le unghie. La maniglia si abbassò sull’inte-
laiatura, colpì la sedia e si bloccò.
Un vasto silenzio, oleoso. Poi un altro po’ di quel clangore dispe-
rato. E dopo: il nulla.
Non eri in grado di stabilire per quanto tempo fossi rimasta cori-
cata sulle fredde mattonelle di vetro, la fronte schiacciata in un tur-
bine rosso contro il vetro d’ossidiana limpida, un pugno aggrovigliato
nella trama grossolana del tappeto. Eri riuscita a misurare il trascor-
rere del tempo solo quando le impostazioni abitative si erano rimesse
in moto e i pannelli distribuiti per la stanza avevano diffuso l’illumi-
nazione pre-risveglio all’obiettivo di imitare un’alba circadiana. Ave-
vi freddo e tremavi sotto all’esoscheletro, con le cuticole ossee che ti
tartagliavano contro la pelle. A un certo punto ti eri alzata in piedi,
meccanicamente, ed eri tornata a stenderti a letto. Non c’era nient’al-
tro che potessi fare.
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Avevi visto quel cadavere che camminava. Ora avresti reagito. L’ac-
ciaio della porta era vicinissimo alla tua faccia, appannato dal tuo fiato.
Con un movimento repentino, l’avevi aperta con una spinta.
Ti eri ritrovata di fronte a Ortus il Primo, la schiena scoperta rivol-
ta a te. Portava un paio di pantaloni del pigiama di flanella morbida,
nient’altro. Riuscivi a vedere gli sporgenti nodi tumorali della sua spi-
na dorsale, i fasci di muscoli che gli sormontavano le spalle. Il corpo
inerte di Cytherea era stato tirato su in piedi, con le dita che penzo-
lavano sull’avambraccio di lui, il candore del viso da colomba morta
mezzo coperto da quello di lui, i petali di rosa ridotti a un giallo ca-
rico, schiacciati dai piedi di lui. Sosteneva col palmo il collo di lei, lo
stelo di un giglio; la pressione delle sue dita su quella pelle spenta era
così delicata da non lasciare il minimo segno. Tu, che eri ormai così
abituata a quelle mani e a tutti i loro atteggiamenti più violenti, non
le avresti mai credute capaci di una delicatezza simile. Le rendevano
aliene al resto dell’uomo. E la stava…
Un calore scarlatto ti aveva invaso il collo, fino alla punta delle
orecchie. Il Littore che così spesso aveva cercato di ucciderti non si
era voltato, anche se in una frazione di secondo avevi già ispessito il
tuo esoscheletro raddoppiandone la densità, foderandoti il cuore con
spessi strati di smalto.
Ortus si era irrigidito a tal punto che le scapole stavano rischian-
do realisticamente di perforargli la schiena. Era diventato un’unica,
enorme gobba. Eri paralizzata in un vortice di confusione adrenalini-
ca, pronta a fronteggiare soltanto un suo inevitabile scatto omicida:
non eri pronta a gestire il tono di voce così poco Ortusesco che ave-
va usato per dirti, con calma, continuando a rivolgerti quella schiena
così vulnerabile: «Chiudi la porta, e vattene».
Avevi chiuso la porta. Te n’eri andata.
«Ho sorpreso il Santo del Dovere in un grave atto lussurioso» ave-
vi riferito a Ianthe circa un minuto dopo: nemmeno lei dormiva, ma
era seduta a letto con la lampada accesa, a scrivere annotazioni in-
garbugliate su un piccolo diario.
«Oh mio Dio» aveva commentato la Principessa di Ida. Sembrava
affascinata. Alla luce della lampada, le borse sotto ai suoi occhi risul-
tavano assai pronunciate. Due torsoli di mela giacevano in uno stato
di odorosa e perpetua decomposizione sul comodino: i suoi tentativi
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avevi scorto dei minuscoli granelli grigi nell’acqua della vasca, e non
avevi raccolto quell’acqua nei palmi, con le mani a coppa, pensando
che fosse sapone o credendo di essere particolarmente sporca. An-
che quando avevi visto il lieve stillicidio polverizzato delle ossa mo-
renti che ondeggiavano verso il basso, staccandosi dalla barriera sul
soffitto, avevi continuato a non afferrare del tutto la cosa.
L’osso macinato giaceva tra le tue mani, insensibile e inerte. Solo
quando avevi cercato di riamalgamarlo ti eri accorta che era morto,
morto come solo le ossa più vecchie negli anfratti più antichi del com-
plesso monumentale del Drearburh potevano essere morte: ossa la
cui thanergia residua si era prosciugata nel corso di quasi diecimila
anni, come l’acqua che sgocciola via da un forellino in un secchio, la-
sciandosi alle spalle della polvere calcarea troppo povera per rispon-
dere a un necromante. Se le ossa interrate nel Mithraeum fossero state
esposte al saccheggio del tempo e non cristallizzate dal tocco clemen-
te del Principe Imperituro, solo i loro strati più antichi avrebbero ret-
to il confronto con le scaglie che reggevi tra le mani.
Circa cinque secondi avevano separato la comparsa dei granelli e
della pioggerella dalla presa di coscienza: le tue barriere erano sta-
te distrutte. E poi avevi sentito un tonfo arrivare dal corridoio… e la
porta del bagno era esplosa, spalancandosi.
La tua reazione istantanea era stata quella di chiuderti in un boz-
zolo spesso di osso tendineo. Sarebbe stata un’ottima trovata, se solo
avesse funzionato. Nulla reagiva. L’esoscheletro ti era scivolato via
di dosso come se provasse dell’imbarazzo per te. Le borchie d’osso
che portavi all’orecchio erano intorpidite. Le scaglie d’osso che tene-
vi ben riposte nelle nicchie disseminate per tutto il bagno non si era-
no mosse di un millimetro, nonostante stessi cercando di attirarle a
te. Ogni osso nel tuo raggio d’azione era addormentato e immoto. Se
ti fossi tolta tutti i vestiti – cosa che, in realtà, avevi anche fatto – sa-
resti stata meno nuda di così. E ritto sulla porta, con la sua lancia, la
sua spada e quei teneri occhi verdi in quel coriaceo viso di cemento,
c’era il Santo del Dovere.
Aveva sollevato il braccio e ti aveva scagliato contro la lancia, mi-
rando al cuore. Ti eri buttata a destra così violentemente che l’intera
vasca da bagno si era inclinata su un fianco, ribaltandosi con un po-
derosissimo crack porcellanoso e un’alluvione di acqua tiepida che si
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rowhark: confessa, subito, prima che qualcuno trovi un dito nella zup-
pa.» (Avevi sobbalzato, ma poi avevi cercato di sorridere; forse era
quello che ci si aspettava da te. Ianthe, vedendo l’espressione che ave-
vi stampata in faccia, rabbrividì visibilmente.) «Che carne hai usato
per insaporire il brodo? Se c’erano dei tocchi si sono squagliati tutti.»
Avevi chiuso gli occhi, cercando di riflettere. Era così difficile. Vo-
levi dormire, tantissimo. Stavi facendo così tante cose tutte insieme
– i tuoi ultimi residui di concentrazione erano stati dirottati verso
quell’istante. Per uno o due secondi ti era sfuggita la parola che stavi
cercando… ce l’avevi sulla punta della lingua – mentre eri impegnata
a costruire, minuziosamente, cellula stromale dopo cellula stromale.
«Midollo» avevi detto.
Il Santo del Dovere esplose, mentre il tuo costrutto gli emergeva
dall’addome. La zuppa era acquosa e mediocre, come tutte le zuppe,
ma in qualità di veicolo per convogliare emulsioni esplosive – midol-
lo diluito con acqua sufficiente da passare inosservato – era perfet-
ta. Una mezza dozzina di braccia lo crivellarono, nella delicata luce
elettrica propagata dai panelli sul soffitto. Avevi espirato, e una coa-
lizione di falci si era messa a distruggere intestini… polmoni… cuo-
re. Poi avevi puntato verso l’alto, in direzione del cervello.
E Dio aveva detto: «Basta».
Il mondo rallentò. Augustine e Mercymorn si bloccarono, fossiliz-
zati nell’atto di alzarsi dalle sedie. Ianthe si fermò, il braccio sinistro
immobilizzato, esteso per schermarsi il volto. Anche tu ti eri para-
lizzata, seduta al tuo posto con la schiena dritta: le tue ossa erano di-
ventate in qualche modo rigide e immote, e la tua carne fredda e ri-
gida attorno a quelle ossa. La tempesta di frammenti che proveniva
dal Santo del Dovere non si arrestò: si riversava sul tavolo come la
cresta di una cascata rosa, con un pliccheti-ploccheti sulle fondine, la
tovaglia e la scura superficie lucida del legno. Ma quel che restava di
lui si fermò, mezzo uomo, mezzo squarcio – i suoi anfratti più osce-
ni erano bianchi e incandescenti, interiora nude avvolte dalla spinta
secca-narici del potere di Dio.
L’Imperatore delle Nove Case – la Resurrezione, il Primo Rinato –
sedeva a un capo del tavolo, il viso banale punteggiato di materia ma-
ciullata, e i suoi occhi erano la morte della luce.
Il Necrore Supremo disse, con grande calma: «Sono passati dieci-
Eri già sulla porta quando arrivò la sua risposta petulante: «Ma è
una follia! Ha solo nove anni!».
* * *
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– l’istante prima c’era, una stella dorata, e un attimo dopo era spari-
ta. Andare in suo soccorso, non se ne parlava neanche. Il necroman-
te dell’Ottava Casa era rimasto fermo lì con le vesti bagnate e alaba-
strine scompigliate dal vento, la treccia da cui sfuggivano ciocche e
nastri. Non aveva neanche guardato di sotto.
Ma aveva visto Harrowhark.
«In guardia, Octakiseron» esclamò lei. «Le vestali nere hanno una
sola maniera di rispondere all’omicidio.»
«Le vestali nere hanno sempre avuto una sola risposta per tutto»
fu la replica, in quel suo tono profondissimo e abissale. La squadrò: li
separava una distanza di circa cinque corpi e, da lì, i suoi occhi appa-
rivano ombrosi, il viso bianco e affranto. «Sorse una domanda: “Per-
ché…” e le vestali nere risposero: “Perché sì”. Ora venite da me, cagna
notturnale, figlia della schiavitù, avete fatto quello che avete fatto e
ora venite qua a dirmi: “In guardia”? Come potrei mai?»
«Me ne infischio dei misteri e dei cripticismi del Bianco Calice»
fece lei. «Quel che mi interessa è che avete appena spinto a morte
una dei Tridentarii.»
«Morte?» disse Silas.
Si voltò di nuovo a osservare la nebbia mobile, le nuvole che oscu-
ravano il mare ribollente verso il quale Coronabeth stava probabil-
mente ancora precipitando. Più da vicino, Harrow constatò che era
tutto in disordine: aveva i vestiti macchiati e alcuni bottoni slacciati.
La pioggia e la nebbia l’avevano sferzato tremendamente.
Harrow si sfilò le mani di tasca e seminò le sue scaglie per terra. Da
ogni frammento – con il pop, pop, pop dell’emissione di thalergia che
percepiva in un angolo del cervello – edificò uno scheletro dotato di
tutte le appendici, allungando l’osso in fretta in modo che la cortec-
cia non si mescolasse all’acqua. Il lucore spento dell’osso compatto
brillava come marmo bagnato. Silas Octakiseron osservò arriccian-
do il naso i cinque costrutti che lei aveva completato.
«La sporcizia le insozza i piedi» mormorò. «Non si è ricordata del
suo scopo.»
«Per l’amor di Dio, in guardia, Octakiseron» fece lei. «O dovrò ab-
battere un uomo disarmato.»
E Silas disse: «Ma è così che va, quindi?».
Si voltò. Lei capì quello che voleva fare e i suoi scheletri schizza-
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* * *
Non sapevi per quanto tempo avessi dormito. Non sapevi a quale
giorno corrispondesse quell’alba del tuo risveglio. Le luci diurne fil-
travano dalle coperture del letto a baldacchino con un candore cal-
do, un tepore agrumato a contornare i quadri nudi che adornavano
le pareti come festoni. Ti sembrava di aver dormito per cent’anni. La
trapunta di satin era fredda contro le tue braccia ed eri rimasta a gia-
cere lì nel letto di Ianthe comoda, inerte.
Gradualmente, avevi percepito un peso cospicuo in una depres-
sione accanto a te. Ti eri girata sul fianco, profondamente atterri-
ta, all’improvviso, dalla possibilità di vedere la proprietaria del let-
to; la tua spada era stata appoggiata sopra le coperte accanto al tuo
corpo, sulla trapunta, col fodero d’osso che irradiava un bagliore gri-
gio e smorto in quell’imitazione di luce solare. Era un’eventualità per
ogni verso preferibile a quella di risvegliarsi con davanti la faccia di
Ianthe “Amo La Mia Gemella – Ma Anche L’Omicidio” Tridentarius.
Poi avevi sentito respirare. Con un’inaspettata lucidità di mente – e
di anima – avevi scostato il piumino e avevi raggiunto, strisciando,
il fondo del letto. E davanti a te avevi trovato Ianthe, sul pavimento.
Era a pancia in giù su uno dei tappeti crema e oro che coprivano la
moquette color miele scuro, e tutt’attorno a lei si allargava una pozza
cremisi di sangue. Stava lì spiattellata in quel lago rosso come se fos-
se la sua ombra. I capelli lunghi le ricascavano sul viso e sulle spal-
le come un velo, e sbuffava a denti stretti, inalando in lunghi respiri
terrificanti, come una bestia agonizzante. Mentre la osservavi – una
spettatrice silenziosa sul suo materasso – si era tirata su sui gomiti
e aveva afferrato con entrambe le mani la lama scarlatta del suo pu-
gnale tridentato e se l’era piantata, furente, nella cucitura intollera-
bile del braccio destro.
Ianthe infieriva, ancora e ancora. La ferita continuava a rimarginarsi
– la pelle si ricuciva appena la lama veniva estratta. Il sangue si coagula-
va attorno alla cucitura in una fila serrata di denti e spilli, che lei cerca-
Era così facile. Ora che avevi dormito, tutto era facile. Ti pareva
di esserti trascinata in giro in una cassa di piombo, e ora eri libera.
Come sempre, alla vigilia di un lavoro complesso, avevi pregato ad
alta voce: pregavi per la pietra che non andava scostata e per l’occhio
chiuso e il cervello immoto; pregavi affinché una donna che amavi ti
sostenesse mentre spogliavi una donna che no, non amavi, ma le cui
ossa avresti adorato come un sacramento. Ti eri inginocchiata sulle
sue cosce e, dalle nocche, avevi sfoderato una portentosa lama d’os-
so – Ianthe si era ritratta, solo quella volta – e tu ne avevi affilato un
bordo fino a raggiungere una sottigliezza traslucida e liquida.
Avevi staccato il braccio con un taglio netto sezionando il nodo del
legamento scapolare e rimuovendo l’omero. Ianthe urlava nell’ammas-
so di pizzo che le riempiva la bocca. Il sangue ti sgorgò sul petto come
l’ondata di marea della luna nuova, lo sentivi inzuppare i vestiti, filtra-
va e ti sgocciolava giù per l’ombelico. Avevi cauterizzato la carne in
un’unica soluzione, pinzando i vasi e allungandoti per posare le dita
nel punto precedentemente occupato dalla testa dell’omero. Poi avevi
ripianato la cavità con dell’osso spongiforme – per ottenere una base
su cui lavorare – e ti eri rigirata la sua spalla tra le dita. Sussultava a
ogni tuo tocco. Le grida di Ianthe si erano ridotte a squittii famelici.
Il braccio doveva essere suo. Non sarebbe stato un problema. Ave-
vi estratto una ragnatela di filamenti sottili di midollo rosso dall’ala
d’osso che le cingeva la spalla e, da lì – dai granelli osteoblastici più
minuti, da quel reticolo labirintico che fasciava il tessuto spugnoso e
il midollo –, l’avevi ricostruita. L’omero era stato un gioco da ragaz-
zi e avevi ricavato un sincero diletto dall’alloggiarlo nell’amabilissima
conca del radio, nell’abbraccio biforcato dell’ulna. Le avevi scolpito la
troclea trattenendo il fiato, inserendola nel suo umido incastro bianco.
Con la mano ti eri quasi viziata. Lo scheletro rammentava se stes-
so. Non ti serviva conoscere in maniera così intima la gassa d’aman-
te tracciata dalle ossa carpali – il lungo dente del lunato, il promon-
torio sporgente del trapezio – e nemmeno ti serviva conoscere l’arco
della falange distale, il fusto, la base. L’osso nuovo emergeva avida-
mente per lambirti le dita, come se foste amanti che si danno la mano
dopo una lunga separazione. Il tuo ruolo, con le ossa, non era tanto
quello dell’artista, ma della guida. Il momento dell’arte subentrava in
quel momento, e l’avevi messa in guardia: «Farà male».
260
zione – accantonati, via, in modo che il resto del gruppo potesse of-
frire un bersaglio più grande e succulento.
Il respiro le brillava davanti alla bocca, le facevano male le dita, an-
che se aveva dormito con i guanti. Il sole splendeva flebilmente die-
tro alle chiazze cesellate della foschia piumosa che ricopriva il vetro,
come un mosaico, vetro su vetro: ghiaccio! Harrow fu travolta di colpo
dalla nostalgia per il Drearburh. La nebbia all’esterno era così densa
che la Casa di Canaan pareva essere ascesa al cielo nottetempo – er-
gendosi nell’atmosfera in un’ovatta spessa e bagnata di nuvole e fo-
schia, color ovino lercio. Harrow non riusciva a vedere né il mare né
il cielo. Le sembrava che la pioggia, fuori, scendesse con meno vigo-
re, ma poi percepì che, invece del mormorio uggioso delle precipita-
zioni, ogni goccia si era solidificata in un proiettile di ghiaccio che il
vento frustava contro le spesse finestre di plex, producendo il rumo-
re di un colpo di fucile.
L’alba era sorta da poco. Harrow aveva dormito con le pitture e i
denti avevano il sapore dei pigmenti. Si avvolse il velo attorno alla
bocca, a mo’ di sciarpa, e si alzò silenziosamente dal letto. Gli altri
dormivano ancora, in amache silenziose come tombe: Ortus davanti
a lei, una collina nera e leggermente ansante; alla sua destra, Protesi-
laus Ebdoma, che dormiva con la spada sul petto come una specie di
monumento militare, uno di quelli per i quali lo scultore si era lascia-
to prendere un po’ la mano sul fronte dei muscoli; alla sua destra, la
sua necromante, i boccoli corti color cerbiatto che le carezzavano le
guance infantili; e alla sua sinistra, Dyas, coricata con gli occhi spa-
lancati e la spada sul cuore. Accostati all’impugnatura d’acciaio dello
stocco i guanti apparivano bianchissimi, così come erano bianchissi-
mi sul seppiato della pelle scoperta dei polsi.
La porta della camera di Pent si aprì sui cardini silenziosi, rivelando
il suo paladino: sguardo gentile, capelli ricci e una stupidità abomine-
vole. Era in ciabatte e portava due giubbe sopra al pigiama: vedendo
Harrowhark, portò l’indice alle labbra e le fece segno di seguirlo nel-
la sua stanza. Dentro, Abigail Pent era raggomitolata su un enorme
davanzale, un divanetto decrepito si stava disgregando ai suoi pie-
di. Ammirava la grandine che cadeva, con serena fascinazione. C’era
un odore tostato, come di cioccolato e polvere. Una stufetta elettri-
ca tossicchiava aria tiepida sul pavimento, con le pale che cigolava-
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«Quando?»
«Domani.»
«Come?»
«Non l’ha specificato – ma stiamo parlando di “Augustine il Pri-
mo”, figlia mia. È il primo Littore, il più vecchio. Questi tre sono i più
antichi in assoluto – e gli ultimi, pure –, ecco perché sono Pazienza,
Gioia e Dovere… tre virtù. Se Augustine distrarrà Dio, allora vuol dire
che distrarrà Dio. È molto vecchio e, per quanto detesti ammetterlo,
è brillante… è sofisticato… è subdolo. Comunque, io mi sono occu-
pata di lui, e lui si occuperà di Maestro, e tu ti occuperai di Dovere.»
«Hai già… pianificato tutto?»
«Battiti con lui e vinci, Harry. Prendilo come un risarcimento per
il braccio… mi sembri sorpresa.»
Ti eri sorpresa a mormorare, quasi più stupita di te stessa che per
lei: «Fiera guerriera della Terza Casa schierata! Con me galoppa, so-
rella ritrovata!».
Un rimescolio arrivò dal suo lato del letto – si era tirata leggermen-
te su a sedere, l’omero scoperto dalla pelle metallizzata vistosamen-
te appoggiato sulle coperte.
«Era una poesia?» aveva domandato.
«Ho i miei dubbi» avevi ribattuto, e lei si era rimessa giù. Poi le ave-
vi detto: «Accetto il tuo aiuto. Sono costretta ad ammettere di non
poterlo fare da sola».
«Vivo per queste tue riluttanti ammissioni» aveva detto Ianthe.
«Sarebbe stata una vera rottura se avessi detto di no. Ho già orga-
nizzato tutto.»
Eravate rimaste entrambe in silenzio. La copertura del letto a bal-
dacchino oscurava l’affresco sul soffitto eccessivamente decorato – un
sollievo per gli occhi. Le coperte erano più morbide delle coperte del
tuo alloggio, anche se trovavi il materasso troppo molle per risulta-
re davvero confortevole. Ci si sprofondava come in una fossa. Non
eri abituata a così tanti cuscini e non eri nemmeno abituata al brivi-
do scivoloso del satin sulla pelle, e non eri nemmeno abituata a sen-
tire il respiro di qualcun altro, impalpabile, accanto a te. Per un atti-
mo ti era parso che Ianthe si fosse addormentata.
