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Barry Strauss
Imperatori
I 10 uomini che hanno fatto grande Roma
Editori Laterza
Titolo dell'edizione originale
Ten Caesars: Roman Emperors
from Augustus to Constantine
(Simon & Schuster, New York,
London Toronto, Sydney,
New Delhi, marzo 2019)
Prologo.
Una notte sul Palatino
1
Augusto, il fondatore
2
Tiberio, il tiranno
3
Nerone, l’intrattenitore
4
Vespasiano,
il cittadino comune
5
Traiano, optimus princeps
6
Adriano, il greco
7
Marco Aurelio, il filosofo
8
Settimio Severo, l’africano
9
Diocleziano,
l’uomo della grande divisione
10
Costantino, il cristiano
Epilogo
I fantasmi di Ravenna
Nota sulle fonti
Cronologia
dei regni imperiali
I personaggi della storia
Alberi genealogici
Cartine
Ringraziamenti
Referenze iconografiche
ai miei studenti
Avvertenza
Le citazioni da fonti classiche sono riprese da edizioni a stampa moderne in lingua italiana. Le
versioni dei brani tratti da opere di cui non esiste una edizione moderna in lingua italiana sono del
traduttore.
Le date, laddove non altrimenti specificato, sono da intendersi riferite all’era cristiana.
Prologo.
Una notte sul Palatino
1
Stazio, Le selve, a cura di Luca Canali e Maria Pellegrini, Mondadori, Milano 2006, IV.2.18.
2
Cassio Dione, Storia romana LXVII.9.3.
3
Svetonio, Caligola XLI.1.
4
Id., Nerone VIII.1; Id., Vitellio XV.2.
5
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.5.5.
6
Svetonio, Claudio XVIII.2.
7
Id., Vespasiano XXIII.3; Cassio Dione, Storia romana LXVI.14.5.
Augusto
1
Augusto, il fondatore
ANTONIO E CLEOPATRA
La resa dei conti con Bruto e Cassio avvenne fuori della città greca di
Filippi nel 42 a.C. Ottaviano agì di concerto con Antonio, che si distinse
nelle due battaglie che determinarono la vittoria. Ottaviano dovette
vedersela ancora una volta con l’accusa di viltà, poiché durante la prima
battaglia, quando il nemico conquistò il suo accampamento, lui si era già
dato alla fuga. In seguito disse che in quel momento era malato e aveva
avuto una visione che lo metteva in guardia contro il pericolo28.
Probabilmente era vero, poiché era soggetto a ricorrenti problemi di
salute. Ma si riprese, ed emanò l’ordine sanguinario di mozzare la testa al
cadavere di Bruto e di inviarla a Roma per esporla ai piedi della statua di
Giulio Cesare, in segno di vendetta.
Filippi fu una grandiosa vittoria per Antonio e Ottaviano, che però
dovevano ancora riuscire ad affermare il loro controllo sul mondo
romano. Dopo aver estromesso Lepido, i due suddivisero fra di loro
l’impero: Antonio prese il controllo dell’Oriente e stabilì la propria base
ad Atene, Ottaviano invece governò l’Occidente da Roma.
La decisione lasciava ad Ottaviano l’impopolare compito di confiscare
in Italia le terre dei civili a favore dei veterani. Furono la moglie di
Antonio, Fulvia, e suo fratello Lucio Antonio a guidare l’attacco contro
di lui. Fulvia si presentò con i figli di Antonio e la madre di lui davanti ai
soldati per preservare la loro fedeltà (Ottaviano aveva da poco divorziato
da Claudia, dichiarando sotto giuramento che il matrimonio non era mai
stato consumato – il che, senza dubbio, fece arrabbiare l’ex suocera). Ora
Ottaviano doveva affrontarla e sconfiggerla: circondò lei e Lucio assieme
al loro esercito a Perusia (l’attuale Perugia). Fulvia ricevette il discutibile
onore di vedere scritto il proprio nome sui proiettili lanciati dalle
catapulte del nemico assieme a volgari commenti sul suo corpo. Scrisse ai
generali di Antonio in Gallia per chiedere loro di affrettarsi a varcare le
Alpi e accorrere in suo aiuto, ma ormai era troppo tardi. Le forze di
Ottaviano ebbero la meglio. Se i resoconti della vicenda sono veri e non
frutto di semplice propaganda, a quel punto Ottaviano massacrò un gran
numero di capi nemici sull’altare del divo Giulio, proprio il giorno delle
Idi di marzo. A quanto pare, rispose ad ogni richiesta di misericordia
con un secco: «Bisogna morire»29. Ma lasciò liberi Fulvia e Lucio.
Antonio, nel frattempo, restaurò il controllo di Roma nelle regioni
orientali, che Bruto e Cassio avevano lasciato in subbuglio. Ma il
soggiorno di Antonio in Oriente è noto per un altro motivo: la sua
relazione con Cleopatra, una vicenda che riguardava non solo il cuore ma
anche la spada e il denaro.
Cleopatra era la donna più potente, ricca e affascinante della sua epoca.
Regina di Egitto, era una sovrana in un mondo di uomini. Come tutti i
suoi antenati della dinastia dei Tolomei, che regnava da tre secoli, era
greca (o, più precisamente, macedone). Intelligente, astuta, colta e
seducente, era di splendida presenza. Era piccola e vigorosa, sapeva
andare a cavallo e cacciare, ed era molto attenta alla propria immagine
pubblica. Le sculture greco-romane ne esaltavano l’eleganza, mentre le
monete la ritraevano con tratti regali e lievemente mascolini.
Cleopatra emanava uno straordinario carisma, e la capitale dell’Egitto,
Alessandria, era un centro di attrazione culturale. Gli uomini che ebbero
Cleopatra ebbero accesso anche alla favolosa ricchezza dell’Egitto e
all’atmosfera misteriosa che sapeva creare nella sua camera da letto. Di
Cesare Ottaviano ebbe il nome, ma Antonio ne ebbe l’amante. Nel 41
a.C. Antonio e Cleopatra iniziarono una relazione da cui nacquero due
gemelli. Ciò nonostante, quando Fulvia morì per un’improvvisa malattia,
Antonio prese una nuova moglie: la sorella di Ottaviano, Ottavia. Era
anche lei rimasta da poco vedova, e comprendeva quali fossero le regole
del gioco; lo scopo di un tale matrimonio non era l’amore, ma la politica.
Tuttavia, pare che Ottavia fosse sensibile al fascino di Antonio. Ebbero
due figlie, che Ottavia allevò nella loro casa di Atene assieme ad altri tre
figli delle loro precedenti unioni. Sembra che nessuno si preoccupasse
dei legami di Antonio con Cleopatra.
LA PACE AUGUSTEA
Le guerre civili romane seguivano uno schema consolidato: dapprima
c’erano gli eventi sanguinosi, poi arrivava l’accordo. Ma era più facile
vincere la guerra che costruire la pace, poiché erano pochi i generali tanto
abili nel fare la pace quanto lo fossero in battaglia. Augusto fu
un’eccezione. L’omicida spietato venne fuori con l’esperienza. Pose
termine a un secolo di guerre civili e gettò le fondamenta di due secoli di
pace e prosperità – la celebre pax romana. Sotto la pace augustea il
commercio fiorì. Il modo più economico per trasportare le merci era via
mare. Grazie alle vittorie di Agrippa, Roma era diventata padrona del
mare, e la pirateria praticamente scomparve. Roma costituì un enorme
mercato per le importazioni granarie, ma gli scambi includevano anche
molte altre merci. La stabilità e la sicurezza delle leggi romane
incoraggiavano i prestiti in denaro, mentre un calo delle spese militari
ridusse la pressione fiscale. In breve, la situazione era matura per
consentire un’epoca positiva.
Augusto realizzò anche l’ambizioso programma che si era dato quando
aveva diciannove anni: ottenere tutto il potere e la gloria di Giulio
Cesare. Ma gli erano occorsi quindici anni, e aveva dovuto pagare un
costo pesante in termini di sangue e di finanze. Ma almeno in quel lungo
periodo una cosa l’aveva imparata: come si costruisce una pace stabile e
duratura, un compito nel quale lo stesso Cesare aveva fallito. Cesare era
signore sul campo di battaglia, ma in quello politico il figlio superò il
padre.
Come vi riuscì? Oltre al nuovo titolo, cosa spiega il suo successo?
Augusto governò a lungo. Dopo aver sconfitto i suoi rivali ad Azio nel
31 a.C., a poco meno di trentadue anni, guidò l’impero per i successivi
quarantacinque anni, prima di morire nel 14 a.C., settantaseienne.
Nessuno resse l’impero romano più a lungo di lui. Augusto ebbe il
vantaggio di poter imparare dai suoi predecessori, oltre che la saggezza di
evitare i loro errori. Durante il suo lungo regno, sperimentò varie forme
di governo e operò numerosi cambiamenti e aggiustamenti,
dimostrandosi molto flessibile.
Era enormemente ricco, avendo ereditato una fortuna da Cesare e
acquisito ulteriori beni durante la sua carriera di conquistatore.
L’agricoltura e le risorse minerarie facevano dell’Egitto uno dei posti più
ricchi della terra, e Augusto lo controllava come se fosse una sua
proprietà personale.
Fu saggio nella scelta dei suoi consiglieri. Nessuno più del suo vecchio
amico Agrippa si impegnò per mettere in atto la visione augustea. Sia
all’interno dei confini che fuori, Agrippa risolse i problemi, gestì le
situazioni, costruì il consenso e, quando necessario, lo impose. Negoziò
con i senatori e con i sovrani e finanziò grandi progetti infrastrutturali a
Roma e nelle province. Non era privo di ambizione personale, ma a
questa anteponeva sempre la fedeltà nei confronti di Augusto. Orazio lo
definisce una «volpe furbetta che vuo[l] gareggiare col prode leone»40,
riferendosi a un tempo alla sua astuzia e all’ascesa sociale che compì. Lo
stesso Augusto lo avrebbe lodato come un uomo le cui virtù erano
riconosciute da tutti41.
Augusto fu machiavellico secoli prima di Niccolò Machiavelli, colui
che avrebbe consigliato agli usurpatori di inaugurare i loro regni
mettendo in atto tutti i provvedimenti crudeli che ritenessero più
necessari, per poi governare in modo tale da calmare e arricchire il
popolo, in modo da averlo dalla propria parte42. Fare l’opposto – cioè
partire blandamente per poi incrudelirsi – si sarebbe rivelato fatale.
E Augusto non partì certo in sordina43. Dal 43 al 30 a.C. combatté,
mentì, ingannò e calpestò la legge. Si stima che fece uccidere più di cento
senatori44. Poi, dopo aver sconfitto tutti i suoi oppositori interni, si
dedicò a conservare la pace all’interno e limitò l’espansione militare
contro nemici stranieri – e mai romani. E comunque, per quanto
moderato diventasse, sottolineò sempre il fatto che il suo governo
dipendeva dai suoi soldati. Che soddisfece, concedendo a diverse
centinaia di migliaia di veterani terre, soldi o entrambe le cose,
insediandoli nelle colonie italiane e fuori d’Italia45.
Era una politica molto costosa, e dapprima la finanziò con i proventi
delle guerre; poi, dopo il 6 d.C., impose tasse ai ricchi. Mantenne un
occhio vigile per scoprire eventuali opposizioni fra i comandanti, visti
come potenziali nuovi Cesari. Ridusse le dimensioni dell’esercito da
oltre sessanta legioni (pari approssimativamente a un numero totale di
trecentomila uomini, comprese la fanteria leggera e la cavalleria) a
ventotto. Ciò permise di ridurre le imposte ma diminuì anche la capacità
dell’impero di estendere i propri confini. Si capisce quindi che Augusto,
invece di riprendere la guerra contro la Partia, negoziasse una pace.
Ma ciò detto, non pose affatto termine all’espansione. I romani si
aspettavano che i loro governanti conquistassero nuovi territori,
dimostrando così di avere il favore degli dèi. E Augusto assolse a questa
responsabilità con entusiasmo. Come scrisse Virgilio, il suo poeta
preferito, Roma aveva il dovere di realizzare l’«imperium sine fine»46.
Augusto quindi conquistò nuovi territori nella Hispania, nei Balcani
settentrionali e in Germania, oltre ad annettere l’Egitto. La ricchezza
ottenuta grazie alle conquiste contribuì a finanziare i nuovi progetti da
realizzare a Roma.
Sebbene non fosse un comandante nato, quando poté Augusto
partecipò personalmente alle campagne militari. In anni più tardi, lasciò il
comando ad altri – preferibilmente, membri fidati della sua stessa
famiglia. Forse fu allora che prese l’abitudine di indirizzare inviti alla
cautela ai suoi generali: «Affrettati lentamente»47.
Voleva attaccare ad est e conquistare la Germania fino all’Elba. Ma subì
un brutto colpo quando, nel 9, Publio Quintilio Varo perse tre legioni,
vale a dire circa quindicimila uomini, nella foresta di Teutoburgo. Il
disastro ridusse il numero delle legioni da ventotto a venticinque per
un’intera generazione. Ma la conseguenza più importante a lungo
termine è che costò a Roma il controllo della maggior parte della
Germania. Si racconta che quando apprese la notizia, Augusto gridasse:
«Quintilio Varo, rendimi le mie legioni!», e lo fece non solo una volta,
ma ripetutamente nei mesi successivi. Di nuovo si fece crescere la barba
in segno di lutto, sebbene in questo caso solo per qualche mese.
RESTAURAZIONE O RINNOVAMENTO
DELLA REPUBBLICA?
Da Giulio Cesare, Augusto aveva appreso che il potere scaturisce dalla
lama di una spada. Tuttavia, a meno che non potesse contare sull’aiuto di
una mano tesa e di un cuore ben disposto, il potere sarebbe svanito con
lo scintillio della lama di un pugnale. Anche questo, Augusto lo aveva
appreso da Cesare.
Procedendo per tentativi, Augusto trovò un modo per adattare le
tradizionali procedure costituzionali romane alle nuove circostanze. Non
contava se nel far questo ne modificasse completamente il senso. Si
trattava di una soluzione pragmatica al problema del governo di un solo
uomo, ed era tipicamente romana. I romani, come tutti, a volte entravano
in agitazione di fronte a una crisi, ma alla fine davano prova di essere in
grado di cambiare. Augusto era l’incarnazione di questa adattabilità del
suo paese.
Egli chiese al Senato di accordargli i poteri di un tribuno della plebe,
vale a dire di proporre la legislazione e di esercitare il veto. I dieci tribuni
della plebe rappresentavano gli interessi della gente comune. Sebbene
continuassero a esistere, di fatto avevano ceduto il loro potere ad
Augusto, e così sarebbe stato con i suoi successori. Augusto chiese,
inoltre, il potere militare supremo sia a Roma sia nelle province. Il
Senato accettò, in quanto senza dubbio non aveva altra scelta, ma in tal
modo dette una base giuridica al potere di Augusto.
Il quale basò la posizione raggiunta a Roma non solo sui poteri legittimi
che gli erano riconosciuti, ma anche sulla propria auctoritas, che
comportava non solo autorità, ma anche prestigio, rispetto e capacità di
ispirare timore reverenziale48.
Augusto aveva una spiccata sensibilità, tipicamente romana, per il
potere. Era consapevole che i regimi riusciti sono quelli che non si
limitano semplicemente a reprimere l’opposizione, ma quelli che la
cooptano. E così concesse ai senatori un certo livello di influenza e di
onore.
Senza dubbio, tuttavia, pensava al Senato di un tempo. Come scrisse
Tacito, le funzioni di quell’organo si erano molto ridotte: la repubblica
non era che una semplice parvenza49. Il nuovo Senato, ad esempio, non
controllava più la politica estera, le finanze e la guerra. Sotto la
repubblica, i senatori avevano governato le province, e ancora lo
facevano, ma in generale solo quelle meno importanti. Augusto tenne per
sé le province chiave lungo i confini, dove maggiore era la
concentrazione di truppe. Lo stesso fece per l’Egitto. Le autorità locali
erano composte non da senatori ma da equites. Questi costituivano un
gruppo di uomini estremamente ricchi, presenti un po’ in ogni zona
dell’impero, quasi pari ai senatori quanto a patrimoni e assai più
numerosi di essi. Augusto e i suoi successori ricorsero sempre più
ampiamente agli equites utilizzandoli come ufficiali dell’esercito e
amministratori, con gran disappunto dei senatori. Atterriti dalla
memoria di coloro che erano caduti nelle guerre civili o erano stati
estromessi con le epurazioni, tutti i senatori proclamavano il proprio
appoggio all’imperatore. Lui stesso aveva solo un piede nell’antica
aristocrazia romana – circostanza che i suoi oppositori non mancavano
mai di fargli ricordare – e, in un certo senso, individuava la sua principale
base di consenso nell’élite italiana, più che nelle maggiori famiglie di
Roma. E guardava anche molto più in là. Infatti, dopo essere tornato
dalla guerra civile nel 28 a.C., passò un altro decennio fuori dall’Italia,
impegnato in una serie di viaggi di natura militare e politica in giro per
l’impero50, trascorrendo più tempo all’estero di qualsiasi altro imperatore
prima di Adriano, che regnò dal 117 al 138.
Come prima di lui Giulio Cesare, Augusto spostò il potere dalla città di
Roma per attribuirlo maggiormente alle province. Gettò le basi di quella
che sotto i suoi successori sarebbe diventata una classe dirigente
internazionale. Per i romani era qualcosa di nuovo, mentre a noi oggi
appare un fenomeno familiare, la definiamo globalizzazione.
Da un capo all’altro dell’impero, dalle Isole britanniche all’Iraq, le
persone condividevano una stessa cultura. In questo contesto, «popolo»
significava una minuscola élite privilegiata, ricca e colta. I suoi membri
avevano la medesima educazione, valori comuni e ambizioni simili.
Vestivano allo stesso modo, citavano la stessa letteratura classica,
sfoggiavano le medesime abilità retoriche, vantavano le stesse maniere a
tavola, e puntavano a fare lo stesso tipo di carriera. Come l’odierna «élite
di Davos», appartenevano a un rarefatto club globalizzato. Ai nostri
giorni, un CEO della Silicon Valley californiana ha spesso più elementi
in comune con un suo pari grado di Mumbai che con un coltivatore di
aglio della vicina Gilroy. Così, nei tempi antichi, un proprietario
terriero romano in Gallia aveva più aspetti in comune con un suo
omologo siriano che col contadino che viveva lì accanto.
Chi più aveva da rimetterci erano gli abitanti della città di Roma: sia la
vecchia nobiltà, che dovette cedere il monopolio del potere politico, sia i
comuni plebei, che persero il diritto di partecipare alle elezioni. La
politica come era esistita nella repubblica – ingarbugliata, vivace, ristretta,
limitata, eccentrica, talvolta violenta ma sempre libera – non c’era più. Al
suo posto erano subentrati l’ordine, l’internazionalizzazione e il
controllo; in poche parole, l’imperatore e i suoi collaboratori. Nel
frattempo, la società imperiale risultava spaccata in due fra un minuscolo
gruppo dirigente e la massa della gente comune.
In teoria, Roma era sempre una repubblica, e Augusto era solo un
pubblico ufficiale che esercitava poteri più ampi per contro dell’SPQR,
Senatus Populusque Romanus. In pratica Augusto era un sovrano, ma il
fondatore dell’impero romano non si definì mai re, e meno che mai
imperatore, almeno non a Roma. Era troppo guardingo per farlo. -
Semmai, si definì con una serie di altri titoli, i più importanti dei quali
erano Cesare, Augusto, imperator e princeps, vale a dire primo cittadino.
Il nostro termine «imperatore» deriva dal latino imperator, il cui
significato era in origine quello di «generale vittorioso». Augusto sapeva
che lo spirito della libertà repubblicana – l’impulso che aveva ucciso
Giulio Cesare – sopravviveva ancora. Così, avendo ottenuto il potere
supremo, procedette a mascherarlo. Nell’Oriente di lingua greca spesso
Augusto veniva chiamato re, ma non a Roma.
Augusto risiedeva in un edificio sul Palatino. I suoi successori vi
avrebbero costruito splendidi palazzi, lui invece viveva in un contesto
relativamente modesto, ma solo relativamente, in quanto le sue proprietà
comprendevano, ad esempio, un tempio di Apollo. Il Palatino, che in
precedenza era un quartiere per famiglie ricche, sarebbe presto diventato
un luogo riservato agli imperatori e ai loro cortigiani. E tuttavia, quando
Augusto scendeva fino al Foro per prendere parte alle sedute del Senato,
aveva cura di salutarne ogni membro chiamandolo per nome, senza
suggerimento alcuno, e non pretendeva che i senatori si alzassero dai loro
seggi in sua presenza51. Né consentiva alla gente di chiamarlo «signore»
(dominus)52; sarebbero passati tre secoli prima che uno dei suoi successori
assumesse tale titolo.
Augusto gestì il cambiamento utilizzando non il linguaggio della
rivoluzione, bensì quello della riforma e del rinnovamento. Nel 27 a.C.
trasferì «il governo dello Stato dalla [sua] potestà al libero volere del senato
e del popolo romano»53. Utilizzò termini tali da lasciar pensare che avesse
restaurato la repubblica, ma che potevano anche semplicemente
significare che aveva ripristinato il governo costituzionale o che aveva
rinnovato la repubblica – e non che avesse riportato il sistema alla forma
che aveva prima di Giulio Cesare54.
L’IMPRESA DI FAMIGLIA
Augusto condusse il proprio regime come un’azienda di famiglia.
Mantenne chiusa la cerchia e si appoggiò a un gruppo di uomini e donne
affidabili legati a lui da vincoli di sangue o da parentela. Questa impronta
familiare gli permise di darsi una connotazione più umana nel processo
di comunicazione con il mondo esterno. Tutti amano i drammi familiari,
ma pochi si appassionano ai particolari delle costruzioni stradali o dei
rifornimenti di grano.
Il ruolo della famiglia nella politica romana non era nuovo. Alcune
illustri dinastie aristocratiche avevano sempre dominato la politica
romana in ogni periodo della repubblica. La novità era che da quel
momento in poi avrebbe governato solo una casata, quella Giulia. Si
trattava, però, di un compito impossibile per una famiglia, per cui era
senz’altro logico che Augusto ne aumentasse le risorse, sia maschili sia
femminili. Fece entrare nella famiglia Agrippa, il suo più fidato
luogotenente, dandogli in sposa sua figlia Giulia. Alla fine Augusto
adottò i loro figli. Aumentò anche i poteri di Agrippa, fino al punto da
farlo diventare di fatto un suo vice e un suo potenziale erede.
Le donne esercitavano un ruolo importante nell’azienda di famiglia di
Augusto. Sulla scena della tarda repubblica erano comparse alcune delle
più potenti donne della storia antica. Poi fu la volta di Livia, la più
potente di ogni altra. Eppure non era esibizionista né lasciva, almeno non
dopo che a diciannove anni, e in attesa di un bambino, ebbe lasciato il
marito per Ottaviano. Per il resto della sua vita, indossò una maschera
fatta di modestia e semplicità, come l’uomo che sposò, e faceva pesare la
sua volontà dietro le quinte.
La nuova Livia fece uno sforzo per presentarsi come l’ideale moglie e
madre romana, il simbolo stesso della vita familiare. Non interferì mai
apertamente nella politica o nelle vicende pubbliche di suo marito, e
svolse così la propria parte nel tentativo che il regime stava compiendo di
differenziarsi dagli eccessi della tarda repubblica.
Ma Livia esercitava in realtà un’influenza straordinaria, con cui solo
Ottavia, la sorella di Augusto, poteva quasi rivaleggiare. Augusto le rese
entrambe inviolabili (sacrosante), come i tribuni della plebe, le affrancò
dalla tutela maschile e le fece onorare con opere scultoree. Entrambe
controllavano un’enorme ricchezza, gestivano una vasta famiglia e
finanziavano perfino edifici pubblici. Livia, però, era più vicina ad
Augusto, e visse molto più a lungo di Ottavia, che morì nell’11 a.C.
Secoli dopo, nel Medioevo, una celebre vicenda amorosa avrebbe
testimoniato il durevole prestigio di cui Livia godeva. Il teologo francese
Pietro Abelardo sedusse la sua brillante studentessa Eloisa d’Argenteuil.
Sebbene entrambi dovessero scontare gravi conseguenze a causa della loro
relazione, la ragazza non ebbe rammarichi. Una volta scrisse in tono
spavaldo ad Abelardo che avrebbe preferito essere la sua prostituta
piuttosto che l’imperatrice di Augusto61. Si deve ammettere che come
esempio di privilegio coniugale scelse bene.
L’imperatore Caligola, che era suo bisnipote, la definì un Ulisse con la
stola62, intendendo con ciò un modello di astuzia calato nella veste di lino
tradizionalmente indossata dalle donne romane, e quindi un’immagine di
modestia. Lei ed Augusto, il re degli strateghi, un Carl von Clausewitz in
toga, costituivano una coppia senza confronti.
Uno dei segreti del successo di Augusto fu una certa androginia, o
quella che almeno appare tale a un occhio moderno che osservi i molti
ritratti scultorei che ce lo mostrano giovane e senza età63, con un volto
dolce anche quando indossa un’armatura. Augusto era sia un uomo che
piaceva agli uomini sia il più grande amico che le donne dell’élite romana
avessero mai avuto. A volte, sembra che si rivolgesse quasi come un
politico odierno al suo elettorato. Ovviamente, nessuna donna romana
esercitava il diritto di voto, ma le donne dell’élite disponevano di enormi
ricchezze ed esercitavano anche un potere politico di fatto.
Livia era uno dei consiglieri più fidati di Augusto. Lo accompagnò nei
suoi viaggi in giro per l’impero, diversamente dalla prassi fino ad allora
invalsa secondo cui gli uomini lasciavano le mogli a casa quando erano
impegnati in affari all’estero. Anche altre donne dell’élite cominciarono a
viaggiare con i loro mariti e talvolta a prendere parte alle loro decisioni.
Quando doveva discutere di questioni importanti, anche con Livia,
Augusto scriveva in anticipo degli appunti e li leggeva da un taccuino per
riuscire a trattare i vari argomenti in modo essenziale. Da parte sua Livia
archiviò le carte del marito, e le avrebbe tirate fuori nel momento in cui
servirono, dopo la sua morte64.
Una tradizione letteraria ostile e talvolta brillante trasformò Livia in una
sorta di strega65. Veniva dipinta come un’avvelenatrice che aveva ucciso
uno dopo l’altro i maschi della discendenza di Augusto e anche il proprio
nipote, e infine lo stesso marito, in modo tale che il figlio che aveva
avuto dal suo precedente matrimonio, Tiberio, potesse ereditare
l’impero e lei stessa potesse esercitare il potere all’ombra del trono.
Sebbene questa storia sia materia di romanzi e sceneggiati televisivi, si
tratta in realtà di un mito. Le donne forti facevano parte della cultura
romana, ma così anche la misoginia. Una donna potente, insomma,
attirava calunnie, e in nessun caso questo è vero quanto per Livia.
Nonostante fosse subordinata al marito, era riuscita a ritagliarsi un
proprio spazio nella sfera pubblica. La sua immagine era molto meno
popolare di quella di Augusto, e tuttavia seppe sfruttarla al massimo. Una
storica dell’arte la definisce «la prima donna nella storia occidentale che
sia stata raffigurata sistematicamente in ritratti»66. Livia imitò e rese
popolare un nuovo stile di pettinatura, il nodus, realizzato arrotolando
all’indietro i capelli sopra la fronte, e sfoggiato per prima da sua cognata
Ottavia. Livia contribuì a far sì che nel mondo romano il nuovo stile
superasse per popolarità quello di Cleopatra con le sue trecce ben tirate.
Senza dubbio, Livia era una donna che sapeva come far uso della
pubblicità; ad esempio, diffondendo la storia di un miracolo che si
asseriva fosse avvenuto non molto prima che si sposasse con Ottaviano.
Mentre stava facendo ritorno alla sua proprietà a nord di Roma, si narra
che un’aquila le lasciò cadere in grembo una gallina bianca che teneva nel
becco un rametto di alloro. Ritenendo che si trattasse di un grande
presagio, Livia decise di allevarla e di piantare il rametto. La gallina fece
così tanti pulcini che la villa fu poi denominata Ad gallinas67. L’alloro
crebbe vigorosamente, e Augusto inaugurò la pratica, continuata dai suoi
successori, di portarne con sé un ramo quando celebrava i propri trionfi.
Livia fece raffigurare il miracolo nel celebre Giardino dipinto, un affresco
che decorava i muri di una camera sotterranea della sua villa,
probabilmente usata per mangiarvi durante le calure estive. Donna
potente, Livia potrebbe anche aver montato la storia del miracolo per
rafforzare la propria autorità. Almeno uno tra gli storici antichi di epoca
più tarda, Cassio Dione, dimostrò di pensarla così quando scrisse: «Livia
era destinata ad accogliere nel suo grembo anche la potenza di Ottaviano
e a guidarlo in tutti i suoi atti»68.
LA FINE
Augusto riorganizzò le forze. Nel 4 d.C., adottò altri due figli. Uno era
Agrippa Postumo, figlio sedicenne di Agrippa e di Giulia. Fino ad allora
Augusto non lo aveva adottato, permettendogli di portare il nome della
famiglia di Agrippa, ma ora ne aveva bisogno, e quindi Postumo divenne
un Cesare. L’altro fu il figlio ancora in vita di Livia, Tiberio, che era
rientrato a Roma da Rodi. Il figlio minore di Livia, Druso, era morto in
Germania a causa di un incidente. Tiberio era un maturo
quarantacinquenne, Postumo un ragazzo. Si sarebbe visto, però, che non
aveva speranze: era forte fisicamente, ma debole di mente. Quando si
trattava della sopravvivenza del suo regime, Augusto aveva il ghiaccio
nelle vene. Così, anche se Postumo era il suo nipote biologico, revocò
l’atto di adozione e, come aveva fatto con la madre, spedì il ragazzo in
esilio. Restava solo Tiberio. Lui non aveva vincoli di sangue con
Augusto, ma era capace, esperto e poteva assicurare la permanenza della
dinastia.
Quando molti anni prima Giulio Cesare aveva adottato Ottaviano,
aveva senza volerlo stabilito un precedente, gettando le basi per il futuro
successo dell’impero. I romani avevano un atteggiamento relativamente
rilassato riguardo all’adozione, rispetto ad oggi, e vi facevano spesso
ricorso come a un mezzo per perpetuare il nome della famiglia. Anche se
preferivano adottare un parente di sangue e un adulto, piuttosto che un
bambino, non si irrigidivano sulle loro preferenze. Poiché l’imperatore
era libero di adottare un figlio e non era costretto a trasmettere il potere ai
suoi discendenti biologici, poteva essere flessibile nella scelta di un erede.
La conseguenza fu che la successione fu aperta al talento.
All’epoca in cui mandò Postumo in esilio, Augusto aveva sessantasei
anni, e cominciò ad elaborare dei seri piani per la propria successione.
Quando adottò Tiberio, gli conferì anche una parte dei propri poteri
regali. Lo mandò a difendere le violente zone di frontiera in Europa
centrale e nella regione dei Balcani, dove Tiberio passò la maggior parte
del tempo fra gli anni 6 e 12, impegnato in una serie di aspre guerre e
rivolte.
L’imperatore poteva trovarsi in un solo posto alla volta, ma doveva
essere presente ovunque. L’opera di governo di un grande impero in
un’epoca in cui la tecnologia e le comunicazioni erano a uno stadio
primitivo comportava grandi difficoltà sul piano pratico. Sarebbe stato
più sicuro tenere l’erede del potere a Roma, ma Augusto non poteva
risparmiarlo: Tiberio era un generale esperto, e l’unico uomo di cui si
fidava. Finalmente, nel 12, Tiberio rientrò a Roma. Dopo aver celebrato
un trionfo, gli fu conferito il potere di governare le province
congiuntamente ad Augusto. Ora era sullo stesso piano del princeps.
In quegli anni, Augusto dette il tocco finale alla sua carriera. Lasciò un
testamento e istruzioni per il suo funerale, nonché una dettagliata
descrizione degli atti che aveva compiuto, da iscrivere sulle colonne di
bronzo del suo mausoleo e da esporre sulla sua parte frontale. L’originale
è andato perduto, ma in giro per l’impero ne furono predisposte delle
copie in latino e in greco, e una versione completa è stata ritrovata ad
Ankara, in Turchia.
Il titolo latino posto all’inizio della copia di Ankara si inscrive nella
vicenda dell’eroismo romano: Res gestae Divi Augusti. In Augusto non
c’era niente di antieroico: come prima di lui Giulio Cesare, egli venne
dichiarato un dio post mortem. L’iscrizione comincia con queste parole:
«Qui sotto è esposta una copia dell’elenco originale degli atti compiuti
dal Divo Augusto, con i quali sottomise al dominio del popolo romano il
mondo»73.
La vittoria è un tema chiave del documento. Augusto afferma che
spense le fiamme della guerra civile, liberò il mare dai pirati e portò la
pace nelle province. Un tema connesso è quella della misericordia,
poiché Augusto rileva come avesse risparmiato tutti i cittadini che
avessero fatto istanza di perdono.
Dal testo restano fuori molte cose, come gli omicidi, i tradimenti, gli
atti disonesti e crudeli, così come gli eccessi della corte imperiale. In
nessun luogo Augusto afferma di aver messo fine alle libere istituzioni
della repubblica romana e di aver introdotto al loro posto il benevolo
dispotismo dei Cesari. Infine, in linea col tono virile che sostiene la
descrizione delle imprese militari, Augusto non cita nessuna donna, per
quanto faccia riferimento a diverse divinità femminili. In breve, la
versione ufficiale che fornisce delle proprie realizzazioni è un’opera di
propaganda che piega e distorce la realtà. Una cosa, tuttavia, era chiara e
precisa riguardo a quest’opera. Si trattava di un testo rivolto all’impero e
non solo a Roma.
Augusto concluse la propria carriera politica lontano da Roma, come
del resto l’aveva cominciata, svolgendo una missione per l’impero. Nel
44 a.C., quando fu raggiunto dalla notizia dell’omicidio di Cesare, era
sull’altra sponda dell’Adriatico, di fronte all’ultima stazione della via
Appia, la strada che portava a sud di Roma. Quando morì, cinquantotto
anni dopo, Augusto aveva sempre lo sguardo rivolto ad Oriente.
Lasciatasi ormai da tempo alle spalle la sua prestanza di combattente,
poneva sempre al primo posto l’impero. Stava scortando il figlio ed erede
Tiberio lungo la via Appia, in direzione dell’Adriatico, che Tiberio
aveva in programma di attraversare per affrontare l’ultima crisi in atto in
una zona di costante conflitto. Come faceva ogni volta che poteva,
Augusto si era fatto accompagnare dalla moglie Livia.
Abbinò agli impegni di lavoro una vacanza nella sua località preferita,
l’isola di Capreae (Capri), ma stava già male. Dopo aver rifatto la
traversata all’indietro verso la terraferma e aver preso parte a una
cerimonia a Napoli, scortò Tiberio ancora più a sud, viaggiando per
quattro giorni. Poi tornò indietro e si sentì talmente male che dovette fare
sosta a Nola, dove soggiornò nella villa di famiglia. Fu inviato un
messaggio a Tiberio perché si affrettasse a tornare indietro; secondo la
versione che dell’episodio dà Svetonio, Tiberio riuscì a raggiungere il
padre adottivo in tempo per un ultimo colloquio74.
Augusto morì a Nola il 19 agosto del 14, quando mancava poco più di
un mese al suo settantasettesimo compleanno. Gli artefici della mitologia
imperiale lasciarono sicuramente il loro segno sui particolari pubblici
dell’ultimo giorno di Augusto.
Per quel che può valere, sembra che i suoi amici si recassero al suo
capezzale. Augusto chiese loro se pensavano che avesse ben recitato la
«commedia», parlando come un attore alla fine dello spettacolo. E
aggiunse: «Or, se tutto vi piacque in questo scherzo, / date un applauso,
fate, orsù, gran chiasso!»75. Poi li congedò, e morì fra i baci di Livia,
rivolgendo a lei, secondo quanto si narra, le sue ultime parole: «Livia,
vivi nel ricordo della nostra grande unione! Addio!»76.
L’uomo che aveva ridisegnato il mondo avrebbe dovuto lasciarlo con il
fragore di un tuono. E invece, se le storie tramandate sono vere, Augusto
concluse la sua esistenza in modo silenzioso, con ironia e modestia.
L’uomo che aveva posto fine alle guerre della repubblica e poi creato
l’impero romano e la pace romana usciva dalla vita riconoscendo quanto
dovesse alla sua compagna. Controllato fino alla fine, forse Augusto disse
davvero addio alla propria onnipotenza con umiltà di gesti.
All’epoca fu notata l’ironia del fatto che egli fosse morto nella stessa
stanza in cui molti anni prima era morto il suo padre biologico, Gaio
Ottavio77. Ma se nei momenti finali Augusto pensò a qualche uomo,
questi era probabilmente Giulio Cesare.
Cesare e Augusto erano i due lati della medaglia del genio romano. Il
primo era il dio delle battaglie, che riversò il proprio talento in due opere
classiche della letteratura. Augusto era lo statista machiavellico che forgiò
il proprio potere col sangue e la spada, e poi proseguì costruendo una
struttura di pace e di ricchezza che sopravvisse alla sua scomparsa per due
secoli. Cesare era un pavone, Augusto una sfinge. Cesare cadde in Senato
sotto una selva di pugnalate; Augusto morì nel proprio letto ricevendo
l’ultimo bacio dalla moglie. Augusto cominciò da giovane omicida e
concluse come padre della patria. Se furono sua madre Azia e il suo
prozio Giulio Cesare a fargli muovere i primi passi in politica, Augusto
dovette le sue realizzazioni dell’età della maturità a due persone: l’amico
Agrippa e la moglie Livia.
Fu lui a inventare il concetto di princeps, quello che per noi è
l’imperatore. I suoi successori lo assunsero a modello. Augusto fu un
conquistatore, un legislatore, un costruttore e un sacerdote. Sebbene
esercitasse il potere supremo, lo celava dietro le istituzioni esistenti, titoli
ingannevoli, invocazioni alla repubblica, potere carismatico e un certo
grado di deferenza nei confronti del Senato.
La morte di Cesare aveva lasciato in eredità a Roma una generazione di
guerra civile. Quella di Augusto gli avrebbe lasciato la pace? Le
preoccupazioni si andavano accumulando. Nei suoi ultimi anni, Augusto
aveva elaborato ponderati piani per trasferire il potere, ma chi avrebbe
ubbidito a un uomo che non c’era più? Il suo figlio adottivo e successore,
Tiberio, sarebbe stato adatto al ruolo? Agrippa Postumo o Giulia si
sarebbero sentiti liberi di diventare un punto di aggregazione per
l’opposizione? In Senato sarebbero riemersi in superficie sentimenti
repubblicani?
Erano interrogativi che sicuramente a Roma turbavano molte menti, e
più di ogni altra quella della più scaltra fra le personalità della politica,
Livia. In pubblico, la vedova si mostrò dedita al lutto. Dopo che Augusto
fu cremato a Roma, ad esempio, rimase sul posto per cinque giorni, con
una guardia d’onore composta dai cavalieri più eminenti. Poi fece
raccogliere le ceneri di Augusto e le depose nella tomba.
In privato, però, mentre cominciava un anno di lutto per il marito
scomparso78, di certo operò instancabilmente dietro le quinte. Quali
piani, discorsi e fatti di sangue avrebbero sgombrato la strada al nuovo
sovrano di Roma, suo figlio?
1
Augusto, Index Rerum Gestarum 34.1-2.
2
Ronald Syme, The Nobilitas, in Id., The Augustan Aristocracy, Clarendon Press, Oxford 1986,
pp. 1-14 (trad. it. di Carmen Dell’Aversano, L’aristocrazia augustea, Rizzoli, Milano 1993).
3
Su Azia, si veda Ilse Becher, Atia, die Mutter des Augustus - Legende und Politik, in Griechenland
und Rom, Vergleichende Untersuchungen zu Entwicklungs-tendenzen und höhepunkten der antiken
Geschichte, Kunst und Literatur, a cura di Ernst Günther Schmidt, Universitätsverlag Tbilissi in
Verbindung mit der Palm & Enke, Erlangen und Jena, Tbilissi 1996, pp. 95-116.
4
Uno dei personaggi del Dialogo degli oratori di Tacito, risalente al 102 circa, la descrive in
questi termini, forse prestando ascolto appunto all’autobiografia di Augusto: Publio Cornelio
Tacito, Dialogo degli oratori, in Id., Storie; Dialogo degli oratori; Germania; Agricola, a cura di Azelia
Arici, UTET, Torino 19702, XXVIII, in particolare XXVIII.6.
5
Virgilio, Eneide, passim. Si veda, per una disamina del tema, Susan Dixon, The Roman Mother,
University of Oklahoma Press, Norman 1988, p. 74.
6
Nicolao di Damasco, Vita di Augusto CLVII.14.
7
Jürgen Malitz presenta un’eccellente analisi della carriera del giovane Ottaviano in «O puer
qui omnia nomini debes», Zur Biographie Octavius bis zum Antritt seines Erbes, in «Gymnasium»,
CXI (2004), pp. 381-409.
8
Forse la storia risale a un periodo più tardo, quando si parlava correntemente della divinità di
Augusto, ma potrebbe essere anche precedente. Si vedano: Svetonio, Augusto XCIV.4; David
Wardle, Suetonius: Life of Augustus = Vita Divi Augusti, Oxford University Press, Oxford 2014,
pp. 512-515; Cassio Dione, Storia romana XLV.1.2; Adrian S. Hollis, Fragments of Roman Poetry,
c. 60 BC-AD 20, Oxford University Press, Oxford 2007, p. 313, n. 181.
9
Nicolao di Damasco, Vita di Augusto CLVIII.20.
10
Svetonio, Augusto LXVII.
11
Id., Giulio Cesare II.1, XXII.2 e XLIX.1-4.
12
Nicolao di Damasco, Vita di Augusto CLXIX.36.
13
Ivi, XCI.38.
14
Marco Tullio Cicerone, Lettere ad Attico, testo latino e versione di Carlo Vitali, 3 voll.,
Zanichelli, Bologna 1965-69, XVI.15.3.
15
Ibid.
16
Nicolao di Damasco, Vita di Augusto XCIII.54. Appiano (Guerre civili III.11) afferma che il
primo ad accettare quel nome fu l’esercito a Brundisium (Brindisi). Mark Toher ritiene che fu
solo in seguito che Azia si rivolse al figlio con l’appellativo di Cesare: si veda Nicolaus of
Damascus, The Life of Augustus and the Autobiography, a cura di Mark Toher, Cambridge
University Press, Cambridge 2016, p. 258.
17
Appiano, Guerre civili III.14.
18
Cassio Dione, Storia romana LI.3.
19
Giuliano imperatore, Simposio: i Cesari, edizione critica, traduzione e commento a cura di
Rosanna Sardiello, Congedo, Galatina 2000.
20
Plinio il Vecchio, Storia naturale XXXVII.4.10.
21
Augusto, Index Rerum Gestarum 1.1-3.
22
Svetonio, Augusto X.4.
23
Ivi, LXVII; si veda il commento di Wardle, Suetonius: Life of Augustus cit., p. 468.
24
Marco Tullio Cicerone, Lettere ai familiari, testo latino e versione di Carlo Vitali, 3 voll.,
Zanichelli, Bologna 1968-73, XI.20.1. Nel testo latino il passo recita: «Laudandum
adulescentem, ornandum, tollendum»; il gioco di parole verte sul duplice significato
attribuibile a tollendum: portato in alto, innalzato agli onori, ma anche tolto di mezzo, ucciso
[N.d.T.].
25
«Hic Atiae cinis est, genetrix hic Caesaris, hospes, / condita; Romani sic voluere patres»
(Epigrammata Bobiensia 40); cfr. Hollis, Fragments of Roman Poetry cit., p. 313, n. 182. La
traduzione italiana è tratta da Francesca Romana Nocchi, Commento agli Epigrammata
Bobiensia, De Gruyter, Berlin-Boston 2016, p. 121.
26
Sulle cifre delle vittime, si veda Josiah Osgood, Caesar’s Legacy: Civil War and the Emergence of
the Roman Empire, Cambridge University Press, Cambridge 2006, p. 63, n. 6.
27
IMPERATOR CAESAR DIVI FILIUS. Si veda Frederik Juliaan Vervaet, The Secret
History: The Official Position of Imperator Caesar Divi Filius from 31 to 27 BCE, in «Ancient
Society», XL (2010), pp. 79-152, in particolare pp. 130-131.
28
Svetonio, Augusto XCI.1; cfr., in proposito, Appiano, Guerre civili IV.110, e Cassio Dione,
Storia romana XLI.3.
29
Svetonio, Augusto XV.
30
Cassio Dione, Storia romana XLVIII.44.5.
31
Svetonio, Augusto LXII.2.
32
Si vedano, ad esempio: Plutarco, Antonio 60.1; Appiano, Guerre civili V.1, V.8 e V.9; Cassio
Dione, Storia romana L.4.3-4.
33
Plutarco, Antonio 80.1-3; Id., Tutti i Moralia, prima traduzione italiana completa, testo greco
a fronte, coordinamento di Emanuele Lelli e Giuliano Pisani, Bompiani, Milano 2017, 207A-
B; cfr. Cassio Dione, Storia romana LI.16.3-4.
34
Plutarco, Antonio 81.2.
35
Cassio Dione, Storia romana LI.16.5.
36
Il poeta non è ovviamente da confondersi con il famoso Cassio (Gaio Cassio Longino) che
aveva a sua volta partecipato all’uccisione di Cesare (Velleio Patercolo, Storie II.87.3; Valerio
Massimo, Detti e fatti memorabili I.7.7).
37
Cassio Dione, Storia romana LIII.16; Svetonio, Augusto VII.2.
38
Si vedano, ad esempio, OCRE (Online Coins of the Roman Empire), RIC I (second edition)
Augustus 277, 488-491, 493-494 (http://numismatics.org/ocre/results?
q=Augustus%20AND%20year_num%3A%5B-27%20TO%20-27%5D&start=0).
39
L’atmosfera licenziosa degli ultimi terribili giorni della tarda repubblica – il mondo che
Augusto gradì da giovane e che poi colpì con la legislazione emanata in veste di imperatore – è
ricostruita efficacemente da Daisy Dunn, Catullus’ Bedspread: The Life of Rome’s Most Erotic Poet,
Harper, New York 2016.
40
Quinto Orazio Flacco, Satira II.III.186, in Id., Le satire. Le epistole, testo latino e traduzione
in versi italiani di Ettore Romagnoli, Zanichelli, Bologna 1971, pp. 142-143.
41
P. Köln, 4701, rr. 12-14, in P. Köln et al., Kölner Papyri, VS Verlag für Sozialwissenschaen,
Wiesbaden 1987, pp. 113-114.
42
Niccolò Machiavelli, Il principe, in Id., Il Principe e Dicorsi sopra la prima deca di Tito Livio, con
introduzione di Giuliano Procacci e a cura di Sergio Bertelli, Feltrinelli, Milano 1960, p. 44
(libro VIII).
43
Si veda Lucio Anneo Seneca, La clemenza I.9.1 e I.11.,1 in Id., La clemenza. Apocolocyntosis.
Epigrammi. Frammenti, a cura di Luciano De Biasi, UTET, Torino 2009.
44
Si veda, ad esempio, Svetonio, Augusto XV, e Appiano, Guerre civili IV.5.
45
Tacito, Annali I.2.
46
Virgilio, Eneide I.278-279.
47
Svetonio, Augusto XXV.4; Aulo Gellio, Le notti attiche X.11.5; Macrobio Teodosio, I
saturnali, a cura di Nino Marinone, UTET, Torino 1987, VI.8.8; Polieno, Stratagemmi politici e
di guerra, traduzione e cura di Francesco Chiossone, Il melangolo, Genova 2012, VIII.24.4.
48
Augusto, Index Rerum Gestarum 34.3.
49
Tacito, Annali XIII.8.
50
Svetonio, Augusto XLVII; Wardle, Suetonius: Life of Augustus cit., p. 351.
51
Svetonio, Augusto LIII.3.
52
Ivi, LIII.1.
53
Augusto, Index Rerum Gestarum 34.14-15.
54
(Res publicam restituit.) Si considerino ad esempio i Fasti Prenestini, in data 13 gennaio 27
a.C.: Victor Ehrenberg, Arnold H.M. Jones, Documents Illustrating the Reigns of Augustus and
Tiberius, Oxford University Press, Oxford 1949, p. 45. Cfr. E.T. Salmon, The Evolution of
Augustus’ Principate, in «Historia», V (1956), 4, pp. 456-478, in particolare p. 457; Karl
Galinsky, Augustan Culture: An Interpretive Introduction, Princeton University Press, Princeton
(NJ) 1996, pp. 42-79.
55
Augusto, Index Rerum Gestarum 21.
56
Cassio Dione, Storia romana LVI.30.3.
57
Stephanie Malia Hom, Consuming the View: Tourism, Rome, and the Topos of the Eternal City,
in «Annali d’Italianistica», XXVIII (2010), pp. 91-116.
58
Svetonio, Augusto XLIII.43-46.
59
Ivi, LXIII.
60
Cassio Dione, Storia romana LI.19.7.
61
Pietro Abelardo, Lettere di Abelardo e Eloisa, introduzione di Mariateresa Fumagalli Beonio
Brocchieri, traduzione e note di Cecilia Scerbanenco, testo latino a fronte, Rizzoli, Milano
1997, lettera 1.
62
Svetonio, Caligola XXIII (Ulixes stolatus).
63
Si veda ad esempio Musei Vaticani (Roma), cat. 2290 (Augusto di Prima Porta).
64
Svetonio, Augusto LXXXIV.2, e Id., Tiberio LI.1.
65
Tacito, Annali, passim. Cfr. anche il romanzo di Robert Graves, Io, Claudio, Bompiani,
Milano 1934.
66
Elizabeth Bartman, Portraits of Livia: Imaging the Imperial Woman in Augustan Rome,
Cambridge University Press, Cambridge 1999, p. xxi.
67
Svetonio, Galba I; Plinio il Vecchio, Storia naturale XV.136-137; Cassio Dione, Storia romana
XLVIII.52.3-4.
68
Cassio Dione, Storia romana XLVIII.52.3-4.
69
Macrobio Teodosio, I saturnali cit., II.5.
70
Ivi, II.5.6.
71
Ivi, II.5.9-10.
72
Augusto, Index Rerum Gestarum 35.1.
73
Ivi, 1.1.
74
Svetonio, Tiberio XXI.1.
75
Ibid.
76
Ibid.
77
Id., Augusto C.1.
78
Cassio Dione, Storia romana LVI.42.
Tiberio
2
Tiberio, il tiranno
Il 17 settembre del 14, nel Senato romano, Tiberio Giulio Cesare si alzò
e prese la parola. L’imperatore Augusto, suo padre adottivo, era morto da
un mese. Dopo un funerale pubblico che aveva suscitato molta
emozione, il Senato aveva approvato quella che i romani definivano una
«consacrazione», proclamando la divinità di Augusto. Gestirne l’eredità
in cielo era l’aspetto più facile della vicenda. Più difficile era occuparsi
della questione in terra.
Noi usiamo il termine imperatore, ma per i suoi contemporanei
Augusto era princeps, primo cittadino, termine a cui corrispondeva una
collocazione vaga e instabile. Non vi era alcuna garanzia che il sistema da
lui creato non crollasse dopo la sua morte. Dopotutto, Roma non aveva
una costituzione scritta, e in Senato vi era chi vagheggiava di restaurare
l’antica gloria dell’istituzione e di ripristinare il potere che esercitava
prima dell’avvento di Giulio Cesare, mentre alcuni suoi membri
volevano sostituire Tiberio al vertice del potere.
La maggior parte dei senatori, comunque, intendeva chiedere a Tiberio
di assumere i pieni poteri di Augusto. La loro strategia consisteva nel non
mostrarsi troppo servili; da parte sua, Tiberio voleva accettare, senza però
mostrarsi troppo entusiasta. Il che probabilmente non era difficile:
nonostante le ambizioni che sua madre Livia nutriva per lui, Tiberio non
aspirava al potere politico supremo.
Era un militare di professione, e forse anelava ad occupazioni più
tranquille, e a rimanere nell’atmosfera franca e schietta
dell’accampamento. E magari ripensò all’episodio di una decina di anni
prima, quando era tornato sul fronte settentrionale per ordine di
Augusto, dopo una lunga assenza. Secondo una fonte, i suoi vecchi
soldati erano entusiasti di riaverlo tra loro: alcuni nel rivederlo avevano le
lacrime agli occhi, altri desideravano toccarlo. Ricordavano il servizio
prestato con lui nel corso di varie campagne, e in diversi teatri di guerra,
ed ebbero espressioni quali: «Sei davvero tu quello che vediamo,
comandante?», e «Ti abbiamo riavuto fra noi stabilmente?»1.
Forse Tiberio aspirava a una carriera esclusivamente militare, ma ora gli
si profilava davanti il più complicato compito politico del suo mondo, e
la possibilità di vestire i panni di un dio. Forse non lo voleva, ma
l’impero era il suo dovere, e Tiberio era estremamente devoto alla causa.
Così, si alzò in piedi e parlò ai senatori2.
Disse che l’eredità di Augusto era troppo grande da gestire per
chiunque, e che avrebbe dovuto essere suddivisa in tre parti: Roma e
l’Italia, le legioni e le province. In realtà non era questo che intendeva,
naturalmente, ma un senatore eccessivamente zelante non se ne rese
conto e replicò che era una buona idea, per poi chiedergli quale delle tre
parti egli avrebbe preferito tenere per sé. Tiberio, mostrandosi
composto, anche se probabilmente fu colto alla sprovvista, rispose
elegantemente. Era abile a nascondere quel che pensava, quando
necessario3. Disse che lo stesso uomo non poteva al contempo dividere e
scegliere. Il senatore fece marcia indietro, ma ormai era troppo tardi
(Tiberio si sarebbe ricordato dell’affronto subito da quell’uomo, e si
sarebbe vendicato a distanza di anni, facendolo incarcerare e morire di
fame)4. Nel frattempo, molti senatori pregarono Tiberio di assumere i
pieni poteri.
Alla fine, non senza qualche esitazione, egli accettò. Ma si lasciò una via
d’uscita, promettendo che sarebbe rimasto in carica «fino a quando
giunga il momento in cui stimiate di concedere un po’ di riposo alla mia
vecchiaia»5. Aveva già cinquantacinque anni, e sapeva che la vecchiaia
non era così lontana. Un altro motivo di esitazione era la sua
consapevolezza dei pericoli di un incarico del genere. O almeno, al
riguardo citava spesso un proverbio: «Ho afferrato il lupo per le
orecchie»6. E tuttavia, per quanto diffidente, Tiberio assunse il potere e
continuò a governare Roma in modo più o meno coerente con la
situazione che aveva lasciato Augusto. E questo, già di per sé, fu un
grande successo.
Quello che lo attendeva non era un compito facile. Doveva non solo
essere all’altezza delle aspettative, dopo l’uscita di scena del suo grande
predecessore, ma anche farlo essendo pienamente consapevole di non
essere stato la prima scelta di Augusto per la sua successione. Inoltre,
l’imperatore defunto gli aveva lasciato in eredità un compito quasi
impossibile. Volendo fare un paragone con successive epoche storiche o
con il mondo attuale, si potrebbe dire che Tiberio seguì Augusto come
John Adams avrebbe seguito George Washington, o come Tim Cook
avrebbe continuato l’opera di Steve Jobs. In tutti questi casi, il successore
è stato più efficace di quanto sia stato popolare o carismatico.
Conquistatore e pacificatore, l’imperatore fu anche costruttore e
demolitore, benefattore e giudice, capo della propria famiglia e padre
della patria, tribuno del popolo e primo uomo del Senato, il più
autorevole dei romani e il campione delle province, manager e leader dal
fascino magnetico, uomo di spettacolo e simbolo di severità, sacerdote e
comandante, sacro a Roma e re in Oriente – e perfino Dio. Ogni
imperatore dovette negoziare un accordo con le élites che più contavano:
l’esercito, il Senato, la corte imperiale, i notabili delle province. Anche la
plebe urbana di Roma aveva un peso, ma il suo potere era molto più
ridotto rispetto a quello che aveva avuto sotto la repubblica. Augusto era
riuscito a sbarazzarsene, ma solo dopo una guerra civile e un processo
politico fatto di tentativi ed errori, e solo grazie al notevole prolungarsi
del suo regno. Perfino un abilissimo politico del suo rango dovette
faticare a trovare la soluzione.
I suoi successori ebbero dei problemi a bilanciare le varie e
contraddittorie pretese esistenti nei confronti dell’imperatore romano. E
nessuno di loro regnò tanto a lungo quanto Augusto, il cui potere sul
mondo romano rimase incontrastato per quarantacinque anni.
Mentre Augusto adorava il connubio di forza e abilità di manovra con
cui governava, Tiberio era un bravo organizzatore e un pragmatico, che
ridimensionava i problemi e faceva funzionare il sistema – perfino a
costo di attuare la repressione all’interno e di ridurre le spese all’estero.
Se Augusto poteva sembrare una sfinge, Tiberio era il vero uomo del
mistero. La sua personalità controllata confondeva i contemporanei, e
ancora oggi sconcerta gli storici. Tuttavia, riuscì a reggere un regno
davvero importante, e si dimostrò un capo in grado d’introdurre notevoli
trasformazioni. Consolidò la monarchia augustea sul piano interno, ma
non la politica estera del suo predecessore, alla quale pose un freno dopo
secoli di espansione. E in tempo di pace, nessun imperatore più di lui
colpì così duramente la nobiltà romana. L’uomo che si presentò sulla
scena nelle vesti di amico dei senatori finì per diventare un tiranno ai loro
occhi.
L’ASCESA AL POTERE
Per arrivare al potere Tiberio dovette percorrere una strada lunga,
gloriosa ma aspra. Praticamente, da quando nel 27 a.C., quindicenne,
vestì la toga virile, fu sempre attivo negli affari pubblici. Dopo aver
ricoperto i suoi primi incarichi militari e politici, sposò Vipsania, la
figlia di Agrippa, genero e braccio destro di Augusto. Era la terza donna
importante nella sua vita che fosse in stretta relazione con l’imperatore.
Non proveniva da una famiglia nobile, ma Tiberio la amava, ed ebbero
una vita familiare felice, assieme al figlio Druso Minore. Almeno,
quando Tiberio era a casa.
Dopo aver ricoperto l’ufficio di pretore nel 16 a.C., infatti, passò il
decennio successivo in continue campagne militari nell’Italia
settentrionale, impegnato ad estendere i confini di Roma fino al
Danubio e all’Elba. Combatté nelle regioni oscure, fredde, povere e poco
prestigiose dell’impero, corrispondenti agli attuali territori di Svizzera,
Germania, Austria, Serbia e Ungheria. Fra il 12 e il 9 a.C. capeggiò
l’impegnativa campagna per la conquista della Pannonia, l’area a sud e a
ovest del Danubio. Si rivelò un comandante popolare, gran bevitore e
poco incline al rischio, ma anche capace di estendere a poco a poco i
confini dell’impero. Nel frattempo, Druso guidò le armate romane in
Germania, verso est, fino all’Elba.
