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Prologo

La Prova di Northon

Dall’altra parte dell’imponente muraglia di pietra, costellata da


bifore e finestre ingrigite dalla salsedine costiera, un rullo di tuoni si
avvicinava: la tempesta stava planando sopra l’oceano come un falco in
picchiata, pronto ad avvinghiare la sua preda tra gli artigli.
Spiccava ancora, poco lontano dalle nubi nere oltre la costa, uno
strappo di luce lunare, che dava vita a riflessi infiniti tra le onde che si
alzavano rumorosamente, gorgogliando versi arcani pieni di fascino.
L’aria profumava di cambiamento quella notte, e tutti quei rumori,
quelle immagini veementi, non facevano altro che accentuare quella
viscerale paura dell’ignoto, che nel profondo rende tutti così attaccati
alla vita.
La Città del Sale, Venora, era estesa e luminosa, costruita in legno e
pietre rare. Centinaia di persone vivevano in quelle case barocche e
molti di loro si stavano preparando alla bufera, chiudendo porte e
finestre con quello che avevano. Uscendo dalle villette e vedendo quella
valanga d’acqua, i più sensibili tiravano un grido di sgomento: la luce
era ormai più verde che nera, la pioggia che scoccavano quelle nubi
violente era pungente ed aspra tra le onde che s’ingrossavano.
Il castello di Venora era esposto al mare, sopra un picco di pietra che
cadeva a strapiombo, sfumando l’acqua con il colore degli scogli,
ingrigio e di un gotico vivo.
Un onda primitiva si scagliò contro lo strapiombo. Seguì uno
scricchiolio e poi la crepa andò ad ampliarsi, facendo crollare uno
scoglio grande come una casa nelle profondità dell’oceano. Si sentì solo
un grosso tonfo- splosh!- un tonfo udibile da miglia che faceva da
accordo a quell’orchestra di tuoni e tamburi.
Alla luce fioca della poca luna rimasta e di una candela appena
accesa, un uomo vestito bene smise di affilare il suo pugnale dorato,
appoggiandolo sul tavolo assieme alla pietra con cui lo stava levigando.
Si alzò dalla sedia mostrando un corpo esile e raggrinzito, pieno di
rughe e increspature sul volto.
Trasudava saggezza.
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Lo sguardo vigile sulla bifora che dava sul mare.


I suoi piedi si mossero leggiadri, passo dopo passo, verso il mondo
esterno. Abbracciò la colonna centrale della bifora di pietra facendo un
sospiro di resa, facendosi accarezzare dai pochi raggi lunari, e dei
granelli di pietra si levarono dalla colonna al tocco della sua mano:
erano ruvidi e scomodi, ma allo stesso tempo il contatto con quei
granellini dava una sorta di piacevolezza irresistibilmente pura e
naturale.
Quell’uomo non aveva barba, anche i capelli tendevano a mancare
sulla parte anteriore del volto, lasciando scoperta un isoletta di ciuffi,
neri alla radice che sfumavano verso il bianco.
Prima della completa vista sul mare e sulla tempesta (che ormai stava
per raggiungere la terraferma) la piccola bifora del vecchio uomo
mostrava una decina di case, illuminate dall’aura del lume, piene di
piccole voci preoccupate. Solo dopo quella fascia di casupole, con al
lato sinistro una piccola visione delle torri del Castello di Venora, si
poteva ammirare un mare senza spiagge, sollevato a una quindicina di
metri da rocce dure, natie del nuovo continente.
Dalle nubi verde-giungla arrivò un soffio di vento gelante. Come un
onda che di notte marcia veloce sulla sabbia ghiacciata, quell’aria
spense fila dopo fila tutte le candele delle case davanti al vecchio,
creando scompiglio e paura tra gli uomini rintanati nelle loro villette
vigliacche.
L’aria arrivò al vecchio che si strinse forte la vestaglia scarlatta se,
facendo una smorfia infastidita per il freddo sulla faccia. Si voltò
incuriosito e la vide: la candela sulla scrivania affianco al pugnale lottò
con tutte le sue forze, ballando da una parte all’altra dello stoppino, in
una danza tanto bella quanto sofferente, finendo inevitabilmente a tirare
un ultimo sospiro fumante di grigio.
L’anziano tirò con i suoi occhi color menta un occhiata delusa alla
candela. Tornò a guardare la tempesta.
Le nubi erano finalmente arrivate sulla costa: la pioggia iniziò a
ticchettare nervosamente e in poco più di un battito di ciglia l’ intero
castello venne inglobato nella nebbia verde.
Era completamente svanito.
Così accadde anche per tutte le case davanti alla bifora che, tra
schiamazzi e pianti, vennero assorbite.
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Ora si poteva vedere la vera anima di quei cumulonembi: era un


uragano.
L’aria di mare entrò prepotente nella bifora del vecchio che fece un
balzo indietro per lo spavento.
Ci mise un paio di secondi a realizzare che l’aria stava facendo
volare i fogli di casa sua da tutte le parti, sbattendo le persiane della
doppia finestra sui muri e muovendo il lampadario spento avanti e
indietro. In un impeto di coraggio andò in faccia alla tormenta,
chiudendo le bifore appena in tempo prima che entrasse troppa acqua
dentro la sala. Il pavimento era bagnato e lui, con i muscoli tesi e
l’adrenalina nelle vene, era fradicio da capo a piedi. Starnutì
rumorosamente e poi si risedette sulla sedia del tavolo, con il fiatone per
lo spavento.
Sentiva l’odore di sale addosso, gli faceva schifo. Sentiva i piedi
bagnati all’aria umida e si sentiva indifeso e fragile. Pur essendo un
vecchio rugoso, non vedeva una tempesta del genere da almeno un
decennio.
-I tempi stanno veramente per cambiare- disse con un sorriso furbo
stampato in faccia. -E sarò io il precursore del cambiamento-