Poi aveva detto, con noncuranza: «Coronabeth e io abbiamo pas-
sato separate solo tre notti in vita nostra e la seconda volta si è mes-
* * *
&
rio, si trucca un po’ e poi va a una festa e tutti quanti le dicono: “Per le
ossa dell’Imperatore! Ma sei bellissima”. Oppure: “È la prima volta che
ti vedo davvero”. E se il protagonista è un necromante verrà descritto
tipo così: “La sua fragilità non faceva che accrescere l’effimerità del-
la sua insalubre avvenenza” eccetera eccetera, quindici pagine dopo
appare la parola “mugolio”, mentre alla pagina dopo c’è “capezzolo”?».
Le avevi risposto, con una certa enfasi: «No».
«Allora non condividiamo alcun riferimento comune. Per fortuna,
però, non è questo il caso» aveva aggiunto. «Nemmeno una dei pu-
gni e dei gesti dell’Imperatore potrebbe sottoporre Harrowhark No-
nagesimus a un rivoluzionario cambio di look… sexy, poi. Certe vol-
te mi sembri il funerale di uno scopino. Ma proprio se ti guardo con
la luce giusta, per di più… Oh, questo potrebbe andare, è anche il tuo
colore. Vieni qua.»
Reggeva un ammasso di stoffa nera, anche se mai un nero di quel
tipo era esistito nella Casa del Sepolcro Sigillato. Ti eri avvicinata con
manifesto orrore. Ianthe aveva srotolato un lungo drappo di quella
roba fosca e stellata, accostandotelo addosso; aveva tutta l’aria di es-
sere una specie di… immenso fazzoletto. Non era un vestito.
Quando gliel’avevi fatto notare ti aveva risposto, spigolosa: «Va-
lancy Trinit era alta come me, pesava più di noi due messe insieme e
– a giudicare dai suoi ritratti – non aveva un corpo particolarmente
arrendevole. Il tuo corpo, in confronto, si è arreso ai blocchi di par-
tenza. Spogliati.»
“Spogliati” era un imperativo al quale mai avresti pensato di obbe-
dire. Non ti eri tolta tutti i vestiti, ma avevi acconsentito a rimanere
in camiciola, perché era una camiciola lunga. L’esoscheletro offriva
una certa schermatura, anche se non bastava nemmeno lontanamen-
te a farti sentire a tuo agio. Eri rimasta lì impalata col mento all’in-
sù, aspettandoti una valanga di triviale scherno, ma lei si era limita-
ta a chiederti: «Puoi toglierti quel grottesco corsetto scheletrico?».
«No.»
«E la pittura in faccia?»
«No.»
«Non so neanche perché continuo a farti queste domande» ave-
va concluso.
Ti aveva avvolto quella specie di sciarpa attorno, l’aveva fermata
con gli spilli e, sbuffando, se l’era ripresa. Non ti rimaneva altro che
metterti a sedere sul letto, mangiando una delle mele che non aveva
ancora usato per i suoi esercizi. Mangiavi e la osservavi, e avevi an-
che riletto l’invito. Ianthe – un classico per una maga corporale – si
era armata di ago e filo e si era felicemente votata al cucito. Aveva di-
chiarato che infilare il filo nella cruna dell’ago con la mano scarnifi-
cata era «facilissimo, giuro».
Sul retro del foglio c’era scritto: NEI MIEI ALLOGGI, DIECI MINUTI
PRIMA.
«Provatelo» ti aveva ordinato, a un certo punto.
Era poco più di un velo. Te l’aveva assicurato sopra una spalla, la-
sciandoti entrambe le braccia scoperte e intirizzite. Il materiale era
evanescente e sdrucciolevole come l’acqua; una volta rispuntata da
un paravento pacchiano, ti aveva stretto attorno al corpo quella roba
nera e luccicante. Non era un vero nero, era striato da uno scuro in-
daco chimico e, guardandoti allo specchio, la sfumatura trasformava
i tuoi occhi in pozzi senza luce. Sopra a quella distesa di nero azzur-
rato, tempestato di scintilline bianche intrappolate come filamenti iri-
descenti che germogliavano da un cadavere carbonizzato, le tue iri-
di erano svuotate di ogni colore.
Ianthe ti girava attorno, tirando e appuntando. Lo tolleravi solo
perché il suo tocco era disinteressato e clinico. Il tocco delle sue dita
vive, così come di quelle morte, non si soffermava a cincischiare. Era
come se fossi la sua salma patchwork. La sua abilità ti stupiva, ma lei
liquidò i tuoi complimenti: «Questa è una bazzecola. Naberius era
capace di ricamarti un’intera sopragonna senza nemmeno pungersi
un dito». La si sarebbe potuta interpretare come una virata che si av-
vicinava al sentimentalismo, ma aveva aggiunto: «Sarebbe stato bel-
lo se uccidendolo avessi ereditato anche il suo talento per il cucito».
La tua sorella Littrice ti aveva spazzolato i capelli, cercando di dar
loro un po’ di volume con le dita. Ora che erano così lunghi si pote-
va fare. Te li eri rasati praticamente a zero solo poco tempo prima:
si erano presi un bello spavento, ma erano ricresciuti a gran veloci-
tà. Avevi avuto il terrificante timore che quello fosse il tuo unico sin-
tomo solitario di rigenerazione Littoriale e non li avevi più tagliati.
Non avevi permesso a Ianthe di riempire i buchi che ti trapassavano
le orecchie con perle o orecchini metallici e avevi rifiutato di porta-
re qualsiasi altro gioiello che non fosse d’osso, quindi non è che re-
stasse un granché da fare. Quando aveva finito, non avevi accolto il
tuo riflesso con un senso di shock disgustato, ma meramente con una
piatta e imbarazzante avversione. La parte peggiore era l’improvviso
manifestarsi della somiglianza con tua madre.
«Sono molto soddisfatta» aveva dichiarato Ianthe.
Tu avevi commentato, laconica: «Sembro un’imbecille».
«Stai bene abbastanza da rendermi orgogliosa del mio operato, ma
non così bene da spingermi a saltarti addosso in mezzo ai ciotolini
della frutta secca, consumata dalla lussuria» aveva detto. «Una cam-
minata sul ghiaccio sottile, ed è stata una camminata ammirevole,
da parte mia. Vai a sistemarti le pitture; hai il teschio tutto sbavato.»
In un atto di irrilevante ribellione, ti eri adornata col teschio sacra-
mentale della Sacerdotessa Schiacciata dalla Roccia Di Fresco Posata,
il teschio meno bello di tutto il canone. Al tuo ritorno, l’avevi trova-
ta al suo tavolino da toilette che si ravviava i capelli con una spaz-
zola d’osso. Portava un abito lungo di un viola acromatico – pallido,
quasi grigio, come il fumo di un falò a base di lavanda – e costitui-
to all’apparenza da un paio di strati di garza. La schiena era scoper-
ta e riuscivi a vedere le dentellature delicate della sua colonna verte-
brale, la pelle candeggiata che risaltava, addolcita e azzurrata contro
quella drappeggiatura impalpabile. Le lame gemelle delle scapole ti
apparivano stranamente nude e vulnerabili. Ti aveva detto, langui-
da: «Abbottonami» e tu avevi obbedito facendo crescere tre braccia
scheletriche dall’intelaiatura d’osso della sua sedia, ben felice di na-
sconderle le vertebre.
Ianthe portava il manto Canaanita sulle spalle, senza infilare le brac-
cia nelle maniche: tu eri felice di poter contare sulla copertura flebi-
le e diafana che ti offrivano. Si era allacciata la cintura con lo stocco
sui fianchi, tenendola lenta; tu ti eri caricata lo spadone sulla schiena.
Seguendo la tua co-cospiratrice lungo i corridoi del settore residen-
ziale verso le stanze di Augustine, un fremito di eccitazione ti aveva
scompigliato le pareti dello stomaco.
Così come i tuoi alloggi ben poco somigliavano a quelli di Ianthe,
gli alloggi di Augustine non somigliavano né ai tuoi né ai suoi. Gli in-
terni erano di legno scuro. La maggior parte delle pareti era occupa-
ta da librerie che andavano dal pavimento al soffitto e per terra non
L’ago della bilancia fece il suo ingresso. Era la Santa della Gioia.
La tua precedente insegnante ti ignorò, ripiegò nella tua alcova e
ignorò anche tua sorella, le cui pallide sopracciglia erano schizza-
te all’insù a una tale velocità e altitudine da rischiare seriamente di
bucare l’atmosfera. Mercymorn indossava un lungo drappeggio di
seta color pesca. Il manto bianco Canaanita le era completamen-
te scivolato giù dalle snelle spalle afflitte e stazionava adagiato su-
gli avambracci. Si era imprigionata i capelli in un nodo spietato e
splendente sulla nuca e non stava degnando di uno sguardo nes-
suna delle due.
Aveva detto: «Hai proprio un bel coraggio».
«Nemmeno lontanamente; mai avuto» aveva risposto lui, affabile.
«Accetti i termini dell’offerta?»
«Voglio sapere cosa state…»
«Prima accetta.»
«Accetterò se giuri sulla spada» aveva detto Mercy, con un fervo-
re sacrilego.
Lui aveva alzato lo stocco, ancora nel fodero. L’elsa era conica e lu-
cente, pareva fatta di rame, ed era ricoperta di decorazioni spunzo-
nate. «Giuro sulla spada di Alfred Quinque, il migliore fra gli uomi-
ni e fra i paladini, che i dettagli del tuo – ehm – coinvolgimento non
saranno da me divulgati o da me rivelati, e che non lasceranno le mie
labbra né i miei polpastrelli… nemmeno se ci costerà la morte» ave-
va aggiunto. A quel punto, il cipiglio aggrovigliato di Mercymorn si
era rilassato impercettibilmente: non era sollievo, ma il seme del sol-
lievo che cominciava a germinare. «Accetta.»
«D’accordo! Accetto» aveva detto lei. Poi si era guardata attorno e
aveva esclamato: «Lo sai, vero, che le bambine sono presenti? Devo
ucciderle o cosa?».
«Ignorale» aveva risposto Augustine. «Meglio che tu non sappia
perché sono qui. Senti… ho bisogno della tua piena collaborazione
in questo frangente, Gioia, e se così non sarà, considererò viziato il
voto che ho appena giurato di onorare.»
«Piena collaborazione! Piena!!!» aveva esclamato, sdegnosa. Avevi
notato che dalle orecchie le penzolavano dei corti fili di perle colti-
vate color albicocca; quando incrociò le braccia sul petto si misero a
vibrare. «Smettila di sprecare il fiato e spiegami il piano.»
285
vino – che Augustine ti aveva già servito – non ti piaceva per nien-
te e non ti eri immaginata che potesse essercene così tanto. Rabboc-
cava i bicchieri prima ancora che riuscissi a finirne il contenuto, così
non eri mai nemmeno arrivata in fondo al primo.
Ora, in mezzo ai detriti fumanti della cena, lui e la Santa della Gioia,
e Dio e Ianthe avevano spostato le sedie radunandosi all’estremità del
tavolo. Le vesti della Prima Casa di Ianthe erano da qualche parte sul
pavimento, teneva i gomiti sul tavolo e aveva le guance rosa, il che le
conferiva una giovialità fasulla. Augustine si era tolto la giacca e se
ne stava lì seduto con la sua camicia bianca coi bottoni. La cravattina
che si era annodato alla gola si era sciolta del tutto e penzolava inerte
da ambo i lati del colletto sgualcito. Mercy era quella messa peggio:
la crocchia di capelli era precipitata e ora rimbalzava libera in cioc-
che pallide di un rosa dorato. Ridacchiava – sul serio.
Dio sedeva in mezzo a loro. Maestro si era arrotolato le maniche
fino ai gomiti; se si trattava di una camicia più bella o messa me-
glio rispetto a quella che portava di solito, non eri in grado di sta-
bilirlo. La coroncina di ossa e foglie gli era scivolata via dalla fronte
– probabilmente era da qualche parte in mezzo ai tovaglioli –, l’ul-
timo bottone era sbilenco e lui di tanto in tanto faceva il giro per
rabboccare i bicchieri dell’acqua a tutti, dichiarando con crescente
trasporto: «Continua a bere acqua, Harrow» come se l’acqua fosse
il miracolo più grande e impossibile mai elargito alle Nove Case. Il
suo sorriso continuava a increspare gli angoli di quegli occhi cer-
chiati di bianco.
Ogni tanto lanciavi uno sguardo dall’altra parte del tavolo all’uomo
che intendevi uccidere. Il Santo del Dovere aveva bevuto tanto quanto
Augustine, ma aveva un’espressione rocciosa e nemmeno un bottone
fuori posto. Più di una volta i vostri sguardi si erano incrociati, in uno
scambio che temevi fortemente volesse esprimere solidarietà. Non
ne eri sicura. Bevevi l’acqua. Stavi bevendo acqua in grandi quantità.
«Agli amici assenti» esclamò Augustine all’improvviso, alzando il
calice.
E tutti gli altri risposero: «Agli amici assenti» e alzarono i calici, e
bevvero. Ecco la tortura che si erano inventati; non avevi dubbio che
fossero state la Terza o la Quinta Casa a escogitare quella maledetta
regola – ogni volta che alzavi il calice e proponevi un brindisi pieno
«Mio Signore! Non dire così» aveva esclamato il suo Littore, abboz-
zando un sorriso. «Ho basato un’intera miriade sull’idea che avrei po-
tuto fargli cambiare rotta. Sarebbe stata questione di cinque minuti.»
La sua sorella-santa non commentò. Lanciò invece un’occhiata nel
bicchiere e lui riempì quell’intervallo imbarazzante con: «Comun-
que, brindiamo a una donna che non ha mai diviso le coscienze. A
Pyrrha Dve».
Tutti gli occhi – compresi i tuoi – percorsero fatalmente la tavola-
ta, fino al Santo del Dovere. Avevi impugnato lo stelo del tuo calice e
avevi guardato in faccia l’uomo che un tempo era stato il necroman-
te di una donna chiamata Pyrrha: era la stessa imperscrutabile assen-
za di espressività che ti eri trovata davanti nella vasca da bagno, e la
prima volta che lui aveva messo piede nella cappella del Mithraeum.
Aveva detto, categoricamente, con una sfumatura ammonitoria:
«Augustine».
«Sono serio. Non lo trovi stupefacente, persino dopo tutto questo
tempo? Nemmeno Mercy ha qualcosa da ridire su di lei.» («Perché
vengo costantemente dipinta come una persona ipercritica?» fece
lei, avanzando un’inevitabile critica.) «A Pyrrha, dunque, la donna
su cui ho cercato di far colpo coltivando il vizio del fumo – la pala-
dina, la leggenda, la sventola totale… John, per cortesia, smettila di
prendermi a gomitate, ho sentito “sventola totale” uscire anche dal-
le tue sacre labbra.»
L’Imperatore aveva protestato: «Rispettosamente! Rispettosamente».
Ortus aveva commentato: «Cambiamo argomento».
«D’accordo» aveva detto Augustine buttando giù un altro sorso di
vino, come se volesse fortificarsi. Al che Ianthe aveva suggerito: «Ai
nostri nemici, fratello maggiore».
«Sì! Splendido» aveva concordato con calore. «Un classico. Ecco
perché sei la mia apprendista, la mia prescelta, pulcina. Ai nostri ne-
mici – i nemici dell’Impero –, a quelli già approdati saldamente nel
Fiume, ecco. Non brinderò ai nemici vivi, ma beviamo ai nemici ca-
duti, perché con loro possiamo dimostrarci magnanimi. Beviamo al
Sangue dell’Eden, ormai asciutto.»
Sia l’Imperatore che Mercy avevano replicato, all’istante: «Sono
ancora in circolazione».
«Va bene, pedantoni… brinderò ai migliori fra loro, quelli che sono
indiscutibilmente stati fatti fuori… non agli schizzati, agli idioti e agli
zeloti che rimangono, convinti di poterci bloccare con un missile nu-
cleare. La comandante non si sarebbe mai accontentata di un missi-
le nucleare… Signore, che bella festa ci aveva organizzato, altroché.
Merita qualcosa. Un brindisi, magari.»
Dall’altro lato del tavolo, ti eri accorta che il Santo del Dovere aveva
serrato le nocche, impercettibilmente. Eri molto perspicace, in fatto
di nocche. L’Imperatore scambiò la tua concentrazione per perples-
sità: «È successo prima che tu nascessi, Harrowhark». («Molto pri-
ma che tu nascessi» aveva aggiunto Mercy, rapace, «perché hai tre
anni.») «Non è proprio il genere di storia che merita di essere rac-
contata dopo… tre bicchieri di vino.»
«Figuriamoci se erano solo tre bicchieri di vino» aveva commen-
tato l’uomo alla sua sinistra.
«Quattro bicchieri di vino» aveva rettificato Dio, arrivando comun-
que a una stima inadeguata. «Questa è di sicuro un’ottima lezione per
voi, ragazze: non dovete mai sottovalutare nessuno. Un quarto di secolo
fa questi fanatici hanno scoperto l’esistenza delle Bestie Resurreziona-
li. Un’informazione secretata fino ai ranghi più alti della Coorte, badate
bene, quindi si è trattato di un vero sforzo spionistico e di un mezzo…»
«Ne erano al corrente» aveva detto Ortus. «Solo non sapevano
cosa fossero.»
«Scoprire cos’erano non li ha fermati. Hanno dato la caccia a una
Bestia… hanno sprecato metà delle loro navi per separare un Aral-
do dal branco… hanno ucciso quell’Araldo… e a questo proporrei un
brindisi…» («Agli Araldi uccisi» avevano declamato i due Littori più
anziani e avevano bevuto, seguiti a ruota da Ianthe. Tu avevi solo ac-
costato le labbra al bicchiere.) «Persino da morto un Araldo può por-
tare un necromante alla pazzia. Hanno smembrato quella cosa. Ci
hanno fabbricato coltelli. Ci hanno fabbricato asce. Ci hanno fabbri-
cato corazze. Cioè, tutta roba estremamente frugale, ma cribbio… la
loro comandante aveva pallottole d’Araldo.»
«Proiettili» aveva detto Augustine. «Dardi. Coltelli da lancio. Una
mira infallibile. Una volta mi ha centrato proprio in mezzo agli oc-
chi. Matta come una tigre in gabbia e tre volte più feroce. Per poco
non ti perdevamo per colpa sua, Ortus, un paio di volte. Dobbiamo
brindare alla Comandante Wake?»
La bocca di Dio era allegra come sempre, ma i suoi occhi no. Ave-
va detto: «Devo unirmi a questo brindisi?».
Per la prima volta, avevi assistito a un momento di smarrimen-
to del Santo della Pazienza. «Le mie scuse, John. Non voleva essere
una frecciata.»
«Non fa più male… non sempre, almeno» aveva detto Dio, senza
smettere di sorridere.
La Littrice alla sua destra si stava ravviando i capelli; si srotolava-
no in una massa pesante che le avvolgeva le spalle, con la loro curio-
sa sfumatura color cuore di rosa gialla, quella tinta rosata, rossastra,
doraticcia che non risultava del tutto gradevole. Nel suo bicchiere
c’era ancora del vino, cosa che pareva poco realistica, e disse: «Ecco
qua un brindisi migliore… all’Imperatore delle Nove Case. Al Resur-
rettore. Al mio Dio».
«All’imperatore John Gaius, il Necrore Supremo!» esclamò Augu-
stine, svuotando il bicchiere.
Quello era l’unico brindisi a cui eri desiderosa di prendere par-
te; avevi bevuto, perché ti mantenevi salda nei tuoi principi, e anche
perché Ianthe ti stava fissando con l’espressione di scherno e di ve-
lata commiserazione di una che non si aspettava che avresti bevuto
davvero. Di conseguenza, avevi bevuto due volte.
«Non brinderò a me stesso» stava dicendo Maestro. «Non sono la
persona migliore mai venuta al mondo, ma non sono neanche un si-
mile narcisista.»
La Santa della Gioia sentenziò, con insolita ferocia: «Ma tu sei la
persona migliore del mondo».
«Brinderò a questo» fece Augustine.
Non riuscivi a soffermarti mai troppo a lungo sull’espressione di
Dio. Augustine si alzò in piedi, gli rabboccò il bicchiere e riempì an-
che quello di Mercymorn. Accostò il suo calice contro quello di lei con
un tintinnio cristallino – lei lo squadrò con occhi spenti e insensibi-
li – e bevvero in silenzio, affiancando l’Imperatore delle Nove Case,
lui da un lato e lei dall’altro.
Dopo un po’, lei disse: «Sarebbe stato bello avere qua con noi an-
che Cytherea».
«Per me no» fece il santo dall’altro lato. «Ci saremmo dovuti sor-
bire il suo argomento di conversazione preferito: “Chi ha il paladi-
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si fatto anche lui una bella doccia. Al che, la vittima era stata trasci-
nata giù dall’altare fino all’atrio e, da lì, chissà dove.
L’arma apparteneva a Ortus; ma di chi era il sangue? Ti eri già spor-
cata le mani col sangue del cuore immobile di Cytherea; quello non
era il suo. Era possibile che Ortus avesse trafitto una terza entità, e
che poi avesse deciso di andarsi a nascondere per motivazioni perso-
nali con il suddetto corpo e con quello di Cytherea. Era probabile che
quella fosse la spiegazione più plausibile. Ma non era la più semplice.
Avevi seguito la lunga scia serpeggiante fuori dalla saletta. Conti-
nuava giù per il corridoio, svoltando bruscamente l’angolo in un cor-
ridoio che si immetteva in un anello più interno. Avevi spronato il tuo
esoscheletro, portandolo al trotto; i piedi gelati sguazzavano nel san-
gue ancora caldo e percepivi, avanzando di corsa, le impronte scar-
latte che ti lasciavi alle spalle. Avevi attraversato un corridoio sta-
tuario dall’illuminazione fioca, tra scheletri metallizzati e ingioiellati
degli eroi della Terza e della Settima, vestiti con i manti dorati e ver-
di dell’uffizio necromantico, con ametiste, topazi e smeraldi al posto
degli occhi; avevi virato di botto, scivolando un po’ nel sangue, im-
boccando una bassa porta di servizio.
