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i Robinson / Letture

Barry Strauss

Imperatori
I 10 uomini che hanno fatto grande Roma

Editori Laterza
Titolo dell'edizione originale
Ten Caesars: Roman Emperors
from Augustus to Constantine
(Simon & Schuster, New York,
London Toronto, Sydney,
New Delhi, marzo 2019)

© 2019, Barry S. Strauss

Cartine di Paul J. Pugliese

Traduzione di David Scaffei

L'Editore è a disposizione di tutti gli


eventuali proprietari di diritti sulle
immagini riprodotte, là dove non è stato
possibile rintracciarli per chiedere la
debita autorizzazione.

Edizione digitale: ottobre 2019


www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma
 

Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy)


per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 9788858140192
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Indice

Prologo.
Una notte sul Palatino
1
Augusto, il fondatore
2
Tiberio, il tiranno
3
Nerone, l’intrattenitore
4
Vespasiano,
il cittadino comune
5
Traiano, optimus princeps
6
Adriano, il greco
7
Marco Aurelio, il filosofo
8
Settimio Severo, l’africano
9
Diocleziano,
l’uomo della grande divisione
10
Costantino, il cristiano
Epilogo
I fantasmi di Ravenna
Nota sulle fonti
Cronologia
dei regni imperiali
I personaggi della storia
Alberi genealogici
Cartine
Ringraziamenti
Referenze iconografiche
ai miei studenti
Avvertenza
Le citazioni da fonti classiche sono riprese da edizioni a stampa moderne in lingua italiana. Le
versioni dei brani tratti da opere di cui non esiste una edizione moderna in lingua italiana sono del
traduttore.
Le date, laddove non altrimenti specificato, sono da intendersi riferite all’era cristiana.
Prologo.
Una notte sul Palatino

È scesa la notte sul Palatino, lo storico colle nel cuore di Roma.


Immaginatevi lì, da soli, quando ormai gli ultimi turisti se ne sono andati
e i custodi chiudono i cancelli. Anche durante il giorno il Palatino è un
posto tranquillo, rispetto all’affollamento delle zone sottostanti. Di notte,
soli e dopo un inquietante giro del luogo al buio, sareste in grado di
evocare i fantasmi imperiali?
A prima vista, sembrerebbe di no. Le ventose e verdi alture collinari
non hanno la maestà del vicino Foro Romano, con le sue colonne e i
suoi archi, o dello spettacolo offerto dal Colosseo, con le sue arcate
macchiate di sangue. Le rovine del Palatino appaiono come una confusa
accozzaglia di mattoni, calcestruzzo e denominazioni improprie. Il
cosiddetto Ippodromo, ad esempio, è in realtà un giardino infossato,
mentre la Casa di Livia non è mai appartenuta alla grande signora
dell’impero. Ma guardate con più attenzione. Date libero sfogo alla vostra
immaginazione, e capirete per quale motivo dal Palatino deriva la nostra
parola «palazzo». Fu qui, sul colle del Palatino, che il primo imperatore
romano piantò nel terreno l’insegna del potere, e che per secoli la
maggior parte dei suoi successori regnò su un popolo composto da
cinquanta o sessanta milioni di persone. Nacque come un modesto
complesso destinato al sovrano e alla sua famiglia, come un tempio per la
sua divinità protettrice. Poi si trasformò in una serie di domus sempre più
grandiose, palazzi utilizzati non solo come abitazioni ma anche come
luoghi in cui si tenevano udienze, consigli e ambasciate imperiali,
cerimonie di saluto mattutino, banchetti serali, intrighi amorosi, vecchi e
nuovi rituali religiosi, cospirazioni e omicidi.
Alla loro epoca, esprimevano magnificenza. I loro muri erano decorati
con marmi colorati provenienti dalle più varie province dell’impero. Le
colonne che li sostenevano rilucevano del marmo giallo della Numidia,
del viola frigio, del granito egizio, del grigio greco, del bianco italiano.
Soffitti dorati sovrastavano alte finestre e pavimenti riscaldati. Un salone
per i banchetti accoglieva migliaia di posti a sedere, un altro era costruito
in modo da ruotare. Nelle fontane e nelle piscine scorreva l’acqua
alimentata dall’acquedotto costruito per servire il Palatino. Alcune sale si
affacciavano sul Circo Massimo nella valle a sud, dove si svolgevano le
corse dei carri, offrendo un luogo privilegiato da cui osservarle.
Forse un odierno visitatore notturno che si aggirasse per il Palatino riu-
scirebbe a immaginare un famoso ricevimento serale con l’imperatore, al
quale un ospite si avvicina confessandogli di sentirsi come se stesse
cenando con Giove in persona nel punto d’incontro fra l’eclittica e il
Meridiano terrestre1. Oppure un banchetto meno allegro, per il quale
l’imperatore aveva fatto pitturare le pareti di nero, e i divani su cui
coricarsi per mangiare richiamavano le pietre tombali, incutendo negli
ospiti terrorizzati la paura di perdere la vita – che veniva loro
risparmiata2. O ancora potrebbe ritornare in mente la voce secondo cui
un altro imperatore trasformò il palazzo in un bordello – storia certo
piccante, ma non molto credibile3. Potremmo pensare agli scalini del
palazzo sui quali un imperatore venne acclamato e un altro annunciò di
abdicare4. Oppure immaginare il grandioso ingresso dove la moglie di un
nuovo imperatore proclamò la propria decisione di non farsi
corrompere5, o viceversa la porta sul retro, dove un altro imperatore se la
svignò, scampando per un pelo a una rivolta annonaria nel Foro6. E
magari potrebbe presentarcisi l’immagine di una seduta del Senato in una
sala del palazzo, con la madre dell’imperatore che osserva da dietro una
tenda, o del passaggio coperto nel quale una folla di cospiratori uccise un
giovane tiranno. Tutto ciò accadde in questi luoghi.
Dal Palatino gli imperatori governavano quello che chiamavano il
mondo, un enorme regno che nel momento della sua massima
espansione si estendeva dalla Britannia all’Iraq. O almeno tentavano di
farlo. Pochi, infatti, eccelsero nell’adempiere a un compito così
estenuante. L’amministrazione imperiale si occupava degli affari ordinari,
ma le crisi erano sfide difficili da affrontare. Molti imperatori non si
rivelarono all’altezza del compito. Alcuni lo assolsero in modo
straordinario. Misero tutte le loro energie, in egual misura, al servizio
dell’ambizione, dell’astuzia e della crudeltà.
E si dedicarono anche alla famiglia. Gli imperatori romani gestirono
una delle più riuscite – e più paradossali – imprese familiari della storia.
Al fine di concentrare il potere in mani fidate, la famiglia imperiale fece
largo uso dei propri membri, comprese le donne. Di conseguenza madri,
mogli, figlie, sorelle e amanti esercitarono un potere talmente forte da
destare in più d’uno sorpresa. A volte, però, era una famiglia infelice,
nella quale i matrimoni forzati erano un evento consueto, le lotte
intestine e i delitti non certo infrequenti. Era, inoltre, una famiglia dalla
definizione approssimativa e variabile. La maggior parte degli imperatori
salì al trono non per averlo ereditato dai propri padri ma in seguito a
un’adozione, e non pochi presero il potere dopo aver combattuto una
guerra civile. Il fatto che la successione fosse spesso contestata fu al tempo
stesso motivo di gloria e di maledizione per l’impero. Aprì la porta al
talento come alla violenza.
La strada fu tracciata dal primo imperatore, Augusto. Adottato dal
fondatore della fortuna della famiglia, il suo prozio e ultimo dittatore
romano Giulio Cesare, Augusto dovette combattere una guerra civile per
imporsi. Di fatto sua moglie Livia, forse la donna più potente in tutta la
storia di Roma, era stata un tempo una profuga di quella guerra, ed era
fuggita dall’uomo che alla fine aveva sposato.
Le pagine di questo volume raccontano la storia di dieci degli uomini
che governarono Roma. Furono gli imperatori più abili, quelli di
maggior successo o, nel caso di Nerone, se non altro fra i più provocanti,
e anche lui fu un grande costruttore. Il successo si determinò in modo
vario, in relazione alla diversità delle circostanze e dei talenti, ma tutti gli
imperatori aspirarono ad esercitare il pieno controllo politico all’interno,
ad estendere il potere militare all’estero, a gestire la ricchezza, a edificare
la città di Roma e ad intrattenere un buon rapporto con le divinità. E
ogni imperatore desiderò morire nel proprio letto e trasmettere il potere
all’erede da lui stesso designato.
La trattazione parte dal fondatore, il primo imperatore, Augusto, e si
conclude circa 350 anni dopo col secondo fondatore, Costantino, che si
convertì al cristianesimo e fondò una nuova capitale in Oriente,
Costantinopoli, l’attuale Istanbul. Più o meno a metà di questo percorso
si colloca Adriano, il quale si definì un secondo Augusto e fece più di
molti altri per garantire pace all’impero e aprire la sua élite a nuovi
membri di origine diversa. Purtroppo, però, fu anche tirannico e
sanguinario, e in questo non costituì un’eccezione.
Per tutto questo tempo gli imperatori romani fecero ricorso alla forza.
Raramente indugiarono nell’uccidere i loro rivali e i dissidenti.
Dipendevano dall’esercito, che conquistò l’impero, lo difese e represse
brutalmente le rivolte. Perfino Marco Aurelio, l’imperatore filosofo che
prediligeva le arti della pace e arrivò al potere privo di esperienza
militare, dedicò la maggior parte del proprio regno a combattere sulle
frontiere.
Non meno importante fu il fatto che l’esercito avesse il potere di creare
e deporre gli imperatori: nessuno di loro poteva governare senza il
consenso dei soldati. Questi ultimi, infatti, contavano ancor più del
Senato romano, composto dai membri dell’élite che, almeno in una
prima fase, forniva la classe dirigente dello Stato. Per gli incarichi
amministrativi gli imperatori si affidarono sempre più a personale esterno
al Senato, perfino a ex schiavi. Anche il popolo romano era essenziale per
gli imperatori, ma lo si poteva comprare finanziando forniture alimentari
e spettacoli – non che la vita fosse facile per i poveri, che costituivano la
grande maggioranza della popolazione dell’impero. Infine, anche le
divinità avevano il loro peso. Ogni imperatore instaurò la pace con gli
dèi, e non pochi introdussero nuove divinità pur non ripudiando le
antiche. Costantino fu diverso non perché adorò un nuovo dio, ma
perché volse le spalle alle ancestrali divinità di Roma.
Ma la religione è parte integrante della cultura, e il carattere della cultura
romana avrebbe conosciuto enormi cambiamenti con l’avvento della
monarchia. Augusto e il suo successore, Tiberio, realizzarono
un’impresa titanica: condussero l’impero romano dalla conquista
all’amministrazione. Tolsero il potere alla nobiltà orgogliosa, militarista e
litigiosa e lo consegnarono alla burocrazia, che proveniva da classi sociali
di minor prestigio. Resero meno centrale la città di Roma, a beneficio
prima dell’Italia, poi dei territori provinciali.
I successori di Augusto aggiunsero all’impero due nuove province con
la forza delle armi, ma si trattò di aggiustamenti di confine di minore
importanza rispetto a quanto era avvenuto nei due secoli precedenti,
quando Roma aveva conquistato l’intero Mediterraneo e l’Europa nord-
occidentale. Da sempre, infatti, le élites conquistatrici si esauriscono e
finiscono per interessarsi più al denaro e ai piaceri che all’espansione.
Ogni impero, senza eccezione, prima o poi conosce il declino. Tuttavia,
i romani riuscirono nella grande impresa di conservare quello che
avevano vinto.
Dietro una facciata retorica sontuosa ed eccessiva, si scorge un cuore
pragmatico. Questa era la vera Roma. La vera Roma appare più nella
decisione di Tiberio di abbandonare la Germania senza voltarsi indietro
o nella giustificazione che Vespasiano dette della tassa che impose sui
bagni pubblici («Pecunia non olet»)7 che nello stile retorico di Marco
Tullio Cicerone o nella raffinata prosa di Publio Cornelio Tacito. Nuovo
sangue e nuovi dèi; scelte drastiche e ritirate strategiche: per poter
sopravvivere come impero i romani erano disposti a tutto.
Alla fine Roma perse il proprio ruolo di capitale. L’imperatore
d’Occidente governò dall’Italia settentrionale o dalla Germania – e così vi
furono un imperatore d’Occidente e uno d’Oriente. Diocleziano, il
predecessore di Costantino, si rese conto che l’impero era troppo vasto e
gravato da problemi troppo profondi perché un uomo solo riuscisse a
gestirli. Costantino, che ne portò tutto il peso, fu un’eccezione.
Roma era cresciuta al di là delle proprie possibilità, ma questa era stata
anche una delle ragioni del suo successo. Il cambiamento fu inglobato nel
tessuto stesso del sistema, e non avvenne facilmente né senza spargimenti
di sangue. Nuovi uomini salirono al vertice. I due imperatori a cui sono
dedicati i capitoli centrali di questo volume, Traiano e Adriano, erano
entrambi nati nella Hispania. Due generazioni dopo, l’imperatore
Settimio Severo era originario dell’Africa del Nord, discendeva da
immigrati italici e forse aveva fra i suoi antenati africani e mediorientali.
Non così Diocleziano e Costantino, entrambi originari dei Balcani, nelle
cui vene non scorreva sangue italiano. Emersero poi anche nuove donne:
la moglie di Severo veniva dalla Siria, la madre di Costantino dall’Asia
Minore.
I signori e le signore del Palatino dimostrarono col tempo di essere più
vari di quanto il fondatore dell’impero avesse potuto immaginare. Le loro
voci si sono da molto tempo spente, molti dei loro nomi sono ormai
dimenticati. In alcuni casi le statue che li ritraevano sono andate perdute,
oppure furono abbattute in tempi antichi, e le loro immagini furono
grattate via dai dipinti o dai bassorilievi. E tuttavia possiamo evocare i
loro fantasmi da testi letterari e iscrizioni, dalle testimonianze artistiche e
archeologiche, o dallo studio scientifico di qualsiasi reperto, dai relitti
navali alle condutture fognarie.
Insomma, i romani continuano a vivere, e non solo nell’immaginazione
ispirata da una notte sul Palatino.

 
1
Stazio, Le selve, a cura di Luca Canali e Maria Pellegrini, Mondadori, Milano 2006, IV.2.18.
2
Cassio Dione, Storia romana LXVII.9.3.
3
Svetonio, Caligola XLI.1.
4
Id., Nerone VIII.1; Id., Vitellio XV.2.
5
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.5.5.
6
Svetonio, Claudio XVIII.2.
7
Id., Vespasiano XXIII.3; Cassio Dione, Storia romana LXVI.14.5.
Augusto
1
Augusto, il fondatore

Augusto è un’icona, ed è facile capire perché. Poche figure storiche


mostrano meglio di lui quel che occorre per vincere tutto. Pose fine a un
secolo di rivoluzioni, abbatté la repubblica romana sostituendovi
l’impero, che fu il primo a guidare. Ma Augusto rappresenta anche un
mistero. Orfano di padre a soli quattro anni, a diciannove era già uno dei
maggiori protagonisti della politica romana. Come vi riuscì, e come fece
a realizzare tutto quello che ne seguì?
Come poté avere la meglio su un’opposizione guidata dalla più
affascinante coppia della storia politica, Antonio e Cleopatra? Come poté
un ragazzino delicato trasformarsi in un vittorioso signore della guerra, e
poi diventare uno dei più famosi promotori di pace della storia? Come
riuscì a trovare il perfetto numero due, un collaboratore che svolgesse per
suo conto le funzioni di generale e amministratore senza insidiare il suo
potere? In che modo riuscì a gestire uno dei matrimoni più produttivi
ma complessi della storia, quello che lo legò alla brillante, talentuosa e
astuta Livia? Come poté fondare una dinastia che durò un secolo e un
impero che avrebbe segnato quelli successivi?
Verso la fine della sua lunga vita, Augusto rispose ad alcuni di questi
interrogativi. Sulle colonne bronzee all’ingresso del suo mausoleo a
Roma fece collocare un’iscrizione in cui si legge questa frase: «dopo aver
estinto le guerre civili, avendo conseguito tutto il potere attraverso il
consenso universale, trasferii il governo dello Stato dalla mia potestà al
libero volere del Senato e del popolo romano. E per questo mio merito
con decreto del Senato fui denominato Augusto»1.
Questa era la versione ufficiale. Ma quale fu la vera storia? Cominciamo
da un bimbetto, e seguiamone l’ascesa.
IL FIGLIO DI AZIA
Era nato il 23 settembre del 63 a.C. Lo conosciamo come Augusto, ma si
è soliti chiamarlo Ottaviano quando ci si riferisce ai suoi primi
trentacinque anni di vita. Fu solo allora che assunse il nome di Augusto.
Suo padre, Gaio Ottavio, proveniva da una famiglia di una cittadina a
sud di Roma che si era data molto da fare per affermarsi. Ottavio era
ricco e nutriva ambizioni politiche, ma era privo di quell’ascendenza
nobiliare che la maggior parte dei romani, ricchi o poveri che fossero, si
aspettava dai propri capi. Col termine «nobiltà» i romani intendevano
riferirsi a un gruppo di persone molto ristretto: i discendenti dei consoli,
cioè dei due supremi magistrati del governo romano eletti annualmente2.
Ottavio si sposò con una nobile, la figlia della sorella di Giulio Cesare, la
quale aprì le porte del potere al marito e al loro giovane figlio: Azia3.
Il matrimonio di Azia cominciò bene, col trasferimento a Roma e
l’ascesa di suo marito nei ranghi politici. Gaio Ottavio sembrava
destinato al consolato, ma morì improvvisamente nel 58 a.C. mentre
rientrava da un viaggio all’estero dopo un positivo periodo da
governatore provinciale. Azia si ritrovò vedova con due figli: Ottaviano e
la primogenita Ottavia.
A complicare ulteriormente i problemi del piccolo orfano Ottaviano
concorse il fatto che almeno uno dei suoi tutori amministrò
improvvidamente la sua eredità, o addirittura se ne appropriò. Tuttavia, il
bambino non solo sopravvisse ma crebbe vigoroso. Tre cose lo
sostenevano: sua madre, la sua famiglia e la sua stessa capacità di resistere.
Azia è una delle eroine non celebrate della storia, anche se è vero che
non la conosciamo appieno: non sappiamo neppure che aspetto avesse,
poiché non sembrano esserci rimaste sue immagini né sulle monete né in
opere scultorie. Le Memorie oggi perdute di Augusto ne tracciano un
ritratto che forse sopravvisse negli scritti successivi della tradizione
romana: quello di una casta madre della vecchia scuola che applicava una
rigorosa disciplina e controllava attentamente la crescita di suo figlio4. Le
fonti ci consegnano l’immagine di una donna scaltra, pragmatica,
politicamente abile e dedita a promuovere instancabilmente la carriera del
figlio.
Le madri romane dovevano svolgere questo ruolo di promotrici. Spesso
i mariti morivano prima di loro, lasciandole nella condizione di dover
badare ai figli da sole. La storia romana è piena di energiche figure di
madri impegnate a promuovere i propri figli. La letteratura latina offre
l’esempio della dea Venere che sospinge il figlio Enea verso il suo destino
divino: la fondazione di Roma5. Non c’è da stupirsi, quindi, che i
romani riverissero le proprie madri.
Poco dopo essere rimasta vedova, Azia si risposò, stavolta con un’altra
figura pubblica di primo piano: Lucio Marcio Filippo, che era stato
console nel 56 a.C., un personaggio sfuggente che riuscì a rimanere fuori
dagli schieramenti della guerra civile (49-45 a.C.), e tuttavia poté
mantenere posizioni di vertice. Dal patrigno il giovane Ottaviano
avrebbe potuto apprendere aspetti non secondari dell’arte dell’inganno,
ma Azia affidò il piccolo alle cure di sua madre Giulia, che lo tenne con
sé negli anni della formazione. Il fratello di Giulia, Giulio Cesare, stava a
quel tempo conquistando la Gallia, ed era quindi avviato a diventare
l’uomo più importante di Roma. Sicuramente Giulia gli scrisse
parlandogli di quel giovanetto brillante e ambizioso di cui si prendeva
cura, e di come costituisse un motivo di orgoglio per la famiglia.
Quando Giulia morì, nel 51 a.C., Ottaviano si trasferì in casa della
madre e del patrigno, ma continuò a pensare al suo famoso prozio. Si
dice che nel 46 a.C. fosse impaziente di raggiungere Cesare al fronte, ma
Azia, preoccupata della salute del ragazzo, non glielo consentì6.
Mentre Ottaviano cresceva, Cesare stava rivoluzionando Roma, che era
diventata una fiera repubblica indipendente. Il popolo e l’élite
partecipavano alla gestione del potere mediante istituzioni quali
assemblee, tribunali, funzionari elettivi e un Senato. Questo in teoria. Di
fatto, la repubblica non fu in grado di reggere all’urto di un generale
conquistatore come Cesare, forte di decine di migliaia di fedeli soldati.
Quando nel 49 a.C. Cesare varcò il Rubicone dopo essere partito con
le sue forze dalla Gallia, inflisse la guerra civile a un paese che aveva già
subìto un cinquantennio di conflitti civili intermittenti, le cui radici
risalivano a una crisi iniziata due generazioni prima. Sembra che Roma
fosse bloccata in un inestricabile groviglio di irrisolvibili questioni
politiche, militari, sociali, economiche, culturali e amministrative.
Solo qualcuno che potesse domare sia la città di Roma sia il suo impero
avrebbe potuto riportare la pace, l’ordine e la stabilità. Quell’uomo non
era Cesare. Cesare era un conquistatore, non un costruttore. Ma se lui
non era in grado di farlo, chi altri avrebbe potuto riuscirvi?
Cesare non aveva figli legittimi, anche se probabilmente dalla sua
relazione extramatrimoniale con Cleopatra era nato un principe
straniero, Cesarione. Ma quale proprio erede scelse un altro parente: tra i
vari suoi nipoti e bisnipoti legittimi, fu Ottaviano a imporsi su tutti.
Acceso dall’ambizione, Ottaviano era un politico naturale: intelligente,
affascinante, comunicativo e bello7. Sebbene non fosse un soldato nato,
era tenace, astuto e audace. Ed era dotato di una volontà di ferro. Dietro
di lui, poi, c’era Azia, che sicuramente tesseva i suoi elogi a Cesare
ogniqualvolta ne aveva la possibilità. Forse gli raccontò perfino una storia
che circolava allora, secondo cui il padre di Ottaviano non era in realtà
Gaio Ottavio, bensì il dio Apollo, che in forma di serpente le aveva fatto
visita in un tempio e l’aveva fecondata lasciandole sul corpo un segno
indelebile8. Solo qualche credulone poteva prestar fede a una storia del
genere, ma Cesare sapeva che le masse sono tali, e forse fu favorevolmente
colpito dall’idea.
Cesare continuò a promuovere il suo bisnipote. Intorno al 51 a.C., a
soli undici anni, Ottaviano pronunciò l’orazione funebre in onore di sua
nonna Giulia, dai Rostri del Foro. Poco più che quattordicenne, sfilò per
le vie di Roma in occasione dei trionfi celebrati da Cesare per le sue
vittorie in Gallia e nella guerra civile. Era il 46 a.C., e Cesare onorò il
giovanetto nel modo in cui un generale trionfante riservava normalmente
solo al proprio figlio.
Un ragazzo del valore di Ottaviano aveva molti amici, uno dei quali
sarebbe diventato il suo braccio destro per tutta la vita: Marco Vipsanio
Agrippa. Come Ottaviano, anche lui proveniva da una fiorente famiglia
italica, per quanto non collegata alla nobiltà romana. Di una cosa,
soprattutto, Agrippa disponeva in abbondanza: il genio pratico. Era
coraggioso, con una forte personalità e, soprattutto, leale. Senza dubbio
Augusto aveva il dono di saper legare a sé le persone. Nel caso di
Agrippa, Ottaviano si rivolse al suo prozio e ottenne che il fratello
dell’amico venisse liberato nonostante avesse combattuto contro lo stesso
Cesare. Agrippa gliene fu grato.
Nel 45 a.C. Ottaviano si ammalò, e sembra che Cesare fosse perfino
andato a trovarlo quando era a letto, prima di lasciare Roma per recarsi a
reprimere una rivolta in Hispania9. Nella sua vita Ottaviano ebbe
problemi di salute cronici e dovette sopportare diverse malattie
importanti, ma tenne sempre duro, fino agli ultimi momenti. Presto il
giovane si rimise in piedi e partì per il fronte. Il piccolo gruppo di
persone che lo accompagnava comprendeva probabilmente Agrippa, ma
non Azia, che avrebbe voluto unirsi a loro ma fu dissuasa dal figlio.
Ottaviano arrivò in Hispania troppo tardi per partecipare ai
combattimenti, ma raggiunse Cesare dopo un rischioso viaggio in un
paese ostile. Ciò gli valse l’ammirazione del prozio: atteggiamento,
questo, destinato a consolidarsi nei diversi mesi che da allora Cesare
passò con quel giovane dotato e intraprendente. A Ottaviano si presentò
l’occasione di mettersi in luce, e seppe sfruttarla a dovere. Quando poco
dopo Cesare rientrò in Italia, lo designò come suo principale erede e gli
offrì di adottarlo come figlio post mortem.
Scegliendo come proprio successore Ottaviano, Cesare gettò
sicuramente il seme della grandezza. Tuttavia, quando si venne a sapere
della sua decisione, qualcuno fece fatica a credere che un ragazzo di
appena diciassette anni potesse convincere l’uomo più potente del
mondo a sceglierlo senza che sotto si celasse una subdola manovra di
natura sessuale. Marco Antonio, rivale di Ottaviano, accusò in seguito il
ragazzo di aver avuto una relazione con Cesare ai tempi del soggiorno in
Hispania10. Da una parte, questa era la tipica calunnia che i politici
romani erano soliti diffondere; dall’altra, Ottaviano era bello quanto
ambizioso, e correva voce che da ragazzo anche Cesare fosse andato a
letto con un potente uomo ben più anziano di lui11. In realtà, sia Cesare
sia Augusto furono molto amanti delle donne, sicché la storia
probabilmente era falsa.
Quando rientrò a Roma, Ottaviano andò a vivere per conto suo, ma
sempre vicino alla madre e al patrigno; anzi, sembra che continuasse a
trascorrere la maggior parte del tempo con loro. Portò avanti anche lo
studio dell’oratoria, della filosofia e delle lettere sia latine sia greche –
seguendo il curriculum prediletto dai membri dell’élite romana. Sebbene
i suoi studi venissero interrotti dalla guerra e dalla rivoluzione, continuò
a leggere e a fare ogni giorno pratica di oratoria. Pare che a diciotto anni
avesse rinunciato per un anno a qualsiasi attività sessuale, pensando che
ciò gli avrebbe permesso di mantenere la voce forte12. Forse questa scelta
diede i suoi frutti, perché negli anni seguenti ebbe una voce dolce e
chiara, diversamente da quella di Cesare, caratterizzata dai toni acuti.
Il piano di Cesare era di condurre una guerra di conquista di tre anni in
Oriente. Attribuì a Ottaviano un ruolo di grande importanza
nominandolo, a soli diciotto anni, magister equitum, o luogotenente:
sebbene si trattasse per certi aspetti di un incarico onorifico, conferiva
visibilità e l’opportunità di creare una rete di rapporti. L’inizio della
spedizione era previsto per il marzo del 44 a.C. Intorno al dicembre del
45 a.C. Ottaviano partì da Roma su ordine di Cesare e assieme ad
Agrippa attraversò l’Adriatico per raggiungere i comandi di Cesare nel
territorio dell’odierna Albania. Là ebbe preziosissimi contatti con alcuni
comandanti di legione.
Ma le Idi di marzo cambiarono completamente lo scenario. Quel
giorno, il 15 marzo del 44 a.C., un complotto ordito da oltre sessanta
personalità romane di primo piano, capeggiato da Marco Bruto, Gaio
Cassio Longino e Decimo Bruto, assassinò Cesare durante una seduta del
Senato.
Improvvisamente, per la sua vicinanza a Cesare, Ottaviano divenne un
obiettivo da colpire. Azia era a Roma quando si constatò che nel suo
testamento Cesare l’aveva incaricata di organizzare il funerale. Ma la sua
prima preoccupazione fu Ottaviano, e mandò subito un messaggero per
raggiungerlo al di là dell’Adriatico. Ottaviano stava prendendo in
considerazione la possibilità di sferrare un attacco armato ai quartieri
generali dell’Adriatico. Ma Azia era fortemente contraria. Sapeva che la
questione decisiva si sarebbe giocata a Roma e sollecitò Ottaviano a
rientrarvi in fretta. Gli scrisse che: «ora doveva essere un uomo e
considerare con prudenza ciò che doveva fare e farlo in base alla fortuna e
all’opportunità»13. Dopo aver consultato i suoi amici e consiglieri,
Ottaviano accettò e salpò alla volta dell’Italia.
Per lui la morte di Cesare fu un’enorme perdita: l’uomo che era
diventato suo padre, e che aveva fatto di tutto per prepararlo al suo
destino di futura grandezza, era stato ucciso. Con un gesto tipico della
tradizione romana in caso di lutto, Ottaviano si fece crescere la barba. Ma
il dolore non era la sua unica emozione; provava anche paura, rabbia e
sete di vendetta. Tuttavia, la morte di Cesare rappresentò sì un duro
colpo, ma anche un’opportunità. Ora Ottaviano si trovava ad essere il
capo della famiglia, oltre che l’erede del dittatore di Roma. Ma per far
valere la propria eredità dovette combattere.

IL MIO NOME È CESARE 44 A.C.


(NOVEMBRE: ROMA, PRESSO IL FORO)
Ottaviano pronunciò un discorso che poi avrebbe fatto orgogliosamente
circolare14. Fu un momento fondamentale: stese il braccio destro verso
una statua di Giulio Cesare auspicando che gli fosse concesso di
raggiungere la gloria del suo padre adottivo15. A poco più di diciannove
anni, aveva già rivendicato tutto il potere e la gloria del precedente
dittatore di Roma. Qualcuno è stato mandato in manicomio per molto
meno.
Sarà stata megalomania, ma dopo sei mesi di febbrili attività Ottaviano
stava progredendo. Seguendo i consigli di Azia, era tornato in fretta in
Italia. Fu abbastanza cauto e obbediente da consultare la madre e suo
marito, ma troppo ambizioso per seguire il loro consiglio di rinunciare
all’eredità di Cesare e ritirarsi dalla vita pubblica dopo esservi appena
entrato.
Roma pullulava di nemici. Il console Marco Antonio esercitava il
potere in città, e gli assassini di Cesare si stavano ritrovando dopo una
temporanea battuta d’arresto. Non avevano molto bisogno di lui, e
neppure a Marco Antonio serviva. Questi, a trentanove anni, era nel
pieno della vita: rampollo di una nobile famiglia romana, era un generale
straordinario, un politico guardingo e un eccellente oratore. Forte e
avvenente, assunse come propria divinità protettrice Ercole, simbolo di
responsabilità e giustizia come di valore militare. Antonio guardava
dall’alto in basso Ottaviano. Da lontano parente e collaboratore di vecchia
data di Cesare, si considerava il legittimo successore del dittatore ucciso.
Ma Ottaviano era determinato. Ambiva all’onore e alla gloria, a qualsiasi
costo. Era pronto a combattere. Non voleva portare il lutto per Cesare,
bensì vendicarlo. Anzi, si apprestava a diventare lui stesso Cesare. Dette
avvio al processo per ufficializzare l’adozione che il dittatore gli aveva
offerto nel suo testamento. Anche se continueremo a chiamarlo
Ottaviano, ora si definiva Cesare. Assunse quel nome con naturalezza,
come se lo avesse portato fin dalla nascita. E non solo, lo considerò come
una sorta di talismano del potere, come se fosse già sostenuto dal peso dei
secoli. Sua madre fu la prima persona a rivolgersi a lui con questo titolo,
ma non sarebbe stata l’ultima16.
Ottaviano era audace ma non impetuoso, e violento senza però essere
selvaggio. Dopo essere stata inizialmente dubbiosa e incerta, e aver
mostrato rispetto per la posizione del marito, Azia decise di sostenere in
pieno l’ambizione del figlio. Ma consigliò astuzia e pazienza, e stavolta
Ottaviano le dette ragione17. Si mosse in modo strategico e mostrò agli
altri solo quello che volevano vedere da lui. Fu misterioso, tanto che si
capisce perché per un periodo della sua carriera usasse per i suoi
documenti un sigillo raffigurante una sfinge18; in seguito, lo sostituì con
un’immagine che lo raffigurava (un futuro imperatore avrebbe definito
Augusto un «camaleonte»)19. Le fonti antiche affermano che quel sigillo a
forma di sfinge lo avesse avuto da Azia, e questo ci riporta al dio Apollo,
il suo supposto padre divino, poiché i romani associavano la sfinge a
quella divinità20.
La «sfinge» sapeva come fare a indurre gli altri in tentazione, a partire
dall’uomo che era il vicino di casa del suo patrigno nella villa di
campagna sul Golfo di Napoli. Era il più grande statista vivente
dell’epoca: Marco Tullio Cicerone. Di tutti gli uomini di Stato del
mondo antico, nessuno è in grado di parlarci con maggiore intensità di
Cicerone. La sua lingua aveva un’eloquenza persuasiva, la sua attività di
scrittore era incessante, e il suo cuore batteva per la repubblica, nei cui
ultimi decenni si svolse la sua carriera. Le sue orazioni rifulgono ancora
oggi, le sue lettere mettono a nudo le manovre politiche del tempo e le
sue opere filosofiche hanno posto le basi del pensiero politico latino.
Come uomo politico, Cicerone ebbe successi alterni. Durante il suo
consolato represse una rivolta, facendo però giustiziare senza processo
cinque cittadini romani, e ciò lo costrinse a un successivo esilio
temporaneo. Dopo aver esitato sul partito da appoggiare durante la guerra
civile, ottenne da Cesare il perdono e la lode per le sue opere letterarie,
ma si trovò sbarrata la porta di accesso al potere. Dopo le Idi di marzo,
rientrò in campo e appoggiò gli assassini di Cesare. Ora Ottaviano riuscì
a convincerlo di essere colui che avrebbe restaurato quella libertà che
Cesare aveva fortemente limitato.
Detto così, l’episodio sembrerebbe il frutto di un’ingenuità da parte sua:
Cicerone, infatti, voleva salvare la repubblica da un altro dittatore militare
dello stampo di Cesare, e Ottaviano ambiva ad essere proprio quel tipo
di dittatore. L’anziano statista era stato troppo accomodante? No, era
consapevole che Ottaviano rappresentasse una scommessa rischiosa, ma
pensava che valesse la pena tentarla. Cicerone riteneva Antonio, per l’età
e l’esperienza che aveva, più pericoloso del giovane Ottaviano, mentre
questi non temeva nessuno. Fu così che Cicerone e Ottaviano strinsero
un’alleanza di convenienza, e quindi il vero interrogativo da porsi
riguardava chi dei due avrebbe scaricato prima l’altro e sarebbe salito al
vertice.
La giovane età di Ottaviano si rivelò un vantaggio: essendo poco
coinvolto nel vecchio sistema, ebbe pochi scrupoli nel rovesciarlo.
Ottaviano era determinato ad affrontare Antonio. Nascondendo alla
madre quali fossero i suoi veri piani, raggiunse l’Italia meridionale in
cerca di appoggio da parte degli ex soldati di Giulio Cesare. Convinse
tremila veterani a rientrare nei ranghi e a sostenerlo. Questo esercito
privato violava la legge, ma anni dopo si sarebbe vantato di questa azione,
presentandola come un modo per salvare la repubblica: «All’età di
diciannove anni misi insieme per mia iniziativa personale e a mie spese
un esercito, per mezzo del quale restituii lo Stato oppresso dalla tirannia
di una fazione alla libertà»21.
Il comparto più importante dell’esercito era costituito da due legioni di
veterani, che gli agenti di Ottaviano riuscirono a sottrarre ad Antonio
offrendo loro la prospettiva di una paga migliore e di una disciplina più
blanda. Le due legioni dettero subito ad Ottaviano la forza per competere
in un sanguinoso gioco di manovre. E attirarono l’attenzione del Senato.
Ora che lo scontro armato con Antonio sembrava imminente, il Senato
si rivolse ad Ottaviano e alle sue legioni. La sua dichiarazione di fedeltà
alla repubblica suonò falsa, ma la giovane età lo faceva apparire agli occhi
dei senatori comunque meno pericoloso del rivale. Nell’aprile del 43
a.C. i due schieramenti si scontrarono in due battaglie nell’Italia
settentrionale. Antonio, guerriero temprato da molte battaglie, accusò di
viltà l’avversario, che prima di allora non si era mai trovato a
combattere22. Sebbene Ottaviano non fosse un guerriero nato, era dotato
di coraggio. Nella seconda battaglia di quell’anno, ad esempio, portò
eroicamente l’aquila sulle proprie spalle quando il soldato che vi era
addetto rimase gravemente ferito. In guerra, come in ogni altra
circostanza, Ottaviano dava prova di autocontrollo. Ad esempio, anche
quando era in compagnia dei soldati non beveva più di tre volte a pasto –
una quantità pari probabilmente a circa un quarto di litro di vino23.
Gli eserciti del Senato si imposero, costringendo Antonio alla ritirata.
Questi varcò le Alpi e si rifugiò in Gallia, ma Ottaviano non lo inseguì,
come invece avrebbe preferito il Senato. Ottaviano, infatti, pensò bene
di non fidarsi dei senatori. Quando venne a sapere che Cicerone aveva
detto, riferendosi a lui con un doppio senso, «quel giovane bisogna
lodarlo, onorarlo, portarlo in alto»24, si arrabbiò, ma probabilmente non
ne fu sorpreso. Antonio radunò le forze convincendo gli eserciti della
Gallia a sostenerlo. Nel frattempo, Ottaviano decise di cambiare strategia
e di appoggiarlo a sua volta.
Il Senato era solo un alleato temporaneo, utile per conferire legittimità
ad Ottaviano ma ostile al suo obiettivo di ottenere lo status di Cesare.
Antonio sarebbe stato un alleato migliore, perché non era attaccato come
lo era il Senato alle istituzioni repubblicane. Inoltre, le nuove forze che
aveva reclutato erano troppo consistenti per poterle sconfiggere. E così,
Ottaviano passò dalla sua parte.
Nell’estate del 43 a.C. Ottaviano inviò un centurione in Senato,
chiedendo di essere nominato console, la carica più alta dello Stato, che
per consuetudine non era ricopribile prima dei quarant’anni. Ma
Ottaviano non badò alla tradizione. I senatori acconsentirono con
riluttanza e poi ritirarono il loro consenso, confidando invano nell’arrivo
di nuove truppe dall’estero. Cercarono di prendere in ostaggio Azia e
Ottavia, che erano in città, ma le donne riuscirono a mettersi in salvo
riparandosi fra le Vergini Vestali. Le sei Vestali erano sacerdotesse di un
importante culto statale, e vivevano in una residenza ufficiale accanto al
Foro. In parte per proteggere le sue congiunte, Ottaviano, sempre devoto
alla propria famiglia, si precipitò a Roma con le legioni, e il 19 agosto del
43 a.C. assunse il controllo della città. Finalmente libere, Azia e Ottavia
poterono ora riabbracciarlo.
Purtroppo il ricongiungimento fu breve, poiché Azia morì fra l’agosto
e il novembre di quello stesso anno. Suo marito probabilmente morì in
quello stesso periodo. Ottaviano convinse il Senato a concedere ad Azia
un funerale pubblico, ammesso che convincere sia il verbo giusto per un
uomo che prese il consolato per via militare. Un funerale pubblico era un
onore che veniva concesso raramente. Di fatto, per quel che sappiamo,
Azia fu la prima donna della storia romana ad ottenerlo. Il suo epitaffio,
composto da un poeta, recita: «Qui, straniero, si trovano le ceneri di
Azia, qui giace la madre di Cesare: così stabilirono i senatori romani»25.
Azia era stata indispensabile come madre, patrocinatrice e consigliera
politica di Ottaviano nelle sue prime crisi. Anche dopo la sua morte
venne ricordata nella letteratura. Se non altro nella memoria, Azia
richiamava la rivendicazione di nobiltà del figlio.
E a Roma la vendetta rappresentava una nobile virtù: i romani, pur
temendone gli esiti, ammiravano d’altro canto chi la perseguiva. Subito
dopo le Idi di marzo, il Senato aveva emanato, non senza faticose
trattative, un’amnistia per gli assassini di Cesare. Ora Ottaviano annullò il
provvedimento. Fece approvare una legge che istituiva un tribunale
speciale che li condannò a morte. Da buon figlio, si fece carico
personalmente dell’omicidio di Cesare.
Ottaviano invitò Antonio a rientrare in Italia per concludere la pace. I
due si incontrarono a ottobre, insieme a Marco Emilio Lepido, vecchio
alleato di Giulio Cesare, decidendo di formare un triumvirato investito
di poteri dittatoriali per cinque anni, poi rinnovabili. Avevano a loro
diposizione più di quaranta legioni. Si divisero fra loro la parte
occidentale dell’impero, mentre Bruto e Cassio, che dopo l’uccisione di
Cesare erano fuggiti, controllavano la parte orientale. Era un colpo di
Stato.
A meno di due anni dal suo ritorno in Italia, Ottaviano era riuscito a
farsi strada in campo politico e militare, a vincere in astuzia i suoi rivali e
a diventare uno dei tre uomini più potenti dell’impero – e tutto questo a
soli vent’anni.
Dopo aver conquistato Roma, Giulio Cesare aveva perseguito una
politica ispirata alla clemenza, concedendo il perdono ai propri nemici.
Ma il suo omicidio faceva supporre che la clemenza non pagasse. E,
diversamente da lui, i triumviri scelsero la strada della proscrizione,
attuando una purga. Condannarono a morte circa duemila romani
dell’élite nobiliare ed economica e ne confiscarono le proprietà. La
maggior parte di loro riuscì a fuggire; gli uccisi probabilmente furono
circa trecento26. Tra loro, Cicerone fu sicuramente la vittima più nota.
Antonio voleva vedere morto il suo acerrimo nemico; Ottaviano avrebbe
detto in seguito di aver tentato di salvare Cicerone, ma se così fu, non si
impegnò a fondo per riuscirvi.
Nel contesto della sua nuova alleanza con Antonio, Ottaviano ne sposò
la giovane figliastra, Claudia. La madre di lei, e moglie di Antonio,
Fulvia, era una donna straordinaria, sopravvissuta a due precedenti
mariti, entrambi uomini politici morti in modo violento.
Il 1° gennaio del 42 a.C. Ottaviano dette una veste formale alla sua
devozione per la memoria del padre e fece proclamare dal Senato la
divinità di Cesare, il che gli consentì di definirsi figlio di un dio. Fu
approvata una legge per l’edificazione di un tempio e l’istituzione del
culto del divo Giulio Cesare. Quattro anni dopo, nel 38 a.C., Ottaviano
venne acclamato imperatore, vale a dire generale vittorioso, dalle sue
truppe. Da allora cominciò ad essere definito «generale vittorioso Cesare,
figlio di Dio»27.
A ventiquattro anni Ottaviano aveva compiuto grandi cose. Uomo di
ambizione sconfinata, intelligenza acuta e sicura capacità di giudizio, era
sostenuto da un’etica del lavoro senza limiti, e la sua abilità di persuasione
risultava sempre vincente. Come ogni giovane, era soggetto alle
emozioni – soprattutto alla rabbia per l’uccisione del suo padre adottivo
–, ma padroneggiava l’arte di trasformare il dolore in strategia. E la
strategia, come divenne chiaro, era la sua specialità. Aveva, infine, la
capacità di guardare sempre lontano. E non poteva fare altrimenti, per
affrontare le prove che lo aspettavano.

ANTONIO E CLEOPATRA
La resa dei conti con Bruto e Cassio avvenne fuori della città greca di
Filippi nel 42 a.C. Ottaviano agì di concerto con Antonio, che si distinse
nelle due battaglie che determinarono la vittoria. Ottaviano dovette
vedersela ancora una volta con l’accusa di viltà, poiché durante la prima
battaglia, quando il nemico conquistò il suo accampamento, lui si era già
dato alla fuga. In seguito disse che in quel momento era malato e aveva
avuto una visione che lo metteva in guardia contro il pericolo28.
Probabilmente era vero, poiché era soggetto a ricorrenti problemi di
salute. Ma si riprese, ed emanò l’ordine sanguinario di mozzare la testa al
cadavere di Bruto e di inviarla a Roma per esporla ai piedi della statua di
Giulio Cesare, in segno di vendetta.
Filippi fu una grandiosa vittoria per Antonio e Ottaviano, che però
dovevano ancora riuscire ad affermare il loro controllo sul mondo
romano. Dopo aver estromesso Lepido, i due suddivisero fra di loro
l’impero: Antonio prese il controllo dell’Oriente e stabilì la propria base
ad Atene, Ottaviano invece governò l’Occidente da Roma.
La decisione lasciava ad Ottaviano l’impopolare compito di confiscare
in Italia le terre dei civili a favore dei veterani. Furono la moglie di
Antonio, Fulvia, e suo fratello Lucio Antonio a guidare l’attacco contro
di lui. Fulvia si presentò con i figli di Antonio e la madre di lui davanti ai
soldati per preservare la loro fedeltà (Ottaviano aveva da poco divorziato
da Claudia, dichiarando sotto giuramento che il matrimonio non era mai
stato consumato – il che, senza dubbio, fece arrabbiare l’ex suocera). Ora
Ottaviano doveva affrontarla e sconfiggerla: circondò lei e Lucio assieme
al loro esercito a Perusia (l’attuale Perugia). Fulvia ricevette il discutibile
onore di vedere scritto il proprio nome sui proiettili lanciati dalle
catapulte del nemico assieme a volgari commenti sul suo corpo. Scrisse ai
generali di Antonio in Gallia per chiedere loro di affrettarsi a varcare le
Alpi e accorrere in suo aiuto, ma ormai era troppo tardi. Le forze di
Ottaviano ebbero la meglio. Se i resoconti della vicenda sono veri e non
frutto di semplice propaganda, a quel punto Ottaviano massacrò un gran
numero di capi nemici sull’altare del divo Giulio, proprio il giorno delle
Idi di marzo. A quanto pare, rispose ad ogni richiesta di misericordia
con un secco: «Bisogna morire»29. Ma lasciò liberi Fulvia e Lucio.
Antonio, nel frattempo, restaurò il controllo di Roma nelle regioni
orientali, che Bruto e Cassio avevano lasciato in subbuglio. Ma il
soggiorno di Antonio in Oriente è noto per un altro motivo: la sua
relazione con Cleopatra, una vicenda che riguardava non solo il cuore ma
anche la spada e il denaro.
Cleopatra era la donna più potente, ricca e affascinante della sua epoca.
Regina di Egitto, era una sovrana in un mondo di uomini. Come tutti i
suoi antenati della dinastia dei Tolomei, che regnava da tre secoli, era
greca (o, più precisamente, macedone). Intelligente, astuta, colta e
seducente, era di splendida presenza. Era piccola e vigorosa, sapeva
andare a cavallo e cacciare, ed era molto attenta alla propria immagine
pubblica. Le sculture greco-romane ne esaltavano l’eleganza, mentre le
monete la ritraevano con tratti regali e lievemente mascolini.
Cleopatra emanava uno straordinario carisma, e la capitale dell’Egitto,
Alessandria, era un centro di attrazione culturale. Gli uomini che ebbero
Cleopatra ebbero accesso anche alla favolosa ricchezza dell’Egitto e
all’atmosfera misteriosa che sapeva creare nella sua camera da letto. Di
Cesare Ottaviano ebbe il nome, ma Antonio ne ebbe l’amante. Nel 41
a.C. Antonio e Cleopatra iniziarono una relazione da cui nacquero due
gemelli. Ciò nonostante, quando Fulvia morì per un’improvvisa malattia,
Antonio prese una nuova moglie: la sorella di Ottaviano, Ottavia. Era
anche lei rimasta da poco vedova, e comprendeva quali fossero le regole
del gioco; lo scopo di un tale matrimonio non era l’amore, ma la politica.
Tuttavia, pare che Ottavia fosse sensibile al fascino di Antonio. Ebbero
due figlie, che Ottavia allevò nella loro casa di Atene assieme ad altri tre
figli delle loro precedenti unioni. Sembra che nessuno si preoccupasse
dei legami di Antonio con Cleopatra.

OTTAVIANO: AMORE E GUERRA


A ventiquattro anni, Ottaviano dovette affrontare le peggiori crisi alle
quali si fosse mai trovato davanti. Combatté una campagna militare di
gran lunga più pericolosa di tutte quelle precedenti, e incontrò l’amore
della sua vita – una donna che lo trasformò in meglio.
Ancora non aveva consolidato il proprio potere in Occidente. Dovette
sconfiggere Sesto Pompeo, l’ultimo figlio sopravvissuto del rivale di
Cesare, Gneo Pompeo Magno. Sesto Pompeo controllava i mari intorno
all’Italia con una flotta di stanza in Sicilia. Era un personaggio astuto e
seducente, che sosteneva la repubblica e offriva asilo alle vittime delle
proscrizioni. Sebbene affamasse l’Italia bloccando le navi che
trasportavano il grano, era popolare in una Roma ormai stanca delle
purghe e delle confische di beni. Ottaviano e Antonio furono costretti a
riappacificarsi con lui e a riconoscere il suo regno. Ottaviano riconobbe
il potere di Sesto anche sposando una sua zia acquisita, Scribonia. Era
una donna forte e severa, di circa dieci anni più anziana di lui.
Poi, nel 39 a.C., Ottaviano incontrò Livia. Il momento non avrebbe
potuto essere più teso. Si era appena rasato la barba che si era fatto
crescere in segno di lutto per Cesare, dopo averla portata per cinque anni.
Livia Drusilla aveva all’epoca diciannove anni, era nobile, brillante e
avvenente. Ottaviano, a sua volta, era bello e ricco. È vero che tre anni
prima l’aveva fatta inseguire per l’Italia dalle sue truppe, dopo che lei
aveva appoggiato i suoi nemici, Fulvia e Lucio, in guerra a Perugia. Ma,
alla fine, essa aveva potuto fare sicuro ritorno a casa. Come Ottaviano,
Livia era sposata. Ed era anche incinta – come lo era Scribonia. L’amore,
però, rompeva ogni regola, e questo lo rendeva irresistibile.
Per Livia, a diciannove anni, conquistare il cuore di Ottaviano era un
successo pari a quello che era stato per il diciassettenne Ottaviano
ottenere la benevolenza di Cesare. Come avrebbero mostrato gli eventi
futuri, era l’anima gemella di Ottaviano, che eguagliava per intelligenza e
ambizione. Ma lui era un uomo politico, e quindi la vicenda non si
riduceva, per dirla con Shakespeare, a un matrimonio di anime fedeli.
Livia gli offriva un notevole progresso in termini di rispettabilità, poiché
proveniva dal più nobile sangue blu. I suoi progenitori avevano occupato
nell’élite romana un rango superiore a quelli di Scribonia. I suoi antenati
avevano ricoperto i più alti incarichi di Roma, e fra loro comparivano
statisti, generali, oratori e riformatori. Quelli di Scribonia al confronto
erano meno influenti. Inoltre, Scribonia irritava il marito
rimproverandogli il suo adulterio. E aveva fatto il suo tempo anche
quanto a utilità politica, poiché i rapporti di Ottaviano con Sesto
Pompeo davano già segno di guastarsi.
Il 14 gennaio del 38 a.C. Scribonia dette alla luce una bambina, che
venne chiamata Giulia. Quello stesso giorno, Ottaviano divorziò da lei;
nello stesso tempo, anche il marito di Livia fece lo stesso. Così, il 17
gennaio Ottaviano e Livia erano marito e moglie.
Quando si sposarono Livia era incinta di sei mesi. Tre mesi dopo,
quando già viveva in casa di Ottaviano, partorì un bambino, Druso, che
si aggiunse al figlio più grande, Tiberio, di tre anni. La gente spettegolava
e diceva: «Ai fortunati nascono bambini dopo tre mesi»30. La frase
divenne proverbiale, ma riferita a Livia si rivelò particolarmente crudele,
perché l’unico bambino che avrebbe concepito con Ottaviano nacque già
morto. I due, comunque, sarebbero rimasti sposati per cinquantadue
anni, nonostante egli desiderasse una dinastia che lei non poté dargli.
Ottaviano avrebbe potuto divorziare, ma una scelta del genere sarebbe
stata pericolosa, perché Livia avrebbe potuto risposarsi e creare un nuovo
centro di potere rivale. Avrebbe potuto ucciderla, infangando però la
propria reputazione. Forse Ottaviano rimase sposato con Livia perché
l’amava e l’ammirava. Forse lei si rivelò fin dall’inizio una fonte di
saggezza e di sostegno. Negli anni successivi, sarebbe stata una delle
figure politiche più scaltre di Roma. «Amò Livia, e se ne compiacque
con singolare perseveranza», scrisse Svetonio31.
Gli accordi di pace con Sesto Pompeo non durarono a lungo. Ottaviano
riteneva il suo astuto e aggressivo rivale troppo pericoloso per una
coesistenza pacifica, e quindi riaprì le ostilità. Mise sotto torchio
l’economia italiana e sfidò l’impopolarità per mettere in piedi una nuova
enorme flotta. Andò in battaglia e più di una volta riuscì fortunosamente
a salvarsi. Ma il suo vecchio compagno Agrippa arrivò in suo soccorso in
veste di ammiraglio. Agrippa era un astuto stratega, audace in battaglia e,
soprattutto, un eccezionale organizzatore. Con lui al comando, nel 36
a.C., la flotta di Ottaviano fu finalmente in grado di infliggere a Sesto una
sconfitta decisiva in mare. Quest’ultimo fuggì ma fu presto catturato e
ucciso.