Nelle strade non c’era una candela accesa, tutto quanto sembrava
morto in attesa della dipartita del tifone. Nella piazza centrale l’acqua
scrosciava tra le pietre e nelle grondaie, parlando al futuro in una lingua
pura, come solo l’acqua può essere. Tuoni e rombi echeggiavano tra le
strade, rimbalzando da palazzo a palazzo. Nella città esisteva anche un
parco, un grande parco curato e geometrico con una fontana circolare al
centro con qualche sequoia attorno. La fontana stava straripando e
aveva formato un lago tutt’attorno: si poteva vedere il bordo della
fontana che si dissolveva ad ogni goccia, in attesa della prossima
facendo scendere dei piccoli torrenti dalla vasca verso l’esterno.
Le sequoie invece si rinfrescavano all'aria, facendo cadere alcuni
aghi tra la ghiaia e riempiendo le loro radici con pura acqua nutriente.
Muovendosi sinuosamente strusciando e sussurrando al vento.
Il vecchio si era bardato per poter uscire, stava passando verso il
parco, vestito con una pesante pelliccia di lupo e con il pugnale alla
mano. Di luce non ce n’era ma sembrava che attraverso quella lama
bagnata fluissero tutte le candele di Venora, in un incrocio di ferro e
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piccole figure geometriche dorate, ornate sull’impugnatura con delle


fasce di pelle marrone.
Il viso del vecchio era coperto da un cappuccio che faceva percepire
l’abito mille volte più pesante sulle spalle, in volto sembrava stufo, in
realtà stava covando un gran piano che lo avrebbe vendicato.
Arrivò davanti alla fontana di pietra, dandogli un occhiata. Continuò
a camminare sotto la pioggia andando in direzione del castello.
Sapeva che non ci sarebbero state guardie fuori dall’entrata: uscire
con un uragano del genere voleva dire suicidarsi ma il vecchio non
voleva sentirne parlare: aveva uno scopo e lo avrebbe portato a termine
a costo di passare sulla vita di chiunque.
Strinse i pugni e camminò a passo svelto. Le rughe delle mani si
tesero facendo vedere attraverso la sottile pelle una serie di arterie e
venature che formavano mosaici dalle mille storie, colorate di blu e
rosso. Il passo dell’anziano si fece più sonoro una volta uscito dal parco,
arrivato alla soglia della cittadella originaria che si sviluppava
tutt’attorno al castello.
Era più una fortezza che un castello, aveva muri alti almeno trenta
metri ed erano tutti colorati di un granito nero, ricco di crepe color
verdemare che facevano sembrar viva la struttura. Aveva ben cinque
torri e in una di queste era conservata la Biblioteca dell’Est, curata dal
vecchio in persona. A lui non piaceva vantarsene ma era il bibliotecario
della famiglia Drayne da ormai trentasette anni, ed era un lavoro a
tempo pieno che non gli permetteva di pensare ad altro, e al vecchio
piaceva questa cosa. Gli piaceva impegnarsi, e ogni volta che pensava ai
suoi volumi della “Storia e Geografia di Terra Salmastra” oppure al suo
introvabile “Viaggio sulla Roccia Buia” gli veniva da sorridere.
La vita gli aveva sempre sorriso per molto tempo effettivamente, e
mai si sarebbe aspettato un tradimento tanto grande.
Arrivò alla porta del castello: chiusa, barrata da tre griglie di ferro
nero infrangibili. Non aveva nulla di cui preoccuparsi, conosceva dei
trucchi che non lo avrebbero deluso.
Appoggiò il pugnale a terra e iniziò a togliersi faticosamente la
pelliccia marrone dalle spalle, con qualche grugnito dovuto al catarro
sotto la pioggia che incessantemente diventava sempre più tagliente.
Dopo essersi tolto i cinturoni il vecchiaccio rimase solo in maglietta e

pantaloni di cotone, fradicio ma felice. Aprì le braccia al cielo,


sorridendo alla tempesta verde che soffiando forte lo stava sbilanciando:
-Finalmente! Madre, Padre! Ci sono riuscito! Vi vendicherò
rendendo il mondo un posto migliore! Lo farò per Corey, lo farò per la
bambina!…- il suo sorriso si fece più malinconico e sospirato. Una forte
fitta al cuore colpì lo spirito del vecchio:
-Lo farò per tutte quelle persone che sono morte come voi!
Iniziò a piangere a braccia aperte urlando di dolore, accompagnando
la sofferenza al tamburellio dell’uragano. Iniziò ad urlare ancora più
forte, singhiozzando con voce rauca il nome di suo figlio, ucciso dalla
tirannia degli uomini che vivevano in quel castello.
Pianse come un poppante, facendo svegliare i gechi che si riparavano
nelle insenature del castello.
Si sedette per terra in ginocchio, riprendendosi dalla botta emotiva.
Poi prese il pugnale e con lo sguardo pieno di rancore mise un piede
dentro ad una fessura nel granito del castello. Guardò sopra di sé con gli
occhi arrossati e vide, quasi inglobata dalle nuvole, una luce gialla:
doveva uccidere l’uomo dentro quella stanza.
Per un vecchio saggio fare una cosa del genere sarebbe una follia, ma
nel vortice della vendetta di un padre chi non lo farebbe? Chi è che non
rimedierebbe al più grande torto che si possa fare: uccidere il tuo
capolavoro assoluto, la tua speranza nel futuro.
Solo a pensarci di sfuggita gli veniva da singhiozzare: non voleva
che tutto rimanesse perduto, come le sue lacrime bagnate dalla pioggia.
Messo un piede ne mise un altro, fessura dopo sporgenza il vecchio
riuscì con il suo corpicino ad arrampicarsi sul granito bagnato, come
fosse il destino a guidarlo. Ad un certo punto, con il pugnale stretto tra i
denti, si voltò verso il mare: era sospeso sopra una caduta di quaranta
metri verso l’ignoto e davanti a lui si vedeva la tromba d’aria, un vortice
verde-nero che volteggiava e trascinava tutto verso di se.
il vento era veramente troppo forte. Il vecchio sudava, l’unica cosa
che lo spingeva era quella finestra, a distanza di pochi piedi, da cui
avrebbe ritirato il conto della sua sofferenza.
Si mosse più veloce, pensando alla sua famiglia.
Era quasi arrivato: allungò la mano per aggrapparsi alla sporgenza
della finestra.