A quel punto la vita personale di Tiberio subì un vero e proprio
rivolgimento. Quando nel 12 a.C. Agrippa morì, Augusto ebbe bisogno
di una nuova figura che svolgesse le funzioni di amministratore e seguisse
gli interessi dei giovani principi Gaio e Lucio Cesare, i suoi due figli
adottivi. Per queste funzioni decise di rivolgersi a un uomo maturo e
responsabile e lo trovò in Tiberio. Probabilmente Livia, che non era
donna tale da permettere che i sentimenti intralciassero una buona
prospettiva di carriera, incoraggiò la decisione del marito, e certamente la
accolse positivamente. A questo punto Augusto costrinse Tiberio a
porre fine al suo felice matrimonio, divorziando da Vipsania per sposare
Giulia, la sua sorellastra.
Con Giulia, Tiberio andò subito d’accordo. Sebbene amasse la sua
prima moglie, il suo secondo matrimonio costituiva una promozione
all’interno della famiglia imperiale. Giulia era una donna attraente, di
spirito, servizievole, e non certo un’estranea. Raggiunse l’Italia
settentrionale per essere più vicina a Tiberio, che combatteva al di là
delle Alpi. Ebbero un figlio.
Il bambino, però, morì ancora in fasce, e da allora i loro interessi furono
divergenti. Giulia voleva promuovere la carriera dei figli che aveva avuto
da Agrippa, mentre Tiberio pensava alla propria e a quella di suo figlio,
Druso Minore. Si considerava un campione della nobiltà, mentre Giulia
aveva senz’altro tendenze populiste. Ancor più importante era il fatto che
Tiberio avesse scarsa considerazione delle donne in politica, mentre
Giulia non aveva intenzione di starsene a casa. A Tiberio, poi, mancava
Vipsania. Si dice che una volta, avendola incontrata per strada a Roma,
fosse rimasto talmente turbato che furono presi accorgimenti per evitare
che le loro strade si incrociassero di nuovo12.
Quando nel 9 a.C. suo fratello rimase gravemente ferito in Germania,
in seguito a una caduta da cavallo, Tiberio affrontò un lungo e difficile
viaggio dalla Pannonia per andare a fargli visita, facendo in tempo a
vederlo poco prima che morisse. Da lì ne seguì il corpo fino a Roma,
facendo tutto il tragitto a piedi. Anche se questo poteva essere
considerato un modo per mostrarsi in linea con la promozione augustea
dei valori familiari, probabilmente si trattò dell’espressione di un sincero
dolore per la perdita dell’ultimo legame che gli era rimasto con suo padre.
A Druso fu poi attribuito l’appellativo postumo di Germanico – vale a
dire il conquistatore della Germania –, che venne trasmesso ai suoi
discendenti.
Nel 6 a.C. Augusto decise di inviare Tiberio a compiere una nuova
missione in Oriente, ma rimase interdetto quando questi gli comunicò
di avere intenzione di ritirarsi a Rodi, la bella isola greca, assai distante
dai centri del potere. Tiberio confessò di sentirsi esausto e di aver
bisogno di riposo13; aggiunse poi che non era sua intenzione intralciare il
cammino dei nipoti di Augusto – i figli di Giulia –, Gaio e Lucio, che
erano in procinto di diventare maggiorenni e stavano ricevendo
un’educazione destinata a farne i successori di Augusto. Altri dissero che
Tiberio voleva allontanarsi da Giulia, ma la sua avversione per lei non era
solo di tipo personale. Tiberio temeva forse che Gaio e Lucio lo
avrebbero fatto uccidere. Pare certo che Gaio avesse precocemente
manifestato la propria ostilità nei suoi confronti, e forse Tiberio aveva già
avuto modo di accorgersene. I pettegolezzi aggiunsero un ulteriore
motivo alla volontà di Tiberio di ritirarsi a Rodi, accennando alla sua
intenzione di dedicarsi sull’isola ai piaceri sensuali, come non gli era
consentito fare a Roma, quasi che Rodi fosse una specie di Las Vegas
dell’epoca.
A Tiberio Rodi piaceva per molti motivi, dal paesaggio incantevole alla
possibilità di frequentare uno studioso e astrologo greco, e forse anche
per i piaceri illeciti che offriva. Quando a un certo punto si risolse a
tornare a Roma, Augusto lo costrinse a rimanere sull’isola fino al 2 d.C.,
quando infine Tiberio poté stabilirsi in una tranquilla residenza in città.
Però si portò dietro lo studioso-astrologo e gli fece conferire la
cittadinanza romana.
IL RITORNO A ROMA
Nel 6 a.C., quando partì per Rodi, il futuro di Tiberio appariva incerto.
Dieci anni dopo, venne nominato successore di Augusto. Cos’era
successo nel frattempo? Giulia si era stancata di rimanere in attesa del
potere. Commise ripetutamente adulterio, e ordì un complotto contro
suo padre, ma venne scoperta. Nel 2 a.C. cadde in disgrazia e conobbe
l’esilio, e Augusto impose a Tiberio di divorziare da lei. I suoi due figli
continuarono ad essere nei favori dell’imperatore, ma nel 4 d.C. erano
entrambi morti. Le voci, come al solito, dettero la colpa della loro
scomparsa a Livia, affermando che aveva fatto in modo che Gaio e Lucio
venissero avvelenati, per consentire a Tiberio di prendere il potere. In
realtà morirono entrambi mentre erano in missione all’estero, ben lontani
dalla base di potere romana di Livia: Lucio dovette soccombere a una
malattia, Gaio ai postumi di una ferita in battaglia. A quell’epoca una
missione all’estero comportava notevoli incertezze e pericoli, e al
massimo possiamo ipotizzare che Augusto volesse mettere a rischio le
loro vite mandandoli lontani da Roma. Quanto a Livia, si può pensare
che la morte dei due uomini, che erano un ostacolo all’elevazione al
potere dei suoi due figli, non le dispiacesse.
Augusto risolse la crisi di successione adottando come figlio Tiberio.
Questi non era certo la sua prima scelta, e neppure la seconda o la terza,
ma Augusto era realista, e inoltre, come poi apparirà chiaro, il suo dono
nascondeva una trappola.
Nonostante i loro precedenti disaccordi, Tiberio era il più esperto
generale di Roma. Augusto gli conferì anche il potere tribunizio,
assieme alla pienezza dei poteri (imperium maius). Disse che lo adottava per
il bene della repubblica, e con tale commento intendeva sicuramente
rafforzarne la posizione, non insultarlo. Sebbene Augusto adottasse anche
il suo nipote più giovane, Agrippa Postumo, che era solo un ragazzo di
sedici anni, e non costituiva un pericolo per Tiberio, a quell’epoca
importante uomo di Stato di quarantasei anni. Augusto non aveva altri
nipoti.
Poco dopo, l’imperatore inviò nuovamente sul fronte occidentale
Tiberio, che una fonte a lui favorevole loda come un generale saggio,
prudente, autorevole e moderato, che aveva riguardo per la vita dei suoi
uomini14. Quel che è certo è che ottenne diversi successi. Dapprima
condusse una campagna in Germania, dove eguagliò l’impresa di suo
fratello raggiungendo l’Elba con gli schieramenti romani. Poi, nel 6 d.C.,
tornò velocemente in Pannonia, dove era in corso una grossa rivolta, che
stavolta coinvolgeva la vicina regione della Dalmazia.
In tre anni di fieri combattimenti, Tiberio domò una delle più gravi
rivolte che Roma avesse mai dovuto affrontare. Dimostrò di essere un
freddo esecutore di quella che oggi si chiamerebbe attività contro-
insurrezionale. Fu una campagna di pacificazione che i romani vinsero
non solo sul campo di battaglia ma anche interrompendo i rifornimenti
di cibo e scorte al nemico.
In seguito, nel 9, il generale Varo fu travolto in Germania, perdendo tre
legioni. Augusto rispedì Tiberio in quelle regioni, dove rimase i due
anni successivi, dedicandosi a una lenta, paziente e oscura opera di
riorganizzazione delle rimanenti legioni e combattendo i nemici dei
romani al di là del Reno.
Al suo rientro a Roma, nel 12, Tiberio celebrò un ritorno a lungo
rinviato per portare a termine la conquista della Pannonia. I suoi poteri
furono ampliati ed equiparati a quelli di Augusto. Una moneta del 13
riporta Augusto su una faccia e Tiberio sull’altra, come se il mondo
romano si stesse preparando per l’inevitabile passaggio dei poteri15.
LA SUCCESSIONE
Augusto riuscì in qualche modo a predisporre una transizione quanto
più possibile liscia e pacifica. Quando morì, Tiberio ebbe la fortuna di
trovarsi al suo fianco, o almeno di raggiungerlo abbastanza rapidamente
da consentire alla gente di dire che era lì nei suoi ultimi momenti. È
probabile che fosse stato lo stesso Augusto a dare il cinico ordine di
giustiziare Agrippa Postumo dopo la propria morte, per liberare il futuro
governante da un potenziale rivale. Dopotutto, Augusto aveva già in
precedenza stabilito il principio secondo cui «non è bene che ci siano
parecchi Cesari»16.
Per altri aspetti, però, a Tiberio legò le mani. A quel tempo Livia aveva
settant’anni, ma era ancora piena di vigore, e Augusto le lasciò in mano
degli strumenti potenti. Si assicurò della sua posizione stabilendone per
testamento l’adozione – come figlia! –, in modo da farla diventare un
membro della famiglia Giulia. Dopo la sua morte, il Senato approvò
l’adozione. Da quel che sappiamo, nessuno chiese se Livia ora fosse
anche sorella adottiva di suo figlio Tiberio, che in precedenza era stato a
sua volta adottato da Augusto.
Non meno importante fu il fatto che Augusto attribuisse a Livia il
nuovo nome di Giulia Augusta. Si trattava di un riconoscimento senza
precedenti, e nessuno sapeva quale ne fosse il preciso significato. Sarebbe
spettato a Livia stessa, a Tiberio e al Senato attribuirgliene uno. Era
tuttavia chiaro il desiderio di Augusto di far sì che sua moglie mantenesse
una notevole autorità. Il prestigioso titolo di Giulia Augusta collocava
Livia nella prima famiglia di Roma, lasciandola a due sole lettere di
distanza (a rispetto a us) dalla suprema posizione di potere dello Stato. Era
un modo, di fatto, per assicurare la continuazione del potere di Augusto
anche dopo la morte, e di temprare Tiberio.
L’autorità di Livia non si sarebbe inoltre limitata a questo. Essa era
anche la prima sacerdotessa del culto di Augusto deificato. Non era una
cosa da poco, visto che a Roma non esistevano altre donne investite di
un rango sacerdotale altrettanto elevato, a parte le Vergini Vestali. Al
nuovo incarico di Livia era associato il diritto di disporre di una guardia
del corpo ovunque essa svolgesse le sue mansioni religiose; ulteriore
segno, questo, dell’importanza che rivestiva. A ciò seguirono molti altri
onori, da un seggio a teatro assieme alle Vergini Vestali all’imposizione
del suo nome a diverse città. Una provincia orientale eresse un tempio in
onore di Tiberio, di Livia e del Senato. In varie sculture e iscrizioni
Livia cominciò ad essere collegata a Cerere, dea della fertilità e
dell’abbondanza, qualcosa a cui sotto Augusto si era appena accennato.
Livia era una delle persone più ricche in tutto l’impero, e diversamente
dalla maggior parte delle donne romane ottenne il pieno controllo delle
sue proprietà. Augusto le lasciò in eredità un terzo del proprio
patrimonio, destinando la parte restante a Tiberio. Livia possedeva
proprietà sia in Italia sia in varie province orientali e occidentali. In
quanto donna, non poteva far parte del Senato, ma riceveva senatori in
casa propria, dove ad assisterli era addetto un personale di dimensioni
enormi (nel complesso, aveva alle sue dipendenze un migliaio di
persone).
Il tempo trascorso con Livia avrebbe dato spesso frutti vantaggiosi col
passare degli anni. Della sua famiglia faceva parte un uomo che sotto un
successivo imperatore sarebbe diventato comandante della guardia
pretoriana. Fra i suoi cortigiani favoriti vi era chi in seguito sarebbe
diventato il primo imperatore proveniente da ambienti esterni al circuito
dinastico, il primo che non discendesse né da lei né da Augusto.
Livia era la persona che assicurava la transizione fra il regno di suo
marito e quello di suo figlio. Sicuramente Tiberio apprezzava questo
elemento di continuità, ma ne era anche disturbato. Se da una parte
consentì a sua madre di accumulare onori e di esercitare alcuni poteri,
dall’altra le impose anche dei limiti. Nella prima fase del suo regno, ad
esempio, il Senato avrebbe voluto assegnarle il titolo, senza precedenti, di
madre della patria, ma Tiberio si oppose al provvedimento, così come
respinse altre proposte senatoriali, come quella di attribuirgli la
denominazione ufficiale di Iuliae filius e chiamare Livius il mese di
ottobre, preferendo invece il titolo di divi filius, che gli spettava in virtù
della deificazione di Augusto.
Per comprendere Tiberio, occorre prima comprendere Livia. Nessuna
donna romana aveva mai occupato una posizione pari alla sua quanto a
ricchezze e ad onori. Non solo essa rappresentava il legame vivente col
fondatore della dinastia, ma era di fatto anche quella che oggi si
definirebbe una First Lady, poiché Tiberio era divorziato e non aveva
un’amante. Era anche la veterana politica più esperta di tutta Roma. E per
l’orgoglioso Tiberio era un costante richiamo a una persona che andava al
di là di quello che egli riteneva dovesse essere il ruolo adatto a una donna.
C’è da immaginarsi che Tiberio reagisse con una smorfia, se qualcuno lo
chiamava figlio di Augusta, ma ciò nonostante, quando si trovava ad
affrontare un problema politico intricato era probabile che si rivolgesse a
lei per avere un consiglio.
Di tanto in tanto, Livia faceva sentire il proprio peso nella vita pubblica
di Roma: promuovendo a volte un suo amico, attribuendo in altri casi
privilegi speciali a un proprio alleato, consacrando statue a proprio nome
o a quello di Tiberio, oppure invitando dei senatori a un ricevimento in
casa propria. In generale, Tiberio accettava tutto ciò e addirittura operava
dietro le quinte per presentare un fronte unito. Ciò vale soprattutto per la
prima fase del suo regno, poiché col passare del tempo divenne meno
paziente con sua madre.
Tiberio non si consultava invece con la sua ex moglie, Giulia.
Dapprima esiliata sull’isola di Pandataria, Tiberio le aveva consentito di
rientrare a Reggio, nell’Italia meridionale, ma essa continuava di fatto a
vivere come se fosse agli arresti domiciliari. Dopo neppure sei mesi da
quando Tiberio era diventato imperatore, nel 14, morì di malnutrizione.
Si disse che Giulia si fosse lasciata andare rifiutando il cibo fino a morire,
forse per il dolore conseguente all’uccisione del figlio Agrippa Postumo,
forse presa dalla disperazione al pensiero che suo marito era asceso al
potere supremo17.
All’epoca in cui divenne princeps, Tiberio era un uomo maturo, e per
certi aspetti fu uno degli imperatori più preparati che Roma avrebbe mai
avuto. Ma non fu certo il più giovane. A cinquantacinque anni, si era
ormai lasciato alle spalle il comando degli eserciti e le missioni all’estero.
Ma sebbene in ciò seguisse l’esempio di Augusto – anch’egli a quell’età
aveva cominciato a stare fermo –, fu per questo motivo oggetto di
ingiuste critiche, dovute alla sua presunta mancanza di coraggio e di
iniziativa.
TIBERIO E IL SENATO
Tiberio era fondamentalmente un oligarca. Diversamente da Augusto,
che a Roma era popolare fra la gente comune, fu un imperatore
distaccato e riservato. Ebbe poco tempo per finanziare lavori pubblici, e
ancor meno per prendere parte ai giochi.
Sebbene non avesse mai conosciuto la vecchia repubblica, la sua eredità
familiare lo faceva sentire legato al Senato, verso il quale nei primi anni
del suo regno si mostrò rispettoso. Partecipava regolarmente alle sedute,
riconoscendo la libertà di espressione ai senatori, ascoltando
rispettosamente e cercando di essere discreto quando faceva valere la
propria opinione18. Rifiutò titoli quali signore o padre della patria.
Come diceva spesso: «Per gli schiavi sono un signore, per i soldati un
imperator e per tutti gli altri un princeps»19. Una volta disse al Senato che si
riteneva suo servitore, e che considerava i senatori alla stregua di
«padroni giusti, buoni e benevoli»20.
Ma pochi gli credevano. Per affermare di essere il primo cittadino
essendo in realtà il sovrano, come nel caso di Augusto, bisognava essere
degli illusionisti della politica. Augusto era attento alle prerogative del
Senato, e ne blandiva i membri, di fatto però manipolandoli.
Tiberio, però, non era un mago. Ai senatori concesse libertà,
aspettandosi in cambio cooperazione. Il risultato fu, tuttavia, una miscela
di servilismo e di attività cospirative. La maggior parte dei senatori non
aveva il coraggio di parlare liberamente in sua presenza. Quando,
all’inizio del suo regno, l’imperatore promise al Senato che avrebbe
condiviso con esso il proprio potere, un senatore replicò che «il corpo
dello Stato era uno solo e dalla mente di uno solo doveva essere
governato». Tiberio disprezzava sentimenti del genere21: sembra che una
volta avesse lasciato una seduta del Senato biascicando in greco: «O
uomini fatti per essere servi!»22.
La personalità dell’imperatore non era certo d’aiuto. Tiberio non aveva
l’affabilità e la premurosità che in genere ci si aspettava da un nobile
romano nei confronti degli amici. Giulio Cesare, ad esempio, poteva
essere descritto come un uomo che trattava con «cortesia» (facilitate) i suoi
amici23, mentre Tiberio poteva suscitare commenti del genere solo con
riferimento alla correttezza ed eleganza (facilis) con cui parlava il greco24.
Insincero e spesso crudele, Tiberio era un giudice inaffidabile del
carattere delle persone, e talvolta ciò poteva risultare pericoloso. Era
austero fino al cattivo gusto: una volta, ad esempio, invece di recarsi a far
visita al figlio morente e poi a vegliarlo una volta deceduto, si recò in
Senato per assistere a una seduta. Provava un tale disprezzo per gli onori
da mettere in imbarazzo e in agitazione le persone, che non sapevano
come trattarlo.
Aveva, però, anche molte virtù. Era realista, prudente, moderato,
sobrio e parsimonioso. Fu abbastanza modesto da declinare la proposta
della costruzione di un tempio per lui e per sua madre, affermando che il
suo vero tempio sarebbe stato edificato nei cuori della gente25. Insisté per
erigere sul Palatino una residenza più grandiosa di quella di Augusto, ma
fu comunque abbastanza frugale da lasciare alla sua morte il tesoro dello
Stato in avanzo.
Dopo aver divorziato da Giulia, non si risposò più, né si sa che abbia
avuto un’amante stabile. Verrebbe da immaginarsi un uomo solo, quasi il
Citizen Kane degli imperatori romani. Ma Tiberio non era un uomo
semplice, come commenta efficacemente uno storico successivo:
«possedeva moltissime virtù e moltissimi vizi, ma aveva saputo far uso di
entrambi come se fossero un’unica cosa»26.
Dopo una mezza dozzina di anni di governo tranquilli, consentì che i
suoi nemici venissero sottoposti a processo per il reato di maiestas, vale a
dire di lesa maestà del popolo romano, dell’imperatore o della sua
famiglia. Si trattava di un’accusa vaga e pericolosa, quasi una garanzia di
un trattamento arbitrario. I senatori si accusarono a vicenda di
tradimento. Una cosa del genere era accaduta raramente sotto Augusto,
che prestava abbastanza attenzione al Senato, ma Tiberio lasciò che i
senatori si attaccassero a vicenda.
Sebbene il processo venisse celebrato in Senato, gli imputati non
gradirono la scelta del luogo. A differenza che in un normale tribunale, in
Senato vigevano poche regole a difesa degli accusati. Alla fine, decine di
senatori rimasero vittima di questi processi, perdendo la vita. Gli esiti dei
procedimenti paralizzarono la libertà di azione delle centinaia di senatori
che erano riusciti a sottrarvisi. La maggior parte di loro riteneva Tiberio
disonesto e crudele27.
Se questi si comportò come un tiranno, certamente era stato provocato,
per quanto ciò non giustifichi la sua reazione. Sotto l’apparente nobiltà
del suo atteggiamento, covava del risentimento, che trovò ripetutamente
espressione in episodi minori. Come ad esempio alla fine del 22,
quando, al momento della morte, un’anziana nobile vedova mostrò quel
che pensava dell’imperatore escludendolo dal proprio testamento – con
un gesto che pochi altri del suo rango osarono replicare28. Tiberio lasciò
correre, limitando la propria reazione a un solo atto: rifiutò di consentire
alla famiglia della donna di mostrare le maschere di cera del suo defunto
marito e del fratellastro fra i grandi antenati rappresentati nel corteo
funebre. La donna era la vedova di Cassio e la sorellastra di Bruto, due
dei capi della cospirazione che nel 44 a.C. aveva portato all’uccisione di
Giulio Cesare, nonno adottivo di Tiberio stesso. Nonostante fossero
passati ormai sessantasei anni, certe ferite erano ancora aperte.
LA CASA DI AUGUSTO
Tiberio era diventato un buon amministratore, ma Augusto avrebbe
voluto di più: avrebbe voluto un eroe. E ne trovò uno nel nipote di
Tiberio, il vivace e carismatico generale Germanico (15 a.C.-19 d.C.),
figlio del defunto fratello di Tiberio, Druso. A quell’epoca, Tiberio
aveva già un proprio figlio, Druso Minore, ma Germanico ora lo
sopravanzò nella linea successoria. Poiché questi era sposato con una
nipote di Augusto, la sua adozione garantiva che alla fine la linea di
sangue di Augusto ritornasse al potere. Quanto a Livia, giocava a suo
favore la circostanza che Germanico fosse suo nipote, e ciò assicurava
l’accesso al potere dei suoi discendenti in linea di sangue, a partire da suo
figlio Tiberio. Il serioso imperatore e il suo nipote dal fascino magnetico
non andavano d’accordo, e ciò ebbe conseguenze disastrose per la
famiglia imperiale.
Germanico fu un’icona dei primi anni del regno di Tiberio. A ventotto
anni gli fu assegnato il comando degli eserciti romani sul Reno, dove
Augusto lo aveva inviato nel 13, affidandogli otto legioni. Il popolo
romano amava Germanico, sua moglie Agrippina Maggiore, nipote del
divino Augusto, e i loro sei figli superstiti (tre li avevano persi ancora
piccoli). Le fonti ci descrivono Germanico come accomodante,
disponibile, modesto e affascinante, tutte qualità che gli valsero un
seguito sia fra i senatori sia fra la gente comune, a Roma come nelle
province29. Le monete e i busti che lo ritraggono ci mostrano un bel
giovane dal naso aquilino, il mento prominente e i capelli ricciuti. Era
tanto colto quanto battagliero, capace di uccidere un uomo in una lotta
corpo a corpo e di scrivere componimenti poetici in greco. Sua moglie
Agrippina Maggiore appare nei ritratti come una donna dall’espressione
seria, il profilo classico e la capigliatura raccolta in lunghe trecce30.
Alla morte di Augusto, nel 14, le legioni di stanza in Germania si
ammutinarono chiedendo che fosse Germanico, e non Tiberio, ad essere
investito della carica di imperatore. Con l’aiuto della sua abile moglie,
Germanico ebbe ragione dell’ammutinamento e ripristinò la lealtà delle
truppe nei confronti di Tiberio. In seguito, nel 16, Tiberio richiamò
Germanico dal Reno, dove, nonostante il suo nome («conquistatore della
Germania»), il giovane generale aveva vinto delle battaglie ma non aveva
esteso il suo impero. Il suo successo più straordinario lo ottenne quando
riuscì a riprendere le insegne delle legioni perse da Varo e a seppellire le
ossa dei soldati morti che erano rimaste sul terreno.
Una volta tornato a Roma, Germanico celebrò un trionfo che esaltò
oltre misura i suoi successi e amplificò l’adulazione della folla nei suoi
confronti. Quando sfilò su un carro assieme a cinque dei suoi figli, tutti
gli occhi erano puntati su di lui. I suoi amici e i suoi sostenitori erano
sempre pronti a rendere più attraente la sua immagine. Perfino a una sua
precedente spedizione fallita, quella nel mare del Nord, fu dedicato un
poema epico che ne esaltava l’audacia31.
In seguito, Tiberio lo mandò in Oriente con un’ampia disponibilità
finanziaria, ma il giovane premeva per ottenere un potere ancora
maggiore. Assieme ad Agrippina si scontrò col governatore della Siria,
Gneo Calpurnio Pisone, e con sua moglie, Plancina, che si erano uniti
alla sua missione. Erano entrambi nobili e non si lasciavano intimorire
facilmente.
Poco dopo Germanico partì per l’Egitto, che visitò senza il permesso di
Tiberio, per quanto a nessun senatore fosse consentito di fare ingresso
nella provincia senza il suo consenso. Ad Alessandria Germanico
ricevette un’accoglienza da eroe. Doveva la sua popolarità in parte alla sua
discendenza: tramite sua madre Antonia Minore era infatti nipote di
Marco Antonio (e di Ottavia). Anche la sua generosità fu motivo di
successo, poiché in occasione di una carestia aiutò la gente mettendo in
vendita cereali di proprietà statale. Fu salutato da acclamazioni talmente
intense che dovette chiedere agli alessandrini di moderarle32. Disse che
solo Tiberio e Livia meritavano un omaggio simile.
Quando in Siria si ammalò, Germanico affermò di essere stato
avvelenato, e a quanto si dice i suoi sospetti caddero su Pisone e
Plancina33. Morì il 10 ottobre del 19, all’età di trentatré anni. Nello
scalpore che ne seguì, Pisone fu richiamato a Roma e costretto a subire
un processo davanti al Senato. Non fu dichiarato colpevole di omicidio
ma di reati minori, però si suicidò prima che la sentenza venisse
pronunciata; anche Plancina fu costretta a rientrare a Roma, dove fu
salvata grazie alla potente protezione di Livia, la quale fece in modo che
Tiberio in persona intercedesse in suo favore e che venisse assolta. A
Roma molti puntarono il dito contro la gelosia di Tiberio, supponendo
che dietro di lui vi fosse Livia, e vedendo in ciò il vero motivo della
morte di Germanico. Lontani ed elitari com’erano, i due non potevano
rivaleggiare con la popolarità del giovane. Che ne provassero
risentimento è probabile, è umano, ma un omicidio è tutt’altra cosa. Per
inciso, Plancina sopravvisse a Livia, ma rendendosi conto di essere ormai
priva di protezione, a sua volta si suicidò.
Perfino una volta morto, Germanico rimase nelle grazie dell’opinione
pubblica. Le fonti parlano di un’universale espressione di dolore, come se
ognuno sentisse di aver perso qualcosa di sé34. Un poeta scrisse: «Io,
aedo, dichiaro: Germanico non è mio, è delle stelle»35.
Le sue ceneri furono deposte nel mausoleo di Augusto, mentre le torce
ardevano intorno al monumento, e per una volta la rumorosa città
conobbe un silenzio rotto soltanto da pianti di dolore.
La morte di Germanico privò Roma di un eroe, e Tiberio di un
successore. A sessant’anni, sicuramente sentiva su di sé la pressione
perché venisse designato il prossimo imperatore. Germanico aveva tre
figli, che però erano ancora troppo giovani. Druso, il figlio trentaduenne
di Tiberio, era un soldato e uno statista esperto, ma anche un donnaiolo.
Inoltre, Augusto aveva chiaramente manifestato la propria volontà che la
successione spettasse a Germanico e a i suoi discendenti. Fu così che
Tiberio nominò Druso imperatore in attesa di conferma, con l’accordo
che avrebbe trasmesso il trono a uno dei figli di Germanico. Purtroppo, a
questo piano si frappose una faida familiare, nonché l’astuzia di un
concorrente ambizioso che si approfittò di un uomo anziano.
Prima però di occuparci dei drammatici eventi che posero fine al regno
di Tiberio, soffermiamoci un attimo su come egli guidò la politica estera
di Roma e la trasformò per sempre. Fu questa l’eredità dei suoi migliori
anni di governo.
L’ESERCITO IMPERIALE
Simile a figure come George Washington o il generale Dwight D.
Eisenhower, Tiberio era un soldato nell’animo, che preferì tuttavia tenere
la spada nel fodero una volta divenuto un uomo di governo. Trasformò
profondamente il carattere del sistema militare rispetto a quello ereditato
da Augusto, e assegnò all’esercito una nuova missione, che avrebbe
mantenuto a lungo: la difesa della pace romana.
L’esercito era la più grande istituzione dell’impero, ma non era
semplicemente una macchina militare. Per la maggior parte delle persone,
rappresentava l’unico fattore di mobilità sociale. Ed era anche uno
strumento di assimilazione. Trasformava i sudditi delle province in
cittadini, mescolava persone provenienti da una parte e dall’altra del
Mediterraneo, dalle Isole britanniche come dall’Iraq. Il termine
«persone», e non «uomini», è usato a ragion veduta, perché negli
accampamenti militari e nelle comunità che vi crescevano intorno
c’erano donne e bambini che, assieme ai soldati e ai civili, erano
condizionati e influenzati dall’apparato militare romano. Era così anche
se i soldati romani non potevano sposarsi per legge, disposizione che
costituiva un forte motivo di malcontento. Molti di essi, tuttavia,
contraevano matrimoni di fatto.
All’epoca di Tiberio l’esercito imperiale romano contava circa 300.000
uomini, e in seguito, nel II secolo, arrivò a un massimo di 500.000.
Professionale e ben retribuito, era anche molto ben equipaggiato,
estremamente disciplinato e molto vasto.
L’esercito era costituito da tre settori principali: le legioni, gli ausiliari e
altri elementi: rematori e marinai, unità tribali ai margini dell’impero e
inoltre nella capitale guardie pretoriane, forze di polizia paramilitari e
guardie addette agli incendi.
I legionari erano la fanteria pesante, l’orgoglio delle forze militari
romane. Prestavano servizio per un periodo di venticinque anni, e oltre
al salario annuo, ricevevano una liquidazione in denaro al momento della
pensione. Ci si aspettava, poi, che gli imperatori contribuissero di tanto
in tanto con ulteriori indennità in denaro – com’era ovvio se sapevano
cos’era vantaggioso per loro. Dopotutto, quello stesso esercito che aveva
portato al potere i Cesari, li poteva anche detronizzare.
I legionari avevano in genere la cittadinanza romana, ma raramente
erano di origine romana, e neppure italica. L’interesse degli italici per il
servizio militare andò progressivamente scemando, poiché ormai erano
agricoltori che vivevano in pace e nell’agiatezza. Le reclute provenivano
da altre aree quali la Gallia meridionale e la Hispania, oltre che dalle
province della regione danubiana.
Tiberio aveva sotto di sé venticinque legioni, tre in meno rispetto al 9,
quando Varo venne sconfitto in Germania. Non molto dopo il regno di
Tiberio, il numero delle legioni sarebbe ritornato a ventotto, per poi,
dopo un secolo e mezzo, arrivare a trenta e, infine, raggiungere un
massimo di trentatré. Il numero complessivo dei legionari variava dai
130.000 ai 170.000.
Gli ausiliari, che combattevano assieme alle legioni, non erano cittadini
romani. Ricevevano una paga inferiore a quella dei legionari, erano in
genere più poveri e meno istruiti e, per dirla tutta, rischiavano più degli
altri di dover combattere e morire nel cuore della battaglia. Prestavano
servizio in unità reclutate a livello locale, che venivano equipaggiate e
addestrate secondo gli usi locali. A partire dal 50 d.C. circa, gli ausiliari
poterono ottenere la cittadinanza dopo venticinque anni di servizio. In
segno di ciò, ricevevano una tavoletta pieghevole di bronzo, chiamata
diploma.
A Roma erano di stanza forze speciali. La guardia pretoriana, composta
da qualche migliaio di elementi, era una forza scelta operante al servizio e
in difesa dell’imperatore. Altri 1.500 soldati circa erano schierati come
forza di polizia urbana, mentre altri 3.000 soldati si occupavano della
vigilanza sugli incendi. Diversamente dal resto dell’esercito, i soldati di
stanza a Roma erano soprattutto italici.
In Italia la marina aveva due basi, una nel Golfo di Napoli, l’altra
sull’Adriatico. Roma teneva poi delle navi da guerra sul Reno e sul
Danubio.
Un’ultima parte delle forze militari romane era composta da uomini
delle tribù che vivevano su entrambi i lati della frontiera, ai margini
dell’impero, e prestavano servizio in unità semi-irregolari.
Di questo imponente esercito, solo pochi elementi avevano messo
piede a Roma in vita loro. Ciò non privava i militari di una
motivazione, ma faceva sì che la paga e le condizioni di svolgimento del
servizio avessero per loro un’importanza ancora maggiore dell’ordinario.
Dopotutto, se non combattevano per un senso di attaccamento al
focolare, potevano comunque combattere per soldi.
Un altro problema era rappresentato dalla forza in battaglia dell’esercito.
È più facile motivare dei soldati che stanno marciando verso le zone di
combattimento che le truppe delle guarnigioni. Il mantenimento della
disciplina dell’esercito imperiale assunse un rilievo sempre maggiore – e
divenne ancora più difficile.
Un giorno, in un futuro lontano, il molle e tranquillo esercito romano
del tempo di pace avrebbe rappresentato un ambìto bersaglio per i rudi
uomini che abitavano al di là della frontiera. Ma all’epoca di Tiberio non
era così.
LA VENDETTA DI GERMANICO
Tiberio era il responsabile della morte di due dei figli di Agrippina
Maggiore e di Germanico, ma aveva salvato il terzo, Gaio, e lo aveva
portato a Capri. L’imperatore aveva un nipote, il figlio di Druso Minore,
suo figlio biologico, e lasciò aperta la questione di quale sarebbe stato il
giovane da destinare alla propria successione. Sicuramente le sue
preferenze andavano al nipote, ma Gaio aveva dalla sua la popolarità di
Germanico e il sangue di Augusto.
Le fonti riportano che Tiberio percepiva il cattivo carattere di Gaio e
che perfino se ne compiacesse, poiché avrebbe fatto apparire migliore il
suo, retrospettivamente, e offeso i suoi nemici in Senato. A quanto pare,
Tiberio pensava che Gaio fosse una vipera59; sembra che una volta avesse
detto: «Dopo la mia morte la terra si mescoli al fuoco»60. Storie
interessanti, ma che suscitano scetticismo.
Lo storico, tuttavia, si sofferma sul pensiero del vecchio e cinico
imperatore e del giovane principe corrotto e viziato insieme nella bella
isola del Mediterraneo. Mentre andavano soppesando il destino del
mondo nelle loro mani, forse condivisero le lezioni di realismo politico
che entrambi avevano appreso da Livia – madre di Tiberio e bisnonna di
Gaio. Era Livia ad aver cresciuto Gaio in casa propria dopo che sua
madre era morta. Forse Tiberio notò non solo che Livia non c’era più,
ma anche che quasi tutte le altre donne della famiglia estesa di Augusto,
che tanto avevano influenzato la sua vita, se n’erano andate: la bella
Giulia, incline alle trame, la fedele Vipsania, la vendicativa Agrippina. La
coraggiosa e generosa Antonia era ancora viva, ma sarebbe sopravvissuta a
Tiberio per meno di sette settimane. A tutti gli effetti, la famiglia
imperiale si era ridotta al vecchio «capro» e alla giovane vipera.
Il 16 marzo del 37, quando Gaio aveva ventiquattro anni e il suo prozio
Tiberio settantotto, il vecchio imperatore morì. Alcuni dissero che Gaio
aveva avvelenato Tiberio, o che lo aveva fatto morire di fame, o ancora
che lo aveva soffocato con un cuscino61. Altri incolparono della sua morte
Macrone, il comandante della guardia pretoriana. I soldati acclamarono
Gaio imperatore, e due giorni dopo il Senato fece lo stesso. Oggi Gaio è
noto soprattutto col soprannome che ricevette in giovane età, Caligola –
«piccola caliga» (calzatura dei legionari) –, per l’uniforme in miniatura
con cui i genitori solevano vestirlo quando, da bambino, viveva con loro
in un campo militare in Germania. Figlio di Germanico, bisnipote del
divino Augusto e discendente anche di Marco Antonio, Caligola aveva
prestigiose ascendenze genealogiche. E così, alla fine Germanico si prese
una sorta di rivincita su Tiberio.
Quest’ultimo non sarebbe stato ricordato con affetto. A Roma la notizia
della sua morte venne accolta con tale gioia che la gente correva per strada
gridando: «Al Tevere con Tiberio!»62. Caligola rifiutò di divinizzare il
suo predecessore, e Tiberio rimane così uno dei pochi imperatori nei
primi due secoli del principato ad essere stato privato di tale onore.
Tuttavia, se dovessimo giudicarlo dai risultati della sua politica, fu uno
degli imperatori che raccolse più successi: all’estero garantì la difesa dei
confini dell’impero, all’interno tenne costantemente assoggettato il
Senato. Tiberio capovolse l’impostazione imperialistica di Augusto e
bloccò qualsiasi seria opposizione interna al proprio governo, continuò
ad assicurare le condizioni necessarie per promuovere il commercio e la
prosperità e, soprattutto, garantì il mantenimento del principato. Roma
avrebbe continuato ad essere governata dai Cesari. Ora, però, senza alcun
impedimento davanti a sé.
Augusto aveva aperto il proprio regno con la violenza e lo aveva
concluso usando la persuasione e la benevolenza, seguendo, si potrebbe
quasi dire, le regole dettate poi da Machiavelli per il dominio del
principe. Tiberio fece invece esattamente l’opposto, cominciando con
moderazione e concludendo in modo duro e violento.
Tacito lo dipinge come un tiranno scaltro e triste, ma la maggior parte
degli studiosi odierni ritiene che un giudizio del genere sia esagerato.
Senza dubbio lascia fuori dal quadro le molte qualità positive
dell’imperatore. E tuttavia nessuno nega la ferocia con cui trattò la nobiltà
romana, né contesta l’importanza delle caserme della guardia pretoriana,
che ora incombeva sulla nuova realtà politica di Roma. Con esse Tiberio
«serrò le catene del suo paese», come scrisse nel Settecento lo storico
britannico Edward Gibbon63. Vi sono diverse ragioni per considerare
Tiberio una sorta di despota illuminato, e la sua personalità fu
sicuramente più complessa di quanto Tacito non sia disposto ad
ammettere. Non possiamo però respingere l’appellativo di tiranno per
designare l’uomo che perseguitò e uccise i suoi oppositori politici sulla
base di generiche accuse di tradimento.
In definitiva, Tiberio sollevò il velo della monarchia romana. Quel che
mancava per trasformare Roma in un’autocrazia non illuminata era un
megalomane. E avvenne che all’orizzonte se ne prospettasse uno, anzi,
ben due. La grande prova che il sistema politico costruito da Augusto si
trovò a dover affrontare sarebbe consistita, di lì a poco, nel verificare se
esso avrebbe potuto detronizzare un cattivo imperatore senza generare il
caos.
Tiberio si considerava forte e virile, e le sue imprese militari ne furono
una prova. Tuttavia, le donne svolsero un ruolo importante nella sua
carriera, dalla sua salvatrice Antonia a Giulia, sorellastra e moglie
ripudiata, alla rivale e nuora adottiva Agrippina. Ma la figura più
importante fu quella di sua madre Livia, la donna più potente che Roma
avesse mai conosciuto. Tiberio si innamorò una sola volta, della sua
prima moglie Vipsania, ma questo sovrano estremamente guardingo non
ha lasciato alcuna immagine del loro matrimonio.
Gli scontri fra Tiberio da una parte, e Livia, Giulia e Agrippina
dall’altra sono l’espressione dell’inversione di rotta nella vita romana. La
virilità assertiva, sostenuta sul fronte interno dalle donne, valse a Roma il
suo impero. E tuttavia, il problema fondamentale era ora difenderlo,
l’impero, non estenderlo. La forza e il valore erano meno importanti
dell’intelligenza e del calcolo. Solo un pregiudizio sociale e le
incombenze legate alla maternità impedivano che le donne potessero
competere sullo stesso piano degli uomini.
Ma questo lasciava gli uomini alla ricerca di una nuova definizione.
Tiberio poté pensare di aver risolto il problema della leadership eroica e
del senso di missione che essa conferiva all’impero, ma di fatto non fece
che riproporlo in una nuova forma. Dopo di lui, ritornò ad avere un
ruolo cruciale il carisma. Nelle tre successive generazioni di imperatori,
il governo di Roma ruotò tutto attorno alla figura di Germanico:
dapprima una versione autocratica (suo figlio, Caligola), poi una versione
zoppa (suo fratello Claudio), quindi una da baccanale (suo nipote
Nerone). Dopo di che, alla fine, Roma tornò a un secondo Tiberio, per
così dire – un soldato-imperatore, ma stavolta con maggior fascino
popolare –: Vespasiano, il costruttore del Colosseo.
Più gli imperatori riuscivano a centrare l’impero sulla pace, meno teso e
pericoloso rendevano l’esercito romano. Più essi facevano del governo
romano un’autocrazia, meno energici ed efficaci rendevano i singoli
cittadini, soprattutto quelli appartenenti all’élite. Una repubblica fatta da
potenziali Cesari non poteva reggere, ma una repubblica fatta di pecore e
di gaudenti non era in grado di difendersi.
Tiberio fu un capo capace di introdurre importanti trasformazioni, ma
non carismatico. Appare quindi paradossale che la più grande rivoluzione
religiosa della storia occidentale sia cominciata durante il suo regno:
l’azione missionaria di Gesù Cristo. Dopo aver predicato il vangelo in
Galilea, Gesù di Nazareth venne crocifisso a Gerusalemme intorno al 30.
I suoi seguaci lo acclamarono come il Messia – in greco, il «Cristo».
Credevano nella resurrezione dei corpi e arrivarono a concepire la sua
missione come la nascita di una nuova religione, il cristianesimo.
Naturalmente Tiberio non sapeva niente di tutto ciò, quando
soggiornava nella sua Villa Jovis, nella remota isola di Capri.
1
Velleio Patercolo, Le storie II.104.3.
2
Su questa seduta del Senato, si veda Tacito, Annali I.5-13; Svetonio, Tiberio, XXIII-XXV, e
Id., Augusto, C-CI; Cassio Dione, Storia romana LVII.2-7.
3
Tacito, Annali IV.71; cfr. Cassio Dione, Storia romana LVII.1.1-6.
4
L’uomo era Gaio Asinio Gallo, che sposò Vipsania dopo il suo divorzio da Tiberio (Tacito,
Annali I.2 e VI.23; Cassio Dione, Storia romana LVIII.23).
5
Svetonio, Tiberio XXIV.2; Svetonio afferma che si tratta delle precise parole pronunciate da
Tiberio, e non di una parafrasi o di un’invenzione.
6
Ivi, XXV.1.
7
Cassio Dione, Storia romana XLVIII.44.3.
8
Tacito, Annali I.4. Si veda anche Svetonio, Tiberio L.3.
9
Svetonio, Tiberio LXVIII.
10
Ivi, XXI.2.
11
Tacito, Annali V.1.
12
Svetonio, Tiberio VII.2-3.
13
Sui motivi per i quali Tiberio si ritirò a Rodi, si veda Velleio Patercolo, Le storie II.99;
Tacito, Annali I.4.4, I.53.1-2, II.42-43 e IV.57; Svetonio, Tiberio X.1-2; Cassio Dione, Storia
romana LV.9.
14
Velleio Patercolo, Le storie II.111.3.
15
Ad esempio, RIC I (second edition) Augustus 225
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.1(2).aug.225).
16
Plutarco, Antonio 81.2.
17
Tacito, Annali I.53.
18
Cassio Dione, Storia romana LVII.7.4.
19
Ivi, LVII.8.2.
20
Svetonio, Tiberio XXIX.
21
Tacito, Annali I.12.
22
Ivi, III.65.
23
Svetonio, Giulio Cesare LXXII.1.
24
Id., Tiberio LXXI.1.
25
Tacito, Annali IV.38.
26
Cassio Dione, Storia romana LVIII.28.5.
27
Ivi, LVII.6.3; cfr. anche LVII.1-2; Svetonio, Tiberio XXI.2 («eius diritatem»: la durezza [del
suo carattere]), e LVII.1 («saeva ac lenta natura»: la sua natura crudele e tenace).
28
Tacito, Annali III.76.
29
Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, a cura di Luigi Moraldi, vol. II, Libri XI-XX, UTET,
Torino 1998, XVIII.207-208; Tacito, Annali I.33.
30
Cfr., ad esempio, RIC I (second edition) Gaius/Caligula 55
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.1(2).gai.55).
31
Albinovano Pedone, cit. in Seneca il Vecchio, Suasoriae I.15, in Id., Controversie, libro X,
Suasorie e frammenti, Zanichelli, Bologna 1988. Si veda anche Tacito, Annali II.23-24.
32
Melvin George Lowe Cooley (ed.), Tiberius to Nero, London Association of Classical
Teachers, Cambridge-London 2011, p. 163.
33
Tacito, Annali II.71; Cassio Dione, Storia romana LVII.18.9.
34
Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche cit., vol. II, XVIII.209.
35
Lollio Basso, Sulla morte di Germanico, in Antologia palatina, vol. II, Libri VII-VIII, Einaudi,
Torino 1979, VII.39.
36
Tacito, Annali IV.32.
37
Elio Lo Cascio, The Early Roman Empire: The State and the Economy, in Walter Scheidel, Ian
Morris, Richard Saller (eds.), The Cambridge Economic History of the Greco-Roman World,
Cambridge University Press, Cambridge 2007, p. 624, n. 26.
38
www.cbo.gov/topics/defense-and-national-security.
39
L’Africa di Strabone: libro XVII, della Geografia, introduzione, traduzione e commento di
Nicola Biffi, Edizioni dal Sud, Modugno 1999, XVII.839.
40
Tacito, Annali IV.1-2.
41
Erodiano, Storia dell’Impero romano I.6.5.
42
Commodo, che regnò dal 180 al 193.
43
Cassio Dione, Storia romana LVII.12. Si veda anche Tacito, Annali IV.57, e Svetonio, Tiberio
LI.
44
Svetonio, Tiberio LI.1.
45
Cassio Dione, Storia romana LVIII.2.3-6.
46
Svetonio, Tiberio XXXII.2.
47
Ivi, XLV.
48
Ivi, XLIV.1.
49
Ivi, LXI.3.
50
Tacito, Annali IV.34-35.
51
Ivi, VI.25.
52
Ibid.
53
Svetonio, Tiberio LIII.
54
Tacito, Annali VI.25.
55
Svetonio, Tiberio LIX.
56
Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche cit., vol. II, XVIII.6.6.
57
Nikos Kokkinos, Antonia Augusta: Portrait of a Great Roman Lady, Routledge, London-New
York 1992, pp. 15-119.
58
Plinio il Vecchio, Storia naturale VII.80.
59
Svetonio, Caligola XI.
60
Cassio Dione, Storia romana LVIII.23.4.
61
Tacito, Annali VI.50; Svetonio, Tiberio LXXIII.2; Cassio Dione, Storia romana LVIII.28.3.
62
Svetonio, Tiberio LXXV.1.
63
Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 3 voll., a cura di
David Womersley, Penguin, Harmondsworth 1994, vol. I, p. 128 (trad. it. di Giuseppe Frizzi,
Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, con un saggio di Arnaldo Momigliano, Einaudi,
Torino 1967).
Nerone
3
Nerone, l’intrattenitore
LA CASA DI GERMANICO
Quando successe a Tiberio, Caligola suscitò grandi speranze. Era
giovane, figlio di un personaggio molto amato come Germanico e
bisnipote del divino Augusto. Trascorse parte della sua giovinezza in casa
della bisnonna Livia, abile come pochi altri nell’insegnare l’arte di
governare. Nel 29, quando Livia morì, ne avrebbe perfino pronunciato
l’orazione funebre. A quell’epoca aveva diciassette anni.
Purtroppo, Caligola ben presto avrebbe deluso chi riponeva speranze in
lui. Ci sarebbe voluto un autocontrollo eroico per uscire da
un’educazione come quella che aveva ricevuto mantenendosi equilibrato,
e Caligola non era un eroe. Ereditò l’astuzia e la spietatezza di Livia,
senza però il suo ritegno e il suo decoro. Si rivelò un autocrate, cinico e
omicida nei confronti dei rivali appartenenti alla sua stessa élite.
La decadenza di Caligola è leggendaria, densa di episodi piccanti e
stravaganti e, purtroppo per gli storici che cercano l’oggettività,
estremamente esagerata da fonti ostili più tarde. Succose storielle quali
quelle che riferiscono di un breve matrimonio con una delle sue sorelle e
di rapporti incestuosi con le altre2, o anche del fatto che tenesse il suo
cavallo preferito in una stalla di marmo con una mangiatoia d’avorio, e
che volesse perfino nominarlo console3, difficilmente possono
considerarsi veritiere.
E, tuttavia, Caligola era intelligente, e aveva la parola facile e pungente
quando pronunciava le sue arguzie. Quindi forse davvero poté vantarsi
con sua nonna, l’aristocratica e inorridita Antonia, del fatto che a lui fosse
concesso fare tutto quello che voleva, contro chiunque4. O forse
riassumeva nella propria persona la stravaganza della sua corte, quando
diceva, ad esempio, che un uomo doveva essere frugale, oppure essere
Cesare5. E forse, ma solo forse, è vero che quando la folla in occasione
delle corse non acclamò i campioni da lui favoriti, disse: «Ah! Se il
popolo romano avesse una testa sola!»6.
Ma siamo su un terreno più solido se diciamo che Caligola riscosse
popolarità finanziando giochi e spettacoli, diversamente da quanto aveva
fatto l’avaro Tiberio. Nello stesso tempo, fece giustiziare numerosi
senatori. Sembra che si considerasse un sovrano assoluto e pretendesse di
essere divinizzato quando ancora era in vita. Un segno di questo suo
desiderio di diventare un dio fu la decisione di costruire un nuovo
palazzo ancor più grandioso del precedente, estendendolo fino al podio
di un tempio.
Caligola accumulò talmente tanto potere che le sue azioni provocarono
la nascita di diversi complotti contro di lui – finché uno, l’ultimo, riuscì.
Nel 41, una cospirazione di senatori e di guardie pretoriane lo uccise. Fu
come tornare all’omicidio di Giulio Cesare, avvenuto ottantacinque anni
prima, ma con una variante: gli assassini di Cesare avevano lasciato in vita
la sua consorte, mentre quelli di Caligola uccisero anche sua moglie e sua
figlia. Il capo della congiura era un ufficiale delle guardie. Sembra che
Caligola avesse l’abitudine di rivolgergli commenti derisori a sfondo
sessuale, costringendolo poi a baciargli la mano col dito medio esteso. A
quanto pare alla fine la guardia ne ebbe abbastanza. Caligola aveva
governato per meno di quattro anni. Dopo la sua morte, le sue immagini
furono abbattute e il suo nome venne cancellato dalle iscrizioni.
Il suo successore Claudio (Tiberio Claudio Nerone Germanico), che
regnò dal 41 al 54, era il fratello più giovane di Germanico, e quindi
bisnipote di Augusto. E, tuttavia, fu un imperatore improbabile. Era
afflitto fin dalla nascita da una menomazione che lo rendeva zoppo e
tremante, e aveva un difetto di pronuncia, a causa forse di una paralisi
cerebrale. Venne scartato per l’accesso alle più alte cariche sia da Augusto
sia da Tiberio, e gli fu consentito invece di diventare uno storico. Poi,
Caligola lo nominò console all’inizio del proprio regno, ma da allora in
poi non avrebbe mai smesso di insultarlo e di umiliarlo.
Il giorno in cui Caligola venne ucciso, un pretoriano trovò Claudio
all’interno del palazzo e lo portò alla caserma delle guardie, dove venne
acclamato imperatore. In quel momento i senatori stavano discutendo
l’ipotesi di restaurare la repubblica, ma cambiarono presto intenzione e
approvarono l’elevazione di Claudio – il primo ma non ultimo
imperatore ad essere scelto dalla guardia pretoriana. I discorsi che si erano
fatti a proposito della repubblica si rivelarono, appunto, solo discorsi.
Nel frattempo, la guardia mostrò ancora una volta che dietro i muri in
mattoni e calcestruzzo della sua fortezza c’era un potere in grado di
competere con quello esercitato dal Senato fra i colonnati marmorei delle
sue sale.
Claudio si sarebbe dimostrato un buon imperatore quando si trattò di
aprire le porte alle élites provinciali. Concesse la cittadinanza a molti
uomini provenienti dalle province e convinse il Senato ad ammettere una
quota maggiore dell’élite gallica nei suoi ranghi. Ruppe con la politica di
pace seguita da Tiberio, e i suoi generali conquistarono la Britannia, che
Cesare a suo tempo aveva invaso ma mai sottomesso.
Claudio mostrò scarso interesse a condividere il potere con il Senato.
Sotto il suo regno il governo passò sotto il controllo del palazzo, in
particolare delle sue due potenti mogli e dei suoi liberti. Il neoimperatore
aveva cinquant’anni, scarsa esperienza di governo e nessuna esperienza in
campo militare. Ma aveva trascorso la sua vita nel palazzo, osservando
con attenzione quel che succedeva. E si trattava di un luogo importante,
poiché come tutti i sovrani l’imperatore romano aveva intorno a sé una
corte. Donne, parenti, guardie del corpo, adulatori e, sempre di più,
liberti, e perfino schiavi, trovavano ascolto presso l’imperatore.
Raramente ciò avveniva per i senatori. Alcuni di essi, di fatto,
conobbero il palazzo solo come un luogo nel quale furono costretti a
subire processi a porte chiuse.
Per amministrare l’impero Claudio si affidava a potenti liberti. I senatori
si lamentavano amaramente che il governo fosse affidato a ex schiavi – e
per giunta greci –, che invece gli imperatori consideravano indispensabili
per gli incarichi burocratici. Oggi potremmo lodare il fatto che Claudio
trasferisse il potere da un ceto di romani privilegiati a greci impegnati a
svincolarsi dalla schiavitù. Ciò, assieme all’accresciuta autorità delle
donne di rango imperiale, potrebbe apparire come una lodevole
introduzione di una maggiore diversificazione al vertice. Dovremmo
rilevare inoltre che, mentre gli imperatori andavano e venivano, i
burocrati garantivano continuità all’amministrazione. Ma i romani la
pensavano diversamente, in particolare quelli appartenenti all’élite
senatoria che scrivevano i libri di storia.
All’inizio del suo regno, Claudio era sposato con la sua terza moglie, la
nobildonna Messalina, dalla quale ebbe un figlio e una figlia. Una statua la
ritrae in un abito formale, la pettinatura curata e l’espressione serena,
mentre tiene in braccio delicatamente il suo bimbo, che si protende verso
di lei7. È un immagine molto diversa dalle numerose opere d’arte
moderne che la raffigurano come una donna dai tratti dispotici, infedele,
crudele e omicida. Ma alla fine, tradì Claudio, sposandosi a sua insaputa
con un suo rivale.
Le fonti abbondano di storie riferite alla condotta sessuale di Messalina.
La «meretrix augusta»8 – o Licisca, secondo il presunto nome che
assumeva per esercitare la professione9 – lavorava segretamente di notte in
un bordello, e superò perfino una prostituta in una gara di prestazioni
sessuali notturne10. Nessuna di queste storie è credibile. Tutte derivano
probabilmente dall’opera di propaganda della fazione vittoriosa che prese
il posto della moglie dell’imperatore dopo la sua caduta. Messalina
combatté fieramente, ma non era un mostro. Se tradì suo marito per un
altro uomo, fu perché non aveva più fiducia che Claudio mettesse al
primo posto lei e i loro figli. Ma non si mosse con sufficiente rapidità.
Quando un rivale scoprì il suo adulterio, lo denunciò a Claudio, e
questo portò alla sua esecuzione. In seguito, l’immagine di Messalina
venne rimossa dai monumenti e il suo nome fu cancellato dalle
iscrizioni.
Con la morte di Messalina, nel 48, l’imperatore divenne un vedovo a
cui occorreva una nuova moglie. Entrano a questo punto in scena
Nerone e sua madre.
IL GIOVANE NERONE
La madre di Nerone, Agrippina Minore (d’ora in avanti semplicemente
Agrippina), era una delle più ambite nobildonne romane. Godeva del
fascino derivante dal nome di suo padre Germanico e dal fatto che sua
madre Agrippina Maggiore discendesse dal divino Augusto. Fra i suoi
antenati poteva annoverare anche Livia e Marco Antonio. La nobiltà del
suo lignaggio convinse Claudio a sposarla nonostante fosse sua nipote,
circostanza che rendeva il matrimonio tecnicamente incestuoso. Il Senato
dovette approvare un decreto speciale per consentirlo.
Una statua di Agrippina ce la mostra come una donna dai tratti delicati,
con la bocca piccola, il naso leggermente rivolto all’insù e il mento
pronunciato. I capelli sono accuratamente arricciati, secondo lo stile del
tempo. La statua la ritrae come una sacerdotessa, col capo velato11. In altre
statue e medaglie ci appare associata alle divinità della fertilità, in modo
ancor più esplicito di quanto non avvenga per Livia. Ma Agrippina non
era una santa. Era una donna forte. Dapprima aveva assistito alla quasi
totale distruzione della propria famiglia, poi aveva visto l’improvviso
trionfo di suo fratello Caligola, con la successiva instaurazione della
tirannia. Dopo essere stata implicata in un complotto contro di lui, nel
cui contesto forse commise adulterio, venne inviata in esilio. Una volta
fatto ritorno in patria, Agrippina aveva radunato nuovamente le forze e
progettato di utilizzare Claudio per realizzare la propria ambizione: far
diventare imperatore suo figlio, con l’idea di gestire lei stessa il potere
dietro le quinte. Pubblicò delle memorie, oggi perdute, che potrebbero
essere la fonte del particolare secondo cui aveva un dente canino in più
nell’arcata superiore destra, circostanza che per i romani era un segno di
buona sorte, ma sicuramente significava anche una tendenza
all’aggressività.
Le antiche fonti letterarie hanno un tono ostile nei confronti di
Agrippina, come del resto di tutte le donne impegnate in politica. La
dipingono come una persona dedita a intrighi e assetata di potere,
un’incestuosa omicida. Invece, le immagini giunte fino a noi – monete,
sculture e cammei – ci mostrano una donna dall’aspetto dignitoso,
attraente, simbolo di maternità e della sua appartenenza dinastica. La
verità, probabilmente, sta fra questi due estremi.
Agrippina era una fiera lottatrice, che non ebbe esitazioni a far
giustiziare i suoi rivali. Ma altri romani di primo piano si comportarono
in modo analogo. Nella sua ricerca del potere per Nerone, Agrippina fu
egoista, ma anche mossa da un interesse pubblico. Sapeva che egli
rappresentava l’unica possibilità per consentire la continuazione della casa
di Augusto e di Germanico, e credeva che la dinastia rappresentasse per
Roma e per l’impero la migliore speranza.
Quando si sposò con Claudio, pensò a sé stessa non solo come moglie,
ma anche come la persona che lo avrebbe affiancato nell’esercizio del
potere. Fu chiamata Augusta, titolo che nessuna moglie di un imperatore
regnante aveva mai avuto prima di allora. Talvolta raggiungeva Claudio
mentre stava conducendo affari pubblici, prendendo posto su una
tribuna separata, in una rappresentazione del potere che scioccava i
contemporanei. Raccoglieva intorno a sé gli amici e bandiva i nemici. E,
soprattutto, tracciò una via di accesso al trono per il figlio.