Avevi attraversato sia l’anello residenziale che l’anello dei magazzi-
ni. Ora ti trovavi nell’anello tecnico e ambientale, con i sistemi d’ali
mentazione, quelli di supporto vitale, lo smaltimento e i rifiuti. Le luci
erano flebili, lì. C’erano meno oblò e l’effetto era istantaneamente più
claustrofobico, più tubolare. Persino lì, nessuno spazio veniva spre-
cato: un memoriale vecchio di diecimila anni implicava che, anche
sotto le luci gialle e affilate dei pannelli di filtraggio e dietro all’enor-
me serbatoio gorgogliante dell’acqua, le ossa incastonate delle Nove
Case stazionassero in eterno, vegliando sugli interruttori etichetta-
ti con denominazioni tipo: STOP FLUSSO EFFETTORE – STOP FILTRO
EFFETTORE – STOP ESTRAZIONE EFFETTORE. Meglio ridursi in polve-
re nell’ossario del Drearburh che vegliare su STOP FLUSSO EFFETTORE
fino alla fine dei tempi.
Il sangue era ancora umido sotto alle tue dita dei piedi, anche se si
stava in qualche modo attenuando; si trascinava in un nastro quasi nero
verso le camere inferiori di filtraggio. L’avevi seguito fino agli scarichi.
Sgocciolava giù per una rampetta di scale metalliche che conduceva a
un ampio ambiente nelle profondità della stazione, non altrettanto zep-
* * *
Quanto Dio credesse alla tua versione della storia – e quanto ci cre-
dessi tu, nel raccontarla di nuovo, paonazza per l’adrenalina, il rim-
pianto e la rabbia impotente e dubbiosa dello psicotico che sa cosa
ha visto ma è comunque in grado di rinnegarlo – non era chiaro. Era
molto stanco. La camicia era stata richiusa con i bottoni sbagliati nel-
le asole sbagliate. Eri nettamente consapevole del suo disappunto, ma
non lo comprendevi del tutto.
Dio, Mercymorn e Augustine esaminarono l’inceneritore, lascian-
doti in pace seduta nella sala di filtraggio insieme a Ortus. Non ti fi-
davi spesso dell’istinto, ma in quel momento non avevi paura di lui,
vedendolo lì seduto su una cassa capovolta – proprio come stavi se-
duta anche tu – segaligno, sconfitto, con quell’espressione vuota. Tu
eri arrabbiata e basta.
«Hai visto quel che hai visto» gli avevi detto. «Devi averla vista
quando ti ha infilzato. Il colpo è stato sferrato frontalmente, con la
tua lancia.»
* * *
Tornata nelle tue stanze – quelle stanze che ora ti risultavano fami-
liari, quasi accoglienti, ordinate e vuote – ti eri aperta una vena e ti
eri preparata a rimpiazzare tutte le tue barriere ossee col sangue. Ci
avevi messo delle ore. Non avevi completamente fortificato il plex
esterno, cosa che avrebbe richiesto un lavoro complesso e meticolo-
so di pilotaggio costruttivo, ma avevi collocato un garbuglio ulterio-
re di barriere attorno ai finestroni interni, sperando che quella solu-
zione provvisoria sarebbe bastata a garantirti una nottata di quiete.
Eri in piedi nel tuo corridoietto, intenta a soffiare una patina impal-
pabile di polvere ossea su una barriera sanguigna ancora fresca quan-
do avevi sentito dei passi fuori dai tuoi alloggi.
Eri rimasta immobile, in ascolto.
311
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un paio di forbici, dal sole; era una donna con un manto grigio, le
estremità erano assicurate con un nodo voluminoso in vita per evi-
tare che strusciassero al suolo. Attorno al collo portava una borsa di
tela grezza, una paralizzante massa di thanergia in via di decomposi-
zione in mezzo a tutta quella vita chiara e comprensibile. Dalle spal-
le facevano capolino due foderi malconci e i capelli, fermati dietro le
orecchie, le arrivavano al mento ed erano di un castano pietroso, il
colore di una mattonella antica in un tempio abbandonato.
Usando una voce che non ti sembrava appartenesse a te, le avevi
detto: «Ho visto il tuo cadavere».
«Be’» aveva risposto Camilla Hect, tranquilla. «Non andarlo a dire
a tutti, o vorranno vederlo anche loro.»
Dalla distanza che vi separava, l’avevi ponderata con attenzione;
avevi anche ponderato quel cadavere con un cumulo di macerie al po-
sto della faccia, coricato su un telone di plastica. Le strida singhioz-
zanti degli uccelli attorno a te si risolsero in un borbottio indistinto.
Ti eri portata una mano all’orecchio destro e, scostando le dita, te le
eri ritrovate coperte da uno strato di sangue così denso da risulta-
re quasi violaceo. Si era avvicinata di un passo; tu ne avevi fatto uno
indietro, riequilibrando la distanza, e lei non aveva interrotto le ma-
novre di approccio. Osservavi la paladina della Sesta, e sanguinavi.
Nel cervello ti si era aperto un cassettino. Ti eri frugata nelle vesti
– l’esoscheletro ti aveva restituito una delle ventidue lettere, con un
monito a lungo tenuto a mente: NEL CASO LA INCONTRASSI, DA CON-
SEGNARE A CAMILLA HECT.
La cosa non ti aveva turbata. Molte di quelle lettere stabilivano cir-
costanze impossibili. E, ora, una di quelle circostanze impossibili era
proprio lì di fronte a te. Avevi passato la busta al tuo scheletro incom-
bente, che aveva attraversato la radura, gestendo in maniera ammi-
revole il tappeto bitorzoluto della foresta, per consegnare la lettera a
Hect, precedentemente defunta.
Lei l’aveva presa, aveva strappato la busta, aveva letto il contenu-
to e aveva alzato le sopracciglia; nel frattempo, tu eri rimasta lì a si-
fonarti il sangue fuori dalle orecchie. Aveva guardato la lettera; ave-
va guardato te; aveva guardato la lettera. Poi l’aveva appallottolata e
l’aveva fatta a pezzi.
«Okay» aveva commentato, alla fine. E: «Ti esce anche dal naso».
uno scrigno colmo di gioielli. Sapevi che cosa conteneva ancora pri-
ma di toccarla. Quello che non capivi era perché.
Avevi aperto la borsa e ne avevi estratto il contenuto sotto al suo
sguardo scuro e pietroso. Non era particolarmente piena. Ti eri ap-
poggiata quella cosa sul palmo, meravigliandotene.
Era un frammento spaccato di cranio umano – una cresta dell’osso
sovraorbitale e un’ansa interrotta del parietale, un pezzo di zigomo,
una scheggia che si sarebbe collegata verso il basso con la mascella.
Tutto lì. Come teschio, non è che fosse granché interessante – ma-
schio, sui vent’anni, morto forse da otto mesi – ma, come ricostru-
zione, era incredibile. La porzione era stata assemblata partendo da
frammenti, manualmente, e non da uno stregone osseo. Il più picco-
lo non era più grande della lunetta cuticolare di un’unghia. Era stato
riassemblato con perizia, passione e laboriosità, a partire dal teschio
di qualcuno che, poco dopo la morte o durante – sintomaticamen-
te – era esploso. C’erano delle microscopiche fessure in corrisponden-
za dei punti in cui era stato incollato. Te lo giravi e rigiravi in mano.
«Occhi» aveva detto Camilla.
Un esile gocciolio di sangue stava facendo capolino dal tuo dot-
to lacrimale destro. Te l’eri tamponato. Il tuo mal di testa era note-
vole, ormai.
Le avevi detto: «Il tuo necromante».
E lei, dopo un istante di esitazione: «Sì».
Anche quello era impossibile, visto che l’ultima volta che avevi vi-
sto il teschio di Palamedes Sextus, era punteggiato di propellente per
armi da fuoco proveniente dal proiettile che gli aveva fatto implode-
re la faccia. Ti eri asciugata il condotto lacrimale sinistro prima che
l’impassibile paladina potesse fiatare.
Le avevi domandato: «Che cosa vuoi da me?».
Camilla si era alzata in piedi.
«Il Guardiano è ancora lì dentro» aveva dichiarato.
Avevi aspettato, reggendo tra le mani quel manufatto, frutto di un
lavoro stupefacente. Dopo un istante ti aveva risposto: «È collegato.
Al teschio. Voglio che me lo confermi. Tutto qua».
Tutto qua. Avevi analizzato di nuovo il teschio. Era un osso vec-
chio di sei mesi ma ancora pervaso da una vivace thalergia. Tutti i
tessuti residui erano stati rimossi con perizia; non c’erano ciocche
ressata al fatto che fossi ancora aggrappata o meno alla tua deliziosa
carne scintillante – in ogni caso, poi, eri intenzionata a dare solo una
brevissima occhiata. Ti eri sganciata la spada pesante dalla schiena
piazzandotela tra i piedi, avevi afferrato il teschio che tenevi in grem-
bo e ti eri immersa nel Fiume.
Avevi previsto di utilizzare il cranio per triangolare la posizione
del suo proprietario. Sarebbe stato altrimenti impossibile individua-
re uno spirito solo tra i milioni di miliardi – fantasmi innumerevoli,
una massa quasi infinita – che si aggiravano in quelle acque oscure.
«Il tempo e lo spazio funzionano diversamente nel Fiume, indipen-
dentemente da come ci entrate, pulcine mie» le aveva messe in guar-
dia Augustine. «Ancoratevi, quando vi lascerete alle spalle il vostro
vecchio abito di carne e mentre guaderete le acque. Aggrappatevi alla
geografia reale; siate consapevoli del vostro corpo; lasciate che sia il
vostro porto sicuro, a meno che non bramiate di essere trascinate in
un posto che non volete visitare.»
Tu, invece, stavi usando quel teschio come riferimento geografi-
co. L’acqua era molto fredda, quando l’avevi sentita richiudersi sul-
la tua testa. La sentivi densa e viscida come l’olio. Augustine aveva
tuffato te e Ianthe nel Fiume, per addestrarvi in vista di questo – per
farvi abituare a un Fiume che brulicava di pazzi, di folli e di affama-
ti – e sapevi cosa aspettarti. Ti saresti trovata in quell’acqua lurida,
con i denti, la carne decomposta, gli occhi ciechi e iniettati di san-
gue. Con un po’ di fortuna, saresti riuscita a vedere anche il fantasma
pazzo di quel teschio. Avresti potuto ottemperare al tuo dovere, con-
fermando che era andato ormai alla deriva da un pezzo e che anche
Hect avrebbe potuto mollare gli ormeggi e allontanarsi da quel do-
lore compresso e primordiale che quel racconto di fantasmi le aveva
cristallizzato addosso. Eri pronta al gelo e al senso di panico iniziale
degli spiriti che esplodono verso l’esterno, dal tuo corpo, quell’inda-
gine predatoria ma sicura nel tuo cervello… l’acqua torbida, anneb-
biata dal sangue vecchio…
… ed eccoti in piedi in una stanza. Le vesti bagnate sgocciolavano
su un pavimento di legno lucido.
La stanza aveva le dimensioni di una cella da penitente, grande ab-
bastanza per un letto e un tavolo. Meno penitenzialmente, il letto era
disseminato di cuscini, cuscinetti e coperte; il tavolo era egualmen-
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LETTERA #5 DI 24.
Proteggi a ogni costo Coronabeth Tridentarius, anche a
costo di mettere a repentaglio la tua stessa vita. Il lavo-
ro sarà invalidato se contribuirai direttamente o indiret-
E nella prima:
P. P. P. P. P. S. xoxoxoxo
Coronabeth Tridentarius era già balzata in piedi, sfoderando uno
stocco che conoscevi molto bene e la cui vista ti gelò nel profondo.
Era uno stocco della Nona Casa. La lama era di metallo nero, con
una guardia semplice e un’impugnatura del medesimo colore. Si pa-
rava davanti all’involucro muto a cui era ora ridotta Deuteros, pronta
all’azione con lo stocco in pugno e il braccio sinistro ripiegato dietro
la schiena. Somigliava così tanto a Ianthe da suscitarti uno stupore
alternativo; ma le avevi già fatto la stessa cosa – la lingua incollata al
palato, i denti ai denti – e tutto quello che riuscì a esclamare fu, dun-
que: «Nnngh!».
* * *
340
prima che potesse far loro del male… Oh, ma è una tragedia, esse-
re ficcate in una cassa e lasciate a giacere per il resto dell’eternità. È
accaduto a me, ma io ero solo un uomo, o forse cinquanta uomini…
Reverenda Figlia, la vostra intera casa poggia sul filo del rasoio, come
guardiani di un simile serraglio.»
Colse il suo sguardo posato sulla bottiglia e gli occhi azzurrissimi
furono attraversati da un guizzo un po’ folle. Con più calma, disse: «È
sciroppo di cardo, bambina mia. Non potrei sbronzarmici neanche se
mi ci mettessi d’impegno. E d’impegno ce ne ho messo».
Ortus disse: «Vi esprimete per indovinelli, vecchio».
«Allora lasciate che vi parli chiaramente» fece Maestro. «Adora-
te un mostro chiuso in una cassa e giocate a fare i padroni della sua
tomba. Ora siamo noi ad avere un mostro in scatola, ed è diventa-
to chiarissimo che mira a dominarci tutti. La Casa di Canaan non ha
mai cambiato colori o forme, nemmeno col succedersi delle stagioni.
Io lo so bene; abbiamo misurato tutto, dall’estate all’inverno, la tem-
peratura, le precipitazioni, l’acidità del mare stesso che c’è qua sotto
di noi, e non ha mai grandinato, non ha mai nevicato e, di certo, non
abbiamo mai visto delle fimbrie penzolare dalle travi. Lasciatemi ela-
borare una profezia, alla mia venerabile età: il Dormiente sta accu-
mulando le forze per svegliarsi del tutto, e colonizzare quel che tro-
verà. Ne ho timore! Dio! Ne ho un gran timore!»
Abigail disse: «Maestro, per favore, venite a stare qua con noi. Ab-
biamo dei letti… ci sono dei turni di guardia». Ma lui esclamò: «E
perdermi l’opportunità di morire? Ho passeggiato per i corridoi alle
tre del mattino, urlando a pieni polmoni: “Oh, sarebbe tremendo se
mi sparassero!” e il Dormiente non è comunque arrivato… è orribile
suscitare la pena di un mostro».
Piroettò bruscamente, buttando giù un’altra lunga sorsata dal-
la bottiglia. «Le vostre spade non scalfiranno la sua armatura» dis-
se, voltando loro le spalle. «Le sue armi faranno scempio della vostra
carne. Non si fermerà finché non avrà fagocitato la sua preda. E ri-
conoscerà solo la lama che c’è fuori… tutto quello che abbiamo noi
sono le lame di dentro. Le ha viste e le ha spuntate. Tra noi non re-
stano più eroi… e io dico, urrà!»
Maestro, in un folle moto d’euforia, fece un saltello e schioccò i
talloni uno contro l’altro, con l’ardore e l’energia di un uomo con un
quarto dei suoi anni. «Urrà!» esclamò di nuovo. «Tutti nel Fiume con
noi, ragazzi! In cinquanta saremo un bel banco di pesci!»
Scaraventò con violenza la bottiglia contro il tratto di tubo più vi-
cino, fuori in corridoio. Harrowhark rimase a guardare l’organo ros-
so e lucido che si lasciava andare a un blarp umido e sguisciante; la
bottiglia ci rimbalzò contro mestamente e, mentre Abigail e Ortus le
si facevano più vicini, ruzzolò tristemente sotto a un altro lembo di
membrana rosata. Un po’ del fluido aspro che conteneva si rovesciò sul
pavimento di legno malandato. In una manciata di secondi, perfino i
residui di quell’alcol cominciarono a coagularsi in fiocchi di ghiaccio.
«Ti sta venendo a prendere, Reverenda Figlia!» esclamò Maestro.
«Oh, sta venendo per te… e una volta che ti avrà presa, una volta che
la roccia sarà stata scostata, una volta che la tomba sarà scoperchia-
ta, l’Imperatore delle Nove Case non conoscerà più la pace! Il Re è
morto! Lunga vita al Re!»
Maestro imboccò il corridoio in una follia di saltelli, come un bam-
bino, schiaffeggiando grumi oblunghi e tremolanti di muco, tra un ur-
letto e l’altro. I suoi fischi e le sue grida continuarono a riecheggiare
lungo le antiche pareti anche quando scomparve alla vista.
Il gelo che Harrow percepiva sotto alla tela nera e spessa dei suoi
paramenti le sembrò un vecchio amico. Le bruciavano le dita, come
se le avesse tenute troppo vicino al fuoco. Il suo paladino e la stori-
ca non riuscivano a riscaldarla, per quanto fossero vicini: era come
se fosse rimasta sola nella stanza. Quando Abigail la sfiorò, fece un
sobbalzo: le aveva posato una mano sulla spalla come se non fosse
più grande del duo disperso della Quarta Casa, una ragazzina goffa
al cospetto della morte.
«Be’, Maestro può andare a farsi friggere» commentò indispetti-
ta Abigail Pent.
348
* * *
*
Ianthe se la ride perché ho, in inglese, è un’abbreviazione di whore, “puttana”. (N.d.T.)
* * *
siasi altra attività organizzata nella quale sarebbe stata costretta a ge-
stire le opinioni altrui, il che ti risultava strano visto e considerato che
aveva passato una vita intera attaccata alle gonnelle della sorella ge-
mella. Sedeva con il braccio pallido incrociato sull’oro splendente di
quello scheletrico, entrambi orrendamente incorniciati dallo sfondo
madreperlaceo e iridescente della sua veste. I capelli le spiovevano in
una lenzuolata sottile e liscia sulle spalle, e teneva la testa appoggia-
ta allo schienale come se fosse sul punto di addormentarsi. Ti aveva
lanciato un’occhiata; tu avevi distolto rapidamente lo sguardo, ma ti
aveva sorpresa a fissarla.
Più tardi ti eri ritrovata a pregare che la traditrice non fosse Ianthe,
nonostante avessi visto con i tuoi occhi Coronabeth, viva, fra le brac-
cia del Sangue dell’Eden: la gemella che, per quel che potevi saperne,
era l’unico essere umano che Ianthe amava più di quanto amasse se
stessa. In nome di questa sorella, Ianthe ti aveva guardata dritto negli
occhi mentre ti piantava un coltello nel palmo della mano.
Perché pregavi per l’innocenza di Ianthe, quando era così dubbia?
Non era costume della Nona Casa pregare con una tale credulità deli-
berata; eppure pregavi comunque, sapendo che la propensione di Ian-
the per la tergiversazione avrebbe potuto bloccare l’intero universo.
Quella serpe calcolatrice disse, svogliata: «E la forma fisica? È dav-
vero invulnerabile?».
«Se mantiene la traiettoria attuale, triangolando ho stabilito che si
poserà… qui» fece Mercy, fissando al plex con dei magneti tondi una
mappa dello spazio circostante. Eri sconvolta da quanto il punto di
atterraggio sembrasse lontano dal Mithraeum; la tua ligia precettri-
ce aveva stimato la posizione, se leggevi correttamente il diagramma,
da qualche parte nell’orbita di un pianeta a cinque miliardi di chilo-
metri di distanza. «La cintura di asteroidi implica che ci ritroveremo
con ondate di Araldi di appena venticinquemila unità circa: non può
caricare con l’intera cavalleria.»
Ianthe disse: «Sappiamo dov’è. Bombardatela».
«Ci abbiamo già provato, pulcina, come ti ho spiegato» disse il suo
insegnante, ma con una certa gentilezza. Aveva estratto il suo arma-
mentario di cartine e una bustina dal contenuto mefitico e si era mes-
so a rollarsi una sigaretta. «Lo strato di materia morta e di Araldi è
spesso duemila chilometri.»
La sorella che più si approssimava alla tua età non si alzò, come fe-
cero tutti gli altri quando Dio chiese di mettere su il bollitore. Conti-
nuava a fissare il disegno nero, e domandò, senza particolare appren-
sione: «Ma che cos’è lo stoma?».
Mercy disse: «Augustine, le avrai ben parlato dello stoma». Il tono
era accusatorio, ma lui si limitò a ribattere: «No. Non vedevo il moti-
vo di spaventarla. Perché… tu ne hai parlato a Harrowhark?».
Ovviamente, nessuno ti aveva detto niente a proposito dello sto-
ma. La tua insegnante disse, con insofferenza: «Non lo vedrà mai!
Perché disturbarsi?».
«Se fosse per me, lascerei Ianthe al sicuro nel mesoroico. Noi tre
vecchie ciabatte saremo più che sufficienti a trascinarla giù» disse
Augustine, secco. Lo sguardo languido di Ianthe, con le sue screzia-
ture brune, si orientò su di lui come se le energie le bastassero a ma-
lapena. «Quella cosa ha una forza attrattiva gravitazionale devastan-
te. Non è roba da neofiti.»
«Perdonami, ma è possibile che non tutti quanti noi arriveremo
vivi al momento in cui quella cosa si stancherà, quindi dovresti pian-
tarla di arrotolare fasce attorno a quella tua neonata strepitante e…»
«Non hai mai preso sul serio lo stoma, ecco perché tutta la tua Casa
del cazzo ci si attacca come a una grottesca mammella…»
«Non essere volgare…»
«È la bocca dell’inferno» disse Dio.
Era in piedi nello spazio liminale che separava la sala da pranzo
dalla cucina, la latta dei biscotti stretta tra le mani. Gli abiti, indos-
sati troppo a lungo, erano pieni di pieghe e sulla tempia c’era una
leggera sbavatura blu – aveva scritto con l’inchiostro e poi se l’era
toccata. Disse: «Uno spazio di autentico caos – e con “caos” inten-
do l’abisso e anche l’imponderabile – situato sul fondo del Fiume. Il
Letto del Fiume è foderato di bocche che si spalancano all’approc-
ciarsi di una Bestia Resurrezionale, e nessuno spirito si avventura
più in basso dello strato batiroico. Chiunque sia entrato in uno sto-
ma non ha più fatto ritorno. È un portale che conduce al luogo che
non posso toccare… un posto che non comprendo del tutto, dove
il mio potere e la mia autorità sono completamente insignificanti.