Sentiva il sapore del sangue sulle sue labbra, era ormai ad un dito di
distanza.
il piede cedette, scivolò violentemente con il piede destro sul granito
e cadde all’ indietro, facendo una mezza capriola per aria. Riuscì a
reggersi ad una fessura, aggrappandosi alla con tutta la sua forza,
facendo cadere il pugnale e tagliandosi il braccio con esso. L’ arma
cadde verso il mare e gemendo per il braccio che si era tagliato con la
roccia il vecchio pensò che fosse morto.
Era tornato indietro di una decina di metri, e stava perdendo sangue a
dirotto: ma questo non lo avrebbe fermato.
Tornato sui suoi passi, l’uragano si stava avvicinando.
Con una spallata il vecchio riuscì a sfondare la persiana della sala e
ad entrare, facendo un goffo tonfo sul pavimento.
Soltanto dopo essersi alzato si accorse che la luce si era spenta e che
tutta l’illuminazione della stanza dipendeva dalla finestra sfondata.
Una figura gli comparve davanti, non gli si vedeva ne il torso e
menché meno il volto, si vedevano solo le scarpe: verdi, smeraldine
come una gemma pura appena picconata.
-Vedo che sei venuto per uccidermi, non è vero? Vecchio?
-Temo proprio di esser arrivato sprovveduto, ma questo non mi
fermerà, sappilo!- il vecchio strinse i pugni rugosi.
L’uomo con le scarpe verdi riparlò: - Ma non ti vedi? Vecchio? Sei
debole come una foglia d’autunno, non potresti fare nulla contro di
me… vorrei solo ricordarti che… non sono io il tuo nemico…
-No!- il vecchio gli puntò il dito contro.
C’era tensione nell’aria.
-Tu sei un ladro! Un Bastardo senza onore! Non perderò contro di te!
Sono disposto a tutto per quello che mi hai fatto!
-Arrenditi
-Non hai capito allora… io ti ucciderò!
I due si ispezionarono a vicenda.
-Mi dispiace- disse l’uomo nascosto -eri come un padre per me…mi
hai insegnato tutto di questo mondo, mi mancherai- il vecchio lo
squadrò storto: era pronto ad attaccarlo.
-Addio, Northon Rothey
L’uomo nascosto tirò fuori una spada lunga, trafiggendo da parte a
parte il corpo del vecchio Northon.
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Il vecchio rimase a bocca aperta, camminando all’ indietro con la


spada dentro.
Si accasciò un ultima volta a terra, bagnando di sangue il pavimento
come faceva la fontana nel parco tra la ghiaia, allagando e maledicendo
il mondo.
La sua vista si offuscò, l’uomo misterioso prese Northon per le spalle
e lo alzò: non pesava nulla, era un uomo composto solo di sentimenti.
L’uomo portò Northon davanti alla finestra, gli diede un bacio sulla
guancia e lasciò la presa, facendolo crollare come una scogliera in
mezzo alla tempesta.
Northon volteggiò su se stesso, facendosi sempre più piccolo tra le
onde ormai monumentali che si succedevano sotto di lui.
Ci fu un tuono, poi l’aria divenne silenziosa. L’assassino sospirò nell’
ombra, allontanandosi dalla finestra.
Un ultimo tuono colpì il mare in lontananza, sottolineando la salma
del vecchio che si allontanava dal castello nero, sospeso da quella
montagna di roccia.
La grande prova di Northon si concluse dentro l’uragano.

Capitolo I
Esilio

Samrys Drayne si svegliò si soprassalto, scosso da un incubo che lo


tormentava da troppo tempo. Era più simile ad un maiale in quelle
condizioni: completamente nudo, sudato fradicio, che si ribellava contro
la morsa delle coperte di seta.
Cercava invano di chiudere gli occhi tra un movimento rabbioso e un
pugno al cuscino, nella speranza di ritrovare un po di refrigerio.
Si arrese.
Alzandosi dal letto sentì i suoi peli sudati strusciare lungo la coperta
bollente, spostandola e alzandosi in piedi sul pavimento di terra battuta,
sentendolo . Passò l’uscita della tenda del suo accampamento, bianca e
sorretta da tre tronchi di faggio.
Strofinandosi gli occhi, nudo come un poppante, diede uno sguardo
veloce al mondo che lo attorniava: tende su tendoni, in un caleidoscopio
di sentieri in terra battuta.
I suoi riccioli corvini brillarono alla luce della luna piena. Quella
sera c’era odore di pulito, una sensazione che solo la Terra Salmastra
poteva concedere. Oltre la Morsa, oltre il mare, oltre le aspre terre del
nuovo continente.
Ma Samrys si era stufato di quell’aria, da anni non faceva altro che
sentire solo quella in un esilio senza tempo. Ma adesso poteva
finalmente cambiare le carte in tavola.
-Bah! Come se gli fosse mai importato qualcosa… lurido padre …
Samrys si grattò il petto, osservando il suo fisico atletico.
Guardandosi pensò a tutte le botte che ricevette dal suo tutore a Venora,
un vecchiaccio che faceva da bibliotecario al Castello. Chissà che fine
aveva fatto… chissà che fine avevano tutti i suoi vecchi amici, con cui
giocava a nascondino tra le colonne della sala grande…
Con uno sguardo tornato da un tuffo nostalgico nella sua mente, il
giovane principe decise di accettare l’invito della sua Lady Hilda: un
invito al chiaro di luna, propostogli qualche giorno prima.
Samrys si ritirò nella sua tenda, aprendo il grosso baule ai piedi del
letto, rovistando tra le vesti alla ricerca di un qualcosa di leggero. Trovò
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una camicia semi-trasparente bianca ed un paio di pantaloni altrettanto