Nerone era il frutto del primo matrimonio di Agrippina. Nato il 15
dicembre del 37 in una città costiera a sud di Roma, venne chiamato
Lucio Domizio Enobarbo («barba di bronzo»), dal nome di suo padre,
Gneo Domizio Enobarbo. Era una famiglia di repubblicani intransigenti,
con secolari ascendenze nobiliari. I suoi membri erano famosi per le
capacità nel comando militare, l’arroganza e la crudeltà, nonché per le
corse dei carri e il sostegno a produzioni teatrali indecorose. Sembra che
il padre di Nerone dicesse, a proposito del figlioletto: «È impossibile che
nasca un uomo buono da me e da una donna come questa»12.
Ma non avrebbe avuto modo di verificare questa affermazione, poiché
morì quando il figlio aveva ancora tre anni. Come Augusto, Nerone
perse il padre in tenera età e venne allevato dalla madre (a parte alcuni
mesi passati con una zia paterna). Come Azia, la madre di Augusto,
Agrippina lavorò infaticabilmente per promuovere la carriera di Nerone,
ma avrebbe pagato a caro prezzo il proprio successo.
Nerone aveva undici anni quando sua madre sposò Claudio. Nel
volgere di un anno, Agrippina riuscì a convincere l’imperatore ad
adottare suo figlio, che lasciò il nome precedente per assumere quello di
Nerone Claudio Cesare Druso Germanico. Nerone era più grande del
figlio di Claudio, e quindi il primo nella linea di successione. Claudio,
inoltre, fece fidanzare sua figlia Ottavia con Nerone e decise di anteporre
il figlio di Agrippina al proprio.
A quell’epoca Claudio aveva una sessantina d’anni. Era solo un vecchio
ingannato dalla sua nuova giovane moglie? Forse. Oppure pensava che la
sua dinastia avesse migliori possibilità di sopravvivere attraverso gli eredi
di sua figlia e di Nerone – erede di Germanico, del divino Augusto e di
Marco Antonio – che non tramite il figlio avuto da Messalina, già a suo
tempo caduta in disgrazia? In ogni caso, Agrippina non si fece da parte.
Radunò i propri amici a corte e fece in modo di escludere i nemici. La
sua mossa più importante consisté nel convincere Claudio ad assumere
come nuovo prefetto del pretorio un uomo collocato saldamente nel suo
campo. Si trattava di Sesto Afranio Burro, un cavaliere romano di
origine gallica, che un tempo aveva lavorato in casa di Livia. Non solo
Burro era un fedele sostenitore di Agrippina, ma lo erano anche
numerosi ufficiali che comandava – uomini accuratamente scelti da lei
stessa.
Come tutore di Nerone, Agrippina scelse Lucio Anneo Seneca. Questi
proveniva da una ricca e influente famiglia romana di fini letterati
originaria della Hispania. Suo padre era un famoso scrittore di retorica e
storia, sua madre studiava filosofia. Seneca si recò a Roma e si distinse in
campo giuridico e politico, dando inoltre prova di essere un brillante
uomo di lettere. Fu oratore e filosofo, saggista e autore di testi teatrali.
Ma si fece dei nemici.
Caligola aveva definito Seneca un autore di «sabbia senza calce»13 – in
altri termini, cemento molle –, e giunse quasi al punto di farlo
giustiziare. Dopo la morte di Caligola, Seneca restituì la cortesia
scrivendo che la sostanza dell’intera esistenza dell’imperatore era
consistita nel trasformare uno Stato libero in un dispotismo di stampo
persiano14. Per Seneca Caligola era un uomo assetato di sangue15.
Anche Messalina disprezzava Seneca. Lo accusò di aver commesso
adulterio con la sorella più giovane di Caligola; i due amanti furono
giudicati colpevoli e mandati in esilio, ma solo Seneca sopravvisse16.
Dopo otto anni di esilio in Corsica, si vide richiamare a Roma da
Agrippina.
Nel 54, cinque anni dopo aver sposato Agrippina, Claudio decise di
promuovere la carriera di Britannico, il suo figlio biologico allora
tredicenne. Ma all’improvviso, prima di aver potuto prendere qualsiasi
iniziativa, l’imperatore morì. La gente naturalmente sospettò che fosse
stato avvelenato da Agrippina, ma oggi è impossibile ricostruire la verità
sulla sua morte. Forse il decesso fu dovuto all’ingestione di funghi
velenosi (ma non avvelenati), oppure semplicemente a cause naturali.
Come che sia, Agrippina era pronta a porre suo figlio al centro della
scena. I pretoriani acclamarono Nerone imperatore, venendo da lui
ricompensati con generose somme di denaro. Il Senato si mostrò
disponibile ad assegnare a Nerone i poteri necessari e ricompensò
Agrippina con vari onori. Si aprì così una nuova era.
NERONE IL BUONO
In un primo momento, Roma accolse con favore il nuovo imperatore,
che aveva dalla sua anche la bellezza. Dopo l’anziano e malfermo
Claudio, arrivava ora un giovane nel pieno vigore. Inoltre, Nerone
poteva vantare una nobiltà di sangue ancora più elevata del suo
predecessore. Con lui, tornava al potere la dinastia di Augusto. E Nerone
era alla moda – lo fu sempre!
Aveva gli occhi azzurri, i capelli biondo chiaro e, a quanto si narra, un
volto dai tratti regolari ma non particolarmente aggraziato17. Certo, a
diciassette anni non ancora compiuti, Nerone era molto giovane, ma
talvolta i giovani capi hanno successo. Augusto aveva solo diciannove
anni quando entrò in politica, e giunse ai massimi livelli, e Alessandro
Magno era asceso al trono a soli vent’anni. Un governante dotato di
intelligenza, talento, buoni consiglieri e buon carattere, e che sia stato
formato con un’adeguata educazione, può riuscire anche a dispetto della
giovane età. Nerone, da parte sua, disponeva di consiglieri eccellenti.
Nessuno conosceva i retroscena della corte meglio di sua madre
Agrippina, mentre Burro garantiva l’appoggio dei pretoriani. Seneca, il
tutore di Nerone, che assunse il nuovo ruolo di consigliere
dell’imperatore, sosteneva che la clementia dovesse essere il segno
distintivo del regno del nuovo sovrano. Burro offriva il modello di un
severo uomo d’armi, mentre Seneca portava un contributo di eloquenza
e di dignità.
In un discorso al Senato, il nuovo imperatore promise di porre fine agli
abusi del passato e di restaurare il potere dell’assemblea. Si trattava di una
modesta concessione, più che di un grande cambiamento, ma era reale.
Nel primo quinquennio del suo regno, sotto la guida di Seneca e di
Burro, e grazie all’opera di convincimento della madre, Nerone
mantenne le proprie promesse e condivise il potere con i senatori; abolì
inoltre i processi a porte chiuse e limitò il potere dei suoi liberti.
Fin qui tutto bene, ma la situazione non era in realtà priva di problemi,
a cominciare dal carattere dello stesso Nerone, che era insicuro e
vanitoso. Ambiva ad essere popolare, e non tollerava rivali. Come dice
Svetonio, «sopra ogni altra cosa ricercava la popolarità e voleva
rivaleggiare con tutti coloro che per qualsiasi motivo godevano del favore
della folla»18.
Quando non riusciva ad ottenere quello che voleva, dava sfogo alla sua
vendetta. Orfano di padre e cresciuto in un’atmosfera di cospirazione e
morte, da una madre che agiva nell’ombra, il nuovo imperatore era
comprensibilmente ferito nell’animo. Era il frutto di una delle famiglie
più disfunzionali della storia. Ora sarebbe stata tutta Roma a doverne
pagare il prezzo.
Agrippina era fortemente determinata ad esercitare il potere. All’inizio
del regno di Nerone, aveva a sua disposizione delle guardie del corpo
germaniche, una propria unità di guardie pretoriane e due littori che la
accompagnavano in pubblico (Livia ne aveva avuto uno solo). In un
primo momento il giovane Nerone accettò tutto ciò. La parola d’ordine
che stabilì per i pretoriani era optima mater, con benevolo riferimento ad
Agrippina19. Nerone dette il suo consenso allo svolgimento delle sedute
del Senato nei locali del palazzo (un fatto senza precedenti), in modo che
la madre potesse osservare i lavori da dietro una tenda (fatto a maggior
ragione senza precedenti). Sulle monete, Agrippina veniva raffigurata di
fronte a Nerone, come se i due governassero assieme20. Presto, però,
Agrippina trovò degli ostacoli sul suo percorso. L’opinione pubblica
romana non avrebbe tollerato che una donna esercitasse apertamente un
potere eccessivo. Nel contempo, il giovanissimo Nerone odiava essere
criticato dalla madre per la propria mancanza di oculatezza nelle spese, e
si vendicò impedendole pubblicamente di prendere posto insieme a lui
sulla tribuna per ascoltare un’ambasciata straniera; lo fece con tatto,
aiutato da Seneca, ma uno sgarbo è pur sempre uno sgarbo. Agrippina, a
quanto si disse, era furibonda: poteva dare a suo figlio l’impero, ma non
poteva sopportare che fosse lui a governarlo21.
La Roma di Nerone è nota per essere stata un’era di spirito. La cosa
cominciò immediatamente dopo la morte di Claudio: Seneca parlò non
di una deificazione dell’imperatore defunto, bensì di una sua
«zucchificazione», utilizzando un oscuro gioco di parole per attaccarne la
figura con una feroce satira22. Il fratello di Seneca disse che Claudio era
stato innalzato fino al cielo da un gancio, volendo con ciò alludere al
modo con cui i boia trascinavano i corpi delle loro vittime fino al Tevere.
Infine, sembra che Nerone commentasse che i funghi sono il cibo degli
dèi, poiché Claudio era morto appunto dopo aver mangiato dei funghi e
poi era stato deificato23. Ma Agrippina sicuramente non trovò da ridere
nel veder sbeffeggiato in tal modo il suo defunto marito.
Il matrimonio di Nerone con la figlia di Claudio fu infelice. Lui si
innamorò di una liberta originaria dell’Asia Minore, tanto da perdere la
testa per lei e spingersi al punto di dire che avrebbe voluto sposarla.
Agrippina, inorridita, fece sapere al figlio come la pensava, ma lui non si
smosse, e rafforzò la propria posizione sbarazzandosi di un potente
liberto che era il più forte alleato su cui Agrippina potesse contare a corte.
A quanto pare, lei reagì minacciando Nerone. Gli fece presente quanti
altri discendenti del divino Augusto esistessero a Roma, per non parlare
del figlio di Claudio. E, tuttavia, probabilmente non prese in seria
considerazione la possibilità di spodestare Nerone. Poi, nel 55, il figlio di
Claudio ebbe un improvviso malore durante un banchetto a corte, e
morì di lì a poco. La dinamica dell’evento fa pensare a cause naturali, ma
all’epoca molte persone credettero che fosse stato avvelenato per ordine
di Nerone.
Nei quattro anni seguenti Agrippina venne tenuta a distanza dal potere,
anche se cercò di riacquistare la propria posizione. In questo periodo,
Nerone prese l’abitudine di fare delle scappatelle notturne assieme agli
amici per le strade di Roma. Passavano da una taverna a un bordello in
cerca di divertimenti e di guai, e si resero responsabili di risse ed
effrazioni. In queste occasioni l’imperatore indossava indumenti da
schiavo e una parrucca, per evitare di essere riconosciuto. Per quanto
disdicevole fosse, un comportamento del genere non era insolito per dei
giovani aristocratici romani, e nella maggior parte dei casi la gente era
disposta a tollerarlo. Ma era meno disposta al perdono quando Nerone
scatenava delle risse in teatro. Per riportare l’ordine, gli attori venivano
cacciati e si facevano intervenire i soldati.
Nel 59, a ventun anni, Nerone era pronto a calmarsi, ma prima decise
di liberarsi di sua madre. Amore, potere e controllo furono tutti elementi
che ebbero un peso nella sua motivazione ad agire così. È plausibile che
Agrippina si comportasse in maniera equivoca con Nerone; d’altro canto,
che i due avessero relazioni incestuose, come dicevano le voci, è meno
credibile, ma non lo si può escludere del tutto24. Quel che è chiaro è che
anche in questo caso essa espresse la propria disapprovazione per la vita
amorosa del figlio, stavolta riguardo alla sua nuova infatuazione.
Poppea Sabina era una donna adatta a un sovrano: ricca, intelligente e
ambiziosa. La sua famiglia proveniva da Pompei, dove possedeva almeno
cinque case, due delle quali di dimensioni grandiose. Probabilmente lei
stessa era nata lì. Era personalmente proprietaria di una fabbrica di
mattoni nelle vicinanze, oltre che di un’elegante villa sulla costa.
Il padre di Poppea, un cavaliere romano di nome Tito Ollio, era in fase
di ascesa all’interno del governo di Roma quando venne giustiziato dopo
la caduta di Seiano, per l’appoggio che aveva concesso al deposto
cospiratore. In seguito Poppea assunse il nome del nonno materno, Gaio
Poppeo Sabino, console e affermato governatore provinciale, in modo
che il suo nome non suscitasse associazioni con le colpe del padre. Si
sposò due volte. Il suo primo marito, con cui fece un figlio, era un
prefetto del pretorio. Dopo aver divorziato, sposò Marco Salvio Otone,
figlio di un console e membro del bel mondo romano. Quando catturò
l’attenzione di Nerone, questi inviò Otone a governare la Lusitania
(corrispondente approssimativamente all’odierno Portogallo), anche se si
trattava di un ventiseienne privo di esperienza.
Poppea aveva una mentalità sufficientemente aperta da interessarsi al
giudaismo, sebbene non si mostrasse propensa a una conversione. In
ogni caso, non fece certo un favore agli ebrei facendo pressioni perché
fosse nominato governatore della Giudea Gessio Floro, marito di una sua
amica. Il malgoverno di quest’ultimo fu all’origine della grande rivolta dei
giudei del 66. A Roma occorsero sette anni per riportare la pace in quei
territori, a prezzo di grandi costi e di una scia di morti e distruzioni da
entrambe le parti.
Poppea era una delle donne più belle dell’epoca. Non stupisce che il suo
personaggio sia stato interpretato al cinema da attrici come Claudette
Colbert e Brigitte Bardot. Nerone scrisse un componimento poetico sui
suoi capelli color ambra25. Si dice che ogni giorno facesse il bagno nel
latte munto da cinquecento asine per proteggere la sua pelle26, e ispirò
perfino, ai suoi giorni, un tipo di cosmetici che da lei prendeva il
nome27. Aveva sei anni in più di Nerone e, come lui, era sposata. Nerone
ne era profondamente innamorato. Alcuni affermano che fu lei a indurlo
a uccidere Agrippina.
Si può pensare che Nerone, a prescindere dalla propria vita amorosa,
avesse potuto temere la persistente influenza di Agrippina sulla guardia
pretoriana, sebbene difficilmente ciò potesse giustificare un omicidio.
Ma Nerone scelse, deliberatamente e consapevolmente, di uccidere sua
madre.
Il veleno era senz’altro da escludere: troppo sospetto, dopo le morti
improvvise di Claudio e di suo figlio; e inoltre Agrippina prendeva
troppi antidoti per proteggersi. Quanto alla guardia pretoriana, era
inaffidabile, e così per trovare un alleato Nerone si rivolse alla marina
romana. In una notte di primavera, nel Golfo di Napoli, fu messo in atto
un complotto. Dapprima Nerone invitò la madre a un banchetto presso
la propria villa sul golfo, per sanare i passati dissidi e ammorbidirne
l’atteggiamento. Poi progettò di farla affogare facendola salire su
un’imbarcazione costruita appositamente per affondare. Così, almeno,
dicono le fonti28. Più probabilmente, fu una nave da guerra a speronare
deliberatamente la nave su cui viaggiava. Come che sia, Agrippina cadde
in mare e rimase ferita, ma sopravvisse e poté essere riportata a riva.
Terrorizzato al pensiero della vendetta della madre, Nerone si rivolse a
Burro, il quale però gli rifiutò il proprio aiuto. La guardia pretoriana,
disse, non avrebbe mai colpito la figlia di Germanico. Nerone quindi si
rivolse nuovamente alla marina e spedì un distaccamento di marinai
all’inseguimento di Agrippina, affermando di avere scoperto che la
madre stava cercando di ucciderlo.
Quando i militari la raggiunsero, Agrippina non volle credere a quanto
asserivano, di essere stati mandati a ucciderla su ordine di Nerone, e
continuò a sostenere che suo figlio non avrebbe mai fatto una cosa del
genere. Ma quando la colpirono, si rese conto della verità. La storia narra
che si scoprì la pancia, indicò il ventre che aveva dato alla luce Nerone e
disse agli uomini di colpirla in quel punto29. Se Agrippina pronunciò
veramente quelle parole, è improbabile che ammettesse i propri errori di
madre che avevano reso Nerone il diavolo che era.
Fu il liberto di Nerone, prefetto della principale base navale della zona,
a uccidere Agrippina. In seguito Nerone avrebbe affermato che quel
giorno gli aveva consegnato il governo dell’impero30, ma che odiava
quell’uomo per aver ucciso sua madre; come scrive Tacito, «gli esecutori
di azioni delittuose sono sempre visti dai loro mandanti come dei
perenni accusatori»31. Volendosi sbarazzare di lui, Nerone lo utilizzò
dapprima per rendere falsa testimonianza su un’altra vicenda, poi lo
destinò a un confortevole esilio.
Anni più tardi, quando interpretava dei ruoli nelle tragedie greche,
Nerone includeva nel suo repertorio sia il personaggio di un uomo che
dormiva con la madre sia quello di un uomo che la uccideva. Una scelta
del genere potrebbe essere indicativa, secondo le fonti, del rimorso che
provava per il suo delitto32. Ma se fu così, all’epoca non lo dette a vedere.
Nerone, infatti, annunciò di avere sventato un complotto ordito da
Agrippina per ucciderlo. Seneca scrisse persino una lettera al Senato per
testimoniare della verità di quel pretesto. Qualsiasi cosa pensasse
effettivamente, la maggior parte delle persone accettò la scusa di Nerone.
Furono proclamati giorni di ringraziamento per la sua salvezza e celebrati
sacrifici perché tornasse sano e salvo a Roma dal Golfo di Napoli.
L’ARTISTA
Altri uomini furono imperatori; Nerone fu una celebrità. Infranse tutte
le regole, e ciò lo rese immortale.
Prese sul serio le sue responsabilità di governo, ma si considerò in
primo luogo e soprattutto un artista. Il canto era il suo forte, ma aveva
vasti interessi. Coniò le monete forse più raffinate di tutta la storia
dell’emissione della valuta romana. Finanziò la costruzione di splendidi
edifici. Che il merito spetti o meno a lui personalmente, durante il suo
regno la letteratura latina fiorì. Seneca scrisse dialoghi e lettere di
argomento filosofico, e anche tragedie. Suo nipote Lucano scrisse la
Farsaglia, un poema epico sulla guerra civile fra Gneo Pompeo e Giulio
Cesare. Lo scrittore Petronio pubblicò il Satyricon, un romanzo venato di
cupa ironia sulla decadenza dell’élite romana. Augusto comprese che uno
dei molti compiti di un imperatore consisteva nell’intrattenere il
pubblico, ma per Nerone questo divenne il compito. Se fosse vivo oggi,
sarebbe considerato un genio delle pubbliche relazioni, un gigante della
comunicazione.
Organizzare i giochi era un’incombenza seria per l’imperatore. Era
un’attività che rispondeva ai suoi interessi personali, ma rifletteva anche
le sue priorità politiche. Ogni imperatore sapeva che una parte del suo
lavoro consisteva nel servire il popolo di Roma. Nerone quel lavoro lo
svolse offrendogli spettacoli in grande stile, ma riteneva che a sua volta
l’intrattenimento avesse una funzione educativa. A suo modo di vedere,
con la propria opera stava innalzando il livello della società romana,
introducendovi elementi di cultura greca alla portata della gente comune
come il canto, la recitazione e gli esercizi fisici.
Inoltre, Nerone non limitò la sua generosità ai giochi e agli spettacoli: si
impegnò a distribuire cereali ed elargì anche donazioni in denaro ai suoi
concittadini. E comunque, i giochi erano un mezzo efficace per
raggiungere il popolo. Il Circo Massimo – utilizzato per le corse dei
cavalli –, l’anfiteatro e i tre grandi teatri della città contenevano nel
complesso oltre duecentomila persone, vale a dire un quinto della
popolazione urbana.
Giochi, corse e spettacoli costituivano occasioni speciali, con regole e
rituali ben definiti. Gli spettatori sedevano in settori divisi secondo il
rango sociale, con i senatori e i cavalieri nei posti centrali. Gli eventi che
si svolgevano in questi luoghi erano le uniche occasioni nelle quali i
romani si sentivano liberi di esprimere le loro opinioni all’imperatore.
Con i giochi l’élite romana aveva un rapporto di amore e odio. Li
trovava immorali e sediziosi, e tuttavia irresistibili. Nonostante tutte le
sanzioni contro questa pratica, senatori e cavalieri cominciarono ad
esibirsi in pubblico. Nerone fu il primo imperatore a farlo, e la sua
passione per le corse di carri era in effetti insolita per la nobiltà romana.
Alcuni patrizi aborrivano il suo comportamento, altri invece lo
approvavano, ma il popolo comune acclamava calorosamente e
applaudiva il suo imperatore che amava esibirsi. Per non lasciare niente al
caso, Nerone organizzava i suoi sostenitori, vale a dire migliaia di giovani
uomini, affinché alimentassero gli appalusi.
Per numero, novità e ricchezza, i giochi e gli spettacoli di Nerone
superarono qualsiasi altro evento del genere che Roma avesse conosciuto
fino a quel momento. Venivano finanziati rinfreschi e distribuiti regali al
pubblico, spesso preziosi, fra cui gioielli, cavalli, schiavi e case, tanto da
fare di Nerone l’equivalente, a dir poco, dei conduttori di una gara a
premi televisiva dei nostri tempi. La principale innovazione da lui
introdotta fu portare a Roma giochi di origine greca. Corse di carri, gare
di gladiatori e incontri di pugilato erano una presenza comune nei giochi
romani, ma Nerone voleva qualcosa di più. Come molti patrizi romani
era stato istruito nella cultura greca, ma si distingueva per la sua non
comune ammirazione per tutto ciò che era greco. Sapeva che fra i giochi
greci vi erano la corsa, la lotta, il salto in lungo e il lancio del disco e del
giavellotto, oltre che il pugilato e le corse equestri; in molti di questi
eventi i partecipanti erano nudi. Vi erano poi comprese competizioni
musicali. I nuovi giochi neroniani combinavano musica, atletica ed
eventi equestri, e si tenevano a cadenza quinquennale. Venivano chiamati
– e come, altrimenti? – Neronia.
Nerone amava cantare, accompagnandosi con la lira, e anche correre
con i carri. Praticava la lotta e forse progettò di gareggiare in questa
specialità. Era un bravo cantante? Sicuramente non era privo di talento
creativo. Copie di componimenti poetici scritti di suo pugno, con le sue
cancellature originali, gli sopravvissero per decenni, e un osservatore di
epoca successiva ne dette un giudizio positivo33. Quanto al canto, le fonti
contengono indicazioni discordanti, ma si può affermare con una certa
sicurezza che il suo limitato talento migliorò con l’esercizio34. Come
auriga, era pronto a tutto e audace. Oltre a cantare e a suonare la lira,
Nerone amava recitare nelle tragedie, interpretando ruoli che andavano
da quelli di Ercole o di Edipo a quello di una partoriente. Per recitare
quest’ultima parte, indossò una maschera somigliante alla moglie
scomparsa. Nei suoi ultimi anni si dette anche al ballo singolo, che i
romani chiamavano «pantomimo».
Nerone era famoso per gli elaborati ricevimenti che offriva al pubblico
in occasione dell’annuale celebrazione dei Saturnali, la festa invernale
romana che si teneva a dicembre. I festeggiamenti comprendevano
banchetti in costume a bordo di imbarcazioni nei laghi artificiali di
Roma ed esibizioni dell’imperatore, e vedevano l’estesa partecipazione
dei nobili, sia uomini sia donne, in un tripudio di rose – e di prostitute.
Prima della morte di Agrippina, Nerone cantava e gareggiava nelle
corse in privato. Subito dopo la sua morte nel 59, si esibì e gareggiò
davanti al popolo in quelli che tecnicamente erano eventi privati su
invito. Infine, nel 64, si esibì in pubblico prima a Napoli e poi a Roma.
Nel 66 Nerone si recò in Acaia, la provincia greca di Roma. Era sua
intenzione competere nei cinque grandi giochi, da Azio a Olimpia.
Normalmente quegli eventi si tenevano in anni diversi, ma Nerone aveva
ordinato che fossero ravvicinati in occasione della propria visita. Era la
prima volta, in ottocento anni di storia dei giochi olimpici, che essi
subivano una modifica del calendario. Nerone prese parte a quattro
diversi tipi di gare: cantò accompagnandosi con la lira; recitò in
rappresentazioni tragiche; gareggiò nelle corse di carri; partecipò alle gare
per gli araldi. Nessuno si sorprese che venisse dichiarato vincitore di ogni
competizione a cui prese parte. Fra queste vi fu la corsa dei carri a dieci
cavalli, specialità impegnativa e pericolosa durante la quale l’imperatore
cadde e per poco non venne travolto. Ma poi riprese la gara e la vinse.
Diversamente da Augusto, che condusse eserciti e percorse territori
delle province, Nerone compì un unico viaggio fuori dell’Italia. La visita
in Acaia fu dovuta a uno sfizio personale, in quanto inusuale. Come
chiunque si ritenga un attore, Nerone si concentrò sul palcoscenico, e
quello principale era naturalmente Roma. Così, come un pezzo grosso
della vecchia scuola di Hollywood che non lasciava mai la California,
Nerone rimase sempre vicino a casa. A parte l’Acaia, le province ebbero
di che soffrire. L’imperatore le trattava come una banca da cui attingere
fondi quando il governo aveva bisogno di soldi, e alla fine si ribellarono.
Nel 66, mentre Nerone si trovava in Acaia, scoppiò una grande rivolta
in Giudea. Quando fu raggiunto dalla notizia, l’imperatore inviò sul
posto a sedarla uno dei pochi generali di cui ancora si fidava. Fu una
saggia decisione, ma Nerone avrebbe potuto evitare la rivolta, soprattutto
se avesse scelto un governatore migliore. In Giudea, e altrove, aveva
nominato come governatori troppi uomini impreparati a ricoprire quel
ruolo; furono loro a provocare la rivolta in Giudea, così come quella
precedente in Britannia. Per sua fortuna i generali repressero la rivolta
britannica. Anche in Oriente riuscirono a concludere un compromesso
di pace con la Partia sull’Armenia, ex Stato satellite di Roma, e Nerone la
definì giustamente una vittoria.
Una volta tornato in Italia, tuttavia, l’imperatore dovette affrontare
problemi crescenti. Dedicò troppo tempo alle sue rappresentazioni e non
abbastanza al governo dello Stato. Il Senato complottava, e in Occidente
scoppiò una rivolta di grandi dimensioni contro di lui, cui reagì
consultando il proprio maestro di canto. I suoi tentativi di riprendere il
controllo della situazione furono deboli e vani. Nerone non suonò la lira
mentre Roma bruciava, ma certamente suonò mentre avrebbe dovuto
governare.
IL TIRANNO
Seneca e Burro volevano che Nerone governasse come un civilis princeps,
che si mostrasse rispettoso del Senato e, almeno formalmente, delle
vecchie forme costituzionali repubblicane35. Non che i due fossero
repubblicani: Seneca, ad esempio, scrisse che solo la bontà del sovrano
proteggeva la libertà36; il Senato non aveva più il potere di farlo. Dopo la
morte di Agrippina, però, la bontà di Nerone non era più un fatto
scontato. Seneca e Burro persero gradualmente la loro influenza. Nel 62
Burro morì, probabilmente per cause naturali. Quanto a Seneca, andò in
pensione.
Quell’anno costituì un punto di svolta nella storia del regno. Venne
nominato un nuovo prefetto del pretorio, che fomentò i peggiori impulsi
di Nerone, a quanto pare col sostegno di Poppea. Di lì a poco
l’imperatore avrebbe mandato in esilio un uomo di spicco
semplicemente perché nel suo albero genealogico compariva uno degli
assassini di Giulio Cesare.
Nerone fu molto meno tollerante nei confronti di chi scriveva o parlava
di lui con qualche accento critico. Rimise in vigore l’accusa di
tradimento che aveva promesso di non utilizzare, e nel 62, per la prima
volta, fece giustiziare i nemici che aveva in Senato. Quando il prefetto lo
convinse a ordinare l’esecuzione di due uomini di nobile lignaggio, si
dice che l’imperatore facesse dell’ironia sulle teste che gli furono poi
portate. Della prima disse che aveva una precoce canizie. Quando vide
l’altra, esclamò: «Perché, o Nerone, avevi paura di quest’uomo dal grosso
naso?»37.
Quello stesso anno, finalmente Nerone divorziò dalla figlia di Claudio.
Prima di avere l’ardire di mettersi contro una persona così stimata, aveva
atteso di potersi sbarazzare dei suoi principali oppositori politici.
Accusata falsamente la sua ex moglie di adulterio, la costrinse all’esilio
sulla brulla isola di Pandataria e poi la fece uccidere. In seguito Tacito
avrebbe commentato che per Ottavia il giorno delle nozze non era stato
meno luttuoso del suo funerale38.
Non molto tempo dopo, finalmente, l’imperatore sposò Poppea.
Mantenne la calma quando la figlia che gli dette morì neonata; poi, però,
nel 65, in un accesso d’ira, pare che l’avesse presa a calci, anche se a quel
tempo era di nuovo incinta, uccidendola39. Si diceva che Poppea avesse
pregato di morire giovane, prima di perdere la sua beltà, e così il suo
desiderio venne esaudito40.
È difficile credere che col suo riprovevole comportamento Nerone
mirasse a un esito così terribile. Come sempre, tuttavia, mise in piedi
uno spettacolo. Fece celebrare per la moglie un funerale pubblico,
durante il quale fu bruciata un’enorme quantità di incenso arabo41. Il
corpo di Poppea venne riempito di spezie e imbalsamato, per poi essere
deposto nel mausoleo di Augusto42. Venne, infine, divinizzata e in suo
onore fu eretto un santuario. Tutto ciò comportò una spesa non
indifferente per lo Stato romano. Prima che fosse passato un anno dalla
morte di Poppea, Nerone sposò una nobildonna romana, dopo averne
costretto il marito, all’epoca console, a suicidarsi facendo circolare
un’accusa di complotto a suo carico.
Il clima di ribellione per il comportamento tirannico di un imperatore
che si faceva sempre più violento e spietato si esacerbò. Un anno dopo
l’incendio, nel 65, Nerone scoprì una vasta cospirazione capeggiata da un
importante senatore, che mirava a deporlo e a sostituirlo. Vi erano
coinvolte almeno quarantuno persone, fra le quali diciannove senatori. In
Senato erano pochi coloro che volevano abolire la monarchia:
intendevano semplicemente riportarla sotto controllo. Solo alcuni tra i
senatori immaginavano un ritorno alla repubblica. Volevano il rispetto
dello Stato di diritto e della libertà di parola, una maggiore dignità per il
Senato e una più ampia libertà di azione per i magistrati, il tutto sotto il
governo di un principe illuminato.
In una prima fase il Senato era stato disponibile a cooperare con
Nerone, ma alla fine divenne chiaro che collaborare con lui, in realtà, era
impossibile. Per un senatore, come per qualsiasi romano, una cosa era
rinunciare alla propria indipendenza in cambio della garanzia della pace e
della sicurezza, com’era avvenuto sotto Tiberio; tutt’altra cosa era
abdicare al proprio onore e alla propria dignità a favore di un
comportamento deplorevole del sovrano. Uno dei cospiratori, un
ufficiale della guardia pretoriana, espresse probabilmente l’opinione di
molti altri quando disse, rivolgendosi a Nerone: «Nessun soldato ti fu
più fedele di me, finché meritasti di essere amato. Ho cominciato a
odiarti dopo che diventasti assassino di tua madre e di tua moglie, auriga,
istrione e incendiario»43.
La più famosa vittima del contrattacco di Nerone nei confronti dei
cospiratori fu il suo ex mentore, Seneca. Sebbene probabilmente non
fosse coinvolto nella congiura, gli fu imposto di suicidarsi. Lo fece
tagliandosi le vene dei polsi, il modo di togliersi la vita più comune a
Roma, ma l’emorragia fu lenta e penosa. Alla fine, dopo un’udienza a cui
presero parte molti suoi amici, Seneca si soffocò nei vapori di un bagno
caldo. Come Agrippina, cadde vittima del mostro che aveva contribuito
a creare.
I romani nutrivano sentimenti contrastanti nei confronti del suicidio.
Lo approvavano quando era deliberato, come nel caso di una reazione per
motivi di disonore o di un atto di sacrificio personale. Lo condannavano
invece quando era conseguente a un atto impulsivo. Il giudizio
dipendeva inoltre dal metodo seguito. Biasimavano ad esempio chi si
impiccava o chi si gettava da un luogo elevato, ritenendolo vigliacco, e
ammiravano invece chi si toglieva la vita con un’arma, come nel caso di
Seneca.
Questi aveva una cosa in comune con i cospiratori: come quasi tutti
loro era un seguace dello stoicismo. Questa scuola di pensiero, nata
secolo prima in Grecia, diventò la filosofia preferita dell’élite romana. Era
pragmatica e animata da senso civico, ma anche coerente con i
tradizionali valori romani. Gli stoici attribuivano grande importanza alle
quattro virtù cardinali: giustizia, coraggio, temperanza e saggezza pratica;
insegnavano, inoltre, un comportamento austero e l’autocontrollo.
Poiché tradizionalmente i romani si facevano vanto della propria
semplicità e del proprio rigore, attribuivano valore al servizio pubblico e
alla saggezza pratica, tenevano in grande stima l’onore e perseguivano il
coraggio, trovarono nello stoicismo una filosofia compatibile con questi
atteggiamenti.
Sebbene alcuni stoici volessero ritornare alla vecchia repubblica, nella
maggior parte dei casi accettavano la monarchia. Sostenevano, però, che
il sovrano dovesse essere moderato, saggio, rispettoso della legge e
garbato. Aborrivano la tirannia. E, naturalmente, entrarono in conflitto
con Nerone.
Nel 65 lo stoico più influente dell’epoca, Musonio Rufo, riuscì a
cavarsela con l’esilio, mentre altri persero la vita; ma si trattava del suo
secondo esilio sotto Nerone, e in seguito sarebbe stato allontanato per la
terza volta sotto un altro imperatore, prima di fare finalmente ritorno a
Roma. Sebbene non si sappia niente dei suoi scritti, le sue conferenze
erano famose, come fu testimoniato da altri che le citarono spesso. Il suo
spirito e la sua saggezza gli valsero il titolo di «Socrate romano». Era
solito dire ad esempio che gli applausi erano adatti ai flautisti, non ai
filosofi. Il filosofo più ammirevole, diceva, era quello le cui conferenze
suscitavano silenzio, non altre parole44. Musonio lasciò un’impronta
decisiva, influenzando diverse fra le più autorevoli generazioni di
politici, filosofi e comandanti militari del mondo romano.
Nerone non aveva posto fine ai suoi atti sanguinari. Nel 67 ordinò la
morte del miglior generale di cui disponeva, Gneo Domizio Corbulone.
Questi era un uomo di grande talento e popolare, e ciò bastava perché
Nerone non si fidasse di lui. Inoltre, il genero di Corbulone aveva preso
parte a un complotto contro l’imperatore. Così, Nerone ordinò di
mettere a morte il suo generale, il quale, appresa la notizia, si uccise
trafiggendosi con la propria spada. La sua ultima parola fu Axios! («Me lo
sono meritato!»)45, un termine greco usato nelle gare di atletica per
inneggiare al vincitore. Sembra che si trattasse di un’amara ironia, e
alcuni pensano che Corbulone intendesse dire che era stato uno sciocco a
non aver ucciso Nerone quando ne aveva avuta la possibilità.
Se Nerone pensava di essere più sicuro dopo la morte di Corbulone, si
sbagliava. Quella uccisione fu come un messaggio inviato agli altri
comandanti per avvertirli che i prossimi avrebbero potuto essere loro.
Infatti, Nerone fece giustiziare anche due fratelli che avevano abilmente
esercitato il comando sulla frontiera germanica. Prima o poi, uno dei
generali di Nerone avrebbe deciso di colpire per primo.
IL PERSECUTORE
Dopo il Grande Incendio, Nerone organizzò uno spettacolo privato nei
suoi giardini. Per sviare l’accusa di aver dato avvio alle fiamme, gettò la
colpa su una setta religiosa impopolare e relativamente recente, quella
cristiana46.
Il cristianesimo esisteva a quell’epoca da quasi trentacinque anni. Era
nato in Galilea, con la vita e la morte di Gesù di Nazareth. La sua
predicazione in Galilea aveva attirato un gran numero di seguaci grazie
all’importanza che attribuiva a valori quali la bontà, l’umiltà, la carità e la
preghiera. A generare il loro entusiasmo fu l’idea che l’avvento del Regno
di Dio, per il quale molti pregavano, era già iniziato. Alla fine Gesù
raggiunse la capitale Gerusalemme, dove le folle di persone entusiaste che
lo seguivano suscitarono allarme fra le autorità ebraiche come fra quelle
romane. Venne condannato e crocifisso intorno all’anno 30, durante il
regno di Tiberio.
Galvanizzati dalla convinzione che Gesù fosse resuscitato, i suoi seguaci
diffusero la nuova fede dapprima in Palestina, poi nel mondo
mediterraneo. Le prime Chiese furono comunità di fede e carità, isole in
un mondo spesso ostile. Grazie all’opera missionaria, nella stessa Roma si
sviluppò una piccola comunità cristiana.
Le autorità guardavano ai cristiani con disprezzo, e forse li temevano. I
romani erano diffidenti verso le innovazioni, e sospettosi nei confronti
delle persone che si riunivano per scopi che le autorità non conoscevano
né erano in grado di controllare. Gli intellettuali legati all’élite che
scrissero varie generazioni dopo fecero riferimento ai primi cristiani
come a un «genere di individui dediti a una nuova malefica
superstizione»47, che «si erano resi odiosi per le loro nefandezze»48. Forse
esisteva una comunità cristiana vicino al luogo da cui partirono le fiamme
del Grande Incendio. È possibile, inoltre, che dopo la catastrofe alcuni
cristiani affermassero apertamente che Roma era stata in tal modo punita
per i suoi peccati. Fu così che i cristiani poterono essere usati come capri
espiatori per un crimine del quale sicuramente non avevano colpa.
Secondo Tacito, Nerone punì i colpevoli non tanto per aver provocato
l’incendio – reato che si presume essi avessero confessato –, quanto per il
loro «odio per il genere umano»49. Da buon impresario qual era, Nerone
trasformò la loro esecuzione in uno spettacolo terrificante. La scena fu
ambientata a quanto pare nelle sue proprietà oltre il Tevere, nel territorio
vaticano dov’era situato un circo. Ai romani piaceva recitare scene tratte
dalla mitologia, motivo per cui, forse, alcune delle vittime indossavano
pelli di animali e furono fatte sbranare dai cani, in una teatralizzazione del
mito che narra di un cacciatore che viene trasformato in cervo e ucciso
dai suoi cani arrabbiati. Altri furono crocifissi o arsi vivi di notte, e usati
come torce umane. Nerone stesso prese parte agli eventi vestito da
auriga. Sceso dal carro, si mescolò alla folla degli spettatori. Tacito
commenta sarcasticamente che la sua semplice presenza suscitò un moto
di compassione per le vittime50. Secondo la tradizione cristiana, fra le
vittime delle persecuzioni successive al Grande Incendio vi furono anche
due degli apostoli e primi missionari della Chiesa, i santi Pietro e Paolo.
La circostanza, tuttavia, non può essere provata.
Per quale motivo Nerone perseguitò i cristiani? Erano un bersaglio
adatto, facilmente raggiungibile e impopolare. Forse però, in certa
misura, egli scorse in loro una minaccia più profonda. Come lui,
rappresentavano una risposta forte a una crisi della cultura romana. Ai
tempi di Nerone, la virilità dei romani sembrava essersi infiacchita sotto
la monarchia. Nella repubblica, la libertà e il militarismo avevano
occupato una posizione di primo piano nella cultura romana, ma le
elezioni libere e i conquistatori indipendenti erano ormai cose del
passato. Privati ormai in gran parte dei precedenti sfoghi nel Foro o sul
campo di battaglia, i romani cominciarono a guardare dentro sé stessi. Gli
scritti di Seneca sono un’eloquente testimonianza di questo sviluppo. La
Roma di Nerone era ricca, e nessuno lo sapeva meglio di lui. Tuttavia, al
di sotto dell’opulenza c’era il vuoto. Seneca e gli stoici vedevano la
soluzione di questo stato di cose nella pace interiore.
Nerone, naturalmente, propose una strada diversa, offrendo forme
d’intrattenimento sempre più numerose, spettacolari e scioccanti, e più
scandalose. Ma né il cibo, né le bevande, né il sesso potevano parlare ai
bisogni dell’animo com’era in grado di fare la religione. Forse Nerone
vide nei cristiani una sfida che non poteva vincere, e quindi tentò di
distruggerli.
IL CALCESTRUZZO
La figura di Nerone può essere riassunta da alcuni termini comuni, come
arte, lusso, irresponsabilità e tirannia, ma a ciò occorrerebbe aggiungere una
parola meno spettacolare ancorché altrettanto significativa: calcestruzzo.
Era un’eredità decisiva.
Il calcestruzzo romano era composto da una miscela di sabbia vulcanica,
calce viva e pezzi scelti di macerie (pietre e frammenti di mattoni). Era
un materiale versatile, flessibile ed economico. Nonostante l’aspetto
inanimato e poroso, fu come la polvere magica di un folletto che
produsse una rivoluzione nell’architettura51. Consentì a Roma di liberarsi
dei pali e degli architravi dell’architettura di derivazione greca e di
crearne una propria. Il calcestruzzo rese possibile costruire le volte e le
cupole destinate a diventare gli emblemi dell’architettura imperiale
romana. Quello che il marmo fu per la Grecia, la cupola di calcestruzzo
fu per Roma.
E non solo per Roma. L’elegante cupola divenne in seguito il simbolo
del potere e della gloria, e da allora è rimasta tale, in contesti sia laici sia
religiosi, conoscendo cambiamenti e miglioramenti periodici. Dai
romani, la cupola passò ai bizantini, i quali a loro volta la trasmisero alla
cristianità occidentale; sarà poi utilizata anche in ambienti laici come il
Campidoglio degli Stati Uniti. La cupola bizantina, assieme a quelle
persiane, influenzò anche l’architettura islamica. Tutto questo processo
può essere fatto risalire fino a Nerone.
Il suo magistrale uso del calcestruzzo emerge chiaramente in una piccola
e sofisticata sala. Oggi è sepolta sotto uno dei colli di Roma, ma in
origine si ergeva all’aperto sulla collina, come un monumento alla
maestria dell’arte architettonica era di forma ottagonale e aveva un soffitto
a cupola, con un’apertura a «occhio di bue» per far filtrare la luce.
Assieme alla serie di stanze che la contornavano, rappresentava una
rivoluzione architettonica. Fu il fiore all’occhiello della corona nel quadro
del nuovo programma di costruzioni lanciato da Nerone dopo il Grande
Incendio: una serie di interventi che, fra le altre cose, allargarono strade,
bandirono i muri divisori e posero sotto controllo il livello dell’acqua
negli acquedotti.
Dapprima Nerone sgombrò un centinaio di ettari di terreno nel centro
di Roma da importanti edifici, per costruire un nuovo palazzo che fu
chiamato Domus Aurea, ma che in realtà era composto da un complesso
di strutture diverse. Utilizzando i migliori architetti e ingegneri
dell’epoca, l’imperatore creò un’opera elegante, opulenta, dal carattere
radicale ed enormemente influente. A livello più pratico, le volte in
calcestruzzo, di cui egli promosse la costruzione, erano più resistenti alle
fiamme rispetto ai tetti in legno.
La Domus Aurea si adagiava sui pendii collinari affacciati sulla valle
dove oggi è collocato il Colosseo (che sarebbe stato costruito di lì a
poco). Gli elementi fondamentali erano costituiti da uno stagno artificiale
a valle, da un enorme vestibolo sul colle a occidente del Colosseo, di
dimensioni tali da contenere una statua bronzea di Nerone alta una
quarantina di metri, da uno splendido ninfeo sul colle a sud-est e da un
palazzo e probabilmente vi erano altri edifici termali sul colle a nord-est.
La costruzione offriva un’architettura innovativa, decorata con sofisticati
dipinti murali e mosaici. Era impressionante come una scenografia, con
ampie vedute sulla valle e sui colli. La sala ottagonale sormontata dalla
cupola sorgeva in quel luogo.
Quando costruì la Domus Aurea, Nerone proclamò che finalmente
avrebbe potuto vivere come un essere umano52. Sicuramente progettò di
condividere quel nuovo stile di vita con gli abitanti della città, invitandoli
di quando in quando agli eventi che si svolgevano sullo specchio d’acqua
o a passeggiare nel parco. Riferendosi forse al palazzo, Tacito scrisse che
Nerone trattò la città intera come se fosse casa sua53.
LA MORTE
Fantasia e decadenza segnarono gli ultimi anni di Nerone. Sebbene molti
lo considerassero una disgrazia, non fu l’onore ferito di Roma ad
abbattere Nerone. Solo quando operò in modo tale da far temere ai suoi
concittadini per le loro proprietà e le loro vite, essi passarono all’azione. I
progetti edilizi neroniani, i costosissimi giochi e i generosi doni al
popolo e ai soldati pesavano sulle finanze dello Stato, così come i costi
della ricostruzione successiva al Grande Incendio e quelli delle guerre in
Armenia, Britannia e Giudea. Per sostenerli, Nerone deprezzò la valuta.
Il tenore in argento delle monete diminuì di circa il 10%, ma ciò non fu
sufficiente. Qualcuno doveva pagare. Sebbene la maggior parte della
gente comune continuasse ad adorare Nerone anche dopo il Grande
Incendio, il suo viaggio di un anno e mezzo in Acaia, gran parte del
quale dedicato a un tour artistico, fu un atto di spavalderia e di
incompetenza, soprattutto perché fece montare il malcontento fra le élites
più influenti. Nel frattempo, l’imperatore trovò modo di fare qualcosa
che disgustò i suoi oppositori. Ancora in lutto per Poppea, incontrò un
giovane liberto che le somigliava. Lo costrinse a vestire come lei, poi lo
fece evirare e, infine, durante il suo viaggio in Grecia, lo sposò. In
precedenza, nel contesto di una festa a Roma, Nerone aveva già sposato
un altro liberto. In termini moderni, Nerone era principalmente
eterosessuale, e per tutto questo tempo rimase sposato con la sua terza
moglie. Uno o entrambi i suoi matrimoni con quei giovani uomini
furono probabilmente una parodia, e ciò nondimeno la vicenda scioccò i
contemporanei.
Nei suoi ultimi anni Nerone declinò la proposta di costruire a Roma
un tempio consacrato alla sua divinità, perché venerare un imperatore
ancora in vita come un dio era non solo un cattivo costume, ma anche
foriero di sfortuna. Fu contento, tuttavia, di modificare il nome del mese
di aprile in Neroneus, e progettò di imporre a Roma il nome Neropolis,
di radice greca, il che avrebbe costituito un triplice insulto ai
tradizionalisti. Quel termine avrebbe cancellato il nome che la città aveva
preso da Romolo, il leggendario personaggio che i romani credevano
avesse fondato la loro città nel 753 a.C., sostituendolo con un vocabolo
straniero in modo arrogante e rivoluzionario.
A quell’epoca Nerone, il quasi dio, era fisicamente invecchiato. Aveva
il collo rigido, il ventre prominente e le gambe sottili, aspetti poco
gradevoli che venivano accentuati dalla sua altezza media. Nerone ormai
non era più il giovane principe di un tempo.
Alla fine del suo regno, perse l’appoggio della Roma che contava. Una
provincia, la Giudea, era in rivolta. Altre erano inquiete per dover
sostenere i costi delle spese di Nerone. I suoi generali non si fidavano più
di un imperatore che ricompensava il successo dei suoi soldati
giustiziandoli. Quando i generali hanno paura, i soldati si mettono in
marcia. Nella primavera del 68 arrivarono cattive notizie da Occidente:
una ribellione dei popoli della Gallia capeggiata da un nobile locale che
era il governatore della Gallia Lugdunensis (Francia centrale e
occidentale). Sebbene truppe leali provenienti dalla Germania fossero
riuscite a sedare la rivolta, presto circolarono notizie di ulteriori tumulti.
Il governatore della Hispania Tarraconensis (approssimativamente
corrispondente alla Spagna mediterranea) venne acclamato imperatore dai
suoi soldati. Prudentemente lasciò che fosse il Senato a decidere. Si
trattava di Servio Sulpicio Galba, un ricco ed eminente nobile romano, il
quale aveva i contatti, la reputazione e le truppe sufficienti a dare avvio a
una seria ribellione. Fra l’altro, negli anni precedenti era stato uno dei
favoriti della corte di Livia.
Sembra che alla fine Nerone si fosse ritirato nelle sue fantasie. Andava
parlando di riconquistare la Gallia recandovisi di persona per cantare alle
truppe. Poi disse che si sarebbe trasferito ad Alessandria per diventare un
cantante professionista. L’8 giugno il Senato lo dichiarò un nemico
pubblico. La guardia pretoriana lo abbandonò.
Nerone fuggì da Roma. Il giorno seguente, il 9 giugno, abbandonato
da tutti, ad eccezione dei suoi più tenaci fedeli, si suicidò poco fuori
città. Mentre si stava preparando a togliersi la vita, l’uomo che un tempo
aveva sovrinteso alla ricostruzione di Roma mandò alcuni compagni a
preparare una pira funeraria e a scavare una fossa nella quale seppellire le
sue ceneri. Si narra che mentre si preparava alla fine disse: «Quale artista
muore!»54. Se davvero pronunciò queste parole, il loro significato
potrebbe essere diverso da quello apparente. Il termine latino per
designare un artista può significare anche artigiano. Forse quel che
davvero Nerone intese dire non si riferiva al fatto di essere ancora un
grande artista, quanto semmai che il grande artista di un tempo era adesso
ridotto a dare istruzioni a dei servi. Se è così, non avrebbe dovuto
preoccuparsi, poiché le sue ceneri furono prese dalla sua fedele
infermiera e portate in un luogo più dignitoso, anche se non certo in
quello che un imperatore avrebbe desiderato. Nerone fu il primo e
l’unico membro della famiglia imperiale al quale venisse negata la
sepoltura nel mausoleo di Augusto. Le sue ceneri furono infatti collocate
in una tomba posta nella cripta della famiglia del suo padre naturale sul
Pincio, fuori dalle mura cittadine. Nerone era entrato in carica fra gli
applausi e usciva di scena da indesiderato, nella tomba della sua dinastia.
Nel frattempo, a Galba giunse la notizia che Nerone era morto, e che sia
il Senato sia i pretoriani lo avevano acclamato imperatore. A quel punto
marciò su Roma. Avrebbe regnato solo per sette mesi.
1
Tacito, Annali XV.39. Nelle fonti antiche si trovano molte altre descrizioni analoghe, con la
differenza che in ogni caso si parla del comportamento di Nerone come di un fatto, e non
come del frutto di una semplice voce. Si vedano: Svetonio, Nerone XXXVIII; Cassio Dione,
Storia romana LXII.18.1; Plinio il Vecchio, Storia naturale XVII.1.5.
2
Svetonio, Caligola XXIV.1.
3
Ivi, LV.3.
4
Ivi, XXIX.
5
Ivi, XXXVII.
6
Ivi, XXX.2.
7
Museo del Louvre (Parigi), MR 280.
8
Giovenale, Satire, II.VI.118.
9
Ivi, II.VI.123 (Lycisca).
10
Plinio il Vecchio, Storia naturale X.83.
11
Museo Centrale Montemartini (Roma), inv. MC 1882; Ny Carlsberg Glyptotek
(Copenaghen), inv. 753.
12
Cassio Dione, Storia romana LXI.2.
13
Svetonio, Caligola LIII.2.
14
Seneca, De beneficiis II.12.
15
Ivi, IV.31.
16
Cassio Dione, Storia romana LX.80.5.
17
Svetonio, Nerone LI.1.
18
Ivi, LIII.
19
Tacito, Annali XIII.2; Svetonio, Nerone IX.
20
Si veda, ad esempio, RIC I (second edition) Nero 1
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.1(2).ner.1).
21
Tacito, Annali XII.64.
22
Il gioco di parole suona meglio in greco, dove apothèosis sta per deificazione e
zucchificazione diventa apokolokỳntosis, ma anche in questo caso il significato non è chiaro.
23
Cassio Dione, Storia romana LX.35.
24
Tacito, Annali XIV.2; Svetonio, Nerone XXVIII.2; Cassio Dione, Storia romana LXI.11.3-4.
25
Plinio il Vecchio, Storia naturale XXXVII.12.
26
Ivi, XXVIII.182-183; Cassio Dione, Storia romana LXII.28.1.
27
Giovenale, Satire II.VI.462.
28
Tacito, Annali XIV.3-7; Cassio Dione, Storia romana LXII.12-13; Svetonio, Nerone
XXXIV.2-3; cfr. Anthony A. Barrett, Agrippina: Sex, Power, and Politics in the Early Empire,
Yale University Press, New Haven (CT) 1996, pp. 187-188.
29
Tacito, Annali XIV.8; Cassio Dione, Storia romana LXII.13.5.
30
Tacito, Annali XIV.7.
31
Ivi, XIV.62.
32
Si veda Edward Champlin, Nero, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge
(MA) 2003, pp. 96-103.
33
Svetonio, Nerone LII.
34
Si veda Champlin, Nero cit., p. 283 n.
35
Sul concetto di civilis princeps si veda Andrew Wallace-Hadrill, Civilis Princeps: Between
Citizen and King, in «Journal of Roman Studies», LXXII (1982), pp. 32-48.
36
Seneca, De clementia I.1.
37
Tacito, Annali XIV.57 e XIV.59; Cassio Dione, Storia romana LXII.14.1.
38
Tacito, Annali XIV.63.3.
39
Ivi, XVI.6; Svetonio, Nerone XXXV.3; Cassio Dione, Storia romana LXII.28.1.
40
Cassio Dione, Storia romana LXII.28.1.
41
Plinio il Vecchio, Storia naturale XII.83.
42
Tacito, Annali XVI.6.2-3
43
Ivi, XV.67 (nel testo si afferma che le sue parole sono riportate alla lettera).
44
Musonio Rufo, fr. 49: si veda Cora Elizabeth Lutz, Musonius Rufus: «The Roman Socrates»,
Yale University Press, New Haven (CT) 1947, p. 143.
45
Cassio Dione, Storia romana LXIII.17.5-6.
46
Di recente è sorta una discussione accademica sulla fondatezza storica della persecuzione
operata da Nerone a danno dei cristiani. Brent Shaw si oppone con decisione alla veridicità
delle ipotesi tradizionali, ma a mio personale avviso Christopher Jones ha portato argomenti
convincenti in senso contrario. Si vedano: Brent Shaw, The Myth of the Neronian Persecution, in
«The Journal of Roman Studies», CV (2015), pp. 73-100; Christopher P. Jones, The Historicity
of the Neronian Persecution: A Response to Brent Shaw, in «New Testament Studies», LXIII
(2017), pp. 146-152.
47
Svetonio, Nerone XVI.2.
48
Tacito, Annali XV.44.2.
49
Ivi, XV.44.4.
50
Ivi, XV.44.5.
51
Iosif Brodskij, Ode to Concrete, in Id., So Forth: Poems, Farrar, Straus and Giroux, New York
1996, p. 116 (trad. it. di Matteo Campagnoli e Anna Raffetto, E così via, Adelphi, Milano
2017).
52
Svetonio, Nerone XXI.
53
Tacito, Annali XV.37.1.
54
Svetonio, Nerone XLIX; Cassio Dione, Storia romana LXIII.29.2; cfr. Champlin, Nero cit.,
pp. 49-51.
Vespasiano
4
Vespasiano,
il cittadino comune
MUCIANO
Il primo era Gaio Licinio Muciano, governatore della Siria. Come
Vespasiano, aveva fatto una prestigiosa carriera pubblica. Tacito dice che
Vespasiano era un soldato nato, ma avido, mentre Muciano era generoso,
uno splendido oratore e un politico intelligente, ma aveva una «cattiva
reputazione» a causa della sua «vita privata»17. Si tratta probabilmente di
un modo gentile per dire che Muciano era non solo omosessuale, cosa
che i romani tolleravano, ma un partner passivo, aspetto sul quale invece
il loro atteggiamento era diverso. Parlando in privato con un amico, una
volta lo stesso Vespasiano liquidò Muciano con un commento tagliente
riguardo a quella che Svetonio definisce la sua «impudicizia notoria»,
brontolando: «Io, però, sono un maschio»18.
Nonostante questi commenti denigratori, Muciano avrebbe potuto
senz’altro avanzare la propria candidatura a imperatore. Dopotutto era
governatore della Siria, e controllava quattro legioni, mentre Vespasiano
ne aveva solo tre. Scelse, però, di sostenere Vespasiano, il più esperto
generale dell’esercito romano, che si era guadagnato onori trionfali per il
successo riportato in Britannia e aveva la fama di essere un uomo vigile,
parsimonioso e dotato di buon senso. Muciano stesso lo affermò in un
discorso attribuitogli da Tacito19. A quell’epoca Vespasiano comandava
un esercito che stava attivamente combattendo e vincendo in Giudea in
una campagna che rafforzò ulteriormente la sua reputazione di uomo
virile agli occhi dei romani20. Ancor più importante fu il fatto che i suoi
uomini lo amavano per le vittorie riportate, per le buone paghe e le
rapide promozioni che elargiva. Muciano poteva accontentarsi di
esercitare un enorme potere dietro le quinte21. O forse non prese mai
realmente in considerazione la prospettiva di assumersi gli oneri e i
pericoli della guida dello Stato. Tacito riteneva che fosse «individuo a cui
poteva risultar più agevole procurare ad altri che non lui stesso occupare
l’impero»22.
Poi c’era Tito, che ricopriva ruoli chiave sia nella sfera pubblica, sia in
particolare nei confronti di Muciano. Come Vespasiano, Tito era un
buon comandante che si era guadagnato l’amore dei suoi soldati, ma
aveva un tocco di classe che al padre mancava, perché il ragazzo era
cresciuto all’interno della corte imperiale. Sebbene di statura bassa e
panciuto, era bello, forte, intelligente, molto dotato per le lingue e
perfino un discreto poeta e cantante. Aveva, poi, la rara capacità di
conquistarsi l’affetto praticamente di chiunque. Sebbene avesse una
passione per le donne, si contornava di una schiera di bei giovanetti e di
eunuchi, cosa che almeno a un certo punto a Roma suscitò perplessità.
Ma era chiamato, come dice Svetonio, «amore e delizia del genere
umano»23. In poche parole, insomma, era un ragazzo d’oro.
Schierando Tito al centro della scena e tenendo in attesa dietro le quinte
il figlio più giovane, Domiziano, Vespasiano metteva in campo i suoi
punti di forza cercando di minimizzare una debolezza, vale a dire i suoi
sessantuno anni di età. Un aspetto che avrebbe potuto destare
preoccupazione in un impero che si era stancato di regni brevi.