Scoprirete che pochissime anime sprofondano fino al baratron. Se
credessi nel peccato, direi che sono morte zavorrate dai propri pec-
360
calisse del genere, Harrow. Credo tu sia l’unica tra i Littori che possa
davvero comprendere a pieno l’idea di “apocalisse”… non è una mor-
te data dal fuoco. Non è nulla di spettacolare. Tu e io quasi preferi-
remmo la fine, se si manifestasse sotto forma di supernova. È l’ine-
sorabile tramonto del sole, senza la speranza di un altro mattino.»
Entrambi eravate sprofondati nel silenzio.
«Se combattessi le Bestie Resurrezionali lascerei le mie Case a mo-
rire» disse lui. «Se combattessi gli Araldi, potrei diventare pazzo, il
che implicherebbe la medesima cosa. Quindi mi chiudo qua – mu-
rato, in realtà – per impedire che le Nove Case diventino Zero Case,
con farcitura di sofferenza.»
Sembrava esausto. Sembrava molto triste. Aveva detto: «Ripeto.
Non sei l’unica ad avere dei limiti».
«Posso farvi una domanda, Maestro?»
«Non ti sei ancora stufata?»
Gli avevi chiesto: «Chi era A.L.?».
Spalancò gli occhi. Dio si raddrizzò sulla sedia e ti squadrò con sin-
cero stupore, e disse: «Sei sicura di voler imboccare proprio… quella
strada? Svisceriamo prima tutte le altre, quelle meno imbarazzanti.
“Come nascono i bambini?” Lì me la posso cavare, senza problemi.
Voglio dire, non che frema dalla voglia, ma sono pronto. Ho questo
libricino che parla di bebè, corpi, amici e famiglia. Tu e Ianthe state
prendendo precauzioni?».
Ora toccava a te tirarti su dalla poltrona e intonare, costruendo ogni
sillaba con la stessa enfasi rigida che avresti dedicato a uno scheletro:
«Noi… non siamo… intime».
«Perdonami… Cioè, avete più o meno la stessa età, non so più
come funzionano le cose oggi, sul serio, tutti quanti siamo stati vivi
per così tanto tempo…»
«Non c’è nemmeno nulla di sentimentale… o, in tutta franchezza,
nemmeno di platonico…»
«Scusami! Scusa. Scusa» aggiunse lui. «Non dovrei dare per scon-
tate queste cose.»
Se le pitture avessero potuto cuocertisi in faccia e sbriciolarsi come
argilla, l’avrebbero fatto. Se avessi potuto convincere il Santo del Do-
vere a fare irruzione, trapassarti come uno spiedo e portare in pro-
cessione il tuo corpo maciullato in giro per la stanza, l’avresti fatto.
tore della Nona Casa, l’Imperatore che tutto concede, il Principe Cle-
mente; la tua fine apparve con le sembianze di un adulto fatto e finito
che ti diceva che gli sarebbe piaciuto se fossi stata sua.
Avevi scaraventato il bicchiere sul tavolo. Si era frantumato in un’in-
fiorescenza d’acqua, con una moltitudine frammentata di schegge a
fare da sepali. Eri salita sul tavolo. Scricchiolava sotto al tuo peso. Dio
si stava alzando, per fermarti, ma avevi già piantato le ginocchia sui
vetri; ti eri inginocchiata umilmente su quei frammenti affilati come
rasoi, premendo i palmi sulle schegge, e ti eri accartocciata in una pe-
nitenza umida e sanguinante al suo cospetto.
Lui disse: «Harrow, no». Era sconvolto. Ti disse: «Ti prego, Harrow
hark, mi dispiace. Ho ovviamente detto un’immensa stupidaggine…
tendo a farlo, eh… non era mia intenzione ferirti». Disse: «Diecimila
anni, e sono ancora un tale sciocco».
Avresti potuto riferirgli del traditore. Invece gli avevi detto: «Sono
entrata nel Sepolcro Sigillato».
Dopo un attimo, Dio aveva ribattuto: «Non è vero».
«Le barriere della roccia sono state facili da bypassare» avevi spie-
gato. «La discendenza di Reverende Madri e di Reverendi Padri è stata
responsabile del loro mantenimento per anni. Le barriere e gli sbar-
ramenti successivi sono stati più complicati. Avevo nove anni quan-
do ho cominciato e, arrivata ai dieci, ero ormai riuscita a superare il
pozzo. Ho passato un anno intero a lavorare soltanto su quelle ser-
rature. Quando sono arrivata alla barriera sanguigna sulla pietra, la
barriera del guardiano del sepolcro, non sapevo come disinnescar-
la. Resta la struttura magica più complessa che io abbia mai visto. È
stata la mia prima visione del Necromante Divino… ma, un giorno,
quando avevo dieci anni, ho deciso di porre fine alla mia vita, mio
Signore, e a volte penso sia quello che mi ha permesso di oltrepassa-
re la soglia del guardiano del sepolcro. L’ho aperto; ho visto l’acqua
salina che lambisce la riva pietrosa, e mi sono avvicinata al sepolcro.
Ho visto il Sepolcro e ho posato lo sguardo sulla vostra morte. I miei
genitori si sono uccisi a causa della mia eresia. Ho visto ciò che giace
là dentro e lo amerò fin’oltre la mia inumazione. Io… io ho peccato,
mio Signore? Quel giorno ho ucciso entrambi i miei padri?»
Ansimavi, emettendo minute e affilate espirazioni che ti risaliva-
no dal fondo della gola. Eri inginocchiata sui vetri rotti con la fronte
«Non può essere distrutta» proseguì lui. «Non può essere neutra-
lizzata. Non può nemmeno attenuarsi; la sua magia è la mia magia.
La discendenza dei Reverendi Guardiani del sepolcro si è affannata
nel nome di un malinteso, se hanno creduto che la roccia potesse es-
sere scostata da qualcuno che non fossi io. È una barriera sanguigna
pura, Harrowhark. Qualsiasi cosa pensi di aver fatto – in qualunque
camera fasulla costruita attorno alla tomba tu sia incappata –, non
c’è nessuna possibilità che tu abbia penetrato quella autentica. Mi di-
spiace così tanto. Sei rimasta coinvolta in una tragedia basata su un
fraintendimento.»
Eri ridotta all’incoerenza delle tue componenti costitutive. Vole-
vi dirgli: “Ho visto il Corpo”. Volevi dirgli: “Ho visto il sepolcro”. Ma
ancora una volta, davanti a un fatto compiuto, eri scossa dal dubbio.
L’incertezza dei folli. La condanna dei pazzi. Nessuno ti aveva visto
superare quella soglia. Nessuno ti aveva vista uscire. Non avevi idea
di quello che ti stesse leggendo in faccia; si era accovacciato e osser-
vava quel tuo stordimento cieco e sanguinante con quegli occhi infer-
nali, e ti carezzò col pollice la tempia, dove si era piantata la scheggia
di vetro, e ti risistemò dietro l’orecchio una ciocca di capelli ribelle
con la delicatezza ordinata e naturale di un genitore.
Poi gli occhi di Dio si spalancarono in una frazione di secondo e la
sua voce si fece del tutto diversa quando ti domandò: «Harrowhark,
chi diavolo ti ha manomesso il lobo temporale?».
Il tuo corpo ruzzolò giù dal tavolo, con una reattività così rifles-
siva e fulminea che non eri certa se quell’azione fosse il frutto di un
tuo sforzo cosciente. La tua carne annaspò per alzarsi in piedi, irta
di frammenti di cristallo e dozzine di tagli che ti avevano trapassato i
vestiti. Ti eri voltata. L’Imperatore aveva esclamato: «Harrowhark?»
mentre ti allontanavi barcollando dal tavolo. E con un tono più la-
mentoso: «Harrowhark!» mentre sbandavi inesorabilmente verso la
porta, ma non ti seguì. In qualche modo la tua mano schiacciò il pul-
sante che la fece aprire – e in qualche modo la tua carne si trascinò
via da lui – e avevi camminato, camminato e camminato.
Mentre la porta si chiudeva forse avevi sentito: «Maledizione,
John… maledizione.» Ma l’ultima cosa che avresti fatto era fidarti
delle tue orecchie.
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diani del sepolcro: ma forse anche il tuo involucro vuoto avrebbe at-
tirato un redivivo planetario. No, il tuo corpo non avrebbe mai più
potuto fare ritorno a casa. Avevi deciso di esordire scrivendo: “But-
tatemi fuori da un boccaporto”, ma grazie al cielo quell’espressione
puerile di autocommiserazione ti fece ripigliare un pochino, e rinun-
ciasti anche solo a cominciare.
L’unico vero vantaggio, in quell’ultima manciata di giorni, fu quel-
lo del guerriero dalle mille cicatrici: una in più non ti avrebbe più po-
tuto danneggiare. C’era molto poco che potesse sorprenderti, e mol-
to poco che potesse ancora disgustarti. Ma la penultima notte prima
dell’arrivo presunto della Bestia Resurrezionale, ti era caduto un guan-
to vicino al letto; ti eri dovuta inginocchiare per recuperarlo. E avevi
scoperto che, ben infilato sotto al letto – nascosto nell’oscurità dove
anche tu ti eri distesa in attesa del Santo del Dovere – c’era un cada-
vere inerte: il corpo disperso di Cytherea.
Eri rimasta acquattata in quello spazio tra l’intelaiatura e il pavi-
mento, di fianco al letto, per parecchio tempo. Non avevi percepito
nessuna thanergia estranea nella tua stanza e nemmeno tracce di un
teorema ostile. Persino in quel momento, Cytherea giaceva docile e
polverosa, vuota sotto ai tuoi occhi. Avevi allungato le dita per tastar-
le un braccio: ed eccolo lì, l’onnipresente tocco di Dio che la mante-
neva incorrotta, con il caldo sentore agrumato della sua necroman-
zia divina che ti martellava la base delle cavità sinusali. Se ne stava
coricata e immobile come una bambola abbandonata. Le avevi addi-
rittura detto: «Alzati. Ti ho vista» ma quel comando non la smosse,
chissà per quale ragione.
Allora non ti eri domandata come avesse fatto quel cadavere a far
breccia nelle tue barriere, che riapplicavi con solerzia ogni sera con il
sangue fresco. Avevi esaminato il corpo; avevi serrato le caviglie mor-
te e i polsi morti nella morsa di due robuste pinze d’osso; e poi avevi
marciato giù per il corridoio, e quando Ianthe aveva risposto al tuo
nevrastenico bussare con un sonnacchioso: «Nonagesimus, ma che
cosa…» non le avevi lasciato il tempo di finire la frase e l’avevi trasci-
nata nella tua camera da letto, prendendola per l’oro gelido del suo
braccio scheletrico.
Non aveva protestato e nemmeno offerto un commento, volgare
o meno. Era troppo sorpresa. Quando le avevi fatto segno di guarda-
* * *
L’ultimo giorno, per l’ultima volta, il Santo del Dovere cercò di ucciderti.
Stavi uscendo dall’atrio dell’area abitativa… ti eri fermata, per un
secondo, all’ingresso della tomba dove il corpo di Cytherea non ri-
posava più in pace, forse nella speranza che potesse rimaterializzarsi
sotto ai tuoi occhi, riscrivendo la realtà… e quando inevitabilmente
non era accaduto, te n’eri andata, augurandoti di trovare i rimasugli
degli avanzi di qualcuno da sgranocchiare in cucina.
Ortus era apparso dal nulla e ti aveva colpita come il martello di
Dio. Ti era saltato addosso appena avevi messo piede in corridoio:
ti aveva scaraventata contro il muro con tutto il peso del suo corpo,
producendo un immane crunch e concludendo prematuramente la
lunga permanenza nell’aldilà di uno scheletro cesellato e tempestato
di perle nere che era stato fissato alla parete che ospitava una volu-
minosa fascina cascante di fogliame d’ebano. Ti eri automaticamen-
te risistemata gli oblunghi spezzati delle ossa nasali mentre lo scara-
ventavi via, risvegliando il monumento incrinato in una batteria di
palmi che stantuffavano in avanti, sostenuti da una poderosa artico-
lazione sinoviale. Si era schiantato contro la parete opposta e tu ave-
vi battuto in ritirata giù per il corridoio, sanguinando un po’ e misu-
rando la distanza che ti separava dalla sua lancia.
Ti aveva abbaiato: «Sguaina la spada».
Avevi allungato il braccio all’istante verso la lama foderata d’osso
che tenevi agganciata alla schiena. Lui ti aveva detto, con una punta di
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* * *
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a un moderno paladino della Nona Casa che lei non aveva mai avu-
to la minima speranza di eguagliare. Non ci aveva mai provato. Har-
row si era resa conto, sin dagli albori della sua carriera, che se non
poteva contare sulla stazza, sul peso e nemmeno sulla considerevole
ampiezza, avrebbe invece dovuto lavorare sulla velocità, la tecnica,
la destrezza. L’aveva stabilito quando aveva suppergiù cinque anni.
Vedendosi negare le armi, Harrow aveva scalato il monumento
Anastaseo e aveva recuperato la catena di Samael, la sacra reliquia del
servo guerriero dei guardiani originari della tomba, morto da tempo
immemore; per quel peccato era stata obbligata a spogliarsi di fronte
all’altare davanti al quale si parava oggi, mentre il Reverendo Padre
la prendeva a frustate sulla schiena, finché non era intervenuta la Fi-
glia. Ora Harrow aveva la catena, ma la Figlia non le aveva mai per-
messo di scordare quella sua intercessione.
«Harrow» disse il paladino dal volto teschiato e dal lugubre aspet-
to – quando si era congedato dal suo incarico, cinque anni prima,
Mortus aveva impresso il teschio su suo figlio, nel momento stesso
in cui l’erede necromantica adottata designava ufficialmente Ortus
come suo primo paladino; le linee delle cicatrici spiccavano nitida-
mente sotto le pitture – «non ti lasceranno mai andare. Vorrei tanto
che lo facessero. Non fremo dalla voglia di partire per la Prima Casa
– non oso immaginare di servire un Littore, per non parlare di ritro-
varmene uno davanti, come all’epoca di Nonius.»
«Matthias Nonius non ha mai incontrato nessun cazzo di Littore.»
«Dalle cronache risulta chiaro che…»
«Mancava mezza pagina!»
«Una suggestiva integrazione stabilisce con chiarezza che…»
«Io sono la figlia della Nona Casa» fece lei, interrompendo qual-
siasi cosa volesse spiegarle a proposito di quella suggestiva integra-
zione. «Sono la promessa non mantenuta e i denti insanguinati del
teschio mai baciato. Riconosco di essere una crudele delusione. Po-
trò anche essere stata sostituita – e potrò anche non essere la vera
erede dei misteri che appartengono solo alla Reverenda discenden-
za – ma brandirò la spada! Se non sono un’adepta, allora è mio dirit-
to impugnare la spada!»
Ortus Nigenad si asciugò il sudore dalla fronte. La luce delle can-
dele lambiva le dolorose incisioni sul suo volto, ma la sua espressione
non si intonava alla loro temibilità. I panieri d’osso che portava sul-
la schiena emettevano un piacevole fruscio, come la buca della sab-
bia dei bambini.
«Harrow» disse. «Non è nemmeno per lei che desideri brandire
quella spada.»
«No» rispose. «Spero che la cuociano viva nell’olio bollente. Spe-
ro che precipiti in una voragine davanti a una gran folla di spettato-
ri. Spero che qualcuno le prenda a cesoiate i tendini dei talloni. Avrei
una voglia matta e assolutamente sincera di vederlo succedere. Com-
prerei pure il biglietto.»
Ortus disse, tremebondo: «Ma lo sai che è piuttosto…».
«No.»
«E che sta perorando…»
«Continua la frase» fece lei, «e conoscerai il dolore.»
«Harrow» le disse, mogio, «farei cambio col secondo paladino in
un batter d’occhio. Sarebbe comunque un grande onore, servire come
paladino in seconda del Drearburh! E restare a casa, prendendomi fe-
delmente cura della famiglia, senza avventurarmi tra le braccia ostili
dello spazio, verso casate sconosciute! Ma anche se io dicessi: “Sì, ri-
conosco Harrow Nova come mia superiore”, tua… la Reverenda Ma-
dre e il Reverendo Padre non lo accetterebbero. Dovresti uccidermi,
prima che possano prenderti in considerazione. Ed essere ucciso è
l’ultima delle mie ambizioni.»
«Hai ragione» disse Harrow.
Il suo sollievo era palpabile. Le spalle gli si afflosciarono in avanti,
anche se era possibile che quello dipendesse dalle bisacce che gli ac-
centuavano la scoliosi. Aiglamene lo rimproverava sempre per la po-
stura. «Guarda Harrow. Dritta come un monumento» era solita dire.
«Tu te ne stai lì in piedi come uno stramaledetto amo da pesca.» Or-
tus si appoggiò pesantemente a una panca, sospirando sollevato, e
disse: «Grazie. Bene. Sono contento».
«E la considero una solida argomentazione» proseguì Harrow.
Scostò la spada dal petto e srotolò la catena dalla spalla, afferran-
done l’estremità ferrata tra le dita guantate. La furia che vorticava
dentro di lei si era risolta in un moto torrentizio, come metallo cola-
to in uno stampo e, al solito, la spada era diventata un’estensione del
suo braccio. «Preparati a morire, Ortus Nigenad. Raccomanda la tua
anima al Sepolcro Sigillato, alla roccia e alle catene, e spera che gal-
leggi sulla superficie del Fiume.»
«Per carità di Dio, Harrow, per favore.»
Le loro voci avevano viaggiato. La porticina della sacrestia si spa-
lancò; il Maresciallo Crux apparve, decrepito, abbigliato con i suoi
pellami ammuffiti più formali, il viso disfatto atteggiato in un’espres-
sione inorridita, le mani macchiate che tremavano per l’indignazione.
«Spade sguainate!» sbraitò. «Spade sguainate nel nartece… davanti
all’altare, al cospetto delle mense votive, sotto allo sguardo delle ico-
ne! Ci infanghi. Ci insozzi. Degradi questo luogo.»
«Perdonatemi, Maresciallo» disse Harrow.
«Non sto parlando con te» gracchiò Crux, con solenne dignità. Crux
era l’unica fonte affidabile di sostegno nella vita di Harrow; era un so-
stegno che veniva sempre impartito in una maniera che risultava or-
rendamente iniqua per chiunque altro, ma era comunque sostegno e,
per quanto malaccetta la rendesse, non l’avrebbe scambiata con la te-
nerezza di chiunque altro. «Sto parlando con il primo paladino. Or-
tus il Nono, sciocco che non sei altro, dovresti essere più giudizioso.»
«Perdonatemi, Maresciallo» fece Ortus umilmente, come era sua
consuetudine, come se c’entrasse qualcosa. Certe volte Harrow lo
odiava per questo.
«Mi rifiuto» disse Crux, sdegnoso. «Vai, corri dalla tua sciroccata.
Hanno quasi terminato i preparativi.»
Il primo paladino si irrigidì e, con una lievissima sfumatura di bia-
simo, borbottò qualcosa. Il tenore di quel suo mormorio non bastava
a renderlo difensivo; Ortus, per quanto avesse superato i trenta, non
poteva fare altro che bofonchiare di fronte al maresciallo.
Crux abbaiò un suono troppo decrepito per essere una risata.
«Come dici? Cos’hai detto, imbecille? Non dovrei chiamarla così? Ma
strozzati… datti fuoco… sotterrati. Se avrai il fegato di andare a riferire
a quella sgallettata come la chiamo, la mia opinione di te migliorerà.»
Ligio al dovere e senza offrire autodifese più sostanziose di un enor-
me sospiro afflitto, Ortus si avviò in direzione della sacrestia. Mentre
si allontanava, borbottò: «Triste è il giorno in cui spediamo un detri-
to a farci da campione… triste è il giorno in cui mandiamo un rifiuto
a farci da spada. Harrowhark» – solo Crux aggiungeva quell’-hark;
veniva meticolosamente eliso da chiunque altro, perché ricordava
alla gente che era… – «devi avere più riguardo per la tua arma, e non
sguainarla davanti all’altare».
Le si accostò malfermo, scosso da una tosse pastosa, e aggiunse un
sussurro roco e chiaramente udibile: «Abbiamo dei pellegrini qui, per-
sino ora. Sarebbe opportuno scusarsi».
C’erano dei pellegrini; era in imbarazzo per non essersene accorta.
Dovevano essere entrati senza che ne avesse percepito la presenza.
Due visitatori erano chini sugli inginocchiatoi, con le loro vesti eccle-
siastiche nere bordate di marrone attorno alla spalla destra a esplici-
tare l’appartenenza a una determinata Casa. Infilò lo stocco nel fo-
dero sdrucito, si riavvolse alla spalla la catena che aveva lucidato con
tanta perizia e si profuse in un inchino poco convinto in direzione
dell’altare, prima di avviarsi lungo la navata.
Vedendola arrivare, una dei pellegrini si abbassò il cappuccio. Por-
tava gli occhiali e la folta chioma castana era ordinatamente raccol-
ta all’indietro con una retina nera, come da usanza; l’uomo accanto a
lei si era rasato la testa e continuava furtivamente a passarci sopra le
mani, come un bambino alla prima tonsura. Harrow fu sorpresa di
vedersi rivolgere dalla prima pellegrina un sorriso stanco e tribolato,
come se la donna la conoscesse già. Era il classico sorriso rammari-
cato che si riserva a chi ha toppato un esame perché non ha studia-
to abbastanza. Harrow non l’aveva mai vista prima in vita sua. Non
la conosceva. Non conosceva suo marito.
Solo che… come faceva a sapere che quel tizio era il marito di quel-
la donna?
«Non è così che va» disse Abigail.
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(«Non hanno veramente cercato di farci prendere gli orecchioni. È stato il mio fra-
tellino a farci prendere gli orecchioni.»)