simili.
Si vestì in fretta, pieno di gioia sul viso ancora colpito da tratti
bambineschi: era giovane, all’incirca aveva diciassette anni, ma la sua
mente andava ben oltre quella cifra.
Si bagnò la faccia con un cencio poggiato nella vasca di rame tenuta
affianco al letto, ancora tiepida per il bagno di qualche ora prima.
Samrys Drayne uscì di nuovo dal tendone regale , e con un passo
felpato fece in modo tale da non farsi vedere dalle guardie
dell’accampamento.
La sua ombra si allungava tra i sentieri del piccolo attendamento,
proiettata dalle vivaci torce piantate per terra.
Samrys si bloccò di colpo: un paio di soldati stavano passeggiando
tra le tende, in attesa di incontrare un nemico da spezzare, con le daghe
in pugno e le corazze di ferro borchiato addosso.
-Sembra che i nord stiano patendo la fame…
-Tu lasciali stare quei selvaggi, non sono affare nostro. E poi è solo
colpa loro se hanno deciso di vivere sotto i Monti di Fuoco. Se vivi in
un luogo del genere un pò masochista devi esserlo: un posto più
desolato di quello non credo propria che esista in tutto il mondo.
Da dietro una tenda Samrys stava ascoltando la loro discussione. Il
primo soldato farfugliò qualche brontolio: -Loro saranno anche dei folli,
ma invece dal Continente si dice che sia il re a non dare abbastanza cibo
a tutti.
-Stai dicendo che re Arrys voglia il male del nostro popolo?!- il
soldato si stava visibilmente infuriando, era uno di quei soldati che
avevano giurato fedeltà assoluta al proprio re.
-Per l’amor della Luce, No!…- il soldatino che aveva appena parlato
si ritrovò la daga del fratello puntata alla gola, sudava freddo.
-…Dico solo che Qualcuno dovrebbe fare qualcosa, io conosco delle
persone in quel posto e non vorrei che finissero male.-
-Umpf…- il militare con la daga alzata la abbassò, ritirandola al suo
fianco.
-… Non so ancora se fidarmi di te Chris, sei sempre troppo ambiguo
quando parli… Invece tua sorella come se la cava? Ha ha ha!- il soldato
scoppiò in una grossa risata ironica.
-Lo sai bene che non ne voglio parlare… Ron…
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I due militari si scherzarono a vicenda, facendo un dietro front che


permise a Samrys di balzare oltre l’incrocio dove avevano camminato
fino a quel momento.
Così mio padre non sfama i Nord… pensò Sam Drayne. Questo
potrebbe essere un problema.
Passò tra le ultime tende e alla fine, con un salto atletico, superò il
muretto di pietra che divideva l’accampamento da un infinita distesa di
brughiera; ricca di graminacee e piccoli cespugli aridi sotto il cielo
stellato. Samrys, corse tra quei cespuglietti da cui, ogni tanto,
schizzavano fuori dei piccoli grilli canterini.
Sembrava un infinita distesa d’ erba. Lo era a tutti gli effetti. Si
sentiva il profumo della terra asciutta e, in poco tempo, la transizione tra
terriccio e sabbia fu inevitabile: Sam era arrivato al mare.
La sabbia era fredda e rallentando il passo anche i cespugli cedettero
il loro posto a tante piccole rocce colorate.
Su una scogliera che si allungava come un ramo di quercia sul mare
placido, una ragazza con una vestaglia molto leggera che stava
guardando la luna piena. Era accovacciata su uno scoglio, con i suoi
capelli lucenti.
-Hilda!
La ragazza voltò la testa per guardare Samrys, lui le sorrideva.
-Ciao Sam!- la ragazza si alzò sullo scoglio, salutandolo da lontano
con la mano, iniziò a muoversi per incontrarlo.
-Hilda ferma! Vengo io da te!
La ragazza si placò, facendo una piccola risatina felice: -Va bene, ti
aspetto qui! Non farmi ammuffire come il tuo posto al Seggio del Mare!
Ha ha ha!
Samrys fece una piccola smorfia simpatica, facendo scendere una
lacrima di gioia dagli occhi marroni, facendole solcare un viso che non
vedeva la sua terra da anni.
Sam poggiò una mano sulle pietre della scogliera e passo dopo passo
arrivò davanti a Hilda.
-Mi sei mancato- disse lei toccandogli il petto, fremeva
dall’emozione.
-Anche tu…

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I due si abbracciarono forte, emanando un energia unica. Si strinsero


a vicenda fondendo le loro braccia e le loro mani l’uno sul dorso
dell’altro, diventando un amore unico.
Non riuscivano a staccarsi, non volevano staccarsi.
Hilda iniziò a singhiozzare parole dolci all’orecchio di Samrys: lui
non le avrebbe mai dimenticate.
Sam lasciò cadere le sue mani sotto i fianchi di lei.
-Mi volevi parlare… cos’è successo, Hilda?
La ragazza se n’era quasi dimenticata, ma non voleva cambiare
argomento, non gli interessava più nulla della burocrazia: voleva
Samrys solo per se.
Hilda non parlò, alzò i suoi polsi sulle spalle di Sam e lo baciò sulle
labbra. Perfettamente incollate.
I ragazzi chiusero gli occhi e si fecero trasportare dalla marea che si
stendeva sotto di loro.

-Quindi?
-Quindi cosa, Sam?
-Potevi dirmelo che volevi soltanto rivedermi, perché hai scritto tutto
in modo così affrettato nella lettera?
Hilda e Samrys erano entrambi sdraiati su uno scoglio liscio, al
bordo dell’acqua. Bagnavano i piedi nel sale dell’oceano, con gli occhi
puntati verso le stelle: -Sam… ti devo dire una cosa…
Sul faccino liscio della ragazza comparve un riso che mise in risalto i
suoi piccoli denti bianchi. Hilda si toccò il ventre.
-Sam, sono incinta…
Le espressioni del ragazzo sfumarono in una nube di pensieri: -Oh…
è… questo è bellissimo… come lo chiamerai il bambino?
-Pensavo di chiamarla o Maryanne o come suo padre, nel caso fosse
un maschietto…
Samrys si spaventò, se il bambino fosse stato suo i suoi genitori non
lo avrebbero mai accettato, non sarebbe mai uscito dal suo esilio.
Preferì non sapere di chi fosse.
-Che bello!- il ragazzo guardò l’amica con occhi dolci, poggiando
una mano su quella della Lady.
-Sono felice per te, Hilda. Magari potremmo crescerlo insieme…
-Magari… Sarebbe bellissimo.
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I due si guardarono negli occhi, specchiandosi.