Vespasiano propose una sorta di offerta «tutto compreso», come se
dicesse a Roma: «Accettami come imperatore, e avrai la stabilità
assicurata da una dinastia». Nessun imperatore romano era riuscito prima
di allora a lasciare il trono a un proprio figlio biologico.
Tito fece da mediatore fra Vespasiano e Muciano, «come fatto apposta
per natura ed accorgimento a piegare a sé un temperamento pur del tipo
di Muciano», scrive Tacito24. Non occorreva darsi la pena di diventare
imperatore, disse Muciano, visto che da imperatore lui stesso avrebbe
proposto di adottare Tito come proprio successore – e Tito, in tempi
non lunghi, sarebbe successo a Vespasiano25.
L’EGITTO
All’inizio del 69 divenne chiaro che la Giudea non era l’unico posto che
Vespasiano e il suo talentuoso figlio potessero governare: all’orizzonte si
profilava la stessa Roma. Così, Agrippa e Berenice appoggiarono il
tentativo di Vespasiano di conquistare il trono, e lo stesso fece l’ex
cognato di Berenice, Tiberio Alessandro, che il 1° luglio del 69 ottenne
che le legioni dell’Egitto giurassero la loro fedeltà a Vespasiano.
Era il primo aperto segno di ribellione contro Vitellio, ma anche una
rivoluzione all’interno del sistema. Il figlio di un esattore delle imposte
dei colli sabini veniva acclamato come sovrano del mondo; il successore
di Augusto veniva proclamato nella città di Antonio e Cleopatra; le grida
dei soldati avvolti nei loro mantelli rossi ad Alessandria prendevano il
posto delle ordinate deliberazioni dei senatori nelle loro toghe bordate di
porpora a Roma. Pochi giorni dopo, le legioni della Giudea e della Siria
seguirono i loro fratelli dell’Egitto. Ci vollero altri cinque mesi prima che
a dicembre il Senato riconoscesse Vespasiano, e negli anni successivi i
fanatici furono infastiditi dal fatto che egli celebrasse l’anniversario del
proprio regno il 1° luglio.
Una volta rivendicato il trono imperiale, ora Vespasiano doveva sottrarlo
a Vitellio. Disse che sperava di vincere senza spargimenti di sangue,
mettendo sotto pressione Roma con l’interruzione delle forniture di
cereali dall’Egitto. Però spedì un esercito in Italia. Nonostante la propria
perizia in campo militare, Vespasiano non si unì ad esso, e rimase in
Egitto. Nel frattempo, dette a Tito l’incarico di concludere la guerra
contro i ribelli in Giudea.
L’Egitto era strategicamente importante, e si trovava a distanza di
sicurezza dalla lotta in corso in Italia. Lì Vespasiano aspettava il momento
opportuno, dimostrando nel frattempo un tocco regale fino a quel
momento sconosciuto. Si disse che ad Alessandria, mentre sedeva in
tribunale, guarì due popolani – un cieco e uno zoppo –, segno del suo
nuovo dono divino29. Assieme agli auspici e ai presagi provenienti
dall’Italia, dalla Grecia e dalla Giudea, l’opera di propaganda faceva il suo
corso.
La decisione di rimanere in Egitto era anche coerente con il Vespasiano
migliore. Nonostante la sua apparenza di rozza semplicità, era un maestro
della manipolazione. Ce lo si immagina come uno di quei capi a cui
piace essere sottovalutati, poiché sa che ciò lo fa apparire meno
pericoloso. In realtà, era un uomo strategico come Ulisse, l’astuto eroe
dell’Odissea.
Nella sua ascesa al potere, Vespasiano non era secondo a nessuno,
quando si trattava di lusingare il capo. E nonostante la sua aria di uomo
senza pretese, era pervaso dall’ambizione. Forse non aveva sempre avuto
in mente di fare l’imperatore, ma quando se ne presentò l’occasione, fu
pronto a coglierla. Come Augusto, Vespasiano aveva il talento di riuscire
a far lavorare gli altri per sé. Cenide, Muciano, Sabino, Tiberio
Alessandro, Giulio Agrippa, Berenice agirono tutti in tal senso. E
neppure Tito faceva eccezione. Si potrebbe pensare che Vespasiano
ambisse a conquistare il trono solo per favorire la carriera del figlio, ma di
fatto fu lui stesso a diventare imperatore. E Tito lavorò per quel risultato.
VESPASIANO A ROMA
Domiziano assunse il titolo di Cesare e si insediò nel palazzo, ma chi
controllava realmente la situazione a Roma era Primo. Poi arrivò in città
Muciano, che assunse il potere. Non osò attaccare direttamente il
popolare Primo, ma agì subdolamente. Ritirò le due legioni più vicine a
Primo e ai suoi alleati, lo convinse ad accettare un governatorato in
Hispania e scrisse a Vespasiano per metterglielo contro. Primo, a tempo
debito, si ritirò nella sua città natale, a Tolosa.
Ci volle quasi un anno, fino all’ottobre del 70, prima che Vespasiano
giungesse a Roma. Fino a quel momento fu quindi Muciano a reggere il
governo, comportandosi, come lui stesso disse, più da «alleato» che da
«competitore»31. Continuò a ricevere riconoscimenti e cariche – gli
onori trionfali per il ruolo che aveva svolto nella guerra civile e due
consolati (nel 70 e nel 72) –, ma il potere passò nelle mani di Vespasiano.
Il Senato assegnò a quest’ultimo gli stessi supremi incarichi e lo stesso
titolo dei suoi predecessori: imperatore Cesare Augusto. La decisione dei
senatori sancì quello che i brevi regni di Galba, Otone e Vitellio avevano
fatto pensare ma non avevano avuto la possibilità di dimostrare: vale a
dire che il titolo imperiale poteva passare di mano in mano con grande
facilità. I romani, pragmatici come sempre, risolsero il problema della
successione in modo netto, semplicemente conferendo il titolo imperiale
all’uomo più forte in quel momento, indipendentemente dalla
discendenza di sangue o dalle parentele adottive col fondatore
dell’impero.
Inoltre, garantirono l’appellativo di Cesare anche a Tito e a Domiziano.
Per la prima volta il termine Caesar veniva utilizzato per designare un
erede32. Quanto a Muciano, da allora scompare pian piano dalle fonti.
Sembra che si fosse ritirato dalla vita pubblica per avere il tempo di
pubblicare le lettere, i discorsi e le memorie degli anni che aveva passato
in Oriente. Sarebbe morto attorno al 7533.
Per diciotto mesi, dalla morte di Nerone alla vittoria di Vespasiano, il
mondo romano aveva attraversato un periodo incerto, denso di battaglie,
saccheggi, devastazioni e rivolte. Era un prezzo pesante da pagare, ma pur
sempre molto più lieve di quanto Roma aveva sofferto nei quindici anni
di guerre e rivoluzioni all’epoca dell’ascesa al potere di Augusto. Se
Vespasiano poté restaurare la pace, si potrebbe perfino dire che il sistema,
pur con tutte le sue pecche, funzionò.
A paragone dei sovrani di altri imperi, la maggior parte degli imperatori
romani rimase in carica solo per brevi periodi34. Sebbene ciò da un lato
generasse instabilità, dall’altro consentì anche ai talenti esterni alla famiglia
regnante di salire al trono. Per riuscirvi, un nuovo imperatore doveva
soddisfare le aspettative di diversi soggetti e istituzioni di importanza
cruciale.
Vespasiano voleva consolidare il potere e trasmetterlo ai suoi figli,
rimettere in sesto l’esercito e il tesoro dopo anni di lussi e di guerre e
godersi la vita con la donna che amava. Prima, tuttavia, dovette vendersi
al Senato e al popolo di Roma.
Per fare ciò, non avrebbe potuto avvantaggiarsi del suo aspetto. A
quell’epoca stava diventando calvo e soffriva di gotta. Il suo volto
mostrava una determinazione che poteva essere scambiata per una
smorfia di tensione, come se, affermò ironicamente qualcuno, soffrisse
di costipazione35.
E neppure avrebbe potuto vendersi per la propria eloquenza. Non era
certo Cicerone, sebbene fosse dotato di un malizioso senso dello humour
e avesse i tempi di un cabarettista. Quando, ad esempio, l’ex console
Lucio Mestrio Floro corresse la sua pronuncia plostra col più elegante
plaustra, il giorno dopo lui gli si rivolse chiamandolo Flaurus36. In greco,
phlauros significa «sgradevole», un gioco di parole che certo non sfuggì a
Floro, il quale era amico di Plutarco, il grande scrittore greco.
Vespasiano non salì al trono neppure per diritto divino. Se nelle
province, dall’Iberia all’Armenia, promosse assiduamente il culto di sé
stesso come un dio, a Roma e in Italia era semplicemente un uomo.
Nella capitale, quindi, non poté come altrove utilizzare la religione per
rendere attraente il proprio governo.
No, Vespasiano avrebbe dovuto vendersi come aveva fatto Augusto,
con lo sfarzo e le costruzioni, elaborando al contempo una nuova
immagine di Roma nel segno del nome della sua famiglia. Come
Augusto, negò la realtà della guerra civile, presentando sé stesso e i suoi
familiari come i conquistatori dei nemici stranieri del popolo romano. E
lo fece con una capacità comunicativa all’altezza dei migliori esempi che
Roma aveva conosciuto.
Vespasiano non abbandonò la politica di Nerone centrata sugli
spettacoli e lo sfarzo. Semmai, puntò ancor più su tale linea, ma con una
grande differenza. Vespasiano si comportava con dignità e semplicità, e
trattava il Senato con un certo rispetto. Era un imperatore che non
suonava la lira né guidava carri in pubblico, e tantomeno prestava il
fianco ad accuse di piromania o di matricidio. Vespasiano tenne un
atteggiamento più dignitoso di Nerone, ma non per questo ebbe da
offrire alla crisi dello spirito romano soluzioni migliori di quelle del suo
predecessore.
Tuttavia, introdusse un’importante innovazione. Il grande cittadino
comune portò al potere una nuova classe: un gruppo di uomini ricchi e
ambiziosi come lui che provenivano dall’Italia o dalle province. Estese in
misura notevole l’élite imperiale, e ciò avrebbe avuto conseguenze per
molti anni a venire.
LA VENDITA DELL’IMPERATORE
Nella primavera del 70 Tito strinse d’assedio Gerusalemme. I giudei
avevano un capo entusiasmante e pragmatico in Simone Bar Giora, un
ispiratore dai modi efficaci. Ex partigiano che aveva messo in piedi un
esercito, promise libertà agli schiavi e la resa dei conti con i ricchi. Coniò
monete raffiguranti la messianica iscrizione «Redenzione di Sion»37.
Tuttavia, nonostante la fiera resistenza che oppose, alla fine dell’estate
del 70 Gerusalemme fu costretta ad arrendersi a Tito. Bar Giora e un
piccolo gruppo di suoi seguaci cercarono di fuggire attraverso delle
gallerie sotterranee, ma nonostante l’aiuto di manovali armati di scalpelli
non ci riuscirono. Alla fine, Bar Giora riemerse in superficie nel luogo
su cui una volta sorgeva il tempio di Gerusalemme. Dovette arrendersi a
un alto ufficiale romano. Bar Giora indossava una tunica bianca e il
mantello porpora dei re – o del Messia.
Nelle mani dei ribelli rimaneva a quel punto solo la fortezza di Masada
– in un luogo scosceso, arido e remoto –, che avrebbe alla fine capitolato
nel 73 o nel 74, dopo un massiccio assedio romano. La Giudea era stata
sconfitta. Nelle monete poi coniate sotto Vespasiano, venne raffigurata
come una donna in lutto, seduta sotto una palma; accanto a lei, in piedi,
un uomo barbuto, con le mani legate dietro la schiena38. A Roma, il
nuovo imperatore fece chiudere le porte del tempio di Giano in segno di
pace, come avevano fatto Augusto dopo Azio e Nerone dopo l’accordo
con la Partia sull’Armenia.
Nel giugno del 71, dopo il ritorno di Tito a Roma, Vespasiano celebrò
assieme a lui un trionfo congiunto per la conquista della Giudea. Come
altri sovrani che li avevano preceduti, sapevano come allestire uno
spettacolo: una splendida visuale in grado di attirare una folla straripante.
Padre e figlio erano vestiti da generali conquistatori, come voleva la
tradizione, con indosso toghe rosso porpora e la testa coronata d’alloro.
Vespasiano cominciò la giornata salutando i suoi soldati e dando prova
della propria abilità nell’entusiasmare la folla. Così descrive l’episodio
Giuseppe Flavio:
Dinanzi al portico [di Ottavia] era stata innalzata una tribuna su cui erano stati collocati per loro
dei seggi d’avorio e quando essi vi si furono seduti, immediatamente i soldati cominciarono a
inneggiare rendendo testimonianza a una voce al loro valore; gli imperatori non erano in armi, ma
portavano vesti di seta col capo coronato d’alloro. Vespasiano, dopo aver ricevuto il loro omaggio,
fece segno a un certo punto, sebbene quelli volessero continuare, di tacere; si stabilì un generale
profondo silenzio, ed egli, levatosi in piedi e ricopertasi col mantello quasi tutta la testa, pronunciò
le preghiere di rito, mentre anche Tito pregava. Dopo le preghiere Vespasiano rivolse un breve
indirizzo a tutti; quindi congedò i soldati perché partecipassero al tradizionale banchetto offerto
loro dagli imperatori39.
LA CONCUBINA DELL’IMPERATORE
Dopo la morte di sua moglie Flavia Domitilla, in un momento non
precisato prima che nel 69 diventasse imperatore, Vespasiano riallacciò la
propria relazione con Cenide. All’epoca in cui salì al trono, lei aveva
passato la sessantina, e quindi non era più nel fiore dell’età.
Probabilmente Vespasiano la scelse per amore. La prese come concubina,
vale a dire come moglie di fatto, poiché, quale membro dell’ordine
senatoriale, non poteva sposare una liberta. La società romana era abituata
ai matrimoni di fatto, che erano un mezzo per rispettare le varie
proibizioni e restrizioni legali. Con questo, però, non dobbiamo
sottovalutare quanto poté apparire sorprendente che l’imperatore romano
convivesse apertamente con una liberta – per giunta greca – come se fosse
la sua legittima moglie.
In ogni caso, Vespasiano amava Cenide e la trattava come una vera
imperatrice. Paradossalmente l’ex schiava con cui condivideva il letto e
che aveva servito Antonia Augusta (figlia di Marco Antonio e madre
dell’imperatore Claudio) fu quanto di più vicino al fascino della Casa dei
Cesari egli poté raggiungere. Cenide si sentiva talmente sicura in veste di
membro della famiglia che una volta, di ritorno a Roma da una visita
all’estero, porse la propria guancia a Domiziano, il figlio di Vespasiano,
perché la baciasse. Ma, snob com’era, Domiziano declinò l’offerta e le
porse invece la mano.
Con la sua intelligenza, e la sua conoscenza delle vicende romane, non
ci sarebbe da stupirsi se Cenide avesse fatto da consigliera a Vespasiano
nella sua ascesa al trono imperiale. Una volta che lui fu diventato
imperatore, si dice che Cenide vendesse accessi e incarichi, compresi
quelli di governatore, di generale e di sacerdote, nonché perdoni55. Era,
in poche parole, una persona che risolveva problemi. Si tratta di storie
che non possiamo verificare, ma che danno l’impressione di essere vere –
come del resto l’accusa secondo cui una parte del denaro che ricavava
finisse a Vespasiano. In ogni caso, Cenide diventò una donna molto
ricca.
L’ex schiava fu a sua volta proprietaria di schiavi, e alla fine ne liberò
alcuni, che poi presero il suo nome. Possedeva una villa e vasti terreni nei
sobborghi di Roma, forniti di acqua corrente – un lusso raro – e sfarzosi
bagni56. Dopo la sua morte, le proprietà passarono all’imperatore, e i
Bagni di Cenide furono infine aperti al pubblico e mantenuti da uno dei
liberti dell’imperatore.
Cenide morì intorno al 75, all’età forse di sessantotto anni. Nessuno
prese mai il suo posto negli affetti di Vespasiano, che semmai si dedicò a
una serie di amanti. Il monumento funerario di Cenide è stato riportato
alla luce presso la sua villa57. Non è raro imbattersi in pietre tombali di ex
schiavi romani; di fatto, la maggior parte dei monumenti funerari del
periodo imperiale oggi rimasti è dovuta proprio a liberti. Si trattava di
simboli del livello sociale raggiunto: e chi più di un ex schiavo aveva
bisogno di proclamare, incidendolo sulla pietra, che ce l’aveva fatta? Il
monumento di Cenide assolse al meglio questa funzione.
Si tratta di un’ara funeraria, una tipologia comune di monumento
funebre di un certo lusso, che recava sempre un’iscrizione sulla parte
frontale e talvolta decorazioni sui fianchi e sul retro. L’ara di Cenide era
pesante, massiccia, elaborata e lussuosa: un unico grande blocco di
marmo di Carrara, lo stesso materiale che sarebbe stato usato per la
colonna Traiana e per il Pantheon, e, nel Rinascimento, per il David di
Michelangelo. L’ara misura un metro e trenta circa in altezza, e ha un
basamento di circa settanta centimetri per un metro.
Nell’epitaffio, sulla parte frontale, si legge che un certo Aglao,
probabilmente l’amministratore delle proprietà di Cenide, aveva eretto il
monumento a nome di sé stesso e dei suoi tre figli, dedicandolo alla
memoria di «Antonia Cenide, liberta di un’Augusta, ottima patrona»58.
Sebbene il testo associ Cenide a una delle donne più potenti di Roma,
evita discretamente di accennare al suo ruolo di concubina di Vespasiano.
Ma i bassorilievi sugli altri tre lati dell’altare contengono richiami al fatto
che fu amata da un imperatore. Vi sono raffigurati, fra l’altro, dei cupidi e
dei cigni – l’animale che traina il carro di Venere – oltre che foglie di
alloro, simboli imperiali. Il fatto che cigno si dica cygnus in latino e kyknos
in greco può far pensare a un gioco di parole col nome Caenis (Kainis in
greco).
Più o meno nel periodo in cui Cenide morì, la regina Berenice fu a
Roma, accompagnata dal fratello Giulio Agrippa. Questi venne
nominato pretore, mentre la regina fu accolta a palazzo con Tito. Non
abbiamo idea se prima di allora Cenide si fosse opposta alla presenza
dell’amante di Tito; tuttavia, è notevole il fatto che i due uomini che
governavano Roma, padre e figlio, vissero entrambi nella capitale con
una moglie di fatto proveniente dall’Oriente. Entrambi trasgredirono le
regole, ma il rozzo Vespasiano continuò a frequentare persone di rango
inferiore, mentre Tito preferì le comodità di un letto regale. Tutti e due
erano ben lontani da Augusto e Livia.
Tito e Berenice si amavano. La gente diceva che lei si aspettava di
sposarlo – e addirittura che lui glielo avesse promesso – e che si
comportava come se fosse sua moglie59. Certamente fece sentire la
propria influenza. Vespasiano la invitò a prendere parte al consiglio
imperiale per discutere una causa che coinvolgeva i suoi interessi, alla
presenza nientemeno che del grande Quintiliano, in veste di suo
avvocato60. In poche parole, Berenice era vicina al vertice del potere. Il
popolo romano, tuttavia, non ne voleva sapere. Qualcuno vedeva in lei
una seconda Cleopatra61 – una regina orientale che aveva stregato un
uomo romano –, mentre per altri rappresentava il nemico giudeo la cui
rivolta aveva comportato per Roma la perdita di tanto sangue e tante
risorse. Due filosofi accusarono Tito e Berenice in teatro. Tito ordinò
che a uno venissero inflitte punizioni corporali, e che l’altro fosse
decapitato. Ma dovette comunque allontanare Berenice. I due amanti
non avrebbero governato Roma.
1
Giuseppe Flavio, La guerra giudaica III.236.
2
Tacito, Storie II.5.
3
Giuseppe Flavio, La guerra giudaica IV.33.
4
Tacito, Storie I.4.
5
Svetonio, Vespasiano VIII.3.
6
Varrone, cit. in Plinio il Vecchio, Storia naturale III.10.
7
Svetonio, Vespasiano II.2.
8
Cassio Dione, Storia romana LIX.12.3.
9
Museo Archeologico Nazionale (Napoli), inv. 6029.
10
Cassio Dione, Storia romana LXV.14.1-4.
11
Publio Cornelio Tacito, Agricola, XIII.5, in Id., Gli annali. La vita di Giulio Agricola, Garzanti,
Milano 1981.
12
Liturgia ebraica, preghiera settimanale Amidah, dodicesima benedizione.
13
Tacito, Storie I.49.
14
Ivi, IV.11; Svetonio, Vespasiano VII.2.
15
Giuseppe Flavio, La guerra giudaica IV.603.
16
A rigore, termini come «omosessuale» o «gay» sono antistorici, poiché gli antichi non
pensavano al sesso secondo le categorie attuali. Il loro uso serve soltanto a indicare al lettore
moderno che Muciano preferiva avere rapporti con persone del suo stesso sesso.
17
Tacito, Storie I.10.
18
Svetonio, Vespasiano XIII.1.
19
Tacito, Storie II.76-77.
20
Ivi, III.13.
21
Cassio Dione, Storia romana LXV.8.
22
Tacito, Storie I.10.
23
Svetonio, Tito 1.
24
Tacito, Storie II.5.
25
Ivi, II.77.
26
Anche il termine «romanizzato» è problematico se riferito alla storia antica; viene qui usato
per evocare l’idea dell’assimilazione agli usi dei conquistatori.
27
Jacob Neusmer, The Talmud of Babylonia: an academie commentary, vol. XVIII, Bavli Tractate
Gittin, Scholars Press, Atlanta 1996, 56b.
28
Tacito, Storie II.2, 81.
29
Ivi, IV.81; Svetonio, Vespasiano VII.2; Cassio Dione, Storia romana LXVI.8.2, il quale
sostiene che il secondo uomo aveva una mano atrofizzata.
30
Tacito, Storie II.86.
31
Ivi, II.77.
32
Ivi, IV.39; si veda Angela Pabst, Divisio regni: der Zerfall des Imperium Romanum in der Sicht der
Zeitgenossen, Habelt, Bonn 1986, pp. 46-48 e 68.
33
Muciano era ancora vivo nel 74 (Tacito, Dialogo degli oratori XXXVII.2), mentre nel 77 era
morto (Plinio il Vecchio, Storia naturale XXXII.62).
34
Devo questa considerazione a Walter Scheidel, che sta preparando un libro su questo tema.
35
Cassio Dione, Storia romana LXVI.17.1; Svetonio, Vespasiano XX; cfr. Marziale, Epigrammi
III.89 e XI.52-56.
36
Svetonio, Vespasiano XX.1; cfr. Suetonius, Vespasian, a cura di Brian W. Jones, con
introduzione, commento e bibliografia, Bristol Classical Press, London 2000, p. 8.
37
Ran Shapira, Hoard of Bronze Coins from Jewish Revolt Found Near Jerusalem, in «Haaretz», 17
agosto 2014 (www.haaretz.com/jewish/archaeology/1.610916).
38
Si veda, ad esempio, RIC II, Part 1 (second edition) Vespasian 3
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.2_1(2).ves.3).
39
Giuseppe Flavio, La guerra giudaica 7.5.4.
40
Svetonio, Vespasiano 8.5; Cassio Dione, Storia romana LXVI.10.2.
41
Elisabetta Povoledo, Technology Identifies Lost Color at Roman Forum, in «New York Times»,
24 giugno 2012 (www.nytimes.com/2012/06/25/arts/design/menorah-on-arch-of-titus-in-
roman-forum-was-rich-yellow.html; www.yu.edu/cis/activities/arch-of-titus).
42
Ariel David, Second Monumental Arch of Titus Celebrating Victory over Jews Found in Rome, in
«Haaretz», 21 marzo 2017 (www.haaretz.com/archaeology/1.778103).
43
Geza Alföldy (a cura di), Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. VI, Inscriptiones Urbis Romae
Latinae, VIII, fasc. 2, Berlin 1976, n. 40454a. Si veda Geza Alföldy, Ein Bauinschri aus dem
Colosseum, in «Zeitschri für Papyrologie und Epigrafik», CIX (1995), pp. 195-226.
44
Herbert W. Benario, A Commentary on the Vita Hadriani in the Historia Augusta, Scholars
Press, Chico (CA) 1980, p. 118.
45
Beda il Venerabile, Jacques-Paul Migne, Patrologia Latina, vol. XCIV, p. 453.
46
Cassio Dione, Storia romana LXV.15.2; Barbara Levick, Vespasian, Routledge, London 20172,
p. 202.
47
Quintiliano, L’istituzione oratoria, rispettivamente XII.1.3 e X.7.15.
48
Ivi, X.1.31-34 («historia [...] scribitur ad narrandum, non ad probandum»).
49
Cassio Dione, Storia romana LXVI.12.1.
50
Aurelio Vittore, De Caesaribus 9.9.
51
Cassio Dione, Storia romana LXVI.2.5.
52
Svetonio, Vespasiano XXIII.3; Cassio Dione, Storia romana LXVI.14.5.
53
Tacito, Storie IV.74.3.
54
Svetonio, Vespasiano VIII.3.
55
Cassio Dione, Storia romana LXV.14.3-4.
56
La proprietà era situata sulla via Nomentana.
57
Museo Storico della Caccia e del Territorio, Palazzo Bardini (Firenze), inv. A231. Si veda
Mauro Cristofani, L’ara funeraria di Antonia Caenis concubina di Vespasiano, in «Prospettiva», XII
(aprile 1978), pp. 2-7.
58
Corpus Inscriptionum Latinarum cit., VI, 12037.
59
Svetonio, Tito VII.1.
60
Quintiliano, L’istituzione oratoria IV.1.19. Si veda Michael R. Young-Widmaier, Quintilian’s
Legal Representation of Julia Berenice, in «Historia», LI (2002), 1, pp. 124-129.
61
Svetonio, Tito VII.1; Cassio Dione, Storia romana LXV.15.3-4.
62
Svetonio, Vespasiano XXI-XXII.
63
Ivi, XXIII.4; Cassio Dione, Storia romana LXVI.17.2.
64
Svetonio, Vespasiano XXIV-XXV; Cassio Dione, Storia romana LXVI.17.2; Pseudo-Aurelio
Vittore, Epitome de Caesaribus 9.18.
65
Svetonio, Vespasiano XIX.2.
66
Tacito, Storie I.50.
67
Giuseppe Flavio, La guerra giudaica VI.240.
68
Svetonio, Tito VII.2 (inuitus inuitam); cfr. Cassio Dione, Storia romana LXVI.18.1, e Pseudo-
Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 10.7.
69
Pompeii: Vesuvius Eruption May Have Been Later Than Thought, 16 ottobre 2018
(https://www.bbc.com/news/world-europe-45874858).
Traiano
5
Traiano,
optimus princeps
DOMIZIANO
Dopo il breve regno di Tito, nell’81 fu il fratello Domiziano a
succedergli. Tito aveva una figlia diciassettenne, Giulia Flavia, ma i
romani non presero mai in considerazione l’ipotesi di un’imperatrice.
Amministratore di talento e industrioso, Domiziano era un uomo
arrogante. Si dette arie da re, e sposò una donna affascinante e imperiosa.
Il Senato, che fino ad allora aveva avuto a che fare col rude Vespasiano e
con l’adorabile Tito, la prese male. A quanto si dice, Domiziano
cominciò una lettera che avrebbe dovuto essere divulgata dai suoi
funzionari con la formula: «Il nostro signore e dio ordina...»5. Lungi dal
mostrare interesse per le sedute del Senato, dirigeva spesso gli affari
pubblici dalla sua proprietà fuori Roma. I senatori erano arrabbiati, e gli
informatori attizzavano il fuoco; vennero alla luce complotti che furono
repressi con la forza. Conosciamo i nomi di quattordici senatori che
furono giustiziati, dodici dei quali erano ex consoli. In due occasioni
Domiziano espulse da Roma dei filosofi, tra i quali molti stoici, il cui
pensiero era condiviso da parecchi senatori.
Alla fine il Senato si prese la propria rivincita infangando la reputazione
di Domiziano nei libri di storia. Uno dei molti aneddoti negativi su di
lui vuole che rimanesse ogni giorno a sedere da solo per ore nella propria
camera, dando la caccia alle mosche e infilzandole con uno stiletto6. Le
varie versioni di questa storia lo dipingono di volta in volta come un
uomo annoiato, crudele, ossessivo o tirannico.
L’aspetto paradossale è che garantì, per molti aspetti, un buon governo.
Nei quindici anni del suo regno dimostrò di essere un avveduto
sovrintendente delle finanze e un giusto amministratore delle province,
abile a gestire la politica dei confini e della difesa. Si guadagnò popolarità
per gli spettacoli e i banchetti che offriva e per le cancellazioni dei debiti
che decretava. Fra i suoi giochi gladiatori vi furono manifestazioni
gradite alle folle, come i combattimenti notturni alla luce delle torce e
quelli fra donne.
Fu anche un grande costruttore: realizzò progetti come un nuovo
ippodromo, il cui profilo è ancora oggi visibile in piazza Navona. Portò
inoltre a compimento la costruzione del Colosseo. Entrambe le opere
andarono a beneficio del popolo, ma il più grandioso progetto di
Domiziano fu un monumento al proprio ego tale da rivaleggiare con la
Domus Aurea neroniana: un immenso nuovo palazzo sul Palatino.
Alto e di bell’aspetto da giovane7, Domiziano diventò un uomo dal
volto grasso e dal naso prominente come quello del padre, accigliato e
panciuto. Nei busti che lo ritraggono ha una folta capigliatura riccia, ma
in realtà era calvo e particolarmente sensibile a questo aspetto8. Aveva
però una moglie bella, per quanto dispotica.
Era Domizia, figlia del valente ma sfortunato generale neroniano Gneo
Domizio Corbulone. Domiziano, che si era follemente innamorato, la
costrinse a divorziare dal marito e a sposarlo. I busti la ritraggono con un
aspetto di piacevole serenità, il volto dai tratti delicati sotto una rigogliosa
capigliatura, con boccoli strettamente avvolti che le coronano la fronte9.
Ma i problemi non mancavano. Domizia dette a Domiziano due o tre
figli, che morirono però tutti in tenera età. La relazione che ebbe con un
attore indusse l’imperatore a divorziare e a far giustiziare il suo amante. In
seguito Domiziano la riprese con sé, dopo che la nipote Giulia Flavia gli
aveva fatto da compagna. La gente malignava che i due avessero una
relazione, soprattutto dopo che Domiziano aveva fatto giustiziare il
marito di lei per tradimento. Quando qualche anno dopo, nel 91, Giulia
morì, le voci dissero che aveva avuto un aborto, e che era incinta di
Domiziano. Quanto a lui, con calma, la fece deificare.
NERVA
Il Senato si mosse velocemente nominando come successore di
Domiziano uno dei propri membri. Marco Cocceio Nerva era un
politico di lungo corso, esponente di una prestigiosa famiglia. Due volte
console, era un cortigiano e un sopravvissuto che se l’era cavata con
Nerone, Vespasiano e Domiziano. Sembrava, quindi, che lo Stato fosse
in mani sicure.
Nerva accontentò il Senato ordinando il rilascio di prigionieri, facendo
ammenda per precedenti processi per accuse di tradimento e assicurando
che non ce ne sarebbero stati altri in futuro. Soddisfece le aspettative
popolari con distribuzioni di cereali e terre e vari altri provvedimenti
assistenziali. Secondo Tacito, riuscì a coniugare quello che ormai
sembrava incompatibile: la libertà e il potere imperiale14.
Ma l’esercito era stato vicino a Domiziano, e non si lasciò
impressionare. Un’armata si ammutinò dopo la sua morte, un’altra era
nelle mani di un governatore provinciale inaffidabile. Nel 97 la guardia
pretoriana decise che era arrivato il momento giusto per vendicare
l’assassinio di Domiziano. I pretoriani si ammutinarono, strinsero
d’assedio Nerva nel suo palazzo e lo obbligarono, contro la sua volontà, a
rilasciare i colpevoli, per poi ucciderli, non prima di averne torturato
uno. Poi costrinsero l’imperatore a ringraziarli pubblicamente.
Rendendosi conto della propria debolezza, Nerva conferì con il
proprio consiglio e decise di non abdicare, scegliendo invece un
successore. Aveva più di sessant’anni, era vedovo e senza figli, e così pun-
tò su un outsider. Avendo preso la propria decisione, salì sulla tribuna
dei Rostri al Foro e proclamò a gran voce: «Per la buona sorte del Senato,
del popolo romano e di me stesso, io adotto Marco Ulpio Nerva
Traiano»15.
Il più plausibile fra gli altri eventuali candidati apparteneva a una fazione
opposta a Nerva. Traiano era, invece, in buoni rapporti politici con lui e
aveva un padre famoso, che per giunta poteva vantare un impressionante
curriculum personale. Infine, elemento non certo di secondaria
importanza, disponeva di un certo numero di legioni pronte a marciare
su Roma a un suo ordine; per cui, far cadere la scelta su di lui significava
proteggere la pace.
La decisione assunta da Nerva fu un tipico esempio di pragmatismo
romano. Senza far chiasso né provocare fastidio, infranse due barriere.
Per la prima volta, un imperatore adottava un figlio non legato a lui né da
vincoli di sangue né da vincoli matrimoniali. E per la prima volta
nominava un successore che proveniva da fuori dell’Italia.
Ma, in un senso più profondo Traiano rappresentava la continui-
tà, perché il reale motore del cambiamento era l’esercito. Come di
consueto, esso era la forza più egualitaria e innovativa della società
romana.
Nerva inviò a Traiano un anello di diamanti in segno della sua
adozione, assieme a una lettera in cui chiedeva, in modo elegante e
indiretto, una vendetta sui pretoriani che lo avevano umiliato. Gli
conferì anche i titoli di Cesare e di imperatore, consacrandolo così a suo
successore. Nel frattempo Nerva assicurò la posizione costituzionale di
Traiano come suo successore coinvolgendo il Senato nell’atto di
investirlo di potere e autorità.
Nerva morì dopo tre o quattro mesi, nel gennaio del 98, e Traiano poté
così diventare imperatore. Provvide subito a vendicare il suo
predecessore facendo giustiziare i capi della rivolta pretoriana che gli si
erano ribellati. Poco importava che la ribellione avesse poi portato
all’elevazione di Traiano stesso: il titolo imperiale era una questione di
famiglia, e quando questa era in gioco, l’onore era tutto. E così Traiano si
vendicò del proprio padre adottivo. Fece divinizzare Nerva e ordinò che
fosse seppellito nel mausoleo di Augusto: sarebbe stato l’ultimo
imperatore ad avere questo onore.
TRAIANO E I CRISTIANI
Plinio il Giovane resse la carica di governatore della ricca e popolosa
provincia della Bitinia e del Ponto in Asia Minore dal 110 al 113. In
seguito pubblicò la corrispondenza che tenne con Traiano in quel
periodo. Il carteggio illustra quale fosse il grado di decentramento
dell’amministrazione romana, che consentiva una notevole libertà di
movimento ai governatori provinciali. In alcuni casi, tuttavia,
l’imperatore doveva intervenire in prima persona. Prendiamo in esame,
in tal senso, un famoso scambio di lettere fra Plinio e Traiano in merito al
trattamento dei cristiani.
La lettera di Plinio mostra quanto fosse diffuso il cristianesimo
nell’Oriente greco. Il governatore scriveva infatti che, per la prima volta
nella sua carriera, si trovava di fronte a una vasta minoranza cristiana,
presente sia nelle città sia nelle zone rurali, composta da giovani come da
vecchi, da uomini e donne, liberi e schiavi. Dopo aver ricevuto una serie
di denunce, alcune delle quali anonime, si trovò costretto a compiere
delle indagini. La popolazione romana, in larga maggioranza pagana, e da
molto tempo animata dal sospetto che i cristiani fossero dei criminali, era
irritata, e a Plinio, in quanto governatore, spettava il compito di riportare
la calma. Ma che cosa si presupponeva che dovesse fare? A Roma il
governo riteneva i cristiani sospetti, ma non aveva una politica generale
nei loro confronti e lasciava che la questione venisse affrontata dalle
singole autorità locali.
Per Roma, i cristiani erano pericolosi per molti aspetti. I romani
pensavano che la propria religione – onorata dal tempo, abbracciata dallo
Stato e celebrata in pubblico – fosse il fondamento stesso della loro
civiltà. Prendendo parte a feste e rituali sacrificali, ogni persona
contribuiva a far ottenere a Roma sicurezza e prosperità. I cristiani
ruppero le regole. Non veneravano le divinità tradizionali e non
offrivano sacrifici all’imperatore, atteggiamenti questi che li rendevano
atei agli occhi della gente. Un uomo non timorato degli dèi era non solo
un potenziale criminale, ma anche una minaccia per la struttura stessa
della società: una persona che poteva far arrabbiare gli dèi a danno
dell’intera comunità.
I cristiani potevano poi apparire anche troppo religiosi, ovvero colpevoli
di una paura irragionevole ed eccessiva nei confronti della divinità,
atteggiamento che i romani bollavano come superstizione. Anche sugli
ebrei gravava l’accusa di ateismo, ma i romani li tolleravano in virtù
dell’antichità della loro religione. Il cristianesimo, invece, era
relativamente nuovo, e Roma guardava sempre con sospetto le novità.
L’espressione latina per indicare una rivoluzione era res novae (cose
nuove).
A quell’epoca, poi, i cristiani si riunivano in associazioni private, e la
storia romana insegnava che, laddove esisteva un’associazione, si annidava
la sedizione. E infatti, seguendo le istruzioni ricevute da Traiano, Plinio
aveva bandito le confraternite religiose dalla propria provincia.
Tutto ciò era vero, e tuttavia era anche vero che in generale i cristiani
mantenevano la pace e badavano ai propri affari. Plinio, quindi,
procedette con cautela. Spiegò che interrogava i cristiani accusati almeno
tre volte. Se provavano la loro innocenza denunciando Cristo e
venerando una statua dell’imperatore con preghiere, incenso e vino, li
metteva in libertà. Se si rifiutavano di farlo, li giustiziava. Come spiegò,
cristiani o no, essi meritavano comunque di essere puniti per
l’ostinazione e l’arroganza mostrata.
Dalla lettera emerge che la classe e il livello sociale avevano il loro peso.
Se i cristiani che si ostinavano a rimanere tali erano cittadini romani,
Plinio non li faceva uccidere, ma firmava un ordine per trasferirli a
Roma, poiché, essendo appunto cittadini, avevano diritto a un processo
celebrato nella capitale. Gli schiavi, ovviamente, si collocavano all’altra
estremità della scala sociale. Plinio spiegava che per poter scoprire cosa
realmente avvenisse nelle riunioni dei cristiani aveva torturato due
schiave «che venivano dette diaconesse»48. Non credeva a quanto i
cristiani sostenevano in loro difesa: che cioè si limitassero a cantare inni e
pronunciare giuramenti di onestà e sincerità e di astensione dal furto o
dall’adulterio, per poi semplicemente condividere un pasto. Si aspettava
di scoprire una cospirazione finalizzata a commettere un reato, e trovò
invece semplicemente una «superstizione irragionevole, smisurata»49.
Naturalmente, Plinio si sbagliava. La cortesia, la socievolezza e il sostegno
reciproco che accompagnavano i riti cristiani contribuirono
potentemente al successo della nuova religione.
Plinio scrisse all’imperatore, come faceva ogni volta che aveva dubbi su
qualcosa. Si era comportato adeguatamente nei confronti dei cristiani?
Nel rispondergli, Traiano lo elogiò per essersi mosso esattamente come
doveva. L’imperatore auspicava una politica difensiva, piuttosto che
aggressiva. Non era opportuno andare a scovare i cristiani, ma quelli
soggetti ad accuse dovevano essere messi alla prova uno per uno. Ogni
caso faceva storia a sé, non esistevano modelli rigidi. Perfino a coloro di
cui si dimostrava la colpevolezza si sarebbe dovuta offrire l’opportunità di
pentirsi «sacrificando ai nostri dèi»50, in modo da ottenere il perdono.
Infine, le accuse dovevano essere firmate. Non c’era spazio per denunce
anonime. Erano un cattivo precedente, e «non degno del nostro
tempo»51.
Secondo i nostri criteri attuali, sotto Plinio e Traiano i romani si
comportarono da persecutori. Se guardiamo alle norme romane, però,
essi si mostrarono duri, ma umani. Traiano preparò un terreno
intermedio per il futuro trattamento dei cristiani. Senza volerlo, dette al
cristianesimo la libertà di crescere.
IL COSTRUTTORE
Traiano fu un grande costruttore – per certi aspetti il più grande di tutti
gli imperatori. Un suo successore, Costantino, lo definì «un rampicante
che cresce sui muri»56, a causa del fatto che il suo nome compariva su un
gran numero di edifici. Era in parte una frecciata a Traiano, come a dire
che acquistava credito grazie ai progetti cominciati dai suoi predecessori
– una critica sensata, ma superata dall’imponenza dei nuovi lavori da lui
realizzati. Traiano finanziò opere ingegneristiche come un grande ponte
sul Danubio (nell’odierno territorio romeno) da utilizzare per attaccare la
Dacia, con una carreggiata in legno sostenuta da venti piloni in muratura.
Ridusse i tempi di viaggio sulla via Appia tracciando una nuova strada
nell’Italia meridionale, la via Traiana. Costruì nuovi porti per diverse
città italiane, fra cui la stessa Roma. I suoi progetti più famosi furono
realizzati nella capitale: la colonna Traiana, una sorta di grattacielo
dell’epoca, con i suoi oltre 40 metri di altezza, decorata con un
innovativo rilievo a spirale in cui è illustrata la conquista della Dacia; le
terme di Traiano, il primo dei grandi complessi termali imperiali,
destinato a diventare il modello di quelli successivi; il Foro di Traiano,
comprendente una basilica, il più vasto e ambizioso dei fori imperiali.
Quest’ultimo fu finanziato con i bottini di guerra provenienti dalla
Dacia57, e ciò conferì al vincitore Traiano dei privilegi da far valere.
Come Augusto, Traiano aumentò la presenza di marmo a Roma, ad
esempio nelle pavimentazioni e nelle colonne. Ma nel periodo traianeo,
il più importante materiale da costruzione nella capitale erano i mattoni,
seguiti dal calcestruzzo. L’edilizia costituiva un grande affare, fonte di
ricchezza per alcuni e di occupazione per il 4-6% della popolazione
romana negli anni di maggiore attività dei primi due secoli dell’era
cristiana.
Nel campo delle costruzioni il maggiore collaboratore di Traiano fu
Apollodoro di Damasco. Come indicano il suo nome e il suo luogo di
nascita, l’ingegnere militare Apollodoro era un greco. Fu lui a costruire il
ponte sul Danubio, e scrisse un libro su come condurre un assedio. La
sua fama è però legata soprattutto al Foro di Traiano. È possibile che
anche le terme fossero opera sua.
Il Foro di Traiano abbandonò la consueta sistemazione che prevedeva
un tempio collocato nella piazza, per adottare una pianta quasi quadrata,
forse con un richiamo al campo militare. Segnò un’insolita
combinazione tra una vasta piazza aperta in stile greco e un edificio
coperto romano o basilica. Vi si possono trovare anche elementi
architettonici provenienti dal Vicino Oriente. La varietà delle forme
richiamava simbolicamente le immense dimensioni dell’impero, e lo
stesso vale per la presenza di colonne di marmo di vari colori e graniti
provenienti da Oriente come da Occidente. Analoghe considerazioni
valgono per le dimensioni del progetto: la sola piazza aperta, ad esempio,
occupava un rettangolo di circa 120 metri per 90, ed era lussuosamente
pavimentata con marmo bianco. Le statue dei prigionieri daci erano
disposte lungo i tetti, facendo del Foro una sorta di mausoleo della
vittoria. Avevano l’utile funzione di simboleggiare il successo di Traiano,
il potere di Roma, e l’onnipresente minaccia dei nemici stranieri; meglio
che la gente pensasse a questo che ai problemi interni. Dei porticati e due
biblioteche fiancheggiavano la colonna Traiana, mentre all’estremità
settentrionale del Foro si ergeva una maestosa basilica.
I progetti edilizi traianei erano delicati quanto Ercole che spacca in due
con una clava una montagna, come il mito narra che fece per creare lo
stretto di Gibilterra, chiamato appunto nell’antichità le Colonne
d’Ercole. Gli ingegneri di Traiano tagliarono un pezzo di montagna per
far avvicinare al mare una strada nei pressi di Roma. Nel frattempo,
demolirono una parte del Colle del Quirinale per poter costruire il Foro
di Traiano, e poi dovettero costruire una nuova struttura a più piani (gli
odierni Mercati Traianei, un complesso di negozi e uffici) per sostenerne
la parte restante58. Per costruire le sue terme, Traiano ricoprì l’unica parte
residua della Domus Aurea di Nerone, un’ala sull’Esquilino, e gettò i
muri portanti del nuovo edificio negli splendidi saloni di un tempo. Era
un messaggio dispendioso ma eloquente. Non solo Traiano era
abbastanza ricco da sotterrare un edificio in perfetto stato, ma anche
abbastanza altruista da negare a sé stesso un palazzo magnifico,
dedicandone invece lo spazio al popolo romano.
I progetti di Traiano ne promossero l’immagine. Portavano tutti il suo
nome, compreso il nuovo acquedotto che doveva soddisfare l’accresciuto
fabbisogno idrico di Roma dovuto alle sue terme: l’Aqua Traiana. I
romani entravano nel Foro di Traiano attraversando un ingresso
monumentale che era probabilmente sormontato da una statua
raffigurante l’imperatore su un carro a sei cavalli. All’interno del
complesso si ergeva una statua di Traiano a cavallo, e altre sue statue erano
collocate ad ogni angolo. La colonna Traiana, poi, narrava la storia della
conquista della Dacia mediante un fregio scolpito in 155 scene, che la
risaliva avvolgendosi su di essa come un gigantesco rotolo. L’imperatore
vi compare più di sessanta volte. Ma niente poté promuovere la figura di
Traiano in modo più esplicito dell’imponente tempio che si ergeva
all’estremità del complesso architettonico. Con ogni probabilità, Traiano
rinunciò a imporre il proprio nome all’edificio poiché i romani non
avrebbero tollerato che un imperatore ancora in vita erigesse un tempio
alla propria divinità. Tuttavia, era esattamente questo che stava facendo.
Dopo la sua morte il tempio sarebbe stato consacrato con la
denominazione di Tempio del Divo Traiano e avrebbe ospitato al suo
interno una colossale statua dell’imperatore seduto al modo di Zeus
Olimpio o Giove. Nel suo complesso, il Foro costituiva un gigantesco
progetto propagandistico del potere di Roma e della gloria
dell’imperatore.
LA NEMESI IN ORIENTE
Più o meno nello stesso periodo nel quale era impegnata nella conquista
della Dacia, Roma si annetté il territorio dell’Arabia (corrispondente
approssimativamente alle odierne zone della Giordania, della penisola del
Sinai e della penisola arabica nord-occidentale). Con l’annessione di
queste due nuove province, l’impero romano raggiunse la sua massima
estensione. Ma Traiano voleva ancora di più.
Forse perché desiderava emulare Alessandro Magno, che aveva
conquistato l’Iran, oppure perché voleva superare Cesare e Marco
Antonio, che non erano riusciti a fare altrettanto, oppure semplicemente
perché non scorgeva all’orizzonte uno Stato in grado di rivaleggiare con
Roma, Traiano mosse guerra contro la Partia. Il pretesto fu un
disaccordo sull’Armenia, che per lungo tempo aveva costituito uno Stato
cuscinetto fra i due imperi. Roma pretendeva di esercitare un diritto di
veto su di essa, ma erano stati i parti a scegliere l’ultimo re armeno.
Tuttavia, quando essi fecero marcia indietro, Traiano rifiutò comunque
di accettare. Voleva la guerra per desiderio di gloria59.
Fu così che allestì una grandiosa spedizione in Oriente. Nel 114 Plotina
e Matidia lo accompagnarono nel tragitto di avvicinamento fino ad
Antiochia. Traiano e l’esercito proseguirono assumendo il controllo
dell’Armenia e conquistando poi tutta la Mesopotamia (più o meno l’Iraq
odierno) fino al Golfo Persico. I parti furono distratti dalla guerra civile.
Per certi aspetti, l’opposizione più forte con cui Traiano dovette
scontrarsi fu il terremoto che nel dicembre del 115 colpì Antiochia,
l’evento sul quale si è aperto questo capitolo. I romani dichiararono che
l’Armenia e la Mesopotamia erano due loro nuove province.
Quando raggiunse il Golfo Persico, Traiano rivolse malinconicamente
lo sguardo a Est, verso l’India e le più remote conquiste di Alessandro
Magno. Fu costretto ad ammettere di essere troppo in là con gli anni per
poter emulare il suo eroe, e disse: «Sarei certamente arrivato anche presso
gli Indiani, se fossi ancora giovane!»60. Ciò nonostante, scrisse al Senato
che era arrivato più lontano di Alessandro Magno. I senatori a loro volta
lo proclamarono Partico e affermarono che poteva celebrare un trionfo
per quante nazioni volesse, poiché aveva loro riferito un numero di
trionfi maggiore di quanti essi ne potessero seguire.
I parti, però, si radunarono nuovamente. Fomentarono una ribellione in
Mesopotamia e attaccarono le linee di rifornimento romane a nord fino
all’Armenia. Allo stesso tempo, le comunità ebraiche si sollevarono nelle
province orientali fuori dalla Giudea e in Mesopotamia. Fu una rivolta di
grandi dimensioni, originata dal malcontento per il settarismo e le tasse,
oltre che dalla volontà di sostenere i parti, e per reprimerla Traiano
dovette inviare truppe e comandanti esperti. L’imperatore riuscì a
riprendere il controllo della Mesopotamia e fece ritorno a Roma. Il
governo romano in Oriente, però, rimaneva fragile.
Mentre puntava verso nord, Traiano mirò a un’ultima vittoria cercando
di assaltare la ricca città carovaniera di Hatra (nell’Iraq settentrionale).
Prese parte di persona all’attacco condotto dalla cavalleria, che ebbe un
esito quasi fatale, come si legge in un rapporto. Sebbene si fosse tolto il
mantello purpureo per evitare di essere riconosciuto, i nemici, «vedendo
la maestosità della sua canizie e la fierezza del suo portamento,
sospettarono della sua identità, mirarono contro di lui con le frecce ed
uccisero uno dei cavalieri che lo scortavano»61. Si trattò di uno sforzo
notevole per un uomo di oltre sessant’anni, che mostra quanto
l’imperatore amasse il combattimento.
Per Roma il controllo dei nuovi territori si rivelò impossibile. Quando
Traiano raggiunse Antiochia, nel 117, aveva di fatto già perso tutte le sue
conquiste orientali. La Partia aveva ripreso il controllo dei territori
appena perduti. Per Roma la guerra fu sanguinosa, costosa e infruttuosa.
Alla fine, l’ultima sua importante conquista fu la Dacia e non la Partia.
MORTE A TRAIANOPOLI
Nel momento in cui dovette affrontare una sconfitta in Oriente, la salute
di Traiano venne meno. Un busto bronzeo che qualcuno identifica con
l’imperatore nei suoi ultimi anni ritrae un uomo dalle guance infossate, il
naso prominente, la fronte corrugata e uno sguardo che lascia trasparire
un tormento, come se presentisse la fine66. A quanto si sa, nel 117 ebbe
un colpo apoplettico, che gli provocò una parziale paralisi67. La causa era
probabilmente genetica o dovuta alle sue difficili condizioni di vita, ma
Traiano si convinse di essere stato avvelenato. Non ci sarebbe da stupirsi
che un uomo come lui, alla fine dei suoi giorni, si sentisse amareggiato,
avendo visto i propri successi in Partia appassire come dei fiori recisi.
Sebbene il suo lungo declino non si possa spiegare col veleno, non è
inconcepibile che qualcuno alla fine gli somministrasse, malfermo di
salute com’era, qualche sostanza per farlo fuori.
Plotina e Matidia convinsero Traiano a rientrare a Roma. Nessuno dei
suoi predecessori era morto fuori dall’Italia, e nessuno voleva che Traiano
fosse il primo. Così, assieme al gruppo dei suoi congiunti, salpò dal
porto di Antiochia. Dopo due o tre giorni, però, le sue condizioni erano
talmente critiche che l’imbarcazione dovette attraccare nel porto più
vicino, Selinunte, in una regione frastagliata chiamata «Cilicia Aspra»
(l’odierna costa sud-occidentale della Turchia). Uno scrittore antico la
descrive come una zona la cui «costa è stretta, e non è mai o quasi mai
piana; e oltre a ciò, è situata ai piedi dei Monti Tauri, il che consente solo
uno scarso sostentamento»68. Il principale motivo della sua fama derivava
dal fatto che fosse stata un covo di pirati. Non era un posto nel quale
andare in cerca di gloria: nessun palazzo e nessun campo di battaglia. È là
che l’8 agosto 117, a sessantatré anni, l’imperatore morì, reso invalido
dalla paralisi e, come rileva Cassio Dione, sofferente per un grave edema.
Selinunte venne ribattezzata Traianopoli. Nella città sorsero nuovi edifici
e, in particolare, un monumento a due piani e un tempio a lui dedicato,
ma non diventò mai un centro degno della grandiosa ambizione di
Traiano.
I resti dell’imperatore sarebbero stati riportati ad Antiochia per la
cremazione, per poi giungere, dopo un lungo viaggio, a Roma. Dopo
l’onore di una parata trionfale, furono collocati in un’urna alla base della
colonna Traiana. Sebbene all’interno della città di Roma le sepolture
fossero proibite, fu fatta un’eccezione per l’uomo definito dal Senato il
miglior sovrano di Roma.
Forse. O forse Traiano fu un magnifico e machiavellico anacronismo,
che garantì un governo sorprendentemente buono quando riuscì a
mettere da parte la sua vanagloria. Raro esempio di conquistatore-
imperatore, non era un intellettuale, ma in compenso eccelse in saggezza
pratica. Coniugò scaltrezza e autocontrollo. Concentrò il potere nelle sue
mani, ma rispettò la dignità dei senatori e risparmiò loro la vita. Gratificò
il popolo, non dimenticando al contempo di ricompensare le proprie
legioni. Promosse l’immagine di un patriarcato, che poté essere un
sollievo dopo le bizzarrie dei suoi predecessori, ma probabilmente sua
moglie gestì un potere notevole. Sebbene acquisisse credito per i suoi
grandiosi lavori pubblici, essi andarono al servizio del popolo, e non
semplicemente del suo ego. Promosse il commercio e le comunicazioni.
Da guerriero qual era, gettò le basi per la più grande epoca di pace e
prosperità della storia romana.
E tuttavia, quella ricchezza non era ripartita equamente. La maggior
parte degli abitanti – decine di milioni di persone – viveva in povertà,
mentre altri milioni erano schiavi e vivevano in catene. La situazione era
leggermente migliore per la popolazione libera dell’Italia e soprattutto di
Roma. La maggior parte delle persone poteva essere grata almeno per la
pace romana, considerando quanto spesso, invece, la storia del mondo
antico era sanguinaria.
Eppure, lo stesso Traiano massacrò decine di migliaia di persone in
Dacia, distruggendo la lingua e la cultura di quelle terre. Si ostinò a
muovere guerra contro i parti in Oriente, andando incontro a un
completo fallimento. E poi ci fu la questione della successione.
La filosofia di governo di Traiano era che Roma potesse avere tutto.
Egli poteva espandere l’impero, promuovere una frenetica attività edilizia
e di miglioramento delle infrastrutture, dare avvio a un nuovo
programma assistenziale in Italia e soddisfare il Senato, il popolo e
l’esercito allo stesso tempo. E Roma poteva permettersi tutto questo
senza rovinare il bilancio o esaurirne le risorse. Il suo successore avrebbe
rimesso in discussione queste conclusioni.
Ma chi sarebbe stato al governo dopo di lui? Trovare una soluzione al
problema era di estrema importanza. Traiano non l’aveva fatto, anche se
aveva preso alcune decisioni in tal senso. Alla fine, sistemò le cose sul
letto di morte. Oppure lo aveva fatto? L’incertezza su come fossero
andate veramente le cose contribuì a generare la violenza che avrebbe
afflitto fin dall’inizio il successivo regno – quello di un altro romano di
origine spagnola, lontano cugino di Traiano, di nome Adriano.
1
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.24-25.
2
Mustapha Meghraoui et al., Evidence for 830 Years of Seismic Quiescence from Palaeoseismology,
Archaeoseismology and Historical Seismicity Along the Dead Sea Fault in Syria, in «Earth and
Planetary Science Letters», CCX (2003), pp. 35-52.
3
Plinio il Giovane, Panegirico LXXXVIII.4
4
Eutropio, Compendio di storia romana VIII.2 e VIII.5; si veda Julian Bennett, Trajan, Optimus
Princeps: A Life and Times, Indiana University Press, Bloomington 1997, p. 107.
5
Svetonio, Domiziano XIII.2.
6
Ivi, III.
7
Ivi, XVIII.
8
Si vedano, ad esempio: Musei Capitolini (Roma), inv. MC 1156; Museo del Louvre (Parigi),
inv. Ma 1264.
9
Museo del Louvre (Parigi), inv. Ma 1193.
10
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.74; Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 13.8.
11
Plinio il Giovane, Panegirico XV.1-3.
12
Svetonio, Domiziano XXI.
13
Cassio Dione, Storia romana LXVII.15.2-4.
14
Publio Cornelio Tacito, Agricola, III, in Id., Gli annali. La vita di Giulio Agricola, Garzanti,
Milano 1981.
15
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.3.4; Plinio il Giovane, Panegirico VIII.6, VII.6-7 e VIII.1.
16
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.5.5.
17
Si veda, ad esempio, Glyptothek (Monaco di Baviera), inv. 336.
18
Ronald Syme, Tacitus, Clarendon Press, Oxford 1958, p. 39.
19
Plinio il Giovane, Lettere ai familiari III.20.12.
20
Id., Panegirico 20.
21
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.7.3.
22
Eutropio, Compendio di storia romana VIII.5.1.
23
Plinio il Giovane, Lettere ai familiari V.6.36.
24
Marco Cornelio Frontone, I fondamenti della storia. Elogio del fumo e della polvere. Elogio della
negligenza, in Id., Opere, a cura di Felicia Portalupi, Torino, UTET 1974, 18 (A 259), p. 443.
25
Giovenale, Satire X.81.
26
Dione Crisostomo, Orazione 31.31 (Dio Chrysostom, Discourses 31-36, con traduzione
inglese di James Wilfred Cohoon e Henry Lamar Crosby, Harvard University Press -
Heinemann, Cambridge, MA - London 1940).
27
Plinio il Giovane, Lettere IX.2.
28
Id., Panegirico 44.
29
Digesto XXIX.1.
30
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.23.1.
31
Ivi, LXVIII.8.2.
32
Ivi, LXVIII.5.6.
33
Plinio il Giovane, Panegirico 83.8.
34
Ivi, 83-84.
35
Nicomaco di Gerasa, Encheiridion Harmonicum, in Karl von Jan, Musici Scriptores Graeci.
Aristoteles, Euclides, Nicomachus, Bacchius, Gaudentius, Alypius et Melodiarum Veterum Quidquid
Exstat, Teubner, Stuttgart 1995 [1895], p. 242, rigo 14.
36
Plinio il Giovane, Lettere ai familiari IX.28.1.