LA RESA DEI CONTI CON ANTONIO E CLEOPATRA


Antonio, nel frattempo, progettò di invadere la Partia, l’impero rivale di
Roma in quello che oggi è il territorio dell’Iran e dell’Iraq. Voleva
uomini e soldi da Ottaviano, che era però già troppo impegnato a
contrastare Sesto. Così, nel 37 a.C., Antonio si rivolse a Cleopatra, che
divenne la sua sostenitrice e ancora una volta la sua amante – presto gli
avrebbe dato un terzo figlio. Sorprendentemente, per un momento,
l’impero romano sembrò essere in preda a una follia amorosa, governato
alle opposte estremità del Mediterraneo da due coppie di amanti:
Antonio e Cleopatra, Ottaviano e Livia. E in un perverso intreccio tipico
del fervente mondo dell’élite romana, Antonio era sempre sposato con
Ottavia, la sorella di Ottaviano.
In seguito a un intreccio ancor più perverso, ognuna delle due coppie
rappresentava una contrapposta rivendicazione dell’eredità di Giulio
Cesare. In termini di diritto, Ottaviano era il legittimo figlio adottivo di
Cesare, portava il suo nome e viveva a Roma. Antonio era il più vicino
luogotenente ancora in vita di Giulio Cesare, aveva una relazione con la
sua ex amante, Cleopatra, e viveva ad Alessandria, città a suo tempo
conquistata dallo stesso Cesare. Cleopatra, inoltre, era madre non solo dei
figli di Antonio, ma anche di quello che probabilmente aveva concepito
con Cesare, e che adesso era il re dell’Egitto, Tolomeo XV,
soprannominato Cesarione. Roma e Alessandria, Cesare e Cesarione:
chi avrebbe vinto?
Ma fu l’amore, non la guerra, a dare la risposta. La situazione, infatti, si
fece sempre più tesa fra il 36 e il 32 a.C. Dapprima, l’invasione del
territorio partico da parte di Antonio si concluse con un disastro
militare. Una seconda campagna gli assicurò l’Armenia, ma si trattava di
un premio di consolazione. Nel frattempo, Ottaviano aveva il saldo
controllo dell’Italia e dell’Occidente romano. Antonio distribuì alcuni
dei territori orientali di Roma a Cleopatra e ai loro figli. Riconobbe
anche Cesarione come figlio di Giulio Cesare, e questo fu un vero
schiaffo per Ottaviano. Nel 32 a.C. Antonio ruppe definitivamente i
suoi rapporti con lui, divorziando da sua sorella. Non è chiaro se sposò
Cleopatra in forma ufficiale.
Ottaviano aveva però la meglio in termini di propaganda, soprattutto
dopo che sottrasse alle Vergini Vestali di Roma il testamento di Antonio,
in cui questi esprimeva il suo desiderio di essere sepolto ad Alessandria a
fianco di Cleopatra. Ottaviano accusò il suo rivale di tradimento,
sostenendo che Antonio aveva intenzione di trasferire là la sede
dell’impero.
Ma era davvero possibile? L’Oriente aveva più soldi, abitanti e città
dell’Occidente, e inoltre tentava di attirare a sé le terre su cui un tempo
aveva regnato Alessandro Magno, che si estendevano fino all’India. Prima
della morte di Giulio Cesare, circolavano voci secondo le quali egli
avrebbe progettato di spostare la capitale da Roma a Troia (nel territorio
dell’odierna Turchia).
Molti eminenti senatori, tuttavia, non ne erano convinti. Nonostante
tutti i suoi difetti, Antonio era uno di loro – un esponente della nobiltà
romana –, mentre Ottaviano no. Molti senatori si rifugiarono da
Antonio, ma gli altri gli dichiararono guerra. Era, però, una guerra
contro Cleopatra, più che rivolta a lui. Ottaviano astutamente la presentò
come una guerra estera, e non come un conflitto civile. Quanto ad
Antonio, di lui disse che era stato privato della sua tempra virile da una
regina straniera32.
E così guerra fu, con la Grecia come principale terreno di battaglia.
Sebbene Antonio disponesse di enormi risorse e di grande esperienza
militare, Ottaviano era temprato dalla lotta contro Sesto e incoraggiato
dal sostegno di Livia. La sua marina, comandata dal fedele e abile
Agrippa, tagliò lentamente il nemico dalle linee dei rifornimenti. La
flotta di Antonio e Cleopatra era sotto grande pressione, quando si trovò
infine ad affrontare la marina di Ottaviano al largo della penisola di Azio,
nella Grecia occidentale. Il giorno decisivo fu il 2 settembre del 31 a.C.:
Azio rappresentò una svolta epocale. Secondo una ricostruzione
attendibile della battaglia, Antonio e Cleopatra tentarono un colpo a
sorpresa ma fallirono. Poi sparirono dalla scena, lasciando la maggior
parte della loro flotta ad arrangiarsi da sola.
Ottaviano (di fatto, Agrippa) ottenne una grandiosa vittoria, che bissò
l’anno seguente invadendo l’Egitto, dove la resistenza armata si sgretolò.
Antonio e Cleopatra si suicidarono ad Alessandria, nel 30 a.C.
L’incendio era domato. Il mondo era più noioso, ma più calmo. Il
protettore di Ottaviano, Apollo, dio della ragione, aveva sconfitto il
protettore di Antonio, Ercole, simbolo della potenza. Ora Ottaviano
regnava da solo, unico signore dell’impero romano. Che effettivamente
romano sarebbe stato: Azio fece sì che il centro di gravità rimanesse a
Roma, dove sarebbe restato per altri tre secoli.
Cleopatra era un genio della strategia, ma aveva mosso il mondo grazie
all’amore. Aveva sedotto uno dopo l’altro due degli uomini più potenti
di Roma e dato loro dei figli. Era quasi riuscita a rovesciare l’impero
romano. Ma in Ottaviano aveva trovato qualcuno in grado di tenerle
testa.
Ottaviano arrivò ad Alessandria. Era il nuovo sovrano, ma si
comportava più come un capo politico che come un conquistatore,
preferendo concludere accordi con i locali invece di schiacciarli.
Il vincitore fece il suo ingresso a bordo di un carro, affiancato non da un
feroce legionario, ma dal proprio tutore, che in quella città era nato.
Ottaviano si recò nel più bell’edificio pubblico della città, il Ginnasio,
vero e proprio simbolo della cultura greca. Una volta entratovi, salì su un
palco e parlò agli abitanti del luogo – non in latino ma in greco. Disse che
li avrebbe risparmiati per tre ragioni: la memoria di Alessandro Magno,
le dimensioni e la bellezza della città e la volontà di fare un favore al suo
maestro33. Questa combinazione di regalità, cultura e nepotismo era
classica del personaggio. La clemenza nei confronti di una città di forse
mezzo milione di abitanti era una pura casualità! Di fatto, Ottaviano
risparmiò la città, ma non il suo re: fece giustiziare Cesarione. Il suo
tutore spiegò così la decisione: «Non è bene che ci siano parecchi
Cesari»34.
Ottaviano si distinse subito. Dopo aver visto il corpo mummificato di
Alessandro Magno, respinse le speranzose proposte dei locali che
volevano mostrargli le mummie dei Tolomei, replicando: «Ho voluto
vedere un re, non dei morti»35. Anche qui era il vero Ottaviano che
parlava: ironia tagliente e senso della propria maestà.
Ora l’Egitto era una provincia romana, e Ottaviano ne era il faraone. Del
prestigio della città che era stata di Alessandro e di Cesare, nonché di
Cleopatra, ora era lui a esserne investito. Con la forza delle armi e il
potere della persuasione, Ottaviano mostrò a sé stesso di essere il figlio di
Cesare.
Ma le esecuzioni non erano finite. Su suo ordine, un certo Cassio di
Parma, poeta e ultimo sopravvissuto fra gli assassini di Cesare, venne
giustiziato ad Atene36. Il figlio adottivo di Cesare aveva finalmente
portato a termine la sua vendetta. Ma a pagare per tutto ciò era stato
l’intero mondo romano.

IL MIO NOME È AUGUSTO


Una volta sconfitti Antonio e Cleopatra, Ottaviano si trovò a fronteggiare
un’altra sfida: quella di dare stabilità al sistema politico di Roma dopo un
secolo di guerre e di rivoluzioni. E doveva farlo in modo tale da
mantenere il potere senza esporsi ai pugnali che avevano abbattuto
Cesare. Cominciò con un nome, o, per meglio dire, un titolo.
Augustus fu un titolo unico e inventato per l’occasione, sebbene
richiamasse certe tradizioni romane37. Il 16 gennaio del 27 a.C. il Senato
romano deliberò che da quel momento in poi Ottaviano sarebbe stato
chiamato Augusto, o, più formalmente, Cesare Augusto.
Tre giorni prima, il 13 gennaio, Ottaviano aveva annunciato
l’intenzione di lasciare il potere, ma tutti sapevano che si trattava di una
pura e semplice rappresentazione. Aveva solo trentacinque anni, ed era
abbastanza forte da regnare ancora per molti anni. Ma l’attenta gestione
della scena ci fa capire in che modo Augusto, come d’ora in avanti anche
noi lo chiameremo, pose fine al ripetersi di guerre e di violenze.
Ben presto sarebbe stato ovunque. Non era possibile attraversare la
strada, andare a una cena, entrare in un tempio o maneggiare una moneta
senza sentir pronunciare il suo nome o vedere il suo volto, o quello della
sua bella moglie o dei suoi adorabili figli. Era stato un uomo: ora
Augusto era un marchio.
Utilizzò la propria immagine per promuovere la stabilità. Le monete
coniate nel 27 e nel 26 a.C., ad esempio, recano la sagoma familiare del
suo volto, ma con i nuovi nomi di Augusto e di Cesare38. Mostrano
immagini di pace e di abbondanza, quali corone di alloro, steli di grano e
cornucopie, evocano gli dèi Apollo e Giove, lodano Augusto per aver
messo in salvo le vite dei cittadini.
Come Augusto, anche le donne della sua famiglia erano ubique. Le loro
immagini comparivano sulle statue, sui bassorilievi, sulle gemme e,
meno comunemente, sulle monete. Venivano loro dedicati edifici,
compiuti sacrifici per onorarle, celebrati i loro genetliaci.
Augusto credeva che Roma dovesse essere rimessa a posto, non solo
politicamente, ma anche dal punto di vista dei costumi personali. La
decadenza dell’élite al riguardo lo infastidiva (essendo stato un
ragazzaccio, sapeva di cosa parlava)39. Lo inquietava anche la diminuzione
delle nascite e il segno che le vittime degli anni di guerra civile avevano
lasciato sull’ammontare della popolazione.
Fu così che finanziò un programma di riforma morale. Emanò
un’ambiziosa serie di leggi per promuovere la natalità e punire le coppie
senza figli e le persone non sposate, limitandone i diritti di successione. I
romani dovettero così di fatto pagare una tassa sul celibato. E anche
sull’adulterio, poiché Augusto trasformò in un reato pubblico i rapporti
sessuali fuori dal matrimonio con una donna sposata, vedova o nubile.
Prima di allora, questioni del genere venivano affrontate fra le quattro
mura domestiche. Vale la pena precisare che per un marito non era reato
avere una relazione extramatrimoniale con una schiava, una liberta (una
ex schiava) o una prostituta. Augusto faceva sul serio, e fece valere le sue
leggi, ma anche questo sollevò opposizioni, perché le classi più elevate di
Roma tenevano ai loro divertimenti. Alla fine queste restrizioni finirono
per ritorcersi pesantemente contro lo stesso Augusto.

LA PACE AUGUSTEA
Le guerre civili romane seguivano uno schema consolidato: dapprima
c’erano gli eventi sanguinosi, poi arrivava l’accordo. Ma era più facile
vincere la guerra che costruire la pace, poiché erano pochi i generali tanto
abili nel fare la pace quanto lo fossero in battaglia. Augusto fu
un’eccezione. L’omicida spietato venne fuori con l’esperienza. Pose
termine a un secolo di guerre civili e gettò le fondamenta di due secoli di
pace e prosperità – la celebre pax romana. Sotto la pace augustea il
commercio fiorì. Il modo più economico per trasportare le merci era via
mare. Grazie alle vittorie di Agrippa, Roma era diventata padrona del
mare, e la pirateria praticamente scomparve. Roma costituì un enorme
mercato per le importazioni granarie, ma gli scambi includevano anche
molte altre merci. La stabilità e la sicurezza delle leggi romane
incoraggiavano i prestiti in denaro, mentre un calo delle spese militari
ridusse la pressione fiscale. In breve, la situazione era matura per
consentire un’epoca positiva.
Augusto realizzò anche l’ambizioso programma che si era dato quando
aveva diciannove anni: ottenere tutto il potere e la gloria di Giulio
Cesare. Ma gli erano occorsi quindici anni, e aveva dovuto pagare un
costo pesante in termini di sangue e di finanze. Ma almeno in quel lungo
periodo una cosa l’aveva imparata: come si costruisce una pace stabile e
duratura, un compito nel quale lo stesso Cesare aveva fallito. Cesare era
signore sul campo di battaglia, ma in quello politico il figlio superò il
padre.
Come vi riuscì? Oltre al nuovo titolo, cosa spiega il suo successo?
Augusto governò a lungo. Dopo aver sconfitto i suoi rivali ad Azio nel
31 a.C., a poco meno di trentadue anni, guidò l’impero per i successivi
quarantacinque anni, prima di morire nel 14 a.C., settantaseienne.
Nessuno resse l’impero romano più a lungo di lui. Augusto ebbe il
vantaggio di poter imparare dai suoi predecessori, oltre che la saggezza di
evitare i loro errori. Durante il suo lungo regno, sperimentò varie forme
di governo e operò numerosi cambiamenti e aggiustamenti,
dimostrandosi molto flessibile.
Era enormemente ricco, avendo ereditato una fortuna da Cesare e
acquisito ulteriori beni durante la sua carriera di conquistatore.
L’agricoltura e le risorse minerarie facevano dell’Egitto uno dei posti più
ricchi della terra, e Augusto lo controllava come se fosse una sua
proprietà personale.
Fu saggio nella scelta dei suoi consiglieri. Nessuno più del suo vecchio
amico Agrippa si impegnò per mettere in atto la visione augustea. Sia
all’interno dei confini che fuori, Agrippa risolse i problemi, gestì le
situazioni, costruì il consenso e, quando necessario, lo impose. Negoziò
con i senatori e con i sovrani e finanziò grandi progetti infrastrutturali a
Roma e nelle province. Non era privo di ambizione personale, ma a
questa anteponeva sempre la fedeltà nei confronti di Augusto. Orazio lo
definisce una «volpe furbetta che vuo[l] gareggiare col prode leone»40,
riferendosi a un tempo alla sua astuzia e all’ascesa sociale che compì. Lo
stesso Augusto lo avrebbe lodato come un uomo le cui virtù erano
riconosciute da tutti41.
Augusto fu machiavellico secoli prima di Niccolò Machiavelli, colui
che avrebbe consigliato agli usurpatori di inaugurare i loro regni
mettendo in atto tutti i provvedimenti crudeli che ritenessero più
necessari, per poi governare in modo tale da calmare e arricchire il
popolo, in modo da averlo dalla propria parte42. Fare l’opposto – cioè
partire blandamente per poi incrudelirsi – si sarebbe rivelato fatale.
E Augusto non partì certo in sordina43. Dal 43 al 30 a.C. combatté,
mentì, ingannò e calpestò la legge. Si stima che fece uccidere più di cento
senatori44. Poi, dopo aver sconfitto tutti i suoi oppositori interni, si
dedicò a conservare la pace all’interno e limitò l’espansione militare
contro nemici stranieri – e mai romani. E comunque, per quanto
moderato diventasse, sottolineò sempre il fatto che il suo governo
dipendeva dai suoi soldati. Che soddisfece, concedendo a diverse
centinaia di migliaia di veterani terre, soldi o entrambe le cose,
insediandoli nelle colonie italiane e fuori d’Italia45.
Era una politica molto costosa, e dapprima la finanziò con i proventi
delle guerre; poi, dopo il 6 d.C., impose tasse ai ricchi. Mantenne un
occhio vigile per scoprire eventuali opposizioni fra i comandanti, visti
come potenziali nuovi Cesari. Ridusse le dimensioni dell’esercito da
oltre sessanta legioni (pari approssimativamente a un numero totale di
trecentomila uomini, comprese la fanteria leggera e la cavalleria) a
ventotto. Ciò permise di ridurre le imposte ma diminuì anche la capacità
dell’impero di estendere i propri confini. Si capisce quindi che Augusto,
invece di riprendere la guerra contro la Partia, negoziasse una pace.
Ma ciò detto, non pose affatto termine all’espansione. I romani si
aspettavano che i loro governanti conquistassero nuovi territori,
dimostrando così di avere il favore degli dèi. E Augusto assolse a questa
responsabilità con entusiasmo. Come scrisse Virgilio, il suo poeta
preferito, Roma aveva il dovere di realizzare l’«imperium sine fine»46.
Augusto quindi conquistò nuovi territori nella Hispania, nei Balcani
settentrionali e in Germania, oltre ad annettere l’Egitto. La ricchezza
ottenuta grazie alle conquiste contribuì a finanziare i nuovi progetti da
realizzare a Roma.
Sebbene non fosse un comandante nato, quando poté Augusto
partecipò personalmente alle campagne militari. In anni più tardi, lasciò il
comando ad altri – preferibilmente, membri fidati della sua stessa
famiglia. Forse fu allora che prese l’abitudine di indirizzare inviti alla
cautela ai suoi generali: «Affrettati lentamente»47.
Voleva attaccare ad est e conquistare la Germania fino all’Elba. Ma subì
un brutto colpo quando, nel 9, Publio Quintilio Varo perse tre legioni,
vale a dire circa quindicimila uomini, nella foresta di Teutoburgo. Il
disastro ridusse il numero delle legioni da ventotto a venticinque per
un’intera generazione. Ma la conseguenza più importante a lungo
termine è che costò a Roma il controllo della maggior parte della
Germania. Si racconta che quando apprese la notizia, Augusto gridasse:
«Quintilio Varo, rendimi le mie legioni!», e lo fece non solo una volta,
ma ripetutamente nei mesi successivi. Di nuovo si fece crescere la barba
in segno di lutto, sebbene in questo caso solo per qualche mese.

RESTAURAZIONE O RINNOVAMENTO
DELLA REPUBBLICA?
Da Giulio Cesare, Augusto aveva appreso che il potere scaturisce dalla
lama di una spada. Tuttavia, a meno che non potesse contare sull’aiuto di
una mano tesa e di un cuore ben disposto, il potere sarebbe svanito con
lo scintillio della lama di un pugnale. Anche questo, Augusto lo aveva
appreso da Cesare.
Procedendo per tentativi, Augusto trovò un modo per adattare le
tradizionali procedure costituzionali romane alle nuove circostanze. Non
contava se nel far questo ne modificasse completamente il senso. Si
trattava di una soluzione pragmatica al problema del governo di un solo
uomo, ed era tipicamente romana. I romani, come tutti, a volte entravano
in agitazione di fronte a una crisi, ma alla fine davano prova di essere in
grado di cambiare. Augusto era l’incarnazione di questa adattabilità del
suo paese.
Egli chiese al Senato di accordargli i poteri di un tribuno della plebe,
vale a dire di proporre la legislazione e di esercitare il veto. I dieci tribuni
della plebe rappresentavano gli interessi della gente comune. Sebbene
continuassero a esistere, di fatto avevano ceduto il loro potere ad
Augusto, e così sarebbe stato con i suoi successori. Augusto chiese,
inoltre, il potere militare supremo sia a Roma sia nelle province. Il
Senato accettò, in quanto senza dubbio non aveva altra scelta, ma in tal
modo dette una base giuridica al potere di Augusto.
Il quale basò la posizione raggiunta a Roma non solo sui poteri legittimi
che gli erano riconosciuti, ma anche sulla propria auctoritas, che
comportava non solo autorità, ma anche prestigio, rispetto e capacità di
ispirare timore reverenziale48.
Augusto aveva una spiccata sensibilità, tipicamente romana, per il
potere. Era consapevole che i regimi riusciti sono quelli che non si
limitano semplicemente a reprimere l’opposizione, ma quelli che la
cooptano. E così concesse ai senatori un certo livello di influenza e di
onore.
Senza dubbio, tuttavia, pensava al Senato di un tempo. Come scrisse
Tacito, le funzioni di quell’organo si erano molto ridotte: la repubblica
non era che una semplice parvenza49. Il nuovo Senato, ad esempio, non
controllava più la politica estera, le finanze e la guerra. Sotto la
repubblica, i senatori avevano governato le province, e ancora lo
facevano, ma in generale solo quelle meno importanti. Augusto tenne per
sé le province chiave lungo i confini, dove maggiore era la
concentrazione di truppe. Lo stesso fece per l’Egitto. Le autorità locali
erano composte non da senatori ma da equites. Questi costituivano un
gruppo di uomini estremamente ricchi, presenti un po’ in ogni zona
dell’impero, quasi pari ai senatori quanto a patrimoni e assai più
numerosi di essi. Augusto e i suoi successori ricorsero sempre più
ampiamente agli equites utilizzandoli come ufficiali dell’esercito e
amministratori, con gran disappunto dei senatori. Atterriti dalla
memoria di coloro che erano caduti nelle guerre civili o erano stati
estromessi con le epurazioni, tutti i senatori proclamavano il proprio
appoggio all’imperatore. Lui stesso aveva solo un piede nell’antica
aristocrazia romana – circostanza che i suoi oppositori non mancavano
mai di fargli ricordare – e, in un certo senso, individuava la sua principale
base di consenso nell’élite italiana, più che nelle maggiori famiglie di
Roma. E guardava anche molto più in là. Infatti, dopo essere tornato
dalla guerra civile nel 28 a.C., passò un altro decennio fuori dall’Italia,
impegnato in una serie di viaggi di natura militare e politica in giro per
l’impero50, trascorrendo più tempo all’estero di qualsiasi altro imperatore
prima di Adriano, che regnò dal 117 al 138.
Come prima di lui Giulio Cesare, Augusto spostò il potere dalla città di
Roma per attribuirlo maggiormente alle province. Gettò le basi di quella
che sotto i suoi successori sarebbe diventata una classe dirigente
internazionale. Per i romani era qualcosa di nuovo, mentre a noi oggi
appare un fenomeno familiare, la definiamo globalizzazione.
Da un capo all’altro dell’impero, dalle Isole britanniche all’Iraq, le
persone condividevano una stessa cultura. In questo contesto, «popolo»
significava una minuscola élite privilegiata, ricca e colta. I suoi membri
avevano la medesima educazione, valori comuni e ambizioni simili.
Vestivano allo stesso modo, citavano la stessa letteratura classica,
sfoggiavano le medesime abilità retoriche, vantavano le stesse maniere a
tavola, e puntavano a fare lo stesso tipo di carriera. Come l’odierna «élite
di Davos», appartenevano a un rarefatto club globalizzato. Ai nostri
giorni, un CEO della Silicon Valley californiana ha spesso più elementi
in comune con un suo pari grado di Mumbai che con un coltivatore di
aglio della vicina Gilroy. Così, nei tempi antichi, un proprietario
terriero romano in Gallia aveva più aspetti in comune con un suo
omologo siriano che col contadino che viveva lì accanto.
Chi più aveva da rimetterci erano gli abitanti della città di Roma: sia la
vecchia nobiltà, che dovette cedere il monopolio del potere politico, sia i
comuni plebei, che persero il diritto di partecipare alle elezioni. La
politica come era esistita nella repubblica – ingarbugliata, vivace, ristretta,
limitata, eccentrica, talvolta violenta ma sempre libera – non c’era più. Al
suo posto erano subentrati l’ordine, l’internazionalizzazione e il
controllo; in poche parole, l’imperatore e i suoi collaboratori. Nel
frattempo, la società imperiale risultava spaccata in due fra un minuscolo
gruppo dirigente e la massa della gente comune.
In teoria, Roma era sempre una repubblica, e Augusto era solo un
pubblico ufficiale che esercitava poteri più ampi per contro dell’SPQR,
Senatus Populusque Romanus. In pratica Augusto era un sovrano, ma il
fondatore dell’impero romano non si definì mai re, e meno che mai
imperatore, almeno non a Roma. Era troppo guardingo per farlo.  -
Semmai, si definì con una serie di altri titoli, i più importanti dei quali
erano Cesare, Augusto, imperator e princeps, vale a dire primo cittadino.
Il nostro termine «imperatore» deriva dal latino imperator, il cui
significato era in origine quello di «generale vittorioso». Augusto sapeva
che lo spirito della libertà repubblicana – l’impulso che aveva ucciso
Giulio Cesare – sopravviveva ancora. Così, avendo ottenuto il potere
supremo, procedette a mascherarlo. Nell’Oriente di lingua greca spesso
Augusto veniva chiamato re, ma non a Roma.
Augusto risiedeva in un edificio sul Palatino. I suoi successori vi
avrebbero costruito splendidi palazzi, lui invece viveva in un contesto
relativamente modesto, ma solo relativamente, in quanto le sue proprietà
comprendevano, ad esempio, un tempio di Apollo. Il Palatino, che in
precedenza era un quartiere per famiglie ricche, sarebbe presto diventato
un luogo riservato agli imperatori e ai loro cortigiani. E tuttavia, quando
Augusto scendeva fino al Foro per prendere parte alle sedute del Senato,
aveva cura di salutarne ogni membro chiamandolo per nome, senza
suggerimento alcuno, e non pretendeva che i senatori si alzassero dai loro
seggi in sua presenza51. Né consentiva alla gente di chiamarlo «signore»
(dominus)52; sarebbero passati tre secoli prima che uno dei suoi successori
assumesse tale titolo.
Augusto gestì il cambiamento utilizzando non il linguaggio della
rivoluzione, bensì quello della riforma e del rinnovamento. Nel 27 a.C.
trasferì «il governo dello Stato dalla [sua] potestà al libero volere del senato
e del popolo romano»53. Utilizzò termini tali da lasciar pensare che avesse
restaurato la repubblica, ma che potevano anche semplicemente
significare che aveva ripristinato il governo costituzionale o che aveva
rinnovato la repubblica – e non che avesse riportato il sistema alla forma
che aveva prima di Giulio Cesare54.

UNA CITTÀ DI MARMO


Augusto trasformò i comuni cittadini di Roma da sporchi attori politici
a spettatori viziati. E completò la trasformazione della città dall’agile e
formidabile macchina da combattimento che era allo spettacolare
palcoscenico di una capitale imperiale.
Giulio Cesare aveva già dato a Roma un nuovo foro. Augusto si spinse
oltre, e di fatto ridisegnò il panorama cittadino imprimendogli il segno
del suo nome e di quello della sua famiglia. Alla fine degli anni Trenta
a.C., ancora non trentacinquenne, cominciò a costruire il proprio
mausoleo. Era una grandiosa tomba dinastica per se stesso e la sua
famiglia allargata, il più alto edificio esistente in città. Era costituita da
una collina artificiale appoggiata su una base di marmo bianco, ricoperta
di piante sempreverdi e coronata da una statua bronzea dello stesso
Augusto. L’esterno era decorato con il bottino delle battaglie, elemento
che faceva dell’edificio un memoriale e un trofeo di guerra, oltre che un
sepolcreto. Le sue enormi rovine sono ancora oggi visibili nella zona del
Campo Marzio.
Nel 29 a.C. Augusto consacrò un tempio al divo Giulio Cesare. Situato
all’estremità del Foro, nel luogo in cui era stato cremato il corpo di
Cesare, ne costituiva il sepolcro. Inoltre, Augusto dette a Roma un
nuovo Foro, comprendente il tempio di Marte Ultore – vale a dire
vendicatore di Giulio Cesare – e una galleria di statue di celebri
personalità romane. Il fatto che i lavori venissero finanziati con i bottini
di guerra aumentò il prestigio del progetto agli occhi dei romani55.
Augusto costruì anche un arco della vittoria, una meridiana e un
meraviglioso nuovo altare della pace. I membri della sua famiglia
costruirono o rinnovarono templi, acquedotti, terme, teatri, parchi e
porticati. Sul suo letto di morte Augusto avrebbe detto: «Ho ricevuto
Roma di terra; ve la lascio di marmo»56. Se la frase voleva essere una
metafora della forza dell’impero, di fatto era letteralmente vera se riferita a
gran parte della città materiale.
Sotto Augusto i poeti e gli storici formularono l’idea di Roma come
Città Eterna. Era una vivida metafora del duraturo potere che Augusto
sperava avrebbe contraddistinto il suo nuovo regime. E sebbene l’impero
sia da lungo tempo scomparso, il nome rimane57.
Augusto era molto attento ai poveri della capitale, che in passato erano
stati fonte di sommosse e rivoluzioni. Rese più efficaci le tradizionali
distribuzioni di grano a loro destinate e varò programmi di lavori
pubblici. Per mantenere l’ordine nelle strade, istituì la prima forza di
polizia di Roma e schierò anche la propria guardia personale ai margini
della città. I pretoriani, o guardia pretoriana, dal nome utilizzato per
indicare la guardia personale di un generale, avrebbero costituito un
corpo destinato a svolgere un ruolo cruciale nella futura politica
imperiale.
Augusto utilizzò non solo il bastone, ma anche la carota. Fece delle
celebrazioni un tratto distintivo del proprio regime, senza dubbio in base
al principio secondo il quale se il popolo si comportava come se fosse
felice, lo sarebbe stato veramente. Nel 29 a.C., dopo essere rientrato
dall’Egitto, inscenò un magnifico trionfo per rappresentare la
conclusione delle guerre civili. Da grande impresario qual era, Augusto
superò tutti i precedenti capi romani allestendo giochi e spettacoli più
grandiosi, di migliore qualità e più frequenti. I suoi Ludi saeculares, o della
nuova era, nel 17 a.C., furono due settimane spettacolari di
manifestazioni sportive, rappresentazioni teatrali e musicali, sacrifici di
animali, raduni in cui si mangiava e si beveva. Ogni volta che Augusto si
recava ad assistere a un gioco o a uno spettacolo, si assicurava che la folla
lo potesse vedere intento ad osservarlo attentamente, e faceva sapere che
apprezzava un buono spettacolo58. Nelle sue apparizioni pubbliche, si
preoccupava di dare di sé l’immagine di un capo. Ad esempio, dato che
era di altezza media per gli standard dell’epoca, circa un metro e settanta,
usava delle calzature piuttosto alte, per non sembrare piccolo59.

UNA VIA DI MEZZO FRA UNA ROCKSTAR


E UN SANTO
Augusto mise la religione al proprio servizio per propagandare
l’immagine del regime. Per lui non era sufficiente conquistare i corpi:
voleva anche l’anima della gente. Introdusse a Roma la monarchia sacra,
traendone i concetti fondamentali dai grandi regni greci dell’Oriente,
dove Cleopatra e i sovrani suoi alleati erano stati da lungo tempo venerati
in svariate forme. Ma provvide accortamente a conferire un accento
romano alla monarchia greca.
Augusto fondò il culto imperiale che riconosceva in lui il figlio di un
dio (Giulio Cesare) a Roma e lo status di un essere divino altrove. Nel
mondo antico, avere il crisma della divinità significava essere qualcosa di
simile a quello che ai nostri giorni sarebbe un connubio fra una rockstar e
un santo. Né i greci né i galli ebbero problemi a riconoscere ad Augusto
un simile status, ma ciò rappresentava un oltraggio agli ideali
repubblicani di uguaglianza, per cui egli arrivò vicino ad accettare onori
divini a Roma ma di fatto non lo fece mai. Nel suo nuovo Foro, ad
esempio, fece collocare un’imponente statua del Genius Augusti (lo
spirito protettore di Augusto), che gli assomigliava senza però raffigurarlo
realmente. Nel frattempo, in Oriente fu introdotto un popolare culto di
Roma e di Augusto, mentre la Gallia e la Germania furono centri di
culto imperiale.
In molte città delle regioni occidentali dell’impero fiorirono
organizzazioni private locali che diffusero la parola di Augusto e lo
onorarono. La maggior parte dei loro componenti erano liberti, vale a
dire schiavi affrancati, circostanza che dimostra come il messaggio di
Augusto si estendesse anche al di là della classe dei cittadini. Nel
frattempo, gli uomini di cui egli aveva promosso la carriera,
indipendentemente dal loro rango, ripresero i temi dell’arte e
dell’architettura augustee nelle loro tombe e nelle steli funerarie.
Perfino Roma accettò che Augusto avesse qualcosa di divino. Dopo
aver riorganizzato la capitale in 265 vici o quartieri finanziò l’erezione di
nuovi altari agli incroci di ognuno di essi, con la conseguenza che vi
venne venerato accanto agli dèi. In occasione di banchetti pubblici e
privati, fu data disposizione di mescere vino per poter bere alla salute
dell’imperatore60.
Il padre romano era anche un sacerdote, e in quanto capo della sua
famiglia aveva la responsabilità di mantenere un rapporto adeguato con
gli dèi. In qualità di sacerdote supremo, o pontefice massimo,
l’imperatore faceva lo stesso per tutta Roma. Augusto tracciò l’indirizzo
che sarebbe stato mantenuto in futuro: la religione era di competenza
dell’imperatore, e molti dei suoi successori avrebbero attivato importanti
riforme in questo campo.
Il regno di Augusto rappresentò un momento classico nella storia del
mondo. Fu una delle più creative e durature ere della storia politica
occidentale, che generò concetti fondamentali come quelli di imperatore,
principe e palazzo. La stessa espressione «età augustea» indica un periodo
di pace, prosperità e fioritura culturale sotto un capo politico illuminato e
regolato. Scrittori come Virgilio, Orazio e Ovidio, così come lo storico
Livio, fiorirono sotto Augusto, che era colto e amava la letteratura.

L’IMPRESA DI FAMIGLIA
Augusto condusse il proprio regime come un’azienda di famiglia.
Mantenne chiusa la cerchia e si appoggiò a un gruppo di uomini e donne
affidabili legati a lui da vincoli di sangue o da parentela. Questa impronta
familiare gli permise di darsi una connotazione più umana nel processo
di comunicazione con il mondo esterno. Tutti amano i drammi familiari,
ma pochi si appassionano ai particolari delle costruzioni stradali o dei
rifornimenti di grano.
Il ruolo della famiglia nella politica romana non era nuovo. Alcune
illustri dinastie aristocratiche avevano sempre dominato la politica
romana in ogni periodo della repubblica. La novità era che da quel
momento in poi avrebbe governato solo una casata, quella Giulia. Si
trattava, però, di un compito impossibile per una famiglia, per cui era
senz’altro logico che Augusto ne aumentasse le risorse, sia maschili sia
femminili. Fece entrare nella famiglia Agrippa, il suo più fidato
luogotenente, dandogli in sposa sua figlia Giulia. Alla fine Augusto
adottò i loro figli. Aumentò anche i poteri di Agrippa, fino al punto da
farlo diventare di fatto un suo vice e un suo potenziale erede.
Le donne esercitavano un ruolo importante nell’azienda di famiglia di
Augusto. Sulla scena della tarda repubblica erano comparse alcune delle
più potenti donne della storia antica. Poi fu la volta di Livia, la più
potente di ogni altra. Eppure non era esibizionista né lasciva, almeno non
dopo che a diciannove anni, e in attesa di un bambino, ebbe lasciato il
marito per Ottaviano. Per il resto della sua vita, indossò una maschera
fatta di modestia e semplicità, come l’uomo che sposò, e faceva pesare la
sua volontà dietro le quinte.
La nuova Livia fece uno sforzo per presentarsi come l’ideale moglie e
madre romana, il simbolo stesso della vita familiare. Non interferì mai
apertamente nella politica o nelle vicende pubbliche di suo marito, e
svolse così la propria parte nel tentativo che il regime stava compiendo di
differenziarsi dagli eccessi della tarda repubblica.
Ma Livia esercitava in realtà un’influenza straordinaria, con cui solo
Ottavia, la sorella di Augusto, poteva quasi rivaleggiare. Augusto le rese
entrambe inviolabili (sacrosante), come i tribuni della plebe, le affrancò
dalla tutela maschile e le fece onorare con opere scultoree. Entrambe
controllavano un’enorme ricchezza, gestivano una vasta famiglia e
finanziavano perfino edifici pubblici. Livia, però, era più vicina ad
Augusto, e visse molto più a lungo di Ottavia, che morì nell’11 a.C.
Secoli dopo, nel Medioevo, una celebre vicenda amorosa avrebbe
testimoniato il durevole prestigio di cui Livia godeva. Il teologo francese
Pietro Abelardo sedusse la sua brillante studentessa Eloisa d’Argenteuil.
Sebbene entrambi dovessero scontare gravi conseguenze a causa della loro
relazione, la ragazza non ebbe rammarichi. Una volta scrisse in tono
spavaldo ad Abelardo che avrebbe preferito essere la sua prostituta
piuttosto che l’imperatrice di Augusto61. Si deve ammettere che come
esempio di privilegio coniugale scelse bene.
L’imperatore Caligola, che era suo bisnipote, la definì un Ulisse con la
stola62, intendendo con ciò un modello di astuzia calato nella veste di lino
tradizionalmente indossata dalle donne romane, e quindi un’immagine di
modestia. Lei ed Augusto, il re degli strateghi, un Carl von Clausewitz in
toga, costituivano una coppia senza confronti.
Uno dei segreti del successo di Augusto fu una certa androginia, o
quella che almeno appare tale a un occhio moderno che osservi i molti
ritratti scultorei che ce lo mostrano giovane e senza età63, con un volto
dolce anche quando indossa un’armatura. Augusto era sia un uomo che
piaceva agli uomini sia il più grande amico che le donne dell’élite romana
avessero mai avuto. A volte, sembra che si rivolgesse quasi come un
politico odierno al suo elettorato. Ovviamente, nessuna donna romana
esercitava il diritto di voto, ma le donne dell’élite disponevano di enormi
ricchezze ed esercitavano anche un potere politico di fatto.
Livia era uno dei consiglieri più fidati di Augusto. Lo accompagnò nei
suoi viaggi in giro per l’impero, diversamente dalla prassi fino ad allora
invalsa secondo cui gli uomini lasciavano le mogli a casa quando erano
impegnati in affari all’estero. Anche altre donne dell’élite cominciarono a
viaggiare con i loro mariti e talvolta a prendere parte alle loro decisioni.
Quando doveva discutere di questioni importanti, anche con Livia,
Augusto scriveva in anticipo degli appunti e li leggeva da un taccuino per
riuscire a trattare i vari argomenti in modo essenziale. Da parte sua Livia
archiviò le carte del marito, e le avrebbe tirate fuori nel momento in cui
servirono, dopo la sua morte64.
Una tradizione letteraria ostile e talvolta brillante trasformò Livia in una
sorta di strega65. Veniva dipinta come un’avvelenatrice che aveva ucciso
uno dopo l’altro i maschi della discendenza di Augusto e anche il proprio
nipote, e infine lo stesso marito, in modo tale che il figlio che aveva
avuto dal suo precedente matrimonio, Tiberio, potesse ereditare
l’impero e lei stessa potesse esercitare il potere all’ombra del trono.
Sebbene questa storia sia materia di romanzi e sceneggiati televisivi, si
tratta in realtà di un mito. Le donne forti facevano parte della cultura
romana, ma così anche la misoginia. Una donna potente, insomma,
attirava calunnie, e in nessun caso questo è vero quanto per Livia.
Nonostante fosse subordinata al marito, era riuscita a ritagliarsi un
proprio spazio nella sfera pubblica. La sua immagine era molto meno
popolare di quella di Augusto, e tuttavia seppe sfruttarla al massimo. Una
storica dell’arte la definisce «la prima donna nella storia occidentale che
sia stata raffigurata sistematicamente in ritratti»66. Livia imitò e rese
popolare un nuovo stile di pettinatura, il nodus, realizzato arrotolando
all’indietro i capelli sopra la fronte, e sfoggiato per prima da sua cognata
Ottavia. Livia contribuì a far sì che nel mondo romano il nuovo stile
superasse per popolarità quello di Cleopatra con le sue trecce ben tirate.
Senza dubbio, Livia era una donna che sapeva come far uso della
pubblicità; ad esempio, diffondendo la storia di un miracolo che si
asseriva fosse avvenuto non molto prima che si sposasse con Ottaviano.
Mentre stava facendo ritorno alla sua proprietà a nord di Roma, si narra
che un’aquila le lasciò cadere in grembo una gallina bianca che teneva nel
becco un rametto di alloro. Ritenendo che si trattasse di un grande
presagio, Livia decise di allevarla e di piantare il rametto. La gallina fece
così tanti pulcini che la villa fu poi denominata Ad gallinas67. L’alloro
crebbe vigorosamente, e Augusto inaugurò la pratica, continuata dai suoi
successori, di portarne con sé un ramo quando celebrava i propri trionfi.
Livia fece raffigurare il miracolo nel celebre Giardino dipinto, un affresco
che decorava i muri di una camera sotterranea della sua villa,
probabilmente usata per mangiarvi durante le calure estive. Donna
potente, Livia potrebbe anche aver montato la storia del miracolo per
rafforzare la propria autorità. Almeno uno tra gli storici antichi di epoca
più tarda, Cassio Dione, dimostrò di pensarla così quando scrisse: «Livia
era destinata ad accogliere nel suo grembo anche la potenza di Ottaviano
e a guidarlo in tutti i suoi atti»68.

PIANI PER LA SUCCESSIONE


Come ogni buon gestore di un’impresa familiare, Augusto pensava a
lungo termine e pianificò la propria successione. La sua stessa esperienza
come erede di Giulio Cesare evidenziava la necessità di adottare una
prospettiva del genere. Augusto fece dei progetti, ma trovò più difficile
costruire una dinastia che sconfiggere il suo più feroce nemico in guerra
o il suo più scaltro rivale politico.
Da Livia Augusto aveva avuto solo un bambino che era nato morto. I
due figli che lei aveva avuto dal primo matrimonio, Tiberio e Druso,
diventarono degli eccellenti soldati, e se Augusto li utilizzò appieno, in
realtà i suoi piani per la successione guardavano altrove.
Se una famiglia costituisce un’azienda, i suoi componenti devono
mettere da parte i loro desideri e le loro aspirazioni personali per il bene
della ditta. Ciò lascia inevitabilmente sul campo delle vittime, e più di
una persona rimase segnata dalle esigenze dinastiche di Augusto.
Nessuno pagò un prezzo più alto di Giulia, la sua unica figlia biologica.
La donna era frutto di una separazione, poiché suo padre aveva divorziato
da sua madre Scribonia il giorno stesso in cui lei nacque. Scribonia non
si sarebbe mai risposata, e Giulia venne cresciuta in casa di suo padre e
della sua matrigna Livia.
Nonostante questo difficile contesto, Giulia divenne una donna
brillante e spiritosa69. Era popolare fra la gente, che la considerava
un’anima tenera e gentile. Quanto a lei, si faceva vanto ed era orgogliosa
del proprio status di unica discendente in linea di sangue da Augusto.
Purtroppo per lei, era anche la sua fattrice.
Augusto la dette dapprima in sposa al giovane e ambizioso figlio di sua
sorella Ottavia. Quando però lo sposo morì prima che la coppia avesse
avuto figli, dette in sposa Giulia ad Agrippa – facendo in modo che il suo
consigliere divorziasse prima dalla moglie. Giulia e Agrippa ebbero tre
figli maschi e due femmine. Nel 17 a.C. un gioioso Augusto adottò i
due bambini più grandi, e i suoi nipoti Gaio, di tre anni, e Lucio, appena
nato. Presto prese ad allevarli come suoi successori.
Un decennio dopo, Augusto sfoggiò la propria famiglia sull’Ara Pacis
Augustae, l’altare della pace augustea. La struttura in marmo bianco, in
origine dipinta con colori vivaci, è uno dei monumenti più belli e
famosi del mondo antico. Consacrato nel 9 a.C., l’altare è scolpito con
raffinati bassorilievi rappresentanti scene di fertilità e di sacrifici, e mostra
la famiglia imperiale in solenne processione. La prima famiglia di Roma
vi appare come Augusto stesso desiderava fosse vista: patriottica,
dignitosa e unita, oltre che come un simbolo di pace, prosperità e pietà.
Ma la realtà era diversa.
Agrippa compare fra i membri della famiglia, anche se era morto nel 12
a.C., a cinquantuno anni. Augusto gli rese onore pronunciando
l’orazione funebre e seppellendo le sue ceneri nel proprio mausoleo. Ma
Giulia, così, era rimasta di nuovo vedova.
Augusto decise di farla sposare con Tiberio, il figlio di Livia. Ma il
matrimonio fu un fallimento, e Tiberio si autoimpose un esilio nell’isola
greca di Rodi. Giulia frequentava un gruppo di gente sofisticata, ed ebbe
una sequela di amanti, e a quanto pare non era la prima volta. Quando
suo padre si lamentò del fatto che avesse intorno troppi giovanotti,
sembra che gli rispondesse di non preoccuparsi, perché sarebbero
invecchiati con lei70. Quando in un’altra occasione le fu chiesto come
riuscisse ad avere relazioni con altri e a partorire figli che somigliavano al
marito, si dice che rispondesse dicendo che prendeva passeggeri a bordo
solo quando la nave era piena (vale a dire quando era già incinta)71.
Oggi potremmo interpretare un simile atteggiamento come una
reazione alla tremenda pressione che il padre esercitava su di lei per avere
un erede. Augusto trovava il suo comportamento imbarazzante, ma il
peggio doveva ancora venire.

IL PADRE DELLA PATRIA, E DI GIULIA


Nel 2 a.C. il Senato e il popolo romano deliberarono l’attribuzione ad
Augusto di un nuovo titolo: padre della patria72. L’imperatore aveva
sessant’anni. Si trattava di un grande onore, prima di allora concesso solo
a Giulio Cesare e, in modo informale, a Cicerone. Coronava il suo
programma di porre la famiglia Giulia al centro dello Stato romano. Ma
conteneva in sé anche un tratto di amara ironia, poiché in seguito, quello
stesso anno, Augusto fu costretto a far fronte all’evidenza del tradimento
di sua figlia.
Giulia e i giovanotti di cui si contornava erano politicamente dannosi
per Augusto. Varie fonti sostengono che Giulia si comportava
scandalosamente con loro in pubblico, ma non si può fare affidamento su
tali storie pettegole e misogine. Quel che è certo è che uno dei suoi
amanti era Iullo Antonio, il figlio sopravvissuto di Marco Antonio (e di
Fulvia). Il pensiero che Giulia potesse voler divorziare da Tiberio e
sposare il figlio di Marco Antonio rischiava di concedere al vecchio
rivale di Augusto una vendetta dall’oltretomba.
Augusto reagì con la durezza di un pater familias e la freddezza di un
sovrano. Fece esiliare la maggior parte degli amanti di Giulia e condannò
Iullo Antonio a togliersi la vita. Quanto a sua figlia, decretò brutalmente
il suo divorzio in nome di Tiberio (senza consultarlo) e la mandò in
esilio in una desolata isoletta al largo delle coste italiane, Pandataria
(l’odierna Ventotene) – che oggi paradossalmente è diventata un luogo di
villeggiatura. Sua madre, Scribonia, ex moglie di Augusto, seguì
fedelmente Giulia in esilio. Il comportamento di Augusto poteva essere
crudele ora che Giulia aveva avuto dei figli in grado di diventare degli
eredi al trono. Non era più necessaria.
Cinque anni dopo, nel 3 d.C., Augusto concesse a Giulia di rientrare
sulla terraferma italiana, ma solo in un’appartata città del Meridione. Ma
la tragedia la perseguitò. Suo figlio Lucio morì per una malattia nel 2
d.C., l’altro figlio Gaio scomparve due anni dopo in conseguenza di una
ferita di guerra. Le loro morti privarono Augusto dei successori sui quali
aveva fatto affidamento. Quanto a Giulia, non dovette subire una
cancellazione ufficiale della sua memoria, diversamente da altri romani
che erano caduti in disgrazia, ma i produttori d’immagini dell’impero
sembrarono aver colto il messaggio quanto allo status da attribuirle. Era
stata onorata con numerose statue e iscrizioni fino al 2 a.C., ma dopo
quella data la produzione si interruppe. Il completo silenzio era certo un
complimento ben ambiguo per le donne romane, che non avevano quasi
una loro individualità fuori dalla famiglia prima della fine della
repubblica.
Augusto incontrò molte grandi donne nella sua vita, ma le tre a lui più
vicine furono sua madre Azia, che lo allevò, sua moglie Livia, che lo
ispirò, e sua figlia Giulia, che lo tradì.