«… c’è una caterva di regole su come chiedere l’autorizzazione al
combattimento, e se ci sarà una guerra ci spediranno nelle retrovie,
quindi se sei sveglia la prima cosa che devi dire al tuo ufficiale supe-
riore è: “Perdonatemi, non voglio che il mio rango si intrometta tra
me e le truppe”, e a quel punto ci si potrà “dimenticare” di seguire la
direttiva di sicurezza e ti potranno designare al fronte post-thanergi-
co, dove la cosa interessante è… ma vuoi venire al bar?»
Harrowhark non voleva andare al bar. I Luogotenenti Tettares e
Chatur la accompagnarono comunque in mensa, un posto che si era
ripromessa di non visitare mai a meno che non fosse assolutamente
necessario. Si sentiva straordinariamente esposta, lì in coda, sotto gli
sguardi di tutti gli ufficiali in addestramento; quell’ammasso di ne-
cromanti e spadaccini, uomini e donne delle Nove Case che avevano
superato esami o sganciato soldi o fatto qualsiasi altra cosa si faces-
se nelle altre Case per aggiudicarsi il rango di ufficiali. Lei era l’unica
con una mostrina placcata di nero da luogotenente; era l’unica con
le maniche bordate di nero. Nel frattempo, il duo della Quarta conti-
nuava ad alimentare una fiumana di chiacchiere irrilevanti, come due
cascate umane. Crux avrebbe detto che parlavano troppo per avere
una lingua sola. Se fosse stata una maga corporale – che l’Imperato-
re non volesse – avrebbe di certo dovuto tenere a bada la tentazione
di asportare loro anche quell’unica lingua che avevano in dotazione.
Harrow tornò a soffermarsi sulla paladina che cianciò, entusiasta:
«… già provato il caffè?».
Il caffè, in tutta sincerità, era agli ultimi posti della lista delle prio-
rità di Harrow. Ma di fronte all’inspiegabile ardore della Luogotenen-
te Chatur, riuscì solo a produrre un gelido: «No».
Uno strano fremito attraversò il viso della ragazzina, come se stes-
se facendo del suo meglio per non scoppiare a ridere. Ma disse: «Non
somiglia per niente a quello che c’è a casa. Ci sono dentro stimolanti
extra e altra roba – tipo degli acidi – per l’esposizione spaziale. Bio-
adattivo… Isaac, com’è che era?».
Lui incrociò gli occhi piccoli, sospirò un po’ e poi sciorinò: «Bio-
adattivi a riassorbimento inibitorio».
«E noi come lo chiamiamo?»
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lo di una stanza decrepita della Casa di Canaan, velato dal fiato bian-
co e incandescente che usciva dalla gola di Harrow. Quando il mon-
do finalmente le assestò il pugno allo stomaco che caricava da un bel
pezzo, un ululato aggrovigliato le uscì dalla gola e il fatto di essere in
grado di produrre un baccano del genere la sconvolse. La memoria
investì Harrowhark Nonagesimus con la forza gravitazionale ineso-
rabile di un satellite risucchiato via dalla sua orbita e lanciato incon-
tro alla morte sulla superficie del pianeta a cui è legato; il mondo la
investì come una caduta.
Un vortice di facce, di movimenti. Harrow si rese conto di non es-
sere sconvolta, dopotutto. Era consumata. Era il pagliericcio che ali-
mentava l’incendio che le divampava nel cuore, il cervello la spugna
asciutta da dare alle fiamme, la sua anima un ammasso di gas incan-
descente. Non poteva affrontarlo. Non lo poteva affrontare, nella ma-
niera più assoluta e strutturale.
«Harrow?» disse qualcuno lì vicino, qualcuno di familiare; aveva
lo sguardo annebbiato.
«Se ti dimentico, che anche la mia destra possa essere dimentica-
ta» scandì la sua bocca. «E più ancora, se null’altro che la morte può
separarmi da te.»
E, incerta: «Griddle».
Le mani dovevano essersi ritirate; si ritrovò a faccia in giù sul ma-
terasso a singhiozzare come non singhiozzava da quand’era bambi-
na. Qualcuno disse: «Tutti fuori. Via…». Ma era più di quanto potesse
assimilare in quel momento. Harrow era troppo stupita dalla capaci-
tà del suo corpo di espandersi per ospitare la disperazione. Era come
se quel che sentiva si raddoppiasse sotto ai suoi occhi, allargandosi,
come una caduta lungo una rampa infinita di scale. Piantò le dita nel
materasso e pianse per Gideon Nav.
Smise di piangere solo quando il suo corpo arrivò all’esaurimen-
to fisico. Le lacrime non potevano più fluire da un occhio incollato;
e nemmeno i singulti da una gola spellata. Per parecchio tempo sep-
pellì la faccia nella porzione bagnata di materasso su cui aveva pian-
to, annusando l’imbottitura vecchia e sentendo quel dolore che si era
moltiplicato in un universo.
Si tirò su a sedere. Respirò. Schiacciò il viso nel lembo della veste
nera e consunta e si asciugò le lacrime, riducendole a tracce gelate sul-
indulgenza. Aprì gli occhi e disse: «Lady Pent. Parlami della came-
retta della tua infanzia».
«Era grande come questo salottino, forse» rispose prontamente
Pent. «Due letti con la testiera contro il muro opposto alla porta. Da
piccola mi piaceva che il mio fratellino dormisse di tanto in tanto
nella mia stanza. Pareti color primula di velina adesiva, un grazio-
so cromio del Principe Imperituro – un tantino strabico –, un pan-
nello Vit-D al posto della finestra, con sopra un motivo a rotazio-
ne. Le ossa del braccio di mio nonno sopra alla porta. Un tavolino
rinforzato dove giocavo con le bambole o leggevo, con una nicchia
sotto. Mi ci dovevo rifugiare nel caso un jet zonale fosse riuscito
a superare lo sbarramento. Stelle fosforescenti dipinte sul soffitto,
un gancio sul muro per i miei guanti e la veste. Non ci pensavo da
anni. Perché?»
«Test iniziale» disse Harrowhark. «Tralasciando la flessibilità del
solipsismo metafisico, ho una conoscenza pressoché nulla della Quin-
ta Casa e di come la sua gente viva lì. Più insensatezze fossero state
incluse nella tua risposta, più sarebbe stato probabile che tu fossi una
proiezione costruita dal mio cervello.»
Abigail rise, ma con una punta di rammarico: era la risata di una
donna che aveva aperto un libro perduto da molto tempo scoprendo
però che la pagina più necessaria era stata strappata.
«Reverenda Figlia» commentò lei, «sono stata accusata di pa-
recchie cose, ma questa è la prima volta che vengo considerata
un’allucinazione.»
«Ma sei…»
«Un fantasma» disse la donna, sorridendo. «Una rediviva, per la
precisione.»
Poi aggiunse: «C’erano così tante cose che volevo chiederti. Così
tante altre che ho dato per scontate! Ho creato uno schema arbitra-
rio per le tue scelte quando, forse, non ne esisteva nemmeno uno, il
che è un errore vergognoso per un’accademica. Dunque, smantellia-
mo tutti i miei preconcetti. Sei una Littrice, ora. Vero?».
«Sì» disse Harrow. Gideon. Sangue. Un’inferriata spezzata. «Non
era mia intenzione, alla fine. Ma… sì.»
Lo sguardo di Abigail si fece intenso; lei si sporse in avanti. «Una
scommessa vinta» disse, con mesta soddisfazione. «Ottimo. Quando
ti sei resa conto di quello che ti stava succedendo? Quando ti sei resa
conto di quello che stava accadendo all’altra anima?»
Era più semplice rispondere a quella domanda in maniera mecca-
nica. «Nei primi giorni. Sapevo che sarebbe stata assorbita. Avevo ca-
pito che avrei inavvertitamente distrutto la sua anima – il processo si
era già innescato. Ma non era compiuto. Avevo tempo. Ho deciso di
rimuovere la mia capacità di incorporarla… rimuovendo la mia ca-
pacità di comprenderla.»
Ora era più facile da ricordare. Una litania. La stessa cantilena da
recitare, come quella dell’Ottuplice Mondo. Poteva quasi vivere se-
parata dalla sofferenza. «Ho preso la parte del mio cervello che la
rammentava… che capiva la sua anima… e l’ho scollegata. Poi ho co-
struito dei sistemi piuttosto grossolani in modo che non mi venisse
accidentalmente ricordato… sapendo che quei collegamenti poteva-
no riaprirsi se li si stiracchiava di qua e di là. Ho avuto una compli-
ce… qualcuno che sapeva manipolare il tessuto grasso del cervello
meglio di quanto potessi fare io. Ho trasformato il mio cranio in un
costrutto, programmato per esercitare pressione su lobi specifici. E
ha funzionato, Pent. Ha funzionato» disse. «È stato stupido. Una so-
luzione basata sulla forza bruta. Ma ha funzionato.»
Abigail la squadrò con grande attenzione, con un’espressione di-
versa da quella di prima. Harrow sapeva di risultare un po’ irascibile
quando esclamò: «Che c’è?».
«Stiamo facendo due discorsi diversi, credo» fece la Quinta adep-
ta, sfregandosi i palmi guantati. «Non mi riferivo all’anima preserva-
ta che ti ha reso Littrice, Reverenda Figlia… nonostante anche quel-
lo mi abbia aiutato ad aggiungere qualche pezzo. Harrowhark, mi sto
riferendo all’anima invasiva.»
«Invasiva in che…?»
«Sei infestata» disse Abigail con calma. «Ho ipotizzato che avessi
scelto deliberatamente questo campo di battaglia, evocando un eser-
cito che combattesse al tuo fianco. Non riuscivo proprio a capire per-
ché avessi scelto noi. Ora lo so, ma mi pare che tu non ne fossi con-
sapevole. Sei posseduta da uno spirito rabbioso, Harrowhark, e stai
perdendo la guerra.»
Harrow cercò istintivamente di espandere le sue riserve di gras-
so; faceva un freddo davvero sconvolgente. Fu costretta a bloccarsi
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L’elsa era così calda e scivolosa di sangue che era difficile da affer-
rare. Eri a mani nude. Mi sono serviti diversi tentativi. L’impugna-
tura era fatta di legno lucidato o di plex, e le tue dita non si chiude-
vano nel modo che mi aspettavo, probabilmente perché erano più
corte delle mie.
Eravamo in un corridoio stretto e sudaticcio, scuro, illuminato sol-
tanto da un binario sottile di luci rosse, in alto. Da qualche parte suo-
nava un allarme, e c’era un remoto ronzio, un rumore bianco, tipo
quello che fa un macchinario guasto. Eri fradicia di sangue e dove non
eri fradicia di sangue eri fradicia di sudore. L’aria ondeggiava di ca-
lore. Stare in quel corridoio era come stare in piedi vicino a un falò,
uno che ti bagnava pure.
Intorno a te c’era questo sfacelo di sangue, sparpagliato allegramen-
te sul pavimento e sulla parte inferiore delle pareti, come se qualcu-
no ci si fosse rotolato dentro – eri stata tu, immaginavo. Ma non ce
n’era così tanto. Non si era trattato di un combattimento. Chiunque
ti avesse infilzata col tuo stesso stocco non ti aveva dato la possibilità
di un testa a testa. Non eri nei paraggi per imbestialirti, ma anche se
ci fossi stata ti avrei detto di non badarci; tra i miei programmi c’era
di farglielo rimpiangere, più di quanto avessero mai rimpianto qual-
cosa nella loro vita di merda.
Lago di sangue: presente. Aria caldissima: presente. Grosse ossa
equivoche ovunque: presenti. Guardavo la tua mano per tenere il
conto – che mano era, sotto a quel sangue, le dita, i tuoi palmi picco-
li con la loro assoluta mancanza di muscoli tendinei – mentre la real-
tà mi attraversava. Un po’ come una bella inferriata di ferro, adesso
che mi ci fai pensare.
Te n’eri andata. Mi avevi lasciata lì da sola. Dentro di te.
«Cazzo» ho detto. Non era la mia voce. «Cazzo. Oh, merda. Ma
porco cazzo. Aiuto. Blah. Aaargh.»
Nell’oscurità di quel corridoio caldo e ossuto, qualcosa era entra-
to nel tuo campo visivo – nel nostro; nel mio – il che perlomeno mi
aveva aiutato a mettere in stallo un tracollo fisico ed emotivo com-
pleto. Era un’assurdità di vespa, osso e carne – una roba da incubo,
ed era vivo e quando mi aveva visto si era fermato.
La massa principale di quel coso era installata su una struttura
umanoide, ma stiracchiata – tipo una persona che cammina come un
Ho detto, roca: «Torna qua. Torna qua subito, o ti farò dire le peg-
giori stronzate che riesco a farmi venire in mente. Roba orrenda e
grezzissima. Indegna addirittura di me, tanto per chiarirci».
Nessuna risposta.
«Ooooooh, Palamedes. Sono considerevolmente meno intelligente
di te. Ficcami la lingua in bocca e lascia che ti ci sbatta contro la mia.»
Niente.
«Trovo che le ossa non siano niente di che.»
Forse eri morta.
«Ohhhhhrr, Gideon, sono stata una vera cretina a credere che una
vasca piena di decrepita carne surgelata fosse la mia ragazza. Ti pre-
go, fammi vedere come si fanno le flessioni. Inoltre, sono palesemente
attratta da t… no, maledizione, questo è triste e basta. Che gran muc-
chio di scemenze.» Stavo perdendo le staffe. Ma forse erano le tue staf-
fe. «Torna qua. Odio questa storia. Mangiami, diventiamo un Littore
vero. Non mi sono buttata su un cancello per questo, Nonagesimus.»
Rumori. Movimento. Un altro zampettamento stridente, vicino
alla porta. E poi un altro.
Mi ero scordata che ce ne sarebbero stati più di uno. I tuoi ricordi
non erano successi a me e, anche se avevo avuto un posto in prima fila
per assistere alla maggior parte di quella roba, era stato come guar-
dare uno spettacolo con gli occhi bendati. Se volevo sapere qualcosa,
dovevo andare a frugare deliberatamente in mezzo alle tue stronzate.
E me ne ero dimenticata perché sono un’idiota. Faceva troppo caldo
in quella stanza e le mie budella – le tue budella – erano così fredde.
Mi ero scrollata via di dosso quella stupida mantella bianca – che, per
la cronaca, è ridicola in una maniera assurda, diamine, come se Silas
Octakiseron si fosse messo a pescare dal cassetto della roba glittera-
ta – e avevo provato a farti tornare indietro contando sulla pura for-
za della speranza, sulla pura forza del desiderio.
Zero. Mi ero buttata la spada in spalla. Le tue braccia avevano ri-
sposto con una vampata.
«Prenditi il tempo che ti serve» avevo detto. «Non preoccuparti,
tesoro. Terrò acceso il fuoco qua a casa.»
E gli Araldi sono arrivati a frotte.
415
Abigail disse: «Vicino. Gli altri saranno già arrivati, se è andato tut-
to secondo i piani… dammi la mano; dobbiamo uscire».
Il freddo vi colpì come un manrovescio sulla bocca. La neve cadeva
a lenzuolate rapide e accecanti, bruciando la pelle. L’odore gettò tutti
in preda ai conati. La Quinta la condusse lungo una corda assicurata
a un terrazzamento esterno – la nebbia impenetrabile non riusciva a
mascherare il ruggito del mare più in basso e nemmeno il fatto che la
maggior parte della balconata fosse sparita. Poi scesero di nuovo, in
un corridoio così ingombro di gorgoglianti tubi rosa che Harrowhark,
che la tallonava, dovette sfiorarli per scendere una rampa di scale.
Quello era un territorio familiare. Un vestibolo, buio e claustrofo-
bico. Luci difettose in alto, che crepitavano come matte. Ai piedi delle
scale, delle porte di vetro si aprivano su uno spazio precedentemen-
te occupato dalla piscina – ora piena di acqua sanguinolenta, scura,
zeppa di forme galleggianti. L’acqua del Fiume. Abigail si avvicinò a
un arazzo appeso a una parete e, scostandolo con la spalla, rivelò un
passaggio angusto che portava a una sala che Harrowhark conosce-
va bene. Disse: «Assolutamente no».
«Non è chiusa» disse Magnus. «Ed è stata risparmiata… niente
pioggia di sangue, niente di molliccio.»
Harrow rimase stupefatta da un livello ulteriore di consapevolezza
e di presa di coscienza mentre Abigail si approcciava all’imponente
porta Littoriale dalle colonne massicce, con i suoi animali cornuti in
rilievo e la traversa di pietra nera e marmo scolpito. Bussò eseguen-
do una perentoria sequenza di colpi a cui, dopo un istante, fu rispo-
sto con uno scalpiccio dall’interno. Non si trattava semplicemente di
una porta chiusa dei tempi passati; era la stanza di una persona. E per
quanto riguardava il proprietario…
La porta si spalancò come uno sbadiglio. La fila di luci elettriche
illuminò la vecchia area del laboratorio: una fila di panche con un as-
sortimento di sedute consunte e butterate; libri e vetusti raccoglitori
ad anelli ammassati in un angolo; un mosaico di ossa incastonato alle
pareti; e il poster su velina di un costrutto a sei braccia con un corpo
massiccio e una testa dal cranio piatto, il vecchio dominatore della
sala di Reazione. La vera Settimus era lì, curva su un plico di veline.
Le scartabellava come se stesse cercando qualcosa. Poco lontano era
stato creato un assembramento di seggiole, c’era un divano fodera-
ora che sono morto, senza la speranza di poter fare qualcosa di eroi-
co da vivo, spererò nell’eroismo nella morte. E dunque combatterò il
Dormiente insieme a te.»
Era difficile stabilire che cosa fare con quel tipo di contatto. Vole-
va ritrarsi con tutta l’anima, ma allo stesso tempo aveva sbloccato un
meccanismo primigenio e infantile dentro di lei, come se quell’ab-
braccio fosse uno specchio: qualcuno ti metteva davanti un’imma-
gine che ti permetteva di vedere te stessa, invece di vivere con una
supposizione di come potesse essere la tua faccia. Non era come il
tocco di suo padre o di sua madre. Quando si era accostata per la pri-
ma volta alla tomba, fremendo per la meraviglia, aveva fantasticato
sulla possibilità che le dita ricoperte di ghiaccio del Corpo si muo-
vessero impercettibilmente verso le sue. Gideon l’aveva toccata dav-
vero; Gideon le era andata incontro, fluttuando nell’acqua salata con
quell’espressione decisa e scoperta che aveva prima di ogni combat-
timento, la bocca resa incolore dal freddo. Harrow aveva accolto la
sua fine, ma subendo una ferita mortale di ben altro genere – ed era
diventata, per la seconda volta, se stessa. Si staccò da Ortus, con più
riluttanza del previsto.
Ortus disse: «Vieni di là. Ascolta il piano. Ho aiutato anch’io ad
architettarlo… non è complicato, ma è l’unico piano che abbiamo».
«D’accordo» disse lei.
Harrow si chinò per recuperare il libro che Ortus alzandosi aveva
fatto cadere, aprendosi sul foglio. C’era un messaggio ancora leggibile,
scritto in un inchiostro sbiadito e con una calligrafia marcata e fitta:
cy, Augustine e Dio dovevano averla creduta pazza. E per quanto ri-
guardava il Santo del Dovere…
«Non si chiama Ortus» disse, completamente allibita.
Trovò Ortus che, fissandola con il medesimo stupore inerme, si av-
venturò in un: «Prego?».
«Pensavo che avessi preso il nome da lui – ma non è così» disse
lei, con le conclusioni che si dispiegavano davanti a lei come un den-
te scomposto, in una ributtante e nuda magnificenza di smalto e ner-
vi. «Il mio meccanismo ha funzionato fin troppo bene. Non ha tenu-
to conto del contesto. “Ortus” non deriva dalle tradizioni Littoriali.
Ma se invece il nome di lei, sì? Se l’avessimo battezzata accidental-
mente così per lui?»
Ma che cosa poteva significare? Mercymorn aveva detto che i loro
nomi erano considerati sacri e dimenticati, a eccezione di Anastasia,
che non era mai arrivata al Littorato. Perché il nome di un santo ne-
cromantico veniva evocato in un modo simile?
Il foglio le si ripiegò sul pollice. Sulla seconda facciata – molto più
recente – Harrow lesse:
Aprì la bocca per fare una domanda al suo secondo paladino mor-
to a proposito della sua prima paladina morta – uno schema che co-
minciava a somigliare meno a una tragedia e più a un segno di trascu-
ratezza – ma, al piano di sotto, Abigail stava dicendo: «Harrowhark?
Ortus? Se siete pronti, sarebbe meglio darci da fare. Dulcie ha trova-
to delle candele di sego di buona qualità – per il sangue nessuna spe-
ranza, ovvio – ma con i bambini l’approccio “fuoco e parole” si è di-
mostrato già sufficientemente incisivo…».
Sia la Quinta adepta che il suo paladino avevano l’espressione feli-
ce e quasi soddisfatta di chi sta per imbarcarsi nella sua attività pre-
diletta, come un’escursione o una partita di scacchi, mentre la pala-
dina della Seconda Casa aveva due fucili sulla schiena e l’espressione
compatta di un soldato della Coorte che sta per imbarcarsi nella sua
attività meno prediletta. Ancor prima di chiederlo, Harrow sapeva già,
col cuore pesante di una maga ossea, quello che tutti quanti si appre-
stavano a fare, ma domandò comunque.
«Qual è il piano, Pent?»
«Be’, lasciamo che siano i fantasmi a seppellire i fantasmi» le dis-
se. «Con l’aiuto di tutti, esorcizzerò il Dormiente.»
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doveva già essere stata divorata! Doveva morire ore fa, e gli Araldi
sono ovunque!»
«Signora» ho detto io. «Mi stai dicendo che sei stata tu a pugnala-
re la mia necromante?»