37
Edith Mary Smallwood (ed.), Documents Illustrating the Principates of Nerva, Trajan and Hadrian,
Cambridge University Press, Cambridge 1966, docc. 442 e 152.
38
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 42.21.
39
Filostrato, Vite dei sofisti I.7, p. 75.
40
Dione Crisostomo, Sul regno 3.119. (Dio Chrysostom, Discourses 1-11, con traduzione
inglese di J.W. Cohoon, cit., 1932).
41
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 42.20–21; Cassio Dione, Storia romana
LXVIII.5.5.
42
Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. XI, Inscriptiones Aemiliae, Etruriae, Umbriae Latinae, pars
II, fasc. 1, Inscriptiones Umbriae, viarum publicarum, instrumenti domestici, a cura di Eugen
Bormann, Brandenburg Academy of Sciences and Humanities, Berlin 1968 [1901], 6520, p.
981; cfr. Plinio il Giovane, Lettere ai familiari IX.28.1.
43
Gaditanus – il culto di Ercole di Gades (l’odierna Cadice), città situata di fronte all’isola nella
quale si narra che Ercole compì le sue fatiche.
44
Si veda, ad esempio, RIC II Trajan 49 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.2.tr.49_denarius).
45
Plinio il Giovane, Panegirico 14.5 e 82.7; il paragone fra Traiano ed Ercole si ritrova anche in
Dione Crisostomo, Orazione 1.56-84 (Dio Chrysostom, Discourses 1-11 cit.).
46
Plinio il Giovane, Panegirico 80.3-5.
47
Si veda, ad esempio, RIC II Trajan 128 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.2.tr.128).
48
Plinio il Giovane, Carteggio con Traiano X.96.8.
49
Ibid.
50
Ivi, X.97.2.
51
Ivi, XX.97.1.
52
Cassio Dione, Storia romana LXVII.6.1.
53
Ivi, LXVIII.14.1.
54
Si tratta di un pannello che ritrae l’imperatore in battaglia a cavallo, uno dei bassorilievi del
grande fregio traianeo rimossi da un precedente monumento per adornare la parte centrale
dell’arco di Costantino, a Roma.
55
Prisciano, Institutio de arte grammatica VI.13.
56
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 41.13.
57
Aulo Gellio, Le notti attiche XIII.25.
58
La demolizione del Quirinale fu avviata da Domiziano, ma fu Traiano a progettare e a
portare a termine il resto dell’intervento edilizio.
59
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.17.1.
60
Ivi, LXVIII.29.1.
61
Ivi, LXVIII.31.3.
62
Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 3 voll., a cura di
David Womersley, Penguin, Harmondsworth 1994, vol. I, p. 103 (trad. it. di Giuseppe Frizzi,
Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, con un saggio di Arnaldo Momigliano, Einaudi,
Torino 1967).
63
Per queste stime, e più in generale per l’economia di mercato, si veda Peter Temin, The
Roman Market Economy, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2013.
64
Kyle Harper, The Fate of Rome: Climate, Disease and the End of an Empire, Princeton
University Press, Princeton (NJ) 2017, pp. 14-15 e 39-55 (trad. it. di Luigi Giacone, Il destino
di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero, Einaudi, Torino 2019).
65
Si veda l’analisi presentata da Frank McLynn, Marcus Aurelius: A Life, Da Capo Press,
Cambridge (MA) 2009, pp. 2-13.
66
Museo delle civiltà anatoliche (Ankara), inv. 10345; fra coloro che contestano questa
identificazione, si veda Stephen Mitchell, The Trajanic Tondo from Roman Ankara: In Search of
the Identity of a Roman Masterpiece, in «Journal of Ankara Studies», II (2014), 1, pp. 1-10.
67
Cassio Dione, Storia romana LXXV.32-33.
68
Strabone, Geografia (The Geography of Strabo, traduzione di Horace Leonard Jones, 8 voll.,
Harvard University Press, Cambridge (MA) 1929, vol. VI, p. 327).
Adriano
6
Adriano, il greco
LA CRISI DI SUCCESSIONE
Come abbiamo visto, alcuni contestavano la veridicità della storia
secondo cui Traiano in punto di morte aveva adottato Adriano. Questi
però disponeva di una risposta efficace: le legioni orientali, il cui
appoggio aveva ottenuto immediatamente dopo essersi mosso
intelligentemente, con la concessione a loro favore di un doppio premio.
In seguito, presentò le sue scuse al Senato per essersi preso il trono senza
chiederne il consenso. Ma lo Stato, disse, non poteva essere lasciato privo
di un imperatore. Nel frattempo, come Vespasiano, altro sovrano che
aveva conquistato il potere con la forza, prese a considerare come inizio
del proprio regno il giorno in cui era stato acclamato dall’esercito: l’11
agosto 117.
Il nuovo regno si aprì con una serie di omicidi di ex marescialli di
Traiano, quasi come in una faida malavitosa. Alcuni erano suoi rivali per
il potere imperiale, altri non condividevano le politiche militari di difesa
che Adriano aveva in mente. A Roma, l’ex tutore di Adriano, Attiano,
dichiarò di avere scoperto un complotto organizzato da quattro uomini
contro il nuovo imperatore. Erano personaggi di notevole spessore: ex
consoli dello Stato romano, fra i quali uno dei più stretti collaboratori di
Traiano e un altro uomo che riscosse l’ammirazione di Plutarco. Vennero
uccisi senza processo, e il Senato fu costretto ad approvare. Molti senatori
non perdonarono mai il loro nuovo sovrano per quello che venne
definito «il caso dei quattro ex consoli», ma quasi tutti ebbero paura di
lui. Quanto ad Attiano, Adriano lo promosse senatore, il che significa
che dovette lasciare il suo incarico di prefetto del pretorio, un posto
riservato ai cavalieri romani.
Nonostante tutto il suo amore per la filosofia, le arti e l’astrologia,
Adriano era spietato, violento e senza scrupoli. Tuttavia era anche un
buon politico, e sapeva riallacciare i ponti. A Roma elargì somme di
denaro ai poveri, bruciò i registri delle tasse inevase, allestì splendidi
giochi gladiatori e lanciò un grande programma edilizio.
Adriano, però, non credeva nel governo costituzionale. Gibbon ne
riassume efficacemente il carattere, scrivendo: «Fu di volta in volta un
eccellente principe, un ridicolo sofista e un geloso tiranno»21.
I VIAGGI DI ADRIANO
Nessun imperatore dai tempi di Augusto aveva viaggiato nelle province
quanto Adriano, il quale alla fine percorse un territorio perfino più vasto
del suo predecessore. Il suo regno durò ventun anni, e fu il più lungo dai
tempi di Tiberio. Passò circa la metà del tempo in viaggio. Quando era
nel suo pieno vigore, dai quarantaquattro ai cinquantacinque anni, tra il
120 e il 131, fu raramente a Roma. Negli anni dal 121 al 125 fece un
lungo giro nelle province nord-occidentali, poi si diresse verso est, in
Grecia e in Asia Minore. Pochi anni dopo, a partire dal 128, si recò in
visita in Sicilia, nell’Africa del Nord, in Egitto e in altri territori del
Mediterraneo orientale, soprattutto in Grecia. Poi fu la volta della
Giudea, per affrontarvi questioni urgenti.
Non fu un temperamento inquieto a spingere Adriano a viaggiare, ma
un desiderio di rifare l’impero fin dalla base. Era anche un modo per
fuggire da Roma, da un Senato e da un popolo che gli apparivano
bisognosi di continue attenzioni e insaziabili.
Il personale che lo seguiva nei suoi viaggi, comprendente fra l’altro
segretari imperiali, burocrati, parassiti, servi, la moglie con il suo seguito,
era una sorta di seconda Roma, un governo itinerante. Insomma, una
sorta di Air Force One (l’aereo presidenziale statunitense) del mondo
antico. Doveva essere uno spettacolo vedere l’imperatore e la sua corte in
movimento, ma non tutti se ne facevano intimidire. Una volta un’anziana
donna tentò di fermare Adriano mentre stava passando, per consegnargli
una petizione. Quando le disse che non aveva tempo per ascoltarla, lei
rispose che in quel caso non sarebbe più stato imperatore. E lui le
concesse udienza27.
Ovunque l’imperatore si recasse, faceva tappa in una delle basi militari
romane. La sua politica di non espansione richiedeva di mantenere
sempre perfettamente pronto l’apparato militare. Un autore antico
commenta così questo aspetto: «Benché desideroso di pace curò
l’addestramento dell’esercito sul piede di guerra»28. E inoltre, Adriano
amava l’esercito.
L’imperatore era un uomo forte e virile, il cui cuore batteva per
l’accampamento militare. Durante una visita ad una guarnigione di
legionari nell’Africa del Nord, ad esempio, dopo aver assistito a una serie
di manovre, disse alle truppe riunite: «L’eccezionale virilità di quel
nobile uomo, il mio vice Catullino [Quinto Fabio Catullino, il
comandante della legione], si riflette in voi che avete servito sotto di
lui»29. Poi ci fu la volta in cui le sue guardie a cavallo guadarono il
Danubio armate di tutto punto, sotto i suoi occhi estasiati30.
Nel 121, dopo essere passato da Roma, Adriano si diresse a nord verso
la Germania, dove affrontò il rigido inverno con disinvoltura. Lo
accompagnavano l’imperatrice Sabina e importanti personalità come il
comandante della guardia pretoriana e il suo segretario personale.
Quest’ultimo è oggi più noto come scrittore, poiché si tratta nientemeno
che di Gaio Svetonio Tranquillo, l’autore del De vita Caesarum (Le vite dei
dodici Cesari). La possibilità di accedere agli archivi imperiali gli permise
di utilizzare una documentazione ricca quante altre mai. La narrazione si
apriva nel 100 a.C. con Giulio Cesare e si concludeva due secoli dopo
con la morte di Domiziano, nel 98. Toccare eventi più recenti sarebbe
stato troppo pericoloso.
Il motivo per cui Adriano si recò in Germania fu la costruzione di una
nuova frontiera a protezione dell’impero. Si trattava di una ininterrotta
palizzata in legno, in sostituzione della rete di forti e di torri di
avvistamento realizzata dai suoi predecessori. Era alta forse tre metri e si
estendeva per circa 560 chilometri lungo quelli che oggi sono i territori
della Germania sud-occidentale, dell’Alsazia e della Svizzera.
Era l’inizio del famoso limes romano, che al momento della sua massima
estensione, nel II secolo, copriva gli oltre 4.800 chilometri dalla
Britannia settentrionale fino al Mar Rosso. Era costituito da mura, torri,
forti, fossati e strade, ma era un complesso tutt’altro che sistematico. Se il
limes rappresentava la difesa della frontiera fissa e stabile, testimoniava
anche i limiti del potere di Roma.
In Germania e altrove il limes svolgeva la funzione di posto di controllo,
ma non costituiva un serio ostacolo nel caso vi fosse un tentativo di
invasione concertato. La sua funzione principale era simbolica: il limes
mostrava dove cominciava e dove finiva l’impero. E anche che Roma
aveva finito di espandersi.
A questo riguardo è significativa la tappa successiva che Adriano fece
dopo la Germania: il Vallo di Adriano in Britannia, ovvero la parte più
famosa del limes costruita sotto il suo regno.
IL VALLO DI ADRIANO
Il Vallo di Adriano si sviluppa lungo i rilievi ondulati del paesaggio
inglese. Estendendosi per una lunghezza di 117 chilometri, dal fiume
Tyne presso il mare del Nord fino all’estuario del Solway sul mare
d’Irlanda, è una delle icone dell’imperialismo romano più note a livello
mondiale, e giustamente attrae milioni di visitatori. E tuttavia, la realtà
storica non corrisponde alla sua immagine moderna.
Adriano e il suo seguito si recarono in Britannia, probabilmente per
l’inaugurazione della costruzione. Era un’opera che andava a gloria
dell’imperatore, e comprendeva anche un significativo corrispettivo del
ponte costruito da Traiano sul Danubio. Alla sua estremità c’erano infatti
un ponte, intitolato ad Adriano, e una serie di torri e forti che si
allungavano verso Occidente attraverso l’isola; e gran parte dell’opera
rifulgeva al sole. Era certo un simbolo del potere di Roma ma, come in
Germania, le sue funzioni dal punto di vista militare erano limitate. Forse
quella più importante consisteva nel separare i diversi popoli britannici
che in precedenza avevano dato vita a un’alleanza e si erano sollevati
contro Roma. Quando nel 117 Adriano salì al trono, nella parte
settentrionale dell’isola c’era stata una rivolta. I particolari restano oscuri,
ma sappiamo che si trattò di un evento importante, che forse determinò
addirittura la distruzione di un’intera legione.
Il muro presentava una triplice serie di difese, fra cui un fossato doppio
a nord e una strada a sud, oltre alla costruzione stessa. Avrebbe impedito a
un gran numero di nemici di penetrare, ma la muraglia era troppo stretta
per poter servire da bastione per i combattimenti.
Sebbene il vallo apparisse imponente osservandolo da lontano, a uno
sguardo ravvicinato si rivelava un’opera poco curata e spesso di scarsa
qualità, costruita da uomini poco esperti. Era stato eretto più per
impressionare che per una reale utilità, e sotto un successivo imperatore
furono necessari ampi interventi di ricostruzione. Il muro in torba
costruito più a nord dal successore di Adriano fu senz’altro meno
appariscente ma decisamente più funzionale. È difficile credere che una
parte dei finanziamenti per la costruzione del vallo non finisse in tasche
private, a causa dei funzionari romani e degli appaltatori locali che vi
facevano la cresta.
Quel mondo popolato dagli addetti alla costruzione e alla sorveglianza
del muro ci ha rivelato però delle sorprese. Non molto tempo fa, infatti,
gli archeologi hanno ritrovato una serie di tavolette in legno
perfettamente conservate nel fango, che gettano luce sulla vita quotidiana
in quei luoghi: dalle manovre militari agli accordi con i costruttori, a un
invito a una festa di compleanno, documento quest’ultimo che
costituisce forse la più antica testimonianza in latino scritta da una donna.
Nella lettera si legge: «Ti invito di cuore a venire da noi, sorella mia,
rivolgo un caloroso invito per esser certa che tu venga da noi, per rendere
ancora più felice la mia giornata con la tua presenza [...]. Ti aspetto,
stammi bene, sorella»31.
I soldati provenivano da tutte le regioni dell’impero – Batavia (negli
odierni Paesi Bassi), Pannonia, Siria, Arabia – e spesso si sposavano e
facevano figli con abitanti locali. Veneravano divinità ibride e senza
dubbio parlavano un latino corrotto. Costituirono la più vasta comunità
multietnica che la Britannia abbia conosciuto fino alla fine del XX
secolo.
Prima che Adriano lasciasse l’isola, dovette affrontare uno scandalo.
Licenziò Svetonio, il comandante dei pretoriani, e altri funzionari,
perché mostravano con Sabina una familiarità eccessiva rispetto a quella
consentita dall’etichetta. Come sempre, la moglie di Cesare doveva essere
al di sopra di ogni sospetto. Se dobbiamo credere alle fonti, Adriano
aveva una mezza idea di divorziare32. Purtroppo, però, ci manca la
versione della moglie!
Questo era l’atteggiamento di Adriano verso l’imperatrice, ma quando
si trattava della sua vita personale, al contrario, tollerava una certa
sfacciataggine. Il poeta e storico Publio Annio Floro, ad esempio, gli
inviò un motivetto, di cui ci è giunta la parte essenziale, nel quale lo
prendeva in giro per i suoi viaggi:
Non voglio essere Cesare:
s’aggira per le squallide
regioni dei Britannici,
lo punge il freddo Scitico.
IL GIOVANE GRECO
Verso la fine di ottobre del 130, un giovane di vent’anni annegò nel Nilo,
a circa 340 chilometri a sud del Cairo. Non è certo se si trattò di un
incidente o di un suicidio – e, in questo caso, se fosse dovuto a un atto di
amore o di disperazione. Quel che avvenne poi, tuttavia, è assolutamente
chiaro. Improvvisamente, e al di là di ogni ragionevole ipotesi, il giovane
fu dichiarato un dio. Sarebbe poi diventato oggetto di una nuova
religione che eresse una città nel deserto, e ispirò devozione, costruzione
di templi, feste, giochi e capolavori dell’arte greco-romana, dal
Mediterraneo orientale all’Italia, destinata a durare secoli prima che il
cristianesimo vi ponesse fine. Fu una delle ultime fioriture dell’arte
classica e del paganesimo greco-romano gestito dallo Stato. E, in modo
sinistro e involontario, indicò la strada che sarebbe stata percorsa in
futuro.
Il giovane in questione si chiamava Antinoo. Era originario di
Claudiopolis (Bolu, nell’odierna Turchia, a 240 chilometri a est di
Istanbul), una città di provincia nella stessa regione della Bitinia da cui
Plinio il Giovane scrisse a Traiano riguardo ai cristiani. Antinoo era di
bellissimo aspetto e condivideva con Adriano l’amore per la caccia. A
parte questo, di lui non si sa altro. Non sappiamo a quando risalisse
l’incontro fra i due, anche se l’ipotesi più probabile è che fosse avvenuto
in occasione del passaggio di Adriano da Claudiopolis, nel 123, quando
Antinoo aveva tredici anni. Non sappiamo se fra loro vi fosse una
relazione fisica, ma che l’imperatore amasse quel giovane è fuor di
dubbio.
Come Marco Antonio, Adriano s’innamorò di una persona greca. Per
Antonio fu Cleopatra; per Adriano, Antinoo. In entrambi i casi,
l’infatuazione li portò fino in Egitto. Adriano vi arrivò attorno all’agosto
del 130. Prima di lui avevano visitato quel paese solo due imperatori:
Augusto e Vespasiano. Adriano aveva in progetto di ispezionare la più
ricca provincia romana e di rafforzarvi la presenza greca fondandovi una
nuova città greca nella media valle del Nilo. È possibile che all’origine di
quel viaggio vi fossero anche motivi di salute. In una fonte più tarda, e
senz’altro a lui ostile, si legge che Adriano si recò in Egitto perché era
malato37. Forse si trattava di una malattia respiratoria, magari il primo
manifestarsi del morbo cronico di cui poi sarebbe morto. L’Egitto aveva
fama di essere un luogo adatto alla cura delle affezioni dell’apparato
respiratorio. Ma si tratta di speculazioni, e se l’imperatore aveva problemi
di salute, non erano abbastanza seri da impedirgli di viaggiare fin lì.
Una volta giunto in Egitto, Adriano si recò in visita alle tombe di
Pompeo e di Alessandro Magno. Ad Alessandria prese parte ai dibattiti
che si tenevano al Museo, la grande istituzione educativa cittadina.
Adriano amava dibattere con i (si legga: battere i) sofisti, gli oratori e gli
intellettuali itineranti dell’epoca. Uno di loro, Favorino, spiegò
chiaramente per quale motivo permetteva all’imperatore di avere la
meglio nelle loro dispute, considerando «più dotto di tutti uno che ha al
suo comando trenta legioni!»38.
Sembra che Adriano e Antinoo si rifugiassero insieme in un luogo di
villeggiatura fuori Alessandria. È certo, in ogni modo, che entrambi
presero parte a una caccia al leone nel deserto occidentale dell’Egitto.
Antinoo faceva parte del gruppo dei cacciatori, e l’arte e la poesia ufficiali
narrano che l’imperatore lo salvasse da un leone uccidendo l’animale39.
Adriano viaggiava con un vasto personale al seguito comprendente vari
funzionari, studiosi, poeti, parassiti e via dicendo: qualcosa forse come
cinquemila persone. Sopravvivono testimonianze del notevole impegno a
cui erano sottoposte le città egizie per preparare le vivande per il loro
arrivo40. Con l’imperatore c’era non solo Antinoo, ma anche sua moglie
Sabina. Almeno due anni prima, Adriano le aveva assegnato il titolo
onorario di Augusta. Ciò rafforzava la sua legittimazione come
imperatore e costituiva anche un gesto di rispetto per la consorte, forse
perfino un gesto di amore. Il gruppo imperiale s’imbarcò per una
crociera sul Nilo. Lungo il percorso, oltre a visitare le piramidi e altre
attrazioni turistiche dell’epoca, Adriano consultò sacerdoti e maghi su
questioni riguardanti la vita e la morte.
Il 22 ottobre l’Egitto celebrava la festa annuale dedicata al Nilo. Il 24
ottobre era l’anniversario della morte del dio Osiride nel Nilo. Secondo
le credenze locali, Osiride aveva trionfato sulla morte e portato fertilità e
immortalità a quelle terre. Fu più o meno in questo periodo, forse quel
giorno stesso, che Antinoo annegò, proprio in quel tratto della valle del
Nilo in cui Adriano progettava di costruire la nuova città. Nell’arco di
una settimana, il 30 ottobre, l’imperatore dichiarò che il nuovo
insediamento sarebbe sorto nel luogo esatto in cui il corpo del giovane
era stato depositato a riva. Non vi è dubbio che in origine avesse pensato
di denominare il nuovo centro Hadrianopolis, ma ora decise per
Antinopolis.
Adriano scrisse, forse nella sua perduta autobiografia41, che Antinoo era
caduto nelle acque del Nilo accidentalmente42. Ma l’imperatore avrebbe
negato il suicidio del giovane perché il costume egizio negava ai suicidi
l’immortalità, ed era invece proprio l’immortalità che Adriano e i suoi
consiglieri intendevano attribuire al giovane. Altri scrittori antichi
forniscono una versione diversa43. Alcuni affermano che Antinoo si era
sacrificato nobilmente e altruisticamente per garantire lunga vita ad
Adriano, mentre altri sostengono che il giovane si suicidò disperato
perché Adriano insisteva per continuare la loro relazione amorosa anche
una volta passata l’età della decenza. Si tratta di supposizioni, se non di
pettegolezzi maliziosi. Né i greci né i romani avevano il costume di
considerare il sacrificio della vita personale come un mezzo magico per
allungare la vita di qualcun altro, ma forse Antinoo era semplicemente un
adolescente in preda al turbamento. Ma non sapremo mai quali furono i
motivi del suo annegamento.
Adriano tenne duro, e il gruppo imperiale continuò a ridiscendere il
Nilo, come se non fosse successo nulla. Si recarono a vedere una famosa
statua colossale di un faraone egizio, che i greci pensavano fosse il
leggendario re etiope Memnone. La statua era celebre perché emetteva
uno strano suono acuto, soprattutto all’alba, probabilmente dovuto
all’evaporazione della rugiada nella roccia. Fu lì che la compagna di
viaggio di Sabina, Giulia Balbilla, una nobildonna poetessa di
discendenza mista greco-romana, recitò quattro poesie. I versi
celebravano la visita di Adriano e Sabina alla statua, e in seguito furono
inscritti sul piede e sulla caviglia sinistri della statua, nella posizione più
in vista. Sabina stessa lasciò quattro righe di testo in prosa greca nello
stesso posto:
Sabina Augusta,
moglie dell’imperatore Cesare
Adriano, udì Memnone
per due volte nell’ora...44
LA GUERRA GIUDAICA
Adriano provocò una nuova ed enorme rivolta giudaica contro Roma,
che si protrasse dal 132 al 135. La causa scatenante fu probabilmente la
sua decisione di rifondare Gerusalemme facendone una città romana.
Proibì inoltre la circoncisione, che costituiva una pratica fondamentale
per gli ebrei (ma forse si trattò solo di una forma di punizione
conseguente alla ribellione: la cronologia è incerta). Si potrebbe pensare
che dopo la distruzione della città operata da Tito nel 70, Gerusalemme
fosse una landa desolata, ma in realtà era ancora abitata. Nell’antichità,
spesso piccoli gruppi di persone continuavano a vivere nelle città
«distrutte». Così, a Gerusalemme non solo era di stanza una legione, ma
continuavano a risiedervi anche ebrei. Sebbene il tempio fosse stato
distrutto, esistevano sette sinagoghe.
Sia Traiano sia Adriano accennarono inizialmente a politiche più
amichevoli nei confronti dei giudei, forse lasciando addirittura
intravedere una ricostruzione del tempio. Ma i progetti per la
costruzione di Aelia Capitolina, annunciati nel 130, posero fine a tutto
ciò. La nuova città avrebbe avuto un carattere profondamente romano,
una pianta ortogonale e sarebbe stata intitolata ad Adriano (Aelius) e a
Giove (Giove Capitolino).
La rivolta, quando scoppiò, fu violenta e spettacolare. I ribelli si
prepararono accuratamente fabbricando armi e utilizzando le grotte sia
come fortezze sia come rifugi. Dichiararono l’indipendenza e la
consolidarono, riuscendo a strappare ai romani un’ampia parte della
Giudea e a governarla per tre anni. Vararono leggi, coniarono monete e,
soprattutto, combatterono una guerra.
Diversamente dalla rivolta avvenuta fra il 66 e il 70, i giudei si
mostrarono uniti. Il loro capo era un uomo carismatico, spietato ed
efficiente, che assunse il nome di battaglia di Simon Bar Kōkĕbā, vale a
dire «Simone figlio di una stella». In questa scelta si può forse scorgere un
riferimento a una profezia biblica, o alla nuova stella che gli astrologi di
Adriano osservarono dopo la morte di Antinoo, o a entrambe le cose.
Bar Kōkĕbā assunse il titolo di principe di Israele, e le sue monete
annunciavano libertà e redenzione. Gli ebrei speravano che egli fosse il
Messia. I romani vi videro una minaccia alla sicurezza così grave da
richiedere una risposta forte, soprattutto quando gli attacchi dei rivoltosi
causarono perdite tali da provocare lo scioglimento di una o forse due
legioni.
Agli occhi di Adriano i ribelli poterono apparire ingrati, poiché non
accettavano di essere liberati dalle loro arretrate credenze. Prima di
decidere di costruire Aelia, parlò forse con gli ebrei ellenizzati, i quali gli
assicurarono che la maggior parte della popolazione locale avrebbe
accolto a braccia aperte l’ellenismo. Ma la realtà sarebbe stata ben diversa.
Adriano non fu né il primo né l’ultimo degli statisti occidentali a
sottovalutare il livello di resistenza che il Medio Oriente era in grado di
opporre ai riformatori stranieri.
Non c’è furia peggiore di quella di un imperatore tradito. Adriano
adottò misure di emergenza, fece accorrere le truppe in Giudea da altre
province e arruolò soldati in Italia, attuando una politica impopolare,
cosa che gli imperatori in genere tentavano di evitare. Spedì sul posto il
suo miglior generale, Sesto Giulio Severo, governatore della lontana
Britannia. L’imperatore forse visitò personalmente il fronte, circostanza
che testimonia la gravità della situazione. La strategia romana consisteva
nell’attuare una lunga e dura campagna contro-insurrezionale per avere la
meglio sui ribelli asserragliati nelle grotte. Al momento opportuno,
strinsero d’assedio la piazzaforte di Bar Kōkĕbā nella città di Betar, poco a
sud-ovest di Gerusalemme. La sua caduta alla fine del 135 segnò la fine
della resistenza organizzata, dopo oltre tre anni dallo scoppio della rivolta.
Bar Kōkĕbā fu ucciso, e la sua testa venne portata – a quanto si dice – ad
Adriano. In Giudea continuarono le operazioni di pulizia del territorio.
Adriano non era Hitler, ovviamente, e non puntava ad annientare gli
ebrei. Tuttavia, colui che fu il più civile degli imperatori romani scatenò
quello che è forse il più grave massacro della storia ebraica prima
dell’Olocausto; le fonti parlano dell’uccisione di 580.000 ebrei48. Come
al solito, si tratta di numeri da prendere con cautela, ma le perdite furono
sicuramente di vasta portata, e ad esse si aggiunsero le persone ridotte in
schiavitù e vendute.
Dopo la rivolta, gli ebrei si trovarono ad essere una minoranza in
Giudea (da allora denominata Siria Palestina). Era loro proibito l’accesso a
Gerusalemme e alle aree circostanti, con un’unica eccezione:
l’anniversario della distruzione del tempio, in occasione del quale
potevano celebrarvi il lutto.
Ciò nonostante, Adriano non distrusse completamente la vita dei
giudei nella loro terra. Con l’afflusso degli esuli dalla Giudea, il numero
degli ebrei in Galilea e in altre aree settentrionali rimase consistente,
mentre anche in Giudea continuò ad esservi una piccola minoranza. La
persecuzione di Adriano si concentrò sui principali rabbini, ma fece
anche dei martiri. Il Talmud considerava questi martirii una
«santificazione del nome di Dio», tale quindi da rafforzare il popolo di
Israele49.
Nel frattempo, la religione giudaica prosperò grazie alle sinagoghe e ai
maestri. I romani permisero ai giudei la libertà di riunione, e alla fine il
successore di Adriano rese meno rigido il divieto di praticare la
circoncisione. Ma la nuova città di Aelia rendeva difficile pensare che il
tempio sarebbe stato ricostruito in tempi brevi. Non sorprende, quindi,
che la tradizione rabbinica maledicesse Adriano, dicendo: «Possano le sue
ossa marcire!»50.
L’EREDITÀ DI ADRIANO
Per certi aspetti, Adriano costituisce un esempio di ciò che un
imperatore non avrebbe dovuto fare. Si sfinì a causa dell’eccessivo lavoro,
quando avrebbe potuto delegarne almeno una parte. Forse si ammalò per
la fatica dei viaggi o perché beveva, anche se è possibile che abbiano
pesato maggiormente fattori genetici o il puro caso. Si intromise
inutilmente negli affari delle province e suscitò una guerra disastrosa in
Giudea.
Adriano salì al trono in circostanze tutt’altro che limpide, e aprì il suo
regno uccidendo quattro uomini di primo piano, suscitando l’odio e la
paura del Senato. Era più cortese con la gente comune che con i suoi
pari, fra i quali non tollerava gli idioti. Era tendente alla malinconia,
volubile e competitivo.
I suoi critici lo definivano saccente e spaccone, dedito ad ogni
immaginabile attività, dalla filosofia alla pittura, e insofferente riguardo a
chiunque lo superasse. Lo storico Cassio Dione, che proveniva da una
famiglia delle province ammessa al Senato, si oppose appassionatamente
ai nemici di quella istituzione, fra cui Adriano, del quale scrisse: «Infatti,
dato che voleva primeggiare in tutto su tutti, odiava coloro che si
distinguevano in qualche attività»61. Quella che qualcuno riteneva
attenzione ai particolari, per altri era ingerenza; quella che alcuni
ritenevano disciplina, per altri era rigidità e ciò a cui alcuni plaudevano
come generosità veniva da altri criticato come ingerenza. Una lunga serie
di conquiste, però, fu in grado di bilanciare tutto questo.
Adriano si definiva il nuovo Augusto, un secondo fondatore
dell’impero, e per certi aspetti aveva ragione. Come Augusto, ricostruì la
città di Roma. Entrambi razionalizzarono, organizzarono e codificarono
il diritto e le consuetudini romane.
Entrambi viaggiarono nei territori delle province e promossero
cambiamenti fondamentali. L’uno e l’altro offrirono opportunità alle
élites provinciali, ma Adriano aprì la porta ancor più di quanto avesse
mai fatto il suo predecessore. Adriano promosse l’ellenismo, mentre
Augusto fu fondamentalmente romano. I due fondarono città, e diffusero
ovunque le loro immagini nell’impero, in misura superiore a qualsiasi
altro predecessore.
Per alcuni aspetti, tuttavia, Adriano fu l’opposto di Augusto – e ciò va a
suo merito, si potrebbe concludere. Sebbene entrambi promuovessero la
pace, Augusto sosteneva l’idea di un impero senza fine (imperium sine fine),
e con le sue continue guerre di conquista mostrò quanto ne fosse
convinto. Come Tiberio, Adriano riteneva Roma una potenza ormai
sazia: si ritirò dai territori conquistati da Traiano in Medio Oriente e
nella Dacia orientale, e costruì muri e fossati, segni di una politica di pace
all’interno e di frontiere stabili. Paradossalmente, Augusto non fu
propriamente un soldato, mentre Adriano amava la vita militare.
In politica, però, i due mostrarono molte differenze. Come Augusto,
Adriano era un genio pragmatico, ma privo della pazienza necessaria per
conciliare il Senato. In lui si intravede un Caligola o un Nerone che
aspettano di esplodere. Forse anche Traiano percepì questo aspetto, e
trovò così un ulteriore motivo per esitare prima di scegliere Adriano
come successore.
Adriano non aveva un alter ego o un braccio destro; nessuno di cui si
fidasse come Augusto aveva potuto fidarsi di Agrippa, o Vespasiano di
Tito, o Traiano di Sura. Ciò nonostante, promosse persone di talento.
Scelse un filosofo come governatore dell’Egitto, uno studioso come
proprio segretario personale, un giurista come riformatore delle leggi e
uno storico e teorico militare come governatore della Cappadocia, in
Asia Minore. Erano tutti intellettuali, ma per comandare la guardia
pretoriana, Adriano scelse un omaccione che proveniva dal rango di
centurione. Adriano aveva una mentalità aperta, ma non era facile
lavorare per lui: licenziò sia il suo segretario sia il prefetto del pretorio.
Era un uomo vanitoso, e si gloriava del suo multiforme talento in
campo culturale e architettonico (attivo come fu in settori come
l’architettura, il canto, il suono della lira, la matematica, la scienza
militare, la filosofia, la sofistica), mentre Augusto era più discreto. In una
delle poche eccezioni a questo suo modo di fare, scrisse il nome di
Agrippa sul Pantheon da lui ricostruito, senza far comparire il proprio,
ma il risultato finì per accrescere il suo merito perché in tal modo
associava la propria opera all’età augustea.
Augusto aveva centrato la sua vita personale sul matrimonio, sui figli e
sui nipoti, mentre Adriano era prima di tutto omosessuale, ed ebbe una
relazione amorosa con un giovane greco che avrebbe suscitato scandalo
nel suo predecessore, come fece con alcuni suoi contemporanei.
Entrambi crearono una nuova religione, ma Augusto concentrò
l’attenzione sul proprio padre adottivo, sulla propria famiglia e su sé
stesso, non su un giovane greco defunto.
Molti osservatori ritengono che l’epoca di Adriano costituisca l’apogeo
dell’impero romano. Adriano riuscì ampiamente nel suo scopo di
garantire all’impero pace, prosperità e maggiore apertura. Sotto di lui,
Roma e l’Oriente greco conobbero una ricca produzione culturale e una
fioritura delle arti. Alcuni dei più famosi monumenti antichi giunti fino a
noi risalgono al periodo del suo regno. Su tutto ciò aleggia il volto di
Adriano. Egli è non solo uno degli imperatori più spesso raffigurati
nell’arte antica, ma anche il più interessante: bello, intelligente, di volta in
volta compassionevole e terribile, con la barba che gli conferisce un
aspetto da filosofo, il portamento militare, l’espressione enigmatica.
Adriano ha lasciato un ricco patrimonio al suo successore. Sotto
Antonino Pio l’impero fu, se non altro, più pacifico e fiorente che sotto
lo stesso Adriano. Marco Aurelio cominciò continuando le politiche di
confine di Adriano, ma poi impresse agli eventi un corso diverso.
Forse ciò non sorprende, perché Adriano, nonostante tutto il suo
successo, suscita in noi il sentimento di una fine imminente. Aveva
coltivato un elitarismo greco-romano, costruito fortificazioni di confine
più appariscenti che di sostanza, represso ribellioni che avevano lasciato i
sopravvissuti spiritualmente più forti e fondato una nuova religione il cui
fascino doveva ancora essere messo alla prova. La rinascita del paganesimo
si sarebbe rivelata di breve durata. Il sistema delle difese di frontiera non
tenne a distanza i nemici che vivevano dall’altra parte. E i romani non
avrebbero mostrato a lungo l’autocontrollo necessario a non riprendere il
vecchio impulso a un’espansione senza fine.
1
Cassio Dione, Storia romana LXIX.1.2-4.
2
Historia Augusta, Adriano IV.10.
3
Le parole citate sono di Polemone: si veda Simon Swain, Polemon’s Physiognomy, in Id. (ed.),
Seeing the Face, Seeing the Soul: Polemon’s Physiognomy from Classical Antiquity to Medieval Islam,
Oxford University Press, Oxford-New York 2007, pp. 167-168.
4
The Cambridge Ancient History, vol. XI, The high empire, A.D. 70-192, a cura di Alan K.
Bowman, Peter Garnsey e Dominic Rathbone, Cambridge University Press, Cambridge
20002, p. 975.
5
Cassio Dione, Storia romana LXIX.5.3.
6
Ivi, LXIX.9.4; cfr. Historia Augusta, Adriano XVII.9 e XXIII.1.
7
Cassio Dione, Storia romana LXIX.10.3.
8
Historia Augusta, Adriano XIV.11.
9
Ivi, I.5.
10
Plinio il Giovane, Carteggio con Traiano X.40.2.
11
Plutarco, Se sia ben detto «Vivi senza farti notare», in Id., Tutti i Moralia, prima traduzione
italiana completa, testo greco a fronte, coordinamento di Emanuele Lelli e Giuliano Pisani,
Bompiani, Milano 2017, pp. 2194-2198 (1128B-1130D).
12
Quinto Orazio Flacco, Epistola II.1.156-157, in Id., Opere, a cura di Tito Colamarino e
Domenico Bo, UTET, Torino 2002, p. 436.
13
Si veda, ad esempio, il busto conservato al Museo del Prado (Madrid), inv. E00210.
14
Historia Augusta, Adriano XI.3; Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 14.8.
15
Historia Augusta, Adriano III.2.
16
Ivi, III.7.
17
Ivi, III.10.
18
Ivi, IV.1.
19
Ivi, IV.5.
20
Ivi, IV.3-5 e IV. 8-10.
21
Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 3 voll., a cura di
David Womersley, Penguin, Harmondsworth 1994, vol. I, p. 100 (trad. it. di Giuseppe Frizzi,
Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, con un saggio di Arnaldo Momigliano, Einaudi,
Torino 1967).
22
Pausania rileva un’eccezione al rifiuto della guerra da parte di Adriano, vale a dire la
repressione della rivolta giudaica: Pausania, Guida della Grecia, Libro I, L’Attica, introduzione,
testo e traduzione a cura di Domenico Musti, commento a cura di Luigi Beschi e Domenico
Musti, Fondazione Valla, Milano 1990, I.5.5.
23
Cassio Dione, Storia romana LXIX. 4.1-5; cfr. Anthony Birley, Hadrian: The Restless Emperor,
Routledge, London 1997, loc. 6316.
24
Furono numerose le località che aggiungevano al loro nome quello di Adriano, e ne esisteva
anche una chiamata «Caccia di Adriano», perché l’imperatore vi si era recato appunto per
cacciare.
25
John Keegan, A History of Warfare, Hutchinson, London 1993, p. 70.
26
L’espressione sprezzante risale all’architetto di Traiano, Apollodoro (Cassio Dione, Storia
romana LXIX.4.2).
27
Ivi, LXIX.6.3.
28
Historia Augusta, Adriano X.1.
29
Michael Speidel, Emperor Hadrian’s Speeches to the African Army: A New Text, Verlag des
Römisch-Germanischen Zentralmuseums, Mainz 2006, p. 15.
30
Cassio Dione, Storia romana LXIX.9.6.
31
Vindolanda, tavoletta 291: Vindolanda, inv. 85.057
(http://vindolanda.csad.ox.ac.uk/4DLink2/4DACTION/WebRequestTablet?
thisLeafNum=1&searchTerm=Families,%20pleasures%20and%20ceremonies&searchType=b
rowse&searchField=highlights&thisListPosition=3&displayImage=1&d
isplayLatin=1&displayEnglish=1). La traduzione italiana è tratta da Eva Cantarella, Perfino
Catone scriveva ricette. I greci, i romani e noi, Feltrinelli, Milano 2014, pp. 93-94.
32
Historia Augusta, Adriano XI.3.
33
Ivi, XVI.3.
34
Si veda, ad esempio, RIC II Hadrian 29 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.2.hdn.29).
35
Così viene definita Plotina su una moneta d’oro (Kunsthistorisches Museum, Vienna, MK
8622, 134-138).
36
Cassio Dione, Storia romana LXIX.10.2; cfr. Historia Augusta, Adriano XX.12.
37
James Elmer Dean (ed.), Epiphanius Treatise on Weights and Measures: The Syriac Version, con
una prefazione di Martin Sprengling, University of Chicago Press, Chicago 1935, p. 14.
38
Historia Augusta, Adriano XV.13.
39
Per i particolari, si veda Birley, Hadrian cit., pp. 240-243.
40
Più in particolare, si veda ibid.
41
Cassio Dione, Storia romana LXIX.11.2.
42
Ibid.
43
Ivi, LXIX.11.2-3; Historia Augusta, Adriano XIV.6; Aurelio Vittore, De Caesaribus 14.7-9.
44
Patricia Rosenmeyer, Greek Verse Inscriptions in Roman Egypt: Julia Balbilla’s Sapphic Voice, in
«Classical Antiquity», XXVII (2008), 2, p. 337.
45
Caroline Vout, Antinous, Archaeology and History, in «Journal of Roman Studies», XCV
(2005), p. 82.
46
Cassio Dione, Storia romana LXIX.11.4; Historia Augusta, Adriano XIV.7.
47
Historia Augusta, Adriano XIII.5.
48
Cassio Dione, Storia romana LXIX.14.1.
49
Bavli Berachot, 20a; Midrash Tehillim.
50
Si veda, ad esempio, Deuteronomio Rabbah 3:13; Pesikta Rabbati 21.
51
Cassio Dione, Storia romana LXIX.20.1.
52
Historia Augusta, Adriano XXIII.10.
53
Ivi, XXIII.9; Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus, 14.8.
54
Per le monete si veda, ad esempio, RIC II Hadrian 1051A
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.2.hdn.1051A); Harold A. Mattingly, Edward A.
Sydenham, Roman Imperial Coinage, vol. II, Vespasian to Hadrian, Spink & Son, London 1926,
pp. 386 e 399. Per la scultura, si veda Wolfgang Helbig, Die vatikanische Skulpturensammlung.
Die kapitolinischen und das lateranische Museum, vol. I, Führer durch die öffentlichen Sammlungen
klassischer Altertümer in Rom, Teubner, Leipzig 1891, p. 357; Gerhard M. Koeppel, Die
historischen Reliefs der römischen Kaiserzeit IV, in «Bonner Jahrbücher des Rheinischen
Landesmuseums in Bonn und des Vereins von Altertumsfreunden im Rheinlande»,
CLXXXVI (1986), pp. 1-90.
55
Historia Augusta, Adriano XXV.9.
56
Ivi, XXIV.13: qui si afferma che il medico invece di ucciderlo si suicidò, ma il fatto sembra
attribuibile a una voce di corridoio, forse fatta circolare dai nemici di Adriano.
57
Aurelio Vittore, De Caesaribus, 14.12, dove si può cogliere un’eco di Virgilio, Eneide,
VI.304.
58
Cassio Dione, Storia romana LXIX.17.1-3.
59
Historia Augusta, Adriano XXV.9.
60
Ivi, XXVII.1; Cassio Dione, Storia romana LXIX.23.2.
61
Cassio Dione, Storia romana LXIX.4. Neppure il padre di Dione, Aproniano, era un
ammiratore di Adriano: si veda ivi, LXIX.1.12.
Marco Aurelio
7
Marco Aurelio, il filosofo
IL PRESCELTO
Marco era nato a Roma il 26 aprile del 121. La sua famiglia apparteneva
alla «mafia spagnola», come Traiano e il suo lontano cugino Adriano. I
suoi antenati si erano trasferiti a Roma, dove venne allevato. Alla nascita
gli fu imposto il nome di Marco Annio Vero. Prese a chiamarsi Marco
Aurelio in seguito, quando venne adottato all’interno della famiglia
imperiale.
Come molti altri romani, perse il padre precocemente, a soli tre anni.
All’inizio, fu il nonno paterno ad assumersi la responsabilità di crescerlo
con l’aiuto del patrigno di Domizia Lucilla, madre del bambino. Questa
svolse di fatto un ruolo importante, e Marco visse sotto il suo tetto fino
alla tarda adolescenza.
Domizia Lucilla era nobile e ricca. Fra le sue proprietà c’era una grande
manifattura di mattoni fuori della capitale. Di buona istruzione, leggeva il
greco bene come il latino. Quando Marco Aurelio era giovane, aveva
l’abitudine di sedersi sul suo letto e di conversare con lui prima di cena.
Nei Pensieri il figlio le rivolgerà un ringraziamento per avergli insegnato
«il sentimento religioso, l’altruismo, la ripugnanza non solo a
commettere il male, ma anche a concepire il pensiero di commetterlo;
inoltre la semplicità di vita e l’essere alieno dal modo di vivere dei
ricchi»4. Sebbene ringraziasse per primo suo nonno, per avergli
insegnato la buona morale e la mitezza, e poi suo padre, dalla cui fama
diceva di aver appreso la modestia e il carattere virile, Marco Aurelio si
soffermò molto di più su sua madre5. Come molti uomini romani, si
presentava come una persona formata e modellata, per importanti aspetti,
dalla madre.
Nel 138 la sua vita cambiò, poiché Adriano adottò come proprio figlio
e successore Antonino, e fece sì che questi adottasse sia Lucio Vero sia
Marco. Quando poco dopo, quello stesso anno, Antonino divenne
imperatore, Marco Aurelio andò a vivere nella residenza imperiale sul
Palatino.
Marco Aurelio ebbe una serie di tutori, molti dei quali uomini
eminenti e colti. Il più noto è il massimo oratore latino dell’epoca, Marco
Cornelio Frontone. Nordafricano di origini berbere e cittadino romano,
Frontone fece fortuna a Roma come avvocato. Antonino Pio lo nominò
tutore dei suoi due figli adottivi, Marco e Vero. Di lui sono state
conservate le lettere, comprese molte di quelle che scambiò col suo
allievo. Il futuro imperatore vi appare come un giovane serio, dotato,
talvolta spensierato e perfino insolente, amante della vita di campagna.
Partecipa alla vendemmia, e col suo cavallo disperde il gregge di un
povero pastore per puro divertimento6. Le lettere tendono a esagerare
l’importanza di Frontone agli occhi di Marco Aurelio. Altri maestri
ebbero una maggiore influenza sul giovane, ma su questi rapporti non
sono rimaste testimonianze epistolari.
Marco e Frontone si scrivono nel linguaggio stilizzato della pederastia:
quello dell’amore fra un uomo e un ragazzo. Si dicono continuamente
quanto si amano, talvolta in termini sdolcinati7. In parte si tratta di un
esercizio di reciproca adulazione, in parte mostra l’abilità di entrambi gli
scriventi nell’imitare il linguaggio omo-erotico dei greci classici. È
improbabile che Marco e Frontone si amassero davvero, per non parlare
di una relazione fisica. Se fosse stato così, difficilmente avrebbero
espresso tali sentimenti in lettere che potevano essere lette dalla madre di
Marco Aurelio o dagli schiavi istruiti che solitamente facevano parte del
personale di una ricca famiglia romana. I membri dell’élite romana
disapprovavano le relazioni omosessuali, e potevano persino perseguitare
legalmente i rapporti che coinvolgevano cittadini romani minorenni. Nei
suoi Pensieri, Marco Aurelio si dice favorevole a porre fine agli amori per
i ragazzi8.
Frontone voleva che Marco Aurelio diventasse un retore. Dopo anni di
studio della retorica, però, il giovane declinò l’onore offertogli, e decise
invece di dedicarsi alla filosofia. Nell’antica Roma, proprio come oggi,
un filosofo era un intellettuale impegnato in profonde dispute, ma lui era
anche qualcosa di diverso. Per gli antichi, la filosofia offriva una guida per
vivere: un filosofo era qualcosa di intermedio fra un guru e un prete.
Scegliere un filosofo come erede al trono potrebbe sembrare un
paradosso. A Roma la filosofia era nota soprattutto per la sua opposizione
agli imperatori, non per il suo sostegno. Il principale insegnante di
filosofia di Marco Aurelio, infatti, era il discendente di un filosofo fatto
giustiziare da Domiziano. Ma dopo Nerone, Vespasiano e Domiziano gli
imperatori non perseguitarono più i filosofi. I romani ora godevano,
come scrisse Tacito, «la rara felicità dei tempi presenti, in cui è
consentito pensare quanto si vuole e quanto si pensa esprimere»9.
Sebbene la filosofia di Marco Aurelio fosse eclettica, egli fu influenzato
soprattutto dallo stoicismo, la filosofia più popolare fra l’élite romana. Per
gli stoici il mondo era governato da un principio razionale, il logos, che
guida tutta la natura. Perseguendo la virtù, un uomo buono vivrebbe
secondo natura. L’austerità di questa dottrina era attenuata dalla fede nella
bontà di un universo governato dalla provvidenza divina, nonché nella
fratellanza del genere umano.
Lo stoicismo ebbe origine in Grecia, ma la sua severità attirava il
tradizionale temperamento dei romani, mentre il suo universalismo
appariva congeniale alle loro aspirazioni imperiali. Sotto gli imperatori,
quella filosofia infondeva agli uomini e alle donne il coraggio di resistere
e anche il motivo per farlo, poiché dimostrava la corruzione morale
interiore causata dalla sudditanza a un potere più elevato. E tuttavia, lo
stoicismo non rifiutava la monarchia in quanto tale, ma solo quella
dispotica e corrotta. Un buon imperatore che fosse liberale, moderato,
osservante della legge, animato da senso civico e rispettoso dei suoi
sudditi poteva essere un filosofo.
Così, il fatto che Marco Aurelio fosse un filosofo rappresentava più il
compimento di un ideale che un segno di eccentricità. Illuminato dalla
filosofia, egli realizzò la promessa dei quattro buoni imperatori che lo
avevano preceduto.
Come Adriano, ammirava la filosofia di Epitteto. Lo stoico greco non
mancava di motivi personali per attribuire maggiore importanza alla
mente rispetto alla realtà materiale, in quanto sia il suo corpo sia ragioni
personali gli insegnavano i limiti della carne. Era zoppo, aveva alle spalle
un passato di schiavo in Asia Minore. Era appartenuto a uno dei liberti di
Nerone, prima di ottenere lui stesso la libertà. Dopo essere diventato un
filosofo, Epitteto fu mandato in esilio da Domiziano – e scelse di
rimanervi anche dopo la morte del sovrano, per quanto a quel punto
avrebbe potuto fare sicuro ritorno a Roma. Evidentemente preferiva una
tranquilla vita in provincia. Nel suo pensiero dette importanza al
raggiungimento della libertà interiore. E Marco Aurelio fu assai
influenzato dal suo insegnamento.
Ripensando a Frontone in anni più tardi, Marco Aurelio lo ritenne
meno influente dei suoi insegnanti di filosofia, e non disse una parola
sulle lezioni di retorica che da lui aveva ricevuto. E di fatto, criticava la
retorica ritenendola inferiore alla filosofia. Ringraziò invece Frontone
per averlo aiutato a comprendere fino a che punto arrivassero l’invidia, la
doppiezza e l’ipocrisia dei tiranni, e quanto carente fosse nei cosiddetti
patrizi l’affetto paterno10. Forse era un modo gentile di ringraziare
Frontone perché aveva fatto del suo allievo Marco Aurelio una persona
che parlava onestamente, piuttosto che un imbroglione.
ANTONINO PIO
Antonino aveva scarsa esperienza dell’amministrazione provinciale e della
vita militare, ma Adriano non si aspettava che questo suo successore
cinquantunenne restasse a lungo al potere. Era Marco Aurelio che in
realtà voleva, non solo perché era suo parente ma anche per la sua
eccezionale forza di carattere. Gli attribuì così il soprannome di
Verissimus, con riferimento al nome che portava prima di essere
adottato, Vero. Marco Aurelio evidentemente non ricambiò il
complimento, poiché nel lungo elenco di amici e familiari che ringrazia
nei suoi Pensieri Adriano non compare.
Antonino sorprese tutti regnando per ventitré anni, ancor più di
Adriano. Governò di fatto più a lungo di qualsiasi altro imperatore dai
tempi di Augusto. Una persona di spirito una volta gli disse, dopo aver
visto la madre di Marco Aurelio in preghiera, che probabilmente aveva
chiesto che l’imperatore morisse, in modo che suo figlio potesse
prenderne il posto11. Non si sa quale sia stata la risposta di Antonino. In
ogni caso, Marco Aurelio dovette aspettare di essere quarantenne prima
di salire al potere.
Antonino proveniva da una ricca famiglia romana con radici nella Gallia
meridionale, diventata politicamente importante grazie al sostegno che
aveva garantito a Vespasiano fin dall’inizio. Divenne ancor più ricco
sposando Annia Galeria Faustina – Faustina Maggiore. Nonostante
l’unione di queste due fortune, Antonino cominciò a preoccuparsi per le
spese che la sua nuova posizione comportava, non appena fu adottato da
Adriano. Di lì a poco, quando Faustina Maggiore si lamentò della sua
eccessiva parsimonia nella gestione familiare, si dice che Antonino
rispondesse: «Sciocca, non comprendi che da quando sono salito al
potere ho perso anche quello che prima possedevo?»12.
Antonino fu denominato Pio, il termine latino che stava a significare
«fedele» o «leale». Da una parte, era un riferimento alla sua insistenza nel
tentare di indurre un Senato riluttante a concedere gli onori divini al suo
padre adottivo Adriano. Dall’altra, testimoniava la dedizione ai suoi
familiari e, più in generale, ai valori della famiglia. Non soltanto, quando
divenne imperatore, assunse l’insolita decisione di nominare Augusta sua
moglie, ma aumentò notevolmente il numero delle monete che
raffiguravano l’imperatrice.
In generale, tuttavia, Antonino era un conservatore. Sebbene non si
distinguesse particolarmente per le sue opere edilizie, fece erigere una
struttura che reggeva il confronto con quelle create dai suoi predecessori.
Costruì a Roma un tempio del Divo Adriano, vicino al tempio di
Matidia e Marciana, che a sua volta era a fianco del Pantheon. Chi si
trovasse a passare di lì avrebbe quindi visto in rapida successione i nomi
di Agrippa (sul Pantheon), Matidia, Marciana e Adriano. L’implicita
conclusione era che Antonino, figlio adottivo e fedele di Adriano, era
legittimato a pretendere di governare lui stesso in qualità di Augusto.
Antonino stimava il Senato, diversamente da Adriano, che con esso si
era mostrato spesso crudele. E anche la rinuncia ai viaggi lo distinse dal
suo predecessore. Dopo essere diventato imperatore, infatti, non lasciò
più l’Italia. Sebbene, diversamente da Adriano, fosse attento a contenere
le spese limitando i progetti edilizi, era realista e distribuiva spesso
denaro alla plebe romana e all’esercito. Nel 148 allestì degli splendidi
giochi in onore del novecentesimo anniversario della nascita di Roma.
All’epoca si credeva che Roma fosse stata fondata il 21 aprile del 753
a.C., ma in realtà la vera data non ci è nota. A causa delle notevoli spese
affrontate, Antonino dovette temporaneamente ridurre il titolo argenteo
delle monete romane.
L’élite provinciale non si sentì trascurata per l’assenza dell’imperatore, e
ciò vale indipendentemente dal credito che possiamo attribuire a un
famoso discorso tenuto a quell’epoca da Elio Aristide. Facoltoso greco
dell’Asia Minore nord-occidentale e cittadino romano, il retore arrivò a
Roma e pronunciò un’orazione davanti ad Antonino, concentrandosi
sulla grandezza della pace romana ed elogiando l’equanimità che portava
Roma a condividere la propria cittadinanza con milioni di persone. «Voi
conducete i pubblici affari nell’intero mondo civilizzato esattamente
come se fosse un’unica città», affermò13. Rese gloria ai romani poiché
grazie a loro nei territori dell’impero la guerra era diventata un evento del
passato, e per aver promosso l’agricoltura, il commercio e l’edilizia
pubblica. Oltre a ciò, avevano protetto i confini con qualcosa di ancor
meglio di un muro: l’esercito romano. «La Terra intera», disse, «è stata
resa bella come un giardino»14.
Antonino probabilmente si compiacque nell’ascoltarlo, avendo scarso
interesse per le questioni militari. I suoi generali avevano sistemato le
contese sui confini in Dacia e in Mauretania. Il maggiore sforzo fu quello
messo in atto in Britannia, dove repressero una rivolta, avanzarono nella
Scozia meridionale e costruirono il Vallo di Antonino, un muro di torba
analogo a quello in mattoni costruito da Adriano più a sud. Roma, però,
abbandonò la struttura dopo neppure un decennio dal suo
completamento, essendo evidentemente giunta alla conclusione che il
tentativo di aggiungere ulteriori territori alle sue conquiste era troppo
ambizioso.
Nei suoi Pensieri Marco Aurelio tracciò un elogio di Antonino,
descrivendolo come un uomo devoto alle esigenze dell’impero, energico
e lavoratore, razionale e affidabile, modesto, indifferente agli onori e
immune all’adulazione, tollerante e compassionevole, ordinato ma
deciso; in una parola: indomito15. E tuttavia, Marco Aurelio non faceva
menzione di questioni militari, un silenzio fuori dell’ordinario,
trattandosi di un imperatore romano – e probabilmente non lusinghiero.
Alla frontiera si stava addensando una tempesta e, guardando al passato,
Antonino non aveva fatto niente per preparare Roma a reggerne l’urto.
LA GIUSTIZIA ALL’INTERNO
Antonino morì il 7 marzo 161, nella sua villa di campagna. Sembra che
l’ultima parola che pronunciò fu «moderazione», con un invito a
mantenere la mente calma sotto pressione16. Era un buon consiglio per il
suo successore. Sotto molti punti di vista, Marco Aurelio aveva
un’ottima preparazione per il trono. Grazie all’istruzione ricevuta aveva
una formazione di livello eccellente in retorica e in filosofia, e aveva un
carattere migliore di qualunque altro uomo avesse mai governato Roma.
Prima di diventare imperatore, aveva prestato servizio in tutti gli
incarichi pubblici più importanti. Tuttavia, aveva anche evidenti lacune.
Antonino lo aveva tenuto al guinzaglio al suo fianco in Italia, e sembra
che Marco Aurelio avesse passato solo due notti lontano da casa durante i
suoi ventitré anni di regno17. Nel momento in cui Marco Aurelio
diventò imperatore non aveva mai comandato un esercito né governato
una provincia. Sembra impossibile, ma non era mai uscito dall’Italia. Al
contrario, a suo tempo Augusto, a ventun anni, aveva già alle spalle una
notevole esperienza militare e diplomatica.
Sebbene Adriano aveva fatto in modo che Antonino adottasse sia
Marco Aurelio sia Lucio Vero, per Antonino era chiaramente Marco
Aurelio ad essere destinato al trono. Quest’ultimo, però, per la sorpresa
di molti, associò Vero al trono e agì come una sorta di socio anziano. Era
più vecchio, più rispettato e l’unico titolare della carica di pontefice
massimo. Vero, invece, aveva la meritata fama di mezza calzetta amante
del lusso, sebbene non fosse un uomo vizioso come Nerone o
Domiziano. E prima di allora, nessun imperatore aveva avuto un
coreggente.
Il motivo per cui Marco Aurelio fece questa scelta è molto discusso.
Forse volle rispettare i desideri di Adriano, o forse quel che in realtà
desiderava era disporre di tempo da dedicare alla filosofia. Perfino
quando divenne imperatore, assisteva a conferenze di filosofia. Forse
temeva i potenti membri della famiglia di Vero e preferiva averli con sé
nella tenda, e contenti, piuttosto che tenerli fuori a lottare per entrare.