-Ma questa non è l’unica notizia…
Hilda, dopo aver parlato distolse lo sguardo, guardando verso la sua
pancia, accarezzandola.
-Sam, è morto Northon Rothey, il bibliotecario, il gran maestro di tuo
padre.
Il volto di Samrys non capì inizialmente (dopo tanti anni un nome
del genere poteva esser dimenticato facilmente), poi s’illuminò. Schizzò
di gioia alzandosi in piedi sul grande scoglio marrone. Hilda lo guardò
preoccupata.
-Sii!
Sam tirò un urlo di gioia che tagliò l’acqua.
-Finalmente abbiamo una scusa, Hilda!
Sam la prese per le braccia: -Finalmente potremmo tornare a Venora!
Io diventerò re, tu la mia regina, e con il favore di mia sorella potremmo
addirittura sposarci!
Hilda non si tranquillizzò.
-Ma dovremmo abbandonare le Terre Salmastre…
-Ma certo!- Samrys non stava più nella pelle -Non sei felice di poter
tornare a casa? Rivedremo gli amici, scopriremo posti nuovi e
ritroveremo vecchi luoghi familiari!
-Ti ricordo che ai loro occhi non saremo degli amici…- disse Hilda
alzandosi, parlando -… Saremo degli estranei, fuggiti da un esilio che ci
siamo meritati.
Samrys non ci volle pensare. Non volle pensare al giorno in cui
provò a regnare… era troppo piccolo, non dovevano permetterglielo.
Ma adesso era cambiato! Poteva sicuramente ristabilire il proprio
dominio su quelle terre, senza commettere gli errori del passato.
-Hilda.
-Si?
-Siamo cresciuti entrambi- lui le accarezzo i capelli con mitezza.
-Non farti traviare dalla memoria: noi torneremo, e nostra figlia avrà un
futuro meraviglioso.
-Dovremo partire presto allora.
Hilda si fece accarezzare, poi prese il polso del compagno,
allontanandolo: -Vorrei pensarci un attimo, Samrys, questa non è una

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decisione facile per me. Mi sono abituata a questa terra… mi mancherà


molto.
-Prenditi il tempo che ti serve, io informerò capitan Mamoor
dell’idea.
La ragazza annuì. Samrys scomparve camminando pacatamente tra
le piante della brughiera. Hilda lo stava guardando, tirò un sospiro e
tornò con lo sguardo fisso sul riflesso della luna.
Che stronzo! Si sarà pure sognato di vivere come un tempo, ma
sembrava troppo preoccupato quando gli ho detto del bimbo… vedremo
come andrà avanti, effettivamente non sarebbe male rincominciare da
capo… insieme.
La lady si portò le gambe al petto, rannicchiata, appoggiando il
mento sulle ginocchia: Mi piace veramente troppo per mandarlo via da
solo.
La luna si bagnò lentamente, finendo all’orizzonte quasi sommersa
dall’acqua dell’oceano; sommersa a metà dal mare che chiamano la
Morsa dei Salmastri.
Hilda passò soltanto pochi minuti sulla sponda della scogliera, li
percepì come un infinità. Poi, dopo aver pensato alla proposta e ai
pericoli che avrebbe aizzato contro di lei e Samrys, si alzò;
s’incamminò verso la sua cavalla corvina che aveva legato poco lontano
dall’inizio della spiaggia. La sabbia le entrò nei sandali, era ghiacciata.
Le sue gambe strusciarono contro alcuni steli d’erba secca e, mettendo
un piede sulla staffa della possente purosangue, montò a cavallo.
Cavalcò lungo la spiaggia per ore, finche non vide la sua casa lungo
le colline che attorniavano la costa color pece.
Il vento le soffiava tra i capelli: adesso era libera.

Samrys con una forte bracciata aprì la sua tenda, tornando a rovistare
nel solito baule pieno di vestiti. Facendo volare solo una dozzina
d’indumenti il ragazzo arrivò in fondo alla cassa, dove teneva una
bellissima armatura d’acciaio e i relativi guanti, pantaloni e cotta di
maglia. Una volta messi, con l’elmo ornato di piume sul capo, si
ricordò suo padre. Gli venne la nausea.
Prese la sua spada e l’infilò al fianco della cintura, con passo deciso
uscì dal tendone e si diresse verso quello del capitan Mamoor, l’uomo

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che, pagato dal re Arrys, portò il principe in esilio, solcando un mare


che troppo spesso si ritrovò a fronteggiare come nemico.
La fretta e l’eccitazione per il ritorno a casa stava facendo esplodere
Samrys, non si era mai visto più felice di così.
Allungando il passo incrociò lo sguardo dei due soldati che prima
parlavano della carestia, ora gli sbarravano la strada: -Tu! Fermo!
Identificati o attacchiamo!
-Illusi, secondo voi con un armatura del genere chi potrei mai essere?
Strizzatele quelle noci che avete al posto del cervello: sono il vostro
principe, e adesso levatevi dai piedi, devo parlare al comandante.
Chris e Ron si guardarono confusi per decidere cosa fare. Non fecero
in tempo a parlare che con una spallata Samrys si aprì un varco tra i
due. La tenda del capitano era sulla sinistra del viottolo. Sam entrò
senza problemi.
Il capitano stava ingobbito a leggere delle carte nautiche quando
venne sorpreso dal ragazzo.
-Mio principe! Che sorpresa, come posso aiutarvi?
-Magari non guardarmi in faccia, mi sento un po disagio quando lo
fai…
Il capitan Mamoor non era di certo l’uomo più brutto delle Terre
Salmastre, ma ci si avvicinava pericolosamente: partendo dall’alto,
aveva un testone tondo e paffuto, pieno di brufoli bianchi e con un naso
potenzialmente invidiabile da un rapace. Gli occhi erano infossati
dentro una fisarmonica di carne che raramente faceva vedere il vero
colore della cornea di quell’uomo. Il mento era invertito e sporgente,
sorretto da una decina di accavallamenti di carne ironicamente chiamati
“collo”.
Fortunatamente a rimediare quella pagnotta di peli c’era un buon
cuore, che rimediava ogni tanto qualche risata e che alleggeriva i
problemi degli altri. Samrys divenne nel corso degli anni uno dei più
fedeli amici di quest’uomo.
A quelle parole dure il capitano diede le spalle al giovane, facendo il
finto offeso.
-Stavo scherzando, Mamoor… ho una notizia importante da darti, un
messaggio che potrebbe migliorarci la vita
-Sputa il rospo, diavolo d’un principe!