«Sì, e mi avrebbe dovuto ringraziare!!!» ha esclamato la Littrice,
profondamente deconcentrata. «Non è stato poi così tremendo… le
ho smorzato i nervi, in un moto d’affetto mal riposto e l’ho spostata
fuori in corridoio di proposito, in modo che se la mangiassero più alla
svelta. E una volta che avessero cominciato a mangiarsela viva sareb-
be già stata pazza e non avrebbe sentito niente! Ma tu sei l’anima…
sei l’anima della paladina che si era infilata in un recesso del suo cer-
vello! Che cos’è successo ai tuoi occhi?»
«Passiamo a una domanda migliore» avevo detto io, sollevando la
spada con le tue mani. «Abbiamo già ucciso un Littore, lo sai, giusto?
Io e Harrow? Lo sai che abbiamo già fatto pratica?»
«Oh, ma chiudi il becco, paladina di Harrow» aveva risposto, iste-
rica. «Sto cercando di pensare. Tu non sei lei – non è lei che ti gui-
da – ma hai i suoi occhi. Perché? Quando mi hanno mostrato il tuo
corpo non mi è venuto in mente di controllare gli occhi. Che stupi-
da, Mercy. Una svista. Credevo di sapere cos’eri, anche se non vole-
vo crederci…»
E io le ho detto: «Ma di che cazzo stai parlando?».
«Sto parlando del fallimento dell’operazione Nona Casa» aveva ri-
sposto lei.
E aveva inclinato di lato quella sua testa color fiore, facendosi rica-
scare i capelli sudati sulla faccia, in quel calore sfrigolante e soffocan-
te, e ci ha squadrate e ha detto, in un tono che pareva quasi sedato:
«Pensavo che la comandante fosse soltanto una ragazza cattiva… una
stacanovista che metteva il lavoro prima della famiglia. Era il tipo…
ma si sarebbe trattato di una coincidenza troppo grossa. Lasciami
pensare. Lasciami pensare. Le bambole gliele ho fatte io – erano per-
fette – e lei deve aver pasticciato con… con l’emissione» aveva detto,
all’improvviso, con trasporto. «Per forza l’ha uccisa! È sempre stata
un’arrogante! La cogliona sapeva che Gideon era sulle sue tracce!»
Qualcosa dentro la tua testa aveva fatto spang quando abbiamo
sentito il nostro nome. Lì per lì suonava stranamente pastoso, irrea-
le, come se fossimo sott’acqua. Ma poi il dolore è sparito.
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Le avevo detto: «Vuoi essere presa a calci in culo subito o vuoi che
ti prenda a calci in culo più tardi, o entrambe le cose?».
«Per cortesia, affrontiamo la questione da gentildonne» aveva det-
to Ianthe, senza troppe speranze.
«Che diavolo, no! Ti staccherò il culo, tutto intero, ecco cosa farò»
le avevo risposto. «Ti piacerebbe? Vuoi che Harrow ti faccia ricresce-
re un bell’osso nuovo del culo quando avrò finito di strapparti quel-
lo vecchio? Apriamo le danze, Tridentarius.»
«Non sta succedendo davvero, non è possibile.»
«Neanche le piaci, okay? Sono le ossa e basta. A lei piacciono le ossa.»
«Uno dei numerosi dettagli di cui ora ti trovi tragicamente sprov-
vista.»
«Vieni giù» avevo insistito. «Battiti con me.»
«Avrei dovuto immaginarmelo nell’istante in cui i tuoi passi han-
no nuovamente offeso quest’universo che mi avresti lanciato una di
queste sfide ridicole» aveva proseguito lei, sfibrata. «Ma com’è che ti
chiamavi? Goblin? Gonade? Dammi una mano.»
«Il tuo paladino sapeva come mi chiamavo» le avevo detto. «Co-
rona sapeva come mi chiamavo. Lo sai anche tu come mi chiamo.»
Lei era rimasta in silenzio in silenzio.
Avevo commentato: «Gonade non era niente male. Piuttosto
spassoso».
«Grazie.»
«Goblin no.»
«Non è una bella giornata. In questo momento sono veramente
stressata. Non starmi addosso.»
«Ti concederò altri tre minuti di ragionevolezza, dopodiché ti pe-
sterò così forte che finirai per somigliare a una bandiera della Quarta
Casa» le avevo detto, abbassando la spada. «È finita? Hai fatto quel che
dovevi fare, hai presente, no? Combattere contro quel cavolo che era?»
«La Bestia Resurrezionale?» aveva chiesto lei. «No, se proprio vuoi
saperlo. Ci siamo scontrati per un po’. Mercymorn è sparita… nessuno
se lo sarebbe mai aspettato. Poi Harrowhark è andata al tappeto. Quello
ce lo aspettavamo, anche se avevo sperato che… la faccenda si è com-
plicata. Dopo che Augustine ha mollato il colpo non avevo intenzione
di rimanere là sotto con una squadra di due persone. Quella creatura
è… grossa. Sono risalita in superficie. Ed eccomi qua. Ed eccoti qua.»
immaginaria! “Una carne, una fine” può andare a farsi fottere, Har-
row. Ti avevo già dato la mia carne, e ti avevo già dato anche la mia
fine. Ti ho dato la mia spada. Ti ho dato tutta me stessa. L’ho fatto
sapendo che avrei rifatto tutto quanto da principio, senza esitazioni,
perché tutto quello che ho sempre desiderato è che tu mi divorassi.
Il che, incidentalmente, è anche quello che mi ha detto tua ma-
dre ieri sera.
«È proprio una romantica» aveva chiocciato Ianthe.
Ho accartocciato la velina e te l’ho cacciata in tasca.
«Tridentarius» ho detto, e ho dovuto fare un bel respiro per evi-
tare di squarciarla in due. Poi ho proseguito: «Se continui a compor-
tarti come se la conoscessi – non tanto come se ci tenessi a lei, ma
proprio come se sapessi la benché minima cosa di lei – ti terminerò
seduta stante. Tutto quello che le hai fatto, l’hai fatto perché era sola.
Credevi che a nessuno gliene fregasse un cazzo di Harrowhark No-
nagesimus. Ti sei trastullata con lei perché lo trovavi divertente. Ma
lei non ti ha mai dato niente. Non sei arrivata da nessuna parte».
Gli occhi di Naberius si erano assottigliati. Odiavo quegli occhi su
quella faccia; continuavo ad aspettarmi di sentire l’odore di quel gel
per i capelli. Ianthe si era seduta sul letto con le lunghe gambe sec-
che incrociate al ginocchio, quel viso di cera era solo l’ennesimo mo-
numento celebrativo di quel maledetto funerale fluttuante, e aveva
commentato: «E tu sì?».
«Di che cosa stai parlando?»
«Sto parlando del “dimenticare”, brutta suorina guerriera con la lin-
gua lunga» mi aveva detto, analizzandosi le unghie e rimuovendo con
un breve brivido di nausea un secco grumo verdastro dal pollice. «Dio
santo! Dovresti provare a portare via a me i ricordi di Coronabeth…
ti ammazzerei con le mie mani. L’amore – non fare quella faccia, ra-
gazzina, ho amato in abbondanza –, il vero amore è cumulativo. Si
conserva qualsiasi cosa… ciocche di capelli… una busta che possono
aver leccato… un bigliettino con scritto: BUONGIORNO, semplicemen-
te perché l’hanno scritto per te. L’amore è un redivivo, Gideon Nav,
e accumula materia amorosa attorno a sé, perché altrimenti non ha
casa. Non sto dicendo che non ci tenesse a te. Si tiene al proprio pa-
ladino, non si può farne a meno… ma ho osservato Harry mentre si
riorganizzava il cervello in modo che potesse svuotarsi di te.»
Le ho riso in faccia.
«Oh, cazzo» ho detto, quando sono riuscita a fermarmi, perché
era strano sentirti sghignazzare così tanto. Scusami. È stato proprio
uno spasso. «Credi di riuscire a ingelosirmi? Credi che qualsiasi cosa
io abbia fatto l’abbia fatta per farmi amare da lei? Non lo sai. Non te
l’ha nemmeno detto.»
La sua espressione non era cambiata. I lineamenti esangui erano
stati addestrati ad assumere un’aria vispa e interessata, ma quegli oc-
chi oleosi castano-ghiaiosi sembravano quelli di un serpente.
«Illuminami» aveva detto.
«Frena, non voglio soprassedere… Harry?»
«Mi pareva carino. Delucida, Gideon, non abbiamo tutto il gior-
no, sul serio.»
«Te l’ho accennato prima. Non le piaci, punto e basta. A lei piac-
ciono le ossa. Ha dato il suo cuore a un cadavere quando aveva dieci
anni» ho spiegato. «È innamorata del reperto refrigerato da museo
del Sepolcro Sigillato. Avresti dovuto vedere che faccia aveva quan-
do mi ha raccontato di quella strappona surgelata. L’ho capito appe-
na l’ho vista. Io non le ho mai fatto fare una faccia simile… non po-
trebbe amarmi, nemmeno se la volessi costringere. Non può amare
te. Non può nemmeno provarci.»
Lei aveva ribattuto, con fin troppa circospezione: «Oh, ma per fa-
vore, come se…» ma l’avevo interrotta.
«Non attaccare con: “Mi stavo solo trastullando un po’ con lei,
mwah ha ha”, perché non ci crederò mai. Il tuo piano ti si è rivolta-
to contro, Tridentarius. Hai contratto il morbo. Riconosco i sintomi
della Nonagesimite. Ti eri già messa in fila per una bella iniezione ro-
vente di Vitamina H.»
Ianthe si era rapidamente grattata la fronte con la mano d’osso.
«Un cadavere, sul serio?» aveva commentato, con una noncuran-
za non del tutto convincente.
«Lei vuole il tipo M» avevo detto. E: «La M sta per “morta”». E:
«Mi dispiace».
«Credo di dovermi fare un goccetto» aveva detto Ianthe, borbot-
tando tra sé e sé. «Tutto quel putiferio per il Santo del Dovere. Che
piccola ipocrita.»
«Non credere che tutto questo ti farà ottenere anche il più micro-
scopico briciolino di pietà da parte mia» avevo aggiunto. «Se sei con-
vinta che io abbia fatto tutto quello che ho fatto per farmi amare da
lei, allora non sai un bel niente né di lei né di me. Sono la sua paladina,
cogliona! Ucciderei per lei! Morirei per lei. Sono morta per lei. Avrei
fatto tutto quello di cui aveva bisogno, qualsiasi cosa, prima ancora
che si rendesse conto di averne bisogno. Sono la sua spada, controfi-
gura da quattro soldi di Coronabeth, faccia di colla che non sei altro.»
Sarò sempre la tua spada, mia umbratile sovrana; nella vita, nella
morte, in qualsiasi cosa ci sia oltre la morte e la vita e che ci vorran-
no scagliare contro, a te e a me. Sono morta sapendo che mi avre-
sti odiata perché ero morta; ma, Nonagesimus, il tuo odio ha sempre
significato per me molto più dell’amore di chiunque altro in questo
universo stupido e incandescente. Almeno ho avuto la tua comple-
ta attenzione.
Ianthe stava masticando stizzita una ciocca di quei capelli color
osso ingiallito. Ho aggiunto: «Devi mollare il colpo. Già sono stata la
cosa peggiore che le sia mai capitata, e non ha proprio bisogno dei
tuoi tentativi di superare il record, tipo: “Scommetto di poter rende-
re la situazione doppiamente merdosa”».
L’ho osservata mentre scavallava e riaccavallava le gambe. Aveva
smesso di analizzarsi le unghie. Mi ha squadrata con un’espressione
inquisitoria, quasi analitica, le ciglia pallide che incorniciavano gli oc-
chi del suo uomo morto. Non aveva dei bicipiti per niente malvagi, a
dire il vero, c’era della muscolatura definita in quel braccio supersti-
te color latte scremato. Niente da narrare ai posteri, ma lei perlome-
no non doveva vergognarsi totalmente. Al contrario di te.
«Ti sbagli, sai» mi aveva detto, flemmatica. «È una rivelazione in-
teressante. Forse fornisce addirittura un po’ di contesto. Ma il mio…
attaccamento… nei confronti di Harry non è nemmeno lontanamen-
te quel che credi che sia. Non sono la sua paladina, la sua servitrice o
la sua schiava. Io sono una Littrice… Harrow è una Littrice… e i se-
coli ci legheranno, che lei lo voglia o no – Nav, se vai avanti con quel
movimento, se mentre parlo continui a far finta di farti una sega, ti
mostrerò che aspetto hanno i reni di Harrow.»
«Ecco! Ecco a che cosa mi riferisco» le avevo detto. «Non farmi ve-
dere i suoi reni. Non pensarci neanche ai suoi reni. Non fare niente
coi suoi maledetti reni. Contieniti. Non guardare il suo sangue, non
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e Protesilaus giacevano là, nello stesso punto in cui erano stati abbat-
tuti; ecco Dulcie Septimus, puntellata contro uno stipite con gli oc-
chi sgranati e selvaggi; ed ecco…
Abigail Pent che sfolgorava come il pinnacolo di un azzurro sole
alieno. Lunghe protuberanze di luce le scaturivano dalle dita: sem-
brava stringesse tra le mani un libro, con tutte le pagine che attin-
gevano da quella medesima radiazione blu. In quel freddo inquieto,
Harrow si accorse che Abigail era bagnata fradicia: avvolta nei caldi
bagliori nebulosi della magia spirituale, si era sbarazzata delle giacche
e dei guanti e stava lì ritta con addosso soltanto un abito e il manto,
le braccia nude. Un tanfo assalì Harrow come una palata di neve: ac-
qua, salamoia, sangue. Una moltitudine di voci si sollevarono in quel-
la di Abigail, e urlarono.
Quel tempo gelatinoso si scollò. Si udì un crack quando la Dor-
miente sparò, e un secco spang metallico. Nulla trapassò il cranio di
Harrow. Un’ombra si sollevò davanti a lei, e conteneva tutte le ombre
della stanza. Le candele non erano più dei maestosi pilastri di luce
azzurra, ma si erano contratte in ondivaghe fiamme nere. Si pietri-
ficò, udendo il suono di una grande campana: BLA-BLANG… BLA-
BLANG… BLA-BLANG.
La Prima Campana del Drearburh, della Nona Casa, rintoccava so-
noramente nell’atrio di quel laboratorio. E una sagoma si frappone-
va tra Harrow e la Dormiente.
La figura portava una corazza di laminato nero che non rientrava
ormai da anni e anni fra le predilette della Coorte. Una corazza di fi-
bra, opaca e non lucidata, scura, invece che d’ossidiana splendente,
fatta di piccole placche sovrapposte che si stratificavano lungo tutta
la sua superficie. Il resto dell’armatura era più contemporaneo: bra-
ghe nere di tela infilate in gambali neri di pelle e plex, e il cappuccio
rigido e poco pretenzioso del Drearburh, non calato sul capo ma ab-
bassato sul collo. Guantoni lisi di polimero nero, non più sofistica-
ti di quelli di Griddle.
Una di quelle mani guantate stringeva uno stocco di un metal-
lo nero senza luce, con una guardia e un’elsa semplici; anche se da
quell’elsa ticchettavano file minute di nocche da preghiera, che termi-
navano nell’inconfondibile – anche alla luce delle candele – intaglio
del Teschio Smandibolato. Nell’altra mano c’era un semplice pugna-
era più impassibile che mai. Nonius la seguì, senza accorciare le di-
stanze ma mantenendole inalterate, facendo eco ai suoi spostamenti.
«T’occorrerebbe una miglior manutenzione» le suggerì.
«È tutta la vita che uccido feccia magica come te» ringhiò la Dor-
miente. Questa volta l’oggetto che le si materializzò in mano non era
un’arma da fuoco: era una specie di cilindro tozzo. Lo fece scattare
verso il basso e un sottile manganello nero, lungo suppergiù una tren-
tina di centimetri, si estese telescopicamente all’infuori con un suo-
no che somigliava a quello di un chiavistello che si incastrava al suo
posto. «Li ho ammazzati con le pistole, le bombe, i coltelli, il gas e,
quando non avevo a disposizione nulla di simile, mi sono avvicinata
molto e gli ho piantato i pollici negli occhi. Puoi agitare quello spie-
dino per aria quanto ti pare, amico. Te lo ficcherò in gola.»
«Spero ardentemente che siate una guerriera» commentò Nonius,
sollevando la mano che stringeva il pugnale. «Perché, Dio mio, cer-
tamente non siete un’oratrice.»
Balzarono entrambi in avanti nel medesimo istante. Al primo schioc-
co del plex contro il metallo, Harrow si lasciò cadere accanto a Ortus.
Lo afferrò con le mani e, per non correre rischi, anche con un paio di
braccia scheletriche, e cominciò a trascinarlo al riparo.
Lui non collaborava. Era troppo occupato a guardare. Un po’ come
Abigail, era assolutamente rapito; non si trattava di chissà quale sta-
to ancestrale di primigenia adorazione spiritica, ma si trovava – a oc-
chi sgranati – in un paradiso che solo lui poteva comprendere. Non
aveva mai visto Ortus con quell’aria trionfante. Non aveva mai visto
Ortus nell’occhio di un ciclone di sua creazione.
Gli domandò, concitata: «Cos’hai fatto?».
«Oh, io non ho fatto niente» rispose, senza fiato. «Pent… Pent è un
portento. Scriverò odi per Pent.»
«Le scriverai dopo, adesso spicciati…»
«Se dovessi andare incontro alla mia morte definitiva, qui» dis-
se, «morirò dopo aver conosciuto l’unica felicità che mi sia mai sta-
ta concessa.»
«Oh, chiudi il becco e muoviti» esclamò lei disperata. Se tutti i suoi
paladini erano così entusiasti di morire, il problema era decisamente lei.
Lui non si mosse. Stava sorridendo. «Anche tu hai contribuito a
questo miracolo, Harrowhark. La tua enfasi era quasi perfetta.»
«Fa dei “foschi sorrisi” almeno venti volte solo in quell’atto, Nige-
nad» sbottò lei. «Trovagli una nuova locuzione.»
Saltò fuori che una quantità relativamente limitata di thanergia era
tutto ciò di cui avesse bisogno per arrestare il flusso di sangue dalla
ferita. Le funzioni degli organi principali erano stabili a sufficienza
– chissà poi cosa voleva dire, con esattezza, nel caso di un fantasma –
e non aveva intenzione di impelagarsi in riparazioni complesse dei
tessuti in quelle circostanze. L’addestramento precoce di Harrow si
era svolto in cripte gelide e male illuminate, ma quella specifica crip-
ta continuava a sembrarle faticosamente buia e gelida in maniera in-
gestibile. Dopo aver appoggiato Ortus contro una parete a distanza
di sicurezza dal combattimento, si voltò per guardare cosa fosse suc-
cesso agli altri.
I necromanti e i paladini sopravvissuti – che dovette rammenta-
re si trovavano lì proprio perché non erano sopravvissuti – si erano
dislocati in silenzio attorno al perimetro della sala. Abigail era sedu-
ta per terra, ancora avvolta da una corruscante fiamma azzurra, suo
marito la cingeva col braccio e si appoggiava pesantemente a lei con
un’espressione segnata dal dolore: nessuno dei due stava osservando
con una particolare gioia, ma piuttosto con una concentrazione fa-
melica, una fredda trepidazione. Dulcinea e Protesilaus si erano riu-
niti, strisciando, lasciandosi alle spalle una lunga scia di sangue, per
incontrarsi, esausti, in un punto mediano. Solo la luogotenente era
riuscita a rimettersi in piedi, con la precisione impassibile e la schie-
na dritta di una donna che assisteva a un’esercitazione su un campo di
parata. Sembrava sul punto di ordinare l’alt con un colpo di fischietto.
Harrow sospettava che un fischio non sarebbe bastato a bloccare
quello specifico duello. Non somigliava a nulla che avesse visto alla
Casa di Canaan e nemmeno alle esercitazioni del Mithraeum, che si
svolgevano a una velocità e con una maestria sovrumana, ma in ma-
niera in qualche modo asettica, parevano più danze che combatti-
menti. Lì c’erano due persone che avevano passato la vita a non fare
altro che combattere e, ora, libere dalle catene della carne e del tem-
po, stavano focalizzando tutta la loro essenza sull’obiettivo di assas-
sinarsi a vicenda.
Se Gideon fosse stata lì… no, se Gideon fosse stata lì, Harrow non
avrebbe comunque potuto sperare in una telecronaca. Griddle non
«Hai visto cos’è successo con le pistole» fece lui. «Qui le regole sono
tutto, Harrowhark; se le infrangiamo, saremo perduti, ne sono certo.»
Harrow si morse il labbro. Più il combattimento si faceva scompo-
sto e brutale, più pareva favorire la Dormiente. Nonius non riusciva
a portarsi alla distanza giusta per brandire correttamente il suo stoc-
co; lo teneva sempre più addossato al corpo, usandolo più come uno
scudo che come il bisturi che lei sapeva dovesse essere. Il pavimen-
to tra i due avversari era un’unica grande macchia di sangue in cui i
piedi slittavano in cerca di un appiglio. Harrow continuò a guardare
e Nonius fece qualcosa di scaltro con il pugnale e uno dei colpi del-
la Dormiente finì largo; lei perse l’equilibrio per un istante e lui col-
se la palla al balzo per fare un passo indietro, liberare la spada e mu-
linarla per un affondo…
Lei gli abbatté la mazza sull’incavo del gomito con tutta la sgrazia-
ta brutalità di un macellaio che taglia la carne. Nonius urlò, e lo stoc-
co nero del Drearburh scivolò dalle sue dita insensibili per finire sul
pavimento, sferragliando. Lei si avvicinò, tirò indietro la testa e gli
sbatté la maschera d’oro sul viso scoperto, producendo uno scrocchio
agghiacciante. Lui barcollò all’indietro e finì mezzo spalmato sul sar-
cofago vuoto, portandosi la mano ora libera agli occhi. La Dormien-
te avanzò, lo sguardo impassibile della maschera tramutato in un ghi-
gno dal sangue fresco.
«Bel gioco di gambe, pezzo di stronzo» gli disse, e sollevò il coltello.