Forse, però, la vera ragione è che, da filosofo, si rendeva chiaramente
conto che l’impegno richiesto dall’incarico di imperatore era troppo per
un uomo solo. Se è così, era avanti rispetto ai suoi tempi. Il suo
immediato successore non seguì il suo esempio, ma poco più di un
secolo dopo la presenza di due imperatori sarebbe diventata la norma per
Roma.
A influenzare quella scelta poté essere anche il suo stato di salute, che
peggiorò col passare degli anni. Sappiamo che accusava sintomi come
dolori al petto e allo stomaco, emottisi e vertigini. L’imperatore si
avvaleva dell’assistenza di uno dei più famosi medici della storia, Claudio
Galeno, un greco che viveva a Roma. Una volta, già anziano, dopo che
ebbe ricevuto le sue cure, lo proclamò «primo tra i medici e unico tra i
filosofi»18.
Per il trattamento a lungo termine della sua malattia, Galeno gli
prescrisse della triaca, un medicinale composto da vari ingredienti
naturali da assumere con una pillola accompagnata dal vino. L’ingrediente
finale che Galeno aggiungeva alla pillola era l’oppio. Non si può
escludere che la quantità di oppio aggiunta dal medico fosse tale da
provocare l’intossicazione del paziente, ma non possiamo essere certi che
le cose andarono così.
Nei primi anni del suo regno, Marco Aurelio si rivelò un imperatore
popolare. Diversamente da Adriano, non era un cortigiano dedito a
intrighi. Era franco e aperto, almeno quanto poteva esserlo un politico.
Era attento ai desideri degli altri ma – stando a quanto scriveva di sé –
non acuto d’ingegno19. Tollerava il dissenso e perfino gli insulti. Si
impegnava a fondo nel lavoro. Nei primi tempi del suo regno, scrisse a
Frontone che gli era difficile rilassarsi, e si capisce bene il perché, visto il
rigore con cui si occupava degli affari.
Marco Aurelio si rivelò eccezionalmente attento e giudizioso quando
aveva a che fare con le leggi. Dedicò una particolare attenzione
all’affrancamento degli schiavi, alla nomina dei tutori per i minori e gli
orfani e alla selezione di consiglieri municipali per il governo locale delle
province. Si guadagnò la reputazione di essere fermo ma ragionevole.
Come il suo predecessore, ogni qualvolta era possibile decideva a favore
della libertà di uno schiavo.
Marco Aurelio fece di tutto per mostrare rispetto nei confronti del
Senato. Ne ampliò i poteri giudiziari e gli deferì perfino cause sulle
quali, come imperatore, aveva diritto di decidere autonomamente.
Ritenne doveroso partecipare alle sedute ogni volta che si trovava a
Roma. Quando un senatore veniva accusato di un crimine passibile di
pena capitale, prendeva personalmente in esame le prove a suo carico
prima di esporle in pubblico.
L’imperatore si faceva benvolere dalla gente anche in altri modi: ignorò
i rapporti degli informatori; migliorò i provvedimenti assistenziali per i
bambini poveri e vigilò sulle forniture di cereali; tenne le strade di Roma
pulite e in buono stato di manutenzione; si assicurò che in Italia i consigli
municipali fossero al completo e funzionassero in modo efficace.
Tuttavia, in una cosa probabilmente non era popolare: detestava a tal
punto gli spargimenti di sangue che quando assisteva ai giochi, faceva
usare ai gladiatori delle spade spuntate20. Il pubblico preferiva il sangue.
Come il suo predecessore, Marco Aurelio fece economie. Così, si rese
ben presto conto che la spesa militare finiva per sommergere altre
priorità. Non sorprende, quindi, che come Antonino, ma diversamente
da Adriano, si dedicasse poco alle costruzioni. A Roma eresse una
colonna monumentale per celebrare la divinizzazione di Antonino e uno
o più archi trionfali. Non sappiamo se fu Marco Aurelio stesso o il suo
successore a cominciare la costruzione della colonna che celebrava il suo
successo militare, ancora oggi visibile a Roma, e che fu terminata più di
un decennio dopo la sua morte. La statua di Marco Aurelio a cavallo,
oggi così famosa, era modesta se paragonata con quelle erette da altri
imperatori. Il monumento celebra una vittoria sulle tribù germaniche, e
probabilmente risale alla parte finale del suo regno, o a poco dopo la sua
fine.
RITRATTO DI UN MATRIMONIO
Come Adriano, Marco Aurelio si sposò all’interno della famiglia
imperiale, ma – per così dire – ascese a un grado più elevato di nobiltà:
Adriano aveva preso in moglie la nipote di un imperatore, Marco
Aurelio la figlia. Sebbene Adriano avesse nominato Marco Aurelio suo
eventuale successore, Antonino avrebbe potuto revocare la designazione
dopo la morte di Adriano. Invece la confermò, concedendo a Marco
Aurelio, che era nipote di sua moglie, la mano della figlia.
Questa, Annia Galeria Faustina, era praticamente sempre vissuta nel
palazzo godendone i privilegi, poiché suo padre era diventato imperatore
quando lei aveva otto anni. Sua madre, Faustina Maggiore, era una donna
molto ricca, che aveva acquisito l’appellativo di Augusta nel momento in
cui Antonino era diventato imperatore. Due anni dopo, quando Faustina
aveva dieci anni, sua madre morì e fu proclamata dea. Antonino fondò
un’istituzione di carità per le figlie dei poveri, che in memoria di sua
moglie furono chiamate puellae Faustinianae. Di lì a poco, ai margini del
Foro sarebbe sorto un tempio in onore di Faustina Maggiore.
Cinque anni dopo, Faustina sposò Marco Aurelio. Lui aveva
ventiquattro anni, lei quindici. Due anni più tardi, subito dopo la nascita
della sua prima figlia, suo padre attribuì a Faustina il titolo di Augusta.
Marco Aurelio era solo Cesare, quindi Faustina acquisì un rango più
elevato di lui. Ma Antonino provava devozione per sua figlia. Disse che
piuttosto che vivere nel palazzo senza di lei avrebbe preferito vivere in
esilio con lei su un’isola desolata21. Sul letto di morte, affidò lo Stato e sua
figlia a Marco Aurelio. Antonino morì il 7 marzo del 161. Al momento
dell’ascesa al trono di Marco Aurelio, Faustina diventò la prima donna
romana a succedere alla propria madre come imperatrice. Sei mesi dopo
l’avvento al potere di Marco, dette alla luce due gemelli: fu la prima
imperatrice dopo la moglie di Nerone, Poppea, a partorire un figlio
durante il regno del marito. Nei quattordici anni successivi avrebbe
avuto numerosi parti, per un totale di quattordici figli: era un fatto
senz’altro notevole, e la macchina della propaganda lo sfruttò ampiamente
nelle monete22. Solo poco più della metà dei bambini sopravvisse, un
dato che ci ricorda lo sconfortante quadro della mortalità infantile nella
Roma antica23.
La giovane Faustina era non solo nobile, ricca e prolifica, ma anche
bella, come si può vedere dai busti che la raffigurano24. Le immagini che
la ritraggono sulle monete la associano a Venere, la dea dell’amore e del
sesso, oltre che della vittoria25. L’austero Marco Aurelio probabilmente
limitava il suo interesse per le questioni amorose alla procreazione. Si era
compiaciuto di non aver perso la verginità prima che fosse necessario. E
il cuore non era l’unico organo in relazione al quale i due coniugi
differivano: il disaccordo coinvolgeva anche la mente. Faustina non
lasciava la politica al marito: tramava e faceva pressioni talvolta proprio
contro uomini di grado elevato che Marco sosteneva. Voleva divertirsi, e
a modo suo. Marco Aurelio era, invece, tutto dedito agli affari. Si stenta a
credere che il loro fosse un rapporto facile.
A Roma giravano pettegolezzi secondo cui l’infelice Faustina aveva una
serie di relazioni, e non solo con aristocratici ma anche con personaggi di
bassa lega. A Marco Aurelio gli amici riferirono che quando Faustina
stava nella sua villa al mare, frequentava gladiatori e marinai. A quanto
pare, egli rispose così: «Se rimando la sposa, devo pure rimandare la
dote»26. Vale a dire l’impero, che egli aveva ereditato dal suocero.
Marco Aurelio probabilmente comprese, se altri non lo fecero, che
l’impero era una questione di famiglia. Le persone potenti si attirano voci
maligne, e ciò vale ancor più se si tratta di donne, vista la diffusa
misoginia che regnava a Roma. Inoltre, se fossero state vere, le voci
avrebbero messo in dubbio la legittimità dei figli dell’imperatore stesso. Il
quale aveva quindi tutte le ragioni per negare le storie che circolavano
sull’infedeltà di sua moglie. In ogni caso, provava un sincero affetto per
lei. Nei Pensieri la descrisse come devota, affettuosa e semplice27.
Marco Aurelio mostrò senza dubbio anche amore per i figli. Definì, ad
esempio, la sua figlioletta Faustina «un cielo sereno, un giorno di festa,
una speranza prossima, un desiderio che si realizza, una gioia totale,
un’eccellente e perfetta fonte di orgoglio»28. E nel suo scritto fa più volte
riferimento al dolore provato per la perdita di un figlio29.
UN CIRCOLO VIZIOSO
Ben presto le vicende estere distrassero l’attenzione dell’imperatore dalla
sua famiglia. Il ciclo di guerre che si aprì mise infatti in ombra qualsiasi
altra vicenda interna. Lo trasformò da un riformatore illuminato che
governava alla luce del sole nel suo paese a un guerriero impegnato in una
lotta crepuscolare in terre di frontiera. E costrinse un uomo quasi privo
di esperienza militare a diventare un comandante di campo.
Naturalmente, commise degli errori.
Una guerra su due fronti fu il perenne problema di sicurezza con cui
Roma dovette fare i conti, e si trovò ad affrontarlo in concreto per la
prima volta proprio durante il regno di Marco Aurelio. La prima crisi si
determinò in Oriente, dove i parti individuarono un punto debole di
Roma. Senza dubbio, erano consapevoli che per decenni il potere non
era stato nelle mani di un militare. Attaccarono l’Armenia e cacciarono il
suo sovrano filoromano per insediare al suo posto un uomo a loro
favorevole. Quando una legione romana contrattaccò, i parti la
sbaragliarono, e il generale che la comandava si suicidò. Poi, invasero la
Siria sconfiggendo il governatore locale.
La gravità della situazione richiese la presenza dell’imperatore nelle zone
di guerra. Né Marco Aurelio né Vero avevano esperienza militare, ma
Vero era più giovane e più robusto fisicamente, e così fu lui ad esservi
inviato. A Roma non sarebbe mancato a nessuno, e non c’era da
preoccuparsi che potesse insidiare Marco Aurelio una volta tornato. In
Oriente, Vero sarebbe stato più o meno una presenza simbolica, in
mezzo a generali esperti che avrebbero retto di fatto le redini del
comando.
Per affrontare i parti, Marco Aurelio richiamò tre legioni e altre forze
dal fronte occidentale romano. Era una mossa necessaria ma pericolosa,
perché rappresentava una tentazione per un nemico irrequieto schierato
al di là del Danubio. Roma, però, non aveva riserve strategiche, e questa
era una debolezza fondamentale, che non lasciava all’imperatore altra
scelta se non spostare le legioni secondo le necessità che si presentavano.
Quei reparti comunque si rivelarono efficaci. La guerra contro la Partia
durò quattro anni ma si concluse con una vittoria su tutta la linea. Roma
riconquistò l’Armenia e insediò sul trono un uomo in tutto e per tutto
adeguato al ruolo: un senatore romano che aveva anche sangue regale
partico nelle vene. I romani, quindi, penetrarono a fondo in
Mesopotamia, dove dettero fuoco a un palazzo partico e,
vergognosamente, saccheggiarono una città amica.
Nel 164 Marco Aurelio dette in sposa la sua figlia quattordicenne,
Lucilla, a Vero che a quell’epoca aveva trentatré anni. La ragazza dovette
affrontare un lungo viaggio per giungere in Oriente, dove si celebrò il
matrimonio. Ma si era in guerra, e ognuno doveva sacrificarsi. Forse per
consolarla, Marco la designò Augusta immediatamente, ancor prima che
desse alla luce un figlio, cosa che non era avvenuta per sua madre, la quale
a suo tempo era stata investita del titolo solo dopo aver avuto un figlio.
La Partia non avrebbe più sfidato Roma per un trentennio. Sul fronte
occidentale, però, la situazione non era del tutto tranquilla. Nel 166 e nel
167 i germani attaccarono le province romane lungo il Danubio.
L’evento fu una pietra miliare nella storia dell’impero. Erano ormai molti
decenni che Roma non aveva affrontato una seria minaccia da parte delle
popolazioni germaniche, che ora invece scatenarono i loro attacchi. E
avrebbero continuato a minacciare l’impero in modo intermittente per
secoli, fin quando lo sconfissero definitivamente nella sua parte
occidentale. A peggiorare ulteriormente la situazione, gli invasori del
166-167 erano a loro volta pressati da altre popolazioni in movimento
nell’estremo Nord. Era l’inizio di una migrazione di massa di
proporzioni epocali.
Gli invasori si avvantaggiarono della ridotta forza militare romana
rimasta in Occidente. Marco Aurelio cercò di compensare il ritiro delle
tre legioni che avevano raggiunto Vero in Oriente reclutandone altre due.
Erano però prive di esperienza, e di dimensioni insufficienti.
Prima che Marco Aurelio potesse reagire all’invasione, nel 167 un
nuovo problema colpì l’impero: la peste. Questo è il termine che si trova
nelle fonti antiche, ma probabilmente si trattava di vaiolo. Gli storici
moderni la definiscono la peste di Antonino o la Grande Pestilenza. Nel
mondo antico le epidemie erano numerose, e non è chiaro se questa fu
una delle peggiori oppure se semplicemente sia quella meglio
documentata. Non disponiamo, ovviamente, di dati accurati sulla
mortalità, ma è certo che i decessi furono almeno un milione circa, e
forse addirittura molti milioni.
Vi è motivo di credere che il primo focolaio della malattia fosse
nell’Asia centrale, e che poi il contagio si fosse esteso a Oriente, verso la
Cina, prima di percorrere la Via della Seta, l’arteria commerciale che
portava in Medio Oriente. I soldati romani contrassero il morbo
dapprima in Mesopotamia, poi lo diffusero in ogni parte dell’impero, e
come loro fecero i mercanti. Quelle stesse strade ben lastricate e quei
mari sicuri che avevano conferito la gloria alla pace romana diventarono
ora dei vettori d’infezione mortali. Fu un’epidemia universale come
l’impero che colpì, e la più documentata fra quelle dell’antichità. Ci
rimangono descrizioni di sofferenze e morti che colpirono Egitto, Asia
Minore, Gallia, Germania, Italia e, soprattutto, Roma – d’altra parte,
tutte le strade conducevano lì.
Nella capitale la situazione divenne talmente critica che per paura di
contrarre l’infezione anche il celebre medico Galeno decise di far ritorno
in Asia Minore, sua terra di origine30. Nel frattempo, nelle città greche
dell’Oriente, la gente scriveva nei vani delle porte un verso per invocare
la protezione di Apollo31 – ottenendo a quanto sembra l’effetto opposto,
forse perché un eccessivo senso di sicurezza induceva le persone a non
prendere più precauzioni. Un sopravvissuto descrisse il suono dei gemiti
e dei lamenti, l’immagine dei cadaveri giacenti davanti alle porte
d’ingresso delle case, i medici che dovevano fare anche da infermieri
perché l’epidemia aveva ucciso i loro schiavi32.
Nel 167 Marco Aurelio avrebbe voluto dirigersi a nord, ma rimase a
Roma per affrontare l’epidemia. Nel 168 finalmente partì per il fronte
accompagnato da Vero. Era la prima volta che usciva dall’Italia, e riuscì a
restaurare temporaneamente l’ordine. Al loro ritorno, i due imperatori si
fermarono nell’Italia nord-orientale. Galeno li raggiunse e scoprì che
l’epidemia imperversava33. Marco Aurelio e Vero rientrarono a Roma
con un piccolo gruppo di soldati. Il nucleo più consistente dell’esercito
rimase nel Nord, e la maggior parte dei soldati morì, in quanto l’inverno
rese ancor più difficile resistere al morbo. Galeno riuscì a malapena a
salvarsi la vita. Vero fu sfortunato. Durante il tragitto che lo riportava a
Roma, all’inizio del 169, morì, forse di vaiolo. Marco Aurelio ne
accompagnò il corpo a Roma, dove Vero venne sepolto nel mausoleo di
Adriano e dichiarato un dio.
Nel frattempo, la crisi alla frontiera settentrionale continuava. Già prima
dell’epidemia le forze romane erano scarse, e il vaiolo le ridusse
ulteriormente. Il governo dovette reclutare nuove truppe, ma c’era il
problema di come sostenerne il costo. Le soluzioni a cui si ricorse furono
insoddisfacenti. Ancora una volta, come aveva fatto Antonino Pio,
Marco Aurelio ridusse il titolo argenteo delle monete. Inoltre, lo Stato si
rivolse a schiavi, gladiatori, cosiddetti banditi (in ogni caso gente
violenta) e forze di polizia provenienti dalle città greche, e li arruolò nelle
unità ausiliarie.
La figlia di Marco Aurelio, Lucilla, aveva solo vent’anni quando suo
marito Vero morì. Il padre volle che si risposasse con Tiberio Claudio
Pompeiano, un attempato senatore ed ex console, cinquantenne
originario della Siria. Sembrava un grande passo indietro rispetto allo
status di moglie del co-imperatore che Lucilla aveva in precedenza, e sia
lei che sua madre Faustina si opposero34. Marco Aurelio, però, riuscì ad
imporsi. Lucilla dette al suo nuovo marito un figlio che avrebbe fatto
carriera nella vita pubblica, ma molti anni dopo venne giustiziato su
ordine di un successivo imperatore.
Nell’autunno del 169 Marco Aurelio ritornò nel Nord. La primavera
successiva lanciò una grande offensiva al di là del Danubio. La vicenda
cominciò con una farsa, con l’imperatore che acconsentì a mettere due
leoni nel fiume per ottenere l’appoggio degli dèi; i due animali non
fecero altro che nuotare fino all’altra sponda, per poi finire bastonati a
morte dal nemico. La battaglia si concluse in lacrime, con una pesante
sconfitta dei romani, che subirono forse ventimila perdite. Poi, le truppe
nemiche riuscirono ad aggirare la parte restante dell’esercito romano e
irruppero nell’Italia settentrionale, dove incendiarono una città e ne
assediarono un’altra. Altri invasori assaltarono la Grecia penetrando verso
sud fino ai sobborghi di Atene, dove distrussero il tempio dei Misteri.
Per la prima volta nel corso di quasi tre secoli, delle forze straniere
avevano attaccato l’Italia. Le difese di Roma alle frontiere avevano fallito.
A posteriori la vicenda non è tale da suscitare sorpresa. Sul fronte del
Danubio le presenze militari erano diminuite. La Grande Pestilenza aveva
indebolito Roma ovunque. Marco Aurelio stesso era privo di esperienza
come comandante militare. Molte delle sue truppe erano di recente
formazione e ancora poco addestrate, e anche i veterani delle frontiere
avevano avuto scarsa possibilità di fare esperienza in battaglia nel lungo
periodo di pace appena trascorso.
L’anno successivo, il 171, la situazione cominciò a migliorare. Un
esercito romano al comando del nuovo genero dell’imperatore,
Pompeiano, cacciò gli invasori dall’Italia e li sconfisse in una battaglia sul
Danubio. Nel frattempo, Marco rimase sulla frontiera, negoziando con
gli ambasciatori germanici e cercando di mettere le tribù nemiche l’una
contro l’altra. Nel 172 lanciò una nuova offensiva oltre il fiume, e
continuò a condurre una campagna in quei territori fino al 175.
Nel corso di quegli anni, i romani assisterono a due miracoli, di cui
fecero ampio uso nella loro propaganda35. Dapprima un fulmine distrusse
un macchinario nemico usato per condurre gli assedi. Poi, in una calda
estate, una legione ormai stanca si trovò circondata dal nemico e dovette
quasi arrendersi perché era rimasta senz’acqua. Fu allora che
improvvisamente una pioggia provvidenziale salvò i soldati romani.
Pagani e cristiani dettero subito vita a una polemica su quali fossero state
le preghiere che avevano ottenuto il favore dei cieli36.
L’imperatore intendeva probabilmente creare due nuove province al di
là del Danubio, nella zona degli attuali territori di Ungheria, Repubblica
Ceca e Slovacchia. Lo scopo era sia di contenere il nemico e accorciare la
linea di difesa di Roma, sia di sostituire un confine costituito da un
fiume facilmente attraversabile con un territorio più difendibile a nord,
nei Carpazi. Ma le nuove province avrebbero ulteriormente gravato sulle
già sovraccariche finanze romane. Il piano di Marco Aurelio sarebbe
morto con lui.
L’imperatore ebbe più successo nell’altro progetto volto a risolvere il
problema dei barbari, che prevedeva di consentire loro di insediarsi nelle
terre dell’impero. Li ripartì in varie province, dalla Germania romana (gli
odierni territori della Germania sud-occidentale e dell’Alsazia) alla Dacia,
compresa l’Italia. Sebbene molti lo criticassero per questa linea
conciliatrice, e per aver introdotto dei pericolosi barbari all’interno dei
confini dell’impero, l’imperatore la pensava diversamente. Credeva di
aver trasformato dei soldati nemici in coloni romani, garantendo così
anche la disponibilità di una fonte di forza lavoro di cui c’era grande
bisogno.
Nel 175 Marco Aurelio raggiunse un accordo con le tribù germaniche
che vivevano al di là del Danubio. Era più una tregua che una pace,
poiché Roma non aveva certo distrutto i suoi avversari. Tuttavia, essi
restituirono i prigionieri, e inviarono a Marco Aurelio anche ottomila
elementi di cavalleria per prestare servizio nell’esercito romano, la
maggior parte dei quali venne addetta al servizio di frontiera in Britannia.
A giudicare da una notevole scoperta recente, alcuni dei cavalieri erano
donne. Nei pressi del Vallo di Adriano gli archeologi hanno, infatti,
rinvenuto due scheletri femminili che sembrano riconducibili a due
cavallerizze che facevano parte di questa forza37. Sebbene i romani non
consentissero alle donne di servire nell’esercito, alcune cosiddette barbare
lo facevano. I greci e i romani pensavano a loro facendo riferimento alle
Amazzoni.
Marco Aurelio non era un soldato nato, ma svolgeva comunque le
mansioni di comandante. Era il suo dovere, e a ciò era assolutamente
devoto. Nei Pensieri scrisse: «In ogni momento bada con fermezza, come
si addice a un Romano e a un maschio, a compiere ciò che hai per le
mani, con quella serietà che è al tempo stesso scrupolosa e non affettata,
con disposizione d’amore, con libertà, con senso di giustizia, e cerca di
renderti libero da ogni altro pensiero»38.
Marco Aurelio faceva il suo dovere, ma la cosa non gli piaceva. Come
chiarì in privato, aveva una bassa opinione della guerra e della conquista.
E, infatti, paragona i vincitori ai banditi: «Un ragno è fiero quando ha
preso una mosca, un uomo quando ha preso un leprotto, un altro quando
ha preso un’acciuga nella rete, un altro quando ha preso dei piccoli
cinghiali, un altro quando ha preso degli orsi, un altro quando ha preso
dei Sarmati [una delle tribù germaniche]. E costoro non sono forse tutti
briganti, se analizzi i loro principi?»39.
La guerra comportò sacrifici non solo per Marco Aurelio, ma anche per
Faustina, che dovette vendere un po’ della sua seta e dei suoi gioielli per
rimpinguare il Tesoro. Ancor peggio, dovette vivere per anni nelle zone
di frontiera, col marito. Le città di Carnuntum (nell’odierna Austria) e di
Sirmium (nell’odierna Serbia), dove stabilirono le loro basi, sarebbero
entrambe diventate capitali di provincia e avrebbero conosciuto la loro
parte di gloria in anni successivi, ma a quell’epoca erano ancora città di
guarnigione, poste sugli oscuri e freddi confini dell’impero, a grande
distanza dal palazzo di Roma. Fin dai tempi in cui Agrippina Maggiore
affiancò il marito Germanico in Germania e in Siria, centocinquant’anni
prima, nessuna donna della famiglia imperiale aveva vissuto negli
acquartieramenti militari a ridosso di un fronte in attività. Nel 174
Marco Aurelio nominò Faustina «Madre degli accampamenti» (Mater
Castrorum), prima imperatrice investita di questo titolo40. L’atto servì a
risollevare il morale pubblico in un periodo di crisi, ma probabilmente
per Faustina fu una misera ricompensa a fronte delle comodità a cui aveva
dovuto rinunciare.
In ogni caso, Faustina non fu l’ultima imperatrice a ricevere questo
appellativo. In futuro infatti le situazioni di emergenza e le invasioni della
frontiera sarebbero diventate molto comuni.
RIBELLIONE
Avidio Cassio fu il generale che ottenne le maggiori vittorie durante la
guerra partica di Vero. Era un uomo da tenere d’occhio, figlio di un
esponente degli equites che aveva superato suo padre ascendendo al rango
di senatore. Sotto Vero, Avidio conquistò le due grandi città partiche
della Mesopotamia. In seguito, fu console suffectus e governatore
dell’Egitto, la sua provincia natale. Infine, ricevette il comando supremo
su tutte le province dell’Oriente, compreso l’Egitto. Un successo del
genere avrebbe potuto dare alla testa a chiunque, soprattutto a chi, come
lui, riteneva di discendere dai re siriani che erano succeduti ad
Alessandro Magno.
Nel 75 Avidio rivendicò per sé il trono imperiale. Scatenò una
importante ribellione, col sostegno della maggior parte dei territori
orientali, fra cui province d’importanza cruciale come l’Egitto e la Siria.
Riemerge qui il dilemma, a cui tutti gli imperatori si trovarono di fronte:
investire qualcun altro di un glorioso incarico militare poteva comportare
il rischio che il prescelto tentasse di prendere il potere. Ma nessun
imperatore poteva essere presente sempre e ovunque, e pochi avevano un
talento militare sufficiente a svolgere nel modo più adeguato la funzione
di comandante di campo. Solo in rari casi, come in quello di Augusto,
poterono disporre di un amico fidato che comandasse l’esercito lasciando
a loro il merito delle vittorie.
Ma da un altro punto di vista l’azione di Avidio fu unica. Le fonti
riportano che Faustina gli scrisse incitandolo alla rivolta. A prima vista,
sembrerebbe una fra le tante accuse scandalose e misogine che si trovano
nei testi antichi, ma per una volta gli studiosi la ritengono plausibile –
sebbene, senz’altro, non dimostrata. Dopotutto, Marco Aurelio non era
in buone condizioni di salute, e Faustina aveva motivo di preoccuparsi
per il proprio futuro e per quello dei suoi figli. L’unico figlio maschio
sopravvissuto della coppia era Commodo, di soli tredici anni, che
rischiava di essere eclissato dal marito di sua sorella Lucilla. Forse
Faustina scrisse ad Avidio che lo avrebbe appoggiato qualora Marco
Aurelio fosse morto, ed egli fraintese pensando che l’imperatore fosse già
deceduto.
Fatto sta che la rivolta scoppiò. Il vecchio tutore greco di Marco
Aurelio, l’uomo più ricco di Atene, comunicò la propria opinione ad
Avidio inviandogli una lettera di una sola parola: emanēs (Sei pazzo!)41.
Nella lontana Sirmium, nel frattempo, l’imperatore radunò le forze e si
preparò a marciare per reprimere la ribellione. Tuttavia, prima che
partisse, un centurione, venuto forse a sapere che Marco Aurelio era
ancora vivo, pose fine alla rivolta uccidendo Avidio. La vicenda era
durata solo tre mesi e sei giorni.
L’imperatore fu fortunato, e non cercò vendetta. Quando gli venne
portata la testa mozzata di Avidio rifiutò di farsela mostrare. Senza
dubbio approvò – e forse ordinò personalmente – che fosse gettata nel
fuoco la corrispondenza del ribelle, che sicuramente conteneva una o più
lettere di Faustina, tali da poterla incriminare.
La rivolta era finita. Marco Aurelio decise però di recarsi comunque in
Oriente. Sembrò prudente mostrare ai suoi sudditi dell’Est che il loro
imperatore era sano e salvo, a capo della sua famiglia e con un figlio forte
pronto a succedergli.
LA DEA
Alla fine del 175 la processione imperiale di Marco Aurelio fece sosta in
una cittadina posta al limite meridionale dell’altipiano dell’Anatolia
centrale, ai piedi delle montagne (in quella che oggi è la Turchia centro-
meridionale). Circa ventitré chilometri dietro di loro c’era la grande e
ricca città di Tyana, abbellita solo di recente, sotto i regni di Traiano e di
Adriano, da splendidi acquedotti. Davanti a loro si scorgevano le
cosiddette Porte Cilicie, un passo di montagna che portava sul
Mediterraneo. L’esercito di Alessandro Magno, qualche secolo prima,
aveva percorso questa strada per avviarsi a conquistare l’impero persiano.
Il gruppo dei viaggiatori non era piccolo. Oltre a sua moglie, suo figlio
e almeno una delle sue figlie, l’imperatore portava con sé i suoi più stretti
consiglieri e un grande contingente di soldati, compresa una forza
composta da barbari. Lo scopo della spedizione era riappacificarsi in
Oriente, permettere all’imperatore di mostrarsi ai suoi sudditi, fedeli e
non, e punire i ribelli.
Nessuno sa cosa avviene realmente in un matrimonio, se non i due
diretti interessati. Appare chiaro, però, che Marco Aurelio avesse
perdonato Faustina per il possibile ruolo che aveva avuto nel fomentare la
rivolta. E tuttavia, un tragico destino bussò alla porta in quella polverosa
città lungo la strada romana. Fu là, e non in una villa, che Faustina,
l’Augusta, Madre degli accampamenti, figlia di Antonino Pio, moglie di
Marco Aurelio, madre di Commodo, morì.
Le fonti lasciano intravedere la possibilità di un suicidio
dell’imperatrice, ma la circostanza sembra improbabile42. A
quarantacinque anni, Faustina aveva dato alla luce quattordici figli, e forse
era di nuovo incinta. Soffriva di gotta, e le conseguenze della rivolta di
Avidio l’avevano snervata, per cui, in definitiva, è probabile che la morte
fosse dovuta a cause naturali.
In pubblico, Marco Aurelio apparve afflitto dal dolore, e il suo elogio
privato di Faustina nei Pensieri conferma quell’impressione43.
L’imperatore chiese al Senato di divinizzare la moglie scomparsa, e fece
coniare monete in cui si affermava che ora lei era fra le stelle44. Nel
frattempo, chiuse il capitolo del complotto per il quale lei era
incriminata, chiedendo al Senato di risparmiare tutti coloro che erano
sospettati di averne fatto parte. «Che non accada mai», disse ai senatori,
«che sotto il mio impero qualcuno di voi sia condannato a morte per mio
o per vostro decreto»45. Aveva deciso di perdonare e di dimenticare.
Faustina fu senza dubbio cremata nel luogo in cui morì, per quanto
umile fosse il contesto. Ma tale non sarebbe rimasto: il villaggio fu infatti
insignito dello status più elevato che una città potesse ottenere, quello di
colonia di cittadini romani. Assunse un nuovo nome, Faustinopoli, e vi
fu anche eretto un tempio in onore della nuova divinità.
A Faustina la cosa sarebbe piaciuta, ma probabilmente avrebbe preferito
gli onori che il Senato decretò in sua memoria a Roma46. Fra questi vi
erano un altare presso il quale ogni sposo e ogni sposa che contraevano
matrimonio in città dovevano compiere un sacrificio in sua memoria.
Come per sua madre, anche per ricordare Faustina fu fondata
un’istituzione assistenziale per ragazze povere, le cui beneficiarie furono
chiamate novae puellae Faustinianae. Il Senato approvò, inoltre, la creazione
di immagini argentee di Faustina e di Marco per il tempio di Venere e
Roma, il grande edificio religioso costruito da Adriano. Il
provvedimento più importante stabilì che una statua d’oro di Faustina
venisse portata all’interno del Colosseo alla presenza di Marco Aurelio e
collocata nel settore speciale in cui era solita assistere ai giochi, con tutte
le più importanti signore sedute attorno.
Nel frattempo, l’epurazione conseguente alla rivolta di Avidio Cassio
continuò. Una nuova legge proibì a chiunque di prestare servizio come
governatore della sua provincia di origine47. Durante il tragitto che lo
portava in Egitto, Marco Aurelio fece sosta nella provincia romana della
Palestina, che aveva appoggiato il ribelle Avidio. Una fonte romana
sostiene che l’imperatore trovò gli ebrei di quella regione talmente
litigiosi da definirli peggiori dei barbari che vivevano sulla frontiera del
Danubio48. Il Talmud, d’altra parte, sembra indicare che l’imperatore
concedesse udienza al rabbino Judah I (noto anche come Giuda il
Santo)49. Questi era non solo il patriarca unico, ma anche il compilatore
della Mishnah, la raccolta di leggi orali che rappresenta uno dei documenti
più influenti della tradizione ebraica. Non è difficile immaginarsi il
filosofo Marco Aurelio in conversazione con l’erudito rabbino.
Prima di lasciare le province orientali, Marco Aurelio visitò Atene,
dove assieme a Commodo venne iniziato ai Misteri, seguendo le orme
di Adriano. Fece, inoltre, ricostruire il santuario che era stato distrutto
nel 170, trasformando di fatto l’evento in una celebrazione del ritorno
alla normalità. Ad Atene ebbe tempo di nominare quattro professori di
filosofia.
IL CO-IMPERATORE COMMODO
Nel 176 Marco Aurelio fece ritorno a Roma, e decise di nominare
Commodo co-imperatore, al posto dello scomparso Vero. All’epoca
Commodo aveva solo quindici anni, ma un’epoca segnata da guerre ed
epidemie non consentiva di prolungare l’adolescenza. Aveva già
accompagnato suo padre sul fronte settentrionale e in Oriente, per cui
aveva già avuto modo di fare qualche esperienza di governo. Inoltre,
Marco Aurelio si era reso conto che era opportuno procedere a preparare
la successione. Tuttavia, non sembra considerasse seriamente la possibilità
che Commodo non fosse pronto per quell’incarico.
A Roma Marco Aurelio aveva emanato importanti provvedimenti sugli
schiavi, dando loro con una mano quel che toglieva con l’altra. Protesse
gli schiavi che erano stati liberati grazie al testamento dei loro padroni da
qualsiasi intervento di terzi mirante a mantenerli nella loro condizione.
Nello stesso tempo, dette disposizioni ai governatori provinciali e ad altri
funzionari pubblici e alle forze di sicurezza affinché aiutassero i
proprietari a rintracciare gli schiavi fuggitivi. Il disordine dell’epoca
aveva probabilmente determinato un aumento del numero degli schiavi
che si sottraevano ai propri padroni.
I cristiani correvano il rischio di diventare il capro espiatorio dei guai di
Roma e di pagare il prezzo della carenza di gladiatori, che venivano
reclutati nell’esercito. Poiché in quel periodo le arene avevano difficoltà a
reperire uomini per i combattimenti, il Senato consentì alle autorità
locali di comprare criminali condannati da utilizzare come gladiatori. E
come fecero i romani a rinfoltire le riserve di criminali condannati?
Sembra che aumentarono le accuse contro i cristiani.
Roma, quindi, era immersa in un fosco clima segnato da epidemie,
invasioni e persecuzioni. Sul fronte del Danubio il nemico riprese gli
attacchi, aggravando ancor più la situazione. E tuttavia, quando nel 178
Marco Aurelio lasciò nuovamente la capitale per ritornare al fronte, si
svolse una splendida scena, degna dell’Accademia platonica. Come si
legge in una fonte più tarda, l’imperatore fu attorniato da una folta
delegazione:
Marco Aurelio era di tale saggezza, cortesia, integrità e cultura che quando si apprestava a
marciare contro i Marcomanni assieme al figlio Commodo, che aveva associato a imperatore, fu
attorniato da un gruppo di filosofi che lo pregavano di non impegnarsi in una spedizione o a
combattere prima di aver spiegato loro alcune difficoltà e punti assai oscuri dei sistemi filosofici50.
Prima di lasciare Roma, l’imperatore dimostrò inoltre il proprio
rispetto per il Senato e per la religione tradizionale. Pronunciò un
giuramento sul Campidoglio garantendo che non si sarebbe reso
responsabile della morte di nessun senatore. Celebrò quindi un antico
rituale, scagliando una lancia insanguinata, simbolo della rettitudine
dell’attacco che Roma si avviava a compire in territorio nemico.
Per quanto onorevole fosse la sua lotta, si rivelò difficile e frustrante.
Nell’anno e mezzo seguente, durante il quale fu al fronte, Marco Aurelio
combatté senza riuscire a conseguire la vittoria finale.
PENSIERI
Di quei difficili anni ci rimane una riflessione personale. Marco Aurelio
scrisse i Ricordi da solo nella sua tenda sul fronte settentrionale, e in altri
luoghi, nel periodo che va dal 172 al 180. Il libro II reca il titolo Scritto tra
i Quadi sul fiume Gran, il libro III A Carnunto, mentre gli altri sono privi
di espliciti rinvii a precise località.
Marco Aurelio scrisse l’opera non con l’intento di destinarla al pubblico
ma per sé stesso: si trattava di taccuini privati. Un editore antico la
intitolò A sé stesso. Pensieri, o Meditazioni, sono titoli moderni. Non
abbiamo indicazioni certe su quando eventualmente fu pubblicata. Forse
furono gli amici di Marco Aurelio o uno dei suoi liberti a conservare il
manoscritto e a farlo circolare. Dal punto di vista dei sentimenti, la
favorita di Marco Aurelio appare sua figlia Cornificia. Era l’ultima
sopravvissuta dei suoi figli, quando fu costretta a suicidarsi da un
successivo imperatore molti anni dopo la scomparsa di Marco Aurelio.
Le ultime parole che pronunciò furono degne di suo padre: «Piccola,
sventurata, anima stretta in un misero corpo, vattene, liberati, mostra loro
che sei figlia di Marco, anche se essi non lo vogliono!»51.
I Pensieri sono scritti non in latino, ma in greco. È vero che questa era la
lingua della filosofia, ma molti precedenti pensatori romani avevano
comunque fatto largo uso del latino nelle loro opere. Il ricorso al greco
era un altro segno del crescente prestigio della parte orientale dell’impero.
I Pensieri costituiscono l’ultima grande opera della filosofia stoica dei
tempi antichi, e la più amata ai nostri giorni. Ciò non dipende certo dal
fatto che lo scritto abbia un tono ottimista: l’attenzione è spesso
incentrata sulla vanità della vita umana e sulla morte. Le nostre vite, scrive
Marco Aurelio, sono fuggevoli come un passero che appare e vola via.
Perfino i grandi uomini del passato sono svaniti: Augusto e la sua corte
non ci sono più, Alessandro Magno e l’uomo che strigliava il suo cavallo
sono entrambi ritornati ad essere polvere.
Il consiglio di Marco Aurelio su come affrontare le sfide della vita non è
per deboli di cuore. Scrive, ad esempio: «Devi essere simile al
promontorio, contro il quale i flutti s’infrangono incessantemente: esso
rimane immobile, e intorno a lui viene a placarsi il ribollire delle
acque»52.
E tuttavia, offre una ricetta per vivere con dignità e realizzare sé stessi.
Esprime inoltre un profondo rispetto per il mondo naturale e una salda
fede nella divina Provvidenza, quando scrive:
Se assolvi il compito che hai al presente seguendo la retta ragione, con diligenza, con energia,
con animo ben disposto, e non ti dedichi a nessuna cosa accessoria, ma ti curi solamente di
mantenere puro il tuo demone come se tu dovessi restituirlo da un momento all’altro; e adotti
questi principi senza attendere nulla e senza cercare di evitare nulla, ma soddisfatto di compiere
secondo natura l’azione presente e di dire eroicamente la verità in ogni tuo discorso e in ogni
parola che pronunci, allora vivrai felice. E non vi è nessuno che possa impedirlo53.
COMMODO
La vita di Marco Aurelio si concluse là dove aveva passato la maggior
parte dei suoi ultimi anni: sulla frontiera danubiana dell’impero romano,
probabilmente a Sirmium o nelle sue vicinanze. Morì il 17 marzo del
180, poco prima del suo cinquantanovesimo compleanno. Era malato:
forse prese il vaiolo, ma è possibile che avesse un tumore. Secondo
Dione, sebbene fosse in cattive condizioni, furono i suoi medici a
ucciderlo per guadagnarsi i favori di Commodo, che si trovava anche lui
al fronte. L’autore afferma di aver raccolto questa informazione da una
fonte affidabile, ma non possiamo esserne certi55. Il corpo di Marco
Aurelio fu cremato, poi le sue ceneri furono riportate a Roma e sepolte
nel mausoleo di Adriano.
Se la creazione di due nuove province fu l’opera della sua vita, quel
successo non fu definitivo. Suo figlio, che gli successe sul trono, preferì
fare la pace con i germani e rientrare a Roma. Tuttavia, Marco Aurelio
aveva danneggiato il nemico a tal punto da garantire a Roma più di un
cinquantennio di pace sul confine settentrionale. Al pari di altri, che
come lui ebbero la suprema responsabilità del comando, egli si accinse,
come scrisse un suo ammiratore antico, «ad una gloriosa morte per la
patria»56.
Fonti antiche più tarde, che riflettono il punto di vista del Senato e
dell’élite romana, avrebbero ricordato Marco Aurelio con grande affetto.
Come si legge in una di esse: «Fu dotato di tutte le virtù e di un carattere
celestiale e sembrò dato all’impero come un difensore dalle pubbliche
calamità. Perché infatti, se non fosse egli nato in quei tempi, è certo che
una sola caduta avrebbe trascinato con sé l’intero Stato romano»57.
Senza alcun dubbio, fra gli imperatori romani Marco Aurelio fu sia il
più dotato di senso di umanità sia, grazie ai suoi scritti, quello che ci
appare in una luce più umana. Ma non quello che ottenne i maggiori
successi. Fu un filosofo, ma dev’essere giudicato in quanto imperatore.
Non fu fortunato, sia per i tempi in cui visse, sia per le carenze della sua
preparazione. Si trovò ad affrontare crisi straordinariamente complesse, e
di fatto pochi imperatori nella storia romana ebbero problemi più gravi
di lui. Ed era privo della conoscenza tecnica e dell’esperienza necessarie a
un imperatore.
Tuttavia, rappresenta un luminoso esempio di come una persona di
saldi principi e dotata di disciplina intellettuale e di senso del dovere
possa essere all’altezza della situazione. Il suo regno rappresentò un punto
di svolta per Roma. Come disse un contemporaneo, con la sua morte
finiva un’epoca d’oro, e ne cominciava una fatta di ferro e di degrado58.
Certo è strano che un’epoca funestata da guerre e da epidemie venga
definita d’oro, ma il carattere benevolo dell’imperatore e il modo con cui
trattò il Senato (un aspetto sempre importante nelle fonti che rifettono
l’ottica dell’élite) spiccano, soprattutto in confronto con ciò che venne
dopo.
Marco Aurelio fu il primo imperatore nell’arco di ottantadue anni al
quale non successe un figlio adottivo. Fu infatti Commodo a prenderne il
posto, circostanza che ne fa il primo imperatore della storia romana ad
essere nato sul trono. Nessuno dei suoi predecessori aveva saputo di
essere destinato ad assumere il governo prima di diventare adolescente.
Commodo invece considerò sempre quest’esito scontato – il che può
contribuire a spiegare per quale motivò abusò del suo potere.
Quando diventò imperatore aveva solo diciotto anni, e si comportò
come un ragazzo improvvisamente liberatosi dal peso di un padre che gli
aveva richiesto un livello spaventosamente elevato di austerità e di
responsabilità. Interruppe la guerra che Marco Aurelio aveva fin lì
condotto nel Nord e concluse una pace negoziata. Tornato a Roma,
consegnò le redini del governo ad altri e si dedicò a discipline quanto più
possibile distanti dalla filosofia: i divertimenti sanguinari. Atletico, bello
e vanitoso, Commodo si identificò col dio greco Ercole. Si vantava delle
sue capacità di gladiatore e combatté realmente nell’arena.
Si mantenne la benevolenza dei ranghi dell’esercito pagando generose
indennità, e dei ceti popolari allestendo spesso giochi, finanziati con tasse
imposte ai senatori e svalutando la moneta. Gli esponenti dell’élite
romana, tuttavia, non erano disposti a sostenere un bruto decadente che
minacciava le loro vite e le loro proprietà, insultando il loro senso di
dignità. Furono organizzati vari complotti per ucciderlo, ma tutti
fallirono, provocando feroci repressioni. Alla fine, una cospirazione
capeggiata dalla sua amante e dai funzionari a lui più vicini andò a segno.
Su loro ordine, il compagno di lotta di Commodo, un gladiatore, lo
uccise strangolandolo nel suo bagno, il 31 dicembre 192.
Il governo della famiglia di Marco Aurelio era giunto alla fine. L’epoca
dei cinque buoni imperatori si era conclusa dodici anni prima con la
scomparsa di Marco Aurelio, ricordando a tutti la fragilità del sistema
imperiale. Come lo stesso Marco Aurelio dovette scoprire, esistevano
forze fuori della portata del controllo di Roma che costituivano un
pericolo costante: pressioni operate dalle migrazioni di popolazioni
barbariche a centinaia di chilometri dalle frontiere e da epidemie di
origini remote, sfide lanciate dalle ricorrenti ambizioni dinastiche dei
parti.
Il regno di Marco Aurelio ci ricorda inoltre che, nel suo nucleo
essenziale, l’impero romano era una monarchia militare.
Indipendentemente dai saggi editti e dalle leggi illuminate che un
imperatore poteva promulgare, o dai buoni rapporti che riusciva ad
intrattenere col Senato, alla fine dipendeva sempre dall’esercito. Nessun
imperatore poteva mai dirsi completamente al riparo da un colpo di Stato
o da una rivolta. Nessun confine era saldamente assicurato senza un
imperatore competente alla guida dello Stato e un esercito in forma e
pronto a difenderlo.
Avere un filosofo sul trono era una benedizione, soprattutto se si trattava
di un uomo abbastanza versatile da trasformarsi in un buon generale.
Tuttavia, i tempi richiedevano anche un uomo che fosse spietato nei
confronti della propria famiglia. Un uomo di governo più duro avrebbe
messo da parte un figlio come Commodo, scegliendo come proprio
successore un elemento migliore – ad esempio il suo genero Pompeiano.
Tuttavia, una decisione simile avrebbe forse portato alla guerra civile. Il
sistema dinastico romano, infatti, era flessibile solo fino a un certo punto.
Di fatto, la guerra civile arrivò comunque, dopo la farsa di Commodo.
E fu una guerra lunga e cruenta. Avrebbe portato sul trono un altro uomo
di notevole statura, privo però dell’ampiezza di visione di Marco
Aurelio. Ci volle più di un secolo prima che una figura del genere
comparisse di nuovo. Nel corso di quel tempo, Roma fu colpita da una
serie di disastri che fecero apparire un ricordo lontano, se non addirittura
mitico, gli anni felici intercorsi fra il regno di Nerva e quello di Marco
Aurelio.
1
Il riferimento è al busto aureo di Marco Aurelio rinvenuto ad Aventicum (l’odierna
Avenches, in Svizzera): Römermuseum (Avenches), inv. 39/134. Si veda Paul Schazmann,
Buste en or représentant l’empereur Marc-Aurèle trouvé à Avenches en 1939, in «Zeitschri für
schweizerische Archäologie und Kunstgeschichte», II (1940), pp. 69-93.
2
Marco Aurelio, Pensieri IV.40.
3
L’imperatore Giuliano, che regnò dal 361 al 363.
4
Marco Aurelio, Pensieri I.3.
5
Ibid.
6
Id., Lettere a Frontone 12 (e Marco Cornelio Frontone, Corrispondenza con M. Cesare II.13, in
Id., Opere cit., p. 109).
7
Si veda Amy Richlin (ed.), Marcus Aurelius in Love, Chicago University Press, London-
Chicago 2006, pp. 5-9.
8
Marco Aurelio, Pensieri I.16.2.
9
Tacito, Storie I.1. Tacito si riferiva a Nerva e a Traiano ma il commento si addice anche ad
Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio.
10
Marco Aurelio, Pensieri I.11.
11
Historia Augusta, Marco Aurelio VI.8-9.
12
Historia Augusta, Antonino Pio IV.8.
13
Elio Aristide, A Roma, traduzione e commento di Francesca Fontanella, introduzione di
Paolo Desideri, Edizioni della Normale, Pisa 2007.
14
Ibid.
15
Marco Aurelio, Pensieri I.16, I.17.3, IV.33, VI.30, VIII.25, IX.21 e X.27.
16
Historia Augusta, Antonino Pio XII.6.
17
Historia Augusta, Marco Aurelio VII.3.
18
Galen [Galeno], On prognosis, edizione, traduzione e commento di Vivian Nutton,
Akademie Verlag, Berlin 1979, XI.8, p. 129.
19
Marco Aurelio, Pensieri V.5.
20
Cassio Dione, Storia romana LXXI.29.4.
21
Marco Cornelio Frontone, Lettere ad Antonino Pio 2, in Id., Opere cit. Vi è chi ritiene che la
Faustina alla quale si fa qui riferimento sia Faustina Maggiore, moglie di Antonino.
22
Si veda, ad esempio, RIC III Marcus Aurelius 1635
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.3.m_aur.1635).
23
Ricerche recenti mostrano che a Roma i tassi di mortalità infantile tendevano a collocarsi fra
il 20 e il 35%: si veda Nathan Pilkington, Growing Up Roman: Infant Mortality and Reproductive
Development, in «The Journal of Interdisciplinary History», XLIV (2013), 1, pp. 1-35.
24
Si veda, ad esempio, Musei Capitolini (Roma), inv. 449; Museo del Louvre (Parigi), Ma
1176.
25
Si veda, ad esempio, RIC III Marcus Aurelius 1681
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.3.m_aur.1681).
26
Historia Augusta, Marco Aurelio XIX.8-9.
27
Marco Aurelio, Pensieri I.17.7.
28
Richlin (ed.), Marcus Aurelius in Love cit., lettera 44, p. 143.
29
Marco Aurelio, Pensieri VIII.49, IX.40, X.34, XI.34. Cfr. Frank McLynn, Marcus Aurelius.
Warrior, philosopher, emperor, Vintage Books, London 2010, p. 93.
30
Galeno, I miei libri, in Id., Opere scelte, a cura di Ivan Garofalo e Mario Vegetti, UTET,
Torino 1978, XIX.15.
31
Luciano di Samosata, Alessandro, o Il falso poeta, a cura di Dario Del Corno, traduzione e note
di Loretta Campolunghi, Adelphi, Milano 1992, XXXVI.
32
Aristide, A Roma cit., XLIII.38-44.
33
Galen [Galeno], On prognosis cit., IX.
34
Historia Augusta, Marco Aurelio XX.7.
35
Ivi, XXIV.2; Cassio Dione, Storia romana LXXIV.8-10; RIC III Marcus Aurelius 264-266
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.3.m_aur.264;
http://numismatics.org/ocre/id/ric.3.m_aur.265;
http://numismatics.org/ocre/id/ric.3.m_aur.266).
36
Giovanni Xifilino, cit. in Cassio Dione, Storia romana LXXII.9.
37
Adrienne Mayor, The Amazons: Lives and Legends of Warrior Women Across the Ancient World,
Princeton University Press, Princeton (NJ) 2014, pp. 81-82.
38
Marco Aurelio, Pensieri II.5.
39
Ivi, X.10.
40
Historia Augusta, Marco Aurelio XXVI. 8; Cassio Dione, Storia romana LXXI.10.5.
41
Filostrato, Vite dei sofisti II.1.13.
42
Cassio Dione, Storia romana LXXII.29.
43
Marco Aurelio, Pensieri I.14.
44
Si veda, ad esempio, RIC III Marcus Aurelius 1717
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.3.m_aur.1717).
45
Cassio Dione, Storia romana LXXII.30.
46
Ivi, LXXII.31.1-2.
47
Ivi, LXXII.31.1.
48
Ammiano Marcellino, Storie XXII.5.
49
Per le fonti si veda Maria Laura Astarita, Avidio Cassio, Edizioni di Storia e Letteratura,
Roma 1983, pp. 119-123.
50
Aurelio Vittore, De Caesaribus 16.9-10. Per una traduzione inglese, si veda Sextus Aurelius
Victor, Liber de Caesaribus of Sextus Aurelius Victor, traduzione di Harold W. Bird, Liverpool
University Press, Liverpool 1994, p. 19.
51
Cassio Dione, Storia romana LXXVIII.16.6.
52
Marco Aurelio, Pensieri IV.49.
53
Ivi, III.12.
54
Ivi, VI.44.
55
Cassio Dione, Storia romana LXXII.33.
56
Ammiano Marcellino, Storie XXXI.5.14.
57
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus XVI.2 (per una traduzione inglese, si veda
quella di Thomas M. Banchich, in www.roman-emperors.org/epitome.htm).
58
Cassio Dione, Storia romana LXXI.36.4.
Settimio Severo
8
Settimio Severo, l’africano
LA DONNA SIRIANA
Da giovane, probabilmente, Severo si era dato al bel tempo. Subì un
processo per adulterio, ma si difese con successo. Poi sposò una donna
dell’Africa romana i cui familiari erano cittadini romani di origine
punica, che però morì, lasciandolo vedovo e senza figli. Per trovare una
nuova sposa, guardò a Oriente.
Nel 185 sposò Giulia Domna, appartenente a una facoltosa e potente
famiglia di Emesa (oggi Homs), un ricca città siriana la cui popolazione
aveva radici arabe. Domna affermava di avere fra i suoi antenati coloro
che erano stati sovrani della città prima che venisse annessa a Roma. Suo
padre era il sacerdote della divinità locale, Elagabalo (letteralmente «Dio
della Montagna»). Il dio era venerato sotto forma di una pietra nera
conica collocata in un tempio cittadino. I familiari di Domna parlavano
come prima lingua l’aramaico e come seconda il greco, ed erano cittadini
romani.
Un tempo, i romani ambiziosi desideravano sposarsi nella cerchia della
vecchia nobiltà repubblicana. Ora cercavano volentieri moglie in
prominenti famiglie orientali, che fornivano amministratori imperiali e
senatori romani e potevano garantire ricche doti alle loro figlie, come
sicuramente fece il padre di Domna.
Lei era bella. Secondo una teoria alquanto congetturale, potrebbe
perfino aver fatto da modella per la Venere di Milo, la famosa scultura
marmorea oggi esposta al Louvre12. Per il momento, abbiamo molte
statue di lei e immagini che la ritraggono sulle monete13. Vi appare come
una donna dal volto largo e con una folta capigliatura ondulata, con la
scriminatura centrale, e tirata indietro sui lati della testa, o talvolta raccolta
in trecce al collo. Della pettinatura facevano parte probabilmente vari
toupet.
Domna conosceva i meccanismi del potere e le piaceva esercitarlo.
Come si sarebbe visto, era anche fertile. Dando due figli a Severo,
sicuramente aumentò il credito di cui godeva ai suoi occhi e la propria
influenza. Grazie a lei i Severi avevano la possibilità di fondare una
dinastia: la prima casa regnante libico-siriana di Roma.
Era una donna colta. Oltre all’aramaico e al greco, parlava il latino,
sebbene probabilmente non altrettanto bene. Nel periodo in cui fu
imperatrice, raccolse intorno a sé una vasta cerchia di intellettuali, della
quale facevano probabilmente parte filosofi, matematici e giuristi. Uno di
loro, Filostrato di Atene, era un letterato greco che si stabilì a Roma, le
dette il titolo di «filosofa»14 e, su sua sollecitazione, scrisse un libro su un
filosofo e operatore di miracoli greco del I secolo. Di vedute
conservatrici, serve come una sorta di guida per i principi, o, in questo
caso, per le principesse.
Insomma, Domna era un’ottima scelta, e non ci sarebbe stato da stupirsi
se Severo ne fosse innamorato. Le sue doti non avrebbero potuto essere
che una risorsa nella lotta che gli si profilava davanti.
CARACALLA
Nel 208 Severo, Domna, i loro figli e gran parte del loro entourage
partirono per la Britannia, con la speranza di condurre un’ultima
campagna di conquista e di giungere a una riconciliazione fra i due eredi
al trono, che erano in lotta fra loro. I due ragazzi erano talmente
competitivi che una volta Caracalla cadde e si ruppe una gamba durante
una corsa di carri in cui gareggiava contro il fratello minore, Geta. E
minacciava di ucciderlo.
Apparentemente, Severo considerava credibile quella minaccia.
Qualcuno pensava che l’imperatore avesse deciso di intraprendere una
campagna militare in terre lontane, nonostante fosse in uno stato di salute
tale che dovette essere condotto in guerra in una lettiga coperta, proprio
allo scopo di distrarre i due ragazzi. Fu una speranza vana: non solo
Caracalla continuò a minacciare il fratello, ma una volta, mentre cavalcava
a fianco di Severo per recarsi a un colloquio col nemico in Caledonia
(l’attuale Scozia), alzò addirittura la spada contro suo padre. Gli uomini
dell’imperatore lo videro e gridarono con tale forza da bloccarlo. Una
volta rientrati al quartier generale, Severo dette una strigliata al figlio, ma
non fece niente per punirlo. L’imperatore incolpava spesso Marco
Aurelio per non essersi sbarazzato di Commodo, ma nonostante le sue
frequenti minacce, quando era preso dall’ira, di uccidere Caracalla, l’amor
paterno o il pragmatismo lo fermarono.
Severo lanciò la sua campagna britannica sognando allori. Combatté per
due stagioni in Scozia con la speranza di conquistare tutta la Britannia,
salvo poi vedere l’esercito bloccato da un nemico sfuggente e dal terreno
inospitale. In seguito, la malattia lo costrinse a rimanere negli
acquartieramenti per mesi interi. I malanni e le dure condizioni di vita
nell’ultimo decennio lo avevano logorato, e a sessantasei anni stava
perdendo la battaglia. Erano ormai andati i giorni in cui Severo non si
curava di cavalcare a testa scoperta sotto la pioggia e la neve, conducendo
la campagna sui monti pur di incoraggiare i suoi uomini. E tuttavia,
questo uomo basso aveva ancora una gran voglia di lavorare. Perfino in
quelle condizioni disse ansimando ai suoi aiutanti: «Portate, date pure, se
c’è qualcosa da fare!»25.
Caracalla e Geta lo assistevano, Giulia Domna era vicina. Anche se si
trovavano lungo la frontiera, a centinaia di chilometri da casa, teneva
duro. Non per niente portava il titolo di Madre degli accampamenti26.
Non meno determinata del marito, ne fu la costante compagna durante le
operazioni militari.
Afflitto dalla gotta, immobile, intristito, l’imperatore giaceva sul suo
letto. Sentendo avvicinarsi la fine, Severo si rivolse ai suoi figli,
pronunciando a quanto si dice queste testuali parole: «Andate d’accordo
tra di voi, arricchite i soldati, non datevi pena per tutti gli altri»27. I
pensieri recano il segno dell’uomo: tersi, secchi, saggi e, al contempo,
cinici e speranzosi.