LA FINE
Augusto riorganizzò le forze. Nel 4 d.C., adottò altri due figli. Uno era
Agrippa Postumo, figlio sedicenne di Agrippa e di Giulia. Fino ad allora
Augusto non lo aveva adottato, permettendogli di portare il nome della
famiglia di Agrippa, ma ora ne aveva bisogno, e quindi Postumo divenne
un Cesare. L’altro fu il figlio ancora in vita di Livia, Tiberio, che era
rientrato a Roma da Rodi. Il figlio minore di Livia, Druso, era morto in
Germania a causa di un incidente. Tiberio era un maturo
quarantacinquenne, Postumo un ragazzo. Si sarebbe visto, però, che non
aveva speranze: era forte fisicamente, ma debole di mente. Quando si
trattava della sopravvivenza del suo regime, Augusto aveva il ghiaccio
nelle vene. Così, anche se Postumo era il suo nipote biologico, revocò
l’atto di adozione e, come aveva fatto con la madre, spedì il ragazzo in
esilio. Restava solo Tiberio. Lui non aveva vincoli di sangue con
Augusto, ma era capace, esperto e poteva assicurare la permanenza della
dinastia.
Quando molti anni prima Giulio Cesare aveva adottato Ottaviano,
aveva senza volerlo stabilito un precedente, gettando le basi per il futuro
successo dell’impero. I romani avevano un atteggiamento relativamente
rilassato riguardo all’adozione, rispetto ad oggi, e vi facevano spesso
ricorso come a un mezzo per perpetuare il nome della famiglia. Anche se
preferivano adottare un parente di sangue e un adulto, piuttosto che un
bambino, non si irrigidivano sulle loro preferenze. Poiché l’imperatore
era libero di adottare un figlio e non era costretto a trasmettere il potere ai
suoi discendenti biologici, poteva essere flessibile nella scelta di un erede.
La conseguenza fu che la successione fu aperta al talento.
All’epoca in cui mandò Postumo in esilio, Augusto aveva sessantasei
anni, e cominciò ad elaborare dei seri piani per la propria successione.
Quando adottò Tiberio, gli conferì anche una parte dei propri poteri
regali. Lo mandò a difendere le violente zone di frontiera in Europa
centrale e nella regione dei Balcani, dove Tiberio passò la maggior parte
del tempo fra gli anni 6 e 12, impegnato in una serie di aspre guerre e
rivolte.
L’imperatore poteva trovarsi in un solo posto alla volta, ma doveva
essere presente ovunque. L’opera di governo di un grande impero in
un’epoca in cui la tecnologia e le comunicazioni erano a uno stadio
primitivo comportava grandi difficoltà sul piano pratico. Sarebbe stato
più sicuro tenere l’erede del potere a Roma, ma Augusto non poteva
risparmiarlo: Tiberio era un generale esperto, e l’unico uomo di cui si
fidava. Finalmente, nel 12, Tiberio rientrò a Roma. Dopo aver celebrato
un trionfo, gli fu conferito il potere di governare le province
congiuntamente ad Augusto. Ora era sullo stesso piano del princeps.
In quegli anni, Augusto dette il tocco finale alla sua carriera. Lasciò un
testamento e istruzioni per il suo funerale, nonché una dettagliata
descrizione degli atti che aveva compiuto, da iscrivere sulle colonne di
bronzo del suo mausoleo e da esporre sulla sua parte frontale. L’originale
è andato perduto, ma in giro per l’impero ne furono predisposte delle
copie in latino e in greco, e una versione completa è stata ritrovata ad
Ankara, in Turchia.
Il titolo latino posto all’inizio della copia di Ankara si inscrive nella
vicenda dell’eroismo romano: Res gestae Divi Augusti. In Augusto non
c’era niente di antieroico: come prima di lui Giulio Cesare, egli venne
dichiarato un dio post mortem. L’iscrizione comincia con queste parole:
«Qui sotto è esposta una copia dell’elenco originale degli atti compiuti
dal Divo Augusto, con i quali sottomise al dominio del popolo romano il
mondo»73.
La vittoria è un tema chiave del documento. Augusto afferma che
spense le fiamme della guerra civile, liberò il mare dai pirati e portò la
pace nelle province. Un tema connesso è quella della misericordia,
poiché Augusto rileva come avesse risparmiato tutti i cittadini che
avessero fatto istanza di perdono.
Dal testo restano fuori molte cose, come gli omicidi, i tradimenti, gli
atti disonesti e crudeli, così come gli eccessi della corte imperiale. In
nessun luogo Augusto afferma di aver messo fine alle libere istituzioni
della repubblica romana e di aver introdotto al loro posto il benevolo
dispotismo dei Cesari. Infine, in linea col tono virile che sostiene la
descrizione delle imprese militari, Augusto non cita nessuna donna, per
quanto faccia riferimento a diverse divinità femminili. In breve, la
versione ufficiale che fornisce delle proprie realizzazioni è un’opera di
propaganda che piega e distorce la realtà. Una cosa, tuttavia, era chiara e
precisa riguardo a quest’opera. Si trattava di un testo rivolto all’impero e
non solo a Roma.
Augusto concluse la propria carriera politica lontano da Roma, come
del resto l’aveva cominciata, svolgendo una missione per l’impero. Nel
44 a.C., quando fu raggiunto dalla notizia dell’omicidio di Cesare, era
sull’altra sponda dell’Adriatico, di fronte all’ultima stazione della via
Appia, la strada che portava a sud di Roma. Quando morì, cinquantotto
anni dopo, Augusto aveva sempre lo sguardo rivolto ad Oriente.
Lasciatasi ormai da tempo alle spalle la sua prestanza di combattente,
poneva sempre al primo posto l’impero. Stava scortando il figlio ed erede
Tiberio lungo la via Appia, in direzione dell’Adriatico, che Tiberio
aveva in programma di attraversare per affrontare l’ultima crisi in atto in
una zona di costante conflitto. Come faceva ogni volta che poteva,
Augusto si era fatto accompagnare dalla moglie Livia.
Abbinò agli impegni di lavoro una vacanza nella sua località preferita,
l’isola di Capreae (Capri), ma stava già male. Dopo aver rifatto la
traversata all’indietro verso la terraferma e aver preso parte a una
cerimonia a Napoli, scortò Tiberio ancora più a sud, viaggiando per
quattro giorni. Poi tornò indietro e si sentì talmente male che dovette fare
sosta a Nola, dove soggiornò nella villa di famiglia. Fu inviato un
messaggio a Tiberio perché si affrettasse a tornare indietro; secondo la
versione che dell’episodio dà Svetonio, Tiberio riuscì a raggiungere il
padre adottivo in tempo per un ultimo colloquio74.
Augusto morì a Nola il 19 agosto del 14, quando mancava poco più di
un mese al suo settantasettesimo compleanno. Gli artefici della mitologia
imperiale lasciarono sicuramente il loro segno sui particolari pubblici
dell’ultimo giorno di Augusto.
Per quel che può valere, sembra che i suoi amici si recassero al suo
capezzale. Augusto chiese loro se pensavano che avesse ben recitato la
«commedia», parlando come un attore alla fine dello spettacolo. E
aggiunse: «Or, se tutto vi piacque in questo scherzo, / date un applauso,
fate, orsù, gran chiasso!»75. Poi li congedò, e morì fra i baci di Livia,
rivolgendo a lei, secondo quanto si narra, le sue ultime parole: «Livia,
vivi nel ricordo della nostra grande unione! Addio!»76.
L’uomo che aveva ridisegnato il mondo avrebbe dovuto lasciarlo con il
fragore di un tuono. E invece, se le storie tramandate sono vere, Augusto
concluse la sua esistenza in modo silenzioso, con ironia e modestia.
L’uomo che aveva posto fine alle guerre della repubblica e poi creato
l’impero romano e la pace romana usciva dalla vita riconoscendo quanto
dovesse alla sua compagna. Controllato fino alla fine, forse Augusto disse
davvero addio alla propria onnipotenza con umiltà di gesti.
All’epoca fu notata l’ironia del fatto che egli fosse morto nella stessa
stanza in cui molti anni prima era morto il suo padre biologico, Gaio
Ottavio77. Ma se nei momenti finali Augusto pensò a qualche uomo,
questi era probabilmente Giulio Cesare.
Cesare e Augusto erano i due lati della medaglia del genio romano. Il
primo era il dio delle battaglie, che riversò il proprio talento in due opere
classiche della letteratura. Augusto era lo statista machiavellico che forgiò
il proprio potere col sangue e la spada, e poi proseguì costruendo una
struttura di pace e di ricchezza che sopravvisse alla sua scomparsa per due
secoli. Cesare era un pavone, Augusto una sfinge. Cesare cadde in Senato
sotto una selva di pugnalate; Augusto morì nel proprio letto ricevendo
l’ultimo bacio dalla moglie. Augusto cominciò da giovane omicida e
concluse come padre della patria. Se furono sua madre Azia e il suo
prozio Giulio Cesare a fargli muovere i primi passi in politica, Augusto
dovette le sue realizzazioni dell’età della maturità a due persone: l’amico
Agrippa e la moglie Livia.
Fu lui a inventare il concetto di princeps, quello che per noi è
l’imperatore. I suoi successori lo assunsero a modello. Augusto fu un
conquistatore, un legislatore, un costruttore e un sacerdote. Sebbene
esercitasse il potere supremo, lo celava dietro le istituzioni esistenti, titoli
ingannevoli, invocazioni alla repubblica, potere carismatico e un certo
grado di deferenza nei confronti del Senato.
La morte di Cesare aveva lasciato in eredità a Roma una generazione di
guerra civile. Quella di Augusto gli avrebbe lasciato la pace? Le
preoccupazioni si andavano accumulando. Nei suoi ultimi anni, Augusto
aveva elaborato ponderati piani per trasferire il potere, ma chi avrebbe
ubbidito a un uomo che non c’era più? Il suo figlio adottivo e successore,
Tiberio, sarebbe stato adatto al ruolo? Agrippa Postumo o Giulia si
sarebbero sentiti liberi di diventare un punto di aggregazione per
l’opposizione? In Senato sarebbero riemersi in superficie sentimenti
repubblicani?
Erano interrogativi che sicuramente a Roma turbavano molte menti, e
più di ogni altra quella della più scaltra fra le personalità della politica,
Livia. In pubblico, la vedova si mostrò dedita al lutto. Dopo che Augusto
fu cremato a Roma, ad esempio, rimase sul posto per cinque giorni, con
una guardia d’onore composta dai cavalieri più eminenti. Poi fece
raccogliere le ceneri di Augusto e le depose nella tomba.
In privato, però, mentre cominciava un anno di lutto per il marito
scomparso78, di certo operò instancabilmente dietro le quinte. Quali
piani, discorsi e fatti di sangue avrebbero sgombrato la strada al nuovo
sovrano di Roma, suo figlio?

 
1
Augusto, Index Rerum Gestarum 34.1-2.
2
Ronald Syme, The Nobilitas, in Id., The Augustan Aristocracy, Clarendon Press, Oxford 1986,
pp. 1-14 (trad. it. di Carmen Dell’Aversano, L’aristocrazia augustea, Rizzoli, Milano 1993).
3
Su Azia, si veda Ilse Becher, Atia, die Mutter des Augustus - Legende und Politik, in Griechenland
und Rom, Vergleichende Untersuchungen zu Entwicklungs-tendenzen und höhepunkten der antiken
Geschichte, Kunst und Literatur, a cura di Ernst Günther Schmidt, Universitätsverlag Tbilissi in
Verbindung mit der Palm & Enke, Erlangen und Jena, Tbilissi 1996, pp. 95-116.
4
Uno dei personaggi del Dialogo degli oratori di Tacito, risalente al 102 circa, la descrive in
questi termini, forse prestando ascolto appunto all’autobiografia di Augusto: Publio Cornelio
Tacito, Dialogo degli oratori, in Id., Storie; Dialogo degli oratori; Germania; Agricola, a cura di Azelia
Arici, UTET, Torino 19702, XXVIII, in particolare XXVIII.6.
5
Virgilio, Eneide, passim. Si veda, per una disamina del tema, Susan Dixon, The Roman Mother,
University of Oklahoma Press, Norman 1988, p. 74.
6
Nicolao di Damasco, Vita di Augusto CLVII.14.
7
Jürgen Malitz presenta un’eccellente analisi della carriera del giovane Ottaviano in «O puer
qui omnia nomini debes», Zur Biographie Octavius bis zum Antritt seines Erbes, in «Gymnasium»,
CXI (2004), pp. 381-409.
8
Forse la storia risale a un periodo più tardo, quando si parlava correntemente della divinità di
Augusto, ma potrebbe essere anche precedente. Si vedano: Svetonio, Augusto XCIV.4; David
Wardle, Suetonius: Life of Augustus = Vita Divi Augusti, Oxford University Press, Oxford 2014,
pp. 512-515; Cassio Dione, Storia romana XLV.1.2; Adrian S. Hollis, Fragments of Roman Poetry,
c. 60 BC-AD 20, Oxford University Press, Oxford 2007, p. 313, n. 181.
9
Nicolao di Damasco, Vita di Augusto CLVIII.20.
10
Svetonio, Augusto LXVII.
11
Id., Giulio Cesare II.1, XXII.2 e XLIX.1-4.
12
Nicolao di Damasco, Vita di Augusto CLXIX.36.
13
Ivi, XCI.38.
14
Marco Tullio Cicerone, Lettere ad Attico, testo latino e versione di Carlo Vitali, 3 voll.,
Zanichelli, Bologna 1965-69, XVI.15.3.
15
Ibid.
16
Nicolao di Damasco, Vita di Augusto XCIII.54. Appiano (Guerre civili III.11) afferma che il
primo ad accettare quel nome fu l’esercito a Brundisium (Brindisi). Mark Toher ritiene che fu
solo in seguito che Azia si rivolse al figlio con l’appellativo di Cesare: si veda Nicolaus of
Damascus, The Life of Augustus and the Autobiography, a cura di Mark Toher, Cambridge
University Press, Cambridge 2016, p. 258.
17
Appiano, Guerre civili III.14.
18
Cassio Dione, Storia romana LI.3.
19
Giuliano imperatore, Simposio: i Cesari, edizione critica, traduzione e commento a cura di
Rosanna Sardiello, Congedo, Galatina 2000.
20
Plinio il Vecchio, Storia naturale XXXVII.4.10.
21
Augusto, Index Rerum Gestarum 1.1-3.
22
Svetonio, Augusto X.4.
23
Ivi, LXVII; si veda il commento di Wardle, Suetonius: Life of Augustus cit., p. 468.
24
Marco Tullio Cicerone, Lettere ai familiari, testo latino e versione di Carlo Vitali, 3 voll.,
Zanichelli, Bologna 1968-73, XI.20.1. Nel testo latino il passo recita: «Laudandum
adulescentem, ornandum, tollendum»; il gioco di parole verte sul duplice significato
attribuibile a tollendum: portato in alto, innalzato agli onori, ma anche tolto di mezzo, ucciso
[N.d.T.].
25
«Hic Atiae cinis est, genetrix hic Caesaris, hospes, / condita; Romani sic voluere patres»
(Epigrammata Bobiensia 40); cfr. Hollis, Fragments of Roman Poetry cit., p. 313, n. 182. La
traduzione italiana è tratta da Francesca Romana Nocchi, Commento agli Epigrammata
Bobiensia, De Gruyter, Berlin-Boston 2016, p. 121.
26
Sulle cifre delle vittime, si veda Josiah Osgood, Caesar’s Legacy: Civil War and the Emergence of
the Roman Empire, Cambridge University Press, Cambridge 2006, p. 63, n. 6.
27
IMPERATOR CAESAR DIVI FILIUS. Si veda Frederik Juliaan Vervaet, The Secret
History: The Official Position of Imperator Caesar Divi Filius from 31 to 27 BCE, in «Ancient
Society», XL (2010), pp. 79-152, in particolare pp. 130-131.
28
Svetonio, Augusto XCI.1; cfr., in proposito, Appiano, Guerre civili IV.110, e Cassio Dione,
Storia romana XLI.3.
29
Svetonio, Augusto XV.
30
Cassio Dione, Storia romana XLVIII.44.5.
31
Svetonio, Augusto LXII.2.
32
Si vedano, ad esempio: Plutarco, Antonio 60.1; Appiano, Guerre civili V.1, V.8 e V.9; Cassio
Dione, Storia romana L.4.3-4.
33
Plutarco, Antonio 80.1-3; Id., Tutti i Moralia, prima traduzione italiana completa, testo greco
a fronte, coordinamento di Emanuele Lelli e Giuliano Pisani, Bompiani, Milano 2017, 207A-
B; cfr. Cassio Dione, Storia romana LI.16.3-4.
34
Plutarco, Antonio 81.2.
35
Cassio Dione, Storia romana LI.16.5.
36
Il poeta non è ovviamente da confondersi con il famoso Cassio (Gaio Cassio Longino) che
aveva a sua volta partecipato all’uccisione di Cesare (Velleio Patercolo, Storie II.87.3; Valerio
Massimo, Detti e fatti memorabili I.7.7).
37
Cassio Dione, Storia romana LIII.16; Svetonio, Augusto VII.2.
38
Si vedano, ad esempio, OCRE (Online Coins of the Roman Empire), RIC I (second edition)
Augustus 277, 488-491, 493-494 (http://numismatics.org/ocre/results?
q=Augustus%20AND%20year_num%3A%5B-27%20TO%20-27%5D&start=0).
39
L’atmosfera licenziosa degli ultimi terribili giorni della tarda repubblica – il mondo che
Augusto gradì da giovane e che poi colpì con la legislazione emanata in veste di imperatore – è
ricostruita efficacemente da Daisy Dunn, Catullus’ Bedspread: The Life of Rome’s Most Erotic Poet,
Harper, New York 2016.
40
Quinto Orazio Flacco, Satira II.III.186, in Id., Le satire. Le epistole, testo latino e traduzione
in versi italiani di Ettore Romagnoli, Zanichelli, Bologna 1971, pp. 142-143.
41
P. Köln, 4701, rr. 12-14, in P. Köln et al., Kölner Papyri, VS Verlag für Sozialwissenschaen,
Wiesbaden 1987, pp. 113-114.
42
Niccolò Machiavelli, Il principe, in Id., Il Principe e Dicorsi sopra la prima deca di Tito Livio, con
introduzione di Giuliano Procacci e a cura di Sergio Bertelli, Feltrinelli, Milano 1960, p. 44
(libro VIII).
43
Si veda Lucio Anneo Seneca, La clemenza I.9.1 e I.11.,1 in Id., La clemenza. Apocolocyntosis.
Epigrammi. Frammenti, a cura di Luciano De Biasi, UTET, Torino 2009.
44
Si veda, ad esempio, Svetonio, Augusto XV, e Appiano, Guerre civili IV.5.
45
Tacito, Annali I.2.
46
Virgilio, Eneide I.278-279.
47
Svetonio, Augusto XXV.4; Aulo Gellio, Le notti attiche X.11.5; Macrobio Teodosio, I
saturnali, a cura di Nino Marinone, UTET, Torino 1987, VI.8.8; Polieno, Stratagemmi politici e
di guerra, traduzione e cura di Francesco Chiossone, Il melangolo, Genova 2012, VIII.24.4.
48
Augusto, Index Rerum Gestarum 34.3.
49
Tacito, Annali XIII.8.
50
Svetonio, Augusto XLVII; Wardle, Suetonius: Life of Augustus cit., p. 351.
51
Svetonio, Augusto LIII.3.
52
Ivi, LIII.1.
53
Augusto, Index Rerum Gestarum 34.14-15.
54
(Res publicam restituit.) Si considerino ad esempio i Fasti Prenestini, in data 13 gennaio 27
a.C.: Victor Ehrenberg, Arnold H.M. Jones, Documents Illustrating the Reigns of Augustus and
Tiberius, Oxford University Press, Oxford 1949, p. 45. Cfr. E.T. Salmon, The Evolution of
Augustus’ Principate, in «Historia», V (1956), 4, pp. 456-478, in particolare p. 457; Karl
Galinsky, Augustan Culture: An Interpretive Introduction, Princeton University Press, Princeton
(NJ) 1996, pp. 42-79.
55
Augusto, Index Rerum Gestarum 21.
56
Cassio Dione, Storia romana LVI.30.3.
57
Stephanie Malia Hom, Consuming the View: Tourism, Rome, and the Topos of the Eternal City,
in «Annali d’Italianistica», XXVIII (2010), pp. 91-116.
58
Svetonio, Augusto XLIII.43-46.
59
Ivi, LXIII.
60
Cassio Dione, Storia romana LI.19.7.
61
Pietro Abelardo, Lettere di Abelardo e Eloisa, introduzione di Mariateresa Fumagalli Beonio
Brocchieri, traduzione e note di Cecilia Scerbanenco, testo latino a fronte, Rizzoli, Milano
1997, lettera 1.
62
Svetonio, Caligola XXIII (Ulixes stolatus).
63
Si veda ad esempio Musei Vaticani (Roma), cat. 2290 (Augusto di Prima Porta).
64
Svetonio, Augusto LXXXIV.2, e Id., Tiberio LI.1.
65
Tacito, Annali, passim. Cfr. anche il romanzo di Robert Graves, Io, Claudio, Bompiani,
Milano 1934.
66
Elizabeth Bartman, Portraits of Livia: Imaging the Imperial Woman in Augustan Rome,
Cambridge University Press, Cambridge 1999, p. xxi.
67
Svetonio, Galba I; Plinio il Vecchio, Storia naturale XV.136-137; Cassio Dione, Storia romana
XLVIII.52.3-4.
68
Cassio Dione, Storia romana XLVIII.52.3-4.
69
Macrobio Teodosio, I saturnali cit., II.5.
70
Ivi, II.5.6.
71
Ivi, II.5.9-10.
72
Augusto, Index Rerum Gestarum 35.1.
73
Ivi, 1.1.
74
Svetonio, Tiberio XXI.1.
75
Ibid.
76
Ibid.
77
Id., Augusto C.1.
78
Cassio Dione, Storia romana LVI.42.
Tiberio
2
Tiberio, il tiranno

Il 17 settembre del 14, nel Senato romano, Tiberio Giulio Cesare si alzò
e prese la parola. L’imperatore Augusto, suo padre adottivo, era morto da
un mese. Dopo un funerale pubblico che aveva suscitato molta
emozione, il Senato aveva approvato quella che i romani definivano una
«consacrazione», proclamando la divinità di Augusto. Gestirne l’eredità
in cielo era l’aspetto più facile della vicenda. Più difficile era occuparsi
della questione in terra.
Noi usiamo il termine imperatore, ma per i suoi contemporanei
Augusto era princeps, primo cittadino, termine a cui corrispondeva una
collocazione vaga e instabile. Non vi era alcuna garanzia che il sistema da
lui creato non crollasse dopo la sua morte. Dopotutto, Roma non aveva
una costituzione scritta, e in Senato vi era chi vagheggiava di restaurare
l’antica gloria dell’istituzione e di ripristinare il potere che esercitava
prima dell’avvento di Giulio Cesare, mentre alcuni suoi membri
volevano sostituire Tiberio al vertice del potere.
La maggior parte dei senatori, comunque, intendeva chiedere a Tiberio
di assumere i pieni poteri di Augusto. La loro strategia consisteva nel non
mostrarsi troppo servili; da parte sua, Tiberio voleva accettare, senza però
mostrarsi troppo entusiasta. Il che probabilmente non era difficile:
nonostante le ambizioni che sua madre Livia nutriva per lui, Tiberio non
aspirava al potere politico supremo.
Era un militare di professione, e forse anelava ad occupazioni più
tranquille, e a rimanere nell’atmosfera franca e schietta
dell’accampamento. E magari ripensò all’episodio di una decina di anni
prima, quando era tornato sul fronte settentrionale per ordine di
Augusto, dopo una lunga assenza. Secondo una fonte, i suoi vecchi
soldati erano entusiasti di riaverlo tra loro: alcuni nel rivederlo avevano le
lacrime agli occhi, altri desideravano toccarlo. Ricordavano il servizio
prestato con lui nel corso di varie campagne, e in diversi teatri di guerra,
ed ebbero espressioni quali: «Sei davvero tu quello che vediamo,
comandante?», e «Ti abbiamo riavuto fra noi stabilmente?»1.
Forse Tiberio aspirava a una carriera esclusivamente militare, ma ora gli
si profilava davanti il più complicato compito politico del suo mondo, e
la possibilità di vestire i panni di un dio. Forse non lo voleva, ma
l’impero era il suo dovere, e Tiberio era estremamente devoto alla causa.
Così, si alzò in piedi e parlò ai senatori2.
Disse che l’eredità di Augusto era troppo grande da gestire per
chiunque, e che avrebbe dovuto essere suddivisa in tre parti: Roma e
l’Italia, le legioni e le province. In realtà non era questo che intendeva,
naturalmente, ma un senatore eccessivamente zelante non se ne rese
conto e replicò che era una buona idea, per poi chiedergli quale delle tre
parti egli avrebbe preferito tenere per sé. Tiberio, mostrandosi
composto, anche se probabilmente fu colto alla sprovvista, rispose
elegantemente. Era abile a nascondere quel che pensava, quando
necessario3. Disse che lo stesso uomo non poteva al contempo dividere e
scegliere. Il senatore fece marcia indietro, ma ormai era troppo tardi
(Tiberio si sarebbe ricordato dell’affronto subito da quell’uomo, e si
sarebbe vendicato a distanza di anni, facendolo incarcerare e morire di
fame)4. Nel frattempo, molti senatori pregarono Tiberio di assumere i
pieni poteri.
Alla fine, non senza qualche esitazione, egli accettò. Ma si lasciò una via
d’uscita, promettendo che sarebbe rimasto in carica «fino a quando
giunga il momento in cui stimiate di concedere un po’ di riposo alla mia
vecchiaia»5. Aveva già cinquantacinque anni, e sapeva che la vecchiaia
non era così lontana. Un altro motivo di esitazione era la sua
consapevolezza dei pericoli di un incarico del genere. O almeno, al
riguardo citava spesso un proverbio: «Ho afferrato il lupo per le
orecchie»6. E tuttavia, per quanto diffidente, Tiberio assunse il potere e
continuò a governare Roma in modo più o meno coerente con la
situazione che aveva lasciato Augusto. E questo, già di per sé, fu un
grande successo.
Quello che lo attendeva non era un compito facile. Doveva non solo
essere all’altezza delle aspettative, dopo l’uscita di scena del suo grande
predecessore, ma anche farlo essendo pienamente consapevole di non
essere stato la prima scelta di Augusto per la sua successione. Inoltre,
l’imperatore defunto gli aveva lasciato in eredità un compito quasi
impossibile. Volendo fare un paragone con successive epoche storiche o
con il mondo attuale, si potrebbe dire che Tiberio seguì Augusto come
John Adams avrebbe seguito George Washington, o come Tim Cook
avrebbe continuato l’opera di Steve Jobs. In tutti questi casi, il successore
è stato più efficace di quanto sia stato popolare o carismatico.
Conquistatore e pacificatore, l’imperatore fu anche costruttore e
demolitore, benefattore e giudice, capo della propria famiglia e padre
della patria, tribuno del popolo e primo uomo del Senato, il più
autorevole dei romani e il campione delle province, manager e leader dal
fascino magnetico, uomo di spettacolo e simbolo di severità, sacerdote e
comandante, sacro a Roma e re in Oriente – e perfino Dio. Ogni
imperatore dovette negoziare un accordo con le élites che più contavano:
l’esercito, il Senato, la corte imperiale, i notabili delle province. Anche la
plebe urbana di Roma aveva un peso, ma il suo potere era molto più
ridotto rispetto a quello che aveva avuto sotto la repubblica. Augusto era
riuscito a sbarazzarsene, ma solo dopo una guerra civile e un processo
politico fatto di tentativi ed errori, e solo grazie al notevole prolungarsi
del suo regno. Perfino un abilissimo politico del suo rango dovette
faticare a trovare la soluzione.
I suoi successori ebbero dei problemi a bilanciare le varie e
contraddittorie pretese esistenti nei confronti dell’imperatore romano. E
nessuno di loro regnò tanto a lungo quanto Augusto, il cui potere sul
mondo romano rimase incontrastato per quarantacinque anni.
Mentre Augusto adorava il connubio di forza e abilità di manovra con
cui governava, Tiberio era un bravo organizzatore e un pragmatico, che
ridimensionava i problemi e faceva funzionare il sistema – perfino a
costo di attuare la repressione all’interno e di ridurre le spese all’estero.
Se Augusto poteva sembrare una sfinge, Tiberio era il vero uomo del
mistero. La sua personalità controllata confondeva i contemporanei, e
ancora oggi sconcerta gli storici. Tuttavia, riuscì a reggere un regno
davvero importante, e si dimostrò un capo in grado d’introdurre notevoli
trasformazioni. Consolidò la monarchia augustea sul piano interno, ma
non la politica estera del suo predecessore, alla quale pose un freno dopo
secoli di espansione. E in tempo di pace, nessun imperatore più di lui
colpì così duramente la nobiltà romana. L’uomo che si presentò sulla
scena nelle vesti di amico dei senatori finì per diventare un tiranno ai loro
occhi.

GLI INIZI DELLA CARRIERA


Tiberio era nato a Roma il 16 novembre del 42 a.C., da Tiberio Claudio
Nerone e Livia Drusilla. I suoi genitori gli trasmisero l’attaccamento per
la repubblica romana, ma la repubblica del Senato e del popolo romano
stava ormai morendo sotto il peso degli invincibili eserciti di Ottaviano e
di Antonio. Nel 42 a.C. nessuno poteva immaginare che Ottaviano, poi
Augusto, avrebbe svolto un ruolo cruciale nella vita di Tiberio. I due
uomini provenivano da ambienti diversi. Augusto aveva solo un piede
nella nobiltà romana. Tiberio, invece, proveniva da una famiglia di
sangue blu; entrambi i suoi genitori affermavano di discendere dall’antica
casata patrizia dei Claudi, una famiglia che aveva occupato le più elevate
cariche romane per secoli fin dagli inizi della repubblica, e aveva
costruito la via Appia, la prima delle grandi strade consolari di Roma. I
Claudi avevano il senso del dovere ma anche del potere spettante al
proprio rango, e una certa tendenza all’arroganza.
Il padre e il nonno di Tiberio avevano entrambi combattuto contro
Ottaviano in periodi diversi. Fiero sostenitore della repubblica, il nonno
di Tiberio si suicidò dopo essere stato sconfitto nella battaglia di Filippi.
Il padre di Tiberio aveva principi più flessibili. Dapprima aveva prestato
servizio sotto Cesare nel corso della guerra civile, poi però arrivò a
trovare insopportabile l’atteggiamento da monarca da lui adottato. Dopo
l’omicidio di Cesare, votò perché il Senato rendesse onore agli uomini
che l’avevano ucciso (il Senato, però, declinò l’idea). Poi, dopo aver
combattuto contro Ottaviano, lasciò l’Italia e quindi la Sicilia per
rifugiarsi in Grecia. A quell’epoca Tiberio era ancora un bambino, ma lo
seguì nella fuga assieme alla madre Livia. In seguito, fecero ritorno in
Italia, dove Livia avrebbe sposato Ottaviano.
Questi era uno degli uomini più potenti al mondo. Tiberio Claudio, il
padre di Tiberio, lo accusò di avergli rubato la moglie, ma non era in
condizione di opporglisi. Così, quando nel gennaio del 38 a.C.
Ottaviano e Livia si sposarono, Tiberio Claudio, che era presente,
«condusse» Livia sposa, «come un padre»7. Livia all’epoca era incinta, e
poco tempo dopo dette alla luce Druso, figlio del precedente marito
Tiberio Claudio, il quale si prese cura di Tiberio e Druso per cinque
anni. Senza dubbio li introdusse alle fiere tradizioni della famiglia
Claudia. I Claudi, esponenti di spicco della nobiltà, consideravano con
degnazione il popolo romano. Quando nel 33 a.C. Tiberio Claudio
morì, affidò la tutela dei due bambini ad Ottaviano, che da allora in poi
se ne prese cura assieme a Livia. Sebbene avesse solo nove anni, Tiberio
pronunciò l’elogio funebre del padre, presumibilmente utilizzando un
testo scritto da altri.
Tiberio e Druso crebbero da allora in casa del patrigno, sotto lo stesso
tetto della figlia di Augusto, Giulia. Augusto allevò tutti e tre i figli in
modo che potessero un giorno ricoprire un ruolo nel suo regime, ma
concesse il posto d’onore a Giulia e alla sua progenie, cioè ai propri
discendenti in linea di sangue. Nel frattempo Livia, donna di grande
influenza politica, andò coltivando grandi aspettative per i suoi due figli.
A Roma una donna che ambisse ad esercitare potere politico non aveva
altra scelta che agire tramite un uomo. I mariti potevano essere
influenzati, e così gli amanti, i padri e i fratelli, ma a Roma il legame
emotivamente più forte fra un uomo e una donna era quello che univa
madre e figlio. Livia si comportò di conseguenza. La sua opera di
promozione dei figli fu assidua e paziente. Rigida e intransigente ella
stessa, allevò Tiberio e Druso per farne degli uomini duri, qualità che
sarebbe stata loro utile nelle avversità ma non li favorì quanto a
popolarità.
I due fratelli svilupparono un’intimità che sarebbe durata tutta la vita.
Quello fra Giulia e Tiberio, però, fu un legame più complesso. Lui era
rispettoso, lei invece incline all’ira; Tiberio aveva rapporti impacciati con
Augusto, mentre lei (all’inizio) era la cocca del padre. Cresciuti come
fratellastro e sorellastra, all’improvviso si trovarono a dover ricominciare
affrontando la vita da adulti.
Giulia e Livia ebbero entrambe un grande impatto sulla vita di Tiberio.
Lo stesso, paradossalmente, sarebbe avvenuto per altre tre donne collegate
ad Augusto per parentela di sangue o per vincoli matrimoniali. Uomo
stimato soprattutto dagli altri uomini e rampollo egli stesso di una nobile
e superba casata, Tiberio si rese conto che gran parte della sua carriera
ruotava attorno alle donne della sua famiglia adottiva. Da uomo convinto
che alle donne non dovesse essere consentito di ascendere troppo in alto,
è probabile che ciò non gli piacesse: «considerava come una diminuzione
per sé l’esaltazione della madre», scrisse Tacito8.
Educato per diventare un soldato e un uomo di Stato, Tiberio studiò
anche i classici greci e latini. Era un abile oratore, poeta ed esperto di
vini. Conosceva bene il diritto romano, mostrava interesse per la filosofia
ed era appassionato di astrologia. In breve, era un militare, ma istruito e
colto.
Si dice che fosse alto e forte. Sia le monete in cui compare la sua effigie
sia le fonti letterarie lo dipingono come un bell’uomo, ma a quanto pare
era talmente rigido e severo da risultare sgradevole o arrogante9. A quanto
si dice, Augusto, dopo aver ricevuto sul letto di morte la visita di
Tiberio, ironizzò compatendo il popolo romano che avrebbe dovuto
«rimanere sotto mascelle così lente»10.
Alla base di questa durezza c’erano forse delle ferite psicologiche mai
sanate. Esule quando era ancora bambino, una casa distrutta, il passaggio
da una famiglia all’altra, la perdita del padre, un padre adottivo che
considerava altri giovani più promettenti di lui, e una madre imperiosa11:
da ragazzo Tiberio ebbe certo di che soffrire. Nel corso di tutta la sua
vita ebbe reputazione di uomo insincero, ma forse riteneva di dover
celare i suoi veri sentimenti, per poter sopravvivere.

L’ASCESA AL POTERE
Per arrivare al potere Tiberio dovette percorrere una strada lunga,
gloriosa ma aspra. Praticamente, da quando nel 27 a.C., quindicenne,
vestì la toga virile, fu sempre attivo negli affari pubblici. Dopo aver
ricoperto i suoi primi incarichi militari e politici, sposò Vipsania, la
figlia di Agrippa, genero e braccio destro di Augusto. Era la terza donna
importante nella sua vita che fosse in stretta relazione con l’imperatore.
Non proveniva da una famiglia nobile, ma Tiberio la amava, ed ebbero
una vita familiare felice, assieme al figlio Druso Minore. Almeno,
quando Tiberio era a casa.
Dopo aver ricoperto l’ufficio di pretore nel 16 a.C., infatti, passò il
decennio successivo in continue campagne militari nell’Italia
settentrionale, impegnato ad estendere i confini di Roma fino al
Danubio e all’Elba. Combatté nelle regioni oscure, fredde, povere e poco
prestigiose dell’impero, corrispondenti agli attuali territori di Svizzera,
Germania, Austria, Serbia e Ungheria. Fra il 12 e il 9 a.C. capeggiò
l’impegnativa campagna per la conquista della Pannonia, l’area a sud e a
ovest del Danubio. Si rivelò un comandante popolare, gran bevitore e
poco incline al rischio, ma anche capace di estendere a poco a poco i
confini dell’impero. Nel frattempo, Druso guidò le armate romane in
Germania, verso est, fino all’Elba.
A quel punto la vita personale di Tiberio subì un vero e proprio
rivolgimento. Quando nel 12 a.C. Agrippa morì, Augusto ebbe bisogno
di una nuova figura che svolgesse le funzioni di amministratore e seguisse
gli interessi dei giovani principi Gaio e Lucio Cesare, i suoi due figli
adottivi. Per queste funzioni decise di rivolgersi a un uomo maturo e
responsabile e lo trovò in Tiberio. Probabilmente Livia, che non era
donna tale da permettere che i sentimenti intralciassero una buona
prospettiva di carriera, incoraggiò la decisione del marito, e certamente la
accolse positivamente. A questo punto Augusto costrinse Tiberio a
porre fine al suo felice matrimonio, divorziando da Vipsania per sposare
Giulia, la sua sorellastra.
Con Giulia, Tiberio andò subito d’accordo. Sebbene amasse la sua
prima moglie, il suo secondo matrimonio costituiva una promozione
all’interno della famiglia imperiale. Giulia era una donna attraente, di
spirito, servizievole, e non certo un’estranea. Raggiunse l’Italia
settentrionale per essere più vicina a Tiberio, che combatteva al di là
delle Alpi. Ebbero un figlio.
Il bambino, però, morì ancora in fasce, e da allora i loro interessi furono
divergenti. Giulia voleva promuovere la carriera dei figli che aveva avuto
da Agrippa, mentre Tiberio pensava alla propria e a quella di suo figlio,
Druso Minore. Si considerava un campione della nobiltà, mentre Giulia
aveva senz’altro tendenze populiste. Ancor più importante era il fatto che
Tiberio avesse scarsa considerazione delle donne in politica, mentre
Giulia non aveva intenzione di starsene a casa. A Tiberio, poi, mancava
Vipsania. Si dice che una volta, avendola incontrata per strada a Roma,
fosse rimasto talmente turbato che furono presi accorgimenti per evitare
che le loro strade si incrociassero di nuovo12.
Quando nel 9 a.C. suo fratello rimase gravemente ferito in Germania,
in seguito a una caduta da cavallo, Tiberio affrontò un lungo e difficile
viaggio dalla Pannonia per andare a fargli visita, facendo in tempo a
vederlo poco prima che morisse. Da lì ne seguì il corpo fino a Roma,
facendo tutto il tragitto a piedi. Anche se questo poteva essere
considerato un modo per mostrarsi in linea con la promozione augustea
dei valori familiari, probabilmente si trattò dell’espressione di un sincero
dolore per la perdita dell’ultimo legame che gli era rimasto con suo padre.
A Druso fu poi attribuito l’appellativo postumo di Germanico – vale a
dire il conquistatore della Germania –, che venne trasmesso ai suoi
discendenti.
Nel 6 a.C. Augusto decise di inviare Tiberio a compiere una nuova
missione in Oriente, ma rimase interdetto quando questi gli comunicò
di avere intenzione di ritirarsi a Rodi, la bella isola greca, assai distante
dai centri del potere. Tiberio confessò di sentirsi esausto e di aver
bisogno di riposo13; aggiunse poi che non era sua intenzione intralciare il
cammino dei nipoti di Augusto – i figli di Giulia –, Gaio e Lucio, che
erano in procinto di diventare maggiorenni e stavano ricevendo
un’educazione destinata a farne i successori di Augusto. Altri dissero che
Tiberio voleva allontanarsi da Giulia, ma la sua avversione per lei non era
solo di tipo personale. Tiberio temeva forse che Gaio e Lucio lo
avrebbero fatto uccidere. Pare certo che Gaio avesse precocemente
manifestato la propria ostilità nei suoi confronti, e forse Tiberio aveva già
avuto modo di accorgersene. I pettegolezzi aggiunsero un ulteriore
motivo alla volontà di Tiberio di ritirarsi a Rodi, accennando alla sua
intenzione di dedicarsi sull’isola ai piaceri sensuali, come non gli era
consentito fare a Roma, quasi che Rodi fosse una specie di Las Vegas
dell’epoca.
A Tiberio Rodi piaceva per molti motivi, dal paesaggio incantevole alla
possibilità di frequentare uno studioso e astrologo greco, e forse anche
per i piaceri illeciti che offriva. Quando a un certo punto si risolse a
tornare a Roma, Augusto lo costrinse a rimanere sull’isola fino al 2 d.C.,
quando infine Tiberio poté stabilirsi in una tranquilla residenza in città.
Però si portò dietro lo studioso-astrologo e gli fece conferire la
cittadinanza romana.

IL RITORNO A ROMA
Nel 6 a.C., quando partì per Rodi, il futuro di Tiberio appariva incerto.
Dieci anni dopo, venne nominato successore di Augusto. Cos’era
successo nel frattempo? Giulia si era stancata di rimanere in attesa del
potere. Commise ripetutamente adulterio, e ordì un complotto contro
suo padre, ma venne scoperta. Nel 2 a.C. cadde in disgrazia e conobbe
l’esilio, e Augusto impose a Tiberio di divorziare da lei. I suoi due figli
continuarono ad essere nei favori dell’imperatore, ma nel 4 d.C. erano
entrambi morti. Le voci, come al solito, dettero la colpa della loro
scomparsa a Livia, affermando che aveva fatto in modo che Gaio e Lucio
venissero avvelenati, per consentire a Tiberio di prendere il potere. In
realtà morirono entrambi mentre erano in missione all’estero, ben lontani
dalla base di potere romana di Livia: Lucio dovette soccombere a una
malattia, Gaio ai postumi di una ferita in battaglia. A quell’epoca una
missione all’estero comportava notevoli incertezze e pericoli, e al
massimo possiamo ipotizzare che Augusto volesse mettere a rischio le
loro vite mandandoli lontani da Roma. Quanto a Livia, si può pensare
che la morte dei due uomini, che erano un ostacolo all’elevazione al
potere dei suoi due figli, non le dispiacesse.
Augusto risolse la crisi di successione adottando come figlio Tiberio.
Questi non era certo la sua prima scelta, e neppure la seconda o la terza,
ma Augusto era realista, e inoltre, come poi apparirà chiaro, il suo dono
nascondeva una trappola.
Nonostante i loro precedenti disaccordi, Tiberio era il più esperto
generale di Roma. Augusto gli conferì anche il potere tribunizio,
assieme alla pienezza dei poteri (imperium maius). Disse che lo adottava per
il bene della repubblica, e con tale commento intendeva sicuramente
rafforzarne la posizione, non insultarlo. Sebbene Augusto adottasse anche
il suo nipote più giovane, Agrippa Postumo, che era solo un ragazzo di
sedici anni, e non costituiva un pericolo per Tiberio, a quell’epoca
importante uomo di Stato di quarantasei anni. Augusto non aveva altri
nipoti.
Poco dopo, l’imperatore inviò nuovamente sul fronte occidentale
Tiberio, che una fonte a lui favorevole loda come un generale saggio,
prudente, autorevole e moderato, che aveva riguardo per la vita dei suoi
uomini14. Quel che è certo è che ottenne diversi successi. Dapprima
condusse una campagna in Germania, dove eguagliò l’impresa di suo
fratello raggiungendo l’Elba con gli schieramenti romani. Poi, nel 6 d.C.,
tornò velocemente in Pannonia, dove era in corso una grossa rivolta, che
stavolta coinvolgeva la vicina regione della Dalmazia.
In tre anni di fieri combattimenti, Tiberio domò una delle più gravi
rivolte che Roma avesse mai dovuto affrontare. Dimostrò di essere un
freddo esecutore di quella che oggi si chiamerebbe attività contro-
insurrezionale. Fu una campagna di pacificazione che i romani vinsero
non solo sul campo di battaglia ma anche interrompendo i rifornimenti
di cibo e scorte al nemico.
In seguito, nel 9, il generale Varo fu travolto in Germania, perdendo tre
legioni. Augusto rispedì Tiberio in quelle regioni, dove rimase i due
anni successivi, dedicandosi a una lenta, paziente e oscura opera di
riorganizzazione delle rimanenti legioni e combattendo i nemici dei
romani al di là del Reno.
Al suo rientro a Roma, nel 12, Tiberio celebrò un ritorno a lungo
rinviato per portare a termine la conquista della Pannonia. I suoi poteri
furono ampliati ed equiparati a quelli di Augusto. Una moneta del 13
riporta Augusto su una faccia e Tiberio sull’altra, come se il mondo
romano si stesse preparando per l’inevitabile passaggio dei poteri15.

LA SUCCESSIONE
Augusto riuscì in qualche modo a predisporre una transizione quanto
più possibile liscia e pacifica. Quando morì, Tiberio ebbe la fortuna di
trovarsi al suo fianco, o almeno di raggiungerlo abbastanza rapidamente
da consentire alla gente di dire che era lì nei suoi ultimi momenti. È
probabile che fosse stato lo stesso Augusto a dare il cinico ordine di
giustiziare Agrippa Postumo dopo la propria morte, per liberare il futuro
governante da un potenziale rivale. Dopotutto, Augusto aveva già in
precedenza stabilito il principio secondo cui «non è bene che ci siano
parecchi Cesari»16.
Per altri aspetti, però, a Tiberio legò le mani. A quel tempo Livia aveva
settant’anni, ma era ancora piena di vigore, e Augusto le lasciò in mano
degli strumenti potenti. Si assicurò della sua posizione stabilendone per
testamento l’adozione – come figlia! –, in modo da farla diventare un
membro della famiglia Giulia. Dopo la sua morte, il Senato approvò
l’adozione. Da quel che sappiamo, nessuno chiese se Livia ora fosse
anche sorella adottiva di suo figlio Tiberio, che in precedenza era stato a
sua volta adottato da Augusto.
Non meno importante fu il fatto che Augusto attribuisse a Livia il
nuovo nome di Giulia Augusta. Si trattava di un riconoscimento senza
precedenti, e nessuno sapeva quale ne fosse il preciso significato. Sarebbe
spettato a Livia stessa, a Tiberio e al Senato attribuirgliene uno. Era
tuttavia chiaro il desiderio di Augusto di far sì che sua moglie mantenesse
una notevole autorità. Il prestigioso titolo di Giulia Augusta collocava
Livia nella prima famiglia di Roma, lasciandola a due sole lettere di
distanza (a rispetto a us) dalla suprema posizione di potere dello Stato. Era
un modo, di fatto, per assicurare la continuazione del potere di Augusto
anche dopo la morte, e di temprare Tiberio.
L’autorità di Livia non si sarebbe inoltre limitata a questo. Essa era
anche la prima sacerdotessa del culto di Augusto deificato. Non era una
cosa da poco, visto che a Roma non esistevano altre donne investite di
un rango sacerdotale altrettanto elevato, a parte le Vergini Vestali. Al
nuovo incarico di Livia era associato il diritto di disporre di una guardia
del corpo ovunque essa svolgesse le sue mansioni religiose; ulteriore
segno, questo, dell’importanza che rivestiva. A ciò seguirono molti altri
onori, da un seggio a teatro assieme alle Vergini Vestali all’imposizione
del suo nome a diverse città. Una provincia orientale eresse un tempio in
onore di Tiberio, di Livia e del Senato. In varie sculture e iscrizioni
Livia cominciò ad essere collegata a Cerere, dea della fertilità e
dell’abbondanza, qualcosa a cui sotto Augusto si era appena accennato.
Livia era una delle persone più ricche in tutto l’impero, e diversamente
dalla maggior parte delle donne romane ottenne il pieno controllo delle
sue proprietà. Augusto le lasciò in eredità un terzo del proprio
patrimonio, destinando la parte restante a Tiberio. Livia possedeva
proprietà sia in Italia sia in varie province orientali e occidentali. In
quanto donna, non poteva far parte del Senato, ma riceveva senatori in
casa propria, dove ad assisterli era addetto un personale di dimensioni
enormi (nel complesso, aveva alle sue dipendenze un migliaio di
persone).
Il tempo trascorso con Livia avrebbe dato spesso frutti vantaggiosi col
passare degli anni. Della sua famiglia faceva parte un uomo che sotto un
successivo imperatore sarebbe diventato comandante della guardia
pretoriana. Fra i suoi cortigiani favoriti vi era chi in seguito sarebbe
diventato il primo imperatore proveniente da ambienti esterni al circuito
dinastico, il primo che non discendesse né da lei né da Augusto.
Livia era la persona che assicurava la transizione fra il regno di suo
marito e quello di suo figlio. Sicuramente Tiberio apprezzava questo
elemento di continuità, ma ne era anche disturbato. Se da una parte
consentì a sua madre di accumulare onori e di esercitare alcuni poteri,
dall’altra le impose anche dei limiti. Nella prima fase del suo regno, ad
esempio, il Senato avrebbe voluto assegnarle il titolo, senza precedenti, di
madre della patria, ma Tiberio si oppose al provvedimento, così come
respinse altre proposte senatoriali, come quella di attribuirgli la
denominazione ufficiale di Iuliae filius e chiamare Livius il mese di
ottobre, preferendo invece il titolo di divi filius, che gli spettava in virtù
della deificazione di Augusto.
Per comprendere Tiberio, occorre prima comprendere Livia. Nessuna
donna romana aveva mai occupato una posizione pari alla sua quanto a
ricchezze e ad onori. Non solo essa rappresentava il legame vivente col
fondatore della dinastia, ma era di fatto anche quella che oggi si
definirebbe una First Lady, poiché Tiberio era divorziato e non aveva
un’amante. Era anche la veterana politica più esperta di tutta Roma. E per
l’orgoglioso Tiberio era un costante richiamo a una persona che andava al
di là di quello che egli riteneva dovesse essere il ruolo adatto a una donna.
C’è da immaginarsi che Tiberio reagisse con una smorfia, se qualcuno lo
chiamava figlio di Augusta, ma ciò nonostante, quando si trovava ad
affrontare un problema politico intricato era probabile che si rivolgesse a
lei per avere un consiglio.
Di tanto in tanto, Livia faceva sentire il proprio peso nella vita pubblica
di Roma: promuovendo a volte un suo amico, attribuendo in altri casi
privilegi speciali a un proprio alleato, consacrando statue a proprio nome
o a quello di Tiberio, oppure invitando dei senatori a un ricevimento in
casa propria. In generale, Tiberio accettava tutto ciò e addirittura operava
dietro le quinte per presentare un fronte unito. Ciò vale soprattutto per la
prima fase del suo regno, poiché col passare del tempo divenne meno
paziente con sua madre.
Tiberio non si consultava invece con la sua ex moglie, Giulia.
Dapprima esiliata sull’isola di Pandataria, Tiberio le aveva consentito di
rientrare a Reggio, nell’Italia meridionale, ma essa continuava di fatto a
vivere come se fosse agli arresti domiciliari. Dopo neppure sei mesi da
quando Tiberio era diventato imperatore, nel 14, morì di malnutrizione.
Si disse che Giulia si fosse lasciata andare rifiutando il cibo fino a morire,
forse per il dolore conseguente all’uccisione del figlio Agrippa Postumo,
forse presa dalla disperazione al pensiero che suo marito era asceso al
potere supremo17.
All’epoca in cui divenne princeps, Tiberio era un uomo maturo, e per
certi aspetti fu uno degli imperatori più preparati che Roma avrebbe mai
avuto. Ma non fu certo il più giovane. A cinquantacinque anni, si era
ormai lasciato alle spalle il comando degli eserciti e le missioni all’estero.
Ma sebbene in ciò seguisse l’esempio di Augusto – anch’egli a quell’età
aveva cominciato a stare fermo –, fu per questo motivo oggetto di
ingiuste critiche, dovute alla sua presunta mancanza di coraggio e di
iniziativa.