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-Sembra che un nostro vecchio amico in comune sia morto, e che


adesso grazie alla sua scomparsa…
-…Potremo tornare a Venora!
Il capitano finì la frase a Samrys
-Si
Mamoor saltò dalla sedia, facendo ballare il grosso panzone tirato
dall’abito da sera.
-Non dirmi altro Sam, ci hai salvato la vita! He he!
-Non ringraziare me, capo, ringrazia Northon Rothey per questa
manna dal cielo.
Il grassone abbracciò calorosamente Samrys: -Partiremo l’indomani,
ho già deciso. Basterà svegliare tutti prima e finalmente potremo
rivedere il Castello di Venora torreggiare sopra lo strapiombo!
I due rimasero a pianificare ogni particolare per tutto il tempo, fino
all’alba.
Finalmente il principe poteva tornare a casa, certo, sarebbe tornato
come un esiliato, ma sarebbe tornato.

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Capitolo II
Nella Tana dell’Orso

-Prendi quella bambina, Cagnaccio! Portala da me!


Uno dei tanti nemici di Zara gli stava aizzando contro il proprio cane
da caccia, una situazione che lei percepiva ormai familiare.
Correva a perdifiato tra gli abeti rossi, alti una quarantina di metri, in
un bosco che ricordava a chi ci entrava la vera natura della
sopravvivenza. Zara aveva soli dieci anni, anche se viveva fuggendo dai
pericoli da tutta una vita.
Bark! Grrr!- il cane pastore che la inseguiva mostrava i denti,
ringhiando e correndole dietro come fosse l’avanzo di un cosciotto di
capra.
Zara viveva rubando, rubava a chiunque pur di mettere un qualcosa
sotto i denti. Quella volta le era capitato un fornaio di un piccolo
villaggio della “Grande Roccia”, la penisola che cadeva a strapiombo
nei mari conosciuti più a nord del mondo.
-Non ti hanno insegnato le buone maniere, bimba? Torna qua e
restituisci la pagnotta: non ti farò nulla, te lo prometto!
Il lavoratore, con il vestito bianco che si impigliava ogni tre per due
in qualche alberello, tentava di far rallentare Zara con false promesse,
fallendo miseramente. Gli occhi verdi della bambina diedero un
occhiata guardinga dietro di lei, preoccupata non tanto per l’uomo
quanto per il suo cane. Le zanne dell’ animale le stavano a pochi passi
dai polpacci, avvicinandosi sempre un po di più.
La bambina gemette per la fatica e lo sconforto della lunga corsa: già
vedeva la sua piccola tibia tra i denti del cane pastore, morsicata e
sanguinante.
Gli abeti si facevano sempre più grandi e la foresta sempre più
selvaggia. Il cane vide di sfuggita un poggio poco lontano da cui poteva
attaccare al ladra. Con uno scatto felino saltò un tronco muschioso che
sbarrava la strada, arrivando sul poggio sopra la bambina. Saltò con le
fauci aperte verso la gola della ragazzina.

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Un attimo di silenzio e il mondo veloce che vedeva la ragazzina


venne sbattuto vero il terreno: caddero insieme in un cespuglietto di
felci, rotolando verso la sponda opposta al poggio.
Il cane ringhiava, stringendo e strattonando l’avambraccio della
bambina: la visione di Zara non era tanto lontana dalla realtà, il cane le
aveva lacerato la carne in profondità. Lei tirò un gancio destro sul naso
del cagnaccio, facendogli ritirare i denti in un lamento.
Appena riuscì ad alzarsi in piedi cercò di scrutare il fornaio, non
vedendolo da nessuna parte. Riprese la pagnotta di pane che era caduta
per terra, e se la mise nel mascone della maglia
Zara tornò a vedere la bestia mugolare, con il sangue del suo braccio
sinistro che bagnava i denti selvaggi del mostro. La bimba tirò un calcio
poderoso al cane, rompendogli il naso -Sklok!- il cane si stese per terra,
quasi svenuto dal dolore.
-Ora dimmi, cane, ero davvero così saporita?
Il cane, anche se avesse saputo parlare, non sembrava in vena di una
chiacchierata.
Il fornaio arrivò da lontano a corsa, aveva il fiatone e il petto tutto
sudato.
Zara lo vide. La testa si voltò di scatto verso la direzione opposta,
muovendo i capelli castani, riflettendo la luce del sole che filtrava tra gli
aghi del bosco.
-Torna qui!
Il panettiere fece un goffo scatto per provare ad acciuffare Zara, ma
lei era già fuggita da qualche parte tra rocce e tronchi di faggio dalla
corteccia romanticamente millenaria.
Il povero sventurato si guardò attorno per trovare il suo cane, era
scomparso da qualche parte.
-Thor! Dove sei!- il fornaio fischiò una melodia di un paio di note,
un richiamo. Il cane frignò qualcosa sottovoce per farsi sentire: era
ancora sciolto per terra.
-Thor! Oh per tutti i lumi! Cosa ti hanno fatto…
Il muso del cane si era storto completamente verso destra, con il
prolungamento della testa che faceva un movimento incurvato verso lo
zigomo.

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Zara era ormai lontana, irrecuperabile. La pagnottina al latte appena


sfornata era diventata sua. Correva ancora, ma con un riso tronfio in
faccia e il calore del cibo che le riscaldava il petto.