Poi, il 4 febbraio 211, Severo morì. L’uomo nato fra i colonnati di
marmo di una ricca città, sull’assolata costa mediterranea dell’Africa del
Nord, concluse i suoi giorni nella remota Eboracum (l’odierna York),
una città militare spartana nella Britannia settentrionale. I rituali del
funerale imperiale – la doppia processione attorno alla pira adornata con i
doni dei soldati, il corpo rivestito da un’armatura, i due ragazzi che
accendono il fuoco – dissiparono la tristezza invernale. E lo stesso effetto
ebbe il tocco finale: un’urna purpurea nella quale vennero deposte le ossa
dell’imperatore. In seguito, i suoi resti furono riportati a Roma a riposare
nella tomba di Adriano. Si narra che Severo mandò a prendere l’urna
prima di morire. Dopo averla toccata, sembra che dicesse: «Conterrai un
uomo che tutta la terra non è riuscita a contenere!»28.
Severo non conquistò la Scozia, ma riuscì comunque a istituire una
dinastia. Caracalla gli successe come imperatore, condividendo dapprima
il potere col fratello Geta.
«Caracalla» in realtà è un soprannome, derivante dal pesante mantello
militare in lana, o caracallus, che l’imperatore vide utilizzare ai soldati
romani in Europa settentrionale e che portò agli eserciti in Oriente.
Caracalla si chiamava in realtà Lucio Bassiano, poi come detto, dopo che
suo padre si «adottò» divenendo membro della famiglia di Marco
Aurelio, assunse il nome di Marco Aurelio Antonino.
Nelle monete e nelle sculture ci appare come un uomo dall’aspetto forte
e dai lineamenti smussati29. Ha i capelli ricci, la barba tagliata corta, il
naso prominente e il collo robusto. A guardarlo non trasmette certo
un’impressione di dolcezza.
Domna era, adesso, anche la madre degli imperatori, e svolse un ruolo
importante non solo perché rappresentava la continuità, ma anche come
fonte di consigli. Alla fine Caracalla le affidò la cura della propria
corrispondenza e l’incarico di rispondere alle petizioni. Nessuna donna
imperiale aveva mai svolto una mansione simile, e la circostanza, oltre al
suo livello culturale, dimostra quante poche fossero le altre persone a cui
Caracalla potesse affidare incarichi importanti.
Ma non prestò ascolto agli appelli della madre. Meno di un anno dopo
la morte del padre, inviò una squadra di soldati a uccidere suo fratello.
Geta era nel palazzo, e si gettò fra le braccia della madre per mettersi in
salvo, ma venne ucciso. Domna venne ferita a una mano. Rimase certo
sconvolta, ma continuò a fare da consigliera a Caracalla, per dovere di
madre o per amore di potere, o per entrambi i motivi. Nel frattempo,
Caracalla si accattivò i favori della guardia pretoriana con una generosa
oblazione, poi epurò i suoi nemici. Più in generale, tenne conto dei
consigli ricevuti dal padre e aumentò le spese per i soldati.
Era astuto, abile nel parlare e ambizioso, ma anche emotivo, impulsivo e
violento. Amava l’attività fisica. Aveva molti nemici, e ciò non
sorprende. Chi si poteva fidare di un uomo che aveva dato ordine di
uccidere in quel modo suo fratello?
Passò la maggior parte del periodo successivo del suo regno impegnato
in campagne militari, dapprima in Europa settentrionale, poi in Oriente.
Considerandosi un novello Alessandro Magno, trattò per prendere in
sposa la figlia del re dei parti, e una volta vistosi respinto, preparò una
guerra di conquista. Viene, tuttavia, ricordato soprattutto per due fatti di
natura non militare.
Ai nostri occhi, la grande realizzazione di Caracalla fu l’estensione della
cittadinanza romana a ogni abitante di condizione libera dell’impero, con
una legge promulgata nel 212, la cosiddetta Constitutio Antoniniana (dal
suo nome ufficiale). Prima di allora, Roma aveva esteso la cittadinanza
per ricompensare comunità privilegiate e importanti funzionari locali,
ma probabilmente solo una minoranza di persone libere aveva lo status di
cittadini. Nella storia umana, non c’erano esempi di una così ampia
condivisione della medesima cittadinanza.
L’élite romana, tuttavia, si concentrò maggiormente sui grandi aumenti
delle imposte introdotti dall’imperatore per finanziare le spese militari.
Secondo Cassio Dione, lo stesso ampliamento dei confini della
cittadinanza fu dovuto all’intento di aumentare le entrate per le tasse di
successione, che toccavano solo i cittadini30. Nel corso dei decenni, la
divisione fra cittadini e non cittadini era diventata meno importante. Nel
mondo romano la divisione più rilevante era quella fra ricchi e
privilegiati, definiti ufficialmente honestiores, e la gente povera e umile, gli
humiliores. Il primo gruppo, che fosse o meno composto da cittadini,
godeva di vari privilegi sia sul piano giuridico sia su quello pratico,
mentre il secondo soffriva di varie mancanze. In poche parole, Roma
estese la cittadinanza solo quando questo requisito cominciò a contare
meno.
Nel frattempo, Caracalla intraprese la realizzazione di un enorme
progetto edilizio per guadagnarsi l’appoggio dei poveri della città. Le
terme di Caracalla, le cui grandi rovine vengono ancora oggi ammirate
dai turisti, furono una delle ultime imponenti costruzioni della Roma
imperiale. L’opera era stata progettata da Severo e fu portata a termine da
Caracalla. Il grande complesso comprendeva palestre, una piscina e
biblioteche (una latina, una greca). Opere d’arte di grande qualità ne
decoravano gli ambienti. Il complesso era aperto gratuitamente al
pubblico. Coloro che lo costruirono si trovarono di fronte a enormi sfide
dal punto di vista ingegneristico, dalla rimozione di mezzo milione di
metri cubi di argilla per gettare le fondamenta all’erezione di colonne alte
12 metri e pesanti circa 100 tonnellate. Tuttavia l’opera fu completata
nell’arco di sei anni, utilizzando dai 12.000 ai 20.000 operai.
Domna accompagnò Caracalla in Oriente e si stabilì in Siria mentre il
figlio procedeva ancora più verso est. Poi, nell’aprile del 217, Caligola
venne assassinato. Il prefetto del pretorio, Marco Opellio Macrino,
scoprì di essere in cima alla lista dei nemici che l’imperatore voleva
eliminare, e così colpì per primo. A un suo comando, un soldato che era
stato insultato da Caracalla lo pugnalò a morte. Macrino dispose che
l’omicida venisse ucciso e negò di essere minimamente responsabile del
fatto.
Sconvolta dalla notizia, e forse già malata, Domna si uccise. Macrino,
acclamato imperatore dai suoi soldati, rimase al potere per un solo anno.
La sorella maggiore di Domna, Giulia Mesa, era decisa a riportare un
esponente della loro famiglia sul trono. Nei suoi ritratti sulle monete ci
appare come una donna attraente e dignitosa31. Aveva i capelli ondulati
come la sorella, ma tenuti legati con una piccola crocchia dietro il collo.
In alcuni ritratti, indossa un diadema, simbolo della regalità.
Il suo candidato al trono era il nipote Vario Avito Bassiano, figlio di sua
figlia, di appena quattordici anni. Sebbene fosse cresciuto a Roma,
all’epoca viveva ad Emesa, in Siria, ed era sacerdote della divinità locale,
Elagabalo (ed è con questo nome che passò alla storia). Detta così, non
era certo una situazione promettente per un aspirante imperatore, ma
Mesa era determinata, e spese di tasca propria per ottenere l’appoggio dei
soldati. Affermando che Elagabalo era nato da una relazione avuta da
Caracalla, nel 218 riuscì a far sì che i soldati lo acclamassero imperatore.
Dopo una breve guerra civile Macrino venne sconfitto e ucciso, aprendo
così la strada all’ascesa al trono del ragazzo.
Neanche le epopee televisive dei nostri giorni presentano storie di
potere femminile esercitato dietro le quinte tali da competere con quelle
che all’epoca si svolsero a Roma. Mesa e sua figlia Giulia Soemia, madre
di Elagabalo, seguirono il nuovo imperatore nella capitale. E fu una
buona scelta, poiché tenevano in mano le redini del governo mentre il
giovane si dedicava a istituire il suo culto religioso in città. Nei suoi
ritratti sulle monete, Elagabalo appare come un baldo e vigoroso giovane
dal collo robusto, con in testa una corona d’alloro o un diadema, e
indosso un pettorale. Guarda davanti a sé con l’espressione energica di un
comandante militare. Ma questi erano pii desideri. Un busto marmoreo
ci mostra, invece, un giovanetto magro e riccioluto, con i baffi e l’aspetto
etereo32.
Elagabalo rielaborò la sua divinità dandole la forma del dio Sole,
qualcosa di familiare nel pantheon romano, definendolo dio Sol Invictus.
Già questo sollevò perplessità, ma il desiderio di Elagabalo di rimpiazzare
Giove, la più importante divinità romana, col suo dio, scatenò reazioni
furiose. E non si può dire che l’imperatore evitasse di dare nell’occhio.
Consacrò alla nuova divinità un tempio sul Palatino, mostrò per le vie
della città la pietra conica nera che ne era il simbolo e danzò attorno a un
altare. L’opinione pubblica si oppose a tutto ciò. È meglio mantenere un
cauto scetticismo sulle altre azioni che le fonti antiche gli attribuiscono,
come il suo presunto matrimonio con una Vergine Vestale e le sue
supposte relazioni omosessuali, nelle quali avrebbe sfidato le convenzioni
assumendo la parte del partner passivo.
Sia come sia, Elagabalo fu impopolare. Mesa, che non era tipo da
concedere troppo spazio ai sentimenti, decise che era necessario
sostituirlo per salvare la dinastia. Si rivolse così all’altra sua figlia, Giulia
Avita Mamea, e al figlio tredicenne di lei, Alessandro Severo. Dopo aver
accettato di adottarlo come proprio erede, Elagabalo ci ripensò, ma
ormai era troppo tardi. Nel 222 la guardia pretoriana uccise lui e Soemia
e li decapitò, gettando poi il cadavere di Elagabalo nel Tevere. Il suo
regno era durato quattro anni.
La Roma ufficiale si sentì sollevata nel vedere un uomo più
convenzionale sul trono, anche se si trattava soltanto di un ragazzino di
tredici anni e se probabilmente sua madre aveva su di lui più potere di
quanto non ne avesse avuto Agrippina su Nerone, che era diciassettenne
quando divenne imperatore. In una moneta del primo periodo del suo
regno si vede Alessandro in abito militare e regale, come Elagabalo, con
la differenza che mostra tutta la sua giovanissima età33. In alcune monete
più tarde porta la barba34. Un busto in marmo lo ritrae con indosso una
toga, il volto di un uomo fra la giovinezza e la maturità35. Mamea viene
raffigurata, in alcune monete, con la caratteristica capigliatura ondulata
della sua famiglia, pettinata in modo molto elaborato, con ciocche di
capelli parallele36. A volte indossa un diadema. Ha un aspetto regale e
dignitoso.
Mamea aveva il titolo ufficiale di Augusta, Madre dell’Augusto, degli
Accampamenti, del Senato e della Patria. Di fatto guidava l’impero. Non
era certo una cosa consueta, eppure madre e figlio rimasero popolari
finché Roma non cominciò a perdere guerre. Alessandro, poco incline
alle questioni militari, fece pochi progressi in Oriente contro la nuova
dinastia sasanide persiana. Rispetto ai loro predecessori i sasanidi erano
meglio organizzati, più minacciosi, più abili nell’utilizzare la tecnologia
militare, e dotati di maggiore capacità di resistenza. In Occidente,
Alessandro decise di tenersi buoni gli aggressivi germani della regione
renana, comprandoli invece di combatterli. Mortificati, i soldati schierati
in quelle zone acclamarono imperatore uno dei loro comandanti. Poi, nel
235, uccisero sia Mamea sia Alessandro Severo.
CONCLUSIONE
La dinastia fondata da Settimio Severo durò quarantadue anni, fino alla
morte di Alessandro Severo, se si eccettua l’interruzione di un anno
durante la quale il trono era stato occupato da un altro nordafricano,
Macrino. Fu un periodo molto più breve dei novantanove anni dei
Giulio-Claudi e inferiore anche ai cinquantaquattro degli Antonini
(Antonino Pio, Marco Aurelio, Lucio Vero e Commodo) ma molto più
ampio rispetto ai ventisette anni dei Flavi. Per un altro settantennio, dopo
il 235, nessuno avrebbe fondato una dinastia più longeva. Si può dire,
quindi, che si trattò di un risultato notevole.
Il fondatore stesso, Settimio Severo, aveva governato per quasi diciotto
anni. Il suo fu il regno più lungo di qualsiasi imperatore del secolo
successivo alla morte di Marco Aurelio. Ripristinò la stabilità dell’impero
dopo la tirannia di Commodo e la guerra civile che ne era seguita.
Prendendo a modello Marco Aurelio, Severo sostenne lo studio della
filosofia e dette inizio a un’epoca d’oro per il diritto romano. Tuttavia, se
guardiamo alla sua reputazione storica, il militare oscura il riformatore.
Sia per caso sia per scelta, Severo fu il primo vero soldato-imperatore.
Arrivò al potere con la spada, passò gran parte del suo regno impegnato
in campagne militari, mostrò al Senato di quale potere disponesse, e fece
l’impossibile pur di esaltare l’elemento militare. E fece presagire ciò che
sarebbe avvenuto in futuro.
Per Edward Gibbon, la mancanza di rispetto per il Senato mostrata da
Severo ne fece «il principale artefice del declino e della caduta»37
dell’impero. Gibbon era un snob che scriveva nell’epoca
dell’Illuminismo, con scarsa simpatia per chi veniva dal niente e per gli
outsider. Altri studiosi, che scrissero nel momento di massima
affermazione dell’imperialismo europeo del XIX e del XX secolo, sono
ancora più pungenti nei confronti del cosiddetto barbaro, tradendo senza
dubbio un atteggiamento un po’ settario nei confronti dell’imperatore
romano.
L’impero occidentale sarebbe durato 250 anni dopo la morte di Severo.
Molti dei suoi atti, sebbene scuotessero la tradizione, furono necessari. È
vero che Roma divenne meno civile, ma la crisi militare aveva fatto del
governo civile un lusso. Inoltre, Severo dedicò alle pubbliche relazioni
altrettanta attenzione che all’esercito, poiché si impegnò a legittimare e a
rendere popolare la propria famiglia. Infine, aprendo l’élite a persone
nuove, rese Roma non più debole, ma più forte.
Severo non si limitò a conquistare il trono: fondò una dinastia. I Severi
divennero la prima famiglia romana segnata dal disordine militare ma
anche da un illuminato multiculturalismo.
Fu il primo imperatore africano di Roma, mentre sua moglie Domna
era siriana e certamente di ascendenza non romana. Severo infarcì le più
alte cariche dell’impero di uomini di sangue diverso provenienti dalle
province, scrivendo così un nuovo capitolo nella storia della diversità
etnica e razziale di Roma.
Certo, nella Roma di Severo la spirale della violenza cominciò ad
andare fuori controllo. L’imperatore unì alle guerre civili di Augusto e
Vespasiano le politiche espansionistiche di Traiano e l’apparato da Stato
di polizia di Tiberio. Tuttavia, fu il momento adatto per uomini e donne
ambiziosi che sapevano come trafficare.
Come molti suoi predecessori, Severo non fu amico del Senato. Lo
epurò e uccise più senatori di Commodo o di Domiziano. Inserì negli
incarichi amministrativi e militari gli equites, esponenti del ricco ceto di
poco inferiore a quello senatoriale per rango e prestigio. Tuttavia, più
che un segno di ostilità verso i senatori, ciò poté essere dovuto
principalmente alla scarsità di senatori qualificati o alla mancata
disponibilità di alcuni senatori a prestare servizio. Raddoppiando le
dimensioni della guardia pretoriana e destinando una legione a un campo
permanente fuori Roma, fece gravare una pesante minaccia sulla libertà
di espressione.
Tuttavia fu quello stesso militarista – che in passato era stato avvocato
del fiscus – a dedicare un grande interesse al diritto romano. Nominò
eccellenti giuristi che con la loro opera codificarono il diritto per secoli.
Uno dei principi giuridici enunciati durante il regno di Severo fu quello
secondo cui «princeps legibus solutus est» (il principe non è soggetto alla
legge)38. Era un’enunciazione più sincera che nuova, visto che questa
regola aveva caratterizzato ogni regno a partire da Augusto. Per quel che
può valere, Severo e Caracalla promisero di vivere in accordo con le
leggi, sebbene non fossero tenuti a farlo.
Con i Severi, uno splendido multiculturalismo e un dispotismo
illuminato si associarono all’etica di una famiglia criminale. Forse era
sempre stato così, e forse l’unico errore di quella dinastia fu di non
impegnarsi maggiormente a dissimulare la cruda verità. Sebbene molti si
indignassero del fatto che Severo si paragonasse ad Augusto, egli non fu
meno ambizioso o spietato del primo imperatore romano. Fu
semplicemente meno raffinato.
Severo lasciò la sua impronta più forte nella sfera militare, o per meglio
dire nel modo con cui congiunse la sfera militare e quella politica. Sotto
di lui, venne a fondersi una serie di processi da molto tempo latenti, che
resero il governo romano meno civile e più militare. L’esercito ottenne
maggiore potere e diventò più costoso, mettendo a dura prova le finanze
imperiali e gettando le basi di una notevole instabilità. Aumentando le
paghe all’esercito, facendo la guerra e impegnandosi in un grande
programma edilizio Severo gravò pesantemente sul bilancio statale.
Invece di finanziare le spese con le imposte, lui e i suoi successori
inflazionarono la moneta, provocando alla fine effetti disastrosi sull’intera
economia romana. In modo analogo, ai vertici, sia l’esercito sia
l’amministrazione imperiale furono più diversificati. Il risultato fu una
Roma dal carattere più rude e dai modi più grezzi, con gente semplice
che dalle periferie affluiva al centro dell’impero, ma anche più aperta alla
partecipazione.
Sebbene le donne imperiali avessero esercitato una grande influenza in
tutti i periodi della storia romana, nessuna dinastia dai tempi di quella
Giulio-Claudia aveva visto all’opera donne così potenti come quelle dei
Severi. Probabilmente, Domna fu l’imperatrice più potente dai tempi di
Livia. Sua sorella Mesa ebbe un ruolo decisivo nel fronteggiare la guardia
pretoriana, sua nipote Soemia rappresentò il potere dietro le quinte del
trono, mentre l’altra nipote Mamea fu quanto di più vicino a una
reggente il sistema di governo romano consentisse.
I Severi amarono pensare in grande, che si trattasse di un nuovo
complesso termale, del rinnovamento urbano della capitale, della
ricostruzione della loro città di origine, Leptis Magna, di una campagna
militare contro i parti, di un’epurazione del Senato, dell’introduzione di
una nuova divinità a Roma o dell’estensione della cittadinanza romana
(per quanto ambigua fosse tale concessione).
Settimio Severo anticipò le forme che il potere avrebbe assunto
successivamente. Fu solo il primo di una serie di militari provenienti da
regioni distanti dell’impero. E non fu neppure l’ultimo imperatore ad
avere nella propria famiglia una donna che venerava una divinità non
tradizionale. Più di quanto non avesse fatto la maggior parte dei suoi
predecessori, basò il proprio potere sulla prosecuzione dei successi
militari, ma a Roma gli imperatori-soldati sarebbero diventati la regola.
Era un uomo violento, con una famiglia problematica e un incongruo
gusto per lo Stato di diritto. Ciò poté non apparire così contraddittorio
ai romani, con la loro mentalità legalistica, che enfatizzava gli aspetti
giuridici perfino della guerra. Severo abbinò un esercito forte a uno Stato
forte. Diocleziano e Costantino furono fatti della stessa stoffa.
E sarebbero stati a loro volta uomini brutali, che non esitarono a
ricorrere alla violenza per salvare il sistema, al costo però di introdurvi
enormi cambiamenti.
1
[Giovanni Malala], The Chronicle of John Malalas, traduzione inglese di Elizabeth Jeffreys,
Michael Jeffreys e Roger Scott, Australian Association for Byzantine Studies, Melbourne
1986, XII.18.
2
Tondo Severiano, Staatliche Museen (Berlino), Antikenmuseum, inv. 31329.
3
Cassio Dione, Storia romana LXXVII.16-17; cfr. ivi, LXXV.2 e LXXII.36.4.
4
Ivi, LXXVII.12.
5
Historia Augusta, Settimio Severo I.4.
6
Erodiano, Storia dell’Impero romano II.9.2.
7
Cassio Dione, Storia romana LXXVI.13. 240, LXXV.8.1 e LXXVI.8.1.
8
Erodiano, Storia dell’Impero romano II.9.2.
9
Historia Augusta, Settimio Severo II.6.
10
Cassio Dione, Storia romana LXXV.2.1-2; Erodiano, Storia dell’Impero romano II.14.4.
11
Cassio Dione, Storia romana LXXVII.15.3.
12
Barbara Levick, Julia Domna, Syrian Empress, Routledge, London 2007, p. 3.
13
Si vedano, ad esempio: il busto della Glyptothek (Monaco di Baviera), inv. 354; fra le
monete, ad esempio: RIC IV Septimius Severus 540
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.ss.540_aureus); RIC IV Septimius Severus 857
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.ss.857).
14
Filostrato, Vite dei sofisti, p. 341.
15
Si veda ad esempio, RIC IV Pertinax 1 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.pert.1).
16
Cassio Dione, Epitome di storia romana LXXV.
17
Erodiano, Storia dell’Impero romano II.11.
18
Cassio Dione, Storia romana LVIII.14.1.
19
Ivi, LXXVI.8.1.
20
Ibid.
21
Ivi, LXXVI.9.4.
22
Ivi, LXXV.3.3.
23
Hermann Dessau, Inscriptiones Latinae Selectae, vol. II, t. 1, Berlin 1902, nn. 6472 e 6988.
Adriano e Antonino Pio erano entrambi principi «santissimi».
24
Cassio Dione, Storia romana LXXVII.4.4.
25
Ivi, LXXVII.17.4.
26
Corpus Inscriptionum Latinarum, XII, 4345 e XIV, 120.
27
Cassio Dione, Storia romana LXXVII.15.2.
28
Ivi, LXVII.15.3.
29
Si veda, ad esempio, il busto conservato presso il Museo Archeologico Nazionale (Napoli),
inv. 6603.
30
Cassio Dione, Storia romana LXXVII.9.5.
31
Si veda ad esempio, RIC IV, Elagabalus 256 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.el.256).
32
Musei Capitolini (Roma), inv. MC 470.
33
RIC IV Severus Alexander 7d (http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.sa.7d?lang=bg).
34
Si veda, ad esempio, RIC IV Severus Alexander 648a
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.sa.648a).
35
Musei Capitolini, Roma, inv. MC 471.
36
Si veda, ad esempio, RIC IV Severus Alexander 670
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.sa.670).
37
Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 3 voll., a cura di
David Womersley, Penguin, Harmondsworth 1994, vol. I, p. 148 (trad. it. di Giuseppe Frizzi,
Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, con un saggio di Arnaldo Momigliano, Einaudi,
Torino 1967).
38
Giustiniano, Institutiones iuris romani II.17.8.
Diocleziano
9
Diocleziano,
l’uomo della grande divisione
DA DIOCLE A DIOCLEZIANO
Diocleziano era nato il 22 dicembre, nel 245 circa. Proveniva dalla
Dalmazia, oggi in territorio croato, forse dalla città di Salona, vicino a
Spalatum (Spalato). Il suo nome di nascita era Diocle, che in greco
significa «gloria di Zeus», il dio Giove dei romani. Era – come si è detto
– di famiglia povera. Suo padre era uno scriba, o forse il liberto di un
senatore. Sua madre sembra si chiamasse Dioclea.
Diocle, soldato di carriera, era portato per il comando. La sua ascesa nei
ranghi militari lo portò fino al grado di generale, e gli furono assegnate
truppe sul Danubio. Poi nel 283 prestò servizio sotto l’imperatore Marco
Aurelio Caro nella campagna che questi condusse in Oriente. A poco
meno di quarant’anni, Diocle si ritrovava al comando della guardia del
corpo imperiale, una forza scelta istituita una generazione prima e
distinta dalla guardia pretoriana.
Caro morì appunto nel 283, dopo un solo anno di regno. Ma fu un
anno segnato da immensi successi, nel corso del quale conquistò la
capitale sasanide in Iraq. Dopo una terribile tempesta, l’imperatore morì
nella sua tenda, non è chiaro se per cause naturali, per gli esiti di una
ferita riportata in battaglia, o perché colpito da un fulmine. In
precedenza, Caro aveva saggiamente nominato i figli suoi coreggenti.
Non era consueto che vi fossero dei co-imperatori, anche se non
mancavano precedenti. Marco Aurelio e Settimio Severo ne avevano,
infatti, entrambi nominato uno, mentre lo stesso Augusto e Vespasiano
avevano delegato il potere al proprio figlio e successore. Ma in nessun
caso prima di allora si era avuta una divisione formale dell’impero fra
Oriente e Occidente. Uno dei figli di Caro, Numeriano (Marco Aurelio
Numeriano), si trovava allora in Mesopotamia con l’esercito, che lo
acclamò imperatore. Suo fratello, Marco Aurelio Carino, era già stato
riconosciuto imperatore in Occidente, dove aveva vinto una battaglia
contro una tribù germanica.
Sebbene si fosse imposto contro i sasanidi, l’esercito romano decise di
non rischiare di intraprendere ulteriori combattimenti sotto un nuovo
sovrano non ancora sperimentato. Così retrocesse verso ovest.
Numeriano viaggiò in un carro chiuso, poiché, secondo il suo seguito,
aveva un’infezione a un occhio. Dissero che doveva proteggersi gli occhi
sofferenti dal vento e dal sole. Ma dopo qualche giorno i suoi soldati
sentirono un odore fetido. Aperto il carro, vi trovarono Numeriano
morto. I suoi attribuirono la morte a cause naturali, ma molti ebbero il
sospetto che si trattasse di un omicidio.
Chi avrebbe preso il suo posto? La scelta più ovvia era il prefetto del
pretorio, Arrio Apro, cognato di Numeriano. Emerse però un candidato
più impressionante: un rude, spietato e navigato comandante che sapeva
come esercitare il potere. Apro fu scavalcato dalla decisione di un
consiglio di alti ufficiali di Numeriano il 20 novembre del 284, che fece
cadere la scelta appunto su Diocle. Il quale ora assunse un nome dal
suono più latino: Diocletianus.
Il nuovo imperatore rispose al saluto delle truppe su un colle nei
dintorni della fiorente città di Nicomedia (oggi Izmit), situata
all’estremità di una baia della Propontide (l’odierno mar di Marmara),
non lontano dall’attuale Istanbul. Dopo aver giurato che non aveva tradito
né ucciso Numeriano, Diocleziano decretò Apro colpevole del presunto
delitto, estrasse la spada e lo uccise davanti a tutto l’esercito. Qualcuno
ipotizzò che Diocleziano stesse mentendo e che lui stesso facesse parte in
realtà di un complotto mirante a uccidere Numeriano. Se l’ipotesi era
vera, allora uccise Apro per ridurlo al silenzio.
Se Diocleziano mentiva, vi erano ancora più ragioni per calcare la
mano. Una fonte, richiamandosi a una testimonianza diretta, afferma che
Diocleziano, nell’atto di trafiggere Apro, citò un verso dell’Eneide – un
tocco molto letterario, non c’è che dire, per un militare4. Nella stessa
fonte si legge che Diocleziano ricevette una profezia secondo cui sarebbe
diventato imperatore dopo aver ucciso un cinghiale. In latino il nome
della sua vittima, Aper, significa appunto «cinghiale», come pare abbia
sottolineato lo stesso Diocleziano dopo l’omicidio5.
Roma aveva appena acquisito uno straordinario nuovo capo.
Diocleziano era un uomo non semplicemente determinato e violento,
ma anche energico, ambizioso e capace di una visione generale. Per
quanto avesse scarsa conoscenza di Roma, era profondamente romano,
perché Roma in quel momento era più un esercito che una città, e
l’esercito romano era la sua casa. Allo stesso modo, Diocleziano non era
un soldato di ristrette vedute, bensì uno scaltro stratega politico. Spesso
sottovalutiamo l’intelligenza dei grandi militari, ma farlo con Diocleziano
equivarrebbe a un errore fatale, poiché egli era un politico di
prim’ordine.
Il suo altisonante titolo completo era Cesare Gaio Aurelio Valerio
Diocleziano Augusto, ma si rendeva perfettamente conto che essere
acclamato imperatore dai soldati equivaleva a una semplice licenza di
caccia. Avrebbe dovuto guadagnarsi il titolo combattendo e manovrando
politicamente. Il fratello di Numeriano, Carino, governava la parte
occidentale dell’impero, e aveva proclamato di essere l’unico legittimo
imperatore. Diocleziano intraprese rapidamente una marcia per
attaccarlo. Si scontrarono nella primavera del 285 in Serbia, in una
battaglia che Carino vinse, per poi però uscire comunque sconfitto.
Secondo un resoconto, fu un ufficiale la cui moglie era stata sedotta da
Carino a ucciderlo6. È altrettanto probabile che l’ufficiale fosse un
traditore che agiva per conto di Diocleziano. Le truppe di Carino, ora,
accettarono come imperatore Diocleziano, il quale, dopo essersi
assicurato il controllo della regione, aprì la fase successiva della sua
campagna per conquistare la propria legittimazione. Varcò le Alpi per
entrare in Italia, poi raggiunse Roma, che forse vide allora per la prima
volta.
Il Senato romano a quell’epoca esercitava un modesto potere politico o
militare diretto, con un’unica rilevante eccezione: il suo consenso era
ancora necessario per legittimare la scelta dell’imperatore effettuata
dall’esercito. Inoltre, il Senato conservava ancora un enorme potere
indiretto. I senatori potevano complottare o promuovere i loro protetti
operando dietro le quinte. Ancor più importante era il fatto che il Senato
rappresentava la ricchezza e il potere del denaro in campo politico,
poiché i suoi membri disponevano di enormi patrimoni. Era insomma
un corrispettivo di Wall Street o della Silicon Valley di oggi, col
vantaggio, però, di essere esente da tasse. Aprendo o chiudendo i
cordoni della borsa, i suoi membri potevano determinare l’ascesa o la
caduta di un politico ambizioso.
Diocleziano tutto questo lo sapeva, e così andò a Roma. Durante una
breve visita, negoziò favori e strinse amicizie, ad esempio nominando
alcune figure chiave fra i senatori al consolato, che in anni recenti era
spettato ai militari. Per il momento, in ogni modo, aveva il Senato dalla
propria parte.
A Roma Diocleziano non perse tempo. L’impero si trovava a dover
affrontare enormi sfide, a partire dalle prove militari, e lui ora si dedicò a
questo. Passò la maggior parte del decennio successivo in campagne sul
Danubio e in Oriente.
UN GRANDE GOVERNO
I piani di Diocleziano erano costosi. Il settore militare, con la sua infinita
serie di guerre, era la voce di spesa maggiore, ma era anche in corso
un’enorme campagna di costruzioni. Oltre ai forti e alle strade lungo le
frontiere, ogni tetrarca aveva bisogno almeno di un palazzo, e spesso non
solo di uno. E Diocleziano non trascurò neppure la città di Roma.
Ricostruì il Senato dopo il devastante incendio che lo aveva colpito (la
nuova costruzione è ancora oggi visibile nel Foro), eresse un arco
trionfale (non più esistente) e costruì le enormi terme che da lui presero
il nome, le più grandi mai costruite in città. Da allora, le varie parti delle
diffuse rovine di queste terme, che occupano una superficie di oltre
quattro ettari, sono state trasformate in due chiese rinascimentali (una
delle quali progettata da Michelangelo), e hanno lasciato il posto a un
grande museo archeologico, a una sala per mostre ed ex planetario e
infine, ma non meno rilevante, a una delle principali piazze della Roma
moderna.
Un’altra importante spesa fu rappresentata dalla nuova e ampliata
struttura amministrativa che Diocleziano impose all’impero,
raddoppiando il numero della province da circa cinquanta a un centinaio.
L’imperatore raggruppò, inoltre, le province in dodici nuove regioni,
che chiamò diocesi (termine utilizzato dalla Chiesa cristiana per indicare
le sue unità territoriali amministrative), ognuna con un proprio
amministratore. I senatori erano praticamente tagliati fuori dai
governatorati provinciali, poiché quasi tutti gli incarichi venivano
assegnati ai cavalieri. Lo scopo del nuovo sistema era rendere più
semplice la riscossione delle tasse e applicare le leggi e i regolamenti.
Nel corso di tutta la storia dell’impero, l’Italia era stata esentata dalle
imposte. Ora non fu più così. Diocleziano trattò la penisola come
qualsiasi altra provincia. Perfino la città di Roma dovette versare il dovuto
e – imposizione più scortese di ogni altra – lo stesso dovettero fare anche
i senatori. Il risentimento cominciò a covare.
Per venire incontro ai bisogni di un esercito rafforzato, il governo istituì
delle fabbriche di armi in varie località dell’impero. Ciò, a sua volta,
portò all’imposizione di obblighi alle popolazioni locali.
L’amministrazione aveva un raggio d’azione molto ampio. La
documentazione di cui disponiamo mostra, ad esempio, che nel
settembre del 298 un fabbro egiziano non si presentò al lavoro
nell’arsenale locale. Il governatore dette così ordine alla polizia di trovarlo
e di arrestarlo, facendolo comparire davanti a lui assieme agli attrezzi da
lavoro22.
Occorre dire, però, che tutto ciò avveniva in un contesto in cui la
moneta era ormai quasi priva di valore. Già sotto Settimio Severo, le
monete d’argento romane erano composte solo per il 50% di metallo
prezioso. Negli anni sessanta del III secolo alcune monete contenevano
solo il 2-3% di argento. Non sorprende, quindi, che questo portasse a
una crisi finanziaria. Come al solito, Diocleziano aveva una risposta,
anzi, diverse risposte.
In linea generale, si tenga presente che nel clima di incertezza degli anni
di crisi in varie parti dell’impero i coltivatori rinunciavano alla propria
indipendenza per ottenere in cambio la protezione di un proprietario
fondiario locale, cambiando così il loro status e divenendo affittuari.
Diocleziano codificò la situazione che si era venuta a creare, e cercò di
legare i membri di questo nuovo ceto in modo permanente alla terra in
qualità di affittuari, perché i lavoratori stabili erano più facili da tassare.
Venne così istituito un nuovo sistema fiscale che prevedeva pagamenti in
natura invece che in denaro.
I soldati, tuttavia, dovevano essere pagati in moneta, per cui fu
necessario affrontare il problema dell’inflazione. Intorno al 294
Diocleziano aumentò il peso della moneta d’oro, creò una nuova e
affidabile moneta d’argento e riformò la monetazione bronzea.
Nonostante questo nobile tentativo, le monete di bronzo rimasero
sopravvalutate, e l’inflazione salì rapidamente. Così, nel 301 il governo
intervenne, emanando un decreto che di fatto tagliò della metà il valore
delle monete di bronzo.
Qualche mese dopo Diocleziano e i suoi colleghi fecero un grandioso
tentativo di imporre un sistema di controlli sui salari e sui prezzi, con
l’emanazione del famoso Edictum de pretiis, che fissava i prezzi massimi
delle merci. La parte introduttiva del provvedimento è significativa.
Dopo aver attaccato gli avidi e i profittatori, i quattro governanti
fissarono i livelli limite dei salari e dei prezzi. La pena prevista per la
violazione dei tetti di legge era la morte.
Una particolare preoccupazione veniva espressa per l’esercito, rispetto al
quale venivano citati casi di soldati che avevano perso il loro intero
salario e il loro premio in un’unica transazione. I malvagi, si leggeva,
stavano truffando non solo i singoli, ma la società nel suo complesso,
poiché i soldi derivanti dalle imposte servivano a pagare i soldati.
L’editto stabilì i prezzi relativi a oltre mille fra beni e servizi, dai ceci alla
senape, dalle capre ai fagiani, dagli indennizzi per i lavoratori del marmo
ai guidatori di cammelli, dai veterinari ai maestri di scuola. L’obiettivo
era ambizioso, ma destinato a non essere raggiunto. Alla fine, infatti, le
merci vennero ritirate dal mercato, mentre la borsa nera fiorì.
UN ININTERROTTO CERIMONIALE
Come si evince dal gruppo scultoreo che raffigura i tetrarchi,
l’imperatore era particolarmente attento all’autorappresentazione. Di
fatto, sotto Diocleziano la corte imperiale abbandonò ogni finzione di
repubblicanesimo e diventò un posto in cui i più alteri monarchi
potevano sentirsi a loro agio. Diversi dei suoi predecessori avevano già
esteso il cerimoniale di corte, ma Diocleziano si spinse ancora molto
oltre.
Spesso indossava una veste purpurea con fili d’oro, accompagnata da
gioielli e scarpe di seta. Per gli antichi, il porpora era il colore dei re. I
primi imperatori evitarono di indossarlo, e sebbene Adriano e i suoi
successori ne facessero sempre più uso, nessuno lo aveva adottato con più
gusto di quanto fece Diocleziano. Insisté anche per farsi chiamare signore
(dominus) in pubblico. I palazzi imperiali costruiti durante il suo regno
sono tutti dotati di grandiose sale per le udienze, organizzate in modo
tale da consentire al sovrano di produrre una favolosa impressione sui
visitatori. Spesso appariva circondato da figure che gli scrittori classici
disdegnavano, considerandoli un segno di dispotismo: gli eunuchi.
Questi personaggi avevano svolto un ruolo all’interno del governo
imperiale fin dai primordi, ma generalmente si trattava di funzioni
modeste. I romani li associavano all’autocrazia straniera, ma sotto
Diocleziano ebbero un ruolo a parte nel governo romano. Erano schiavi
liberati spesso provenienti dell’Armenia o dalla Persia, e occupavano
posizioni chiave all’interno della famiglia dell’imperatore, spesso
controllando l’accesso alla sua persona.
Un possibile contatto con l’imperatore poteva avvenire durante il suo
ingresso in città, che in genere veniva accompagnato dallo svolgimento di
un grandioso cerimoniale. Questo, assieme alla presentazione a corte,
poteva costituire il momento per pronunciare un panegirico, un discorso
di lode. Sempre eccessivamente ossequiosi già nei primi regni, questi
discorsi raggiunsero livelli di servilismo inediti sotto Diocleziano. Nel
301, ad esempio, Diocleziano e Massimiano tennero una riunione nel
palazzo di Mediolanum (Milano). Un estensore di discorsi esclamò:
«Quale visione la vostra pietà concesse quando coloro che erano stati
ammessi nel palazzo a Milano per adorare i vostri sacri volti vi colsero
entrambi con la vista, e voi, divinità gemelle, improvvisamente
confondeste la consueta pratica della venerazione singola»23.
Lo stesso scrittore afferma che quando i due sovrani uscirono dal
palazzo e furono portati in lettiga per le vie della città, gli edifici stessi
quasi si muovevano per la folla di gente che si riversava in strada o si
sporgeva dalle finestre dei piani alti per poter cogliere un’immagine; e
aggiunge che la gente gridava gioiosamente e senza timore: «Vedi
Diocleziano? Vedi Massimiano? Sono là entrambi! Sono insieme! Come
siedono vicini! Come discorrono in armonia! Come passano veloci!»24.
L’impero aveva percorso molta strada dai giorni in cui Livia curava di
farsi vedere mentre tesseva sul proprio telaio la toga di lana di suo marito
Augusto, o in cui sotto Tiberio il Senato mise fuorilegge i vestiti di seta
da uomo. Ma i duri soldati dei Balcani che regnavano in quel periodo
provenivano da un altro mondo. Ora che avevano la ricchezza e il potere,
amavano ostentarli.
LA GRANDE PERSECUZIONE
Potrebbe sembrare strano che Diocleziano dedicasse tempo ed energie
alle persecuzioni religiose. Infatti, da un militare del suo stampo ci si
sarebbe potuti aspettare che esclamasse, come fece il dittatore sovietico
Stalin: «Quante divisioni ha il papa?»25.
Ma i romani, diversamente dai moderni, non crebbero all’ombra della
credenza secondo cui Dio è morto. Al contrario, la maggior parte dei
romani vedeva nelle disgrazie dell’impero un chiaro segno della
disapprovazione divina. Gli dèi erano arrabbiati con Roma. Era
necessario placarli e lo Stato doveva restaurare quella che i romani
definivano «la pace degli dèi»26. Ma come?
Per qualcuno la risposta era «con nuovi dèi». La crisi del III secolo, con
le sue molte miserie, dette impulso alla tendenza a passare dalle vecchie
divinità alle nuove. Durante i primi secoli dell’impero a Roma erano
arrivate dall’Oriente varie religioni straniere e in alcuni casi nuove.
L’offerta religiosa della Roma del III secolo aveva l’aspetto di un mosaico
multicolore. I fedeli potevano scegliere fra i culti misterici greci, che
proponevano il segreto della vita eterna; il culto della divinità egizia Iside,
i cui sacerdoti sfilavano per le strade salmodiando con indosso vesti simili
agli Hare Krishna dei nostri giorni, ma in più autoflagellandosi; il culto
esclusivamente maschile di Mitra, una sorta di connubio fra il dio Sole e
un simbolo del machismo, i cui adepti prendevano parte a sacrifici di tori
in sotterranei che richiamano alla mente i capitoli di alcune confraternite
americane; il manicheismo, una religione intellettualistica proveniente
dalla Persia, che proponeva una concezione dualistica del mondo, visto
come il prodotto della lotta fra la luce e le tenebre. Il giudaismo attirava
molti convertiti, e probabilmente un numero ancora maggiore di
simpatizzanti che ne apprezzavano la teologia e il libro sacro nobilitato
dal tempo, più che le rigide norme.
Infine, c’era il cristianesimo, che prospettava la salvezza e proponeva i
rituali, il comunitarismo e i vantaggi del giudaismo senza le sue
restrizioni. L’ostilità delle autorità non impedì alla nuova religione di
diffondersi. Di fatto, il governo romano lasciò fare. Le persecuzioni
furono sporadiche, a carattere locale e relativamente rare, con l’eccezione
degli anni cinquanta del III secolo, quando gli imperatori, che ancora
non si erano ripresi da una serie di disastri, cominciarono a perseguitare
per un breve periodo i cristiani che non offrivano sacrifici agli dèi.
Presto, però, si ritornò alla precedente situazione basata su una tolleranza
di fatto.
Il cristianesimo conquistò seguaci grazie all’importanza che attribuiva
alla carità e alla comunità. La Chiesa era aperta anche alle donne e agli
schiavi. Nonostante le tendenze apocalittiche e rivoluzionarie, diventò
largamente accettato. Persone facoltose, intellettuali e perfino soldati
romani cominciarono a convertirsi.
I cristiani erano una minoranza concentrata in Oriente e nell’Africa
settentrionale. Ma costituivano forse il 10% della popolazione
complessiva dell’impero, una quota quindi non irrilevante, soprattutto
perché la maggior parte di essi viveva nei centri urbani, il cuore pulsante
della civiltà romana. Anche in conseguenza di ciò, i cristiani
generalmente apparivano e si comportavano come chiunque altro. Non
indossavano vesti speciali, né vivevano in ghetti, né seppellivano
separatamente i loro morti o parlavano una lingua a parte. Potevano essere
vicini di casa, donne che gestivano la famiglia o erano attive nel
commercio, insegnanti, avvocati, soldati della tenda accanto. L’unica cosa
che li rendeva diversi dagli altri romani era che non frequentavano i
templi e le cerimonie festive, celebravano il loro culto in chiese (nella
maggior parte dei casi, semplici stanze in case private) e rifuggivano dal
compiere sacrifici agli dèi in onore dell’imperatore.
Diocleziano rilevò questa loro tendenza, e la considerò un’omissione di
doveri. Non era tipo da cercare la pace con gli dèi ricorrendo a una
nuova religione. Al contrario, quell’uomo nato in umili condizioni in
Dalmazia celebrava le vecchie divinità romane col fervore tipico del
neofito. Oltre a compiere personalmente sacrifici in onore degli dèi
tradizionali, decise di perseguitare coloro che non lo facevano. Forse
eraun’idea che aveva in testa già da tempo, ma in tal caso non sarebbe
stato comunque in grado di metterla in atto fino al 298, quando
finalmente si concluse la guerra con la Persia. Forse, agì perché col passare
del tempo cominciò a pensare alla propria eredità e voleva ottenere il
favore degli dèi prima di finire i suoi giorni. In ogni caso, nel 303 passò
all’azione.
Dapprima Diocleziano si occupò dei manichei, che erano sospetti non
solo perché nuovi e diversi, ma anche perché la loro religione proveniva
dalla Persia. L’imperatore disse che erano come dei serpenti velenosi e
maligni27. Poi prese di mira i cristiani.
Diocleziano temeva e disapprovava il crescente potere della Chiesa
cristiana, e in particolare la sua penetrazione nelle file dell’esercito. Il suo
istinto lo spingeva a distruggerla. In ciò, ebbe il forte sostegno del suo
collega Galerio. Alcune fonti sostengono, anzi, che l’idea della
persecuzione vada attribuita proprio a Galerio. Un’ipotesi interessante è
che a spingerlo in tale direzione fosse sua madre Romula, animata dalla
sua profonda fede nelle divinità pagane28. Rientra, quindi, nel novero
delle possibilità che dietro la peggiore persecuzione subita dalla Chiesa
cristiana nell’antichità vi fosse una donna proveniente dalle ondulate
colline della Serbia rurale.
Una serie di ordini emanati nel 303 e nel 304 fu alla base di quella che i
cristiani avrebbero chiamato la Grande Persecuzione. I primi
provvedimenti presero di mira il clero, oltre che i cristiani che
occupavano cariche elevate. Poi, il regime attaccò anche quelli di
condizione comune e impose che offrissero sacrifici alle divinità pagane.
Furono distrutte chiese e confiscati i libri sacri della religione cristiana.
Diocleziano fu particolarmente attento a cacciare i cristiani dall’esercito.
Secondo Lattanzio, autore di fede cristiana, la persecuzione prese avvio
nell’inverno del 303 con la distruzione di una chiesa cristiana a
Nicomedia, nei pressi del palazzo di Diocleziano. Lo scrittore accusa
Galerio di aver appiccato il fuoco al palazzo dell’imperatore per darne poi
la colpa ai cristiani e spingere Diocleziano alla persecuzione29. Questi, a
quanto pare, abboccò e fece torturare i suoi servi sperando di estorcere
loro una confessione, senza però riuscirvi.
A quanto si dice, Diocleziano sospettò perfino di sua moglie e di sua
figlia. È probabilmente per questo, in ogni caso, che ordinò loro di
offrire sacrifici agli dèi30. Sicuramente le due donne non erano cristiane,
ma forse avevano espresso simpatia per i seguaci del cristianesimo.
I cristiani reagirono alle persecuzioni in vario modo. Alcuni si
nascosero, altri corruppero i funzionari pubblici, alcuni accettarono di
compiere sacrifici, altri si rifiutarono e furono giustiziati a morte a causa
della loro fede. Erano dei martiri, e così li descrive la letteratura cristiana.
Un veterano di nome Giulio, con ventisette anni di servizio militare e
sette campagne alle spalle, preferì essere giustiziato piuttosto che offrire
incenso agli dèi. Crispina, una donna facoltosa, madre di alcuni bambini,
che viveva nel territorio dell’attuale Algeria, accettò a sua volta di essere
uccisa piuttosto che piegarsi a compiere sacrifici. Il vescovo Felice, nella
regione dell’attuale Tunisia, si rifiutò di consegnare i libri sacri e venne
per questo giustiziato all’età di cinquantasei anni31.
Per i cristiani fu un periodo terribile. Le persecuzioni andarono avanti a
ritmo alterno per dieci anni, e provocarono grandi sofferenze, ma alla fine
fallirono. La fermezza e la determinazione dimostrate dai martiri è uno
dei motivi che spiegano questo insuccesso; un altro motivo va visto nella
indisponibilità di alcune autorità non cristiane a prendere parte alla
persecuzione. Quanti romani erano pronti a condannare a morte dei loro
concittadini che non avevano di fatto commesso alcun vero crimine? In
Britannia e in Gallia, Costanzo si limitò ad abbattere le chiese, ma per il
resto lasciò stare i cristiani. Sicuramente non fu l’unica autorità che operò
in modo da attenuare la portata degli ordini di Diocleziano.
I martiri non furono molto numerosi, ma la dimensione del martirio
assunse un posto molto rilevante nella coscienza cristiana, e
probabilmente attirò l’ammirazione anche dei non credenti, tanto che il
cristianesimo uscì rafforzato dalle persecuzioni subite.
Quanto a Romula, dopo la sua morte venne sepolta in un mausoleo
appositamente costruito nella proprietà di Galerio e a lei intitolato, e
venne proclamato il suo status divino32. Sarebbe difficile pensare,
guardando al suo destino, che la religione pagana che aveva protetto
sarebbe stata presto a sua volta perseguitata.
CAVOLI E RE
Diocleziano fu il primo e l’unico imperatore romano a scegliere
volontariamente di andare in pensione. Ancor più significativo fu il fatto
che visse senza essere molestato per quasi un decennio dopo essere uscito
di scena.
Perché lasciò il campo? Le fonti affermano che gli venne meno la salute,
ma bisogna dire che altri imperatori rimasero attaccati al potere anche se
afflitti da colpi apoplettici, malattie cardiache e gotta. Nessun capo
romano aveva ceduto il potere volontariamente sin dai tempi in cui,
quasi quattro secoli prima, il dittatore Silla rinunciò alle sue funzioni,
con un atto che all’epoca Giulio Cesare definì di analfabetismo politico,
sostenendo che i dittatori non possono andare in pensione33. Ma
Diocleziano non era uno sprovveduto. Sapeva che i suoi fedeli
coreggenti avrebbero cessato di essere leali nel momento stesso in cui
avessero sentito l’odore del sangue. Ognuno di loro agognava la porpora
e si sarebbe battuto per ottenerla, ma Diocleziano voleva scegliere
personalmente il proprio successore, e non avrebbe potuto farlo dalla
tomba. Probabilmente, pensò che era meglio cedere il potere, uscire di
scena e poi, all’occorrenza, tirare le fila da dietro le quinte mentre era
ancora in vita.
Massimiano e Costanzo erano entrambi uomini capaci e ambiziosi, ma
la preferenza di Diocleziano andava a Galerio. Per oltre un decennio,
questi era stato il suo fedele servo e la sua longa manus militare. Ed era
anche il marito di sua figlia Valeria e il padre di suo nipote. E così,
l’imperatore si preparò per il grande giorno.
Intorno al 300, Diocleziano cominciò a preparare la dimora nella quale
si sarebbe ritirato, in Dalmazia, a Spalatum, vicino al suo luogo di
nascita. Alle rovine che ancora oggi testimoniano lo splendore di un
tempo si fa spesso riferimento come al Palazzo di Diocleziano, ma non si
trattava solo di un palazzo. Il complesso stava alle case di riposo come
Fort Knox sta alla banca sull’angolo della strada.
Il palazzo di Diocleziano copriva, infatti, un’area di circa 215 metri per
180, e ospitava al suo interno migliaia di persone. Era cinto da mura
fortificate e diviso in quattro parti come un accampamento militare
romano; comprendeva al suo interno una piccola fabbrica di armi, un
tempio e un mausoleo (diversamente dai precedenti imperatori,
Diocleziano non costruì infatti il proprio mausoleo a Roma).
Il palazzo era anche una sorta di manifesto ideologico in pietra. Le
quattro parti di cui si componeva rappresentavano i tetrarchi, che erano
praticamente degli dèi in terra, il più importante dei quali era lo stesso
Diocleziano, figlio di Giove.
Massimiano non condivise l’entusiasmo di Diocleziano per la
prospettiva di andare in pensione. Voleva restare al potere, e anche fare in
modo che suo figlio Massenzio gli succedesse. Ma Diocleziano si
oppose. Costrinse Massimiano a dimettersi e a lasciar fuori Massenzio. I
due nuovi Augusti sarebbero stati Galerio in Oriente e Costanzo in
Occidente, i due nuovi Cesari rispettivamente Flavio Valerio Severo e
Massimino Daia, entrambi a loro volta militari originari dei Balcani e
collegati a Galerio (Daia era suo nipote).
Con cerimonie accuratamente coordinate e formali, Diocleziano e
Massimiano lasciarono il potere lo stesso giorno, il 1° maggio del 305.
Diocleziano a Nicomedia, Massimiano a Mediolanum. Smisero le loro
vesti purpuree e indossarono da allora quelle di privati cittadini.
Si pregiarono entrambi di un nuovo titolo: Senior Augustus. Era un
tentativo di mantenere autorità anche una volta in pensione, ma non
funzionò.
La Banda dei Fratelli si trasformò presto in Gioco del Trono, quando i
quattro nuovi tetrarchi entrarono in conflitto fra loro. Ci volle un
ventennio prima che si arrivasse a una soluzione, che però, quando fu
trovata, aprì la strada a una delle più grandi e drammatiche svolte della
storia della civiltà occidentale.
Il 25 luglio del 306, a distanza di poco più di un anno da quando
Diocleziano aveva lasciato il potere, l’Augusto di Occidente, Costanzo,
morì. Il caso volle che finisse i suoi giorni a Eboracum, in Britannia, la
stessa località in cui era morto l’imperatore Settimio Severo. I soldati di
Costanzo attuarono immediatamente un colpo di Stato, che sicuramente
era in preparazione da tempo. Invece di accettare la scelta del nuovo
Cesare da parte di Diocleziano, acclamarono come Augusto il figlio dello
stesso Costanzo, Costantino. Questi usò l’acclamazione come una carta
per far valere le proprie pretese nei negoziati. Dopo un accordo con
Galerio, accettò di retrocedere al titolo di Cesare, ma per lui si trattava
comunque di un grande passo.
Il successivo ostacolo alla realizzazione dei piani elaborati da
Diocleziano per la successione si presentò qualche mese dopo. Il 28
ottobre a Roma scoppiò una rivolta, alimentata in gran parte dalla rabbia
per un tentativo di tassare la gente comune. La guardia pretoriana, con
una mossa che richiamava i giorni andati, ruggì di nuovo e scelse il suo
imperatore, proclamando tale Massenzio, figlio dell’Augusto
Massimiano, ormai in pensione. I pretoriani gli conferirono il titolo
ormai antiquato di princeps. Massenzio richiamò il padre dalla pensione e
lo proclamò a sua volta nuovamente Augusto.
Per ampliare la cerchia dei sostenitori del figlio, Massimiano organizzò
un matrimonio strategico, concedendo la mano di sua figlia a Costantino
e riconoscendolo come Augusto. In cambio, Costantino riconobbe a sua
volta Massimiano come Augusto e anche Massenzio come Cesare.
Quel che avvenne poi è talmente complesso da confondere anche il più
scrupoloso degli osservatori. Massenzio era sposato con la figlia di
Galerio, il quale però si oppose violentemente alle manovre di potere del
giovane. Per combatterlo in Italia, Galerio, dalla sua base in Oriente,
inviò Flavio Severo, il quale però venne sconfitto e imprigionato, per poi
morire giustiziato. Galerio sferrò un nuovo attacco ma fallì ancora una
volta, anche se riuscì almeno a mettersi in salvo. Nel frattempo,
Massimiano ruppe con Massenzio. Da questa brutta lite scaturì un
tentativo da parte del padre, nel 308, di detronizzare il figlio.
A questo punto Massimiano rivolse a Diocleziano l’appello sul quale si è
aperto questo capitolo. Nel novembre del 308 i due si trovarono a
convegno a Carnuntum. Massimiano tentò di convincere Diocleziano a
riprendere il potere. L’ex imperatore saggiamente declinò l’offerta.
Indicò le sue verdure come il motivo per rientrare al sicuro fra le mura
del suo palazzo fortificato, da dove poteva influire sugli eventi operando
dietro le quinte. Massimiano dovette così abdicare da Augusto per una
seconda volta, ma continuò a scalpitare per il potere. Ora entrò in
contrasto col genero Costantino, e tentò perfino di assassinarlo. Era
troppo per Costantino, che nel 310 lo costrinse a togliersi la vita.
Nel frattempo, Galerio non stette con le mani in mano. Tentò di
rafforzare la propria posizione sia con un’azione di propaganda, sia con
manovre dinastiche. Sebbene Diocleziano non avesse mai attribuito a sua
moglie Aurelia Prisca il titolo di Augusta, ora Galerio concesse
quell’onore a sua moglie Valeria, figlia di Diocleziano. Intitolò a suo
nome anche una provincia. Galerio voleva in tal modo ostentare la
propria superiorità sugli altri regnanti, i quali però, naturalmente, non
furono d’accordo.
Sempre nel 308, Galerio nominò al rango di Augusto in Occidente
ancora una volta un soldato dei Balcani, nella speranza che potesse
finalmente sottrarre il potere a Massenzio a Roma. Il soldato in questione
era un vecchio compagno d’armi dello stesso Galerio, ed era stato uno
dei suoi generali nella guerra contro la Persia: si chiamava Valerio
Liciniano Licinio. Come ormai consueto, la sua storia era quella di un
povero ragazzo dei Balcani che si era fatto strada risalendo la gerarchia
dell’esercito. Ma neppure un esperto comandante militare poteva violare
le possenti mura di Roma, e neppure lui riuscì a scacciare Massenzio.
Galerio però sarebbe morto di cancro alla fine del 311. Prima della fine,
aveva revocato i provvedimenti che aveva emanato contro i cristiani,
anche se altri continuarono ad applicarli. Il motivo per cui lo fece non è
chiaro, ma alcuni sostengono che la malattia lo portò a rimettere in
discussione la sua convinzione che il dio dei cristiani non avesse potere.
Ora c’erano quattro uomini che rivendicavano il diritto di esercitare il
potere in una parte dell’impero romano: Costantino, Massenzio, Licinio
e Daia. Le lotte che li contrapposero saranno affrontate nel prossimo
capitolo. Nel frattempo, ritorniamo al destino che attendeva Diocleziano
e la sua famiglia.
Come e quando Diocleziano morì non è chiaro. La sua vita si concluse
in un momento compreso fra il 311 e il 313, in conseguenza di una
malattia o di un suicidio. Dopo la sua morte, sia la sua vedova sia sua
figlia – la vedova di Galerio – vennero uccise. Diocleziano non riuscì a
salvare la propria famiglia, ma aveva salvato l’impero e ne aveva
riorganizzato il governo.
Dai tempi di Augusto, nessuno come lui aveva introdotto cambiamenti
così radicali nel governo di Roma. È vero che la tetrarchia non
sopravvisse a lungo dopo la sua uscita di scena, ma per la maggior parte
del IV secolo l’impero fu governato da due uomini per volta, invece che
da uno solo, e ciò dà ragione alla convinzione di Diocleziano secondo
cui i problemi di Roma fossero troppo grandi per poter essere gestiti da
un’unica persona.
Diocleziano pose anche fine al potere della città di Roma, che da allora
non sarebbe più stata la capitale dell’impero. Come lui, la maggior parte
degli imperatori sarebbero ora provenuti dai Balcani e dall’esercito,
indebolendo così ancora di più i legami con la Città Eterna.
Grazie a Diocleziano, l’esercito romano fu finanziato meglio e schierato
in modo più massiccio lungo le frontiere, usufruendo di una nuova rete
di strade e fortificazioni. A lui si dovettero anche due generazioni di pace
con la Persia e con l’Oriente. Sempre per merito suo, l’amministrazione
imperiale fu più vasta e più capillare che mai. Per finanziare tutto ciò,
l’imperatore aggravò la tassazione. Infine, rafforzò e codificò un processo
che legava i contadini alla terra.