TIBERIO E IL SENATO
Tiberio era fondamentalmente un oligarca. Diversamente da Augusto,
che a Roma era popolare fra la gente comune, fu un imperatore
distaccato e riservato. Ebbe poco tempo per finanziare lavori pubblici, e
ancor meno per prendere parte ai giochi.
Sebbene non avesse mai conosciuto la vecchia repubblica, la sua eredità
familiare lo faceva sentire legato al Senato, verso il quale nei primi anni
del suo regno si mostrò rispettoso. Partecipava regolarmente alle sedute,
riconoscendo la libertà di espressione ai senatori, ascoltando
rispettosamente e cercando di essere discreto quando faceva valere la
propria opinione18. Rifiutò titoli quali signore o padre della patria.
Come diceva spesso: «Per gli schiavi sono un signore, per i soldati un
imperator e per tutti gli altri un princeps»19. Una volta disse al Senato che si
riteneva suo servitore, e che considerava i senatori alla stregua di
«padroni giusti, buoni e benevoli»20.
Ma pochi gli credevano. Per affermare di essere il primo cittadino
essendo in realtà il sovrano, come nel caso di Augusto, bisognava essere
degli illusionisti della politica. Augusto era attento alle prerogative del
Senato, e ne blandiva i membri, di fatto però manipolandoli.
Tiberio, però, non era un mago. Ai senatori concesse libertà,
aspettandosi in cambio cooperazione. Il risultato fu, tuttavia, una miscela
di servilismo e di attività cospirative. La maggior parte dei senatori non
aveva il coraggio di parlare liberamente in sua presenza. Quando,
all’inizio del suo regno, l’imperatore promise al Senato che avrebbe
condiviso con esso il proprio potere, un senatore replicò che «il corpo
dello Stato era uno solo e dalla mente di uno solo doveva essere
governato». Tiberio disprezzava sentimenti del genere21: sembra che una
volta avesse lasciato una seduta del Senato biascicando in greco: «O
uomini fatti per essere servi!»22.
La personalità dell’imperatore non era certo d’aiuto. Tiberio non aveva
l’affabilità e la premurosità che in genere ci si aspettava da un nobile
romano nei confronti degli amici. Giulio Cesare, ad esempio, poteva
essere descritto come un uomo che trattava con «cortesia» (facilitate) i suoi
amici23, mentre Tiberio poteva suscitare commenti del genere solo con
riferimento alla correttezza ed eleganza (facilis) con cui parlava il greco24.
Insincero e spesso crudele, Tiberio era un giudice inaffidabile del
carattere delle persone, e talvolta ciò poteva risultare pericoloso. Era
austero fino al cattivo gusto: una volta, ad esempio, invece di recarsi a far
visita al figlio morente e poi a vegliarlo una volta deceduto, si recò in
Senato per assistere a una seduta. Provava un tale disprezzo per gli onori
da mettere in imbarazzo e in agitazione le persone, che non sapevano
come trattarlo.
Aveva, però, anche molte virtù. Era realista, prudente, moderato,
sobrio e parsimonioso. Fu abbastanza modesto da declinare la proposta
della costruzione di un tempio per lui e per sua madre, affermando che il
suo vero tempio sarebbe stato edificato nei cuori della gente25. Insisté per
erigere sul Palatino una residenza più grandiosa di quella di Augusto, ma
fu comunque abbastanza frugale da lasciare alla sua morte il tesoro dello
Stato in avanzo.
Dopo aver divorziato da Giulia, non si risposò più, né si sa che abbia
avuto un’amante stabile. Verrebbe da immaginarsi un uomo solo, quasi il
Citizen Kane degli imperatori romani. Ma Tiberio non era un uomo
semplice, come commenta efficacemente uno storico successivo:
«possedeva moltissime virtù e moltissimi vizi, ma aveva saputo far uso di
entrambi come se fossero un’unica cosa»26.
Dopo una mezza dozzina di anni di governo tranquilli, consentì che i
suoi nemici venissero sottoposti a processo per il reato di maiestas, vale a
dire di lesa maestà del popolo romano, dell’imperatore o della sua
famiglia. Si trattava di un’accusa vaga e pericolosa, quasi una garanzia di
un trattamento arbitrario. I senatori si accusarono a vicenda di
tradimento. Una cosa del genere era accaduta raramente sotto Augusto,
che prestava abbastanza attenzione al Senato, ma Tiberio lasciò che i
senatori si attaccassero a vicenda.
Sebbene il processo venisse celebrato in Senato, gli imputati non
gradirono la scelta del luogo. A differenza che in un normale tribunale, in
Senato vigevano poche regole a difesa degli accusati. Alla fine, decine di
senatori rimasero vittima di questi processi, perdendo la vita. Gli esiti dei
procedimenti paralizzarono la libertà di azione delle centinaia di senatori
che erano riusciti a sottrarvisi. La maggior parte di loro riteneva Tiberio
disonesto e crudele27.
Se questi si comportò come un tiranno, certamente era stato provocato,
per quanto ciò non giustifichi la sua reazione. Sotto l’apparente nobiltà
del suo atteggiamento, covava del risentimento, che trovò ripetutamente
espressione in episodi minori. Come ad esempio alla fine del 22,
quando, al momento della morte, un’anziana nobile vedova mostrò quel
che pensava dell’imperatore escludendolo dal proprio testamento – con
un gesto che pochi altri del suo rango osarono replicare28. Tiberio lasciò
correre, limitando la propria reazione a un solo atto: rifiutò di consentire
alla famiglia della donna di mostrare le maschere di cera del suo defunto
marito e del fratellastro fra i grandi antenati rappresentati nel corteo
funebre. La donna era la vedova di Cassio e la sorellastra di Bruto, due
dei capi della cospirazione che nel 44 a.C. aveva portato all’uccisione di
Giulio Cesare, nonno adottivo di Tiberio stesso. Nonostante fossero
passati ormai sessantasei anni, certe ferite erano ancora aperte.
LA CASA DI AUGUSTO
Tiberio era diventato un buon amministratore, ma Augusto avrebbe
voluto di più: avrebbe voluto un eroe. E ne trovò uno nel nipote di
Tiberio, il vivace e carismatico generale Germanico (15 a.C.-19 d.C.),
figlio del defunto fratello di Tiberio, Druso. A quell’epoca, Tiberio
aveva già un proprio figlio, Druso Minore, ma Germanico ora lo
sopravanzò nella linea successoria. Poiché questi era sposato con una
nipote di Augusto, la sua adozione garantiva che alla fine la linea di
sangue di Augusto ritornasse al potere. Quanto a Livia, giocava a suo
favore la circostanza che Germanico fosse suo nipote, e ciò assicurava
l’accesso al potere dei suoi discendenti in linea di sangue, a partire da suo
figlio Tiberio. Il serioso imperatore e il suo nipote dal fascino magnetico
non andavano d’accordo, e ciò ebbe conseguenze disastrose per la
famiglia imperiale.
Germanico fu un’icona dei primi anni del regno di Tiberio. A ventotto
anni gli fu assegnato il comando degli eserciti romani sul Reno, dove
Augusto lo aveva inviato nel 13, affidandogli otto legioni. Il popolo
romano amava Germanico, sua moglie Agrippina Maggiore, nipote del
divino Augusto, e i loro sei figli superstiti (tre li avevano persi ancora
piccoli). Le fonti ci descrivono Germanico come accomodante,
disponibile, modesto e affascinante, tutte qualità che gli valsero un
seguito sia fra i senatori sia fra la gente comune, a Roma come nelle
province29. Le monete e i busti che lo ritraggono ci mostrano un bel
giovane dal naso aquilino, il mento prominente e i capelli ricciuti. Era
tanto colto quanto battagliero, capace di uccidere un uomo in una lotta
corpo a corpo e di scrivere componimenti poetici in greco. Sua moglie
Agrippina Maggiore appare nei ritratti come una donna dall’espressione
seria, il profilo classico e la capigliatura raccolta in lunghe trecce30.
Alla morte di Augusto, nel 14, le legioni di stanza in Germania si
ammutinarono chiedendo che fosse Germanico, e non Tiberio, ad essere
investito della carica di imperatore. Con l’aiuto della sua abile moglie,
Germanico ebbe ragione dell’ammutinamento e ripristinò la lealtà delle
truppe nei confronti di Tiberio. In seguito, nel 16, Tiberio richiamò
Germanico dal Reno, dove, nonostante il suo nome («conquistatore della
Germania»), il giovane generale aveva vinto delle battaglie ma non aveva
esteso il suo impero. Il suo successo più straordinario lo ottenne quando
riuscì a riprendere le insegne delle legioni perse da Varo e a seppellire le
ossa dei soldati morti che erano rimaste sul terreno.
Una volta tornato a Roma, Germanico celebrò un trionfo che esaltò
oltre misura i suoi successi e amplificò l’adulazione della folla nei suoi
confronti. Quando sfilò su un carro assieme a cinque dei suoi figli, tutti
gli occhi erano puntati su di lui. I suoi amici e i suoi sostenitori erano
sempre pronti a rendere più attraente la sua immagine. Perfino a una sua
precedente spedizione fallita, quella nel mare del Nord, fu dedicato un
poema epico che ne esaltava l’audacia31.
In seguito, Tiberio lo mandò in Oriente con un’ampia disponibilità
finanziaria, ma il giovane premeva per ottenere un potere ancora
maggiore. Assieme ad Agrippina si scontrò col governatore della Siria,
Gneo Calpurnio Pisone, e con sua moglie, Plancina, che si erano uniti
alla sua missione. Erano entrambi nobili e non si lasciavano intimorire
facilmente.
Poco dopo Germanico partì per l’Egitto, che visitò senza il permesso di
Tiberio, per quanto a nessun senatore fosse consentito di fare ingresso
nella provincia senza il suo consenso. Ad Alessandria Germanico
ricevette un’accoglienza da eroe. Doveva la sua popolarità in parte alla sua
discendenza: tramite sua madre Antonia Minore era infatti nipote di
Marco Antonio (e di Ottavia). Anche la sua generosità fu motivo di
successo, poiché in occasione di una carestia aiutò la gente mettendo in
vendita cereali di proprietà statale. Fu salutato da acclamazioni talmente
intense che dovette chiedere agli alessandrini di moderarle32. Disse che
solo Tiberio e Livia meritavano un omaggio simile.
Quando in Siria si ammalò, Germanico affermò di essere stato
avvelenato, e a quanto si dice i suoi sospetti caddero su Pisone e
Plancina33. Morì il 10 ottobre del 19, all’età di trentatré anni. Nello
scalpore che ne seguì, Pisone fu richiamato a Roma e costretto a subire
un processo davanti al Senato. Non fu dichiarato colpevole di omicidio
ma di reati minori, però si suicidò prima che la sentenza venisse
pronunciata; anche Plancina fu costretta a rientrare a Roma, dove fu
salvata grazie alla potente protezione di Livia, la quale fece in modo che
Tiberio in persona intercedesse in suo favore e che venisse assolta. A
Roma molti puntarono il dito contro la gelosia di Tiberio, supponendo
che dietro di lui vi fosse Livia, e vedendo in ciò il vero motivo della
morte di Germanico. Lontani ed elitari com’erano, i due non potevano
rivaleggiare con la popolarità del giovane. Che ne provassero
risentimento è probabile, è umano, ma un omicidio è tutt’altra cosa. Per
inciso, Plancina sopravvisse a Livia, ma rendendosi conto di essere ormai
priva di protezione, a sua volta si suicidò.
Perfino una volta morto, Germanico rimase nelle grazie dell’opinione
pubblica. Le fonti parlano di un’universale espressione di dolore, come se
ognuno sentisse di aver perso qualcosa di sé34. Un poeta scrisse: «Io,
aedo, dichiaro: Germanico non è mio, è delle stelle»35.
Le sue ceneri furono deposte nel mausoleo di Augusto, mentre le torce
ardevano intorno al monumento, e per una volta la rumorosa città
conobbe un silenzio rotto soltanto da pianti di dolore.
La morte di Germanico privò Roma di un eroe, e Tiberio di un
successore. A sessant’anni, sicuramente sentiva su di sé la pressione
perché venisse designato il prossimo imperatore. Germanico aveva tre
figli, che però erano ancora troppo giovani. Druso, il figlio trentaduenne
di Tiberio, era un soldato e uno statista esperto, ma anche un donnaiolo.
Inoltre, Augusto aveva chiaramente manifestato la propria volontà che la
successione spettasse a Germanico e a i suoi discendenti. Fu così che
Tiberio nominò Druso imperatore in attesa di conferma, con l’accordo
che avrebbe trasmesso il trono a uno dei figli di Germanico. Purtroppo, a
questo piano si frappose una faida familiare, nonché l’astuzia di un
concorrente ambizioso che si approfittò di un uomo anziano.
Prima però di occuparci dei drammatici eventi che posero fine al regno
di Tiberio, soffermiamoci un attimo su come egli guidò la politica estera
di Roma e la trasformò per sempre. Fu questa l’eredità dei suoi migliori
anni di governo.

L’ESERCITO IMPERIALE
Simile a figure come George Washington o il generale Dwight D.
Eisenhower, Tiberio era un soldato nell’animo, che preferì tuttavia tenere
la spada nel fodero una volta divenuto un uomo di governo. Trasformò
profondamente il carattere del sistema militare rispetto a quello ereditato
da Augusto, e assegnò all’esercito una nuova missione, che avrebbe
mantenuto a lungo: la difesa della pace romana.
L’esercito era la più grande istituzione dell’impero, ma non era
semplicemente una macchina militare. Per la maggior parte delle persone,
rappresentava l’unico fattore di mobilità sociale. Ed era anche uno
strumento di assimilazione. Trasformava i sudditi delle province in
cittadini, mescolava persone provenienti da una parte e dall’altra del
Mediterraneo, dalle Isole britanniche come dall’Iraq. Il termine
«persone», e non «uomini», è usato a ragion veduta, perché negli
accampamenti militari e nelle comunità che vi crescevano intorno
c’erano donne e bambini che, assieme ai soldati e ai civili, erano
condizionati e influenzati dall’apparato militare romano. Era così anche
se i soldati romani non potevano sposarsi per legge, disposizione che
costituiva un forte motivo di malcontento. Molti di essi, tuttavia,
contraevano matrimoni di fatto.
All’epoca di Tiberio l’esercito imperiale romano contava circa 300.000
uomini, e in seguito, nel II secolo, arrivò a un massimo di 500.000.
Professionale e ben retribuito, era anche molto ben equipaggiato,
estremamente disciplinato e molto vasto.
L’esercito era costituito da tre settori principali: le legioni, gli ausiliari e
altri elementi: rematori e marinai, unità tribali ai margini dell’impero e
inoltre nella capitale guardie pretoriane, forze di polizia paramilitari e
guardie addette agli incendi.
I legionari erano la fanteria pesante, l’orgoglio delle forze militari
romane. Prestavano servizio per un periodo di venticinque anni, e oltre
al salario annuo, ricevevano una liquidazione in denaro al momento della
pensione. Ci si aspettava, poi, che gli imperatori contribuissero di tanto
in tanto con ulteriori indennità in denaro – com’era ovvio se sapevano
cos’era vantaggioso per loro. Dopotutto, quello stesso esercito che aveva
portato al potere i Cesari, li poteva anche detronizzare.
I legionari avevano in genere la cittadinanza romana, ma raramente
erano di origine romana, e neppure italica. L’interesse degli italici per il
servizio militare andò progressivamente scemando, poiché ormai erano
agricoltori che vivevano in pace e nell’agiatezza. Le reclute provenivano
da altre aree quali la Gallia meridionale e la Hispania, oltre che dalle
province della regione danubiana.
Tiberio aveva sotto di sé venticinque legioni, tre in meno rispetto al 9,
quando Varo venne sconfitto in Germania. Non molto dopo il regno di
Tiberio, il numero delle legioni sarebbe ritornato a ventotto, per poi,
dopo un secolo e mezzo, arrivare a trenta e, infine, raggiungere un
massimo di trentatré. Il numero complessivo dei legionari variava dai
130.000 ai 170.000.
Gli ausiliari, che combattevano assieme alle legioni, non erano cittadini
romani. Ricevevano una paga inferiore a quella dei legionari, erano in
genere più poveri e meno istruiti e, per dirla tutta, rischiavano più degli
altri di dover combattere e morire nel cuore della battaglia. Prestavano
servizio in unità reclutate a livello locale, che venivano equipaggiate e
addestrate secondo gli usi locali. A partire dal 50 d.C. circa, gli ausiliari
poterono ottenere la cittadinanza dopo venticinque anni di servizio. In
segno di ciò, ricevevano una tavoletta pieghevole di bronzo, chiamata
diploma.
A Roma erano di stanza forze speciali. La guardia pretoriana, composta
da qualche migliaio di elementi, era una forza scelta operante al servizio e
in difesa dell’imperatore. Altri 1.500 soldati circa erano schierati come
forza di polizia urbana, mentre altri 3.000 soldati si occupavano della
vigilanza sugli incendi. Diversamente dal resto dell’esercito, i soldati di
stanza a Roma erano soprattutto italici.
In Italia la marina aveva due basi, una nel Golfo di Napoli, l’altra
sull’Adriatico. Roma teneva poi delle navi da guerra sul Reno e sul
Danubio.
Un’ultima parte delle forze militari romane era composta da uomini
delle tribù che vivevano su entrambi i lati della frontiera, ai margini
dell’impero, e prestavano servizio in unità semi-irregolari.
Di questo imponente esercito, solo pochi elementi avevano messo
piede a Roma in vita loro. Ciò non privava i militari di una
motivazione, ma faceva sì che la paga e le condizioni di svolgimento del
servizio avessero per loro un’importanza ancora maggiore dell’ordinario.
Dopotutto, se non combattevano per un senso di attaccamento al
focolare, potevano comunque combattere per soldi.
Un altro problema era rappresentato dalla forza in battaglia dell’esercito.
È più facile motivare dei soldati che stanno marciando verso le zone di
combattimento che le truppe delle guarnigioni. Il mantenimento della
disciplina dell’esercito imperiale assunse un rilievo sempre maggiore – e
divenne ancora più difficile.
Un giorno, in un futuro lontano, il molle e tranquillo esercito romano
del tempo di pace avrebbe rappresentato un ambìto bersaglio per i rudi
uomini che abitavano al di là della frontiera. Ma all’epoca di Tiberio non
era così.

«UN PRINCIPE CHE NON SI CURA


DI INGRANDIRE L’IMPERO»36
Germanico ambiva a riconquistare la Germania ad est del Reno, ma
Tiberio, da buon realista, non era d’accordo. Nonostante il gran parlare
che sotto Augusto si era fatto di un imperium sine fine, non si faceva
impressionare. Come si legge nel giudizio riportato nel titolo di questo
paragrafo, Tacito lo descriveva come poco interessato all’espansione, o
perlomeno all’espansione armata. La nuova politica rappresentò un netto
cambio di rotta rispetto alla tradizione. Per quasi trecento anni, gli
uomini che conquistavano nuovi territori avevano dominato la politica
romana. Non sarebbe più stato così: non se Tiberio avesse imposto la
propria linea. E c’erano solidi e ragionevoli motivi perché ciò avvenisse.
Roma aveva un numero di soldati appena sufficiente per sorvegliare le
frontiere: circa trecentomila uomini. Il settore militare assorbiva la
maggior parte delle spese governative, in genere oltre la metà del bilancio
annuale, secondo stime molto approssimative37. Uno Stato moderno,
anche una potenza militare come gli Stati Uniti, tipicamente destina una
parte minore del proprio bilancio al settore militare e una parte maggiore
alla spesa sociale38.
L’economia di Roma era relativamente povera e anelastica rispetto a
quella degli imperi delle epoche successive. La sua capacità di sostenere
maggiori spese militari era limitata. E la Germania non offriva certo
ricchezze sufficienti a farla brillare agli occhi di un eventuale
conquistatore. Presentava solo una frontiera difendibile – la linea lungo
l’Elba e il Danubio – e la possibilità di coprirsi di gloria. L’equilibrato
Tiberio di gloria ne aveva avuta abbastanza. Nell’élite romana molti
pensavano che Roma avesse già conquistato la parte migliore del mondo,
e che il resto forse non valeva la pena di ulteriori sforzi39.
Per altre conquiste occorrevano ancora più soldati. E questo avrebbe
comportato non solo spese, ma anche pericoli, poiché l’aumento della
consistenza delle truppe avrebbe aumentato il rischio di rivolte. Inoltre,
la leva era impopolare. E poi chi avrebbe guidato un’invasione? Gli
imperatori, infatti, volevano evitare che qualcuno dei loro generali
acquisisse crediti grazie a nuove importanti conquiste.
All’epoca la gente non se ne rese conto, ma il 16 rappresentò uno
spartiacque nella storia dell’impero. Richiamando Germanico, Tiberio
poneva fine all’ultimo serio tentativo di riconquistare i territori compresi
fra il Reno e l’Elba. L’unica eccezione era costituita dalla Renania, una
sottile striscia di terra ad est del Reno, che Roma riuscì a controllare per
secoli.
Anni di fieri combattimenti nell’Europa settentrionale avevano
insegnato a Tiberio un’amara verità riguardo alle guerre di conquista.
Diversamente da Augusto, egli non desiderava conquistare il mondo.
Muovendosi come sempre con scaltrezza, riferì al Senato che sul letto di
morte Augusto gli aveva raccomandato di non estendere l’impero. Per un
grande mutamento di politica occorreva il prestigio di Augusto, e
Tiberio fu abbastanza saggio da invocarlo, ma si può dubitare che il suo
predecessore avesse veramente pronunciato quelle parole. Se lo fece, e se
Tiberio davvero poté parlargli prima che morisse, allora si trattò di una
conversione in punto di morte. Tutto quello che Augusto aveva fatto in
veste di imperatore ce lo mostra come un convinto imperialista. A
Tiberio va riconosciuto il merito di aver concepito la nuova politica e di
averla messa in atto.
Tiberio era pragmatico, e non era il solo, ma nel profondo del cuore
Roma coltivava ancora un desiderio di gloria militare. Così, alcuni-
imperatori continuarono a combattere guerre di conquista, soprattutto
quei pochi che erano abili comandanti militari e, diversamente da
Tiberio, ancora abbastanza giovani da impegnarsi in difficili campagne.
Quegli uomini combatterono vaste guerre che fruttarono all’impero le
nuove province della Britannia e della Dacia. Si dedicarono inoltre per
intere generazioni a una lunga e infruttuosa lotta contro i parti e i loro
successori. Nella maggior parte dei casi, però, gli imperatori romani
seguirono la nuova politica imperiale inaugurata da Tiberio.
Sarebbe difficile sopravvalutare le conseguenze della trasformazione da
lui realizzata. È vero che costruì sulle fondamenta gettate da Augusto e da
Giulio Cesare, ma le sviluppò fino a una conclusione logica, per quanto
talvolta dura – e non si sforzò molto di rendere più digeribile la verità. Il
risultato fu un fondamentale mutamento del carattere stesso di Roma. I
romani continuarono a discutere la sua politica e qualcuno dissentì, ma la
trasformazione ci fu, ed ebbe le caratteristiche che cercherò di illustrare.
Un impero alla ricerca di nuovi territori da conquistare necessita di
generali ambiziosi che comandino campagne militari e di uomini politici
dinamici che dirigano la diplomazia. Ha bisogno di un dibattito libero e
aperto per elaborare le strategie e di valenti oratori capaci di ottenere il
consenso del popolo, convincendolo a prestare servizio nell’esercito. Un
impero già consolidato, invece, deve avere comandanti di guarnigione in
grado di mantenere la disciplina e di reprimere eventuali rivolte e
disporre di funzionari che guidino l’amministrazione e di esattori di
imposte. In questo caso non c’era bisogno che il popolo romano
svolgesse alcun ruolo civico neanche servendo sotto le armi, poiché in
Italia e nelle province vi era grande abbondanza di uomini pronti ad
arruolarsi.
Roma inoltre non aveva bisogno di senatori che dirigessero il suo
sistema politico. La nuova Roma lasciò ai membri del Senato un ruolo
che nel migliore dei casi era quello di consiglieri dell’imperatore, nel
peggiore quello di dissidenti da ridurre al silenzio. Augusto aveva già
ridimensionato il senso che il Senato aveva del proprio ruolo; Tiberio lo
ridusse ulteriormente. Alcuni senatori si ribellarono, pagando con la vita,
ma la maggior parte di essi si sottomise docilmente. Cominciarono a
rivolgere la loro attenzione altrove, ricercando consolazione nella filosofia
o nel piacere.

IL GOVERNO DELLA GUARDIA PRETORIANA


Tiberio aprì il suo regno mostrando benevolenza nei confronti del
Senato, e lo chiuse in un clima di ostilità. Un tale mutamento ci appare
quasi inevitabile, data la nuova realtà del potere, l’indisponibilità dei
nobili romani ad arrendersi senza combattere e i modi bruschi e diretti
dell’imperatore. Per gran parte del suo regno, e in particolare fra il 26 e il
31, il suo principale consigliere e alleato nella lotta contro la nobiltà fu
Lucio Elio Seiano. Tacito definisce Seiano audace, malvagio e astuto, e
lo accusa di aver tratto il peggio da Tiberio40. Non sappiamo però quale
sia la verità, ed è anche possibile che Seiano non facesse altro che eseguire
gli ordini del suo signore.
Come Agrippa, che era stato il braccio destro di Augusto, Seiano
proveniva da una famiglia equestre di rango elevato, che aveva legami con
diversi senatori. E come Agrippa, era capace e ambizioso e si era reso
indispensabile all’imperatore. Durante il regno augusteo Seiano si era
distinto, e sotto Tiberio dapprima comandò assieme ad altri la guardia
pretoriana, poi ne divenne l’unico comandante col titolo di prefetto del
pretorio.
Seiano utilizzò quella posizione come base per raggiungere i vertici del
potere. All’epoca dell’ascesa di Tiberio si avviava verso i quarant’anni, e
riuscì a conquistare la fiducia dell’imperatore. Gli altri consiglieri di
Tiberio scomparvero uno dopo l’altro, lasciando Seiano in una posizione
nella quale non aveva rivali. La morte improvvisa e inattesa, nel 23, del
figlio Druso Minore fu un duro colpo per Tiberio. Ancora una volta, i
piani dell’imperatore per la propria successione erano saltati.
Le donne della nobiltà romana trovavano Seiano affascinante. Una delle
sue conquiste fu la nuora di Tiberio, Livilla, che divenne la sua amante.
La moglie di Seiano, risentita, affermò in seguito che Livilla aveva
avvelenato suo marito, Druso Minore, su ordine di Seiano. Le prove a
sostegno di quest’accusa erano state ottenute ricorrendo alla tortura. Se i
romani accettavano le confessioni rilasciate sotto tortura, noi le
consideriamo ovviamente prive di valore. In ogni caso, all’epoca in cui i
fatti furono riferiti, Seiano era già morto, e non era quindi in grado di
difendersi.
In passato, quando era ancora in ascesa, aveva convinto Tiberio a
costruire una caserma per le guardie pretoriane nei dintorni di Roma.
Era un luogo imponente, che si estendeva su una superficie di circa 16
ettari. La forma era quella rettangolare consueta dei campi militari
romani, ma con fortificazioni più massicce del solito: il campo era
circondato da un alto muro in mattoni consolidato da bastioni e con
numerose porte dotate di torri. Una parte consistente della struttura può
essere osservata ancora oggi, a poca distanza dalla stazione Termini.
Il luogo era chiamato Castra Praetoria. La guardia pretoriana era un
corpo scelto composto da diverse migliaia di uomini, professionisti
retribuiti molto bene, e incaricato della sicurezza dell’imperatore. A
crearla era stato Augusto, che – da politico scaltro qual era – l’aveva tenuta
fuori Roma, in alcune cittadine non lontane, per non offendere il Senato.
Tiberio interruppe quella finzione: dapprima fece trasferire la guardia in
città acquartierandola in vari luoghi, poi dette avvio alla costruzione del
campo permanente.
Tenere la guardia riunita in un’unica posizione strategica rendeva più
facile far rispettare la disciplina e, allo stesso tempo, incutere timore.
Senza dubbio ciò contribuiva a rafforzarne lo spirito di corpo, ed è forse
in questo periodo che essa adottò il suo famoso simbolo raffigurante uno
scorpione. Era il segno zodiacale di Tiberio, fanatico di astrologia, e il
suo pungiglione velenoso richiamava il potere malefico della guardia.
Più la guardia pretoriana era efficiente, meno libero era il popolo
romano. Lo stesso si può dire del potere di Seiano, al cui rafforzamento
faceva riscontro la diminuzione della libertà politica. Nel 26, fu il caso a
favorirlo. Tiberio possedeva una villa situata in un luogo pittoresco sulla
costa a sud di Roma, costruita all’interno e intorno ad una grotta. Un
giorno, mentre era a tavola, alcuni massi precipitarono improvvisamente
all’ingresso della grotta, schiacciando alcuni dei presenti. Mentre si
scatenava il panico, Seiano, senza perdere la calma, fece scudo col
proprio corpo all’imperatore. Dopo questo episodio, l’imperatore si fidò
ancor più di prima del comandante della guardia considerandolo un
consigliere disinteressato.
La grotta esiste ancora oggi, a Sperlonga, e conserva molti segni
dell’antico lusso, dalle vasche per i pesci e dalle camere da letto alle
raffinate sculture. Pensando alle esecuzioni che vi avvennero su ordine di
Tiberio e di Seiano, un visitatore potrebbe essere portato a pensare che
quello fosse il luogo di nascita della tirannia.
Poco tempo dopo, Tiberio lasciò Roma per sempre. L’isola di Capri
era stata il rifugio preferito di Augusto. Tiberio andò oltre, e ne fece la
propria residenza. Nel 26, a sessantotto anni, vi si ritirò. Sebbene una
parte rilevante del suo potere passasse nelle mani di Seiano, Tiberio
rimase l’imperatore. Continuò a prendere decisioni e ad ordinare
esecuzioni, solo che non si recava più a Roma. Passò la maggior parte dei
suoi ultimi dieci anni in una lussuosa residenza sull’isola, Villa Jovis, a
circa 270 chilometri dalla capitale.
Questo trasferimento fece impressione, perché dimostrava che «Roma è
dove è l’imperatore», come avrebbe affermato un detto di epoca
successiva41; nello specifico l’espressione si riferiva a un sovrano che
avrebbe regnato 150 anni dopo, ma già all’epoca di Tiberio era una
verità42.
Il trasferimento di Tiberio suscitò impressione anche perché mostrava
che egli aveva posto fine alla sua politica di rispetto nei confronti del
Senato. Se l’imperatore non stava più a Roma, non poteva più prendere
parte alle sue sedute. Dopo aver tentato di rianimarne il potere, quindi,
l’imperatore aveva dichiarato fallito l’esperimento.
Ma per altri aspetti il fatto che Tiberio si ritirasse da Roma non era
altrettanto scioccante, poiché con questo gesto egli riprendeva l’esempio
dei suoi predecessori. Giulio Cesare aveva passato a Roma solo brevi
periodi – nel complesso, meno di un anno – nel corso dell’ultimo
movimentato quindicennio della sua vita. E lo stesso Augusto aveva
trascorso gran parte del tempo fuori dalla capitale. È vero che in genere
rimanevano fuori perché impegnati in questioni essenziali, quali la
guerra, l’attività diplomatica o l’ispezione delle province. Ma sia Cesare
sia Augusto disponevano di affidabili canali di informazione, a differenza
di Tiberio. Seiano, infatti, controllava il flusso delle informazioni che
arrivavano a Capri, e decideva cosa Tiberio dovesse sapere e cosa no. Il
guardiano assumeva il compito del decisore.
Sembra improbabile che Tiberio lasciasse Roma per sottrarsi alla madre
Livia, come qualcuno disse, anche se non è escluso che ne avesse
abbastanza di una personalità così forte43. Una volta litigarono per
l’insistenza con cui lei tentò di indurlo a nominare una persona priva dei
requisiti necessari a ricoprire un incarico prestigioso in un consesso di
giudici. Alla fine Tiberio acconsentì, ma la criticò pubblicamente. Poi
Livia lo fece infuriare, poiché rese note alcune vecchie lettere di Augusto
che fino ad allora aveva tenuto chiuse in una teca e nelle quali suo figlio
veniva descritto come cupo e ostinato44. Tiberio era troppo controllato
per reagire in modo emotivo a un colpo basso del genere. Ma si sarebbe
preso una vendetta a freddo.
Nel 29, tre anni dopo il ritiro del figlio a Capri, Livia morì. Tiberio
non rientrò a Roma per assistere al funerale e alla sepoltura della madre
nel mausoleo di Augusto. L’episodio contrasta nettamente con altri
risalenti ad anni precedenti, come quando aveva attraversato l’Europa
settentrionale per accorrere al capezzale del fratello morente, o quando
nel 22 aveva fatto rapidamente ritorno a Roma una volta appresa la
notizia della malattia della madre. E rifiutò di proclamare la divinità di
Livia post mortem, come essa stessa avrebbe desiderato e come il Senato
aveva deliberato. Alla fine, sarebbe stato un suo successore ad adottare il
provvedimento. Il Senato aveva deliberato anche di rendere onore a Livia
erigendo un arco trionfale, che sarebbe stato il primo monumento del
genere dedicato a una donna, ma Tiberio fece in modo di assicurarsi che
non venisse mai costruito45.
Detto questo, nessuno poteva tuttavia negare l’importanza del ruolo
svolto da Livia. Una volta sepolte le sue ceneri, la portata monumentale
della sua opera sopravvisse. Quando era nata, ottantasette anni prima, i
fieri nobili del Senato si sentivano ancora in diritto di guidare il destino
dell’impero. Al momento della sua morte, era lei a dirigere quella nobiltà
per conto dell’impero. Poteva sinceramente considerarsi l’autrice di un
nuovo ordine, colei che era stata sia moglie sia madre del primo
cittadino, esponente di rango del clan dei Claudi ma anche Giulia
Augusta, una donna che aveva rinnovato la repubblica e poi l’aveva
seppellita. Prima di allora Roma aveva conosciuto donne potenti, ma
nessuna era in grado di stare alla pari con Livia.
Tiberio, che all’epoca aveva già passato la settantina, continuò a svolgere
alcune attività pubbliche, e in modo particolare l’amministrazione delle
province. Quando alcuni governatori gli scrissero per sollecitare un
aumento del prelievo fiscale nelle province, l’imperatore rispose: «Il buon
pastore tosa le pecore, ma non le scortica»46. Ma quando si trattava della
politica della capitale, e soprattutto della famiglia imperiale, si fidava
perfino troppo di Seiano.
A Capri Tiberio si portò dietro anche il suo astrologo personale.
Svetonio è prodigo di storie succose riguardo alle malefatte erotiche
dell’imperatore sull’isola. Il «vecchio capro», come si dice che la gente lo
chiamasse47, gradiva le donne come i fanciulli di entrambi i sessi. Fra le
sue dissolutezze sembra vi fossero orge, rapporti a tre, atti di pedofilia e
perfino l’uccisione di qualcuno che gli si rifiutò. A quanto pare
insegnava a dei ragazzini a inseguirlo mentre nuotava e ad entrargli fra le
gambe per poi leccarlo e mordicchiarlo – li chiamava i suoi «pesciolini»48.
Storie del genere possono aver contribuito alla scarsa considerazione in
cui Tiberio era tenuto a Roma, ma la storia romana è piena di voci
riferite a eventi scabrosi, e dovremmo mantenere un certo scetticismo al
riguardo. In realtà, l’osservazione delle stelle e la chiromanzia sono
probabilmente le attività più spinte che Tiberio condusse sull’isola. Nel
frattempo, però, nella capitale l’atmosfera si stava surriscaldando.
Il ritmo dei processi contro i nemici di Tiberio accusati di tradimento a
quel punto raggiunse il massimo grado. Quanto di ciò che seguì fu opera
dell’imperatore e quanto invece di Seiano è difficile stabilirlo. Uno
storico, ad esempio, fu accusato per aver affermato che Bruto e Cassio
erano «gli ultimi dei romani»49. Fiero nemico di Seiano, venne costretto a
suicidarsi50.
Seiano convinse Tiberio che la vedova di Germanico, la fiera e
determinata Agrippina Maggiore, stava ordendo un complotto ai suoi
danni. L’accusa poteva anche essere fondata, poiché la nipote di Augusto,
e quarta persona della famiglia a influenzare la vita di Tiberio, odiava
davvero l’imperatore. Tacito scrive che era così «avida di potere» che
«aveva vinto ogni debolezza femminile alimentando in sé solo passioni
virili»51. Orgogliosa e popolare, pensava che Tiberio fosse un intruso fra i
veri eredi. I cattivi rapporti fra di loro andarono via via peggiorando.
I due litigarono a proposito del procedimento penale a carico di un
amico e cugino di Agrippina. Quando lei, furiosa, accusò Tiberio di
averla voluta in tal modo attaccare direttamente, egli replicò citando una
frase greca, chiedendole se pensava di aver titolo a regnare. Non molto
tempo dopo, Agrippina chiese il consenso di Tiberio per potersi
risposare. Egli rimase in silenzio, il che significava di fatto un diniego.
Anni dopo, la accusò di adulterio52. Infine, una volta che era seduta
accanto a lui durante un ricevimento, Agrippina rifiutò di toccare alcune
mele che lui le aveva porto – lasciando intendere che la voleva
avvelenare53. Tiberio si lamentò di ciò con Livia, che era a sua volta
presente e non invitò più Agrippina a pranzo.
Infine, nel 29, poco dopo la morte di Livia, Tiberio accusò Agrippina
di aver progettato di rifugiarsi presso la statua di Augusto, o presso
l’esercito. La fece arrestare e ottenne che il Senato la esiliasse dall’Italia
inviandola in un’isola sperduta, nello stesso luogo in cui una volta
Augusto aveva confinato la sventurata Giulia. Quattro anni più tardi,
Agrippina morì. La storia ufficiale narra che aveva deliberatamente
smesso di mangiare, ma secondo una voce fu fatta morire di fame54.
Come Giulia, era dello stesso sangue di Augusto, ma conobbe una fine
terribile dopo essersi scontrata con il suo erede.
Anche i suoi figli non ebbero fortuna sotto Tiberio. Invece di
trasmettere il trono a uno di loro, come in un primo tempo era stato
previsto, l’imperatore fece incarcerare i due ragazzi più grandi, che non
sopravvissero. Rimase solo il loro fratello più piccolo, Gaio, all’epoca
diciassettenne.
Seiano divenne sempre più potente, e a trentun anni aveva ormai
convinto Tiberio ad attribuirgli un’autorità legale pari quasi alla sua. Il
settuagenario imperatore, nel frattempo, prestava sempre meno
attenzione alle vicende romane. Riguardo alla sua impopolarità in Senato
sembra che affermasse: «Che mi odino pure, purché mi approvino»55.
L’imperatore lasciò cadere la sua opposizione di lunga data al
matrimonio fra Seiano e Livilla, vedova di suo figlio Druso. Tutto
sembrava pronto perché Seiano fosse nominato erede al trono. Ora che si
era liberato di Agrippina e dei suoi figli, era pronto a uscire allo scoperto
e ad assumere il potere in prima persona. Ma ecco entrare in scena il
destino.
Se le fonti sono attendibili, è in questo momento che un’ultima donna
della famiglia di Augusto salvò Tiberio: sua cognata Antonia Minore56.
Era una donna imperiale da tutti i punti di vista. Figlia di Ottavia e di
Marco Antonio, nipote di Augusto, vedova del fratello di Tiberio,
Druso, madre di Germanico e nonna dei figli che questi aveva avuto da
Agrippina. Si diceva che fosse bella come Venere57, e talmente gentile
che non sputava mai58. Era il modello della fedeltà coniugale. Dopo la
morte del marito nel 9, rimase vedova e decise di continuare a vivere
nella casa della suocera, Livia. Fu lì che crebbe i suoi tre figli e, dopo la
morte di Livia, i suoi nipoti. Inoltre, controllava un gruppo di giovani
principi stranieri che erano tenuti in ostaggio a Roma. Contribuiva poi
ad amministrare le vaste proprietà di cui disponeva. E si mantenne
sempre attiva in campo politico.
Nel 31 Antonia compì la sua più audace mossa politica, assumendosi il
rischio di scrivere a Tiberio e di informarlo che Seiano stava ordendo un
complotto contro di lui. La lettera riuscì a convincere l’imperatore che
Seiano aveva intenzione di uccidere Agrippina e il figlio sopravvissuto di
Germanico per poi mettere sul trono il giovane nipote di Tiberio e
tenere in mano il potere reale a Roma.
Per Tiberio era abbastanza. La lettera non faceva che confermare i
sospetti che già aveva sul suo onnipotente ministro. Il 18 ottobre del 31
fece leggere in Senato un’altra lettera, alla presenza di Seiano. Si trattava
di una feroce denuncia di Seiano stesso, scritta da Tiberio in persona.
Scioccato e impreparato all’evento, Seiano aveva commesso un errore
fatale, sottovalutando Tiberio. I senatori, nel frattempo, risposero al
richiamo del loro signore. Fecero immediatamente portare Seiano fuori
dall’aula per poi giustiziare lui e i suoi giovani figli. Non fu sottoposto a
un processo, né venne formulata un’accusa formale, in spregio ai diritti
di un cittadino romano, poi il suo cadavere venne mutilato e gettato nel
Tevere. I suoi sostenitori furono trascinati in tribunale. E tutto ciò
avvenne perché una donna della famiglia imperiale aveva messo in moto
il processo.
Il nome di Seiano venne cancellato dai documenti ufficiali e tutte le sue
immagini furono distrutte – in modo così sistematico che oggi non
disponiamo di nessuna immagine chiaramente identificabile di questo
uomo un tempo così famoso. In genere chi veniva dichiarato nemico
dello Stato dal Senato veniva cancellato dalla memoria pubblica. I
particolari variavano da un caso all’altro. Sebbene questo provvedimento
venga talvolta definito damnatio memoriae, l’espressione non è antica ma è
stata creata in tempi più recenti.
Prima di colpire Seiano, Tiberio assunse la precauzione di prendere
accordi con il comandante della squadra antincendi di Roma, Quinto
Sutorio Macrone. In seguito, Tiberio lo nominò comandante della
guardia pretoriana. Ciò non giocò a favore del Senato. Infatti, Macrone
intentò un numero di processi per tradimento ancora maggiore di quanto
avesse fatto Seiano. Tiberio ordinò che venisse giustiziato in carcere
chiunque fosse sospettato di aver appoggiato il suo ex consigliere. I
cadaveri delle vittime furono dapprima lasciati decomporre, poi gettati
nel Tevere. L’imperatore e i suoi due prefetti del pretorio distrussero
gran parte di quella poca indipendenza che restava della vecchia nobiltà
romana.
Tiberio sopravvisse, ma a caro prezzo. Fu costretto a riconoscere che
Seiano lo aveva ingannato. Peggio ancora, l’imperatore sapeva di aver
dato fiducia all’uomo che forse aveva dato l’ordine di uccidere suo figlio.
Non c’è da stupirsi che i suoi ultimi anni fossero segnati dall’amarezza.

LA VENDETTA DI GERMANICO
Tiberio era il responsabile della morte di due dei figli di Agrippina
Maggiore e di Germanico, ma aveva salvato il terzo, Gaio, e lo aveva
portato a Capri. L’imperatore aveva un nipote, il figlio di Druso Minore,
suo figlio biologico, e lasciò aperta la questione di quale sarebbe stato il
giovane da destinare alla propria successione. Sicuramente le sue
preferenze andavano al nipote, ma Gaio aveva dalla sua la popolarità di
Germanico e il sangue di Augusto.
Le fonti riportano che Tiberio percepiva il cattivo carattere di Gaio e
che perfino se ne compiacesse, poiché avrebbe fatto apparire migliore il
suo, retrospettivamente, e offeso i suoi nemici in Senato. A quanto pare,
Tiberio pensava che Gaio fosse una vipera59; sembra che una volta avesse
detto: «Dopo la mia morte la terra si mescoli al fuoco»60. Storie
interessanti, ma che suscitano scetticismo.
Lo storico, tuttavia, si sofferma sul pensiero del vecchio e cinico
imperatore e del giovane principe corrotto e viziato insieme nella bella
isola del Mediterraneo. Mentre andavano soppesando il destino del
mondo nelle loro mani, forse condivisero le lezioni di realismo politico
che entrambi avevano appreso da Livia – madre di Tiberio e bisnonna di
Gaio. Era Livia ad aver cresciuto Gaio in casa propria dopo che sua
madre era morta. Forse Tiberio notò non solo che Livia non c’era più,
ma anche che quasi tutte le altre donne della famiglia estesa di Augusto,
che tanto avevano influenzato la sua vita, se n’erano andate: la bella
Giulia, incline alle trame, la fedele Vipsania, la vendicativa Agrippina. La
coraggiosa e generosa Antonia era ancora viva, ma sarebbe sopravvissuta a
Tiberio per meno di sette settimane. A tutti gli effetti, la famiglia
imperiale si era ridotta al vecchio «capro» e alla giovane vipera.
Il 16 marzo del 37, quando Gaio aveva ventiquattro anni e il suo prozio
Tiberio settantotto, il vecchio imperatore morì. Alcuni dissero che Gaio
aveva avvelenato Tiberio, o che lo aveva fatto morire di fame, o ancora
che lo aveva soffocato con un cuscino61. Altri incolparono della sua morte
Macrone, il comandante della guardia pretoriana. I soldati acclamarono
Gaio imperatore, e due giorni dopo il Senato fece lo stesso. Oggi Gaio è
noto soprattutto col soprannome che ricevette in giovane età, Caligola –
«piccola caliga» (calzatura dei legionari) –, per l’uniforme in miniatura
con cui i genitori solevano vestirlo quando, da bambino, viveva con loro
in un campo militare in Germania. Figlio di Germanico, bisnipote del
divino Augusto e discendente anche di Marco Antonio, Caligola aveva
prestigiose ascendenze genealogiche. E così, alla fine Germanico si prese
una sorta di rivincita su Tiberio.
Quest’ultimo non sarebbe stato ricordato con affetto. A Roma la notizia
della sua morte venne accolta con tale gioia che la gente correva per strada
gridando: «Al Tevere con Tiberio!»62. Caligola rifiutò di divinizzare il
suo predecessore, e Tiberio rimane così uno dei pochi imperatori nei
primi due secoli del principato ad essere stato privato di tale onore.
Tuttavia, se dovessimo giudicarlo dai risultati della sua politica, fu uno
degli imperatori che raccolse più successi: all’estero garantì la difesa dei
confini dell’impero, all’interno tenne costantemente assoggettato il
Senato. Tiberio capovolse l’impostazione imperialistica di Augusto e
bloccò qualsiasi seria opposizione interna al proprio governo, continuò
ad assicurare le condizioni necessarie per promuovere il commercio e la
prosperità e, soprattutto, garantì il mantenimento del principato. Roma
avrebbe continuato ad essere governata dai Cesari. Ora, però, senza alcun
impedimento davanti a sé.
Augusto aveva aperto il proprio regno con la violenza e lo aveva
concluso usando la persuasione e la benevolenza, seguendo, si potrebbe
quasi dire, le regole dettate poi da Machiavelli per il dominio del
principe. Tiberio fece invece esattamente l’opposto, cominciando con
moderazione e concludendo in modo duro e violento.
Tacito lo dipinge come un tiranno scaltro e triste, ma la maggior parte
degli studiosi odierni ritiene che un giudizio del genere sia esagerato.
Senza dubbio lascia fuori dal quadro le molte qualità positive
dell’imperatore. E tuttavia nessuno nega la ferocia con cui trattò la nobiltà
romana, né contesta l’importanza delle caserme della guardia pretoriana,
che ora incombeva sulla nuova realtà politica di Roma. Con esse Tiberio
«serrò le catene del suo paese», come scrisse nel Settecento lo storico
britannico Edward Gibbon63. Vi sono diverse ragioni per considerare
Tiberio una sorta di despota illuminato, e la sua personalità fu
sicuramente più complessa di quanto Tacito non sia disposto ad
ammettere. Non possiamo però respingere l’appellativo di tiranno per
designare l’uomo che perseguitò e uccise i suoi oppositori politici sulla
base di generiche accuse di tradimento.
In definitiva, Tiberio sollevò il velo della monarchia romana. Quel che
mancava per trasformare Roma in un’autocrazia non illuminata era un
megalomane. E avvenne che all’orizzonte se ne prospettasse uno, anzi,
ben due. La grande prova che il sistema politico costruito da Augusto si
trovò a dover affrontare sarebbe consistita, di lì a poco, nel verificare se
esso avrebbe potuto detronizzare un cattivo imperatore senza generare il
caos.
Tiberio si considerava forte e virile, e le sue imprese militari ne furono
una prova. Tuttavia, le donne svolsero un ruolo importante nella sua
carriera, dalla sua salvatrice Antonia a Giulia, sorellastra e moglie
ripudiata, alla rivale e nuora adottiva Agrippina. Ma la figura più
importante fu quella di sua madre Livia, la donna più potente che Roma
avesse mai conosciuto. Tiberio si innamorò una sola volta, della sua
prima moglie Vipsania, ma questo sovrano estremamente guardingo non
ha lasciato alcuna immagine del loro matrimonio.
Gli scontri fra Tiberio da una parte, e Livia, Giulia e Agrippina
dall’altra sono l’espressione dell’inversione di rotta nella vita romana. La
virilità assertiva, sostenuta sul fronte interno dalle donne, valse a Roma il
suo impero. E tuttavia, il problema fondamentale era ora difenderlo,
l’impero, non estenderlo. La forza e il valore erano meno importanti
dell’intelligenza e del calcolo. Solo un pregiudizio sociale e le
incombenze legate alla maternità impedivano che le donne potessero
competere sullo stesso piano degli uomini.
Ma questo lasciava gli uomini alla ricerca di una nuova definizione.
Tiberio poté pensare di aver risolto il problema della leadership eroica e
del senso di missione che essa conferiva all’impero, ma di fatto non fece
che riproporlo in una nuova forma. Dopo di lui, ritornò ad avere un
ruolo cruciale il carisma. Nelle tre successive generazioni di imperatori,
il governo di Roma ruotò tutto attorno alla figura di Germanico:
dapprima una versione autocratica (suo figlio, Caligola), poi una versione
zoppa (suo fratello Claudio), quindi una da baccanale (suo nipote
Nerone). Dopo di che, alla fine, Roma tornò a un secondo Tiberio, per
così dire – un soldato-imperatore, ma stavolta con maggior fascino
popolare –: Vespasiano, il costruttore del Colosseo.
Più gli imperatori riuscivano a centrare l’impero sulla pace, meno teso e
pericoloso rendevano l’esercito romano. Più essi facevano del governo
romano un’autocrazia, meno energici ed efficaci rendevano i singoli
cittadini, soprattutto quelli appartenenti all’élite. Una repubblica fatta da
potenziali Cesari non poteva reggere, ma una repubblica fatta di pecore e
di gaudenti non era in grado di difendersi.
Tiberio fu un capo capace di introdurre importanti trasformazioni, ma
non carismatico. Appare quindi paradossale che la più grande rivoluzione
religiosa della storia occidentale sia cominciata durante il suo regno:
l’azione missionaria di Gesù Cristo. Dopo aver predicato il vangelo in
Galilea, Gesù di Nazareth venne crocifisso a Gerusalemme intorno al 30.
I suoi seguaci lo acclamarono come il Messia – in greco, il «Cristo».
Credevano nella resurrezione dei corpi e arrivarono a concepire la sua
missione come la nascita di una nuova religione, il cristianesimo.
Naturalmente Tiberio non sapeva niente di tutto ciò, quando
soggiornava nella sua Villa Jovis, nella remota isola di Capri.