Matthias Nonius si staccò dalla bara come la collera dell’Impera-
tore. Le si avventò contro con tutto il peso del corpo, trascinando-
la via, per poi vibrare un colpo di coltello al suo fianco scoperto. Lei
parò con il bastone e lui le assestò una ginocchiata nella pancia, la
afferrò per la nuca con la mano libera e le mollò un’altra ginocchia-
ta in gola. Si avvinghiarono – Harrow riuscì a sentirla tossire dietro
la maschera – e lei riuscì a scrollarselo via di dosso con una spallata,
ma lui si ripresentò all’istante con una coltellata che per poco non le
scucì le budella. Harrow per un attimo gli scorse il volto, ormai quasi
del tutto ricoperto di sangue: aveva il naso rotto e le labbra e il mento
umidi di frattaglie. Aveva sangue negli occhi e nei capelli, e una per-
fetta espressione di freddezza omicida. Era come se perdere lo stocco
avesse schiuso dentro di lui dei ceppi invisibili. Non sembrava nem-
meno arrabbiato; somigliava semplicemente alla fine, in forma umana.
volute rosse sulla fronte e sulle guance. Quel viso morto, orgoglioso
e inclemente li squadrò tutti finché Nonius non richiuse quegli oc-
chi ciechi. Harrowhark era stupefatta; non capiva.
Le fiamme azzurre non avvolgevano più i palmi e le gonne di Abi-
gail. Si era inginocchiata a sua volta sulla grata dura di metallo e, sen-
za curarsi della scomodità, domandò: «Harrow, la conosci?».
La Dormiente aveva il viso inconfondibile del ritratto sulla navet-
ta, sul pianeta che aveva ucciso. La donna affissa alle spalle di Coro-
na e Judith – quella donna familiare dallo sguardo spietato – aveva
combattuto per usurpare l’anima di Harrowhark.
«Affatto» rispose lei.
Nonius si tirò in piedi. Si pulì la spada presa in prestito sulla coscia,
girando la lama di qua e di là, per poi porgerla a Protesilaus, che un
po’ sorreggeva Dulcie e un po’ si stava facendo sorreggere da lei; non
era chiaro e, in entrambi i casi, la situazione era ridicola.
«È più sudicia di quel che meriterebbe» disse. «Una lama di tal gui-
sa sarebbe da restituire meglio che insanguinata e con i miei più sen-
titi ringraziamenti.»
Protesilaus esclamò: «Vorrei far conoscere a tutta la mia Casa il pri-
vilegio che mi è stato concesso. Se potessi vivere ancora, consiglie-
rei all’intera Settima di visitare il Drearburh in cerca di insegnamenti
sull’arte. Se mi restassero ancora cinque minuti da vivere, li impie-
gherei tessendo le vostre lodi. Non parlerei d’altro che della reveren-
za che nutro per voi, e per la Nona Casa e per la sua impareggiabile
maestria nella spada».
«Come sprecare cinque minuti, mi verrebbe da dire» borbottò la
sua necromante, sotto voce. Il paladino di Harrowhark sorrideva con
una gioia a malapena celata.
«Mia Signora» disse Nonius.
Si era voltato verso di lei; le rivolse un inchino composto. Lei si in-
chinò di rimando, e disse: «Spero che le vostre ossa vengano bene-
dette nell’Anastaseo, per i vostri servigi».
«Le mie ossa caddero ben lungi da casa» disse il paladino con un
lieve sorriso. «Giammai, ritengo, un viandante incapperà più nel
punto in cui giacciono, per quanto lontano le sue peregrinazioni lo
portino. Trovarmi al cospetto di una tale Reverenda Figlia è una suf-
ficiente benedizione, sapere che la mia Casa ergesi ancora salda e in-
stri confronti e nei confronti della mia Casa, ce n’è un altro a cui devo
assolvere; un debito antico che ripagherò, se mi sarà possibile. Posso
lasciare questi lidi con la vostra benedizione, mia Signora?».
Ortus commentò, assorto: «Un debito?».
«Un’infame bestia infesta questo ramo del Fiume, un re fra i mo-
stri» disse lui. «Un rivale e alleato la combatte, solingo, e accolgo con
rancore la gloria di un duello a tal punto impossibile. Lasciatemi li-
bero di assisterlo.»
Una terrificante consapevolezza afferrò il cuore di Harrowhark. Era
rimasta lì per quello che le sembrava un tempo così lungo da accan-
tonare i problemi pressanti dall’ora: la realtà che persisteva là fuori,
e il fatto che fosse ancora viva, nonostante gli ultimi momenti di coe-
renza che aveva vissuto. Un re fra i mostri nel Fiume. E, forse ancor
peggio, la consapevolezza di aver perso una disputa decennale e cara.
«Vi riferite a un Littore» disse Harrow. «Avete davvero combattu-
to contro un Littore.»
«Il terzo fra i santi che servono l’Imperatore Imperituro, una delle
sue mani» confermò lui. E poi, nel caso non avesse afferrato: «Il san-
to che omaggio reca al dovere».
«Perché sta combattendo da solo?» gli domandò lei. Un panico
crescente, stranamente distaccato, le stava risalendo dalla base della
colonna vertebrale. «Dove sono Augustine e Mercy? Dov’è Ianthe?»
«Non conosco tali nomi. Persino il suo mi sfugge. Ci incontrammo
tanto tempo fa, e con lui ho duellato» fece Nonius. Lei evitò molto
deliberatamente di guardare Ortus. Si stava comportando abbastanza
bene da non dire nulla; ma se l’avesse anche solo guardata con un’a-
ria che si avvicinava in maniera remota al compiacimento, gli avreb-
be preso le caviglie a calci.
Un altro rombo dall’alto, un frastuono molto più insistente. Har-
row disse: «Ma siete già mezzo morto… la Bestia Resurrezionale ter-
rorizza gli spiriti…».
«Non sono mezzo morto» disse lui. «Io sono morto, niente più; ma
non ho timore. Questo combattimento ha affilato le mie armi e risve-
gliato i miei sensi. Mi sono, se volete, riscaldato… il che, dato il con-
testo, mi rendo conto non sia la miglior scelta di termini.»
Ortus disse: «Verrò con voi». E, all’istante, Protesilaus esclamò:
«Anch’io».
«Ortus» fece Harrowhark. «No. Non sai di cosa stai parlando, non
ne hai idea. La Bestia nel Fiume è l’anima di un pianeta morto, ve-
nuta a uccidere l’Imperatore. Se c’è un solo Littore a sfidarla… è già
morto, Nigenad.»
Non avrebbe potuto dirgli nulla di peggio. Gli occhi gli brillaro-
no mentre proclamò: «Ho vissuto quasi tutta la mia vita nella paura,
Harrowhark, mia Signora. Non sprecherò la mia morte nella paura.
Mi rendo conto ora di non temere più nulla… non la morte… non
le leggi… non i mostri. Avanzerò, prima di poter cambiare idea e di-
ventare, ancora una volta, un codardo. Anche se non potrò fare qua-
si altro che guardare, lasciami andare». Di fronte al suo stupore, ag-
giunse, affabile: «Che cos’altro mi resta, Harrow?».
E lei capì che trattenerlo sarebbe stato inutile. Da fifone, Ortus si
era dimostrato enormemente testardo; era inevitabile che da corag-
gioso fosse ancora peggio. Non sapeva cosa dire. Avrebbe dovuto rin-
graziarlo? Ringraziarlo ora? Ordinargli cordialmente di non sprecare
la sua adrenalina fantasmatica su una creatura che non poteva spe-
rare di comprendere?
Ma Pent, con più tatto, stava già parlando: «Credo sinceramente che
il Fiume possa essere attraversato, Nigenad. Vieni con me e Magnus.
Il tuo aiuto per trovare Jeannemary e Isaac potrebbe tornarci utile…».
«Se c’è un passaggio, lo troverete di certo» disse lui, calmo. «È stato
per me un sollievo, nella mia disonorevole morte, aver avuto la pos-
sibilità di incontrarvi. Scriverò comunque La Pentiade. Dovrà solo
essere un poema più breve… molto breve, se quel che dice Harrow è
vero. Il mio cuore è determinato a seguire l’eroe della mia Casa e l’e-
roe della Settima.»
«Sarò onorato di trovarmi al vostro fianco, Ortus Nigenad; mai più
dubiterò della determinazione della Nona» fece l’eroe incredibilmen-
te tedioso della Settima, che poi si schiarì la gola e declamò:
* * *
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*
Awake remembrance of these valiant dead è una citazione dell’Enrico V di William Shake-
speare. (N.d.T.)
*
Kia Hua Ko Te Pai è un pezzo dell’inno nazionale della Nuova Zelanda, in lingua mao-
ri. Snap back to reality oops there goes gravity è un verso di Lose Yourself di Eminem. (N.d.T.)
dirai che cosa stavi facendo nella Nona Casa diciannove anni fa. In
cambio, io ti rimetterò nel Fiume, dove dovresti stare… chi c’è lì?»
Credevo che ci avessero sgamate finché non ho sentito la porta ester-
na spalancarsi – e per poco io e Ianthe non siamo rimaste spiaccica-
te là dietro. Del movimento, uno svolazzo di tessuto bianco e il tenue
clink di Dio che posava la sua tazza di tè. Incastrate in mezzo agli ap-
pendini dietro la porta, ci era rimasta solo la visuale di due persone
con addosso dei manti bianchi stazzonati, rivolti compostamente nella
direzione in cui doveva trovarsi Dio. Erano la Littrice che aveva cerca-
to di ucciderti e il Littore che si era spaventato vedendo la mia faccia.
Silenzio generale. L’intera stanza stava trattenendo il respiro. Do-
vevano essere passati solo un paio di secondi prima che l’Imperato-
re dicesse, concitato: «La Numero Sette…».
«La Numero Sette può succhiarcelo, per quel che mi riguarda» dis-
se Mercymorn. Il suo tono era piatto: la calma inflessibile di chi si è
già scalmanato a sufficienza. «È finita, John. È venuto tutto alla luce…
ci sono voluti diecimila anni, ma è venuto tutto a galla.»
Nessuna risposta. Tutti gli occupanti della stanza erano immobili
come dei modellini in una casa di bambole.
Poi lui domandò, con una certa perplessità: «Ma cosa è venuto a
galla?».
«Sarebbe una delusione, immagino, se vuotassi il sacco ora» dis-
se il Littore chiamato Augustine, dopo un istante. «Ma procedi. Pro-
vaci. Confessa, e sii l’uomo che vorrei che tu fossi, invece dell’uomo
che apparentemente sei.»
«Sentite, non per fare il brillante a sproposito» disse Dio, «ma…
sono nei guai?»
La Santa della Gioia si mise a sedere sulla poltroncina vuota e scop-
piò in un pianto rabbioso. Si prese il volto fra le mani e singhiozzò
violentemente per tipo quattro secondi – insomma, non per molto –
e poi si rialzò in piedi. In apparenza, si era sfogata.
«Perché forse potrebbe non essere il momento più appropriato»
fece lui, «visto che abbiamo… compagnia.»
Ancora una volta, credevo ci avessero beccate. Ma lui stava indi-
cando la persona che occupava il corpo di Cytherea, ancora legato
all’altra poltroncina. Entrambi i Littori la fissarono come se non l’a-
vessero notata prima.
*
Wake me up inside è un verso di Bring Me To Life degli Evanescence. (N.d.T.)
«Risponderai alla mia domanda, ora? Perché sei andata alla Nona
Casa, diciannove anni fa?»
«Per forzare il Sepolcro ed entrarci.»
C’è un’emozione che non è esattamente paura, e mi piacerebbe che
qualcuno si inventasse una parola per descriverla, Harrow, perché in
quel momento non avevo un modo per farlo, maledizione – era una
sensazione che cominciava dai talloni e risaliva su per le gambe fino
alla spina dorsale, la sentivo nelle tue mani, la sentivo sulla tua lin-
gua. L’avevo sentita formicolarti dietro la nuca. Il cuoio capelluto ti
si era increspato di una leggera elettricità statica.
Ma forse una parola c’era: “presagio”.
«Ma non si può entrare nel Sepolcro.» Dio pareva sinceramen-
te interessato, ma in una maniera molto noncurante, come se stes-
se ascoltando i risultati di una gara. Era il grado di interesse di qual-
cuno che ascoltava la conclusione di un aneddoto a una festa. «Non
senza di me.»
Il cadavere rispose fosco: «Ero armata».
«Non importa quali armi avessi portato, Comandante…»
«Ho avuto la bambina» disse Wake. «La bambina che ho dovuto
incubare personalmente per nove cazzo di mesi, quando i simulacri
fetali che mi hanno dato quei due sono morti.»
«Oh, Dio, era tua» disse Augustine, inorridito. «Credevo che aves-
si usato in vitro uno di quelli di Mercy…»
«Ho detto che sono tutti morti» fece Wake. «I fantocci sono morti.
Gli ova sono morti. Solo il campione era ancora attivo, non ho idea di
come, visto che erano trascorse dodici settimane dal fatto, ma a ca-
val donato non si guarda in bocca.»
«E allora l’hai usato su te stessa» disse Augustine. «Cosa non si fa
per la rivoluzione, eh, Wake?»
«Mi stai giudicando?»
«Giudico solo la tua intensa capacità di illuderti.»
«Mi assicuro sempre che un lavoro venga completato.» Wake sem-
brava annoiata. «Mi avete spedita là fuori per uccidere un bambino
e aprire quelle porte. Il bambino di chi non era importante, per quel
che mi riguardava. Ho custodito quella cosa sotto al mio cuore… ho
vomitato tutte le mattine, il primo trimestre… l’ho sentita scalcia-
re… mi è toccato indurre il travaglio e partorire su una navetta, da
«Lo sai che sappiamo anche noi come funzionano le barriere san-
guigne» disse Mercymorn. Lei non sembrava in preda all’isteria; si
era scambiata di ruolo con Augustine, inaspettatamente, e ora era
misurata e calma, quasi trasognata. «Non ce l’hai mai tenuto segre-
to. Ho sempre pensato che fosse un po’ un’esagerazione, Maestro…
sei sempre stato così puntiglioso con quella storia del non sanguina-
re mai… ma una volta Cassiopeia mi ha raccontato una cosa molto
interessante a proposito delle barriere sanguigne. Diceva sempre che
sarebbe stato più appropriato chiamarle barriere “cellulari”, perché
funzionano grazie agli enzimi thalergenici… che si possono simula-
re con una sostanziosa emissione thanergica e il sangue di un paren-
te stretto. Un genitore. Un figlio.»
L’Imperatore commentò, come se stesse parlando a una bambina:
«E come siete riusciti a…» e poi si bloccò.
E poi disse: «Mercy». E poi: «Augustine». E ribadì: «Mercy…». E
poi: «Augustine…».
«Non mi soffermerei a riflettere sui dettagli pratici, se fossi in te»
disse Augustine, tirando fuori una sigaretta. Se la cacciò all’angolo
della bocca. Se la cavava bene. Non gli tremavano nemmeno le mani.
«Non ne vale la pena.»
«Ma è successo solo…»
«Quella volta? Già, una serata pianificata da cima a fondo per cin-
quecento anni» disse il Santo della Pazienza. Accese la sigaretta. «Dios
apate, alla grandissima. Avevamo bisogno del tuo – ehm – materiale
genetico, e quello era l’unico modo. Erano passati dieci anni dall’ulti-
ma volta che Gioia e io ci eravamo trovati nello stesso posto. Eri così
maledettamente circospetto, John. Niente vulnerabilità, niente di-
strazioni. Saresti diventato paranoico se… avessimo fatto un secon-
do giro. Santo Dio, sembra tutto così volgare. Immagino di aver feri-
to i tuoi sentimenti. Dio mio, spero di sì. In questo momento, scopro
di sperarlo profondamente.»
«Non è possibile. Mi rifiuto di crederlo. Come avete anche solo…»
«Mercymorn» disse Augustine in tono pratico.
«Non ho neanche…»
«Mercymorn» ripeté Augustine. Fece un tiro di sigaretta e disse:
«Scusami, Gid, non volevo che sapessi tutti questi sordidi particola-
ri… siga?».
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lebrale» che ora so non essere una vera malattia, dunque immagino
che sì, ora ti sentirai una stupida, vero?
Eri furibonda. Mi avevi detto: «Non importa chi possono essere…
non contano niente e non stanno venendo a prenderti».
Andavo a sedermi vicino alla nicchia di mia madre e la aggiorna-
vo su qualsiasi cosa. Roba tipo: «Aiglamene dice che ho sistemato la
posizione delle mani quando paro e carico dal lato sinistro, parten-
do bassa». Roba tipo: «Oggi Harrowhark è stata una stronza colos-
sale». (Quello glielo riferivo regolarmente). Roba tipo: «Adesso rie-
sco a fare novantasei addominali in due minuti». Cazzate complete
da quattordicenne. Sul serio, cretinate di classe A+.
Era peggio, quand’ero piccola. Mi ricordo la volta che mi hai sor-
presa a dirle: «Ti voglio bene» e non mi ricordo neanche cosa mi avevi
detto, ma mi ricordo che ti ero saltata addosso… ti avevo schiacciata
a terra, cazzo. Sono sempre stata molto più grossa e molto più for-
te di te. Ti sono saltata a cavalcioni e ti ho stretto il collo finché non
ti sono usciti gli occhi dalle orbite. Ti avevo detto che probabilmente
mia madre mi aveva voluto molto più bene di quanto te ne volesse la
tua. Mi avevi graffiato la faccia finché il mio sangue non ti era sgoc-
ciolato lungo le mani; avevi la mia faccia intera sotto a quelle cazzo
di unghie. Quando ti ho lasciata andare non riuscivi neanche ad al-
zarti in piedi, sei strisciata via e hai vomitato. Avevi dieci anni, Har-
row? E io undici?
È stato quello il giorno in cui hai deciso che volevi morire?
Ti ricordi quello che dicevano sempre quelle stronze delle prozie…
«Soffri e impara»?
Se avevano ragione, Nonagesimus, quanto ancora possiamo tolle-
rare, tu e io, prima di raggiungere l’onniscienza?
* * *
la sua energia da te. Non c’è alcuno scambio, alcuna simbiosi. Non at-
tingi nulla dal sistema. Fa completamente affidamento su di te, come
ben sappiamo tutti. Sei Dio, John. Ma – come amano tanto eviden-
ziare gli Edeniti – una volta sei stato un uomo. Da dove deriva que-
sta transizione? Da dove arriva il tuo potere? Pur ammettendo che la
Resurrezione sia stata la più imponente reazione thanergica mai in-
nescata, nel corso del tempo si sarebbe dovuta prosciugare. Ma poi
Mercy mi ha detto – in un classico attimo di meschinità da Mercy –,
mi ha detto: “Di cos’ha paura Dio?”.»
Quegli occhi cerchiati di bianco si chiusero, e il cuore quasi ti si ri-
lassò nel petto.
Lui commentò, in modo piuttosto irrilevante: «Voi due avete solo
fatto finta di odiarvi, quindi?».
«No» esclamarono in coro, scandalizzati. E Augustine precisò: «Ma
non ci siamo mai detestati così intensamente da non poter lavorare
insieme. Ha preservato la nostra sincerità. Non ho mai voluto crede-
re a nulla di quel che mi diceva Gioia… non volevo crederci quando
mi ha detto: “E se non avesse mai veramente soppresso A.L.?”. E poi:
“E se non fosse riuscito a sopprimere A.L.?”.»
Gli occhi si spalancarono. Si spalancarono su di te e su di me. Que-
gli anelli bianchi, come un’emicrania; quell’interno nero, iridescente,
come il catrame, una farfalla, o un vetro di ossidiana.
E lui disse: «Riassumete, per cortesia. Tendete entrambi a eccede-
re coi preliminari».
Augustine disse: «Non hai ucciso Alecto. E non era soltanto la tua
guardia del corpo».
Mercymorn disse: «Alecto era la tua paladina».
L’Imperatore non si mosse.
Augustine disse: «Sono gli occhi, John. Quei maledetti occhi do-
rati che ha sempre avuto, come quelli di un gatto. Quando ho visto
la giovane Harrowhark, là dietro…» agitò il pollice nella nostra dire-
zione, il che in qualche modo riuscì a spaventarmi, immagino per-
ché ero ormai convinta che si fossero dimenticati che eravamo nella
stanza, «… con gli stessi identici fanali, ammetto sinceramente che il
mio primo pensiero è stato: “Porco cazzo, si è svegliata”».
«Ma non aveva alcun senso, ovviamente» proseguì lui. «Perché se
A.L. fosse apparsa sul Mithraeum, sarebbe stata più… peculiare che
mai. Per quale altra ragione gli occhi di Harrowhark sarebbero dovu-
ti cambiare? Per lo stesso motivo che ha fatto cambiare i nostri oc-
chi. Il completamento dell’Ottuplice Mondo. Aveva raggiunto il vero
stato Littoriale.»
«Il che implicava» disse Mercy, riprendendo il filo, «che alla pala-
dina dell’infante, in qualche maniera, erano toccati gli occhi della tua
Annabel Lee. Non c’era la minima possibilità che il codice genetico di
Alecto – se ipotizziamo che ne avesse uno, cosa di cui per la cronaca
non sono convinta – fosse andato a finire in un neonato della Nona
Casa… ma c’era, invece, una possibilità molto concreta che il tuo co-
dice genetico l’avesse fatto, perché Augustine e io ci siamo impegna-
ti estremamente a fondo per mettercelo.»
«Tutta quella fatica per spalancare il Sepolcro Sigillato» disse Au-
gustine, «solo per ottenere la risposta che cercavamo sotto forma di
un’adolescente morta che sfoggia i tuoi geni. Non sono mai stati gli
occhi di Alecto. Erano i tuoi, John. Alecto ha avuto i tuoi occhi dall’i-
stante in cui tutti noi l’abbiamo vista per la prima volta. E quegli straor-
dinari occhi neri che hai sempre portato… sono sempre stati i suoi.»