Zara sedette sopra una masso che sporgeva come una mano amica da
una salita di foglie secche, sentiva l’aria che la chiamava. Sativa bene in
quel bosco. Provò a prendere la pagnotta dalla tasca, però un dolore
improvviso non le permise di mangiare: l’avambraccio era gravemente
ferito, quasi si vedeva l’osso. La bambina si chiedeva se ne era
veramente valsa la pena, di fare quella corsa, di ferirsi in quel modo,
solo per un pezzo di pane. Ma in fondo o si fa così o si muore… la crisi
era piombata ormai da qualche anno nei territori oltre la “Città
dell’Ombra”, Nosiris.
Zara ricordava delle persone che la attorniavano lungo le strade della
Grande Roccia; tutti morti o morenti che imploravano per dei fili d’erba
da mangiare.
Le madri scarne preferivano soffocare i loro figli che vederli
piangere con quelle facce: visi spigolosi, provati da una vita che non gli
aveva regalato nulla, le lacrime che scavavano le ossa. Tutti questi
poppanti dalle enormi scatole craniche e dalle ossute braccia, senza
vestiti e futuro, vivevano lungo i bordi delle case, tra feci e sporcizia, in
attesa che qualche misericordioso meno povero di loro facesse un
miracolo. Non era raro che ci fossero risse, molto spesso finite per
divenire letali.
Zara riuscì a fuggire, anche lei era una di quei bambini, come suo
fratello e sua madre… che fine avranno fatto loro per lei sarebbe
rimasto un mistero insormontabile.
-Mamma.-Il suo volto si irrigidì come un tronco di quercia: -Un
giorno vi troverò.
Zara si dimenticò del dolore al braccio, grondante di sangue,
strappando la pagnotta sporca del terriccio del combattimento.
La Grande Roccia fu la terra dello sbarco dei primi uomini sul
Nuovo Continente. Come poteva esser finita in quel modo, dopo tutto il
passato glorioso che ha ricevuto, dopo tutte le guerre che aveva
combattuto…
Poi Zara si ricordò.
Si ricordò che nella guerra ci deve sempre essere un perdente.
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Finì di gustarsi quella pagnotta su quel masso, guardando il bosco


attorno a lei prendere vita: gli alberi le sussurravano segreti sui suoi
antenati, le rocce irremovibili da terra ascoltavano quei sussurri in
religioso silenzio, quasi fossero vive. I fringuelli cantavano dei cinguetti
allegri, tornando ai nidi con dei vermicelli serrati nel becco. Gli
scoiattoli grigi si arrampicavano con la loro faccia sempre in allerta sui
rami dei grossi faggi.
Di quel posto sperduto, era tutto magnifico.

Una nube di tempesta, quasi color verde, si stava addentrando nel


bosco, gli alberi non erano più accarezzati dal vento, si sentivano più
strattonati. La tempesta fece volare le foglie autunnali verso sud: era un
uragano proveniente dall’oceano che nessuno era ancora riuscito a
domare, l’ultimo mare selvaggio.
Zara iniziò a preoccuparsi quando vide la sagoma di quelle nubi
aldilà degli abeti, aveva bisogno immediato di un riparo. Il fornaio si
arrese in quel momento, finendo di dare la caccia alla ladruncola. Era
assolutamente poco toccato dall’arrivo della tempesta ( d’altronde una
casa dove andare ce l’aveva, e non aveva tutti questi grandi problemi
lavorando come fornaio), ma Zara non era così fortunata. Sarebbe
dovuta rimanere nel bosco, aspettando la ritirata dell’uragano per poter
scappare oltre la Grande Roccia, verso il sud; per andare verso luoghi
dove nessuno pativa la fame e faceva sempre caldo, anche durante
l’inverno.
Era una bambina ma si vestiva da ragazzo, portava degli stivali neri
sopra i pantaloni lunghi. La cosa che saltava subito all’occhio era il suo
soprabito verde, dello stesso colore degli occhi, con una grande tasca
laterale dove nascondeva i suoi tesori, ovviamente tutti rubati.
Il vento tirò un gran soffio, facendo muovere la stoffa del maglione
di Zara: era il momento di muoversi.
Scese dalla gran roccia, tuffandosi con un salto. Il braccio ogni tanto
le doleva, continuando a perdere sangue, ma ormai non sentiva quasi
più dolore… e forse si sarebbe dovuta preoccupare proprio per quello.
La bambina non era un esperta di boschi ma amava la natura,
sicuramente la fortuna le avrebbe regalato un posto dove potersi leccare
le ferite e dove poter mangiare ancora qualcosina. Le sarebbe bastato

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anche un umile cespuglietto di bacche, l’importante era trovare qualcosa


che riempisse lo stomaco
S’incammino ch’era il tramonto, il sole era diventato rosso vivido e
il cielo iniziava a scurirsi. Zara sperava di poter vedere le stelle quella
notte. Speranza che sfumò quando la tempesta le piombò sopra la testa.
Da prima ci furono solo delle piccole gocce fine, che quasi facevano
piacere. Però quando ritornò il vento la canzone cambiò: la pioggia si
fece più pungente e via via sempre più rapida.
Zara era fradicia quando iniziò il temporale, e nonostante i pini che
facevano da scudo, in qualche modo, l’acqua continuava a piombarle
addosso a vagonate.
Starnutì un paio di volte, poi si sedette sotto un largo pino dalle
foglie basse, le sembrò quasi di stare sotto un tetto. Sopra di lei almeno
una ventina di fasce di aghi scuri la stavano proteggendo da una brutta
polmonite, e sotto il suo corpo seduto giaceva un letto di morbida terra
nera ornata da piccoli cespugli d’erbetta: profumava di rugiada.
Le venne quasi da dormire, voleva accasarsi e fare un riposino, solo
uno. Così chiuse gli occhioni e le sorse in mente quel pensiero… e poi
quella cosa… quel ricordo di tanto tempo fa…

-Ragazzi! Ho trovato la ladra!