 
1
Velleio Patercolo, Le storie II.104.3.
2
Su questa seduta del Senato, si veda Tacito, Annali I.5-13; Svetonio, Tiberio, XXIII-XXV, e
Id., Augusto, C-CI; Cassio Dione, Storia romana LVII.2-7.
3
Tacito, Annali IV.71; cfr. Cassio Dione, Storia romana LVII.1.1-6.
4
L’uomo era Gaio Asinio Gallo, che sposò Vipsania dopo il suo divorzio da Tiberio (Tacito,
Annali I.2 e VI.23; Cassio Dione, Storia romana LVIII.23).
5
Svetonio, Tiberio XXIV.2; Svetonio afferma che si tratta delle precise parole pronunciate da
Tiberio, e non di una parafrasi o di un’invenzione.
6
Ivi, XXV.1.
7
Cassio Dione, Storia romana XLVIII.44.3.
8
Tacito, Annali I.4. Si veda anche Svetonio, Tiberio L.3.
9
Svetonio, Tiberio LXVIII.
10
Ivi, XXI.2.
11
Tacito, Annali V.1.
12
Svetonio, Tiberio VII.2-3.
13
Sui motivi per i quali Tiberio si ritirò a Rodi, si veda Velleio Patercolo, Le storie II.99;
Tacito, Annali I.4.4, I.53.1-2, II.42-43 e IV.57; Svetonio, Tiberio X.1-2; Cassio Dione, Storia
romana LV.9.
14
Velleio Patercolo, Le storie II.111.3.
15
Ad esempio, RIC I (second edition) Augustus 225
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.1(2).aug.225).
16
Plutarco, Antonio 81.2.
17
Tacito, Annali I.53.
18
Cassio Dione, Storia romana LVII.7.4.
19
Ivi, LVII.8.2.
20
Svetonio, Tiberio XXIX.
21
Tacito, Annali I.12.
22
Ivi, III.65.
23
Svetonio, Giulio Cesare LXXII.1.
24
Id., Tiberio LXXI.1.
25
Tacito, Annali IV.38.
26
Cassio Dione, Storia romana LVIII.28.5.
27
Ivi, LVII.6.3; cfr. anche LVII.1-2; Svetonio, Tiberio XXI.2 («eius diritatem»: la durezza [del
suo carattere]), e LVII.1 («saeva ac lenta natura»: la sua natura crudele e tenace).
28
Tacito, Annali III.76.
29
Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, a cura di Luigi Moraldi, vol. II, Libri XI-XX, UTET,
Torino 1998, XVIII.207-208; Tacito, Annali I.33.
30
Cfr., ad esempio, RIC I (second edition) Gaius/Caligula 55
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.1(2).gai.55).
31
Albinovano Pedone, cit. in Seneca il Vecchio, Suasoriae I.15, in Id., Controversie, libro X,
Suasorie e frammenti, Zanichelli, Bologna 1988. Si veda anche Tacito, Annali II.23-24.
32
Melvin George Lowe Cooley (ed.), Tiberius to Nero, London Association of Classical
Teachers, Cambridge-London 2011, p. 163.
33
Tacito, Annali II.71; Cassio Dione, Storia romana LVII.18.9.
34
Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche cit., vol. II, XVIII.209.
35
Lollio Basso, Sulla morte di Germanico, in Antologia palatina, vol. II, Libri VII-VIII, Einaudi,
Torino 1979, VII.39.
36
Tacito, Annali IV.32.
37
Elio Lo Cascio, The Early Roman Empire: The State and the Economy, in Walter Scheidel, Ian
Morris, Richard Saller (eds.), The Cambridge Economic History of the Greco-Roman World,
Cambridge University Press, Cambridge 2007, p. 624, n. 26.
38
www.cbo.gov/topics/defense-and-national-security.
39
L’Africa di Strabone: libro XVII, della Geografia, introduzione, traduzione e commento di
Nicola Biffi, Edizioni dal Sud, Modugno 1999, XVII.839.
40
Tacito, Annali IV.1-2.
41
Erodiano, Storia dell’Impero romano I.6.5.
42
Commodo, che regnò dal 180 al 193.
43
Cassio Dione, Storia romana LVII.12. Si veda anche Tacito, Annali IV.57, e Svetonio, Tiberio
LI.
44
Svetonio, Tiberio LI.1.
45
Cassio Dione, Storia romana LVIII.2.3-6.
46
Svetonio, Tiberio XXXII.2.
47
Ivi, XLV.
48
Ivi, XLIV.1.
49
Ivi, LXI.3.
50
Tacito, Annali IV.34-35.
51
Ivi, VI.25.
52
Ibid.
53
Svetonio, Tiberio LIII.
54
Tacito, Annali VI.25.
55
Svetonio, Tiberio LIX.
56
Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche cit., vol. II, XVIII.6.6.
57
Nikos Kokkinos, Antonia Augusta: Portrait of a Great Roman Lady, Routledge, London-New
York 1992, pp. 15-119.
58
Plinio il Vecchio, Storia naturale VII.80.
59
Svetonio, Caligola XI.
60
Cassio Dione, Storia romana LVIII.23.4.
61
Tacito, Annali VI.50; Svetonio, Tiberio LXXIII.2; Cassio Dione, Storia romana LVIII.28.3.
62
Svetonio, Tiberio LXXV.1.
63
Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 3 voll., a cura di
David Womersley, Penguin, Harmondsworth 1994, vol. I, p. 128 (trad. it. di Giuseppe Frizzi,
Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, con un saggio di Arnaldo Momigliano, Einaudi,
Torino 1967).
Nerone
3
Nerone, l’intrattenitore

La notte fra il 18 e il 19 luglio del 64, cinquant’anni dopo la morte di


Augusto, a Roma scoppiò un incendio. Le fiamme divamparono da
alcune botteghe poste a un’estremità del Circo Massimo, quindi si
propagarono, spinte dal vento, a tutta l’area del circo, per poi raggiungere
le valli adiacenti e salire fino ai colli. La gente si dette alla fuga, molti
persero tutto, e di lì a poco bande di saccheggiatori cominciarono ad
aggirarsi per le strade.
A Roma gli incendi erano frequenti e difficili da domare. La città era
molto vulnerabile dal fuoco, piena com’era di strette viuzze tortuose e di
edifici costruiti in massima parte di mattoni di fango, con travi di legno e
graticci impastati con argilla. I mattoni in terracotta e il marmo erano
l’eccezione, non la regola. Spesso le case avevano muri divisori comuni,
e solo pochi proprietari tenevano a portata di mano attrezzature adatte a
contrastare un incendio. L’opprimente caldo estivo e le frequenti siccità
facilitavano la diffusione di incendi incontenibili. Augusto dette a Roma
la sua prima squadra antincendio, che però era di piccole dimensioni e
doveva affidarsi a secchi da riempire attingendo all’acquedotto. In estate, i
livelli idrici erano spesso bassi, a causa degli indebiti prelievi d’acqua
effettuati dai ricchi per rifornire le loro residenze monumentali. Nel caso
di un grande incendio il modo migliore per averne ragione era abbattere
gli edifici in modo da creare delle barriere tagliafuoco.
Questa volta l’incendio era il più grave della storia di Roma, e infuriò
per cinque giorni. Solo il sesto giorno le squadre riuscirono a demolire
un numero sufficiente di edifici per fermare le fiamme, che poi però
ripartirono. Prima che fosse definitivamente domato, l’incendio rase al
suolo tre dei quattordici quartieri della città, lasciando in piedi solo pochi
edifici danneggiati in altri sette e risparmiando solo quattro settori del
centro urbano. Il numero delle vittime fu notevole.
Quando l’incendiò divampò, l’imperatore Nerone si trovava nella sua
villa sul litorale di Anzio, a sud di Roma. Diversamente da quanto
avevano fatto i suoi predecessori in occasione di tragedie simili, non si
precipitò in città. Di fatto, rimandò il suo rientro fino a quando il suo
stesso palazzo non fu minacciato dalle fiamme. La nuova grande «casa di
passaggio», come lui stesso chiamava quell’edificio, attraversava una valle
e collegava due dei colli di Roma. La parte situata su un colle fu distrutta
dalle fiamme, l’altra invece rimase in piedi. Fu qui che Nerone stabilì un
suo posto di comando nella città assediata dal fuoco.
Fu allora che si svolse una delle scene più famose di tutta la storia antica.
Così la descrive Tacito: «Si era diffusa la voce che, nel momento stesso in
cui la città era in preda alle fiamme, egli era salito sul palcoscenico del
palazzo imperiale e aveva cantato la caduta di Troia, raffigurando in
quell’antica sciagura il presente disastro»1.
È questa ovviamente l’origine della moderna espressione «Mentre
Roma brucia, Nerone suona la lira».
Il canto era infatti la passione dell’imperatore, soprattutto se
accompagnato dalle note di una lira, secondo una forma di espressione
artistica che era essenzialmente greca, come oggi la chitarra classica appare
essenzialmente spagnola. Nerone, all’epoca ventiseienne, aveva già dato
spettacoli pubblici a Roma, suscitando il disgusto dei conservatori, che
vedevano in quel suo dare spettacolo di sé stesso un costume indegno
della nobiltà romana. La storia della rappresentazione che inscenò mentre
Roma bruciava è dunque plausibile, per quanto non dimostrata.
Il particolare che il tema affrontato fosse, a quanto si disse, l’incendio di
Troia aggiunge un tratto ancor più piccante alla scena, poiché i romani
credevano che la loro città fosse stata fondata da esuli provenienti proprio
da Troia. Inoltre, Nerone e il suo antenato Augusto facevano entrambi
risalire le loro origini al capo troiano Enea – secondo la storia narrata nel
grande capolavoro epico della letteratura latina, l’Eneide di Virgilio, che a
sua volta si rifaceva a modelli greci. Insomma, una canzone su Troia
accompagnata dal suono della lira era qualcosa che richiamava l’amore
degli aristocratici per tutto ciò che era greco; e se il sangue di Nerone
scaturiva dai primordi di Roma, forse il suo canto annunciava la fine
della stessa città.
Ma, lira o non lira, è vero che Nerone non fece niente mentre Roma
bruciava? Certo, fu colpevole di aver ritardato il suo rientro nella città
sofferente fino a quando non furono a rischio i suoi interessi personali.
Poi, però, fece ammenda, aprendo edifici e parchi pubblici a chi aveva
perso la casa, facendo arrivare in città generi alimentari da altri centri dei
dintorni e abbassando il prezzo dei cereali. Per qualcuno, la storia del suo
canto mise in ombra questi suoi gesti. La rabbia aumentò quando, dopo
l’incendio, Nerone confiscò un’estesa zona del centro di Roma per
costruirvi un nuovo imponente edificio. In definitiva, quindi, non solo
suonò la lira mentre Roma bruciava, ma trasse anche profitto dalla
tragedia. A ciò risale forse l’origine di un’altra voce a lui riferita, ancor
più grave: quella secondo cui Nerone non solo ignorò l’incendio, ma di
fatto lo provocò per perseguire i suoi interessi privati.
Il Grande Incendio di Roma copre solo una settimana dei lunghi anni
trascorsi da Nerone al potere, ma ha finito per definire il suo regno in
termini sia reali sia simbolici. Il fuoco aprì la strada al sorgere di una
nuova città di Roma e di una nuova epoca architettonica che ha lasciato il
segno sulla cultura romana come sulla civiltà mondiale. E lo stesso
Nerone fu come un fuoco, che cancellò la vecchia élite senatoria e tracciò
il percorso per l’avvento di una nuova classe dirigente proveniente dalle
province.
Nerone fu un maestro nel manipolare simboli come il fuoco, e vi è
quindi un motivo reale che spiega l’attenzione che questo aspetto ha
attirato nella storia, ma anche qualcosa di fuorviante. Prima
dell’incendio, Nerone godeva di una straordinaria popolarità fra i
romani. E se essi dopo di allora dubitarono del loro imperatore, lui
s’impegnò a fondo per riconquistarli. Il Grande Incendio fu un brutto
spettacolo. Nerone ne era consapevole, perché visse e morì della sua arte
spettacolare. Dopo l’incendio, così, mise in piedi un altro bizzarro e
spaventoso spettacolo che trasformò i prigionieri in torce umane – un
successo ancora maggiore, questo sicuramente dovette pensare.
Nerone rappresenta un paradosso. Da un certo punto di vista, fu il
peggiore fra gli imperatori: crudele, omicida, immorale, non all’altezza
del suo ruolo dal punto di vista militare, e in definitiva letale per la
maggior parte delle province. E tuttavia, per altri aspetti, fu un
imperatore di successo: benvoluto, costruttore e benefattore, pacificatore
e intrattenitore del popolo. Nerone era insieme un autocrate senza
ritegno e un brillante populista.
Pochi imperatori sono stati a un tempo infami e famosi come Nerone.
Nessuna vicenda di altri imperatori è così intrecciata al mito e a una
percezione distorta della realtà. E, tuttavia, anche all’esame più sereno egli
ci appare come un sovrano che avrebbe suscitato l’orrore di Augusto, suo
trisavolo. Il governo di Nerone solleva la questione della possibilità della
sopravvivenza della monarchia così come era stata fondata da Augusto e
poi perfezionata da Tiberio.
Com’era potuto avvenire che la situazione arrivasse a questo punto? Per
trovare una risposta, prendiamo innanzi tutto in esame i due imperatori
che seguirono Tiberio e precedettero Nerone.

LA CASA DI GERMANICO
Quando successe a Tiberio, Caligola suscitò grandi speranze. Era
giovane, figlio di un personaggio molto amato come Germanico e
bisnipote del divino Augusto. Trascorse parte della sua giovinezza in casa
della bisnonna Livia, abile come pochi altri nell’insegnare l’arte di
governare. Nel 29, quando Livia morì, ne avrebbe perfino pronunciato
l’orazione funebre. A quell’epoca aveva diciassette anni.
Purtroppo, Caligola ben presto avrebbe deluso chi riponeva speranze in
lui. Ci sarebbe voluto un autocontrollo eroico per uscire da
un’educazione come quella che aveva ricevuto mantenendosi equilibrato,
e Caligola non era un eroe. Ereditò l’astuzia e la spietatezza di Livia,
senza però il suo ritegno e il suo decoro. Si rivelò un autocrate, cinico e
omicida nei confronti dei rivali appartenenti alla sua stessa élite.
La decadenza di Caligola è leggendaria, densa di episodi piccanti e
stravaganti e, purtroppo per gli storici che cercano l’oggettività,
estremamente esagerata da fonti ostili più tarde. Succose storielle quali
quelle che riferiscono di un breve matrimonio con una delle sue sorelle e
di rapporti incestuosi con le altre2, o anche del fatto che tenesse il suo
cavallo preferito in una stalla di marmo con una mangiatoia d’avorio, e
che volesse perfino nominarlo console3, difficilmente possono
considerarsi veritiere.
E, tuttavia, Caligola era intelligente, e aveva la parola facile e pungente
quando pronunciava le sue arguzie. Quindi forse davvero poté vantarsi
con sua nonna, l’aristocratica e inorridita Antonia, del fatto che a lui fosse
concesso fare tutto quello che voleva, contro chiunque4. O forse
riassumeva nella propria persona la stravaganza della sua corte, quando
diceva, ad esempio, che un uomo doveva essere frugale, oppure essere
Cesare5. E forse, ma solo forse, è vero che quando la folla in occasione
delle corse non acclamò i campioni da lui favoriti, disse: «Ah! Se il
popolo romano avesse una testa sola!»6.
Ma siamo su un terreno più solido se diciamo che Caligola riscosse
popolarità finanziando giochi e spettacoli, diversamente da quanto aveva
fatto l’avaro Tiberio. Nello stesso tempo, fece giustiziare numerosi
senatori. Sembra che si considerasse un sovrano assoluto e pretendesse di
essere divinizzato quando ancora era in vita. Un segno di questo suo
desiderio di diventare un dio fu la decisione di costruire un nuovo
palazzo ancor più grandioso del precedente, estendendolo fino al podio
di un tempio.
Caligola accumulò talmente tanto potere che le sue azioni provocarono
la nascita di diversi complotti contro di lui – finché uno, l’ultimo, riuscì.
Nel 41, una cospirazione di senatori e di guardie pretoriane lo uccise. Fu
come tornare all’omicidio di Giulio Cesare, avvenuto ottantacinque anni
prima, ma con una variante: gli assassini di Cesare avevano lasciato in vita
la sua consorte, mentre quelli di Caligola uccisero anche sua moglie e sua
figlia. Il capo della congiura era un ufficiale delle guardie. Sembra che
Caligola avesse l’abitudine di rivolgergli commenti derisori a sfondo
sessuale, costringendolo poi a baciargli la mano col dito medio esteso. A
quanto pare alla fine la guardia ne ebbe abbastanza. Caligola aveva
governato per meno di quattro anni. Dopo la sua morte, le sue immagini
furono abbattute e il suo nome venne cancellato dalle iscrizioni.
Il suo successore Claudio (Tiberio Claudio Nerone Germanico), che
regnò dal 41 al 54, era il fratello più giovane di Germanico, e quindi
bisnipote di Augusto. E, tuttavia, fu un imperatore improbabile. Era
afflitto fin dalla nascita da una menomazione che lo rendeva zoppo e
tremante, e aveva un difetto di pronuncia, a causa forse di una paralisi
cerebrale. Venne scartato per l’accesso alle più alte cariche sia da Augusto
sia da Tiberio, e gli fu consentito invece di diventare uno storico. Poi,
Caligola lo nominò console all’inizio del proprio regno, ma da allora in
poi non avrebbe mai smesso di insultarlo e di umiliarlo.
Il giorno in cui Caligola venne ucciso, un pretoriano trovò Claudio
all’interno del palazzo e lo portò alla caserma delle guardie, dove venne
acclamato imperatore. In quel momento i senatori stavano discutendo
l’ipotesi di restaurare la repubblica, ma cambiarono presto intenzione e
approvarono l’elevazione di Claudio – il primo ma non ultimo
imperatore ad essere scelto dalla guardia pretoriana. I discorsi che si erano
fatti a proposito della repubblica si rivelarono, appunto, solo discorsi.
Nel frattempo, la guardia mostrò ancora una volta che dietro i muri in
mattoni e calcestruzzo della sua fortezza c’era un potere in grado di
competere con quello esercitato dal Senato fra i colonnati marmorei delle
sue sale.
Claudio si sarebbe dimostrato un buon imperatore quando si trattò di
aprire le porte alle élites provinciali. Concesse la cittadinanza a molti
uomini provenienti dalle province e convinse il Senato ad ammettere una
quota maggiore dell’élite gallica nei suoi ranghi. Ruppe con la politica di
pace seguita da Tiberio, e i suoi generali conquistarono la Britannia, che
Cesare a suo tempo aveva invaso ma mai sottomesso.
Claudio mostrò scarso interesse a condividere il potere con il Senato.
Sotto il suo regno il governo passò sotto il controllo del palazzo, in
particolare delle sue due potenti mogli e dei suoi liberti. Il neoimperatore
aveva cinquant’anni, scarsa esperienza di governo e nessuna esperienza in
campo militare. Ma aveva trascorso la sua vita nel palazzo, osservando
con attenzione quel che succedeva. E si trattava di un luogo importante,
poiché come tutti i sovrani l’imperatore romano aveva intorno a sé una
corte. Donne, parenti, guardie del corpo, adulatori e, sempre di più,
liberti, e perfino schiavi, trovavano ascolto presso l’imperatore.
Raramente ciò avveniva per i senatori. Alcuni di essi, di fatto,
conobbero il palazzo solo come un luogo nel quale furono costretti a
subire processi a porte chiuse.
Per amministrare l’impero Claudio si affidava a potenti liberti. I senatori
si lamentavano amaramente che il governo fosse affidato a ex schiavi – e
per giunta greci –, che invece gli imperatori consideravano indispensabili
per gli incarichi burocratici. Oggi potremmo lodare il fatto che Claudio
trasferisse il potere da un ceto di romani privilegiati a greci impegnati a
svincolarsi dalla schiavitù. Ciò, assieme all’accresciuta autorità delle
donne di rango imperiale, potrebbe apparire come una lodevole
introduzione di una maggiore diversificazione al vertice. Dovremmo
rilevare inoltre che, mentre gli imperatori andavano e venivano, i
burocrati garantivano continuità all’amministrazione. Ma i romani la
pensavano diversamente, in particolare quelli appartenenti all’élite
senatoria che scrivevano i libri di storia.
All’inizio del suo regno, Claudio era sposato con la sua terza moglie, la
nobildonna Messalina, dalla quale ebbe un figlio e una figlia. Una statua la
ritrae in un abito formale, la pettinatura curata e l’espressione serena,
mentre tiene in braccio delicatamente il suo bimbo, che si protende verso
di lei7. È un immagine molto diversa dalle numerose opere d’arte
moderne che la raffigurano come una donna dai tratti dispotici, infedele,
crudele e omicida. Ma alla fine, tradì Claudio, sposandosi a sua insaputa
con un suo rivale.
Le fonti abbondano di storie riferite alla condotta sessuale di Messalina.
La «meretrix augusta»8 – o Licisca, secondo il presunto nome che
assumeva per esercitare la professione9 – lavorava segretamente di notte in
un bordello, e superò perfino una prostituta in una gara di prestazioni
sessuali notturne10. Nessuna di queste storie è credibile. Tutte derivano
probabilmente dall’opera di propaganda della fazione vittoriosa che prese
il posto della moglie dell’imperatore dopo la sua caduta. Messalina
combatté fieramente, ma non era un mostro. Se tradì suo marito per un
altro uomo, fu perché non aveva più fiducia che Claudio mettesse al
primo posto lei e i loro figli. Ma non si mosse con sufficiente rapidità.
Quando un rivale scoprì il suo adulterio, lo denunciò a Claudio, e
questo portò alla sua esecuzione. In seguito, l’immagine di Messalina
venne rimossa dai monumenti e il suo nome fu cancellato dalle
iscrizioni.
Con la morte di Messalina, nel 48, l’imperatore divenne un vedovo a
cui occorreva una nuova moglie. Entrano a questo punto in scena
Nerone e sua madre.
IL GIOVANE NERONE
La madre di Nerone, Agrippina Minore (d’ora in avanti semplicemente
Agrippina), era una delle più ambite nobildonne romane. Godeva del
fascino derivante dal nome di suo padre Germanico e dal fatto che sua
madre Agrippina Maggiore discendesse dal divino Augusto. Fra i suoi
antenati poteva annoverare anche Livia e Marco Antonio. La nobiltà del
suo lignaggio convinse Claudio a sposarla nonostante fosse sua nipote,
circostanza che rendeva il matrimonio tecnicamente incestuoso. Il Senato
dovette approvare un decreto speciale per consentirlo.
Una statua di Agrippina ce la mostra come una donna dai tratti delicati,
con la bocca piccola, il naso leggermente rivolto all’insù e il mento
pronunciato. I capelli sono accuratamente arricciati, secondo lo stile del
tempo. La statua la ritrae come una sacerdotessa, col capo velato11. In altre
statue e medaglie ci appare associata alle divinità della fertilità, in modo
ancor più esplicito di quanto non avvenga per Livia. Ma Agrippina non
era una santa. Era una donna forte. Dapprima aveva assistito alla quasi
totale distruzione della propria famiglia, poi aveva visto l’improvviso
trionfo di suo fratello Caligola, con la successiva instaurazione della
tirannia. Dopo essere stata implicata in un complotto contro di lui, nel
cui contesto forse commise adulterio, venne inviata in esilio. Una volta
fatto ritorno in patria, Agrippina aveva radunato nuovamente le forze e
progettato di utilizzare Claudio per realizzare la propria ambizione: far
diventare imperatore suo figlio, con l’idea di gestire lei stessa il potere
dietro le quinte. Pubblicò delle memorie, oggi perdute, che potrebbero
essere la fonte del particolare secondo cui aveva un dente canino in più
nell’arcata superiore destra, circostanza che per i romani era un segno di
buona sorte, ma sicuramente significava anche una tendenza
all’aggressività.
Le antiche fonti letterarie hanno un tono ostile nei confronti di
Agrippina, come del resto di tutte le donne impegnate in politica. La
dipingono come una persona dedita a intrighi e assetata di potere,
un’incestuosa omicida. Invece, le immagini giunte fino a noi – monete,
sculture e cammei – ci mostrano una donna dall’aspetto dignitoso,
attraente, simbolo di maternità e della sua appartenenza dinastica. La
verità, probabilmente, sta fra questi due estremi.
Agrippina era una fiera lottatrice, che non ebbe esitazioni a far
giustiziare i suoi rivali. Ma altri romani di primo piano si comportarono
in modo analogo. Nella sua ricerca del potere per Nerone, Agrippina fu
egoista, ma anche mossa da un interesse pubblico. Sapeva che egli
rappresentava l’unica possibilità per consentire la continuazione della casa
di Augusto e di Germanico, e credeva che la dinastia rappresentasse per
Roma e per l’impero la migliore speranza.
Quando si sposò con Claudio, pensò a sé stessa non solo come moglie,
ma anche come la persona che lo avrebbe affiancato nell’esercizio del
potere. Fu chiamata Augusta, titolo che nessuna moglie di un imperatore
regnante aveva mai avuto prima di allora. Talvolta raggiungeva Claudio
mentre stava conducendo affari pubblici, prendendo posto su una
tribuna separata, in una rappresentazione del potere che scioccava i
contemporanei. Raccoglieva intorno a sé gli amici e bandiva i nemici. E,
soprattutto, tracciò una via di accesso al trono per il figlio.
Nerone era il frutto del primo matrimonio di Agrippina. Nato il 15
dicembre del 37 in una città costiera a sud di Roma, venne chiamato
Lucio Domizio Enobarbo («barba di bronzo»), dal nome di suo padre,
Gneo Domizio Enobarbo. Era una famiglia di repubblicani intransigenti,
con secolari ascendenze nobiliari. I suoi membri erano famosi per le
capacità nel comando militare, l’arroganza e la crudeltà, nonché per le
corse dei carri e il sostegno a produzioni teatrali indecorose. Sembra che
il padre di Nerone dicesse, a proposito del figlioletto: «È impossibile che
nasca un uomo buono da me e da una donna come questa»12.
Ma non avrebbe avuto modo di verificare questa affermazione, poiché
morì quando il figlio aveva ancora tre anni. Come Augusto, Nerone
perse il padre in tenera età e venne allevato dalla madre (a parte alcuni
mesi passati con una zia paterna). Come Azia, la madre di Augusto,
Agrippina lavorò infaticabilmente per promuovere la carriera di Nerone,
ma avrebbe pagato a caro prezzo il proprio successo.
Nerone aveva undici anni quando sua madre sposò Claudio. Nel
volgere di un anno, Agrippina riuscì a convincere l’imperatore ad
adottare suo figlio, che lasciò il nome precedente per assumere quello di
Nerone Claudio Cesare Druso Germanico. Nerone era più grande del
figlio di Claudio, e quindi il primo nella linea di successione. Claudio,
inoltre, fece fidanzare sua figlia Ottavia con Nerone e decise di anteporre
il figlio di Agrippina al proprio.
A quell’epoca Claudio aveva una sessantina d’anni. Era solo un vecchio
ingannato dalla sua nuova giovane moglie? Forse. Oppure pensava che la
sua dinastia avesse migliori possibilità di sopravvivere attraverso gli eredi
di sua figlia e di Nerone – erede di Germanico, del divino Augusto e di
Marco Antonio – che non tramite il figlio avuto da Messalina, già a suo
tempo caduta in disgrazia? In ogni caso, Agrippina non si fece da parte.
Radunò i propri amici a corte e fece in modo di escludere i nemici. La
sua mossa più importante consisté nel convincere Claudio ad assumere
come nuovo prefetto del pretorio un uomo collocato saldamente nel suo
campo. Si trattava di Sesto Afranio Burro, un cavaliere romano di
origine gallica, che un tempo aveva lavorato in casa di Livia. Non solo
Burro era un fedele sostenitore di Agrippina, ma lo erano anche
numerosi ufficiali che comandava – uomini accuratamente scelti da lei
stessa.
Come tutore di Nerone, Agrippina scelse Lucio Anneo Seneca. Questi
proveniva da una ricca e influente famiglia romana di fini letterati
originaria della Hispania. Suo padre era un famoso scrittore di retorica e
storia, sua madre studiava filosofia. Seneca si recò a Roma e si distinse in
campo giuridico e politico, dando inoltre prova di essere un brillante
uomo di lettere. Fu oratore e filosofo, saggista e autore di testi teatrali.
Ma si fece dei nemici.
Caligola aveva definito Seneca un autore di «sabbia senza calce»13 – in
altri termini, cemento molle –, e giunse quasi al punto di farlo
giustiziare. Dopo la morte di Caligola, Seneca restituì la cortesia
scrivendo che la sostanza dell’intera esistenza dell’imperatore era
consistita nel trasformare uno Stato libero in un dispotismo di stampo
persiano14. Per Seneca Caligola era un uomo assetato di sangue15.
Anche Messalina disprezzava Seneca. Lo accusò di aver commesso
adulterio con la sorella più giovane di Caligola; i due amanti furono
giudicati colpevoli e mandati in esilio, ma solo Seneca sopravvisse16.
Dopo otto anni di esilio in Corsica, si vide richiamare a Roma da
Agrippina.
Nel 54, cinque anni dopo aver sposato Agrippina, Claudio decise di
promuovere la carriera di Britannico, il suo figlio biologico allora
tredicenne. Ma all’improvviso, prima di aver potuto prendere qualsiasi
iniziativa, l’imperatore morì. La gente naturalmente sospettò che fosse
stato avvelenato da Agrippina, ma oggi è impossibile ricostruire la verità
sulla sua morte. Forse il decesso fu dovuto all’ingestione di funghi
velenosi (ma non avvelenati), oppure semplicemente a cause naturali.
Come che sia, Agrippina era pronta a porre suo figlio al centro della
scena. I pretoriani acclamarono Nerone imperatore, venendo da lui
ricompensati con generose somme di denaro. Il Senato si mostrò
disponibile ad assegnare a Nerone i poteri necessari e ricompensò
Agrippina con vari onori. Si aprì così una nuova era.

NERONE IL BUONO
In un primo momento, Roma accolse con favore il nuovo imperatore,
che aveva dalla sua anche la bellezza. Dopo l’anziano e malfermo
Claudio, arrivava ora un giovane nel pieno vigore. Inoltre, Nerone
poteva vantare una nobiltà di sangue ancora più elevata del suo
predecessore. Con lui, tornava al potere la dinastia di Augusto. E Nerone
era alla moda – lo fu sempre!
Aveva gli occhi azzurri, i capelli biondo chiaro e, a quanto si narra, un
volto dai tratti regolari ma non particolarmente aggraziato17. Certo, a
diciassette anni non ancora compiuti, Nerone era molto giovane, ma
talvolta i giovani capi hanno successo. Augusto aveva solo diciannove
anni quando entrò in politica, e giunse ai massimi livelli, e Alessandro
Magno era asceso al trono a soli vent’anni. Un governante dotato di
intelligenza, talento, buoni consiglieri e buon carattere, e che sia stato
formato con un’adeguata educazione, può riuscire anche a dispetto della
giovane età. Nerone, da parte sua, disponeva di consiglieri eccellenti.
Nessuno conosceva i retroscena della corte meglio di sua madre
Agrippina, mentre Burro garantiva l’appoggio dei pretoriani. Seneca, il
tutore di Nerone, che assunse il nuovo ruolo di consigliere
dell’imperatore, sosteneva che la clementia dovesse essere il segno
distintivo del regno del nuovo sovrano. Burro offriva il modello di un
severo uomo d’armi, mentre Seneca portava un contributo di eloquenza
e di dignità.
In un discorso al Senato, il nuovo imperatore promise di porre fine agli
abusi del passato e di restaurare il potere dell’assemblea. Si trattava di una
modesta concessione, più che di un grande cambiamento, ma era reale.
Nel primo quinquennio del suo regno, sotto la guida di Seneca e di
Burro, e grazie all’opera di convincimento della madre, Nerone
mantenne le proprie promesse e condivise il potere con i senatori; abolì
inoltre i processi a porte chiuse e limitò il potere dei suoi liberti.
Fin qui tutto bene, ma la situazione non era in realtà priva di problemi,
a cominciare dal carattere dello stesso Nerone, che era insicuro e
vanitoso. Ambiva ad essere popolare, e non tollerava rivali. Come dice
Svetonio, «sopra ogni altra cosa ricercava la popolarità e voleva
rivaleggiare con tutti coloro che per qualsiasi motivo godevano del favore
della folla»18.
Quando non riusciva ad ottenere quello che voleva, dava sfogo alla sua
vendetta. Orfano di padre e cresciuto in un’atmosfera di cospirazione e
morte, da una madre che agiva nell’ombra, il nuovo imperatore era
comprensibilmente ferito nell’animo. Era il frutto di una delle famiglie
più disfunzionali della storia. Ora sarebbe stata tutta Roma a doverne
pagare il prezzo.
Agrippina era fortemente determinata ad esercitare il potere. All’inizio
del regno di Nerone, aveva a sua disposizione delle guardie del corpo
germaniche, una propria unità di guardie pretoriane e due littori che la
accompagnavano in pubblico (Livia ne aveva avuto uno solo). In un
primo momento il giovane Nerone accettò tutto ciò. La parola d’ordine
che stabilì per i pretoriani era optima mater, con benevolo riferimento ad
Agrippina19. Nerone dette il suo consenso allo svolgimento delle sedute
del Senato nei locali del palazzo (un fatto senza precedenti), in modo che
la madre potesse osservare i lavori da dietro una tenda (fatto a maggior
ragione senza precedenti). Sulle monete, Agrippina veniva raffigurata di
fronte a Nerone, come se i due governassero assieme20. Presto, però,
Agrippina trovò degli ostacoli sul suo percorso. L’opinione pubblica
romana non avrebbe tollerato che una donna esercitasse apertamente un
potere eccessivo. Nel contempo, il giovanissimo Nerone odiava essere
criticato dalla madre per la propria mancanza di oculatezza nelle spese, e
si vendicò impedendole pubblicamente di prendere posto insieme a lui
sulla tribuna per ascoltare un’ambasciata straniera; lo fece con tatto,
aiutato da Seneca, ma uno sgarbo è pur sempre uno sgarbo. Agrippina, a
quanto si disse, era furibonda: poteva dare a suo figlio l’impero, ma non
poteva sopportare che fosse lui a governarlo21.
La Roma di Nerone è nota per essere stata un’era di spirito. La cosa
cominciò immediatamente dopo la morte di Claudio: Seneca parlò non
di una deificazione dell’imperatore defunto, bensì di una sua
«zucchificazione», utilizzando un oscuro gioco di parole per attaccarne la
figura con una feroce satira22. Il fratello di Seneca disse che Claudio era
stato innalzato fino al cielo da un gancio, volendo con ciò alludere al
modo con cui i boia trascinavano i corpi delle loro vittime fino al Tevere.
Infine, sembra che Nerone commentasse che i funghi sono il cibo degli
dèi, poiché Claudio era morto appunto dopo aver mangiato dei funghi e
poi era stato deificato23. Ma Agrippina sicuramente non trovò da ridere
nel veder sbeffeggiato in tal modo il suo defunto marito.
Il matrimonio di Nerone con la figlia di Claudio fu infelice. Lui si
innamorò di una liberta originaria dell’Asia Minore, tanto da perdere la
testa per lei e spingersi al punto di dire che avrebbe voluto sposarla.
Agrippina, inorridita, fece sapere al figlio come la pensava, ma lui non si
smosse, e rafforzò la propria posizione sbarazzandosi di un potente
liberto che era il più forte alleato su cui Agrippina potesse contare a corte.
A quanto pare, lei reagì minacciando Nerone. Gli fece presente quanti
altri discendenti del divino Augusto esistessero a Roma, per non parlare
del figlio di Claudio. E, tuttavia, probabilmente non prese in seria
considerazione la possibilità di spodestare Nerone. Poi, nel 55, il figlio di
Claudio ebbe un improvviso malore durante un banchetto a corte, e
morì di lì a poco. La dinamica dell’evento fa pensare a cause naturali, ma
all’epoca molte persone credettero che fosse stato avvelenato per ordine
di Nerone.
Nei quattro anni seguenti Agrippina venne tenuta a distanza dal potere,
anche se cercò di riacquistare la propria posizione. In questo periodo,
Nerone prese l’abitudine di fare delle scappatelle notturne assieme agli
amici per le strade di Roma. Passavano da una taverna a un bordello in
cerca di divertimenti e di guai, e si resero responsabili di risse ed
effrazioni. In queste occasioni l’imperatore indossava indumenti da
schiavo e una parrucca, per evitare di essere riconosciuto. Per quanto
disdicevole fosse, un comportamento del genere non era insolito per dei
giovani aristocratici romani, e nella maggior parte dei casi la gente era
disposta a tollerarlo. Ma era meno disposta al perdono quando Nerone
scatenava delle risse in teatro. Per riportare l’ordine, gli attori venivano
cacciati e si facevano intervenire i soldati.
Nel 59, a ventun anni, Nerone era pronto a calmarsi, ma prima decise
di liberarsi di sua madre. Amore, potere e controllo furono tutti elementi
che ebbero un peso nella sua motivazione ad agire così. È plausibile che
Agrippina si comportasse in maniera equivoca con Nerone; d’altro canto,
che i due avessero relazioni incestuose, come dicevano le voci, è meno
credibile, ma non lo si può escludere del tutto24. Quel che è chiaro è che
anche in questo caso essa espresse la propria disapprovazione per la vita
amorosa del figlio, stavolta riguardo alla sua nuova infatuazione.
Poppea Sabina era una donna adatta a un sovrano: ricca, intelligente e
ambiziosa. La sua famiglia proveniva da Pompei, dove possedeva almeno
cinque case, due delle quali di dimensioni grandiose. Probabilmente lei
stessa era nata lì. Era personalmente proprietaria di una fabbrica di
mattoni nelle vicinanze, oltre che di un’elegante villa sulla costa.
Il padre di Poppea, un cavaliere romano di nome Tito Ollio, era in fase
di ascesa all’interno del governo di Roma quando venne giustiziato dopo
la caduta di Seiano, per l’appoggio che aveva concesso al deposto
cospiratore. In seguito Poppea assunse il nome del nonno materno, Gaio
Poppeo Sabino, console e affermato governatore provinciale, in modo
che il suo nome non suscitasse associazioni con le colpe del padre. Si
sposò due volte. Il suo primo marito, con cui fece un figlio, era un
prefetto del pretorio. Dopo aver divorziato, sposò Marco Salvio Otone,
figlio di un console e membro del bel mondo romano. Quando catturò
l’attenzione di Nerone, questi inviò Otone a governare la Lusitania
(corrispondente approssimativamente all’odierno Portogallo), anche se si
trattava di un ventiseienne privo di esperienza.
Poppea aveva una mentalità sufficientemente aperta da interessarsi al
giudaismo, sebbene non si mostrasse propensa a una conversione. In
ogni caso, non fece certo un favore agli ebrei facendo pressioni perché
fosse nominato governatore della Giudea Gessio Floro, marito di una sua
amica. Il malgoverno di quest’ultimo fu all’origine della grande rivolta dei
giudei del 66. A Roma occorsero sette anni per riportare la pace in quei
territori, a prezzo di grandi costi e di una scia di morti e distruzioni da
entrambe le parti.
Poppea era una delle donne più belle dell’epoca. Non stupisce che il suo
personaggio sia stato interpretato al cinema da attrici come Claudette
Colbert e Brigitte Bardot. Nerone scrisse un componimento poetico sui
suoi capelli color ambra25. Si dice che ogni giorno facesse il bagno nel
latte munto da cinquecento asine per proteggere la sua pelle26, e ispirò
perfino, ai suoi giorni, un tipo di cosmetici che da lei prendeva il
nome27. Aveva sei anni in più di Nerone e, come lui, era sposata. Nerone
ne era profondamente innamorato. Alcuni affermano che fu lei a indurlo
a uccidere Agrippina.
Si può pensare che Nerone, a prescindere dalla propria vita amorosa,
avesse potuto temere la persistente influenza di Agrippina sulla guardia
pretoriana, sebbene difficilmente ciò potesse giustificare un omicidio.
Ma Nerone scelse, deliberatamente e consapevolmente, di uccidere sua
madre.
Il veleno era senz’altro da escludere: troppo sospetto, dopo le morti
improvvise di Claudio e di suo figlio; e inoltre Agrippina prendeva
troppi antidoti per proteggersi. Quanto alla guardia pretoriana, era
inaffidabile, e così per trovare un alleato Nerone si rivolse alla marina
romana. In una notte di primavera, nel Golfo di Napoli, fu messo in atto
un complotto. Dapprima Nerone invitò la madre a un banchetto presso
la propria villa sul golfo, per sanare i passati dissidi e ammorbidirne
l’atteggiamento. Poi progettò di farla affogare facendola salire su
un’imbarcazione costruita appositamente per affondare. Così, almeno,
dicono le fonti28. Più probabilmente, fu una nave da guerra a speronare
deliberatamente la nave su cui viaggiava. Come che sia, Agrippina cadde
in mare e rimase ferita, ma sopravvisse e poté essere riportata a riva.
Terrorizzato al pensiero della vendetta della madre, Nerone si rivolse a
Burro, il quale però gli rifiutò il proprio aiuto. La guardia pretoriana,
disse, non avrebbe mai colpito la figlia di Germanico. Nerone quindi si
rivolse nuovamente alla marina e spedì un distaccamento di marinai
all’inseguimento di Agrippina, affermando di avere scoperto che la
madre stava cercando di ucciderlo.
Quando i militari la raggiunsero, Agrippina non volle credere a quanto
asserivano, di essere stati mandati a ucciderla su ordine di Nerone, e
continuò a sostenere che suo figlio non avrebbe mai fatto una cosa del
genere. Ma quando la colpirono, si rese conto della verità. La storia narra
che si scoprì la pancia, indicò il ventre che aveva dato alla luce Nerone e
disse agli uomini di colpirla in quel punto29. Se Agrippina pronunciò
veramente quelle parole, è improbabile che ammettesse i propri errori di
madre che avevano reso Nerone il diavolo che era.
Fu il liberto di Nerone, prefetto della principale base navale della zona,
a uccidere Agrippina. In seguito Nerone avrebbe affermato che quel
giorno gli aveva consegnato il governo dell’impero30, ma che odiava
quell’uomo per aver ucciso sua madre; come scrive Tacito, «gli esecutori
di azioni delittuose sono sempre visti dai loro mandanti come dei
perenni accusatori»31. Volendosi sbarazzare di lui, Nerone lo utilizzò
dapprima per rendere falsa testimonianza su un’altra vicenda, poi lo
destinò a un confortevole esilio.
Anni più tardi, quando interpretava dei ruoli nelle tragedie greche,
Nerone includeva nel suo repertorio sia il personaggio di un uomo che
dormiva con la madre sia quello di un uomo che la uccideva. Una scelta
del genere potrebbe essere indicativa, secondo le fonti, del rimorso che
provava per il suo delitto32. Ma se fu così, all’epoca non lo dette a vedere.
Nerone, infatti, annunciò di avere sventato un complotto ordito da
Agrippina per ucciderlo. Seneca scrisse persino una lettera al Senato per
testimoniare della verità di quel pretesto. Qualsiasi cosa pensasse
effettivamente, la maggior parte delle persone accettò la scusa di Nerone.
Furono proclamati giorni di ringraziamento per la sua salvezza e celebrati
sacrifici perché tornasse sano e salvo a Roma dal Golfo di Napoli.

L’ARTISTA
Altri uomini furono imperatori; Nerone fu una celebrità. Infranse tutte
le regole, e ciò lo rese immortale.
Prese sul serio le sue responsabilità di governo, ma si considerò in
primo luogo e soprattutto un artista. Il canto era il suo forte, ma aveva
vasti interessi. Coniò le monete forse più raffinate di tutta la storia
dell’emissione della valuta romana. Finanziò la costruzione di splendidi
edifici. Che il merito spetti o meno a lui personalmente, durante il suo
regno la letteratura latina fiorì. Seneca scrisse dialoghi e lettere di
argomento filosofico, e anche tragedie. Suo nipote Lucano scrisse la
Farsaglia, un poema epico sulla guerra civile fra Gneo Pompeo e Giulio
Cesare. Lo scrittore Petronio pubblicò il Satyricon, un romanzo venato di
cupa ironia sulla decadenza dell’élite romana. Augusto comprese che uno
dei molti compiti di un imperatore consisteva nell’intrattenere il
pubblico, ma per Nerone questo divenne il compito. Se fosse vivo oggi,
sarebbe considerato un genio delle pubbliche relazioni, un gigante della
comunicazione.
Organizzare i giochi era un’incombenza seria per l’imperatore. Era
un’attività che rispondeva ai suoi interessi personali, ma rifletteva anche
le sue priorità politiche. Ogni imperatore sapeva che una parte del suo
lavoro consisteva nel servire il popolo di Roma. Nerone quel lavoro lo
svolse offrendogli spettacoli in grande stile, ma riteneva che a sua volta
l’intrattenimento avesse una funzione educativa. A suo modo di vedere,
con la propria opera stava innalzando il livello della società romana,
introducendovi elementi di cultura greca alla portata della gente comune
come il canto, la recitazione e gli esercizi fisici.
Inoltre, Nerone non limitò la sua generosità ai giochi e agli spettacoli: si
impegnò a distribuire cereali ed elargì anche donazioni in denaro ai suoi
concittadini. E comunque, i giochi erano un mezzo efficace per
raggiungere il popolo. Il Circo Massimo – utilizzato per le corse dei
cavalli –, l’anfiteatro e i tre grandi teatri della città contenevano nel
complesso oltre duecentomila persone, vale a dire un quinto della
popolazione urbana.
Giochi, corse e spettacoli costituivano occasioni speciali, con regole e
rituali ben definiti. Gli spettatori sedevano in settori divisi secondo il
rango sociale, con i senatori e i cavalieri nei posti centrali. Gli eventi che
si svolgevano in questi luoghi erano le uniche occasioni nelle quali i
romani si sentivano liberi di esprimere le loro opinioni all’imperatore.
Con i giochi l’élite romana aveva un rapporto di amore e odio. Li
trovava immorali e sediziosi, e tuttavia irresistibili. Nonostante tutte le
sanzioni contro questa pratica, senatori e cavalieri cominciarono ad
esibirsi in pubblico. Nerone fu il primo imperatore a farlo, e la sua
passione per le corse di carri era in effetti insolita per la nobiltà romana.
Alcuni patrizi aborrivano il suo comportamento, altri invece lo
approvavano, ma il popolo comune acclamava calorosamente e
applaudiva il suo imperatore che amava esibirsi. Per non lasciare niente al
caso, Nerone organizzava i suoi sostenitori, vale a dire migliaia di giovani
uomini, affinché alimentassero gli appalusi.
Per numero, novità e ricchezza, i giochi e gli spettacoli di Nerone
superarono qualsiasi altro evento del genere che Roma avesse conosciuto
fino a quel momento. Venivano finanziati rinfreschi e distribuiti regali al
pubblico, spesso preziosi, fra cui gioielli, cavalli, schiavi e case, tanto da
fare di Nerone l’equivalente, a dir poco, dei conduttori di una gara a
premi televisiva dei nostri tempi. La principale innovazione da lui
introdotta fu portare a Roma giochi di origine greca. Corse di carri, gare
di gladiatori e incontri di pugilato erano una presenza comune nei giochi
romani, ma Nerone voleva qualcosa di più. Come molti patrizi romani
era stato istruito nella cultura greca, ma si distingueva per la sua non
comune ammirazione per tutto ciò che era greco. Sapeva che fra i giochi
greci vi erano la corsa, la lotta, il salto in lungo e il lancio del disco e del
giavellotto, oltre che il pugilato e le corse equestri; in molti di questi
eventi i partecipanti erano nudi. Vi erano poi comprese competizioni
musicali. I nuovi giochi neroniani combinavano musica, atletica ed
eventi equestri, e si tenevano a cadenza quinquennale. Venivano chiamati
– e come, altrimenti? – Neronia.
Nerone amava cantare, accompagnandosi con la lira, e anche correre
con i carri. Praticava la lotta e forse progettò di gareggiare in questa
specialità. Era un bravo cantante? Sicuramente non era privo di talento
creativo. Copie di componimenti poetici scritti di suo pugno, con le sue
cancellature originali, gli sopravvissero per decenni, e un osservatore di
epoca successiva ne dette un giudizio positivo33. Quanto al canto, le fonti
contengono indicazioni discordanti, ma si può affermare con una certa
sicurezza che il suo limitato talento migliorò con l’esercizio34. Come
auriga, era pronto a tutto e audace. Oltre a cantare e a suonare la lira,
Nerone amava recitare nelle tragedie, interpretando ruoli che andavano
da quelli di Ercole o di Edipo a quello di una partoriente. Per recitare
quest’ultima parte, indossò una maschera somigliante alla moglie
scomparsa. Nei suoi ultimi anni si dette anche al ballo singolo, che i
romani chiamavano «pantomimo».
Nerone era famoso per gli elaborati ricevimenti che offriva al pubblico
in occasione dell’annuale celebrazione dei Saturnali, la festa invernale
romana che si teneva a dicembre. I festeggiamenti comprendevano
banchetti in costume a bordo di imbarcazioni nei laghi artificiali di
Roma ed esibizioni dell’imperatore, e vedevano l’estesa partecipazione
dei nobili, sia uomini sia donne, in un tripudio di rose – e di prostitute.
Prima della morte di Agrippina, Nerone cantava e gareggiava nelle
corse in privato. Subito dopo la sua morte nel 59, si esibì e gareggiò
davanti al popolo in quelli che tecnicamente erano eventi privati su
invito. Infine, nel 64, si esibì in pubblico prima a Napoli e poi a Roma.
Nel 66 Nerone si recò in Acaia, la provincia greca di Roma. Era sua
intenzione competere nei cinque grandi giochi, da Azio a Olimpia.
Normalmente quegli eventi si tenevano in anni diversi, ma Nerone aveva
ordinato che fossero ravvicinati in occasione della propria visita. Era la
prima volta, in ottocento anni di storia dei giochi olimpici, che essi
subivano una modifica del calendario. Nerone prese parte a quattro
diversi tipi di gare: cantò accompagnandosi con la lira; recitò in
rappresentazioni tragiche; gareggiò nelle corse di carri; partecipò alle gare
per gli araldi. Nessuno si sorprese che venisse dichiarato vincitore di ogni
competizione a cui prese parte. Fra queste vi fu la corsa dei carri a dieci
cavalli, specialità impegnativa e pericolosa durante la quale l’imperatore
cadde e per poco non venne travolto. Ma poi riprese la gara e la vinse.
Diversamente da Augusto, che condusse eserciti e percorse territori
delle province, Nerone compì un unico viaggio fuori dell’Italia. La visita
in Acaia fu dovuta a uno sfizio personale, in quanto inusuale. Come
chiunque si ritenga un attore, Nerone si concentrò sul palcoscenico, e
quello principale era naturalmente Roma. Così, come un pezzo grosso
della vecchia scuola di Hollywood che non lasciava mai la California,
Nerone rimase sempre vicino a casa. A parte l’Acaia, le province ebbero
di che soffrire. L’imperatore le trattava come una banca da cui attingere
fondi quando il governo aveva bisogno di soldi, e alla fine si ribellarono.
Nel 66, mentre Nerone si trovava in Acaia, scoppiò una grande rivolta
in Giudea. Quando fu raggiunto dalla notizia, l’imperatore inviò sul
posto a sedarla uno dei pochi generali di cui ancora si fidava. Fu una
saggia decisione, ma Nerone avrebbe potuto evitare la rivolta, soprattutto
se avesse scelto un governatore migliore. In Giudea, e altrove, aveva
nominato come governatori troppi uomini impreparati a ricoprire quel
ruolo; furono loro a provocare la rivolta in Giudea, così come quella
precedente in Britannia. Per sua fortuna i generali repressero la rivolta
britannica. Anche in Oriente riuscirono a concludere un compromesso
di pace con la Partia sull’Armenia, ex Stato satellite di Roma, e Nerone la
definì giustamente una vittoria.
Una volta tornato in Italia, tuttavia, l’imperatore dovette affrontare
problemi crescenti. Dedicò troppo tempo alle sue rappresentazioni e non
abbastanza al governo dello Stato. Il Senato complottava, e in Occidente
scoppiò una rivolta di grandi dimensioni contro di lui, cui reagì
consultando il proprio maestro di canto. I suoi tentativi di riprendere il
controllo della situazione furono deboli e vani. Nerone non suonò la lira
mentre Roma bruciava, ma certamente suonò mentre avrebbe dovuto
governare.