Harrow, non riuscivo ad afferrare bene tutta la faccenda, perché la
teoria necromantica per me è un gran mucchio di stronzate fumanti
anche quando non sono troppo impegnata a gestire Emozioni Com-
plesse, ma quell’ultima parte era risultata strana persino a me. Avevo
visto Ianthe portare gli occhi di Tern, come un funerale sulla sua fac-
cia. Mi ero specchiata e avevo visto il tuo viso con degli occhi molto
più attraenti e fichi, e anche quello era… strano. Mi ero immaginata
che il cambiamento d’occhi è quello che capita quando due persone
diventano una sola. Non è quello che succede quando due persone
si “scambiano di posto”. Nessuno avrebbe mai visto quel coglione di
Naberius sculettare in giro con un paio di brutti occhi viola abban-
donati sotto alla pioggia, perché lo scambio di occhi Littoriale si ba-
sava sul fatto che uno stocco gli avesse trapassato il cuore. Non c’era
alcuna possibilità che un paladino finisse per ritrovarsi con gli occhi
di un necromante.
A meno che il paladino non fosse riuscito a morire.
Mercy si allungò per prendere la sigaretta di Augustine. Lui glie-
la passò senza fiatare; la osservò mentre la aspirava furiosamente al
l’estremità, mentre la cartina sottile si incendiava d’arancione sulla
Dio lo squadrò.
«Sì» disse, anche se il suo tono era remoto e confuso, come se fos-
se alle prese con i postumi di una sbronza. «Sono stato l’unico a cui
ha permesso di osservare il suo tentativo. Aveva capito che la chia-
ve stava nell’eseguire l’Ottuplice più lentamente – più metodicamen-
te –, ma restava comunque più una coincidenza che qualcosa di de-
liberato. Ma non è così semplice: non l’ha eseguito in modo corretto
e io l’ho bloccata. È andata nel panico a metà strada. Non era riusci-
ta a portare completamente dentro di sé l’anima di lui – se fosse ac-
caduto, la morte di Samael avrebbe ucciso anche lei… erano entram-
bi in pericolo. L’ho ucciso io per lei e lei, al tempo, l’aveva capito.»
«È la verità o è la verità che racconti a te stesso?» domandò Augustine.
«Qual è la differenza?» disse Dio.
E poi disse, con quello stesso tono remoto, di un gelo tombale:
«Come dovrei ottenere l’assoluzione? Cos’altro mi resta da fare?».
E Augustine disse: «Interrompi la tua missione, John. Rinuncia
a quello che so stai cercando sin dall’inizio. Smettila di espanderti.
Smettila di assemblare questa cartografia sconcertante, questa forza
d’invasione. Mi ci sono lambiccato per cinquemila anni e non credo
di capirlo davvero nemmeno ora. Ma lascia perdere. Lasciali andare.
Nessuno deve più essere punito per quello che è successo all’umanità».
L’Imperatore delle Nove Case si voltò a guardarlo.
«Augustine» disse, «se l’uomo che eri – l’uomo che eri prima di
morire, prima della Resurrezione – potesse sentire quello che mi hai
appena detto, ti strapperebbe la trachea.»
Augustine commentò: «Grazie per la conferma». E rimase in silenzio.
Fu Mercy a dire: «John» in una preghiera tremula – ogni sfuma-
tura metallica era sparita dalla sua voce ed era stata sostituita da una
tenerezza spudorata. «John, ti sbagli.»
«Come se non lo sapessi» disse l’Imperatore, ma quegli occhi fiam-
meggianti bordati di bianco si sollevarono verso il viso di Mercy.
«Io ti perdonerò» disse con coraggio, e deglutì tre volte in rapida
successione. Augustine la fissò con un’espressione di crescente incre-
dulità. «Resta una cosa… un’ultima occasione. Se riuscirai a fare que-
sta cosa per me… se riuscirai a farmelo credere… ti perdonerò tutto.
Cancellami la memoria, se vuoi. Quell’infante idiota di Harrowhark
l’ha fatto. Escogiterò il modo per fartelo fare anche a me. Ti permet-
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Tra tutti quanti, fu proprio Ianthe a dire: «Come fai a dirlo? Non
vuoi nemmeno provarci?».
«Dominicus collasserà in una manciata di minuti, pulcina» disse
l’altro Littore. Anche lui aveva la flemma di un condannato a morte.
Mi ero già imbattuta in quella calma, una volta, e non apparteneva
a un essere umano vivente: era la calma sul viso di una ragazza an-
nientata, trafitta e maciullata su un letto su cui le avevo detto io di
stendersi. «Formerà un buco nero a cui nessuno in quel sistema po-
trà sfuggire. Le Nove Case sono finite.»
«Le Nove Case non ci sono più» gli fece eco Mercy. «È finita… è
fatta. Abbiamo sempre pianificato un’evacuazione di massa… ma ho
avuto la mia occasione… e l’ho colta. L’ho colta, Augustine. E ora mo-
rirò, e affronterò il Fiume.»
«No» disse Augustine.
«Augustine, mi hai promesso che dopo averlo fatto ce ne saremmo
andati da qualche parte e ci saremmo buttati nel sole più vicino…»
«È successo quando era solo una fantasticheria» rispose lui. Era
come se nella stanza ci fossero solo loro due. Il Santo del Dovere strin-
geva delle braci ardenti nel palmo, più statua che uomo; Ianthe fissa-
va il vuoto, sembrava una bambina, nonostante l’altezza. Piccola. Stu-
pefatta. Non voglio nemmeno sapere che aspetto avessi io. Augustine
disse: «Doveva succedere a patto che il piano si svolgesse in condizio-
ni perfette. Condizioni che non avremmo mai potuto rispettare, sin-
ceramente. Hai colto la possibilità che avevi, e dovevi coglierla, e ora
le Case sono morte. Le Bestie Resurrezionali sono ancora là fuori».
«Non puoi costringermi a farlo.»
«Hai un compito, Gioia» disse lui. «Se ti uccidi adesso, lascerai tut-
to in un disordine estremo, e non sarebbe da te, no?»
Lei esclamò disorientata: «Non era questo l’accordo».
«Peccato» commentò Augustine. «È fatta… visto che hai deciso di
sporcarti le mani in modo che le mie potessero restare pulite, dovrai
vedertela col fatto che hai scelto l’uomo sbagliato con cui stringere
un patto suicida. Io li odio. Cristabel avrà anche demolito tutto l’ot-
timo lavoro che avevo fatto con Alfred, ma eccoci alla resa dei conti.
Andremo a radunare le navi – tutte quelle che rimangono –, negozie-
remo la pace al meglio delle nostre possibilità, porteremo gli Edeniti
dalla nostra parte. E poi troveremo un posto dove adempiere all’anti-
ca promessa… là fuori, da qualche parte, esiste una casa che non sia
stata pagata col sangue; non sarà per noi, ma sarà per chiunque sia
stato risparmiato. I bambini nascono sempre. Le Case vengono sem-
pre costruite. E i fiori appassiranno sulla tomba della necromanzia.»
Lei deglutì a ripetizione. «Augustine…»
Il Littore la prese tra le braccia, in silenzio; si strinsero come due
bambini che si svegliano di soprassalto in preda a un incubo. Altret-
tanto silenziosamente, si staccarono.
Lei disse, a bassa voce: «Aveva ragione lui. Non può esistere il
perdono».
«Allora non cercheremo il perdono, ma cercheremo di dimentica-
re» disse lui. «Seppelliscimi accanto a te in una tomba senza nome,
Gioia. Sappiamo che era quella l’unica speranza possibile per noi, che
avremmo vissuto per occuparcene, fino in fondo… e per pregare per
la nostra stessa cessazione. Oh, ci odiamo ancora, mia cara, ci siamo
odiati troppo a lungo e con troppa veemenza per smettere… ma le
mie ossa riposeranno vicino alle tue.»
Augustine sollevò il capo, per la prima volta, per rivolgere un’oc-
chiata al suo pubblico impietrito, di cui probabilmente il membro più
vivace era il cadavere di Cytherea, che mia madre aveva ormai ab-
bandonato del tutto.
«Niente rappresaglie, Gideon?» domandò lui. Il suo volto era mor-
talmente livido. I suoi lineamenti erano immobili, ma le sue mani no.
«Credevo volessi bruciare insieme a lui sulla pira.»
Aprii la bocca per replicare; ma sobbalzai quando l’uomo dall’aria
scorticata con addosso i miei occhiali da sole disse: «No».
«Mentirei se ti dicessi che non ne sono sorpreso» disse Augusti-
ne, «ma mentirei anche se ti dicessi che non sono soddisfatto. Ecco-
ci qua, noi tre, alla fine… Alpha, beta e gamma.»
Gideon lanciò un’occhiata alla sigaretta spenta che lui teneva tra le
dita, e poi disse: «Be’. Augustine, c’è una cosa che dovresti sapere…».
Luce bianca.
Ti candeggiò le cavità interne del naso e il fondo della gola. Ti uscì
dolorosamente dalle orecchie. Ti sanguinò fuori dalle palle degli oc-
chi. Non era un flash di luce, più… una repentinità; quando scompar-
ve – come se non fosse mai esistita, ma si fosse trattato solo di un’al-
lucinazione luminosa –, il tempo si fermò.
Quella luce aveva risucchiato i colori dalla stanza – tutto era di-
ventato una galoppata al rallentatore di grigi, di occhi colti nell’istan-
te di sgranarsi, di bocche che si spalancavano in un ventaglio a tinte
pietrose di shock. Avevo cercato di farci girare dalla parte opposta,
come se si trattasse di una granata – e poi, in quel grigio dalle mille
sfumature, vidi… il rosso.
Particelle polverose si stavano materializzando a mezz’aria… emer-
gevano dalla mia bocca, si liberavano ondeggiando dai capelli di Ian-
the. Sulle prime, una sfumatura di un pallore morbido, come il rosa
di un’alba, poi un color ciliegia più acceso, poi uno scarlatto scuro.
Fluttuavano sospese, esitanti, per poi transitare inesorabilmente ver-
so un punto, come pulviscolo che danza in un raggio di sole. Una po-
tente folata denudante percorse la stanza come un flagello, frustando
quei bruscolini verso l’alto, in un vortice cremisi. Il pulviscolo si tra-
mutò in sabbia, la sabbia diventò un aggregato; e poi l’incandescente
materia rossa si coagulò in osso.
Accadde in un istante. Accadde nel corso di un’intera miriade. Un
costrutto rosso e umido si ricompose come un lavoro a maglia, e poi
si espanse gorgogliando dal suo centro, un fiotto caldo di carne rosa
pallido e di nervi… uno schizzo bitorzoluto di organi, violetti scuri e
vellutati, ciliegie puntinate grossolanamente, volute di intestini e mor-
bide curve lucide di viscere… palloncini bianchi in ogni orbita ocu-
lare, coaguli di un bianco perlaceo a fare da imbottitura… il guizzo
di una lingua rossa e bagnata in una mandibola da cui germogliava-
no i denti. L’insistenza percussiva e pulsante di un cuore, rapidamen-
te celata da un rigonfiamento di bronchi che scivolavano per forma-
re grandi e soffici sagome polmonari – rivestite repentinamente dai
muscoli, poi abbigliate dalla pelle con una modestia ormai fuori tem-
po massimo –, la pelle che si adombrava di un delicato rivestimen-
to di peli sulle braccia e sul petto, capelli scuri che si ondulavano so-
pra alle sopracciglia, creando increspature e pieghe sopra al cranio.
La calda gelatina bianca degli occhi si tinse di nero, come se ci fosse-
ro state spremute dentro gocce di petrolio – si espandevano in ondi-
ne nere e splendenti, macchiandoli di un ebano di una nitidezza as-
soluta –, gli anelli bianchi affiorarono in superficie come se fossero
stati gettati nell’acqua, ogni pupilla nera e opaca andava a occupar-
ne il punto centrale.
«Bene. Vai a metterti su quel lato della stanza, sì, proprio lì.» Il San-
to del Dovere si spostò per piazzarsi dell’altro lato della poltrona, lon-
tano da Augustine, lontano dai due cadaveri, senza nemmeno lancia-
re loro un’occhiata di sfuggita. Poi Dio disse: «Okay, Ianthe la Prima
– l’ottava santa al mio servizio –, le mie di…».
«Avete la mia lealtà» lo interruppe Ianthe.
«Scelta» disse lui, mentre Ianthe attraversava la stanza. «Palese en-
tusiasmo. Ottimo materiale. Ecco cos’è che mi piace di te, Ianthe, non
speculi sulle tue scommesse. Ora… non posso chiederlo a Wake an-
che se so già cosa mi risponderebbe. È un vero peccato che tu l’ab-
bia uccisa, Gideon, avevo in programma di tenerla in circolazione…
aveva parecchio da raccontarmi, e poi perché fare lo stronzo con la
madre di tua figlia? A proposito…»
E guardò noi.
Io esclamai: «Sei tu che hai ordinato a quel bastardo di pestare Har-
row?». Il mio lavoro era quello, dopotutto.
Dio disse: «Stavo cercando di salvarla».
Anche quello era il mio lavoro. «Vattene al diavolo, Papi.»
«Non è una domanda per te» disse lui, con pazienza. «Sei la mia
bambina; cavolo. Non voglio darti un ultimatum il primo giorno che
passiamo insieme. Parleremo più tardi di te e di me. Non posso re-
cuperare tutti gli anni in cui non ci sono stato, tutte le patatine frit-
te calde che non ti ho potuto comprare e le recite scolastiche a cui
non sono venuto, ma ucciderti per sfuggire a una relazione disordi-
nata sarebbe un po’ troppo bieco da parte mia. In più, quello non è
il tuo corpo. Preferirei non punire Harrow per i tuoi colpi di testa.»
Siamo state lanciate dall’altro lato della stanza, non forte. Le tue
ossa e le tue polpe si fermarono dolcemente accanto a Ianthe prima
ancora che potessi serrare la presa delle tue mani sulla spada.
Poi l’Imperatore si rivolse a Augustine.
Si fronteggiarono senza aggressività. L’Imperatore sembrava un ti-
zio che aspettava in accappatoio sul primo gradino, salutando qual-
cuno che sgattaiolava a casa parecchie ore dopo il coprifuoco. Il pet-
to del Littore era schizzato di sangue rosso e caldo del cuore, che gli
colava a rivoletti lungo il manto. Qualche spruzzo leggero gli era an-
dato a finire anche in faccia.
«Anch’io avrò quest’opportunità?» domandò lui.
«Sì» disse l’Imperatore. «Ce l’avrai. Non l’ho offerta a Mercy per-
ché Mercy mi ha fatto proprio incazzare, mi spiace dirlo.»
«Comprensibilmente» concordò Augustine.
«Augustine il Primo» disse l’uomo che era Dio, e il Dio che era uomo.
«Il mio primo santo. La mia prima mano, il mio primo pugno e gesto.
Giurerai di nuovo di essermi fedele, tabula rasa, nuovo inizio? O no?»
Lui mormorò: «Avevi detto che il perdono non esiste».
«Io perdonerò lui, come Dio perdonerà me» declamò l’Impera-
tore. «Forza, giurami lealtà, figlio mio… fratello mio… mio amato…
Littore… santo.»
Augustine sollevò lo sguardo verso il Signore. I suoi occhi erano del
medesimo grigio che li aveva colorati anche durante l’arresto del tem-
po. Si guardò il sangue sul petto; guardò il gruppo radunato sull’altro
lato della stanza: io che mi dimenavo nella tua pelle gelata. Ianthe.
Gideon. Il cadavere di Cytherea sulla poltroncina. Il corpo collassa-
to sul pavimento, i capelli di Mercymorn che si sparpagliavano non
troppo lontano dal suo piede in grovigli rosei e insanguinati. Guar-
dò il Dio delle Nove Case.
«No, John» disse.
E Augustine sollevò la mano.
Un tuffo nauseante. Come essere scaraventati in aria, Harrow,
quell’assenza di peso all’apice di una caduta verticale, il vomito; il
sussulto prima di montare su quel vecchio ascensore malandato per
scendere al monumento, ma alla milionesima potenza. Una lamenta-
zione di metallo squarciato. Ci fu un enorme WHUNK ondeggiante
– ci ammucchiammo tutti da un lato mentre la stazione si inclinava.
Le poltrone si ribaltarono – anche il cadavere di Cytherea ruzzolò via,
non più legato per i polsi o da nessun’altra parte – e io ero di nuovo
capace di mobilitare la tua carne, anche se quello probabilmente non
era il momento più adatto per muoversi. La paratia esterna si staccò
dal finestrino, e la vidi. Vidi l’acqua.
Dio era caduto; era schiacciato contro la parete. La luce inondava
la stanza – una luce strana, sovrannaturale, avviticciata. Bolle allar-
mate e canalizzazioni d’aria si addossavano alla finestra di plex men-
tre l’intero Mithraeum veniva trascinato in un’acqua sempre più scu-
ra, marroncina, sanguinolenta.
Il plex si incrinò, vibrò e poi cedette. Il Fiume irruppe attraverso la
* * *
donna, una donna con la faccia grigia e gli occhi spenti, con un viso
così bello che quasi faceva il giro e diventava repellente; una donna
con i miei occhi, attenuati nel giallo scuro della morte, con i capel-
li che ricascavano in ciocche plumbee e bagnate. Mi ero resa conto
con esasperata indignazione che, alla fine di tutto – dopo tutto quel-
lo che avevo passato… dopo le ultime parole, l’ultimo colpo, l’ultima
goccia di sangue nell’acqua –, la tua finta fidanzata morta era venu-
ta a reclamarti.
E aveva detto, con una voce due volte sbagliata: «Massaggio car-
diaco. Lo sterno è fratturato, lo so; ignoratelo. Abbiamo bisogno che
il cuore pompi. Al mio segnale».
Mani premute. E siamo morte.
528
Era lo spadone a due mani che dimorava sul fondo della bara del-
la Dormiente, proprio come Dyas l’aveva visto.
Harrowhark era tornata a casa, e non aveva paura. Non sapeva per-
ché lo stesse facendo, ma entrò nella bara vuota e prese la spada tra
le braccia. Era colma di una certezza soporifera e confortante, come
se, invece che in una tomba gelata, fosse stata adagiata in un letto e
qualcuno le avesse rimboccato le coperte e sprimacciato il cuscino.
Sentiva le palpebre pesanti come le catene spezzate sparpagliate at-
torno al catafalco. Abbracciò la spada senza vergogna; quei due me-
tri scarsi di acciaio non le incutevano più alcuna paura.
Qualcosa le scrocchiò sotto a un fianco. Non l’aveva notato quando
ci era entrata; era stato infilato da una parte, lungo il lato della bara.
Quando allungò il braccio per portarselo davanti al viso, scoprì che
era una massa consistente di velina da riviste. La copertina stropic-
ciata mostrava una donna con un’uniforme della Coorte che si allon-
tanava così tanto dalla versione ufficiale da non limitarsi solo a sfida-
re la credulità, ma la spezzava proprio in due: una giubba bianca di
almeno tre taglie troppo piccola, stivaloni e nient’altro.
Il ghiaccio le sembrava gentile e caldo; la pietra cedevole come il
cotone. Harrow si coricò dove il Corpo era rimasto a giacere, perfet-
tamente a suo agio, perfettamente comoda, e lanciò un’occhiata ap-
pannata al titolo.
«Quinta Casa. Tette in prima linea» lesse, e si sorprese a sorridere
tra sé e sé, non poteva farne a meno. Mormorò: «Nav, asina che non
sei altro, non è nemmeno una vera pubblicazione».
Poi ci fu un’enorme oscillazione laterale, come se si trattasse di
un’esplosione, o del movimento di una culla. Gli occhi si chiusero.
Stesa nella tomba che si era impadronita del suo cuore, lontana in
una landa che mai aveva visitato, Harrowhark Nonagesimus si ad-
dormentò, o morì sul colpo, o entrambe le cose.
533
Vorrei esprimere ancora una volta la mia più vasta gratitudine alla
mia agente, Jennifer Jackson, infaticabile quanto gentile e altrettanto
spassosa. Jennifer è un essere davvero fuori dal comune e non sono
ancora riuscita a scombussolarla. Dopo un anno, non ho ancora tro-
vato le parole giuste per ringraziare Carl Engle-Laird, editor ed eroe,
ma se anche ci riuscissi, lui si limiterebbe a eliminare tutte le para-
tassi. Carl, so che questo universo significa tantissimo per entrambi.
Grazie per avermi accompagnata in questa folle corsa.
La squadra di creature angeliche della Tor.com: Ruoxi Chen, Chri-
stine Foltzer, Irene Gallo, Giselle Gonzalez, Mordicai Knode, Caroline
Perny, Renata Sweeney, Natalie Zutter, così come Matt Johnson della
Macmillan Sales, tanto per fare solo qualche nome. Ecco, sono tutti
angeli dark in giacca di pelle. So che è stato svolto più lavoro per me
di quanto io possa comprendere a pieno, e il loro sostegno, l’entusia-
smo e la gentilezza costanti sono stati incredibili. Sono anche grata a
Tommy Arnold, per l’incredibile lavoro alla copertina, e a Jamie Staf-
ford-Hill per il design e la grafica altrettanto incredibili.
Ringraziamenti specialissimi a Clemency Pleming e a Megan Smith,
sempre le mie prime lettrici, che dai miei ultimi ringraziamenti si sono
sposate. Maz, sei la sua paladina; è illegale.
A tutte le persone che hanno avuto la possibilità di leggere il ro-
manzo prima dell’uscita, dimostrandosi enormemente gentili, pron-
te a parlarne e incoraggianti: grazie mille. Vorrei poter elencare qui
tutti i loro nomi, ma sono troppi e hanno fatto per me così tanto che
temo di scordarmi qualcuno. Il lavoro infaticabile di librai, recenso-
ri, blogger e colleghi autori mi ha riempita di gratitudine e di equi-
parabile stupore.
Sono molto grata alle persone che mi sono state accanto e hanno
ascoltato i miei brontolii: Lissa, Bo e Ben, i West, Ben Raynor, Chris
Douglas. La mia classe della Clarion rimane uno scrigno di tesori.
Isabel Yap è un faro per molti, ma un falò per me; come ho riporta-