Fin qui per quanto riguarda i suoi successi. Ma dovette registrare anche
dei fallimenti. Nonostante le violenze messe in atto, non riuscì a bloccare
la crescita del cristianesimo. E neppure riuscì a mettere l’impero nelle
mani di suo genero e della propria famiglia. I nemici rialzarono la testa, e
neanche le solide mura del suo palazzo sarebbero bastate a mettere in
salvo i suoi familiari.
L’uomo che alla fine avrebbe trionfato diventando il successore di
Diocleziano, Costantino, introdusse cambiamenti meno radicali di
quanto potrebbe sembrare. Non vi è dubbio che il suo ruolo di primo
imperatore cristiano rappresenti di per sé una svolta. Ma riguardo alle
questioni dell’amministrazione, della difesa e dell’economia si comportò
in gran parte in modo analogo al suo predecessore. Costantino fondò una
dinastia che traeva origine da due dei più vicini compagni di
Diocleziano: Costanzo e Massimiano. Visti in prospettiva, i regni di
Diocleziano e di Costantino fanno parte di un’unica vicenda, centrata
sull’esigenza di riformare, e quindi di salvare, l’impero romano.
1
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 39.6 («Utinam Salonae possetis visere olera
nostris manibus instituta, profecto numquam istud temptandum iudicaretis»).
2
J. Paul Getty Museum, Villa Collection (Malibu, CA), 78.AA.8.
3
Worcester Art Museum, Head of a Man (possibly Diocletian), 1974.297.
4
Historia Augusta, Caro, Carino e Numeriano XIII.3-5.
5
Ivi, XIV.1-15.6.
6
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 38.8.
7
Ivi, 29.5; Iordanes, Getica, edizione, traduzione e commento a cura di Antonino Grillone,
Les Belles Lettres, Paris 2017, XVIII.
8
Harper, The Fate of Rome cit., pp. 136-145.
9
Ivi, pp. 129-136 e 167-175.
10
Civico Museo Archeologico (Milano):
www.comune.milano.it/wps/portal/luogo/museoarcheologico/lecollezioni/milanoromana/ritra
tto_massimiano/lut/p/a0/04_Sj9CPykssy0xPLMnMz0vMAfGjzOItLL3NjDz9Dbz9Az3ND
Bx9DIMt_UxMjc28DfQLsh0VAba4yro!. Per una immagine riportata sulle monete, si veda
RIC V Diocletian 342, http://numismatics.org/ocre/id/ric.5.dio.342.
11
Eutropio, Compendio di storia romana II.9.27.
12
Timothy David Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, Harvard University
Press, Cambridge (MA) 1982, pp. 51-52.
13
Genathliacus of Maximian Augustus, in Panegyrici Latini XI.6.3 (C.E.V. Nixon, Barbara Saylor
Rodgers, In Praise of Later Roman Emperors: The «Panegyrici Latini», con testo latino di R.A.B.
Mynors, University of California Press, Berkeley 1994, p. 91).
14
Si veda, ad esempio, RIC VI Serdica 34 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.6.serd.34).
15
Lattanzio, La morte dei persecutori IX.
16
Jasna Jeličić-Radonić, Aurelia Prisca, in «Prilozi povijesti umjetnosti u Dalmaciji» [Contributi
alla storia dell’arte in Dalmazia], LI (2008), 1, pp. 5-25 (http://hrcak.srce.hr/109683).
17
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 40.17; Lattanzio, La morte dei persecutori XI.21.
18
Si vedano: www.basilicasanmarco.it/basilica/scultura/la-decorazione-delle-facciate/la-
facciata-orientale/?lang=en e https://it.wikipedia.org/wiki/Monumento_ai_Tetrarchi
19
Ammiano Marcellino, Storie XIV.11.10; XXII.7.1; Eutropio, Compendio di storia romana
IX.24; Rufio Festo, Breviario di storia romana, a cura di Stefano Costa, testo latino a fronte, La
vita felice, Milano 2016, XXV.
20
British Museum (Londra), B 1147 (The Arras Medallion).
21
Diocletian, Edict of Maximal Prices, cit. in Roger Rees, Diocletian and the Tetrarchy, Edinburgh
University Press, Edinburgh 2004, p. 139.
22
P. Beatty Panop. 1213-1216 (17 settembre 298); Rees, Diocletian and the Tetrarchy cit., II.21,
p. 149.
23
Panegyrici Latini cit. 11(3) (Treviri 21 luglio 291) (I cap. 4.2), 11.1.1; Rees, Diocletian and the
Tetrarchy cit., p. 132.
24
Panegyrici Latini cit. 11(3) (Treviri 21 luglio 291) (I cap. 4.2), 11.11.4; Rees, Diocletian and the
Tetrarchy cit., p. 132.
25
Winston Churchill, The Second World War, Houghton Mifflin, London 1948, vol. I, p. 105.
26
Ad esempio, Marco Tullio Cicerone, Orazione in difesa di Marco Fonteio, 30, in Id., L’orazione
per Aulo Cecina; L’orazione in difesa di Marco Fonteio, a cura di Francesco Casorati, Mondadori,
Milano 1973. Tito Livio, Storia di Roma, vol. I, Mondadori, Milano 1994, I.31.7.
27
Rescritto manicheo. Collazione delle leggi mosaiche e romane, 31 marzo 302(?),
Alessandria, cit. in Rees, Diocletian and the Tetrarchy cit., p. 174.
28
Lattanzio, La morte dei persecutori XI.1-3.
29
Ivi, XII-XIV.
30
Ivi, XV.1.
31
Herbert Musurillo, The Acts of the Christian Martyrs, Clarendon Press, Oxford 1972, pp.
260-265, 266-271 e 302-309.
32
Dragoslav Srejovic, Cedomir Vasic, Imperial Mausolea and Consecration Memorials in Felix
Romuliana (Gamzigrad, East Serbia), Centre for Archaeological Research, Faculty of
Philosophy, The University of Belgrad, Belgrado 1994, pp. 149-151, cit. in Bill Leadbetter,
Galerius, Gamzigrad and the Politics of Abdication, in «ASCS» [The Australasian Society for
Classical Studies], XXXI (2010), pp. 8-9. Si tratta di conclusioni plausibili, almeno sulla
scorta dei ritrovamenti archeologici.
33
Svetonio, Giulio Cesare LXXVII.
Costantino
10
Costantino, il cristiano
L’ASCESA AL POTERE
Costantino era nato a Naissus (l’odierna Niš, in Serbia), il 27 febbraio del
2735. Nessuno, al momento della sua nascita, avrebbe potuto immaginare
che un figlio di quella capitale di provincia avrebbe un giorno fondato
quella che sarebbe diventata la più importante città al mondo, come per
un lungo periodo Costantinopoli fu, a oltre settecento chilometri dal suo
luogo natio. Né tantomeno che avrebbe dato avvio a un mutamento
epocale in campo religioso e culturale.
All’epoca in cui nacque Costantino, suo padre Costanzo, che proveniva
dal territorio dell’attuale Bulgaria, era un sottufficiale dell’esercito
romano. La madre di Costantino, Elena, era la rispettabile ma umile figlia
del proprietario di un piccolo albergo situato sulla principale arteria
militare della Turchia nord-occidentale. Costanzo la conobbe lì nel 272,
dove si trovava per una campagna militare con l’imperatore Aureliano. Si
innamorarono e si sposarono. Nove mesi dopo, nacque Costantino6.
Costanzo fece rapidamente carriera nell’esercito, e all’epoca in cui
Costantino aveva dieci anni era già diventato governatore provinciale.
Ora disponeva di risorse sufficienti per dare al figlio un’eccellente
educazione, fondata soprattutto sullo studio delle lettere latine ma anche
di quelle greche e della filosofia. Costantino venne istruito anche per
diventare un soldato come suo padre.
Probabilmente, era appena adolescente quando Costanzo divorziò da
Elena per sposare una principessa, la figlia del sovrano dell’impero
d’Occidente, l’Augusto Massimiano. Costanzo rimase vicino al figlio e
lo preparò a un grande e luminoso futuro. E tuttavia, il divorzio costituì
sicuramente un brutto colpo per il giovane. Possiamo solo immaginare il
notevole sforzo che Elena dovette fare per proteggerlo e tirarlo su.
Era una delle figure più importanti nella vita di suo figlio, e lo sarebbe
rimasta nei successivi tre decenni. Come molte madri romane che
l’avevano preceduta, quali Livia, Agrippina e Giulia Domna, Elena svolse
un ruolo importante nella vita adulta di un imperatore.
Più o meno nello stesso periodo in cui suo padre Costanzo, nel 293,
venne nominato Cesare, Costantino venne mandato in Oriente. Ormai
ventenne, militò negli eserciti che invasero la Persia e represse una rivolta
in corso in Egitto. Poi entrò nella corte di Diocleziano a Nicomedia.
Come figlio maggiore del Cesare Costanzo, era destinato un giorno a
succedere al padre.
Naturalmente, fece un buon matrimonio: non molto prima del 300
sposò Minervina, che si ritiene plausibilmente possa essere la nipote di
Diocleziano, e ne ebbe un figlio, Crispo.
Quando nel 303 prese avvio la Grande Persecuzione dei cristiani,
Costantino era ancora presso la corte imperiale di Nicomedia. Come suo
padre, si oppose all’intolleranza nei confronti dei cristiani, ma rimase
tranquillo, senza dubbio per non compromettersi la carriera.
La corte di Diocleziano era una scuola di potere politico. Fra le altre
lezioni che offriva c’era quella secondo cui tutto è possibile per un uomo
che sia sufficientemente ambizioso e dotato di talento. Dopotutto, lo
stesso Diocleziano proveniva da un passato oscuro, ma era arrivato al
potere supremo. Costantino aveva molti più vantaggi in termini sia di
nascita sia di educazione. Ma c’era una importante condizione: niente era
impossibile se un uomo aveva il favore del cielo. E di questo occorreva
tenere conto. Alcuni storici pensano che Costantino abbia avuto l’aiuto
della madre, che potrebbe essersi mossa nelle vicinanze del talentuoso
figlio e aver influenzato la sua concezione della divinità.
PONTE MILVIO
Il Ponte Milvio attraversa il Tevere a nord di Roma. Edificato in origine
nel 206 a.C. e poi ricostruito, il ponte moderno contiene ancora alcune
delle pietre antiche. Fino ai tempi della giovinezza di Nerone era stato un
luogo in cui si andava per qualche scappatella notturna, e anche ai nostri
giorni è un punto di attrazione per le coppie di innamorati. Ma la sua
fama è legata alla battaglia che da esso prende il nome, che si combatté il
28 ottobre del 312, quando Costantino sconfisse Massenzio e conquistò
Roma. Fu lo scontro armato più decisivo della storia dell’impero dai
tempi in cui la vittoria navale di Azio sancì il potere di Augusto, il 2
settembre del 31 a.C.
La battaglia avvenne in realtà non sul ponte, ma a nord di esso, sulla
terraferma. La coincidenza volle che l’esercito di Costantino si schierasse
proprio sotto la collina sulla quale un tempo sorgeva la villa di campagna
di Livia. A quell’epoca, Costantino aveva inanellato una serie di vittorie,
e Massenzio era talmente preoccupato che seppellì le proprie insegne
imperiali sul Palatino, dove gli archeologi le hanno ritrovate nel 2006. Il
reperto più prezioso riemerso in quell’occasione è lo scettro di
Massenzio, l’unico scettro imperiale che sia mai stato ritrovato finora. Gli
scettri imperiali erano spesso costituiti da bastoni di avorio lunghi dai 60
ai 90 centimetri circa, sulla cui sommità erano collocati un globo o
un’aquila. Quello di Massenzio ha un globo blu che rappresenta la terra
ed è sostenuto da un elemento composto da una lega di ottone, del colore
dell’oro.
Per riuscire a tenere Costantino lontano dalla città, Massenzio distrusse
parte del Ponte Milvio per impedirgli il passaggio. Poi cambiò idea e
decise di marciare fuori dalle mura e di scontrarsi col nemico, e quindi
fece allestire un ponte galleggiante. Massenzio guidò le proprie truppe in
battaglia e subì una schiacciante sconfitta. Durante la ritirata caotica delle
sue truppe, cadde dal ponte e annegò nel Tevere con indosso la sua
armatura. Poi il suo corpo sarebbe stato restituito dal fiume.
Massenzio e Costantino erano cognati, ma non esitarono a combattere
l’uno contro l’altro fino alla morte. Né Costantino protestò quando la
testa mozzata del rivale venne portata come trofeo per le strade di Roma,
infilzata su una picca. In seguito, si recò in Africa del Nord con l’intento
di dimostrare ai suoi sostenitori locali che Massenzio era morto. Fu un
altro brutto colpo per Fausta, che si era vista uccidere il padre e il fratello
per ordine del marito.
Ancor più importante della sua conquista di Roma fu il modo con cui
Costantino la gestì. Annunciò al mondo che ora egli era amico della
Chiesa cristiana. Infatti, era lui stesso cristiano.
Come arrivò a questo punto e cosa significava per lui essere cristiano è
il tema di una storia affascinante, e assai discussa fra gli studiosi.
LA CONVERSIONE DI COSTANTINO
Diversi anni prima del 312 Costantino evitò di applicare i decreti che
stabilivano la persecuzione contro i cristiani. In ciò, seguì l’esempio di
suo padre, che non era cristiano. Ma Elena forse lo era. La fonte più
importante di cui disponiamo sulla vita di Costantino presenta le cose
diversamente, e sostiene che fu l’imperatore a convertire sua madre al
cristianesimo7. Tuttavia, gli storici della Chiesa più tardi affermano che
avvenne l’inverso8. Tutti questi autori perseguivano particolari intenti, e
per noi è difficile stabilire dove stia la verità.
Come minimo, è chiaro comunque che il cristianesimo fu qualcosa di
assai importante per Costantino, se voleva convertirvi sua madre; e sua
madre voleva dire molto per lui (emotivamente, oltre che politicamente)
se si preoccupava della sua affiliazione religiosa. Elena proseguì, più
avanti nel regno di Costantino, a svolgere un ruolo cruciale nel processo
di cristianizzazione del mondo romano.
Due anni prima della battaglia di Ponte Milvio, nel 310, Costantino e il
suo esercito ebbero una spettacolare visione nel cielo pomeridiano: un
alone solare, vale a dire un anello intorno al sole. Successe vicino a un
tempio di Apollo in Gallia. Apollo è il dio del Sole, ma il tempio
onorava anche un’altra divinità romana, il Sol Invictus. Si trattava della
divinità prediletta da Costanzo, il padre di Costantino, sebbene avesse
fatto il suo arrivo a Roma solo abbastanza di recente, dopo che durante
una campagna militare in Oriente l’imperatore Aureliano si era visto
vaticinare da un dio del Sole locale la sua vittoria in una battaglia in Siria.
Il giovane Costantino credeva di avere un rapporto speciale col dio del
Sole, e tuttavia era incerto sul da farsi dopo aver visto
quell’impressionante segno nel cielo della Gallia. Consultò vari saggi,
compresi dei vescovi cristiani, i quali gli assicurarono che la visione era
un segno proveniente non dal dio del Sole, bensì da Cristo. I cristiani
associavano già regolarmente Cristo al sole. Nei Vangeli, Gesù descrive
se stesso come «la luce del mondo»9, e l’evangelista Matteo afferma che il
volto di Gesù splendeva come il sole10. I primi cristiani consideravano
Cristo una fonte di illuminazione spirituale.
Ciò che convinse definitivamente Costantino fu un sogno nel quale
Cristo gli mostrava un segno da usare per proteggersi dal nemico.
Costantino appose così quello che è poi diventato un noto simbolo
cristiano sulla sua insegna personale (o sopra di essa): le lettere greche chi e
rho, l’equivalente del latino CHR, che stava per Cristo. L’episodio
avvenne probabilmente quando Costantino era ancora in Gallia e prima
che si spostasse in Italia. Ora fu lui a dichiararsi cristiano. In seguito,
prima della battaglia di Ponte Milvio, fece apporre il simbolo sugli scudi
dei suoi uomini. E ribadì la propria fede cristiana dopo essere entrato a
Roma.
Ma la conversione di Costantino era sincera? Sebbene le parole
«sincerità» e «politico» in genere non vadano molto d’accordo, abbiamo
motivo di pensare di sì. Gli antichi prendevano seriamente i sogni e i
presagi. I precedenti imperatori sicuramente lo avevano fatto, e anche
loro consultavano gli astrologi. Noi occidentali moderni andiamo alla
ricerca del «vero motivo» di un’azione, ma spesso siamo ciechi di fronte
alle motivazioni religiose.
È possibile che Costantino fosse un cinico dall’inizio alla fine, che
decidesse di manipolare la religione al solo fine di ottenere il potere. Ma
nel 312 convertirsi al cristianesimo poteva essere considerata una scelta
intelligente? Solo a una considerazione retrospettiva può sembrare di sì.
Non era però affatto scontato che la maggioranza pagana dell’impero
avrebbe tollerato un imperatore cristiano. Solo un uomo capace di
assumersi grandi rischi – un uomo convinto che Dio lo avesse
personalmente scelto per compiere una missione – si sarebbe comportato
come Costantino. Già nel 314, l’imperatore affermò che era stato Dio
stesso ad affidargli la direzione delle vicende umane, data la sua capacità
nel gestirle; e sarebbe ritornato sul tema della propria missione negli anni
successivi11.
Dopo la conversione Costantino continuò per anni a comportarsi da
vari punti di vista come un pagano. Ad esempio, dovette elaborare il
problema del rapporto fra il suo nuovo dio, Cristo, e la sua vecchia
divinità, il Sol Invictus. All’inizio non vedeva ragioni per non doverli
venerare entrambi. Per anni, le sue monete continuarono a recare
l’immagine del dio Sole, spesso accompagnata dalla scritta: SOLI
INVICTO COMITI (Al compagno Sole Invitto)12.
Ma era a capo di un impero in cui la grande maggioranza della
popolazione era di religione pagana, e ciò valeva soprattutto per i
militari, fra i quali i cristiani erano una netta minoranza. Durante la
Grande Persecuzione, singoli cristiani morirono martirizzati per
difendere i loro principi. Ma quando si trattò di coinvolgere una più
ampia porzione della popolazione pagana, poteva tornare comodo
sfumare la distinzione fra le vecchie divinità e il nuovo Dio.
Per una dozzina d’anni dopo la battaglia di Ponte Milvio, Costantino si
trovò a contrastare Licinio, che era a capo della parte orientale
dell’impero, un pericoloso rivale che tollerava il cristianesimo senza
abbracciarlo personalmente. Il pagano Licinio poté così usare la religione
più diffusa contro Costantino. Il quale, una volta sconfitto, nel 324, il
suo rivale ed essendo divenuto l’unico imperatore, poté essere più
flessibile, ma dovette pur sempre far fronte a formidabili minacce al
cristianesimo. I sovrani che non si curano della matematica non
sopravvivono, ma Costantino era sempre stato uno studente zelante.
Anche dopo il 312, commise delitti e provocò spargimenti di sangue
che avrebbero fatto arrossire perfino un pagano. Ma una conversione non
rende perfetti. Senza dubbio, Costantino diffuse il Vangelo e rese la
Chiesa splendida e più sicura. Senza dubbio, ciò ne fece un cristiano.
LA CONQUISTA DELL’ORIENTE
Nel 313 Costantino tenne un vertice con Licinio a Mediolanum, nel
quale i due Augusti si accordarono sulla divisione dell’impero.
Costantino siglò l’accordo con Licinio secondo il tradizionale sistema
romano, concedendogli cioè in sposa la sua sorellastra Costanza (Flavia
Giulia Costanza). Ma l’incontro è più noto per il celebre Editto di
Milano. La denominazione è fuorviante, perché non si trattava né di un
editto né fu emanato da Milano; era semmai una lettera inviata
successivamente da Licinio dalla sua base in Oriente.
Fu certamente un atto importante, ma non quanto talvolta gli storici
affermano. L’impero occidentale godeva già della libertà religiosa e aveva
già visto la restituzione delle proprietà confiscate ai cristiani durante la
Grande Persecuzione. Prima della sua morte, avvenuta nel 311, il
persecutore Galerio cedette e ripristinò la tolleranza. Solo Daia
continuava a perseguitare i cristiani nella parte orientale dell’impero, che
fu prevalentemente sotto il suo controllo fino al 313. A questo punto,
Licinio propose di estendere la politica di tolleranza anche al regno di
Daia.
Presto fu in grado di dare seguito al suo intento, poiché sconfisse Daia
in battaglia e assunse il controllo dell’Oriente. Daia si suicidò. Ora al
governo dell’impero c’erano solo due uomini, non più quattro, ma per
Costantino e Licinio non era abbastanza. Erano entrambi troppo
ambiziosi e troppo sospettosi l’uno dell’altro, e fra il 316 e il 324 si
combatterono in una serie di guerre civili. Durante una di quelle
battaglie Costantino, che come sempre guidava personalmente le truppe
al fronte, rimase ferito.
Nonostante dovesse anche pensare ai combattimenti in corso sulle
frontiere del Reno e del Danubio e rimediare a un errore tattico,
Costantino sconfisse Licinio ad Adrianopoli. Poi suo figlio Crispo
sconfisse la flotta di Licinio nell’Ellesponto, lo stretto all’ingresso del mar
Egeo che segnava il confine fra Europa e Asia. Lo scontro finale avvenne
il 18 settembre 324 a Crisopoli (l’odierna Üsküdar, in Turchia), in quello
che oggi è il settore asiatico di Istanbul. Il contrasto religioso era netto: da
una parte Licinio esponeva immagini degli dèi pagani, dall’altra
Costantino impugnava una bandiera militare recante il suo simbolo
cristiano. Costantino si sentì abbastanza sicuro da lanciare un attacco
frontale, e ottenne successo su tutta la linea. Licinio, dopo aver subito
gravi perdite, batté in ritirata con le truppe che gli restavano.
Costanza agì in questo frangente da intermediaria fra il marito sconfitto
e il proprio fratellastro. Si giunse così ad un accordo, secondo il quale
Licinio e suo figlio Liciniano avrebbero perso il potere avendo, però,
salva la vita. Vennero inviati in esilio nei loro ex territori. Costanza fu
riaccolta nella casa di Costantino e sarebbe divenuta una potenza a corte.
Non fu l’unica donna formidabile della famiglia di Costantino. La
moglie dell’imperatore, Fausta, ricevette il titolo di Augusta nel 324,
assieme alla madre di Costantino, Elena. La presenza accanto
all’imperatore di due donne così potenti rese inevitabili le rivalità, e il
rischio che insorgessero conflitti fu costante.
Nelle immagini presenti sulle monete Elena è una donna bella e
dignitosa14. Indossa un diadema, simbolo della regalità, e una modesta
mantella. Anche Fausta nei ritratti sulle monete rivela padronanza di sé e
un nobile portamento. A volte è raffigurata con un grazioso profilo da
statua classica greca. Ha una pettinatura elaborata e in alcuni casi porta
anche lei un diadema15.
Sul retro delle monete ognuna delle due donne appare a figura intera. Le
monete di Elena mostrano una figura femminile che tiene in mano un
ramo di olivo abbassato, e recano la scritta «sicurezza». In quelle di Fausta
si vede una donna con due bambini e la scritta «speranza», con un
riferimento alla maternità dell’Augusta.
IL DOLORE E LA GLORIA
Per conquistare Roma, Costantino aveva ucciso suo cognato. Per
aggiungere l’Oriente alle proprie conquiste, commise altri delitti. Dopo
aver promesso a Costanza che avrebbe risparmiato suo marito Licinio e
suo figlio, ritornò sulla sua decisione, accusando i due uomini di aver
cospirato contro di lui e facendoli giustiziare. Licinio venne ucciso per
primo, nel 325, suo figlio un anno dopo.
Ma per la famiglia di Costantino era solo l’inizio di una serie di
disgrazie. Nel 326 l’imperatore sottopose a processo suo figlio maggiore,
Crispo. Il giovane fu giudicato colpevole e condannato a morte mediante
avvelenamento. Era uno sviluppo sconvolgente, se si considerano lo
status di Crispo e i successi che aveva ottenuto combattendo contro le
tribù germaniche in Occidente e contro Licinio in Oriente. Ma
improvvisamente, a ventisei anni circa, la sua vicenda si concluse. Il suo
nome venne espunto da tutti i registri e documenti ufficiali.
I motivi che determinarono l’esecuzione di Crispo sono molto discussi,
ma la spiegazione più probabile è che Fausta lo avesse accusato di aver
avuto rapporti sessuali con lei22. Per età, era più vicina al suo figliastro che
a Costantino. Quel che Fausta diceva era vero, oppure, come un
personaggio del mito greco, fece delle avances a Crispo e poi lo accusò
falsamente una volta vistasi respinta? Occorre poi considerare un altro
fattore: Costantino le aveva ucciso il padre e il fratello, e non ci sarebbe
da stupirsi se Fausta avesse agito animata dal risentimento nei suoi
confronti. Ma siamo nel campo delle ipotesi.
In seguito, Costantino arrivò alla conclusione che in realtà Crispo fosse
innocente e che Fausta avesse mentito. Fu sua madre Elena a convincerlo
di ciò, e quindi del fatto che Crispo fosse stato ucciso ingiustamente.
Temendo una vendetta, Fausta si suicidò in un bagno bollente.
Figlia di un imperatore (Massimiano), sorella di un altro (Massenzio) e
moglie di un terzo (Costantino), investita essa stessa del titolo di Augusta,
Fausta aveva passato la maggior parte della propria esistenza nei palazzi
imperiali. Non si sarebbe mai aspettata una fine così sordida. Lasciò
dietro di sé cinque figli piccoli e una reputazione rovinata. Come
Crispo, Fausta venne bandita dai documenti ufficiali. Nel frattempo, la
famiglia imperiale andò in disgrazia.
LA TERRASANTA
L’anno seguente, Costantino mandò Elena in pellegrinaggio in Siria
Palestina. La decisione fu dovuta in parte a motivi di pietà, in parte a
esigenze di pubbliche relazioni, perché occorreva riparare il danno
subito dalla famiglia imperiale a causa degli eventi avvenuti l’anno
precedente.
Nel periodo trascorso in Siria Palestina, Elena individuò le principali
località in cui aveva vissuto Gesù, soprattutto a Gerusalemme. Era in
missione ufficiale e poteva disporre di fondi governativi illimitati, che
utilizzò per costruire nuove chiese e abbellire quelle esistenti, e
soccorrere i poveri. Fondò chiese di pregevole fattura a Betlemme e sul
monte degli Ulivi a Gerusalemme.
Sempre a Gerusalemme, Costantino finanziò l’edificio della chiesa del
Santo Sepolcro nel luogo in cui era avvenuta la resurrezione di Cristo.
Una parte di quell’edificio, in gran parte riadattata, esiste ancora oggi. In
origine, era vicina a una magnifica basilica, non più esistente.
Dopo aver distrutto Gerusalemme come rappresaglia per la rivolta
giudaica, i romani l’avevano ricostruita sotto Adriano, ma ne fecero una
città dall’impronta pagana, non ebraica; Aelia Capitolina, non
Gerusalemme. Ora la ricostruirono come Gerusalemme, ma ancora una
volta, non come una città ebraica, bensì cristiana.
Costantino impose alla Siria Palestina la nuova denominazione di
Terrasanta cristiana. Una provincia un tempo sperduta diventò il centro
dei pellegrinaggi cristiani, con conseguenze storiche di lungo periodo.
Da una parte, secoli dopo, portò allo scontro fra cristiani e musulmani,
nell’ambito delle crociate. Dall’altra, incise negativamente sul diritto degli
ebrei a vivere nella loro terra storica. E, com’è noto, la questione
dell’appartenenza di quei territori è ancora oggi al centro di conflitti e
divisioni.
Costantino non era amico degli ebrei. Ma secondo gli standard romani
dell’epoca, non era neppure il peggiore dei loro nemici: non distrusse il
tempio come fecero Vespasiano e Tito, né inondò di sangue la Giudea
come aveva fatto Adriano. E neppure distrusse la vita comunitaria
ebraica, che continuò a fiorire sia nella terra di Israele sia nelle zone della
diaspora. Tentò, però, di rendere l’ebraismo inferiore al cristianesimo.
Non fu il primo imperatore a offendere gli ebrei, ma il fatto che li
definisse «uccisori del Signore» si rivelò particolarmente dannoso23.
Decretò che fosse loro proibito accettare come correligionari cristiani
convertiti, e dichiarò illegale impedire loro di convertirsi al
cristianesimo. Tuttavia, fece involontariamente un favore agli ebrei
concedendo che i loro schiavi venissero liberati qualora si convertissero al
cristianesimo, affrancando in tal modo almeno in parte la comunità
ebraica da quello che noi consideriamo uno stigma morale – la schiavitù,
appunto.
Quando un eminente studioso rabbinico abbracciò la fede cristiana,
Costantino gli conferì un rango elevato e i finanziamenti necessari per
costruire le prime chiese in Galilea, un’area caratterizzata dalla presenza
di città dai tratti spiccatamente ebraici. Decenni dopo, da uno di quei
centri sarebbe partita una rivolta giudaica contro Roma.
COSTANTINOPOLI
Come Diocleziano, Costantino riconobbe il fatto che l’impero era ormai
troppo vasto e complesso per essere governato da una qualsiasi singola
città, e che c’era l’esigenza di una capitale in Oriente, oltre che di una in
Occidente. E Costantino non governò da Roma. Per gran parte del suo
regno, resse l’impero o da Augusta Treverorum, in Occidente, o da
Sirmium e da Serdica (l’odierna Sofia, in Bulgaria), in Oriente. Dopo
aver piegato Licinio, volle istituire una nuova capitale negli ex territori
del nemico sconfitto. Nicomedia, da dove Diocleziano e Galerio
avevano governato l’Oriente, non sembrava più adatta, poiché era stata il
centro della Grande Persecuzione. In Oriente Costantino voleva una
nuova capitale cristiana per un impero cristiano. Inoltre, individuò un
luogo che offriva vantaggi sia strategici sia in termini di propaganda.
Poche città possono vantare una collocazione migliore di
Costantinopoli, ma l’imperatore fu il primo a sfruttarne pienamente il
potenziale. Non è un’esagerazione dire che rifondando Bisanzio, come si
chiamava allora, come Costantinopoli, egli abbia creato una delle città
più importanti, e senz’altro più vivaci, della storia.
Il sito sul quale sorgeva attirò la sua attenzione mentre era impegnato
nella battaglia per la conquista dell’Oriente, quando Licinio utilizzò
Bisanzio come propria base fortificata. Bisanzio era una città greca
fondata nel VII secolo a.C. che ebbe i suoi alti e bassi nel corso del
tempo, come quando recentemente era stata distrutta da Settimio Severo
per punirla dell’appoggio che aveva dato al suo nemico, quindi
ricostruita probabilmente da Licinio. Costantino ricostruì nuovamente la
città, imponendole il nome di Costantinopoli. È possibile che la
chiamasse anche Nuova Roma, ma questa denominazione potrebbe
risalire a cinquant’anni dopo lo stesso imperatore. Non lo sappiamo.
Costantinopoli è situata su una penisola dell’estremità meridionale del
Bosforo, lo stretto che si estende fra il mar Eusino e la Propontide e da lì
prosegue verso l’Ellesponto, il mar Egeo e il Mediterraneo. Su una
sponda del Bosforo c’è l’Europa, sull’altra l’Asia. Il Bosforo era, e resta
ancora oggi, uno dei più strategici specchi d’acqua del mondo.
Costantinopoli è posta sul versante europeo del Bosforo. La penisola è
circondata dal mare su tre lati, ed è accessibile via terra solo da un lato,
per cui è facilmente difendibile. Costantino dotò la città di nuove mura,
estendendone l’area per circa tre chilometri verso ovest. Ne risultò
un’ampia e ben protetta fortezza situata nel punto in cui i due continenti
si incontrano. La città è vicina al Danubio ed equidistante da due altre
frontiere romane, quella del Reno in Occidente e quella dell’Eufrate in
Oriente.
Costantinopoli rappresentò anche un monumento alla vittoria, perché
sorse presso il luogo in cui Costantino vinse la battaglia finale contro
Licinio, sull’opposta sponda asiatica. Costruendo la città nelle vicinanze
della propria vittoria su un concittadino romano, l’imperatore seguiva le
orme di Augusto. Questi infatti a suo tempo aveva edificato una città
sulla sponda opposta alla località in cui aveva sconfitto Antonio, Azio, e
l’aveva chiamata Nicopolis, vale a dire Città della vittoria. Ma l’analogia
finisce qui. Né Augusto né alcun altro imperatore infatti avevano mai
costruito una città di dimensioni pari a Costantinopoli.
La nuova città fu inaugurata l’11 maggio del 330. L’imperatore costruì
su grande scala. Costantino poté disporre di un nuovo palazzo, di un
circo per le corse equestri, di un foro circondato da portici, di un Senato
e di una serie di chiese. Nel centro del foro si ergeva un’alta colonna di
porfido, parte della quale si è conservata. In cima ad essa era collocata una
statua raffigurante Costantino nudo con in testa una corona da cui si
dipartono dei raggi. La si poteva interpretare come un simbolo cristiano
o come un simbolo del dio Sole, o in entrambi i modi. Sebbene fosse
cristiano, un politico come Costantino era capace di una calcolata
ambiguità, pur di estendere il proprio fascino.
LA RIORGANIZZAZIONE DEL GOVERNO
Costantino riorganizzò le istituzioni governative romane, rendendole più
specializzate e flessibili ma anche, soprattutto, più assoggettabili alla sua
volontà, a partire da quelle militari. Non c’era bisogno che qualcuno gli
ricordasse il consiglio di Severo di pagare bene i soldati. Come avevano
fatto gli altri imperatori da Gallieno in poi, Costantino separò le carriere
militari da quelle civili. Liberatosi dei vincoli derivanti dalla prassi di
nominare senatori ai posti di comando dell’esercito, aumentò il numero
degli ufficiali non romani, di uomini quindi che i romani stessi
consideravano barbari. Un re germanico, nientedimeno, fu investito ad
esempio del comando delle truppe a Eboracum quando morì il padre di
Costantino. Sebbene i soldati fossero per la maggior parte romani, un
discreto numero di stranieri varcò le frontiere per entrare nell’esercito
romano, nel quale vedevano una buona fonte di sussistenza. C’erano
mori, armeni e persiani, ma soprattutto germani.
Costantino rafforzò la separazione, già avviata sotto Diocleziano, fra
l’esercito da campo e le truppe di frontiera. Il primo gruppo era più
addestrato, meglio retribuito e restava in servizio per un periodo minore
dell’altro. L’esercito da campo operava sotto il diretto comando
dell’imperatore. Garantiva mobilità, consentendo all’imperatore di
spostare rapidamente i reparti ovunque ve ne fosse bisogno.
Costantino riempì il palazzo di personale amministrativo e istituì una
serie di potenti funzionari direttamente responsabili verso di lui. Erano
elementi nuovi e specializzati, posti alla guida di nuovi uffici. Esisteva
perfino un nuovo corpo, composto da legionari, addetto al trasporto di
messaggi riservati fra le istituzioni centrali e le province. Tutta questa
opera di consolidamento e di accentramento rese il governo più efficiente
ma non più onesto. Quella pletora di burocrati si attendeva di ricevere
«mance», per usare un eufemismo. Di fatto, più crebbero le dimensioni
dell’apparato amministrativo, più la corruzione diventò un problema.
Costantino comprese che lo scambio di regali e favori in cambio di
servizi era una parte non trascurabile dell’attività di governo. Così, per
poter stringere legami con persone potenti nelle province, creò nuovi
titoli e onori, perfino, come si è ricordato, un nuovo Senato per
Costantinopoli. Mostrò anche grande generosità nei confronti di singoli
individui e di intere città. Era un atteggiamento utile dal punto di vista
politico, ma non per il Tesoro. La conseguenza fu che le tasse
aumentarono.
Quel che invece andò a favore del Tesoro fu la nuova moneta d’oro
battuta da Costantino: il solidus, che rimpiazzò una vecchia moneta d’oro
svalutatasi per l’inflazione. Monete di buona qualità continuarono ad
essere coniate anche dai suoi successori. Di fatto, la moneta era destinata a
diventare talmente affidabile e pregiata che qualcuno l’ha definita «il
dollaro del Medioevo»24. Ma le monete di bronzo e di argento
continuarono a perdere valore.
CHIESA E MOSCHEA
Elena morì a Costantinopoli intorno al 328, non molto dopo il suo
ritorno dalla Terrasanta. Suo figlio fu con lei negli ultimi momenti. Inviò
il suo corpo a Roma, dove Elena aveva vissuto fino al 312. Il corpo fu
deposto in un elaborato sarcofago dentro un mausoleo sormontato da una
cupola, posto presso una chiesa consacrata ai martiri fuori città. Il
sarcofago è esposto ancora oggi presso i Musei Vaticani, visitati ogni
anno da milioni di turisti. Le rovine del mausoleo si trovano, invece,
all’interno di un parco ai margini di Roma, ma sono poco pubblicizzate
e attirano solo pochi visitatori.
I restanti anni di Costantino furono relativamente pacifici. Col
riprendere del fermento lungo la frontiera orientale, tuttavia, l’imperatore
programmò una nuova campagna militare contro la Persia. Sarebbe stato
lui stesso a guidarla. Poco dopo essere partito da Costantinopoli, però, si
ammalò e dovette fermarsi nei pressi di Nicomedia. Con l’approssimarsi
della fine, venne battezzato. All’epoca era una prassi comune posticipare
il battesimo a poco prima della morte, per ridurre al minimo il rischio di
peccare dopo averlo ricevuto. Costantino morì il 22 maggio 337.
Dei figli che aveva avuto da Fausta, ne rimanevano in vita tre. Negli
ultimi anni aveva nominato ognuno di essi Cesare, e così aveva fatto col
nipote, dando ad ognuno di loro responsabilità di governo in una parte
dell’impero. Li tenne tutti e quattro sotto stretto controllo, ma sperava
che al momento della successione avrebbero proceduto di comune
accordo gestendo in modo congiunto il governo dell’impero. Il nipote di
Costantino e suo padre, che era il fratellastro di Costantino, furono
entrambi uccisi immediatamente dopo la morte dell’imperatore.
I tre figli si divisero l’impero, ma l’accordo non durò a lungo. Uno dei
fratelli, rivendicando per sé una quota maggiore di territorio, attaccò le
terre di un altro, ma perse la battaglia e con essa la vita. Un secondo subì
un colpo di Stato e venne ucciso. L’unico dei tre rimasto in vita,
Costanzo II, regnò per ventiquattro anni dopo la morte del padre, dal
337 al 361. Dovette tuttavia combattere una ferocissima guerra civile
contro l’uomo che aveva usurpato il potere del fratello. E non fu più
tranquillo neppure dopo aver nominato Cesari due dei suoi cugini:
dovette giustiziarne uno per disobbedienza e fu sul punto di marciare
contro l’altro che aveva suscitato una ribellione, ma il piano non fu
attuato. Costanzo II morì, infatti, di morte naturale prima di poter
passare all’azione, e fu il cugino ribelle a prendere il suo posto.
Seguendo la consuetudine di molti imperatori, Costantino aveva
progettato la sua sepoltura molto tempo prima di morire. Come
Diocleziano e Galerio, voltò la schiena a Roma, scegliendo una località
collinare nella zona occidentale di Costantinopoli, un posto da cui si
vedeva il mare. Là sarebbero stati deposti i suoi resti, in un edificio che
era allo stesso tempo un mausoleo e una chiesa: la chiesa dei SS. Apostoli,
che oltre al sarcofago di Costantino conteneva i memoriali dei dodici
apostoli di Gesù. Vi furono portati, oltre ai resti degli apostoli, anche
quelli di altri padri della Chiesa, nonché reliquie provenienti dalla
Terrasanta. Nell’edificio fu collocato anche un altare, in modo che
l’anima di Costantino potesse beneficiare del culto che venerava gli
apostoli.
Era una costruzione magnifica: alta, coronata da una cupola e decorata
con marmi, bronzo e oro. Sebbene non esista più, da quanto ne
sappiamo era adeguata a un re. Più di un millennio dopo Costantino, nel
1453, i turchi ottomani occuparono Costantinopoli. A quell’epoca, la
chiesa dei SS. Apostoli era già in rovina. Il nuovo sovrano ottomano della
città, il sultano Maometto II il Conquistatore, ordinò che la parte residua
dell’edificio fosse demolita e che al suo posto venisse eretta una moschea.
Ne derivò una splendida struttura, la moschea del Conquistatore (Fatih
Camii), progettata dal più importante architetto dell’epoca. Danneggiata
da una serie di terremoti, fu ricostruita diversi secoli dopo secondo un
progetto diverso, ed esiste tutt’oggi. Fuori della moschea si trova la
tomba di Maometto II, colui che sottopose Costantinopoli al governo
musulmano. Associando la propria persona al luogo in cui riposava
Costantino, Maometto II rafforzò la propria pretesa di essere Kayser-i-
Rum, vale a dire Cesare di Roma. Segno anche questo di quanto potente
fosse la reputazione dell’uomo che aveva trasformato l’impero romano
dandogli una nuova immagine.
L’EREDITÀ
Se un altro uomo fosse emerso da una posizione minore e avesse
sconfitto dei potenti rivali per poi conquistare l’impero, riformare
l’esercito, riorganizzare l’amministrazione e creare una dinastia, dando
prova al contempo di una notevole energia nel combattere in battaglie che
si svolsero dalla Britannia settentrionale alla Renania, da Roma al
Danubio, dall’Ellesponto all’Eufrate, lo considereremmo una grande
figura. Eppure Costantino ha una statura storica così gigantesca da far
apparire tutte queste imprese che realizzò minori. A caratterizzarne
l’immagine sono, invece, il cristianesimo e Costantinopoli. Come altri
imperatori, egli lasciò molti monumenti, ma nessuno di essi supera la
città a cui dette il suo nome. Né fu l’unico imperatore a intervenire in
campo religioso, ma neppure Augusto aveva introdotto mutamenti
altrettanto fatidici.
I cristiani ortodossi riconoscono Costantino come un santo. Elena è
una santa non solo per loro ma anche per i cattolici romani e gli anglicani.
Se Costantino fu il padre del cristianesimo come religione romana, lei di
quella religione fu la madre.
Il trionfo del cristianesimo fu una delle svolte più rilevanti della storia.
La religione nata dalla predicazione di un santo giustiziato in un angolo
dell’impero diventò la religione favorita dallo Stato romano, e dalla fine
del IV secolo la sua religione ufficiale.
La Chiesa cristiana era già una forza possente nella società romana
quando Diocleziano le scatenò contro lo Stato, e la sua capacità di
sopravvivere alla Grande Persecuzione non fece che rafforzarla. Era
necessario trovare un modo per riconciliare lo Stato romano con quello
che era, in un certo senso, uno Stato nello Stato. E il modo fu
Costantino.
Dai tempi di Augusto, nessun altro imperatore come Costantino era
stato così sorprendentemente allo stesso tempo interno ed esterno al
sistema prima della sua ascesa al potere. Sia Augusto sia Costantino
trovarono alleati cruciali in uomini che erano la loro stessa immagine:
uomini che avevano potere e influenza, ma non appartenenti alla cerchia
più ristretta del potere. Per Augusto, furono gli equites italici e l’élite
senatoriale sopravvissuta, per Costantino furono i vescovi, i burocrati e
perfino i re delle popolazioni barbariche. Entrambi corteggiarono le
élites provinciali, e naturalmente l’esercito.
La storia offre pochi esempi di uomini capaci di comprendere il potere
meglio di Costantino. La sua enorme ambizione fu eguagliata solo dalla
sua genialità nel presentare sé stesso. Non c’è da dubitare della sincerità
della sua spiritualità, ma essa fu accompagnata dal gusto per la violenza e
dalla brama di potere.
Costantino fu uno degli statisti più creativi e originali della storia.
Trasformò il cristianesimo da una religione minoritaria alla forza
culturale dominante del mondo occidentale. Fondò una delle più grandi
città della storia, e spostò l’equilibrio strategico del mondo romano.
La trasformazione del cristianesimo da vittima della Grande
Persecuzione a religione imperiale ci appare vertiginosa, se non
miracolosa. Tuttavia, segue uno schema consueto per Roma. Comunque
fossero, gli imperatori erano pragmatici. A partire da Augusto,
sopravvissero abbracciando il cambiamento e, nello stesso tempo,
mantenendo quanto potevano del passato. A volte il cambiamento fu di
portata relativamente minore, come la rinnovata importanza attribuita
all’Oriente greco sotto Adriano; altre volte fu radicale, come la
distruzione delle libere istituzioni repubblicane sotto Cesare e Augusto,
e la loro sostituzione con la monarchia. Spesso, il mutamento fu violento,
e si trascinò dietro guerre civili, confische di proprietà ed esecuzioni.
Viste retrospettivamente, la Grande Persecuzione e le guerre civili di
Costantino possono essere paragonate con le proscrizioni attuate sotto
Augusto e con le guerre civili che lui stesso combatté. In entrambi i casi,
i conservatori soffrirono e resistettero, talvolta con la violenza. Tuttavia,
in entrambi i casi l’impero si trasformò e sopravvisse. Una grande
differenza fra i due casi, comunque, riguarda la geografia.
Come molti altri suoi predecessori, Costantino guardò ad Oriente. Era
stato l’Oriente a permettere ad Augusto la sua più ricca conquista,
l’Egitto, ma Augusto mantenne le sue radici in Occidente. Era stato
l’Oriente a proiettare Vespasiano sul trono – a Roma. Da lì provennero
l’ideale di Adriano, la filosofia di Marco Aurelio e la moglie di Settimio
Severo, ma tutti quegli uomini si concentrarono sulla Città Eterna. Poi,
Diocleziano fece dell’Oriente la sua base. Costantino andò oltre: spostò
l’asse dell’impero a Est, sia con una nuova capitale sia con la nuova
capitale spirituale del cristianesimo, a sua volta radicata in Oriente.
All’epoca della morte di Costantino, nessuno avrebbe potuto accorgersi
che egli aveva aperto la via all’eclissi di Roma. Senza averne l’intenzione,
creò le condizioni per un impero romano senza Roma, senza l’Italia, e
perfino senza la maggior parte dell’Europa. Egli gettò le fondamenta di
tre grandi imperi orientali: il califfato islamico, la Russia e l’impero
romano d’Oriente, o, come è più conosciuto oggi, l’impero bizantino.
Allo stesso tempo, indebolì involontariamente i sostegni che tenevano
in piedi la parte occidentale dell’impero. Nelle tre generazioni successive
a Costantino, nessun uomo governò l’intero impero per più di quindici
anni. Infine nel 395, sessant’anni dopo la sua morte, l’impero venne
ufficialmente diviso in due metà, quella orientale e quella occidentale.
Non sarebbe più accaduto che un imperatore governasse dalla Britannia
all’Iraq settentrionale.
L’Occidente romano era sempre stato più povero dell’Oriente romano.
Ora diventò anche meno potente. Nel V secolo Roma venne messa al
sacco due volte. Costantinopoli, nel frattempo, era così ben fortificata
che nessun avversario poté conquistarla per nove secoli dopo che
Costantino l’aveva fondata.
Forse con una guida migliore e un più saggio uso delle risorse, l’impero
occidentale avrebbe potuto sopravvivere. Ma 139 anni dopo la morte di
Costantino, l’impero romano d’Occidente cessò di esistere. Gli invasori
avevano già conquistato la maggior parte delle sue province, e poi
costrinsero l’imperatore ad abdicare. Il giovane Romolo Augustolo
cedette il potere alla città italiana che era stata nel corso di tre generazioni
la capitale dell’Occidente romano, Ravenna, il 4 settembre 476.
Fu una triste fine per la saga dell’Occidente romano, ma non per
l’impero romano. I pragmatici romani si erano semplicemente spostati ad
Est. I successori di Augusto continuarono a regnare, ma non da Roma.
Nel 476 la grandezza di Costantinopoli era appena cominciata.
1
Musei Capitolini (Roma), inv. MC0757.
2
Anticamente, la statua era collocata nella basilica di Massenzio, all’estremità del Foro
romano.
3
Della mano esistono due versioni.
4
Il brano è tratto da una lettera di Costantino a Sapore II, della dinastia sasanide: Eusebio, Vita
di Costantino IV.9. Cfr. Eusebius, Life of Constantine, introduzione, traduzione e commento di
Averil Cameron e Stuart George Hall, Clarendon Press, Oxford 1999, p. 193
5
Timothy David Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, Harvard University
Press, Boston 1982, pp. 36 e 39-42.
6
Secondo la ricostruzione contenuta ivi, pp. 36-37 e 39-42. È possibile, ma meno probabile,
che i due in realtà non si fossero sposati, il che farebbe di Costantino un figlio illegittimo.
7
Eusebio, Vita di Costantino III.47.2; si tratta di un testo compilato poco dopo la morte
dell’imperatore, nel 337. Timothy David Barnes, Constantine: Dynasty, Religion and Power in
the Later Roman Empire, Wiley-Blackwell, Chichester 2011, pp. 44-45, sostiene che
l’affermazione di Eusebio è dovuta solamente al suo atteggiamento adulatorio nei confronti
dell’imperatore.
8
Si veda ad esempio Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica, introduzione, traduzione e note di
Antonino Gallico, Città Nuova, Roma 2000, I.18. Cfr. Eusebius, Life of Constantine cit., p.
395.
9
Vangelo di Giovanni VIII.12.
10
Vangelo di Matteo XVII.2.
11
Letter of Constantine to Ablavius (or Aelafius), in Mark Edwards (ed.), Optatus: Against the
Donatists, Liverpool University Press, Liverpool 1997, pp. 183-184.
12
Si veda, ad esempio, RIC VII Treveri 135 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.7.tri.135).
13
Corpus Inscriptionum Latinarum, VI.1139 (instinctu divinitatis).
14
Si veda, ad esempio, RIC VII Treveri 481 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.7.tri.481).
15
Si veda, ad esempio, RIC VII Treveri 484 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.7.tri.484).
16
Costantino, Discorso all’Assemblea dei Santi (Oratio ad Sanctorum Coetum) 11.1, trad. inglese in
Barnes, Constantine cit., p. 119.
17
Zosimo, Storia nuova, introduzione, traduzione e note di Fabrizio Conca, Rizzoli, Milano
2007, II.32.
18
Codex Theodosianus, recognovit Paul Krueger, apud Weidmannos, Berolini 1923, II.8.1.
19
Vangelo di Matteo XXII.21.
20
Letter of Constantine to Ablavius cit., pp. 183-184.
21
Vangelo di Giovanni X.11.
22
Zosimo, Storia nuova cit., II.29.2; Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 42.11-12;
Barnes, Constantine cit., pp. 144-150.
23
Eusebio, Vita di Costantino IV.27.1; cfr. ivi, III.18.2; Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica cit.,
I.9.
24
Robert Sabatino Lopez, The Dollar of the Middle Ages, in «The Journal of Economic History»,
XI (1951), 3, pp. 209-234.
Epilogo
I fantasmi di Ravenna
1
Iordanes, Getica cit., XLVI.243.
2
Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 3 voll., a cura di
David Womersley, Penguin, Harmondsworth 1994, vol. III, cap. LXXI.II, pp. 1068-1070
(trad. it. di Giuseppe Frizzi, Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, con un saggio di
Arnaldo Momigliano, Einaudi, Torino 1967).
3
Narratio de Aedificatione Templi S. Sophiae 27, in Theodor Preger (a cura di), Scriptores Originum
Constantinopolitanarum, in aedibus Teubneri, Lipsiae 1901, p. 105.
4
Procopio di Cesarea, La guerra persiana I.24.37, in Id., Le guerre: persiana, vandalica, gotica, a cura
di Marcello Craveri, introduzione di Filippo Maria Pontani, Einaudi, Torino 1977.
Nota sulle fonti
La bibliografia sugli imperatori romani è vastissima. Ci si limita qui a segnalare i volumi più
accessibili in lingua inglese che possono costituire un punto di partenza per ulteriori letture.
FONTI ANTICHE
Molte fonti antiche sono disponibili in rete sia in lingua originale sia in traduzione inglese. Tra i siti
web, si consigliano: Lacus Curtius: Into the Roman World
(http://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/Roman/home.html); Perseus Digital Library
(www.perseus.tus.edu); Livius.org, Articles on Ancient History (www.livius.org), nel quale si
possono consultare sia i testi originali sia voci enciclopediche.
La maggior parte delle fonti antiche a cui si fa riferimento in questo volume è disponibile in
lingua originale e in traduzione inglese nella collana della Loeb Classical Library (Harvard
University Press). Oltre a questi volumi, si segnalano qui di seguito alcune edizioni in inglese di
importanti fonti.
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Cronologia
dei regni imperiali
AUGUSTO
Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, poi Augusto
primo imperatore di Roma (27 a.C.-14 d.C.)
Azia
madre di Ottaviano
Ottavia
sorella di Augusto
Cesare, Gaio Giulio
dittatore, prozio e padre adottivo di Augusto
Agrippa, Marco Vipsanio
vice di Augusto e poi suo genero
Cicerone, Marco Tullio
il più grande oratore di Roma
Antonio, Marco
il più grande rivale di Augusto
Cleopatra
regina d’Egitto
Livia Drusilla
moglie di Augusto
Giulia
figlia di Augusto
Tiberio, Claudio Nerone
figlio di Livia, poi figlio adottivo di Augusto e suo successore
TIBERIO
Tiberio, Claudio Nerone
successore di Augusto, imperatore (14-37)
Livia Drusilla
madre di Tiberio, vedova di Augusto, investita del titolo di Giulia Augusta
Vipsania
moglie poi divorziata di Tiberio
Giulia
moglie poi divorziata di Tiberio
Germanico, Giulio Cesare
nipote di Tiberio, nominato da Augusto successore dello stesso
Vipsania Agrippina (Agrippina Maggiore)
nipote di Augusto, moglie di Germanico
Seiano, Lucio Elio
prefetto del pretorio, vice di Tiberio e minaccia nei confronti del suo potere
Antonia Minore
nipote di Augusto
Caligola, Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico
figlio di Germanico e di Agrippina Maggiore, poi successore di Tiberio
NERONE
Caligola, Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico
imperatore (37-41)
Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico (Claudio)
imperatore (41-54)
Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico
imperatore (54-68)
Valeria Messalina
moglie di Claudio, poi giustiziata
Giulia Agrippina Augusta (Agrippina Minore)
madre di Nerone e moglie di Claudio
Seneca, Lucio Anneo
tutore e consigliere di Nerone, filosofo e letterato
Poppea Sabina
il grande amore di Nerone, poi sua moglie
VESPASIANO
Galba, Servio Sulpicio
imperatore (68-69)
Otone, Marco Salvio
imperatore (69)
Vitellio, Aulo
imperatore (69)
Vespasiano, Tito Flavio
imperatore (69-79)
Cenide
amante di Vespasiano
Tito Flavio Vespasiano
figlio maggiore di Vespasiano, imperatore (79-81)
Muciano, Gaio Licinio
governatore della Siria, alleato di Vespasiano
Berenice (Giulia Berenice di Cilicia)
principessa ebrea, amante di Tito
Antonio Primo
generale, politico, alleato di Vespasiano
TRAIANO
Domiziano, Tito Flavio
imperatore (81-96)
Nerva, Marco Cocceio
imperatore (96-98)
Traiano, Marco Ulpio
imperatore (98-117)
Pompeia Plotina
moglie di Traiano, poi Augusta
Marciana
sorella di Traiano, poi Augusta
Licinio Sura, Lucio
vice di Traiano
Plinio il Giovane
intellettuale, propagandista imperiale e governatore provinciale
ADRIANO
Adriano
imperatore (117-138)
Vibia Sabina
moglie di Adriano, poi Augusta
Plotina Augusta
patrona e promotrice di Adriano
Svetonio Tranquillo, Gaio
segretario particolare di Adriano e biografo imperiale
Antinoo
amante di Adriano, divinizzato post mortem
MARCO AURELIO
Antonino Pio
imperatore (138-161)
Marco Aurelio
imperatore (161-180)
Domizia Lucilla
madre di Marco Aurelio
Frontone, Marco Cornelio
tutore di Marco Aurelio
Lucio Vero
co-imperatore con Marco Aurelio (161-169)
Annia Galeria Faustina (Faustina Minore)
figlia di Antonino Pio, moglie di Marco Aurelio,
Augusta e Madre degli accampamenti
Galeno di Pergamo
medico di Marco Aurelio
Commodo, Marco Aurelio
figlio di Marco Aurelio, imperatore (180-192)
SETTIMIO SEVERO
Pertinace, Publio Elvio
imperatore (192-193)
Giuliano, Marco Didio
imperatore (193)
Pescennio Nigro, Gaio
imperatore (193-195)
Clodio Albino
imperatore (193-197)
Settimio Severo
imperatore (193-211)
Giulia Domna
moglie di Settimio Severo
Caracalla
figlio maggiore di Severo, imperatore (211-217)
Geta
fratello minore di Caracalla, co-imperatore (211)
Elagabalo
imperatore (218-222)
Giulia Avita Mamea
madre di Alessandro Severo, reggente di fatto
Alessandro Severo
imperatore (222-235)
DIOCLEZIANO
Aureliano, Lucio Domizio
imperatore (270-275)
Numeriano, Marco Aurelio Numerio
imperatore (283-284)
Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio
imperatore (284-305)
Aurelia Prisca
moglie di Diocleziano
Galeria Valeria
figlia di Diocleziano, moglie di Galerio
Massimiano, Marco Aurelio Valerio
Augusto di Occidente
Massenzio, Marco Aurelio Valerio
figlio di Massimiano
Galerio Massimiano
Cesare di Oriente
Romula
madre di Galerio
Costanzo Cloro
Cesare di Occidente
Costantino, Flavio Valerio Aurelio
figlio di Costanzo
COSTANTINO
Costanzo Cloro
padre di Costantino, Cesare e Augusto
Elena
madre di Costantino, poi santa
Costantino I
imperatore (306-337)
Fausta
seconda moglie di Costantino
Crispo, Flavio Giulio
figlio maggiore di Costantino
Massimino Daia
imperatore (305-314)
Massenzio
imperatore (306-312)
Licinio
imperatore (308-324)
Eusebio
vescovo di Cesarea
RAVENNA
Romolo Augustolo
imperatore (475-476)
Giustiniano I
imperatore (527-565)
Teodora
imperatrice (527-548)
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Augusto: testa, I sec. d.C., da Pergamo (Turchia). Istanbul, Museo Archeologico. © 2019.
DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze.
Tiberio: testa. Paestum, Museo Archeologico. © 2019. Foto Scala, Firenze.
Nerone: testa, I sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana. © 2019. DeAgostini Picture
Library/Scala, Firenze.
Vespasiano: moneta in bronzo, I sec. d.C. Gerusalemme, Museo di Israele (IDAM).
Traiano: busto, I sec. d.C. Monaco, Staatliche Antikensammlungen und Glyptothek. Foto:
Jochen Remmer. © 2019. Foto Scala, Firenze/bpk, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und
Geschichte, Berlin.
Adriano: busto, II sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. © 2019. Foto Scala, Firenze.
Marco Aurelio: busto, I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. © 2019. DeAgostini Picture
Library/Scala, Firenze.
Settimio Severo: busto, III sec. d.C. Monaco, Glyptothek. © 2019. DeAgostini Picture
Library/Scala, Firenze.
Diocleziano: testa, III sec. d.C., da Nicomedia (Turchia). Istanbul, Museo Archeologico. ©
2019. DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze.
Costantino: testa, inizio IV sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. © 2019. Foto Scala, Firenze.