IL TIRANNO
Seneca e Burro volevano che Nerone governasse come un civilis princeps,
che si mostrasse rispettoso del Senato e, almeno formalmente, delle
vecchie forme costituzionali repubblicane35. Non che i due fossero
repubblicani: Seneca, ad esempio, scrisse che solo la bontà del sovrano
proteggeva la libertà36; il Senato non aveva più il potere di farlo. Dopo la
morte di Agrippina, però, la bontà di Nerone non era più un fatto
scontato. Seneca e Burro persero gradualmente la loro influenza. Nel 62
Burro morì, probabilmente per cause naturali. Quanto a Seneca, andò in
pensione.
Quell’anno costituì un punto di svolta nella storia del regno. Venne
nominato un nuovo prefetto del pretorio, che fomentò i peggiori impulsi
di Nerone, a quanto pare col sostegno di Poppea. Di lì a poco
l’imperatore avrebbe mandato in esilio un uomo di spicco
semplicemente perché nel suo albero genealogico compariva uno degli
assassini di Giulio Cesare.
Nerone fu molto meno tollerante nei confronti di chi scriveva o parlava
di lui con qualche accento critico. Rimise in vigore l’accusa di
tradimento che aveva promesso di non utilizzare, e nel 62, per la prima
volta, fece giustiziare i nemici che aveva in Senato. Quando il prefetto lo
convinse a ordinare l’esecuzione di due uomini di nobile lignaggio, si
dice che l’imperatore facesse dell’ironia sulle teste che gli furono poi
portate. Della prima disse che aveva una precoce canizie. Quando vide
l’altra, esclamò: «Perché, o Nerone, avevi paura di quest’uomo dal grosso
naso?»37.
Quello stesso anno, finalmente Nerone divorziò dalla figlia di Claudio.
Prima di avere l’ardire di mettersi contro una persona così stimata, aveva
atteso di potersi sbarazzare dei suoi principali oppositori politici.
Accusata falsamente la sua ex moglie di adulterio, la costrinse all’esilio
sulla brulla isola di Pandataria e poi la fece uccidere. In seguito Tacito
avrebbe commentato che per Ottavia il giorno delle nozze non era stato
meno luttuoso del suo funerale38.
Non molto tempo dopo, finalmente, l’imperatore sposò Poppea.
Mantenne la calma quando la figlia che gli dette morì neonata; poi, però,
nel 65, in un accesso d’ira, pare che l’avesse presa a calci, anche se a quel
tempo era di nuovo incinta, uccidendola39. Si diceva che Poppea avesse
pregato di morire giovane, prima di perdere la sua beltà, e così il suo
desiderio venne esaudito40.
È difficile credere che col suo riprovevole comportamento Nerone
mirasse a un esito così terribile. Come sempre, tuttavia, mise in piedi
uno spettacolo. Fece celebrare per la moglie un funerale pubblico,
durante il quale fu bruciata un’enorme quantità di incenso arabo41. Il
corpo di Poppea venne riempito di spezie e imbalsamato, per poi essere
deposto nel mausoleo di Augusto42. Venne, infine, divinizzata e in suo
onore fu eretto un santuario. Tutto ciò comportò una spesa non
indifferente per lo Stato romano. Prima che fosse passato un anno dalla
morte di Poppea, Nerone sposò una nobildonna romana, dopo averne
costretto il marito, all’epoca console, a suicidarsi facendo circolare
un’accusa di complotto a suo carico.
Il clima di ribellione per il comportamento tirannico di un imperatore
che si faceva sempre più violento e spietato si esacerbò. Un anno dopo
l’incendio, nel 65, Nerone scoprì una vasta cospirazione capeggiata da un
importante senatore, che mirava a deporlo e a sostituirlo. Vi erano
coinvolte almeno quarantuno persone, fra le quali diciannove senatori. In
Senato erano pochi coloro che volevano abolire la monarchia:
intendevano semplicemente riportarla sotto controllo. Solo alcuni tra i
senatori immaginavano un ritorno alla repubblica. Volevano il rispetto
dello Stato di diritto e della libertà di parola, una maggiore dignità per il
Senato e una più ampia libertà di azione per i magistrati, il tutto sotto il
governo di un principe illuminato.
In una prima fase il Senato era stato disponibile a cooperare con
Nerone, ma alla fine divenne chiaro che collaborare con lui, in realtà, era
impossibile. Per un senatore, come per qualsiasi romano, una cosa era
rinunciare alla propria indipendenza in cambio della garanzia della pace e
della sicurezza, com’era avvenuto sotto Tiberio; tutt’altra cosa era
abdicare al proprio onore e alla propria dignità a favore di un
comportamento deplorevole del sovrano. Uno dei cospiratori, un
ufficiale della guardia pretoriana, espresse probabilmente l’opinione di
molti altri quando disse, rivolgendosi a Nerone: «Nessun soldato ti fu
più fedele di me, finché meritasti di essere amato. Ho cominciato a
odiarti dopo che diventasti assassino di tua madre e di tua moglie, auriga,
istrione e incendiario»43.
La più famosa vittima del contrattacco di Nerone nei confronti dei
cospiratori fu il suo ex mentore, Seneca. Sebbene probabilmente non
fosse coinvolto nella congiura, gli fu imposto di suicidarsi. Lo fece
tagliandosi le vene dei polsi, il modo di togliersi la vita più comune a
Roma, ma l’emorragia fu lenta e penosa. Alla fine, dopo un’udienza a cui
presero parte molti suoi amici, Seneca si soffocò nei vapori di un bagno
caldo. Come Agrippina, cadde vittima del mostro che aveva contribuito
a creare.
I romani nutrivano sentimenti contrastanti nei confronti del suicidio.
Lo approvavano quando era deliberato, come nel caso di una reazione per
motivi di disonore o di un atto di sacrificio personale. Lo condannavano
invece quando era conseguente a un atto impulsivo. Il giudizio
dipendeva inoltre dal metodo seguito. Biasimavano ad esempio chi si
impiccava o chi si gettava da un luogo elevato, ritenendolo vigliacco, e
ammiravano invece chi si toglieva la vita con un’arma, come nel caso di
Seneca.
Questi aveva una cosa in comune con i cospiratori: come quasi tutti
loro era un seguace dello stoicismo. Questa scuola di pensiero, nata
secolo prima in Grecia, diventò la filosofia preferita dell’élite romana. Era
pragmatica e animata da senso civico, ma anche coerente con i
tradizionali valori romani. Gli stoici attribuivano grande importanza alle
quattro virtù cardinali: giustizia, coraggio, temperanza e saggezza pratica;
insegnavano, inoltre, un comportamento austero e l’autocontrollo.
Poiché tradizionalmente i romani si facevano vanto della propria
semplicità e del proprio rigore, attribuivano valore al servizio pubblico e
alla saggezza pratica, tenevano in grande stima l’onore e perseguivano il
coraggio, trovarono nello stoicismo una filosofia compatibile con questi
atteggiamenti.
Sebbene alcuni stoici volessero ritornare alla vecchia repubblica, nella
maggior parte dei casi accettavano la monarchia. Sostenevano, però, che
il sovrano dovesse essere moderato, saggio, rispettoso della legge e
garbato. Aborrivano la tirannia. E, naturalmente, entrarono in conflitto
con Nerone.
Nel 65 lo stoico più influente dell’epoca, Musonio Rufo, riuscì a
cavarsela con l’esilio, mentre altri persero la vita; ma si trattava del suo
secondo esilio sotto Nerone, e in seguito sarebbe stato allontanato per la
terza volta sotto un altro imperatore, prima di fare finalmente ritorno a
Roma. Sebbene non si sappia niente dei suoi scritti, le sue conferenze
erano famose, come fu testimoniato da altri che le citarono spesso. Il suo
spirito e la sua saggezza gli valsero il titolo di «Socrate romano». Era
solito dire ad esempio che gli applausi erano adatti ai flautisti, non ai
filosofi. Il filosofo più ammirevole, diceva, era quello le cui conferenze
suscitavano silenzio, non altre parole44. Musonio lasciò un’impronta
decisiva, influenzando diverse fra le più autorevoli generazioni di
politici, filosofi e comandanti militari del mondo romano.
Nerone non aveva posto fine ai suoi atti sanguinari. Nel 67 ordinò la
morte del miglior generale di cui disponeva, Gneo Domizio Corbulone.
Questi era un uomo di grande talento e popolare, e ciò bastava perché
Nerone non si fidasse di lui. Inoltre, il genero di Corbulone aveva preso
parte a un complotto contro l’imperatore. Così, Nerone ordinò di
mettere a morte il suo generale, il quale, appresa la notizia, si uccise
trafiggendosi con la propria spada. La sua ultima parola fu Axios! («Me lo
sono meritato!»)45, un termine greco usato nelle gare di atletica per
inneggiare al vincitore. Sembra che si trattasse di un’amara ironia, e
alcuni pensano che Corbulone intendesse dire che era stato uno sciocco a
non aver ucciso Nerone quando ne aveva avuta la possibilità.
Se Nerone pensava di essere più sicuro dopo la morte di Corbulone, si
sbagliava. Quella uccisione fu come un messaggio inviato agli altri
comandanti per avvertirli che i prossimi avrebbero potuto essere loro.
Infatti, Nerone fece giustiziare anche due fratelli che avevano abilmente
esercitato il comando sulla frontiera germanica. Prima o poi, uno dei
generali di Nerone avrebbe deciso di colpire per primo.

IL PERSECUTORE
Dopo il Grande Incendio, Nerone organizzò uno spettacolo privato nei
suoi giardini. Per sviare l’accusa di aver dato avvio alle fiamme, gettò la
colpa su una setta religiosa impopolare e relativamente recente, quella
cristiana46.
Il cristianesimo esisteva a quell’epoca da quasi trentacinque anni. Era
nato in Galilea, con la vita e la morte di Gesù di Nazareth. La sua
predicazione in Galilea aveva attirato un gran numero di seguaci grazie
all’importanza che attribuiva a valori quali la bontà, l’umiltà, la carità e la
preghiera. A generare il loro entusiasmo fu l’idea che l’avvento del Regno
di Dio, per il quale molti pregavano, era già iniziato. Alla fine Gesù
raggiunse la capitale Gerusalemme, dove le folle di persone entusiaste che
lo seguivano suscitarono allarme fra le autorità ebraiche come fra quelle
romane. Venne condannato e crocifisso intorno all’anno 30, durante il
regno di Tiberio.
Galvanizzati dalla convinzione che Gesù fosse resuscitato, i suoi seguaci
diffusero la nuova fede dapprima in Palestina, poi nel mondo
mediterraneo. Le prime Chiese furono comunità di fede e carità, isole in
un mondo spesso ostile. Grazie all’opera missionaria, nella stessa Roma si
sviluppò una piccola comunità cristiana.
Le autorità guardavano ai cristiani con disprezzo, e forse li temevano. I
romani erano diffidenti verso le innovazioni, e sospettosi nei confronti
delle persone che si riunivano per scopi che le autorità non conoscevano
né erano in grado di controllare. Gli intellettuali legati all’élite che
scrissero varie generazioni dopo fecero riferimento ai primi cristiani
come a un «genere di individui dediti a una nuova malefica
superstizione»47, che «si erano resi odiosi per le loro nefandezze»48. Forse
esisteva una comunità cristiana vicino al luogo da cui partirono le fiamme
del Grande Incendio. È possibile, inoltre, che dopo la catastrofe alcuni
cristiani affermassero apertamente che Roma era stata in tal modo punita
per i suoi peccati. Fu così che i cristiani poterono essere usati come capri
espiatori per un crimine del quale sicuramente non avevano colpa.
Secondo Tacito, Nerone punì i colpevoli non tanto per aver provocato
l’incendio – reato che si presume essi avessero confessato –, quanto per il
loro «odio per il genere umano»49. Da buon impresario qual era, Nerone
trasformò la loro esecuzione in uno spettacolo terrificante. La scena fu
ambientata a quanto pare nelle sue proprietà oltre il Tevere, nel territorio
vaticano dov’era situato un circo. Ai romani piaceva recitare scene tratte
dalla mitologia, motivo per cui, forse, alcune delle vittime indossavano
pelli di animali e furono fatte sbranare dai cani, in una teatralizzazione del
mito che narra di un cacciatore che viene trasformato in cervo e ucciso
dai suoi cani arrabbiati. Altri furono crocifissi o arsi vivi di notte, e usati
come torce umane. Nerone stesso prese parte agli eventi vestito da
auriga. Sceso dal carro, si mescolò alla folla degli spettatori. Tacito
commenta sarcasticamente che la sua semplice presenza suscitò un moto
di compassione per le vittime50. Secondo la tradizione cristiana, fra le
vittime delle persecuzioni successive al Grande Incendio vi furono anche
due degli apostoli e primi missionari della Chiesa, i santi Pietro e Paolo.
La circostanza, tuttavia, non può essere provata.
Per quale motivo Nerone perseguitò i cristiani? Erano un bersaglio
adatto, facilmente raggiungibile e impopolare. Forse però, in certa
misura, egli scorse in loro una minaccia più profonda. Come lui,
rappresentavano una risposta forte a una crisi della cultura romana. Ai
tempi di Nerone, la virilità dei romani sembrava essersi infiacchita sotto
la monarchia. Nella repubblica, la libertà e il militarismo avevano
occupato una posizione di primo piano nella cultura romana, ma le
elezioni libere e i conquistatori indipendenti erano ormai cose del
passato. Privati ormai in gran parte dei precedenti sfoghi nel Foro o sul
campo di battaglia, i romani cominciarono a guardare dentro sé stessi. Gli
scritti di Seneca sono un’eloquente testimonianza di questo sviluppo. La
Roma di Nerone era ricca, e nessuno lo sapeva meglio di lui. Tuttavia, al
di sotto dell’opulenza c’era il vuoto. Seneca e gli stoici vedevano la
soluzione di questo stato di cose nella pace interiore.
Nerone, naturalmente, propose una strada diversa, offrendo forme
d’intrattenimento sempre più numerose, spettacolari e scioccanti, e più
scandalose. Ma né il cibo, né le bevande, né il sesso potevano parlare ai
bisogni dell’animo com’era in grado di fare la religione. Forse Nerone
vide nei cristiani una sfida che non poteva vincere, e quindi tentò di
distruggerli.

IL CALCESTRUZZO
La figura di Nerone può essere riassunta da alcuni termini comuni, come
arte, lusso, irresponsabilità e tirannia, ma a ciò occorrerebbe aggiungere una
parola meno spettacolare ancorché altrettanto significativa: calcestruzzo.
Era un’eredità decisiva.
Il calcestruzzo romano era composto da una miscela di sabbia vulcanica,
calce viva e pezzi scelti di macerie (pietre e frammenti di mattoni). Era
un materiale versatile, flessibile ed economico. Nonostante l’aspetto
inanimato e poroso, fu come la polvere magica di un folletto che
produsse una rivoluzione nell’architettura51. Consentì a Roma di liberarsi
dei pali e degli architravi dell’architettura di derivazione greca e di
crearne una propria. Il calcestruzzo rese possibile costruire le volte e le
cupole destinate a diventare gli emblemi dell’architettura imperiale
romana. Quello che il marmo fu per la Grecia, la cupola di calcestruzzo
fu per Roma.
E non solo per Roma. L’elegante cupola divenne in seguito il simbolo
del potere e della gloria, e da allora è rimasta tale, in contesti sia laici sia
religiosi, conoscendo cambiamenti e miglioramenti periodici. Dai
romani, la cupola passò ai bizantini, i quali a loro volta la trasmisero alla
cristianità occidentale; sarà poi utilizata anche in ambienti laici come il
Campidoglio degli Stati Uniti. La cupola bizantina, assieme a quelle
persiane, influenzò anche l’architettura islamica. Tutto questo processo
può essere fatto risalire fino a Nerone.
Il suo magistrale uso del calcestruzzo emerge chiaramente in una piccola
e sofisticata sala. Oggi è sepolta sotto uno dei colli di Roma, ma in
origine si ergeva all’aperto sulla collina, come un monumento alla
maestria dell’arte architettonica era di forma ottagonale e aveva un soffitto
a cupola, con un’apertura a «occhio di bue» per far filtrare la luce.
Assieme alla serie di stanze che la contornavano, rappresentava una
rivoluzione architettonica. Fu il fiore all’occhiello della corona nel quadro
del nuovo programma di costruzioni lanciato da Nerone dopo il Grande
Incendio: una serie di interventi che, fra le altre cose, allargarono strade,
bandirono i muri divisori e posero sotto controllo il livello dell’acqua
negli acquedotti.
Dapprima Nerone sgombrò un centinaio di ettari di terreno nel centro
di Roma da importanti edifici, per costruire un nuovo palazzo che fu
chiamato Domus Aurea, ma che in realtà era composto da un complesso
di strutture diverse. Utilizzando i migliori architetti e ingegneri
dell’epoca, l’imperatore creò un’opera elegante, opulenta, dal carattere
radicale ed enormemente influente. A livello più pratico, le volte in
calcestruzzo, di cui egli promosse la costruzione, erano più resistenti alle
fiamme rispetto ai tetti in legno.
La Domus Aurea si adagiava sui pendii collinari affacciati sulla valle
dove oggi è collocato il Colosseo (che sarebbe stato costruito di lì a
poco). Gli elementi fondamentali erano costituiti da uno stagno artificiale
a valle, da un enorme vestibolo sul colle a occidente del Colosseo, di
dimensioni tali da contenere una statua bronzea di Nerone alta una
quarantina di metri, da uno splendido ninfeo sul colle a sud-est e da un
palazzo e probabilmente vi erano altri edifici termali sul colle a nord-est.
La costruzione offriva un’architettura innovativa, decorata con sofisticati
dipinti murali e mosaici. Era impressionante come una scenografia, con
ampie vedute sulla valle e sui colli. La sala ottagonale sormontata dalla
cupola sorgeva in quel luogo.
Quando costruì la Domus Aurea, Nerone proclamò che finalmente
avrebbe potuto vivere come un essere umano52. Sicuramente progettò di
condividere quel nuovo stile di vita con gli abitanti della città, invitandoli
di quando in quando agli eventi che si svolgevano sullo specchio d’acqua
o a passeggiare nel parco. Riferendosi forse al palazzo, Tacito scrisse che
Nerone trattò la città intera come se fosse casa sua53.

LA MORTE
Fantasia e decadenza segnarono gli ultimi anni di Nerone. Sebbene molti
lo considerassero una disgrazia, non fu l’onore ferito di Roma ad
abbattere Nerone. Solo quando operò in modo tale da far temere ai suoi
concittadini per le loro proprietà e le loro vite, essi passarono all’azione. I
progetti edilizi neroniani, i costosissimi giochi e i generosi doni al
popolo e ai soldati pesavano sulle finanze dello Stato, così come i costi
della ricostruzione successiva al Grande Incendio e quelli delle guerre in
Armenia, Britannia e Giudea. Per sostenerli, Nerone deprezzò la valuta.
Il tenore in argento delle monete diminuì di circa il 10%, ma ciò non fu
sufficiente. Qualcuno doveva pagare. Sebbene la maggior parte della
gente comune continuasse ad adorare Nerone anche dopo il Grande
Incendio, il suo viaggio di un anno e mezzo in Acaia, gran parte del
quale dedicato a un tour artistico, fu un atto di spavalderia e di
incompetenza, soprattutto perché fece montare il malcontento fra le élites
più influenti. Nel frattempo, l’imperatore trovò modo di fare qualcosa
che disgustò i suoi oppositori. Ancora in lutto per Poppea, incontrò un
giovane liberto che le somigliava. Lo costrinse a vestire come lei, poi lo
fece evirare e, infine, durante il suo viaggio in Grecia, lo sposò. In
precedenza, nel contesto di una festa a Roma, Nerone aveva già sposato
un altro liberto. In termini moderni, Nerone era principalmente
eterosessuale, e per tutto questo tempo rimase sposato con la sua terza
moglie. Uno o entrambi i suoi matrimoni con quei giovani uomini
furono probabilmente una parodia, e ciò nondimeno la vicenda scioccò i
contemporanei.
Nei suoi ultimi anni Nerone declinò la proposta di costruire a Roma
un tempio consacrato alla sua divinità, perché venerare un imperatore
ancora in vita come un dio era non solo un cattivo costume, ma anche
foriero di sfortuna. Fu contento, tuttavia, di modificare il nome del mese
di aprile in Neroneus, e progettò di imporre a Roma il nome Neropolis,
di radice greca, il che avrebbe costituito un triplice insulto ai
tradizionalisti. Quel termine avrebbe cancellato il nome che la città aveva
preso da Romolo, il leggendario personaggio che i romani credevano
avesse fondato la loro città nel 753 a.C., sostituendolo con un vocabolo
straniero in modo arrogante e rivoluzionario.
A quell’epoca Nerone, il quasi dio, era fisicamente invecchiato. Aveva
il collo rigido, il ventre prominente e le gambe sottili, aspetti poco
gradevoli che venivano accentuati dalla sua altezza media. Nerone ormai
non era più il giovane principe di un tempo.
Alla fine del suo regno, perse l’appoggio della Roma che contava. Una
provincia, la Giudea, era in rivolta. Altre erano inquiete per dover
sostenere i costi delle spese di Nerone. I suoi generali non si fidavano più
di un imperatore che ricompensava il successo dei suoi soldati
giustiziandoli. Quando i generali hanno paura, i soldati si mettono in
marcia. Nella primavera del 68 arrivarono cattive notizie da Occidente:
una ribellione dei popoli della Gallia capeggiata da un nobile locale che
era il governatore della Gallia Lugdunensis (Francia centrale e
occidentale). Sebbene truppe leali provenienti dalla Germania fossero
riuscite a sedare la rivolta, presto circolarono notizie di ulteriori tumulti.
Il governatore della Hispania Tarraconensis (approssimativamente
corrispondente alla Spagna mediterranea) venne acclamato imperatore dai
suoi soldati. Prudentemente lasciò che fosse il Senato a decidere. Si
trattava di Servio Sulpicio Galba, un ricco ed eminente nobile romano, il
quale aveva i contatti, la reputazione e le truppe sufficienti a dare avvio a
una seria ribellione. Fra l’altro, negli anni precedenti era stato uno dei
favoriti della corte di Livia.
Sembra che alla fine Nerone si fosse ritirato nelle sue fantasie. Andava
parlando di riconquistare la Gallia recandovisi di persona per cantare alle
truppe. Poi disse che si sarebbe trasferito ad Alessandria per diventare un
cantante professionista. L’8 giugno il Senato lo dichiarò un nemico
pubblico. La guardia pretoriana lo abbandonò.
Nerone fuggì da Roma. Il giorno seguente, il 9 giugno, abbandonato
da tutti, ad eccezione dei suoi più tenaci fedeli, si suicidò poco fuori
città. Mentre si stava preparando a togliersi la vita, l’uomo che un tempo
aveva sovrinteso alla ricostruzione di Roma mandò alcuni compagni a
preparare una pira funeraria e a scavare una fossa nella quale seppellire le
sue ceneri. Si narra che mentre si preparava alla fine disse: «Quale artista
muore!»54. Se davvero pronunciò queste parole, il loro significato
potrebbe essere diverso da quello apparente. Il termine latino per
designare un artista può significare anche artigiano. Forse quel che
davvero Nerone intese dire non si riferiva al fatto di essere ancora un
grande artista, quanto semmai che il grande artista di un tempo era adesso
ridotto a dare istruzioni a dei servi. Se è così, non avrebbe dovuto
preoccuparsi, poiché le sue ceneri furono prese dalla sua fedele
infermiera e portate in un luogo più dignitoso, anche se non certo in
quello che un imperatore avrebbe desiderato. Nerone fu il primo e
l’unico membro della famiglia imperiale al quale venisse negata la
sepoltura nel mausoleo di Augusto. Le sue ceneri furono infatti collocate
in una tomba posta nella cripta della famiglia del suo padre naturale sul
Pincio, fuori dalle mura cittadine. Nerone era entrato in carica fra gli
applausi e usciva di scena da indesiderato, nella tomba della sua dinastia.
Nel frattempo, a Galba giunse la notizia che Nerone era morto, e che sia
il Senato sia i pretoriani lo avevano acclamato imperatore. A quel punto
marciò su Roma. Avrebbe regnato solo per sette mesi.

LA CADUTA DELLA CASA DI CESARE


Il bilancio del regno di Nerone fu abbastanza decoroso per quanto
concerneva alcuni aspetti del suo operato. Aveva avuto il sostegno della
gente comune. Si era rivelato un grande costruttore e un eccellente
impresario. Sovrintese a una rinascita culturale. Amò la Grecia e ottenne
il sostegno dell’Oriente greco. Occorre poi ricordare che nei primi
cinque anni del suo regno aveva avuto l’appoggio anche del Senato.
Perché fallì? Con la nomina di un governatore incompetente, aveva
provocato un’accesa rivolta in Giudea. Confiscando proprietà, aveva
scatenato la rivolta nelle province occidentali. Con la persecuzione e
l’eliminazione fisica dei suoi nemici interni al ceto dirigente e con la sua
condotta personale invisa all’élite, aveva dato impulso ai complotti e alle
rivolte.
Nerone fu l’imperatore più colto e più crudele che Roma avesse mai
avuto, e uno degli ultimi membri della vecchia nobiltà romana a
ricoprire la carica di imperatore. Dopo di lui, e con l’eccezione del breve
regno di Galba, ci sarebbero voluti quasi duecento anni prima che un
altro esponente della nobiltà romana tornasse sul trono.
I predecessori di Nerone, tutti aristocratici, furono più marziali e
qualche volta più folli, ma nessuno fu più magnifico di lui. E nessuno
eguagliò il suo esibizionismo.
Il suicidio di Nerone minacciava il futuro della monarchia romana.
Augusto aveva salvato Roma assoggettandola al governo di un unico
uomo. Da allora, ogni imperatore era stato o un discendente in linea di
sangue di Augusto, suo nipote, o un suo figlio adottivo. Augusto
impostò il suo governo sulla sua famiglia. Il principato sarebbe rimasto in
piedi o caduto sui valori familiari, e Augusto era fiducioso che sarebbe
durato. Fu troppo ottimista.
Diversamente da Nerone, Galba non discendeva da Augusto, ma in
quel momento non era rimasto più in vita alcun discendente maschio del
fondatore dell’impero. Sapendo di non avere eredi diretti, e spaventato
dai suoi potenziali rivali, Nerone li aveva uccisi tutti.
Nessuno dei membri della famiglia di Augusto ebbe un successo pari al
suo. Tiberio mancava non solo di carisma, ma anche di fascino e di
capacità comunicative. Germanico, suo nipote ed erede, quelle doti le
aveva tutte, ma gli faceva difetto il senso comune di Tiberio, e morì
prima di poter governare. I tre membri della famiglia di Germanico che
salirono sul trono dopo Tiberio erano impreparati al compito. Caligola,
Claudio e Nerone non avevano accumulato sufficiente esperienza
amministrativa prima di assumere il governo dello Stato, e nessuno di
loro aveva mai comandato un esercito. La pressione della vita dinastica ne
fece dei megalomani, degli scialacquatori e degli assassini della nobiltà
romana, che accelerarono il declino del Senato.
Il corpo di Nerone era nella tomba, ma la sua anima si sarebbe
ripresentata per secoli durante la storia della Roma imperiale. Augusto
un tempo aveva domato l’antica repubblica guerriera e l’aveva riorientata
verso il duplice scopo dell’impero e della pace. E, tuttavia, lasciò senza
risposta la domanda riguardante cosa fare dell’irrequieto spirito
conquistatore ancora vivo a Roma. Nerone una risposta la offrì: l’avrebbe
riorientato verso il piacere. Ma era troppo privo di senso pratico e troppo
imperioso per scorgere i limiti del proprio potere o per preoccuparsi
della questione di chi avrebbe pagato il prezzo necessario. Né tenne
conto del persistente fascino che l’onore esercitava sul cuore di Roma.
L’élite, in realtà, non era disposta a tollerare un auriga, un attore e un
piromane quali era il loro governante, e soprattutto non lo fu una volta
che ebbe anche ucciso sua madre e sua moglie.
Fra i successori di Nerone, pochi si rivelarono disposti a mettere alla
prova la pazienza dei loro contemporanei come aveva fatto lui, e quando
ciò avvenne i loro tentativi si rivelarono ben presto fatali. Tuttavia,
quando si trattava di rafforzare l’importanza delle attività di
intrattenimento, in ogni futuro imperatore romano c’era un piccolo
Nerone.
Roma si trovava adesso ad affrontare un problema urgente. Poteva
l’impero continuare senza la Casa di Cesare? Roma senza Cesare: dopo
un secolo di pace dalla battaglia di Azio, al solo pensarvi la città tremava.

 
1
Tacito, Annali XV.39. Nelle fonti antiche si trovano molte altre descrizioni analoghe, con la
differenza che in ogni caso si parla del comportamento di Nerone come di un fatto, e non
come del frutto di una semplice voce. Si vedano: Svetonio, Nerone XXXVIII; Cassio Dione,
Storia romana LXII.18.1; Plinio il Vecchio, Storia naturale XVII.1.5.
2
Svetonio, Caligola XXIV.1.
3
Ivi, LV.3.
4
Ivi, XXIX.
5
Ivi, XXXVII.
6
Ivi, XXX.2.
7
Museo del Louvre (Parigi), MR 280.
8
Giovenale, Satire, II.VI.118.
9
Ivi, II.VI.123 (Lycisca).
10
Plinio il Vecchio, Storia naturale X.83.
11
Museo Centrale Montemartini (Roma), inv. MC 1882; Ny Carlsberg Glyptotek
(Copenaghen), inv. 753.
12
Cassio Dione, Storia romana LXI.2.
13
Svetonio, Caligola LIII.2.
14
Seneca, De beneficiis II.12.
15
Ivi, IV.31.
16
Cassio Dione, Storia romana LX.80.5.
17
Svetonio, Nerone LI.1.
18
Ivi, LIII.
19
Tacito, Annali XIII.2; Svetonio, Nerone IX.
20
Si veda, ad esempio, RIC I (second edition) Nero 1
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.1(2).ner.1).
21
Tacito, Annali XII.64.
22
Il gioco di parole suona meglio in greco, dove apothèosis sta per deificazione e
zucchificazione diventa apokolokỳntosis, ma anche in questo caso il significato non è chiaro.
23
Cassio Dione, Storia romana LX.35.
24
Tacito, Annali XIV.2; Svetonio, Nerone XXVIII.2; Cassio Dione, Storia romana LXI.11.3-4.
25
Plinio il Vecchio, Storia naturale XXXVII.12.
26
Ivi, XXVIII.182-183; Cassio Dione, Storia romana LXII.28.1.
27
Giovenale, Satire II.VI.462.
28
Tacito, Annali XIV.3-7; Cassio Dione, Storia romana LXII.12-13; Svetonio, Nerone
XXXIV.2-3; cfr. Anthony A. Barrett, Agrippina: Sex, Power, and Politics in the Early Empire,
Yale University Press, New Haven (CT) 1996, pp. 187-188.
29
Tacito, Annali XIV.8; Cassio Dione, Storia romana LXII.13.5.
30
Tacito, Annali XIV.7.
31
Ivi, XIV.62.
32
Si veda Edward Champlin, Nero, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge
(MA) 2003, pp. 96-103.
33
Svetonio, Nerone LII.
34
Si veda Champlin, Nero cit., p. 283 n.
35
Sul concetto di civilis princeps si veda Andrew Wallace-Hadrill, Civilis Princeps: Between
Citizen and King, in «Journal of Roman Studies», LXXII (1982), pp. 32-48.
36
Seneca, De clementia I.1.
37
Tacito, Annali XIV.57 e XIV.59; Cassio Dione, Storia romana LXII.14.1.
38
Tacito, Annali XIV.63.3.
39
Ivi, XVI.6; Svetonio, Nerone XXXV.3; Cassio Dione, Storia romana LXII.28.1.
40
Cassio Dione, Storia romana LXII.28.1.
41
Plinio il Vecchio, Storia naturale XII.83.
42
Tacito, Annali XVI.6.2-3
43
Ivi, XV.67 (nel testo si afferma che le sue parole sono riportate alla lettera).
44
Musonio Rufo, fr. 49: si veda Cora Elizabeth Lutz, Musonius Rufus: «The Roman Socrates»,
Yale University Press, New Haven (CT) 1947, p. 143.
45
Cassio Dione, Storia romana LXIII.17.5-6.
46
Di recente è sorta una discussione accademica sulla fondatezza storica della persecuzione
operata da Nerone a danno dei cristiani. Brent Shaw si oppone con decisione alla veridicità
delle ipotesi tradizionali, ma a mio personale avviso Christopher Jones ha portato argomenti
convincenti in senso contrario. Si vedano: Brent Shaw, The Myth of the Neronian Persecution, in
«The Journal of Roman Studies», CV (2015), pp. 73-100; Christopher P. Jones, The Historicity
of the Neronian Persecution: A Response to Brent Shaw, in «New Testament Studies», LXIII
(2017), pp. 146-152.
47
Svetonio, Nerone XVI.2.
48
Tacito, Annali XV.44.2.
49
Ivi, XV.44.4.
50
Ivi, XV.44.5.
51
Iosif Brodskij, Ode to Concrete, in Id., So Forth: Poems, Farrar, Straus and Giroux, New York
1996, p. 116 (trad. it. di Matteo Campagnoli e Anna Raffetto, E così via, Adelphi, Milano
2017).
52
Svetonio, Nerone XXI.
53
Tacito, Annali XV.37.1.
54
Svetonio, Nerone XLIX; Cassio Dione, Storia romana LXIII.29.2; cfr. Champlin, Nero cit.,
pp. 49-51.
Vespasiano
4
Vespasiano,
il cittadino comune

Il 67 trovò l’esercito romano impegnato in una dura lotta per riprendere


il controllo della provincia della Giudea. Al comando delle legioni c’era
uno dei più esperti generali dell’impero, Tito Flavio Vespasiano, uno dei
conquistatori della Britannia. Da quel che sappiamo, era un soldato dalla
testa ai piedi, che si spostava a cavallo assieme ai reparti di cavalleria nella
colonna dell’esercito in marcia, mescolandosi ai suoi uomini e
preoccupandosi della loro sicurezza e delle loro condizioni mentre li
guidava verso l’obiettivo. Quando uno dei soldati schierati a difesa delle
mura di una città della Galilea lo colpì con un freccia nella pianta di un
piede, le legioni rabbrividirono. Ma si trattava solo di una ferita
superficiale, e il cinquantasettenne generale si rialzò per mostrare ai suoi
uomini che stava bene, spronandoli così a combattere con ancor
maggiore impegno1. Vespasiano era lento, controllato e imperturbabile.
Come scrive Tacito, era in tutto come i grandi generali di un tempo,
eccetto che per la sua avidità2. E, come vedremo, quella critica potrebbe
essere stata dovuta semplicemente al sarcasmo di un aristocratico.
Nel novembre del 67 Vespasiano fu sotto attacco mentre si trovava
all’interno delle mura di Gamala, una città ribelle fortificata, situata su un
crinale scosceso affacciato sopra il mare di Galilea. I romani erano
penetrati in città trovandovi solo edifici pericolanti e un terreno infido.
Vespasiano, che aveva il comando delle truppe, combatté nel vivo delle
operazioni. Dopo aver ordinato ai suoi uomini di unire gli scudi in una
formazione protettiva, retrocesse con calma insieme a loro, senza mai
volgere le spalle al nemico finché non furono al sicuro fuori dalle mura.
Poi radunò di nuovo le forze e nei giorni seguenti conquistò la città3. È a
questo audace guerriero che l’imperatore Nerone affidò il proprio
esercito.
Nell’estate del 68 Vespasiano si apprestava a dare avvio all’assedio di
Gerusalemme, quando gli giunse la notizia della morte di Nerone.
Interruppe allora le operazioni in attesa di ricevere istruzioni dal nuovo
governo. Ma prima che la macchina da guerra romana si rimettesse in
attività, il mondo si capovolse più volte, e quando si fermò, Vespasiano si
trovava insediato al vertice.
Nerone fu costretto a suicidarsi dall’opposizione del Senato e dal
montare della ribellione fra i soldati. Tutti concordavano sulla necessità di
un cambiamento, ma quando si trattò di scegliere un nuovo imperatore –
o di decidere se dovesse esservi o meno un imperatore – l’unica opinione
condivisa era che la parola finale sarebbe toccata alle armi. Dopo un
secolo, la pace augustea era finita. La nuova realtà era quella della guerra,
che imperversava dai territori della Gallia e della Germania alla Giudea e
alla stessa Italia. Fu un’epoca di battaglie all’ultimo sangue, saccheggi,
assedi e combattimenti di strada. Due degli edifici sacri più venerati, il
Secondo Tempio ebraico a Gerusalemme e, a Roma, il tempio di Giove
Ottimo Massimo sul Campidoglio, noto come il tempio di Giove
Capitolino, furono ridotti in macerie. Come se ciò non bastasse, non
molto tempo dopo che la pace fu restaurata, l’Italia conobbe il più tragico
disastro naturale della sua storia.
Il 69 fu l’anno dei quattro imperatori. Dopo il suicidio di Nerone,
avvenuto il 9 giugno del 68, quattro uomini si avvicendarono sul trono
imperiale. Per tre di loro si trattò di una fugace apparizione: Galba (dal
24 dicembre 68 al 15 gennaio 69), Otone (dal 15 gennaio al 16 aprile 69)
e Aulo Vitellio (dal 16 aprile al 22 dicembre 69). Solo il quarto,
Vespasiano, riuscì a insediarsi stabilmente, tanto da fondare una nuova
dinastia.
Si trattò di qualcosa di nuovo agli occhi dei romani. Tutti i precedenti
imperatori erano stati nominati a Roma, mentre tre dei quattro che si
avvicendarono in quell’anno furono scelti nelle province: Galba nella
Hispania, Vitellio in Germania e Vespasiano in Egitto. Furono anche i
primi imperatori ad essere investiti, di fatto, dalle loro legioni. Tacito
scrive che quando quelle spagnole acclamarono Galba, si ebbe «la
rivelazione inattesa che potesse l’imperatore farsi eleggere anche fuori
dalla capitale»4.
I romani si aspettavano che i loro imperatori avessero il prestigio che
accompagnava chi era di nobile nascita. Così fu per tutti, in vario modo,
fino a Vespasiano, che fu il primo sovrano romano di estrazione non
nobiliare, il primo cittadino comune a salire sul colle Palatino, il primo
imperatore plebeo. Le fonti abbondano di storie che descrivono quanto
fosse di modi diretti e pratico. Un aneddoto narra che quando il
comandante di un’unità di cavalleria si presentò davanti a lui tutto
cosparso di profumo, gli disse che avrebbe preferito che puzzasse d’aglio;
in altre parole, preferiva avere ufficiali virili e rozzi, piuttosto che
rammolliti e colti5.
Vespasiano non aveva antenati diretti in Senato: era quello che a Roma
chiamavano un «uomo nuovo» (homo novus). Per i romani, diversamente
da noi, l’espressione «nuovo e migliore» era un ossimoro; preferivano
«vecchio e sperimentato dal tempo». Percorrere la via di accesso al
palazzo sarebbe stata quindi un’impresa ardua per un nuovo arrivato, ma
Vespasiano decise di tentarla.

UN UOMO PROVENIENTE DALLA SABINA


I fiumi della campagna sabina a nord-est di Roma scorrono attraversando
campi verdi e boschi rigogliosi, per poi immettersi nel Tevere,
alimentandone le acque che scorrono dalla sorgente; spesso quelle acque,
prima che fossero costruiti i moderni argini, in primavera e in estate
inondavano le aree più basse della città. Non si poteva mai sapere cosa il
Tevere avrebbe potuto trascinare a Roma dalle alture sabine; il 17
novembre del 9 d.C. portò un bambino che in seguito sarebbe diventato
imperatore.
Il suo nome era Tito Flavio Vespasiano, e vide la luce in un villaggio nei
pressi della città sabina di Reate (l’odierna Rieti). Vespasiano aveva le sue
radici nella terra e nel senso comune dell’Italia rurale. La campagna sabina
era una terra di aratri trainati da buoi e di carri guidati da muli, fra il
tintinnio dei campanacci delle capre e il frinire delle cicale, di caldi
pomeriggi estivi e fresche acque di sorgente primaverili. Il contesto era
così caratteristicamente italiano che il lago di Cotilia, non distante da
Reate, veniva chiamato «ombelico d’Italia»6. Secondo la tradizione, i
sabini erano stati tra i primi rivali dei romani, dei quali presto
diventarono alleati. La leggenda narra del ratto delle Sabine da parte dei
primi romani, un gruppo composto prevalentemente da uomini in cerca
di mogli. Quando i sabini andarono in guerra, furono le donne, a quanto
pare, a far rappacificare i loro padri e fratelli con i loro nuovi mariti.
Anche Vespasiano sarebbe stato un pacificatore, per quanto di tipo
diverso.
La sua famiglia, quella dei Flavi, era composta da italici che stavano
ascendendo nella scala sociale. Fu durante le guerre civili della tarda
repubblica che i suoi membri accumularono la loro prima fortuna. Il
padre di Vespasiano fu esattore delle imposte in Asia Minore e prestatore
di soldi in Gallia. Vespasiano ereditò da lui l’interesse per le finanze, che
gli sarebbe tornato utile una volta diventato imperatore. Ma sembra che
furono le donne della famiglia a suscitare grandi aspirazioni nell’animo di
Vespasiano e del suo fratello maggiore, Flavio Sabino (detto «il Sabino»).
Sapendo che i romani tenevano in grande considerazione le loro madri,
forse Vespasiano dette rilievo a questo aspetto anche nel suo
comportamento pubblico. Durante il suo regno, ad esempio, ebbe cura
di visitare le proprietà dei suoi nonni. Si narra che sua nonna lo avesse
allevato in quei luoghi nel periodo in cui suo padre si trovava in Asia
Minore.
La madre di Vespasiano, Vespasia, fu a quanto pare una figura chiave
della sua adolescenza. Era figlia di un ufficiale dell’esercito e cavaliere
romano. Cosa ancor più importante, suo fratello era un senatore, e lei
voleva che i suoi due figli ne seguissero le orme. Il figlio maggiore di
Vespasia, Flavio Sabino, divenne con entusiasmo questore e quindi
automaticamente senatore, ma suo fratello Vespasiano si tenne in disparte:
in un primo momento pensava di dedicarsi ad attività finanziarie come il
padre, ma alla fine cambiò parere. Si narra che fosse stata Vespasia a
convincerlo, più con gli insulti che con le richieste: lo chiamava infatti
l’anteambulo di suo fratello, paragonandolo così allo schiavo che cammina
davanti al proprio signore per fargli strada7.
Che fossero stati o meno i negativi apprezzamenti materni a fargli
cambiare opinione, Vespasiano decise di seguire le orme del fratello.
Attorno al 35, quando aveva circa venticinque anni, anche lui venne
eletto questore, e cominciò quindi la propria carriera di senatore
romano. Una volta scelta la propria strada, andò avanti con la tenacia di
un mulattiere sabino che frusta il suo animale per inerpicarsi lungo uno
stretto sentiero di montagna. Era un giovane forte e sano, ben costruito e
vigoroso, ma non bello. Schietto, diretto e dai modi plebei, aveva il volto
di un mastino e il portamento di un soldato.
Erano gli ultimi anni del regno di Tiberio, e Vespasiano, che si stava
facendo strada nel mondo imperiale, non esitò a fare quel che doveva per
andare avanti. Leccò i piedi al tirannico Caligola e si schierò al suo fianco
contro il Senato. Non si lamentò neppure quando l’imperatore ordinò ai
propri soldati di imbrattargli la toga di fango (forse un eufemismo per
indicare qualcosa di peggio) perché non era riuscito a tenere puliti i
vicoli, compito che rientrava nelle sue mansioni di edile8.
Nel 39 Vespasiano convinse il Senato a negare la sepoltura a un uomo
condannato per aver complottato contro Caligola. Ciò gli valse un invito
a cena da parte dell’imperatore, ma dovette pagare un prezzo, poiché con
quel gesto si guadagnò anche l’odio eterno di Agrippina. Nonostante
fosse la sorella di Caligola, Agrippina aveva infatti collaborato col
cospiratore, del quale era forse l’amante.

LA SCHIAVA CHE MI AMAVA


Vespasiano si sposò con una donna qualunque, forse quando ancora
pensava di fare carriera nel campo della finanza, poiché in genere i
senatori si sposavano con persone di rango superiore. Sua moglie Flavia
Domitilla era stata abbandonata alla nascita e poi presa in custodia e
allevata come schiava prima di essere liberata grazie a un’istanza presentata
per suo conto dal padre naturale. Flavia e Vespasiano ebbero due figli
maschi, Tito (nel 39) e Domiziano (nel 51), e una figlia, anch’essa di
nome Flavia Domitilla (nel 45 circa).
Nel frattempo, Vespasiano fece una scaltra mossa a vantaggio della sua
carriera, iniziando una relazione con una delle donne più potenti
all’interno della corte imperiale, Antonia Cenide. La storia era
probabilmente cominciata a metà degli anni Trenta, quando Vespasiano
era prossimo alla trentina; Cenide era più vecchia di lui di almeno due
anni. Non era certo una congiunta dell’imperatore: aveva infatti
cominciato come schiava. Il suo nome fa pensare a un’origine greca: forse
veniva dalla città di Istria sulla costa occidentale del mar Eusino (l’odierno
Mar Nero), che risulta avesse visitato. Del suo aspetto non ci è rimasta
alcuna descrizione, ma sappiamo con certezza che era intelligente e
ambiziosa. Donna di notevole talento, era pronta, audace e dotata di una
memoria fotografica. Forse vi è qualcosa di lei nella statua della cosiddetta
Agrippina Seduta conservata al Museo Archeologico Nazionale di
Napoli9. La testa, che a giudicare dalla capigliatura risale senz’altro al
periodo flavio, è quella di una donna seria e dignitosa, dall’aspetto forte.
Un tempo aveva attirato l’attenzione di una delle più potenti donne di
tutta Roma, Antonia Minore, figlia di Ottavia e di Marco Antonio,
moglie del fratello dell’imperatore Tiberio, madre del grande Germanico
e dell’imperatore Claudio, nonna dell’imperatore Caligola. Antonia
venne in seguito onorata, mentre era ancora in vita, col titolo di Augusta.
Cenide era la sua segretaria particolare. Se la tradizione successiva è
corretta, Antonia si affidò a lei per gestire una vicenda assai rischiosa, la
rivelazione all’imperatore Tiberio del complotto ordito contro di lui da
Seiano10. Antonia e Cenide realizzarono il loro intento, e Tiberio poté
così sventare il complotto. Cenide sarebbe stata ricompensata per il suo
operato: al momento della sua morte, il 1° maggio 37, o forse ancora
prima, Antonia decise di emanciparla alla condizione di liberta.
Sebbene alla fine Vespasiano avesse interrotto la sua relazione con lei,
Cenide probabilmente continuò ad aiutarlo nella sua carriera, grazie agli
amici che aveva nelle alte sfere, quasi tutti collegati con Antonia e con
Claudio. Uno di questi era Lucio Vitellio il Vecchio, padre
dell’imperatore Vitellio. Diplomatico di grande successo e generale,
Lucio Vitellio era uomo esperto e capace di muoversi negli ambienti di
potere. Riuscì a esercitare la sua influenza sotto tre imperatori, a morire
di morte naturale e a meritarsi un funerale di Stato. Fu lui, fra l’altro, a
destituire Ponzio Pilato, l’impopolare governatore della Giudea, l’uomo
che aveva condannato Gesù di Nazareth. Quanto a Vespasiano, Lucio
Vitellio nel 51 lo aiutò a diventare console.
Quando nel 41 il figlio di Antonia, Claudio, diventò imperatore, e il
liberto che gli faceva da segretario diventò uno degli uomini più influenti
dell’impero, a Vespasiano si aprirono nuove porte a corte. Il liberto,
infatti, favorì Vespasiano, e c’è da chiedersi se fosse stata Cenide a far
conoscere i due. In ogni caso, fece in modo che Vespasiano ottenesse il
comando di una legione, scelta che avvenne in un momento perfetto per
un giovane ambizioso, perché Claudio stava per imbarcarsi in una
spedizione volta alla conquista della Britannia. Alla fine, l’impresa
avrebbe richiesto decenni, durante i quali non mancarono momenti
difficili, ma Claudio riuscì ad ottenere qualche reale successo. E così pure
Vespasiano, che si distinse come uno dei quattro comandanti di legione
della campagna del 43.
Vespasiano si immerse nel mondo delle legioni. Dal praetorium (il
comando) al campo di battaglia, dalle mura del nemico alle sue città in
rovina, quel mondo era gerarchico, rigoroso, inclemente e rumoroso. Si
viveva in un’atmosfera percorsa da squilli di tromba e urla, dai colpi dei
picconi e dallo sbattere delle pale che scavavano le trincee, dallo scalpitio
degli zoccoli dei cavalli e dal calpestio ritmico degli uomini che
marciavano affiancati a file di sei, dai colpi delle lance che si abbattevano
sugli scudi, dal fragore delle spade, dal sibilo delle frecce, dal suono delle
pietre scagliate dalle catapulte, seguito dalle urla e dai lamenti di chi ne
veniva colpito, da grida di disapprovazione e applausi, discorsi eloquenti
e appelli, dal ronzio delle mosche e dallo stridio degli avvoltoi attorno ai
cadaveri dopo una battaglia.
Vespasiano conquistò gran parte della Britannia sud-occidentale nel
corso di quattro anni di operazioni, percorrendo un territorio
caratterizzato da ondulate colline e valli brumose, attraversando folte
vegetazioni e terreni melmosi. Combatté trenta battaglie, alcune delle
quali con operazioni di mare e di terra, conquistò venti forti collocati su
alture e sottomise due tribù. «Costituì per lui l’inizio della fortuna ormai
vicina nel tempo», scrive Tacito, aggiungendo: «fu additato alla forza del
suo destino Vespasiano»11.
Anche Roma dovette riconoscerlo. Solo ai membri della famiglia
dell’imperatore era consentito di celebrare un trionfo, ma Vespasiano
riuscì a farsi concedere qualcosa di ancor più prestigioso: gli «onori
trionfali», vale a dire il diritto di indossare la veste trionfale in pubblico, e
di avere una statua di bronzo che lo raffigurava nel Foro di Augusto e
un’altra in casa propria. Ottenne inoltre due cariche sacerdotali e, come
già ricordato, un consolato nel 51.
Nel frattempo, suo fratello Sabino riscosse ancor più successo. Dopo
aver prestato anche lui servizio come comandante in Britannia, si
assicurò un governatorato provinciale nei Balcani, quindi fu nominato
prefetto della città di Roma, incarico che avrebbe tenuto per undici anni,
e che fece di lui l’orgoglio della famiglia. Vespasiano dovette attendere
fino al 63 per un posto di governatore provinciale nel Nord Africa, e in
seguito tornò a casa pulito, ma al verde. Stando alle voci, si dette al ramo
dei trasporti, il che comportava l’uso dei muli per cui la sua città natale
era famosa – un’attività redditizia ma non abbastanza dignitosa per un
senatore.
Forse Vespasiano dovette scontare il fatto di aver sostenuto l’uomo
sbagliato. Durante il regno di Claudio era abbastanza influente da
ottenere che suo figlio Tito venisse allevato nel palazzo insieme a
Britannico, il figlio di Claudio, e istruito in materie comuni dagli stessi
insegnanti. Poi, però, Claudio prese come seconda moglie Agrippina, e
l’avversione di lei verso Vespasiano mise in pericolo la posizione del
ragazzo. Un giorno, poco dopo aver mangiato assieme a Tito, Britannico
morì. Corse voce che fosse stato avvelenato, e che anche Tito avesse
ingerito una certa quantità di veleno sentendosi male, ma la circostanza
non è verificabile. Certo è che Tito sopravvisse. E Vespasiano era un
politico troppo abile per essere tenuto fuori dal potere a lungo.