A quella terribile combinazione di parole Zara aprì di scatto gli occhi
appesantiti: La tempesta si era fatta infinitamente più forte rispetto a
prima, notando gli alberi sempre più spinti dalla pioggia obliqua e
notando la terra su cui la bimba si era seduta: era umidissima e, a tratti,
si erano formate delle pozzanghere tra una radice e l’altra.
-Dove?
-Dove si trova, Luke? Facciamogli pagare il conto a quella
stronzetta!
Zara riconobbe le voci: doveva scappare il più in fretta possibile,
doveva tramutarsi in una saetta, sotto di lei trovò degli uomini armati,
con delle torce che nemmeno l’uragano stava spegnendo: era degli
uomini della Legione Nord, e giustamente volevano vendicarsi di quello
che gli aveva fatto Zara.
La bambina non disse una parola, controllando di non aver perso
nulla da dentro la tasca si alzò dal terriccio, con la faccia sporca e il

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braccio che aveva smesso di sanguinare: si sentiva stanca, non riusciva


quasi a muoversi.
-Sta scappando!
I legionari sguainarono le spade dal rinfodero, Zara sentì il rumore.
La bambina aveva qualche secondo di vantaggio: ne approfittò. Prese
del terriccio da terra e, uscendo allo scoperto, lo lanciò ad una breve
distanza dagli uomini, il vento fece il resto, accecandoli.
Le torce caddero per terra, una delle due finì in una pozzanghera,
spegnendosi, l’altra rimase incolume dalla caduta.
I tre uomini bestemmiarono, maledicendo la bambina, e Zara riuscì a
scappare, andando verso le montagne (ormai poco lontane)
Vide che le torce si stavano di nuovo muovendo e doveva ritrovarsi
un riparo. La fortuna la stava guardando evidentemente: mantre Zara
osservava gli uomini che si azzuffavano per litigarsi la sconfitta, gli
occhi guardinghi della bambina avevano trovato una piccola grotta, con
un entrata modesta e un interno che probabilmente si stendeva
all’interno dei monti come un ruscello.
Entrò senza pensarci.
Il clima dentro era umido ma sopportabile, c’era una forte puzza e
alcune stalattiti spuntavano come dei funghi ai bordi dell’insenatura,
poi, un suono interruppe la visita: Zara non era da sola.
No, non era il cane del fornaio e nemmeno i tre legionari imbranati, e
magari fosse stato uno di loro, magari fosse stato chiunque altro!
Davanti alla ladruncola, pietrificata dalla paura, sonnecchiava una
grande mamma orsa dal pelo dorato e rovinato con i suoi cuccioli al
fianco. Erano entrati in letargo da poco, Zara aveva la possibilità di
fuggire, poteva sopravvivere e continuare il suo viaggio verso sud…
bastava fare silenzio. Si mosse leggera, cercando di non dare troppa
attenzione agli orsi e continuando in punta di piedi. Una ritirata
dignitosa… pensò lei. Pensò a tutti i momenti che si ritrovò davanti a un
pericolo mortale, una volta si ritrovò alle calcagna buona parte della
guardia di Roccia Bianca per aver rubato ad una “Lady” un gioiello di
famiglia, un diadema enorme con un rubino incastonato sull’area
frontale. Un bel gioiello che Zara vendette per mangiare gratis due
settimane… che affarone!- si diceva lei, ogni volta che ci ripensava.
Di pericoli ne aveva visti tanti, ma non le era mai capitato un orso in
carne ed ossa.
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L’orsa era enorme vista di spalle com’era, quattro volte la bambina, e


i suoi cuccioli erano cinque, tutti all’incirca della stessa stazza. Uno di
loro si mosse, alzando il naso, annusando qualche odore che lo
incuriosiva.
Zara, da dietro una roccia, stava veramente rischiando la sua vita.
L’orsetto continuò a sniffare l’aria, sempre più attratto da quell’odorino
familiare. La ragazzina si fermò, capì che cosa aveva sentito l’animale:
era il suo sangue, la corsa aveva riaperto il morso del cane che,
lentamente, stava facendo infezione nell’avambraccio.
L’orsettino rugliò forte, lamentandosi di non poter mangiare qualcosa
(l’odore del sangue caldo metteva appetito). L’orsa lo zittì tirandogli
una sberla con la grossa zampa. L’orsetto, quasi ironicamente, non
avrebbe mai più rugliato.
Zara, che stava per svenire, continuò ancora più lentamente di prima
ad avvicinarsi all’uscita.
La mamma orsa però si mosse, voltandosi verso Zara con gli occhi
chiusi: anche lei sentiva uno strano odore…
Zara sapeva che di quel passo non ce l’avrebbe mai fatta, l’orsa la
stava annusando: doveva correre.
Si diede lo slancio da una parete della grotta e corse all’ impazzata,
svegliando gli orsetti e la mamma.
L’orsa bramì selvaggiamente, scuotendo il cuore della bambina che
pompava impazzito litri di sangue alla volta.
Zara non si guardò indietro, ma sapeva che l’orsa la stava seguendo,
iniziò a rincorrerla, continuando a emettere versi intimidatori.
Zara arrivò all’ uscita, bagnata dalla tormenta.
Si nascose dietro un masso fuori dall’entrata della grotta, e l’orsa
rimase a stomaco vuoto.
La bimba si toccò per vedere come stava, se era veramente riuscita a
sfuggire alla belva.
La sua vista peggiorò di colpo, poi cadde in ginocchio.
Non stava capendo, poi guardò sotto le sue gambe: un fiume di
sangue le stava sgorgando da dietro, l’orsa l’aveva graffiata.
Zara si sdraiò di colpo, senza la forza di continuare.
Si ricordò che lungo il percorso c’era una strada, una vetta poco
frequentata ma da cui poteva chiedere aiuto: doveva arrivarci, altrimenti
sarebbe diventata veramente cibo per i lupi.
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Strisciò tra le foglie, immersa in un mare di fango mentre l’uragano


continuava a peggiorare tra acqua, vento e sangue.
Non capì se arrivò alla strada… non capì più niente. Vide una
sagoma nera… e poi…

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Capitolo III
Il Ritorno a Casa

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