LA RIVOLTA DELLA GIUDEA


Gli ultimi anni del regno di Nerone furono sanguinosi per la nobiltà
romana. La scoperta di complotti portò all’esecuzione e al suicidio
forzato di famosi uomini politici, generali e intellettuali. Nello stesso
periodo, però, Vespasiano e la sua famiglia prosperarono. Agrippina era
stata uccisa su ordine del figlio, e ciò rimosse un ostacolo dalla strada di
Vespasiano. Il quale, in anni successivi, affermò di essersi opposto alla
tirannia di Nerone. Disse, ad esempio, che l’imperatore si era rifiutato di
ammetterlo alla sua presenza dopo che si era addormentato durante una
delle sue esibizioni. Vespasiano, però, era troppo ambizioso per dar vita
ad una vera opposizione. Ruppe anzi i legami con i membri del Senato
che si opponevano all’imperatore, e suo figlio Tito divorziò dalla moglie,
che era la nipote di un anziano senatore accusato di tradimento nei
confronti di Nerone e costretto a suicidarsi.
Un gesto di fedeltà che sarebbe stato ricompensato da Nerone. Quando
la provincia della Giudea si ribellò, nel 66, l’imperatore affidò a
Vespasiano il comando di tre legioni per reprimere la rivolta,
consentendogli anche di nominare il ventiseienne Tito a capo di una di
esse, nonostante il suo grado non elevato e la rarità di una simile
combinazione di cariche fra padre e figlio. Un generale ambizioso e
vincente avrebbe potuto marciare su Roma, e questa era certo una
prospettiva di cui preoccuparsi, ma Nerone considerava Vespasiano
«sicuro», poiché il mulattiere sabino non aveva il pedigree giusto per
salire al trono.
La Giudea ribolliva da decenni sotto l’oppressivo governo romano, con
le sue pesanti imposte e le esazioni doganali, una guarnigione militare a
Gerusalemme e il favoritismo nei confronti delle comunità non
giudaiche del luogo. Svariati oltraggi al tempio di Gerusalemme da parte
dei romani generarono l’impressione che quello di Roma fosse un «regno
dell’arroganza»12. Gli ebrei poveri mal sopportavano le classi superiori
ebraiche filoromane, e più di un potenziale Robin Hood era in attesa del
momento opportuno per passare all’azione.
L’occasione arrivò quando il governatore romano trasse un’ingente
somma di argento dal tempio, probabilmente per coprire imposte non
versate. Fu l’inizio della rivolta. Gli insorti smisero di offrire sacrifici per
il bene del popolo romano e dell’imperatore, schiacciarono la
guarnigione romana di Gerusalemme, sconfissero un esercito accorso in
aiuto delle autorità e condotto dal governatore della Siria e dichiararono
l’indipendenza della regione. La situazione diventò esplosiva, e nel paese
si moltiplicarono gli scontri fra ebrei e non ebrei. È in questo contesto
che Nerone inviò Vespasiano in quella provincia.
Forte della propria esperienza in Britannia, nel 67 il comandante
conquistò metodicamente le città fortificate sulle colline della Galilea, e
l’anno seguente cominciò a puntare verso Gerusalemme,
impossessandosi una per una delle piazzeforti circostanti. Cominciò così
l’aspra campagna militare sulla quale si è aperto questo capitolo: la marcia
di avvicinamento a Gerusalemme, finché il suicidio di Nerone
determinò lo stallo dell’offensiva romana.
Fra le decine di migliaia di prigionieri catturati da Vespasiano in Galilea
c’era il neogovernatore ebreo della provincia, Yosef ben Matityahu, che
era destinato a essere portato a Roma e giustiziato, ma riuscì a scamparla.
Profetizzò infatti a Vespasiano che sarebbe diventato imperatore, e
quando in effetti due anni dopo le legioni, una dopo l’altra,
proclamarono tale il loro comandante, Yosef venne liberato dalle catene.
Sebbene alcuni romani lo ritenessero una spia ebrea, Vespasiano e Tito lo
reputavano utile. Dopo la guerra, finì a Roma, visse nel palazzo sotto la
loro protezione, acquisì la cittadinanza romana e il nome di Giuseppe
Flavio, e scrisse una storia dettagliata della rivolta che è arrivata fino a noi.

69 D.C.: L’INVESTITURA DELL’IMPERATORE


ROMANO
Nerone si suicidò nel giugno del 68, e Galba, il suo successore, raggiunse
Roma nell’ottobre seguente. Il nuovo imperatore avrebbe scontentato
quasi tutti. All’epoca aveva circa settant’anni, ed era un aristocratico dalle
capacità politiche tanto scarse quanto celebrato era il suo lignaggio.
Offese il Senato, si dimostrò avaro con i soldati e col popolo, e si scelse
gli amici e i nemici sbagliati. «Capace, per comune consenso, di far
l’imperatore se non lo fosse stato»13, fu l’acido verdetto di Tacito.
Il 2 gennaio 69 le legioni del Basso Reno (l’odierna zona dei Paesi Bassi
meridionali e della Renania settentrionale tedesca) si ribellarono e
acclamarono imperatore il proprio comandante Vitellio (figlio
dell’influente politico Lucio Vitellio il Vecchio, che abbiamo incontrato
sopra), il quale a sua volta era stato nominato da Galba. Si arrivò così al 15
gennaio 69, un giorno denso di eventi a Roma. La guardia pretoriana
nominò imperatore Otone, Galba venne ucciso nel Foro e il Senato
confermò il nuovo titolo a Otone, tutto nell’arco della stessa giornata. Tre
mesi dopo, il 14 aprile, le truppe guidate dagli alleati di Vitellio
sconfissero nell’Italia settentrionale l’esercito di Otone. Questi si suicidò,
e a metà luglio Vitellio poté entrare a Roma. Nel frattempo, Vespasiano
si era preparato a scendere in campo.
Sebbene avesse giurato per Galba, Vespasiano non si fidava di lui, dopo
che aveva licenziato suo fratello Sabino dalla carica di prefetto di Roma.
Nel dicembre del 68 Vespasiano inviò suo figlio Tito nella capitale per
sistemare le cose, anche se la traversata invernale si presentava rischiosa.
Qualche settimana dopo, mentre stava facendo scalo a Corinto, Tito
ricevette la notizia della morte di Galba. Si riunì con i propri amici e
insieme decisero di fare ritorno in Giudea. Avrebbe raggiunto il padre a
febbraio. Fu allora che Vespasiano decise di puntare al trono.
Agli occhi dei romani, Vespasiano non aveva sufficiente autorità, né
reputazione o grandezza14. Non era neppure il membro più illustre della
sua famiglia – quello era un onore che spettava a suo fratello. Ma
Vespasiano dovette credere in sé stesso. Forse prese sul serio vari presagi e
sogni, o le profezie formulate da Giuseppe Flavio e da altri, che lo
vedevano destinato a governare. E non si mostrò certo troppo
sentimentale riguardo ai propri legami passati. Non accettò la nomina di
Vitellio a imperatore e attaccò così il figlio del suo precedente signore.
Ma Vitellio, diversamente da Vespasiano, non disponeva di tre agguerrite
legioni che inanellavano vittorie in Giudea. Vespasiano forse non era
l’uomo più nobile dell’impero, ma il suo esercito poteva fare di lui il
signore di Roma.
La propaganda flavia disse che furono i soldati di Vespasiano a proporre
l’idea di nominarlo imperatore e che in qualche modo lo costrinsero a
diventarlo15. È vero, invece, il contrario: Vespasiano e alcuni suoi potenti
alleati, fra i quali i suoi comandanti di legione, decisero l’obiettivo, e le
truppe li seguirono. Da buon militare, Vespasiano non dimenticò mai il
sostegno ricevuto dall’esercito, e lo ripagò generosamente, ma stava
attento anche alle notizie provenienti da Roma. Sabino, reinsediato come
prefetto da Otone e ancora in quella posizione sotto Vitellio,
rappresentava una fonte di informazioni vitale. Cenide sicuramente
continuava a stare all’erta a Roma, e senza dubbio girava le informazioni
a Vespasiano. Oltre a loro e a Tito, i più importanti sostenitori di
Vespasiano erano un omosessuale16, un funzionario condannato per reati
e una famiglia di giudei romanizzati. Fra di loro vi era la più affascinante
regina orientale dai tempi di Cleopatra.

MUCIANO
Il primo era Gaio Licinio Muciano, governatore della Siria. Come
Vespasiano, aveva fatto una prestigiosa carriera pubblica. Tacito dice che
Vespasiano era un soldato nato, ma avido, mentre Muciano era generoso,
uno splendido oratore e un politico intelligente, ma aveva una «cattiva
reputazione» a causa della sua «vita privata»17. Si tratta probabilmente di
un modo gentile per dire che Muciano era non solo omosessuale, cosa
che i romani tolleravano, ma un partner passivo, aspetto sul quale invece
il loro atteggiamento era diverso. Parlando in privato con un amico, una
volta lo stesso Vespasiano liquidò Muciano con un commento tagliente
riguardo a quella che Svetonio definisce la sua «impudicizia notoria»,
brontolando: «Io, però, sono un maschio»18.
Nonostante questi commenti denigratori, Muciano avrebbe potuto
senz’altro avanzare la propria candidatura a imperatore. Dopotutto era
governatore della Siria, e controllava quattro legioni, mentre Vespasiano
ne aveva solo tre. Scelse, però, di sostenere Vespasiano, il più esperto
generale dell’esercito romano, che si era guadagnato onori trionfali per il
successo riportato in Britannia e aveva la fama di essere un uomo vigile,
parsimonioso e dotato di buon senso. Muciano stesso lo affermò in un
discorso attribuitogli da Tacito19. A quell’epoca Vespasiano comandava
un esercito che stava attivamente combattendo e vincendo in Giudea in
una campagna che rafforzò ulteriormente la sua reputazione di uomo
virile agli occhi dei romani20. Ancor più importante fu il fatto che i suoi
uomini lo amavano per le vittorie riportate, per le buone paghe e le
rapide promozioni che elargiva. Muciano poteva accontentarsi di
esercitare un enorme potere dietro le quinte21. O forse non prese mai
realmente in considerazione la prospettiva di assumersi gli oneri e i
pericoli della guida dello Stato. Tacito riteneva che fosse «individuo a cui
poteva risultar più agevole procurare ad altri che non lui stesso occupare
l’impero»22.
Poi c’era Tito, che ricopriva ruoli chiave sia nella sfera pubblica, sia in
particolare nei confronti di Muciano. Come Vespasiano, Tito era un
buon comandante che si era guadagnato l’amore dei suoi soldati, ma
aveva un tocco di classe che al padre mancava, perché il ragazzo era
cresciuto all’interno della corte imperiale. Sebbene di statura bassa e
panciuto, era bello, forte, intelligente, molto dotato per le lingue e
perfino un discreto poeta e cantante. Aveva, poi, la rara capacità di
conquistarsi l’affetto praticamente di chiunque. Sebbene avesse una
passione per le donne, si contornava di una schiera di bei giovanetti e di
eunuchi, cosa che almeno a un certo punto a Roma suscitò perplessità.
Ma era chiamato, come dice Svetonio, «amore e delizia del genere
umano»23. In poche parole, insomma, era un ragazzo d’oro.
Schierando Tito al centro della scena e tenendo in attesa dietro le quinte
il figlio più giovane, Domiziano, Vespasiano metteva in campo i suoi
punti di forza cercando di minimizzare una debolezza, vale a dire i suoi
sessantuno anni di età. Un aspetto che avrebbe potuto destare
preoccupazione in un impero che si era stancato di regni brevi.
Vespasiano propose una sorta di offerta «tutto compreso», come se
dicesse a Roma: «Accettami come imperatore, e avrai la stabilità
assicurata da una dinastia». Nessun imperatore romano era riuscito prima
di allora a lasciare il trono a un proprio figlio biologico.
Tito fece da mediatore fra Vespasiano e Muciano, «come fatto apposta
per natura ed accorgimento a piegare a sé un temperamento pur del tipo
di Muciano», scrive Tacito24. Non occorreva darsi la pena di diventare
imperatore, disse Muciano, visto che da imperatore lui stesso avrebbe
proposto di adottare Tito come proprio successore – e Tito, in tempi
non lunghi, sarebbe successo a Vespasiano25.

UNA FAMIGLIA DI EBREI ROMANIZZATI


Quanto alla famiglia di ebrei romanizzati26, può sembrare sorprendente
che Vespasiano e Tito, fra tutte le persone disponibili, si affidassero a
importanti sostenitori giudei. Dopotutto, erano coloro che avevano
conquistato la rivoltosa Giudea, saccheggiato Gerusalemme, distrutto il
tempio e ridotto in schiavitù, deportato e ucciso un enorme numero di
ebrei. Le fonti rabbiniche ricordano Tito come «un uomo malvagio,
figlio di un uomo malvagio»27. Tuttavia, molti ebrei si erano opposti alla
ribellione. Odiavano Roma, ma ritenevano che la rivolta fosse destinata a
fallire, e non volevano parteciparvi affatto. Altri ebrei, soprattutto quelli
delle classi superiori, temevano più i poveri della loro terra che le legioni,
e quindi erano filoromani. Tito ereditò amici giudei, alcuni dei quali
conoscevano Vespasiano fin dai tempi di Claudio e di Antonia.
Uno di loro era Tiberio Giulio Alessandro, un cittadino romano
esponente di una importante famiglia ebrea di Alessandria. Nel corso
della sua prestigiosa carriera militare e politica, era stato per un certo
periodo governatore della Giudea. Come governatore dell’Egitto, dal 66
controllava quella che era la più ricca provincia di Roma e il suo granaio,
tanto i carichi di cereali provenienti dalla fertile valle del Nilo
alimentavano la capitale dell’impero. Tiberio Alessandro aveva a
disposizione due legioni. Come Muciano, aveva il potenziale per essere
decisivo nelle nomine politiche, in misura forse ancor più accentuata
grazie alla sua influente ex cognata Giulia Berenice e al fratello di lei,
Marco Giulio Agrippa, come lui ebrei di primo piano e cittadini
romani.
I due discendevano dal famigerato re Erode, loro nonno. Questi aveva
governato la Giudea, ma poi Roma si era annessa quei territori e ne aveva
fatto una propria provincia. Giulio Agrippa dovette accontentarsi di un
regno più piccolo, situato nelle zone dell’odierno Israele settentrionale e
del Libano, e con esso della giurisdizione sul tempio di Gerusalemme.
Diventò amico di Tito, e nel 68-69 lo affiancò nella missione per
raggiungere Galba. Sarebbe però stata sua sorella a rivelarsi ancor più
importante.
Berenice era stata per breve tempo sposata col fratello di Tiberio
Alessandro, ma lo sposo morì poco dopo il matrimonio. Sebbene lei
fosse partita – sposò due re orientali, che a loro volta morirono entrambi
–, le due famiglie mantennero i contatti. Alla fine Berenice affiancò
nell’opera di governo suo fratello, il re Giulio Agrippa, che era scapolo.
Lui le regalò un magnifico diamante, gesto che attirò l’attenzione e
alimentò le voci maliziose che parlavano di rapporti incestuosi fra i due.
Berenice era ambiziosa e politicamente avveduta. Era anche patriottica,
ma pragmatica. Nel 66 assisté alle atrocità commesse dai romani a
Gerusalemme e cercò di porvi fine, con grande rischio personale. Ma lei
e Giulio Agrippa erano assolutamente contrari alla rivolta contro un
nemico invincibile come Roma. Cercarono di parlarne al popolo dei
giudei – Giulio Agrippa con un discorso, entrambi con le lacrime agli
occhi – ma invano. La folla incendiò i loro palazzi e si prese una piccola
parte del loro tesoro. Agrippa e Berenice si schierarono con Roma, e in
particolare con Vespasiano, comandante delle legioni in Giudea, e con
suo figlio.
Berenice e Tito probabilmente si incontrarono nel 67, mentre assieme a
Vespasiano lui stava radunando le forze. Agrippa e altri tre re vassalli della
regione fornirono truppe per andare in aiuto dei romani. La bellezza e il
fascino di Berenice conquistarono il cuore di Tito, mentre la sua
ricchezza, utilizzata strategicamente, le valse la gratitudine di Vespasiano.
Berenice aveva circa undici anni più di Tito, il quale però non si fece
dissuadere dalla differenza di età. Infatti, sebbene lei avesse circa
trentanove anni quando si incontrarono, era all’apice della sua bellezza,
tanto da infiammare il desiderio del giovane28.

L’EGITTO
All’inizio del 69 divenne chiaro che la Giudea non era l’unico posto che
Vespasiano e il suo talentuoso figlio potessero governare: all’orizzonte si
profilava la stessa Roma. Così, Agrippa e Berenice appoggiarono il
tentativo di Vespasiano di conquistare il trono, e lo stesso fece l’ex
cognato di Berenice, Tiberio Alessandro, che il 1° luglio del 69 ottenne
che le legioni dell’Egitto giurassero la loro fedeltà a Vespasiano.
Era il primo aperto segno di ribellione contro Vitellio, ma anche una
rivoluzione all’interno del sistema. Il figlio di un esattore delle imposte
dei colli sabini veniva acclamato come sovrano del mondo; il successore
di Augusto veniva proclamato nella città di Antonio e Cleopatra; le grida
dei soldati avvolti nei loro mantelli rossi ad Alessandria prendevano il
posto delle ordinate deliberazioni dei senatori nelle loro toghe bordate di
porpora a Roma. Pochi giorni dopo, le legioni della Giudea e della Siria
seguirono i loro fratelli dell’Egitto. Ci vollero altri cinque mesi prima che
a dicembre il Senato riconoscesse Vespasiano, e negli anni successivi i
fanatici furono infastiditi dal fatto che egli celebrasse l’anniversario del
proprio regno il 1° luglio.
Una volta rivendicato il trono imperiale, ora Vespasiano doveva sottrarlo
a Vitellio. Disse che sperava di vincere senza spargimenti di sangue,
mettendo sotto pressione Roma con l’interruzione delle forniture di
cereali dall’Egitto. Però spedì un esercito in Italia. Nonostante la propria
perizia in campo militare, Vespasiano non si unì ad esso, e rimase in
Egitto. Nel frattempo, dette a Tito l’incarico di concludere la guerra
contro i ribelli in Giudea.
L’Egitto era strategicamente importante, e si trovava a distanza di
sicurezza dalla lotta in corso in Italia. Lì Vespasiano aspettava il momento
opportuno, dimostrando nel frattempo un tocco regale fino a quel
momento sconosciuto. Si disse che ad Alessandria, mentre sedeva in
tribunale, guarì due popolani – un cieco e uno zoppo –, segno del suo
nuovo dono divino29. Assieme agli auspici e ai presagi provenienti
dall’Italia, dalla Grecia e dalla Giudea, l’opera di propaganda faceva il suo
corso.
La decisione di rimanere in Egitto era anche coerente con il Vespasiano
migliore. Nonostante la sua apparenza di rozza semplicità, era un maestro
della manipolazione. Ce lo si immagina come uno di quei capi a cui
piace essere sottovalutati, poiché sa che ciò lo fa apparire meno
pericoloso. In realtà, era un uomo strategico come Ulisse, l’astuto eroe
dell’Odissea.
Nella sua ascesa al potere, Vespasiano non era secondo a nessuno,
quando si trattava di lusingare il capo. E nonostante la sua aria di uomo
senza pretese, era pervaso dall’ambizione. Forse non aveva sempre avuto
in mente di fare l’imperatore, ma quando se ne presentò l’occasione, fu
pronto a coglierla. Come Augusto, Vespasiano aveva il talento di riuscire
a far lavorare gli altri per sé. Cenide, Muciano, Sabino, Tiberio
Alessandro, Giulio Agrippa, Berenice agirono tutti in tal senso. E
neppure Tito faceva eccezione. Si potrebbe pensare che Vespasiano
ambisse a conquistare il trono solo per favorire la carriera del figlio, ma di
fatto fu lui stesso a diventare imperatore. E Tito lavorò per quel risultato.

ANTONIO PRIMO, CRIMINALE E CONQUISTATORE


Mentre era in Egitto, Vespasiano mandò Muciano ad Occidente con le
legioni siriane. Era una forza possente da scagliare contro Vitellio e le sue
truppe, ma non fu Muciano a sferrare il colpo. Fu preceduto da Marco
Antonio Primo.
Uomo sulla cinquantina, Primo proveniva dalla città gallica di Tolosa.
Aveva fatto carriera nella politica romana, ma nel 61 fu condannato per
aver falsificato un testamento e quindi espulso dal Senato. Poi, nel 68, fu
ricompensato per il sostegno che aveva dato a Galba, venendo riabilitato
nelle funzioni di senatore e ottenendo il comando di una legione in
Pannonia. Coraggioso e deciso, nel 69 l’ex condannato passò dalla parte
di Vespasiano. Tacito lo descrisse in modo memorabile: «col suo valore
personale, con la sua prontezza di parola, maestro nel seminare zizzania
tra gli altri, influente nel servirsi delle discordie e delle sedizioni,
arraffatore e prodigo, pessimo soggetto in pace, tutt’altro che trascurabile
in guerra»30.
Primo, facendo quasi tutto da solo, convinse le legioni danubiane a
sostenere Vespasiano. Le truppe marciarono audacemente fino in Italia,
dove presero la città di Aquileia, in posizione cruciale, quindi sconfissero
le legioni di Vitellio in una battaglia che si combatté alle porte di
Cremona, per poi mettere a sacco la città: per quattro giorni, soldati
romani infuriarono uccidendo cittadini romani, in una vicenda che fu un
duro colpo e una disgrazia per l’impero.
Nel frattempo, a Roma, Sabino negoziò un accordo che doveva
condurre all’abdicazione di Vitellio. La pace era a portata di mano, ma i
soldati di Vitellio rifiutarono la proposta. Costrinsero Sabino, suo figlio e
i suoi nipoti a cercare rifugio sul Campidoglio, sopra il Foro. Con loro
c’era Domiziano, il figlio più giovane di Vespasiano. Le forze di Vitellio
presero il colle. I familiari di Sabino, e con loro Domiziano, riuscirono a
mettersi in salvo, ma Sabino venne catturato. Dopo averlo trascinato da
Vitellio, i soldati lo trucidarono. Durante i combattimenti, il tempio di
Giove Capitolino fu incendiato. Era un cattivo presagio, poiché l’edificio
era il centro religioso dello Stato romano, e Giove era strettamente
associato all’imperatore.
Il giorno seguente, il 20 dicembre, Primo e le sue legioni entrarono a
Roma, e dopo pesanti combattimenti conquistarono la città. Vitellio
venne trascinato per le strade, torturato e ucciso.

VESPASIANO A ROMA
Domiziano assunse il titolo di Cesare e si insediò nel palazzo, ma chi
controllava realmente la situazione a Roma era Primo. Poi arrivò in città
Muciano, che assunse il potere. Non osò attaccare direttamente il
popolare Primo, ma agì subdolamente. Ritirò le due legioni più vicine a
Primo e ai suoi alleati, lo convinse ad accettare un governatorato in
Hispania e scrisse a Vespasiano per metterglielo contro. Primo, a tempo
debito, si ritirò nella sua città natale, a Tolosa.
Ci volle quasi un anno, fino all’ottobre del 70, prima che Vespasiano
giungesse a Roma. Fino a quel momento fu quindi Muciano a reggere il
governo, comportandosi, come lui stesso disse, più da «alleato» che da
«competitore»31. Continuò a ricevere riconoscimenti e cariche – gli
onori trionfali per il ruolo che aveva svolto nella guerra civile e due
consolati (nel 70 e nel 72) –, ma il potere passò nelle mani di Vespasiano.
Il Senato assegnò a quest’ultimo gli stessi supremi incarichi e lo stesso
titolo dei suoi predecessori: imperatore Cesare Augusto. La decisione dei
senatori sancì quello che i brevi regni di Galba, Otone e Vitellio avevano
fatto pensare ma non avevano avuto la possibilità di dimostrare: vale a
dire che il titolo imperiale poteva passare di mano in mano con grande
facilità. I romani, pragmatici come sempre, risolsero il problema della
successione in modo netto, semplicemente conferendo il titolo imperiale
all’uomo più forte in quel momento, indipendentemente dalla
discendenza di sangue o dalle parentele adottive col fondatore
dell’impero.
Inoltre, garantirono l’appellativo di Cesare anche a Tito e a Domiziano.
Per la prima volta il termine Caesar veniva utilizzato per designare un
erede32. Quanto a Muciano, da allora scompare pian piano dalle fonti.
Sembra che si fosse ritirato dalla vita pubblica per avere il tempo di
pubblicare le lettere, i discorsi e le memorie degli anni che aveva passato
in Oriente. Sarebbe morto attorno al 7533.
Per diciotto mesi, dalla morte di Nerone alla vittoria di Vespasiano, il
mondo romano aveva attraversato un periodo incerto, denso di battaglie,
saccheggi, devastazioni e rivolte. Era un prezzo pesante da pagare, ma pur
sempre molto più lieve di quanto Roma aveva sofferto nei quindici anni
di guerre e rivoluzioni all’epoca dell’ascesa al potere di Augusto. Se
Vespasiano poté restaurare la pace, si potrebbe perfino dire che il sistema,
pur con tutte le sue pecche, funzionò.
A paragone dei sovrani di altri imperi, la maggior parte degli imperatori
romani rimase in carica solo per brevi periodi34. Sebbene ciò da un lato
generasse instabilità, dall’altro consentì anche ai talenti esterni alla famiglia
regnante di salire al trono. Per riuscirvi, un nuovo imperatore doveva
soddisfare le aspettative di diversi soggetti e istituzioni di importanza
cruciale.
Vespasiano voleva consolidare il potere e trasmetterlo ai suoi figli,
rimettere in sesto l’esercito e il tesoro dopo anni di lussi e di guerre e
godersi la vita con la donna che amava. Prima, tuttavia, dovette vendersi
al Senato e al popolo di Roma.
Per fare ciò, non avrebbe potuto avvantaggiarsi del suo aspetto. A
quell’epoca stava diventando calvo e soffriva di gotta. Il suo volto
mostrava una determinazione che poteva essere scambiata per una
smorfia di tensione, come se, affermò ironicamente qualcuno, soffrisse
di costipazione35.
E neppure avrebbe potuto vendersi per la propria eloquenza. Non era
certo Cicerone, sebbene fosse dotato di un malizioso senso dello humour
e avesse i tempi di un cabarettista. Quando, ad esempio, l’ex console
Lucio Mestrio Floro corresse la sua pronuncia plostra col più elegante
plaustra, il giorno dopo lui gli si rivolse chiamandolo Flaurus36. In greco,
phlauros significa «sgradevole», un gioco di parole che certo non sfuggì a
Floro, il quale era amico di Plutarco, il grande scrittore greco.
Vespasiano non salì al trono neppure per diritto divino. Se nelle
province, dall’Iberia all’Armenia, promosse assiduamente il culto di sé
stesso come un dio, a Roma e in Italia era semplicemente un uomo.
Nella capitale, quindi, non poté come altrove utilizzare la religione per
rendere attraente il proprio governo.
No, Vespasiano avrebbe dovuto vendersi come aveva fatto Augusto,
con lo sfarzo e le costruzioni, elaborando al contempo una nuova
immagine di Roma nel segno del nome della sua famiglia. Come
Augusto, negò la realtà della guerra civile, presentando sé stesso e i suoi
familiari come i conquistatori dei nemici stranieri del popolo romano. E
lo fece con una capacità comunicativa all’altezza dei migliori esempi che
Roma aveva conosciuto.
Vespasiano non abbandonò la politica di Nerone centrata sugli
spettacoli e lo sfarzo. Semmai, puntò ancor più su tale linea, ma con una
grande differenza. Vespasiano si comportava con dignità e semplicità, e
trattava il Senato con un certo rispetto. Era un imperatore che non
suonava la lira né guidava carri in pubblico, e tantomeno prestava il
fianco ad accuse di piromania o di matricidio. Vespasiano tenne un
atteggiamento più dignitoso di Nerone, ma non per questo ebbe da
offrire alla crisi dello spirito romano soluzioni migliori di quelle del suo
predecessore.
Tuttavia, introdusse un’importante innovazione. Il grande cittadino
comune portò al potere una nuova classe: un gruppo di uomini ricchi e
ambiziosi come lui che provenivano dall’Italia o dalle province. Estese in
misura notevole l’élite imperiale, e ciò avrebbe avuto conseguenze per
molti anni a venire.

LA VENDITA DELL’IMPERATORE
Nella primavera del 70 Tito strinse d’assedio Gerusalemme. I giudei
avevano un capo entusiasmante e pragmatico in Simone Bar Giora, un
ispiratore dai modi efficaci. Ex partigiano che aveva messo in piedi un
esercito, promise libertà agli schiavi e la resa dei conti con i ricchi. Coniò
monete raffiguranti la messianica iscrizione «Redenzione di Sion»37.
Tuttavia, nonostante la fiera resistenza che oppose, alla fine dell’estate
del 70 Gerusalemme fu costretta ad arrendersi a Tito. Bar Giora e un
piccolo gruppo di suoi seguaci cercarono di fuggire attraverso delle
gallerie sotterranee, ma nonostante l’aiuto di manovali armati di scalpelli
non ci riuscirono. Alla fine, Bar Giora riemerse in superficie nel luogo
su cui una volta sorgeva il tempio di Gerusalemme. Dovette arrendersi a
un alto ufficiale romano. Bar Giora indossava una tunica bianca e il
mantello porpora dei re – o del Messia.
Nelle mani dei ribelli rimaneva a quel punto solo la fortezza di Masada
– in un luogo scosceso, arido e remoto –, che avrebbe alla fine capitolato
nel 73 o nel 74, dopo un massiccio assedio romano. La Giudea era stata
sconfitta. Nelle monete poi coniate sotto Vespasiano, venne raffigurata
come una donna in lutto, seduta sotto una palma; accanto a lei, in piedi,
un uomo barbuto, con le mani legate dietro la schiena38. A Roma, il
nuovo imperatore fece chiudere le porte del tempio di Giano in segno di
pace, come avevano fatto Augusto dopo Azio e Nerone dopo l’accordo
con la Partia sull’Armenia.
Nel giugno del 71, dopo il ritorno di Tito a Roma, Vespasiano celebrò
assieme a lui un trionfo congiunto per la conquista della Giudea. Come
altri sovrani che li avevano preceduti, sapevano come allestire uno
spettacolo: una splendida visuale in grado di attirare una folla straripante.
Padre e figlio erano vestiti da generali conquistatori, come voleva la
tradizione, con indosso toghe rosso porpora e la testa coronata d’alloro.
Vespasiano cominciò la giornata salutando i suoi soldati e dando prova
della propria abilità nell’entusiasmare la folla. Così descrive l’episodio
Giuseppe Flavio:
Dinanzi al portico [di Ottavia] era stata innalzata una tribuna su cui erano stati collocati per loro
dei seggi d’avorio e quando essi vi si furono seduti, immediatamente i soldati cominciarono a
inneggiare rendendo testimonianza a una voce al loro valore; gli imperatori non erano in armi, ma
portavano vesti di seta col capo coronato d’alloro. Vespasiano, dopo aver ricevuto il loro omaggio,
fece segno a un certo punto, sebbene quelli volessero continuare, di tacere; si stabilì un generale
profondo silenzio, ed egli, levatosi in piedi e ricopertasi col mantello quasi tutta la testa, pronunciò
le preghiere di rito, mentre anche Tito pregava. Dopo le preghiere Vespasiano rivolse un breve
indirizzo a tutti; quindi congedò i soldati perché partecipassero al tradizionale banchetto offerto
loro dagli imperatori39.

Nella sfilata della vittoria comparivano carri che illustravano le città


conquistate, e con essi, ogni volta che era possibile, chi le aveva
capeggiate, i capi nemici in carne ed ossa. Soldati e senatori, animali
sacrificali e centinaia di alti e vigorosi prigionieri, marciavano tutti
insieme in processione. I prigionieri più prestigiosi, frustati nel corso del
tragitto, erano Simone Bar Giora e un altro capo che aveva svolto un
ruolo cruciale nella rivolta. Fra le spoglie esibite, c’erano una grande
tavola e una menorah provenienti dal tempio, entrambi d’oro. Vespasiano
e Tito avanzavano su dei carri – l’imperatore per primo –, con
Domiziano su uno splendido cavallo. Dopo che Bar Giora venne
giustiziato (l’altro capo scontò il carcere a vita), furono eseguiti sacrifici
sul Campidoglio e poi celebrati banchetti in tutta la città.
Vespasiano si pose come primo impegno quello di ricostruire il tempio
di Giove Capitolino, che era stato distrutto nella battaglia del dicembre
69. Voleva mostrare di avere gli dèi dalla sua parte. Quando, quindi,
arrivò il momento di posare la prima pietra del nuovo tempio, fu il
primo ad aiutare a sgombrare il terreno dai detriti: si vide così
l’imperatore trasportar via sulle proprie spalle un carico di detriti da quel
luogo40.
Era un gesto importante, che dava il segno del rinnovamento in atto a
Roma, ma quel che accendeva l’animo dei Flavi, più di Giove, era
sempre la Giudea. Essi avrebbero poi commemorato quella vittoria
erigendo ben due archi trionfali, uno dei quali, dedicato a Tito, è ancora
oggi visibile, con i suoi bassorilievi. Una parte importante del
programma scultoreo era rappresentato dalla menorah, il candelabro a sette
braccia proveniente dal tempio. Quella visibile oggi sull’arco di Tito è
incolore, ma recenti studi scientifici hanno dimostrato che in origine era
dipinta di un giallo brillante, simulando l’oro con cui era fatta quella
vera41. L’altro arco fu distrutto nel Medioevo, ma l’iscrizione, di cui ci è
stato tramandato il testo, elogiava Tito per la conquista del popolo
ebraico e la distruzione di Gerusalemme, in entrambi i casi agli ordini
del padre. Gli archeologi hanno di recente scoperto alcune parti di questo
secondo arco ai margini del Circo Massimo42.
Questo, però, era soltanto l’inizio del progetto dei Flavi di lasciare
l’impronta della loro vittoria sui giudei nello spazio urbano della capitale.
Un altro elemento fondamentale era il tempio della Pace. Vespasiano non
scelse quel nome alla leggera. Come Augusto, che aveva costruito un
altare della pace, sapeva per esperienza personale che solo per grazia
divina Roma aveva potuto conquistare una difficile pace. Come i fori di
Cesare e di Augusto, il complesso di Vespasiano era una piazza pubblica
situata in posizione centrale, cinta da colonnati e con un tempio su un
lato. Era decorata splendidamente, con una combinazione di nuove
costruzioni e di parti di manufatti e opere provenienti dalla Domus
Aurea di Nerone. Ospitava anche i recipienti d’oro del tempio, che
probabilmente furono poi trafugati durante il sacco di Roma del 410 dal
re dei visigoti Alarico. Sebbene scavi recenti abbiano riportato alla luce
un’ampia parte del complesso architettonico, oggi è difficile apprezzarne
la maestosità, perché una sua vasta sezione giace sotto Via dei Fori
imperiali, costruita da Mussolini negli anni Trenta nel cuore della Roma
antica.
La parte più visibile del programma di Vespasiano è, però, l’edificio
della Roma antica oggi più famoso al mondo: il Colosseo. La forza lavoro
che partecipò alla sua costruzione comprendeva lavoratori sia generici sia
qualificati, liberi e schiavi, fra cui probabilmente anche i prigionieri della
guerra giudaica. Su un’iscrizione si legge che l’opera fu finanziata con «i
proventi del bottino del generale», probabilmente un riferimento alla
guerra in Giudea43. Sembra dunque che Vespasiano, come prima di lui
Augusto, finanziasse il suo grande progetto edilizio con i proventi delle
sue imprese militari, cosa che rafforzò la sua reputazione pubblica.
Oggi tendiamo a pensare al Colosseo come a un edificio tipicamente
romano, ma all’epoca si trattò di un’innovazione. Sebbene molte città
italiane vantassero anfiteatri in pietra, Roma aveva preferito costruire
tribune temporanee in legno per assistere ai giochi gladiatori, un residuo
della paura delle folle dell’era repubblicana. Una volta in città era esistito
un piccolo anfiteatro costruito parzialmente in pietra, ma era andato
distrutto nel Grande Incendio del 64. Vespasiano, compiendo una scelta
assai ardita, decise di sostituirlo con una costruzione che avrebbe
contenuto oltre cinquantamila posti a sedere, uno degli anfiteatri più
grandi che siano mai stati costruiti. I lavori cominciarono durante il suo
regno, ma l’edificio fu portato a termine e inaugurato solo un anno dopo
la sua morte.
Anticamente, il Colosseo veniva chiamato Anfiteatro Flavio. Il nome
attuale risale al Medioevo, e si riferisce alla gigantesca statua di Nerone (il
Colosso, la cui altezza stimata è circa 35 metri44) che si ergeva in quel
luogo. Il termine compare per la prima volta in un detto dell’VIII secolo:
«Finché il Colosseo esisterà, esisterà anche Roma; quando cadrà il
Colosseo, cadrà anche Roma; quando cadrà Roma, cadrà anche il
mondo»45.
Colosseo o Anfiteatro Flavio: cosa può dirci un nome? In questo caso,
molto, perché «Anfiteatro Flavio» rese l’edificio un simbolo, tanto
personale quanto lo erano stati la città di Alessandria (che prese il nome
da Alessandro Magno), il Foro di Giulio Cesare, il Mausoleo di Augusto
e, in epoca moderna, le Cascate Vittoria, la Torre Eiffel, la Diga di
Hoover. Ed era un edificio che suscitava profonde risonanze nella
coscienza romana, perché il nuovo anfiteatro era un’arena non solo per i
giochi, ma anche per la politica. Come mezzo di comunicazione, era
rivoluzionario come lo sono stati di recente Facebook o Twitter. Da
quando fu consacrato, nell’80, chiunque fosse al potere vi si recava per
assistere ai giochi, per vedere e per essere visto. Le persone vi si sedevano
secondo un ordine corrispondente alle gerarchie sociali, con
l’imperatore, i senatori e i cavalieri romani nelle prime file e la gente
comune dietro. La folla alternava le acclamazioni rivolte all’imperatore e
gli urli per sostenere i suoi favoriti. A modo suo, l’Anfiteatro Flavio
rivaleggiava col Foro o col Senato – ed era designato col nome della
nuova prima famiglia della città.
Paradossalmente, a Vespasiano non piacevano gli spettacoli gladiatori,
forse perché di guerre ne aveva già viste abbastanza46. Sapeva, però, che il
popolo romano amava i suoi giochi. Vespasiano collocò il proprio
anfiteatro su alcuni terreni requisiti da Nerone dopo il Grande Incendio
per ospitarvi la Domus Aurea. Il nuovo imperatore fece demolire la
maggior parte di quella costruzione. Il Colosseo sorse sul luogo in cui un
tempo esisteva il lago artificiale della Domus Aurea.
Sebbene Vespasiano coltivasse un’immagine di sé di basso profilo
culturale, fu il primo imperatore a istituire cattedre di retorica latina e
greca. Intuiva con sicurezza ogni possibilità di prendere un’iniziativa di
prestigio, e comprendeva l’importanza di avere una classe dirigente
istruita. Il primo titolare della cattedra di latino fu Marco Fabio
Quintiliano, il più importante studioso di retorica del mondo romano.
Fra i suoi molti detti vi è quello secondo il quale non «sarà oratore chi
non sia onesto», e l’altro che recita: «a rendere eloquenti sono, infatti,
l’intelligenza e la fantasia»47. Consigliava agli aspiranti oratori di studiare
la storia per conoscere i fatti e i precedenti, non come un modello a cui
rifarsi per capire come convincere un giudice e una giuria, in quanto lo
scopo della storia consiste nel raccontare, e non nel fornire prove48.
Poiché nella storia Quintiliano ha influenzato figure quali Sant’Agostino,
Francesco Petrarca, Martin Lutero e forse anche Johann Sebastian Bach e
il filosofo liberale John Stuart Mill, il mondo deve molto al patronato di
Vespasiano.

TALE PADRE, TALE FIGLIO


Fin dall’inizio, Vespasiano chiarì che i suoi figli, e soprattutto Tito, che
era il più grande, lo avrebbero affiancato nell’opera di governo. Come
Domiziano, Tito ottenne il titolo di Cesare, ma era solo l’inizio. Fra i
suoi molti altri onori e incarichi, durante il regno del padre, resse sette
degli otto consolati. Vespasiano lo nominò anche prefetto del pretorio, il
che ne fece una figura analoga a quello che oggi è il capo dell’FBI, ma con
molta più libertà di movimento. Tito si vantava di essere un esperto
contraffattore: un’abilità singolare ma senza dubbio utile per un
responsabile della sicurezza. Era di fatto un co-imperatore, e in
particolare agiva per assicurare l’applicazione delle decisioni del padre.
Tito si assunse l’incarico di reprimere i presunti cospiratori. Quando
due importanti senatori, già sostenitori di Vespasiano, furono sospettati
di tramare un colpo di Stato, Tito ne fece processare e condannare uno
dal Senato: il condannato si tagliò la gola con un rasoio. Ordinò quindi
che l’altro fosse ucciso nel palazzo, non appena ebbe finito di cenare con
Vespasiano.
C’era poi il problema di Elvidio Prisco. Fiero difensore del Senato, a
quanto pare non condivideva il fatto che Tito fosse l’erede designato
dell’imperatore. Secondo una versione, durante una seduta del Senato
fece venire le lacrime agli occhi a Vespasiano, il quale quando uscì
esclamò: «Il mio successore sarà mio figlio oppure nessuno»49. Elvidio era
pericoloso perché apparteneva a una cerchia di filosofi stoici di nobile
animo che si contrapponevano a quella che consideravano una tirannia
imperiale. Nerone lo aveva già mandato in esilio, e aveva costretto suo
cognato a tagliarsi le vene dei polsi. La moglie di Elvidio, Fannia, lo
sostenne e lo seguì in un secondo esilio che gli venne imposto da
Vespasiano. Alla fine l’imperatore lo fece giustiziare. Fannia gli
sopravvisse, ma non perdonò né dimenticò quel che era successo. Anni
dopo, finanziò una biografia di Elvidio che conteneva critiche a
Vespasiano. L’autore dell’opera, un senatore, venne giustiziato, e Fannia
fu spedita in esilio.
Scene da titoli di prima pagina sui giornali, ma in generale Vespasiano e
Tito intrattennero buoni rapporti col Senato. L’imperatore mostrò
rispetto verso l’istituzione presenziando personalmente alle sedute,
oppure, quando la salute non glielo consentiva, inviandovi a
rappresentarlo uno dei suoi figli. Cosa ancor più importante, Vespasiano
elevò al rango senatoriale i propri comandanti di legione e altri suoi
importanti sostenitori in Oriente. Ciò rese l’assemblea più favorevole nei
suoi confronti, e apportò nuovi talenti all’aristocrazia romana, che si era
infiacchita a causa del lusso e dell’oppressione. Il suo risultato di maggior
portata, tuttavia, fu la creazione di una nuova élite, dotata di capacità di
resistenza. I cittadini romani provenienti dalla Hispania e dalla Gallia
meridionale poterono ora diventare senatori, consoli, governatori
provinciali, sacerdoti e patrizi; i loro figli e nipoti sarebbero arrivati
ancora più in alto.
Prendiamo l’esempio di uno dei luogotenenti di Vespasiano in Oriente.
Marco Ulpio Traiano era originario della Hispania, dove i suoi antenati
erano emigrati dall’Italia secoli prima. Uomo ambizioso, entrò in Senato
sotto Claudio e poi prestò servizio come uno dei comandanti delle
legioni di Vespasiano in Giudea. Una volta diventato imperatore,
Vespasiano continuò a promuovere Marco Ulpio Traiano, affidandogli,
fra le altre cose, un consolato, importanti governatorati provinciali e i
cosiddetti ornamenti trionfali – la più elevata onorificenza militare
acquisibile al di fuori della famiglia imperiale. Trent’anni dopo l’inizio
del regno di Vespasiano, il figlio di Marco Ulpio Traiano ascese al trono
imperiale, assumendo a sua volta il nome di Traiano. Anche due dei suoi
successori, Antonino Pio e Marco Aurelio, appartenevano a famiglie che
erano state promosse da Vespasiano. L’imperatore riuscì nientemeno che
ad aprire i ranghi della classe dirigente romana ai capi delle province.

PECUNIA NON OLET


Nerone aveva prosciugato il Tesoro, e la guerra civile si portò via quel
che era rimasto, seminando al contempo distruzione e rovina. Rimettere
in sesto le finanze statali fu il compito più urgente a cui Vespasiano si
dedicò, oltre a quello di fondare una nuova dinastia. Dovette imporre
tasse e ridurre la spesa, e agì abilmente in entrambi i casi. Gestire le
finanze era un’attività che gli riusciva naturale, data la carriera compiuta
da suo padre nel campo della riscossione delle imposte e del prestito di
denaro – aspetto che contrasta nettamente con gli esponenti
dell’aristocrazia che lo avevano preceduto al vertice dell’impero. La
conseguenza fu che si guadagnò la fama di essere avaro. Le storielle che
circolavano all’epoca ne facevano una sorta di Jack Benny, l’attore che
interpretava un proverbiale taccagno in un programma radiofonico
dell’America di metà Novecento. La verità, però, è che Vespasiano era
semplicemente un saggio amministratore del Tesoro nazionale. Mostrò
«prudenza più che avarizia», per riprendere un antico giudizio50.
Possiamo soltanto ricostruire gli aspetti generali delle varie politiche
finanziarie che attuò. Secondo i particolari che ci sono noti, rinnovò le
tasse portuali, la tassa del 5% sul valore degli schiavi liberati, quella
dell’1% sulle vendite all’asta, la tassa di successione del 5% sulle eredità
destinate a persone diverse dai parenti stretti, quella del 4% sulle vendite
di schiavi per finanziare le guardie notturne in servizio a Roma e le
imposte doganali sui traffici fra la Gallia e l’Iberia. Convertì la tassa
annuale che gli ebrei erano soliti destinare al tempio di Gerusalemme in
un fondo per la ricostruzione e la manutenzione del tempio di Giove
Capitolino a Roma (alla fine utilizzato per altri scopi), e la estese dai soli
cittadini maschi anche a donne, bambini e schiavi. Fu una tassa di
capitazione umiliante a carico degli ebrei, che sarebbe rimasta in vigore
per secoli. Vespasiano represse gruppi di persone che avevano occupato
terreni pubblici costringendoli a pagarli o a vederli venduti. Aumentò le
esazioni fiscali in tutte le province e vendette proprietà imperiali ad
Alessandria e in Asia Minore, tassando i proprietari fondiari. Nuovi
censimenti effettuati in Italia e nelle province facilitarono il compito degli
esattori delle imposte. Nel frattempo, l’imperatore gestì con parsimonia
le risorse governative, riducendo ad esempio le dimensioni delle
missioni diplomatiche.
Niente di tutto ciò, ovviamente, rese Vespasiano popolare, ma come al
solito egli cercò di ripartire le responsabilità dei provvedimenti
impopolari. Muciano, ad esempio, si occupò di confiscare e tassare i
fondi dei proprietari agricoli, sollevando così l’imperatore da una parte
delle colpe che potevano essergli attribuite. Di Muciano era noto il detto
secondo cui il denaro era «l’anima del potere»51.
Sulla politica fiscale di Vespasiano ci è rimasto un buffo aneddoto. A
Tito che lo accusava perché riteneva indegno che imponesse una tassa
sull’uso delle latrine pubbliche, Vespasiano rispose dimostrandogli che il
denaro non puzza («Pecunia non olet», secondo la tradizione)52.

«FORTUNATE CIRCOSTANZE E... FERMA


DISCIPLINA
DI BEN OTTOCENTO ANNI»53
Nel 68 e nel 69, le legioni romane e i loro comandanti in Gallia,
Germania, Giudea, Siria, Egitto, Balcani e Italia avevano infranto i loro
giuramenti attaccando Nerone e i suoi tre successori, creando quattro
nuovi imperatori in rapida successione. Combatterono importanti
battaglie in Gallia, in Germania e in Italia, saccheggiarono Cremona e
imposero a Roma il regno del terrore. Nella regione del Basso Reno le
tribù si erano ribellate al governo romano dopo che Vespasiano era
diventato imperatore, e contavano su alleati in Gallia. In passato,
l’esercito romano aveva costruito l’impero facendo ricorso a «fortunate
circostanze e [...] ferma disciplina di ben ottocento anni», come disse un
generale per intimidire i ribelli. Nell’arco di due anni l’esercito aveva
distrutto quasi tutto quel che c’era da distruggere, e a quel punto
Vespasiano riaffermò l’integrità dell’impero.
Il nuovo imperatore agì lungo le linee della repressione, della riforma,
della riorganizzazione e della moderazione. Vespasiano inviò un enorme
esercito al comando di Petilio Ceriale, il suo ex genero (era il vedovo di
sua figlia Domitilla), che nel 70 pose fine alla rivolta lungo il Reno. In
Germania, dove si erano svolti pesanti combattimenti, alcune legioni
furono sciolte, e se ne formarono delle nuove – con uomini e
comandanti che riscuotevano la fiducia di Vespasiano, e si stabilirono
così nuove tradizioni di lealtà nei confronti suoi e dei suoi familiari.
Altrove, si aggiunsero all’occorrenza soldati delle riserve, mentre fedeli
veterani furono congedati assegnando loro delle terre in cui insediarsi.
Analogamente, vari corpi ausiliari furono sciolti e sostituiti con altri.
Ma la parte più importante della storia riguarda quello che Vespasiano
non fece. Non estese le dimensioni dell’esercito, la cui forza rimase,
come sotto Nerone, di circa trecentomila uomini. E non conferì
neppure all’esercito un ruolo politico regolare, sebbene dovesse ad esso la
carica di imperatore. Rimandò le legioni ai loro accampamenti e lasciò il
potere politico nelle mani dei civili a Roma: i suoi amici, i suoi familiari
e il Senato. In breve, Vespasiano mantenne intatto il sistema politico
augusteo.
È indicativo dell’importanza che Vespasiano attribuì alla disciplina
militare il fatto che riducesse i donativi regolari ai soldati a 25 denari a
testa. Al riguardo è stato tramandato un aneddoto significativo. Quando i
militari della flotta di stanza in Italia chiesero che l’imperatore pagasse
loro un’indennità per le scarpe, poiché per darsi il cambio dovevano
percorrere a piedi la distanza fra il Golfo di Napoli e Roma, Vespasiano
rispose loro che in futuro avrebbero dovuto andare scalzi54. Chiarì
insomma che al potere c’era lui, non i soldati.
Vespasiano spostò alcuni reparti militari dall’interno verso le zone di
confine. Consapevole del prestigio che derivava dall’ampliamento
territoriale dell’impero, dette ordine ai suoi generali di conquistare
qualche ulteriore territorio in Britannia e lungo il Reno. Ma da un
uomo preoccupato soprattutto del consolidamento dell’impero non ci si
poteva aspettare che realizzasse notevoli cambiamenti nella sua
estensione. E così fu.

LA CONCUBINA DELL’IMPERATORE
Dopo la morte di sua moglie Flavia Domitilla, in un momento non
precisato prima che nel 69 diventasse imperatore, Vespasiano riallacciò la
propria relazione con Cenide. All’epoca in cui salì al trono, lei aveva
passato la sessantina, e quindi non era più nel fiore dell’età.
Probabilmente Vespasiano la scelse per amore. La prese come concubina,
vale a dire come moglie di fatto, poiché, quale membro dell’ordine
senatoriale, non poteva sposare una liberta. La società romana era abituata
ai matrimoni di fatto, che erano un mezzo per rispettare le varie
proibizioni e restrizioni legali. Con questo, però, non dobbiamo
sottovalutare quanto poté apparire sorprendente che l’imperatore romano
convivesse apertamente con una liberta – per giunta greca – come se fosse
la sua legittima moglie.
In ogni caso, Vespasiano amava Cenide e la trattava come una vera
imperatrice. Paradossalmente l’ex schiava con cui condivideva il letto e
che aveva servito Antonia Augusta (figlia di Marco Antonio e madre
dell’imperatore Claudio) fu quanto di più vicino al fascino della Casa dei
Cesari egli poté raggiungere. Cenide si sentiva talmente sicura in veste di
membro della famiglia che una volta, di ritorno a Roma da una visita
all’estero, porse la propria guancia a Domiziano, il figlio di Vespasiano,
perché la baciasse. Ma, snob com’era, Domiziano declinò l’offerta e le
porse invece la mano.
Con la sua intelligenza, e la sua conoscenza delle vicende romane, non
ci sarebbe da stupirsi se Cenide avesse fatto da consigliera a Vespasiano
nella sua ascesa al trono imperiale. Una volta che lui fu diventato
imperatore, si dice che Cenide vendesse accessi e incarichi, compresi
quelli di governatore, di generale e di sacerdote, nonché perdoni55. Era,
in poche parole, una persona che risolveva problemi. Si tratta di storie
che non possiamo verificare, ma che danno l’impressione di essere vere –
come del resto l’accusa secondo cui una parte del denaro che ricavava
finisse a Vespasiano. In ogni caso, Cenide diventò una donna molto
ricca.
L’ex schiava fu a sua volta proprietaria di schiavi, e alla fine ne liberò
alcuni, che poi presero il suo nome. Possedeva una villa e vasti terreni nei
sobborghi di Roma, forniti di acqua corrente – un lusso raro – e sfarzosi
bagni56. Dopo la sua morte, le proprietà passarono all’imperatore, e i
Bagni di Cenide furono infine aperti al pubblico e mantenuti da uno dei
liberti dell’imperatore.
Cenide morì intorno al 75, all’età forse di sessantotto anni. Nessuno
prese mai il suo posto negli affetti di Vespasiano, che semmai si dedicò a
una serie di amanti. Il monumento funerario di Cenide è stato riportato
alla luce presso la sua villa57. Non è raro imbattersi in pietre tombali di ex
schiavi romani; di fatto, la maggior parte dei monumenti funerari del
periodo imperiale oggi rimasti è dovuta proprio a liberti. Si trattava di
simboli del livello sociale raggiunto: e chi più di un ex schiavo aveva
bisogno di proclamare, incidendolo sulla pietra, che ce l’aveva fatta? Il
monumento di Cenide assolse al meglio questa funzione.
Si tratta di un’ara funeraria, una tipologia comune di monumento
funebre di un certo lusso, che recava sempre un’iscrizione sulla parte
frontale e talvolta decorazioni sui fianchi e sul retro. L’ara di Cenide era
pesante, massiccia, elaborata e lussuosa: un unico grande blocco di
marmo di Carrara, lo stesso materiale che sarebbe stato usato per la
colonna Traiana e per il Pantheon, e, nel Rinascimento, per il David di
Michelangelo. L’ara misura un metro e trenta circa in altezza, e ha un
basamento di circa settanta centimetri per un metro.
Nell’epitaffio, sulla parte frontale, si legge che un certo Aglao,
probabilmente l’amministratore delle proprietà di Cenide, aveva eretto il
monumento a nome di sé stesso e dei suoi tre figli, dedicandolo alla
memoria di «Antonia Cenide, liberta di un’Augusta, ottima patrona»58.
Sebbene il testo associ Cenide a una delle donne più potenti di Roma,
evita discretamente di accennare al suo ruolo di concubina di Vespasiano.
Ma i bassorilievi sugli altri tre lati dell’altare contengono richiami al fatto
che fu amata da un imperatore. Vi sono raffigurati, fra l’altro, dei cupidi e
dei cigni – l’animale che traina il carro di Venere – oltre che foglie di
alloro, simboli imperiali. Il fatto che cigno si dica cygnus in latino e kyknos
in greco può far pensare a un gioco di parole col nome Caenis (Kainis in
greco).
Più o meno nel periodo in cui Cenide morì, la regina Berenice fu a
Roma, accompagnata dal fratello Giulio Agrippa. Questi venne
nominato pretore, mentre la regina fu accolta a palazzo con Tito. Non
abbiamo idea se prima di allora Cenide si fosse opposta alla presenza
dell’amante di Tito; tuttavia, è notevole il fatto che i due uomini che
governavano Roma, padre e figlio, vissero entrambi nella capitale con
una moglie di fatto proveniente dall’Oriente. Entrambi trasgredirono le
regole, ma il rozzo Vespasiano continuò a frequentare persone di rango
inferiore, mentre Tito preferì le comodità di un letto regale. Tutti e due
erano ben lontani da Augusto e Livia.
Tito e Berenice si amavano. La gente diceva che lei si aspettava di
sposarlo – e addirittura che lui glielo avesse promesso – e che si
comportava come se fosse sua moglie59. Certamente fece sentire la
propria influenza. Vespasiano la invitò a prendere parte al consiglio
imperiale per discutere una causa che coinvolgeva i suoi interessi, alla
presenza nientemeno che del grande Quintiliano, in veste di suo
avvocato60. In poche parole, Berenice era vicina al vertice del potere. Il
popolo romano, tuttavia, non ne voleva sapere. Qualcuno vedeva in lei
una seconda Cleopatra61 – una regina orientale che aveva stregato un
uomo romano –, mentre per altri rappresentava il nemico giudeo la cui
rivolta aveva comportato per Roma la perdita di tanto sangue e tante
risorse. Due filosofi accusarono Tito e Berenice in teatro. Tito ordinò
che a uno venissero inflitte punizioni corporali, e che l’altro fosse
decapitato. Ma dovette comunque allontanare Berenice. I due amanti
non avrebbero governato Roma.

«CREDO CHE STO PER DIVENTARE UN DIO»


Nei suoi ultimi anni Vespasiano seguiva un regolare regime quotidiano62.
Si svegliava prima che facesse giorno e leggeva la corrispondenza e i
rapporti mentre era ancora a letto; poi si alzava e riceveva gli amici
mentre si vestiva e si calzava, facendo a meno dello schiavo addetto a tali
incombenze, utilizzato dalla maggior parte degli imperatori; faceva
quindi un giro in lettiga, tornava a palazzo nel mezzo del giorno e si
coricava con una delle sue amanti; poi faceva il bagno e pranzava. I liberti
che vivevano nel palazzo sapevano che l’umore dell’imperatore era
migliore nell’ultima parte del giorno, per cui aspettavano quel momento
per presentargli le loro richieste.
Nella primavera del 79 Vespasiano si ammalò mentre era in viaggio a
sud di Roma. Raggiunse allora la località in cui era solito recarsi d’estate,
su un lago dei colli sabini a nord della capitale, vicino ai suoi luoghi di
nascita, sperando di riprendersi. Si diceva che le acque del lago avessero
poteri curativi, ma, se è così, nel suo caso non fecero effetto. Quando
sentì avvicinarsi la fine, Vespasiano espresse due caustiche considerazioni:
«Ahimè, credo che sto per diventare un dio»63, disse, riferendosi al
processo di divinizzazione che un imperatore apprezzato poteva
aspettarsi di ricevere in Italia una volta defunto. Poi, nel momento finale,
in preda a un terribile attacco di diarrea, fece un ultimo estremo sforzo
per alzarsi, esclamando: «Un imperatore deve morire in piedi». E morì
nelle braccia di coloro che lo stavano aiutando64. Era il 24 giugno del 79,
e aveva sessantanove anni.
I funerali si celebrarono a Roma. Anche in quell’occasione un noto
attore riuscì ad inserire un’ultima battuta sull’avarizia dell’imperatore.
Durante i funerali dei nobili romani era consuetudine che qualcuno
impersonasse il defunto e ne imitasse l’andatura e i gesti, indossando i
suoi vestiti e una maschera di cera modellata quando era ancora in vita. Al
funerale di Vespasiano l’incarico spettò a un celebre attore, il cui nome
d’arte era Favore. Quando chiese ai funzionari quanto costava il funerale,
finse che quelli gli dicessero una somma astronomica, dieci milioni di
sesterzi; al che, sempre imitando Vespasiano, esclamò: «Datene centomila
a me, e buttatemi nel Tevere!»65.
Dopo un ritardo di sei mesi – non sappiamo per quale motivo –, il
Senato dichiarò la divinità di Vespasiano. Secondo i consueti criteri
romani, se lo era meritato. Non fu il più famoso fra gli imperatori che
regnarono a Roma, ed è facile svilirlo a causa dei grossolani tratti del
volto, del volgare umorismo, nonché del significato moderno che il suo
nome ha assunto per indicare un orinatoio. E tuttavia, fu uno dei
migliori imperatori romani. Tacito scrive che, diversamente da tutti gli
imperatori che lo avevano preceduto, Vespasiano cambiò in meglio dopo
essere salito al trono66. Prese il potere ricorrendo a rivolte, violenze e
maneggi nell’anno che per Roma fu il più terribile di tutto il secolo.
Furono le legioni, e non il Senato, a farlo imperatore, e lo scelsero per il
suo valore come generale. Tuttavia, fu quest’uomo di guerra a portare la
pace a Roma. Vespasiano riuniva in sé qualità che raramente si trovano
congiunte: quelle di militare e di uomo di Stato.
Quel che riuscì a realizzare fu nientemeno che tenere in vita l’impero.
Dimostrò che ci sarebbero stati ancora dei Cesari perfino senza che il
sangue dei Cesari (o, nel caso di Tiberio, della moglie di Cesare)
scorresse nelle loro vene. Se Vespasiano non avesse fatto altro, già questo
sarebbe stato abbastanza. Ma riuscì ad accumulare anche altri successi.
Con la ricostruzione urbana dette a Roma un monumento destinato ad
assurgere a simbolo della città e cambiò la cultura della politica. Garantì
stabilità e solidità finanziaria dopo gli anni di spese sconsiderate di
Nerone e la sciagura della guerra civile. Creò una nuova classe dirigente
che avrebbe governato l’impero nel secolo a venire. Vespasiano aprì
Roma a nuovi talenti, compreso sé stesso, il figlio di un esattore delle
imposte della campagna sabina.
Ancora una volta Roma dimostrò la propria capacità di rinnovarsi. Col
suo fare modesto, Vespasiano attuò una rivoluzione che dette rilievo alla
continuità, introducendo al contempo cambiamenti tanto spettacolari
quanto lo è la differenza fra la Domus Aurea neroniana e l’Anfiteatro
Flavio che ne prese il posto; oppure fra Antonia Augusta e la sua ex
schiava, Cenide; o, ancora, fra un aristocratico di sangue blu come
Nerone e il mulattiere sabino asceso al trono imperiale.
Il successo di Vespasiano fa risaltare la flessibilità, l’adattabilità e la
creatività di Roma, ma dimostra anche la crudeltà dell’impero. L’edificio
più famoso che aveva fatto costruire era un luogo in cui gli uomini si
uccidevano per far divertire decine di migliaia di spettatori. Egli stesso
era arrivato al potere con una guerra civile dopo un anno sanguinario e
rovinoso, in cui si erano avvicendati quattro imperatori. Alle morti e alle
distruzioni causate da quel conflitto si aggiunsero le perdite che
Vespasiano provocò in Britannia e in Giudea (dove fece finire il lavoro a
Tito). Secondo Giuseppe Flavio, nel solo assedio di Gerusalemme
morirono un milione e centomila ebrei, mentre 97.000 furono fatti
prigionieri nel corso dell’intera guerra contro Roma67. Il primo dato è
un’enorme esagerazione (ma la verità è probabilmente comunque
spaventosa), il secondo appare abbastanza preciso.
I romani erano non solo costruttori, ma anche distruttori, e Vespasiano
e Tito si impegnarono in uno dei più terribili atti di distruzione della
storia, riducendo in cenere il tempio di Gerusalemme e mettendo a sacco
la città. Fu un atto di terrore calcolato, che puntava a porre fine alla
resistenza politica dei giudei. Non fu né un genocidio né un’azione
specificamente antisemita. Gli ebrei fuori da Israele (quelli della
Diaspora), compresi quelli a Roma, rimasero illesi, se si eccettua la nuova
tassa loro imposta. La vita della comunità giudaica continuò nella Terra di
Israele fuori da Gerusalemme. Vespasiano dette personalmente il
permesso ai rabbini di trasformare la città di Jabneh (oggi nel distretto
centrale di Israele) in un centro teologico e culturale. È lì che furono
gettate le fondamenta di quello che sarebbe diventato il moderno
ebraismo. Nel frattempo, la distruzione del tempio e di Gerusalemme
ebbe l’effetto di ampliare il divario che separava i cristiani giudei dai
cristiani gentili. Dopo il 70 la Chiesa delle origini si allontanò ancora di
più dalle sue radici giudaiche.
Alla morte di Vespasiano, Tito divenne imperatore. Forse consapevole
di portarsi dietro la reputazione di agente liquidatore del padre, aprì il
suo regno con una mossa volta a guadagnarsi simpatie. Blandì il Senato
promettendo che non avrebbe mai ucciso nessun senatore, ma dovette
fare un’ulteriore concessione all’opinione pubblica: mandare via
all’istante l’odiata Berenice, la sua regina, «pur essendone entrambi
addolorati», secondo Svetonio68.
Tito quindi fu solo, ma popolare. Tuttavia il suo regno non fu né lungo
né facile, e in quel periodo l’Italia subì una serie di gravi disastri: un
incendio a Roma, una pestilenza, l’eruzione del Vesuvio nell’ottobre del
79 che distrusse le città di Pompei ed Ercolano69. Fu la più grave
esplosione vulcanica della storia italiana che si ricordi. Tito piegò
abilmente queste calamità a proprio vantaggio in termini politici,
reagendo con parole cortesi e soccorsi materiali. Si mosse in modo
efficace e rapidamente nell’opera di ricostruzione successiva all’incendio,
e fornì aiuti finanziari alle zone colpite dall’eruzione. Morì il 13
settembre dell’81 dopo una breve malattia, a poco meno di quarantadue
anni.
Il potere a quel punto passò al fratello minore, Domiziano. Anche lui
apparteneva alla famiglia Flavia, ma come vedremo avrebbe abbandonato
ben presto il sentiero tracciato dal padre.

 
1
Giuseppe Flavio, La guerra giudaica III.236.
2
Tacito, Storie II.5.
3
Giuseppe Flavio, La guerra giudaica IV.33.
4
Tacito, Storie I.4.
5
Svetonio, Vespasiano VIII.3.
6
Varrone, cit. in Plinio il Vecchio, Storia naturale III.10.
7
Svetonio, Vespasiano II.2.
8
Cassio Dione, Storia romana LIX.12.3.
9
Museo Archeologico Nazionale (Napoli), inv. 6029.
10
Cassio Dione, Storia romana LXV.14.1-4.
11
Publio Cornelio Tacito, Agricola, XIII.5, in Id., Gli annali. La vita di Giulio Agricola, Garzanti,
Milano 1981.
12
Liturgia ebraica, preghiera settimanale Amidah, dodicesima benedizione.
13
Tacito, Storie I.49.
14
Ivi, IV.11; Svetonio, Vespasiano VII.2.
15
Giuseppe Flavio, La guerra giudaica IV.603.
16
A rigore, termini come «omosessuale» o «gay» sono antistorici, poiché gli antichi non
pensavano al sesso secondo le categorie attuali. Il loro uso serve soltanto a indicare al lettore
moderno che Muciano preferiva avere rapporti con persone del suo stesso sesso.
17
Tacito, Storie I.10.
18
Svetonio, Vespasiano XIII.1.
19
Tacito, Storie II.76-77.
20
Ivi, III.13.
21
Cassio Dione, Storia romana LXV.8.
22
Tacito, Storie I.10.
23
Svetonio, Tito 1.
24
Tacito, Storie II.5.
25
Ivi, II.77.
26
Anche il termine «romanizzato» è problematico se riferito alla storia antica; viene qui usato
per evocare l’idea dell’assimilazione agli usi dei conquistatori.
27
Jacob Neusmer, The Talmud of Babylonia: an academie commentary, vol. XVIII, Bavli Tractate
Gittin, Scholars Press, Atlanta 1996, 56b.
28
Tacito, Storie II.2, 81.
29
Ivi, IV.81; Svetonio, Vespasiano VII.2; Cassio Dione, Storia romana LXVI.8.2, il quale
sostiene che il secondo uomo aveva una mano atrofizzata.
30
Tacito, Storie II.86.
31
Ivi, II.77.
32
Ivi, IV.39; si veda Angela Pabst, Divisio regni: der Zerfall des Imperium Romanum in der Sicht der
Zeitgenossen, Habelt, Bonn 1986, pp. 46-48 e 68.
33
Muciano era ancora vivo nel 74 (Tacito, Dialogo degli oratori XXXVII.2), mentre nel 77 era
morto (Plinio il Vecchio, Storia naturale XXXII.62).
34
Devo questa considerazione a Walter Scheidel, che sta preparando un libro su questo tema.
35
Cassio Dione, Storia romana LXVI.17.1; Svetonio, Vespasiano XX; cfr. Marziale, Epigrammi
III.89 e XI.52-56.
36
Svetonio, Vespasiano XX.1; cfr. Suetonius, Vespasian, a cura di Brian W. Jones, con
introduzione, commento e bibliografia, Bristol Classical Press, London 2000, p. 8.
37
Ran Shapira, Hoard of Bronze Coins from Jewish Revolt Found Near Jerusalem, in «Haaretz», 17
agosto 2014 (www.haaretz.com/jewish/archaeology/1.610916).
38
Si veda, ad esempio, RIC II, Part 1 (second edition) Vespasian 3
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.2_1(2).ves.3).
39
Giuseppe Flavio, La guerra giudaica 7.5.4.
40
Svetonio, Vespasiano 8.5; Cassio Dione, Storia romana LXVI.10.2.
41
Elisabetta Povoledo, Technology Identifies Lost Color at Roman Forum, in «New York Times»,
24 giugno 2012 (www.nytimes.com/2012/06/25/arts/design/menorah-on-arch-of-titus-in-
roman-forum-was-rich-yellow.html; www.yu.edu/cis/activities/arch-of-titus).
42
Ariel David, Second Monumental Arch of Titus Celebrating Victory over Jews Found in Rome, in
«Haaretz», 21 marzo 2017 (www.haaretz.com/archaeology/1.778103).
43
Geza Alföldy (a cura di), Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. VI, Inscriptiones Urbis Romae
Latinae, VIII, fasc. 2, Berlin 1976, n. 40454a. Si veda Geza Alföldy, Ein Bauinschri aus dem
Colosseum, in «Zeitschri für Papyrologie und Epigrafik», CIX (1995), pp. 195-226.
44
Herbert W. Benario, A Commentary on the Vita Hadriani in the Historia Augusta, Scholars
Press, Chico (CA) 1980, p. 118.
45
Beda il Venerabile, Jacques-Paul Migne, Patrologia Latina, vol. XCIV, p. 453.
46
Cassio Dione, Storia romana LXV.15.2; Barbara Levick, Vespasian, Routledge, London 20172,
p. 202.
47
Quintiliano, L’istituzione oratoria, rispettivamente XII.1.3 e X.7.15.
48
Ivi, X.1.31-34 («historia [...] scribitur ad narrandum, non ad probandum»).
49
Cassio Dione, Storia romana LXVI.12.1.
50
Aurelio Vittore, De Caesaribus 9.9.
51
Cassio Dione, Storia romana LXVI.2.5.
52
Svetonio, Vespasiano XXIII.3; Cassio Dione, Storia romana LXVI.14.5.
53
Tacito, Storie IV.74.3.
54
Svetonio, Vespasiano VIII.3.
55
Cassio Dione, Storia romana LXV.14.3-4.
56
La proprietà era situata sulla via Nomentana.
57
Museo Storico della Caccia e del Territorio, Palazzo Bardini (Firenze), inv. A231. Si veda
Mauro Cristofani, L’ara funeraria di Antonia Caenis concubina di Vespasiano, in «Prospettiva», XII
(aprile 1978), pp. 2-7.
58
Corpus Inscriptionum Latinarum cit., VI, 12037.
59
Svetonio, Tito VII.1.
60
Quintiliano, L’istituzione oratoria IV.1.19. Si veda Michael R. Young-Widmaier, Quintilian’s
Legal Representation of Julia Berenice, in «Historia», LI (2002), 1, pp. 124-129.
61
Svetonio, Tito VII.1; Cassio Dione, Storia romana LXV.15.3-4.
62
Svetonio, Vespasiano XXI-XXII.
63
Ivi, XXIII.4; Cassio Dione, Storia romana LXVI.17.2.
64
Svetonio, Vespasiano XXIV-XXV; Cassio Dione, Storia romana LXVI.17.2; Pseudo-Aurelio
Vittore, Epitome de Caesaribus 9.18.
65
Svetonio, Vespasiano XIX.2.
66
Tacito, Storie I.50.
67
Giuseppe Flavio, La guerra giudaica VI.240.
68
Svetonio, Tito VII.2 (inuitus inuitam); cfr. Cassio Dione, Storia romana LXVI.18.1, e Pseudo-
Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 10.7.
69
Pompeii: Vesuvius Eruption May Have Been Later Than Thought, 16 ottobre 2018
(https://www.bbc.com/news/world-europe-45874858).
Traiano
5
Traiano,
optimus princeps

La notte del 13 dicembre 115 un terremoto colpì Antiochia1. A


quell’epoca col suo mezzo milione circa di abitanti, la città siriana era il
terzo maggior centro urbano del mondo romano. Solo Alessandria e
Roma la superavano. Le scosse furono avvertite in tutto il Vicino
Oriente e provocarono un maremoto che arrivò fino in Giudea, ma
Antiochia fu il centro più colpito. Il sisma ebbe lì il suo epicentro, e
produsse un enorme boato. La terra si spostò, gli alberi e gli edifici si
alzarono in aria e crollarono, sollevando una nuvola di polveri quasi
impenetrabile. Il terremoto, di terribile intensità (la magnitudo stimata è
di 7,3 o 7,5 gradi)2, distrusse gran parte della città e provocò un numero
di vittime reso ancora più ingente dal recente afflusso di soldati e civili,
che affollavano quella che era diventata di fatto una capitale temporanea,
per la presenza dell’imperatore. Cesare Nerva Traiano, figlio del divo
Nerva, per noi Traiano, stava infatti passando l’inverno ad Antiochia,
durante una pausa dalle campagne militari.
Il terremoto uccise uno dei consoli presenti in città. Traiano fu più
fortunato, e riuscì a uscire da un edificio danneggiato calandosi da una
finestra, riportando solo lievi ferite. Nei giorni seguenti rimase all’aperto,
nell’ippodromo cittadino, mentre le scosse di assestamento continuavano
a rimbombare. Per un uomo che amava paragonarsi a Ercole e a Giove, si
trattava di circostanze umilianti. Cercando di porvi rimedio, mise in giro
la storia di essere stato tratto in salvo da un essere di statura sovrumana. E
tuttavia rimaneva ancora ben distante dall’immagine ufficiale che
mostrava Giove nell’atto di cedere la sua folgore a Traiano, scelto quale
vicario della divinità in terra.
Traiano nel dramma prosperava, finché poteva restare al centro della
scena. E, nonostante tutte le devastazioni provocate, un terremoto aveva
per lui anche dei risvolti positivi: violenza, intervento divino, e
l’opportunità di dimostrare benevolenza, protezione e umanità verso il
mondo sofferente, e guadagnarsi così popolarità fra coloro che lo
amavano. Dopotutto era il padre della patria, titolo che gli era stato
assegnato dal Senato. Quasi immediatamente, dette avvio alla
ricostruzione di Antiochia. E Traiano era uno dei più grandi costruttori
che Roma avesse mai conosciuto.
L’immagine di Traiano che esce dai cumuli di macerie è per noi
preziosa, non disponendo di alcuna sua biografia antica. Al di là di brevi
riferimenti presenti nelle storie antiche, possiamo attingere solo alle
testimonianze dell’oratoria, dell’architettura e dell’arte – quindi ufficiali
–, che lo proteggono come un’unità di legionari in formazione a
testuggine che si coprono con gli scudi. Sono fonti che ci rivelano poco
dell’uomo. Traiano vi appare nell’immagine che egli stesso voleva dare di
sé; e come molti imperatori, egli desiderava che la gente vedesse la
facciata marmorea che si sforzava di erigere, non i muri in mattoni e
calcestruzzo che la sostenevano.
E il suo pubblico non aveva di che obiettare. Infatti, il Senato e il
popolo romano lo insignirono del titolo di optimus princeps3, che a un
orecchio moderno potrebbe quasi suonare come se egli avesse
partecipato a una competizione a premi assieme ai suoi predecessori. La
tradizione romana posteriore guardò a Traiano come a uno dei più
grandi imperatori romani. A metà del III secolo, il popolo accoglieva
ogni nuovo sovrano con l’auspicio che fosse «più fortunato di Augusto e
migliore di Traiano»4.
Tuttavia, a uno sguardo più ravvicinato, il vero Traiano comincia ad
emergere in tutto il suo talento e nei suoi aspetti paradossali. Era un
uomo molto più astuto e complesso di quanto appaia nell’immagine di
monotona perfezione che volle dare di sé. Nonostante la sua pretesa di
essere il titolare esclusivo del potere, dipendeva dalle potenti donne della
sua famiglia, così come ogni altro imperatore.
Non era nato all’interno della famiglia imperiale, né arrivò al potere con
una guerra civile. Era un outsider che si era fatto strada, un generale
politicamente astuto che sapeva come sopravvivere in una tirannia, un
capo che in silenzio seppe rendersi indispensabile. La storia dell’ascesa al
potere di Traiano comincia nei giorni del suo predecessore, Domiziano.

DOMIZIANO
Dopo il breve regno di Tito, nell’81 fu il fratello Domiziano a
succedergli. Tito aveva una figlia diciassettenne, Giulia Flavia, ma i
romani non presero mai in considerazione l’ipotesi di un’imperatrice.
Amministratore di talento e industrioso, Domiziano era un uomo
arrogante. Si dette arie da re, e sposò una donna affascinante e imperiosa.
Il Senato, che fino ad allora aveva avuto a che fare col rude Vespasiano e
con l’adorabile Tito, la prese male. A quanto si dice, Domiziano
cominciò una lettera che avrebbe dovuto essere divulgata dai suoi
funzionari con la formula: «Il nostro signore e dio ordina...»5. Lungi dal
mostrare interesse per le sedute del Senato, dirigeva spesso gli affari
pubblici dalla sua proprietà fuori Roma. I senatori erano arrabbiati, e gli
informatori attizzavano il fuoco; vennero alla luce complotti che furono
repressi con la forza. Conosciamo i nomi di quattordici senatori che
furono giustiziati, dodici dei quali erano ex consoli. In due occasioni
Domiziano espulse da Roma dei filosofi, tra i quali molti stoici, il cui
pensiero era condiviso da parecchi senatori.
Alla fine il Senato si prese la propria rivincita infangando la reputazione
di Domiziano nei libri di storia. Uno dei molti aneddoti negativi su di
lui vuole che rimanesse ogni giorno a sedere da solo per ore nella propria
camera, dando la caccia alle mosche e infilzandole con uno stiletto6. Le
varie versioni di questa storia lo dipingono di volta in volta come un
uomo annoiato, crudele, ossessivo o tirannico.
L’aspetto paradossale è che garantì, per molti aspetti, un buon governo.
Nei quindici anni del suo regno dimostrò di essere un avveduto
sovrintendente delle finanze e un giusto amministratore delle province,
abile a gestire la politica dei confini e della difesa. Si guadagnò popolarità
per gli spettacoli e i banchetti che offriva e per le cancellazioni dei debiti
che decretava. Fra i suoi giochi gladiatori vi furono manifestazioni
gradite alle folle, come i combattimenti notturni alla luce delle torce e
quelli fra donne.
Fu anche un grande costruttore: realizzò progetti come un nuovo
ippodromo, il cui profilo è ancora oggi visibile in piazza Navona. Portò
inoltre a compimento la costruzione del Colosseo. Entrambe le opere
andarono a beneficio del popolo, ma il più grandioso progetto di
Domiziano fu un monumento al proprio ego tale da rivaleggiare con la
Domus Aurea neroniana: un immenso nuovo palazzo sul Palatino.
Alto e di bell’aspetto da giovane7, Domiziano diventò un uomo dal
volto grasso e dal naso prominente come quello del padre, accigliato e
panciuto. Nei busti che lo ritraggono ha una folta capigliatura riccia, ma
in realtà era calvo e particolarmente sensibile a questo aspetto8. Aveva
però una moglie bella, per quanto dispotica.
Era Domizia, figlia del valente ma sfortunato generale neroniano Gneo
Domizio Corbulone. Domiziano, che si era follemente innamorato, la
costrinse a divorziare dal marito e a sposarlo. I busti la ritraggono con un
aspetto di piacevole serenità, il volto dai tratti delicati sotto una rigogliosa
capigliatura, con boccoli strettamente avvolti che le coronano la fronte9.
Ma i problemi non mancavano. Domizia dette a Domiziano due o tre
figli, che morirono però tutti in tenera età. La relazione che ebbe con un
attore indusse l’imperatore a divorziare e a far giustiziare il suo amante. In
seguito Domiziano la riprese con sé, dopo che la nipote Giulia Flavia gli
aveva fatto da compagna. La gente malignava che i due avessero una
relazione, soprattutto dopo che Domiziano aveva fatto giustiziare il
marito di lei per tradimento. Quando qualche anno dopo, nel 91, Giulia
morì, le voci dissero che aveva avuto un aborto, e che era incinta di
Domiziano. Quanto a lui, con calma, la fece deificare.

LA PRIMA ASCESA DI TRAIANO


Il padre di Traiano, Marco Ulpio Traiano, nato nella Hispania, prestò
servizio sotto Vespasiano come comandante di legione. In seguito
raggiunse una posizione molto elevata nella vita pubblica romana. Sua
moglie – la madre di Traiano – era probabilmente una certa Marcia, forse
appartenente a un’importante famiglia senatoriale italica. Ebbero due
figli, Traiano e Ulpia Marciana. Vivevano in una ricca regione agricola
della penisola iberica, celebre per i suoi oliveti, ma la vita da agricoltore
gentiluomo non interessava né al padre né al figlio. Per loro, o Roma o
niente. E Roma era disposta a concedere a entrambi una possibilità.
Uno dei punti di forza dell’impero consisteva nell’abilità con cui riu-
sciva a cooptare la ricca élite delle province. Dapprima offriva ai suoi
esponenti la cittadinanza romana, qualora non l’avessero già, come nel
caso della famiglia di Traiano. Poi assegnava loro un seggio in Senato.
Infine, li elevava al rango di imperatori: Traiano sarebbe stato il primo
uomo proveniente dalle province a salire al trono.
Era nato intorno al 53. Una delle poche cose che possiamo ipotizzare
sulla sua giovinezza è l’ammirazione che nutriva per il padre. Anni dopo,
quando era già imperatore, Traiano lo divinizzò, conferendogli un onore
eccezionale. Quando Vespasiano salì al trono, Traiano aveva circa sedici
anni. A quell’epoca può darsi che vivesse già a Roma, perché un
ambizioso padre di provincia poteva ben desiderare che il proprio figlio
concludesse la sua educazione nella città imperiale. Traiano non fu mai
molto studioso, ma certamente sapeva come stabilire relazioni10. A Roma
esisteva una comunità spagnola, e probabilmente non dovette sentirsi
solo. C’è da chiedersi se, dietro la facciata orgogliosa di giovane adulto
che mostrava, non rimanesse in fondo un ragazzo proveniente dalle
province, desideroso di far vedere ai romani che poteva superarli, in
patria come all’estero.
Traiano prestò servizio come colonnello (tribuno militare) per diversi
anni, compreso un periodo in cui, attorno al 75, fu sotto suo padre in
Siria e poi per qualche tempo sul Reno. Rimase nelle funzioni di
colonnello per un periodo più lungo del solito e, se dobbiamo dar
credito a una fonte ossequiosa, si dedicò anima e corpo al suo incarico11.
Fu probabilmente non molto tempo dopo che prese moglie, poiché gli
uomini dell’élite romana in genere si sposavano poco più che ventenni. È
probabile che fosse stato suo padre a concordare l’unione con Pompeia
Plotina.
Come Traiano, anche Plotina proveniva dalla provincia, nel suo caso da
Nemausus (Nîmes), una città della Gallia meridionale. Non abbiamo
notizie precise sulla sua famiglia, ma senza dubbio era ricca e prestigiosa,
perché altrimenti Traiano non si sarebbe legato a lei. La data di nascita di
Plotina non ci è nota, ma poiché nell’élite romana le mogli erano
solitamente più giovani di una decina d’anni rispetto ai mariti, possiamo
ipotizzare che fosse nata nel 65. Donna scaltra, capace e colta, avrebbe
svolto un ruolo importante a sostegno del marito. Alcuni dicevano che lo
manovrasse.
Nell’89, mentre Traiano era al comando di una legione nelle sonnolente
contrade della Hispania settentrionale, sulla frontiera germanica scoppiò
una rivolta contro l’imperatore Domiziano. Fu la sua grande opportunità.
Marciò verso la Germania accorrendo in difesa di Domiziano. Sebbene
la rivolta fallisse prima che Traiano arrivasse sul posto, ebbe comunque
modo di impressionare l’imperatore con la propria efficienza. Come
ricompensa, ricevette un consolato ordinario e probabilmente il
governatorato della Germania settentrionale e un alto comando sul fronte
danubiano, dove ottenne una vittoria.
L’imperatore apprezzava i soldati come Traiano. All’interno, con i
civili, faceva sfoggio del proprio potere e tormentava i nemici. Dopo che
nel 95 fece giustiziare suo cugino, l’uomo i cui figli aveva adottato come
eredi, nessuno si sentì più al sicuro. Sebbene Domiziano non fosse noto
per il suo spirito, gli si attribuiscono alcune battute, fra le quali quella
secondo cui nessuno crede all’esistenza di un complotto contro
l’imperatore finché lo stesso non riesce12.
Nel suo caso, uno alla fine riuscì. Il 19 settembre 96 un piccolo gruppo
di cospiratori lo pugnalò a morte in camera da letto. I due prefetti del
pretorio erano al corrente della congiura. Fu la sua vecchia governante dei
tempi dell’infanzia a cremare il corpo di Domiziano, le cui ceneri furono
sepolte in segreto nel tempio dei Flavi a Roma. Il Senato condannò la sua
memoria, e per questo la maggior parte delle statue che lo ritraevano fu
distrutta e il suo nome venne cancellato dalle iscrizioni. Ma non dalla
memoria di Domizia, che gli sopravvisse di circa trentacinque anni,
vivendo in grande ricchezza e riferendosi orgogliosamente a sé stessa
come alla moglie di Domiziano. Ciò getta dei dubbi sulla voce secondo
cui aiutò gli uomini che uccisero suo marito13 – a meno che, ovviamente,
non avesse mutato il suo animo in un secondo momento.

NERVA
Il Senato si mosse velocemente nominando come successore di
Domiziano uno dei propri membri. Marco Cocceio Nerva era un
politico di lungo corso, esponente di una prestigiosa famiglia. Due volte
console, era un cortigiano e un sopravvissuto che se l’era cavata con
Nerone, Vespasiano e Domiziano. Sembrava, quindi, che lo Stato fosse
in mani sicure.
Nerva accontentò il Senato ordinando il rilascio di prigionieri, facendo
ammenda per precedenti processi per accuse di tradimento e assicurando
che non ce ne sarebbero stati altri in futuro. Soddisfece le aspettative
popolari con distribuzioni di cereali e terre e vari altri provvedimenti
assistenziali. Secondo Tacito, riuscì a coniugare quello che ormai
sembrava incompatibile: la libertà e il potere imperiale14.
Ma l’esercito era stato vicino a Domiziano, e non si lasciò
impressionare. Un’armata si ammutinò dopo la sua morte, un’altra era
nelle mani di un governatore provinciale inaffidabile. Nel 97 la guardia
pretoriana decise che era arrivato il momento giusto per vendicare
l’assassinio di Domiziano. I pretoriani si ammutinarono, strinsero
d’assedio Nerva nel suo palazzo e lo obbligarono, contro la sua volontà, a
rilasciare i colpevoli, per poi ucciderli, non prima di averne torturato
uno. Poi costrinsero l’imperatore a ringraziarli pubblicamente.
Rendendosi conto della propria debolezza, Nerva conferì con il
proprio consiglio e decise di non abdicare, scegliendo invece un
successore. Aveva più di sessant’anni, era vedovo e senza figli, e così pun-
tò   su un outsider. Avendo preso la propria decisione, salì sulla tribuna
dei Rostri al Foro e proclamò a gran voce: «Per la buona sorte del Senato,
del popolo romano e di me stesso, io adotto Marco Ulpio Nerva
Traiano»15.
Il più plausibile fra gli altri eventuali candidati apparteneva a una fazione
opposta a Nerva. Traiano era, invece, in buoni rapporti politici con lui e
aveva un padre famoso, che per giunta poteva vantare un impressionante
curriculum personale. Infine, elemento non certo di secondaria
importanza, disponeva di un certo numero di legioni pronte a marciare
su Roma a un suo ordine; per cui, far cadere la scelta su di lui significava
proteggere la pace.
La decisione assunta da Nerva fu un tipico esempio di pragmatismo
romano. Senza far chiasso né provocare fastidio, infranse due barriere.
Per la prima volta, un imperatore adottava un figlio non legato a lui né da
vincoli di sangue né da vincoli matrimoniali. E per la prima volta
nominava un successore che proveniva da fuori dell’Italia.
Ma, in un senso più profondo Traiano rappresentava la continui-
tà,  perché il reale motore del cambiamento era l’esercito. Come di
consueto, esso era la forza più egualitaria e innovativa della società
romana.
Nerva inviò a Traiano un anello di diamanti in segno della sua
adozione, assieme a una lettera in cui chiedeva, in modo elegante e
indiretto, una vendetta sui pretoriani che lo avevano umiliato. Gli
conferì anche i titoli di Cesare e di imperatore, consacrandolo così a suo
successore. Nel frattempo Nerva assicurò la posizione costituzionale di
Traiano come suo successore coinvolgendo il Senato nell’atto di
investirlo di potere e autorità.
Nerva morì dopo tre o quattro mesi, nel gennaio del 98, e Traiano poté
così diventare imperatore. Provvide subito a vendicare il suo
predecessore facendo giustiziare i capi della rivolta pretoriana che gli si
erano ribellati. Poco importava che la ribellione avesse poi portato
all’elevazione di Traiano stesso: il titolo imperiale era una questione di
famiglia, e quando questa era in gioco, l’onore era tutto. E così Traiano si
vendicò del proprio padre adottivo. Fece divinizzare Nerva e ordinò che
fosse seppellito nel mausoleo di Augusto: sarebbe stato l’ultimo
imperatore ad avere questo onore.

TRAIANO MOSTRA COSA SIGNIFICA


ESSERE UN IMPERATORE
Domiziano aveva soddisfatto l’esercito, ma non il Senato. Nerva si era
guadagnato l’appoggio del Senato, ma non dell’esercito. Traiano mostrò
fin dall’inizio di essere l’uomo che li avrebbe gratificati entrambi,
rendendo al contempo felice il popolo. E riuscì a raccogliere un
grandissimo consenso.
Rimase a nord fino alla fine del 99, rafforzando l’esercito sulle frontiere
del Reno e del Danubio per contrapporsi alle tribù germaniche. Quando
finalmente rientrò a Roma, lo fece giocando abilmente sul piano delle
pubbliche relazioni. Invece di fare il suo ingresso a bordo di una lettiga o
di un carro, si presentò a piedi. Salutò calorosamente i senatori e i
cavalieri riuniti e offrì sacrifici a Giove sul colle del Campidoglio, per
salire infine alla residenza imperiale sul Palatino.
Plotina colse lo spirito del nuovo regime nel momento stesso in cui fece
il suo primo ingresso nel palazzo. Voltandosi verso la folla disse: «Voglio
uscire da questo luogo in modo esattamente uguale a come sono
entrata!»16. Non avrebbe potuto far risuonare una corda più diversa
dall’altezzosa Domizia.
Traiano, che quando diventò imperatore aveva circa quarantacinque
anni, era nel fiore degli anni, forte fisicamente e psicologicamente, pieno
di energia e di progetti. Nei molti suoi busti che sono giunti fino a noi
mostra lo sguardo determinato di un atleta attempato. I capelli sono
acconciati con cura, con uno stile che richiama quello di Augusto. I tratti
del volto sono regolari, e potrebbero essere definiti classici, se non fosse
per le labbra sottili e ben serrate17. Un suo recente detrattore ha affermato
che Traiano sembrava stupido ma era ritenuto onesto18. In alcune sue
statue ha effettivamente un’espressione spenta, ma l’uomo raffigurato
nelle monete ha un’aria non meno astuta di altri imperatori.
La missione di Traiano era chiara. Doveva far vedere di meritare il
potere, di essere dotato delle buone qualità di Augusto e di Vespasiano e
privo di quelle peggiori di Nerone e di Domiziano. Doveva dimostrare
di essere uno statista, un conquistatore, un benefattore e un costruttore,
favorito dagli dèi e circondato da una famiglia esemplare e ubbidiente.
Non aveva intenzione di cedere una sola goccia del potere di Domiziano,
ma pensava di governare con voce gentile e mano aperta. Traiano non era
un repubblicano: «tutto oggi dipende dal volere di uno solo», scrisse il
suo contemporaneo Plinio il Giovane parlando del suo governo19.
Forse l’aggettivo che meglio riassume il governo di Traiano è
paternalistico. Non fu il primo imperatore ad accettare dal Senato il titolo
di padre della patria (pater patriae), ma più di molti altri cercò di essere
benevolo quanto severo.
Sebbene fosse un militare, aveva le qualità di un buon politico. Affabile
e posato, non si lasciava turbare dagli attacchi personali. Non dimenticò
mai che aveva tre pilastri del suo consenso da soddisfare: il Senato, il
popolo e l’esercito – e corrispose alle attese di ognuno di loro.
Il Senato. Quando divenne imperatore, Traiano inviò al Senato una
lettera scritta di suo pugno in cui prometteva di non giustiziare né
privare del suo rango nessun uomo dabbene, promessa alla quale
aggiunse dei giuramenti, allora e in seguito. E in ciò fu fedele alla parola
data, non facendo giustiziare alcun senatore. Tenne anche le mani lontane
dai loro soldi, e trattò il Senato con rispetto e dignità. Dietro le quinte
Traiano concentrò il potere nelle proprie mani, ma agì con tatto e con
tocco leggero. In un discorso in suo elogio si dice che, diversamente dal
tiranno Domiziano, Traiano rispettò la libertà di espressione dei romani
anche quando lo criticavano20. Si tratta senza dubbio di un’esagerazione,
ma sicuramente l’imperatore operò in modo da stemperare il clima.
Bandì gli informatori professionali, che erano stati il terrore dell’élite
negli ultimi anni del regno di Domiziano.
Nonostante amasse paragonarsi a una divinità, Traiano sapeva essere
cordiale e disponibile. Aveva l’abitudine di far salire sul suo carro altre tre
persone, e perfino di entrare nelle case dei cittadini senza guardie del
corpo, divertendosi21. Quando alcuni amici lo accusarono di essere
troppo facilmente avvicinabile, rispose che con i cittadini comuni si
comportava come egli avrebbe voluto che gli imperatori si fossero
comportati nei suoi confronti22. A Traiano piaceva interpretare il ruolo
dell’ospite. Sappiamo, ad esempio, che invitò il consiglio imperiale nella
sua villa di campagna a nord della capitale per una serie di sessioni di
lavoro, organizzando ogni sera qualche forma di intrattenimento. Un
senatore racconta di essere rimasto affascinato dalla relativa informalità e
semplicità di quei conviti, dai momenti di recitazione o dalla
conversazione, nonché dalla bellezza del luogo23.
Il popolo. Questo è nulla in confronto all’«ospitalità» che Traiano offriva
ai poveri dell’Italia. L’imperatore estese un sistema inaugurato sotto
Nerva, con cui venivano elargiti sussidi ai bambini poveri delle città
italiane, che beneficiava probabilmente diverse centinaia di migliaia di
bambini e bambine. Il programma era complicato e limitato, ma
garantiva un aiuto significativo, e faceva risaltare lo status privilegiato
dell’Italia nel contesto dell’impero, poiché i contributi non si
estendevano alle province. Altre misure assistenziali riguardarono
l’ampliamento del sistema di distribuzione di cereali e di generosi
donativi in denaro ricavati dai bottini di guerra. Dopo aver rimpinguato
il Tesoro con i beni saccheggiati durante le conquiste straniere, Traiano
ridusse anche le tasse e finanziò lautamente i giochi e le corse. Come
osservò uno scrittore antico, sapeva che al popolo romano interessavano
solo due cose: «le distribuzioni di grano e gli spettacoli»24. Un commento
di tono non molto diverso dalle dolenti riflessioni dei poeti su «panem et
circenses»25 o dall’osservazione di un oratore secondo cui il popolo
voleva soltanto pane in abbondanza e un posto alle corse dei carri26.
L’esercito. Traiano aveva una passione per la vita militare. Amava quello
che un contemporaneo chiamava gli «accampamenti», i «corni», le
«trombe», il «sudore», la «polvere» e il «sole»27. Era un elegante uomo
d’armi della vecchia scuola, ma più saggio e dai modi più gentili28.
Si prendeva grande cura dei suoi soldati, che parlavano di lui come del
«mio eccellente e più fedele commilitone»29. Emanò norme speciali per
facilitare i testamenti dei soldati e fondò colonie per i veterani lungo le
frontiere del Reno e del Danubio e nell’Africa settentrionale. Prese parte
personalmente alle operazioni militari e dedicò attenzioni speciali ai
soldati. Mangiava alla mensa con loro, condivideva le asprezze della vita
militare marciando a piedi e guadando i fiumi assieme alla truppa30.
Quando nel corso di una delle battaglie vennero a mancare le bende, si
dice che fece a strisce i suoi vestiti per far fronte alle necessità del
momento31. Onorò i soldati caduti erigendo un altare e celebrando una
cerimonia annuale.
Come Augusto, Traiano aveva un dono per la scelta degli amici. Fu
intimo di Licinio Sura, che fu il suo Agrippa. Come Traiano, Sura
proveniva dalla Hispania. Uomo di Stato e comandante militare di primo
piano sotto Domiziano, aveva appoggiato l’ascesa di Traiano al trono. In
seguito fu ricompensato con un elevato incarico e gli fu assegnata una
posizione a fianco di Traiano in tempi di guerra. Sura utilizzò la propria
ricchezza per esercitare il ruolo di patrono delle arti e costruire un
ginnasio pubblico a Roma. A quanto pare, non fece niente per
nascondere la sua stretta amicizia con l’imperatore, che fu motivo di
gelosie e maldicenze.
Per dimostrare il proprio sostegno a Sura, Traiano si recò presso la sua
abitazione senza essere stato invitato, e vi rimase dopo aver congedato le
guardie del corpo. Permise che il medico di Sura gli applicasse un
unguento agli occhi e consentì al suo barbiere di raderlo, prima di fare un
bagno e mettersi a cena. Il giorno seguente, Traiano si rivolse con queste
parole ai gelosi cortigiani: «Se Sura avesse voluto uccidermi, lo avrebbe
fatto ieri!»32. Dopo la morte di Sura, avvenuta intorno al 108, Traiano gli
conferì onori eccezionali: un funerale di Stato, una statua e delle terme a
lui intitolate.
Il nuovo imperatore non era un intellettuale, ma non difettava di
intelligenza. Fra le sue passioni c’erano il vino e i giovinetti, ma reggeva
l’alcol e non si impose a nessun amante. Sappiamo di diverse storie con
giovani paggi imperiali, con un attore e con un danzatore, e perfino,
stando ai pettegolezzi, con Nerva e con Sura. Altre due sue passioni
erano la vanità e la guerra, e in queste non fu altrettanto moderato.

LE DONNE IMPERIALI DI TRAIANO


Traiano presentò la propria famiglia come la Prima Famiglia, secondo lo
stile romano. Come Vespasiano e Nerva, salì al trono senza poter vantare
legami di sangue con un precedente imperatore. Dovette così darsi molto
da fare per apparire legittimato a rivestire la carica. Uno dei sistemi che
utilizzò fu quello di presentare la propria famiglia come il modello di un
ritorno all’antico ideale romano di semplicità e di obbedienza. Certo,
anche i Flavi avevano parlato di una restaurazione dei valori familiari
dopo i baccanali di Nerone, ma avevano portato sulla scena Cenide,
Berenice e Domizia. Nerva era vedovo. Finalmente, con Traiano Roma
avrebbe visto restaurare la virtù all’interno della casa imperiale.
Quando nel 98 salì al trono, Traiano non aveva figli, ma la sua era
comunque una grande famiglia. Sebbene egli desse l’impressione di
incarnare la virilità romana, il suo palazzo era un luogo femminile: lo
divideva con sua moglie Pompeia Plotina, sua sorella Ulpia Marciana e la
figlia di lei Salonia Matidia (entrambe vedove), nonché con le figlie di
quest’ultima, Mindia Matidia e Vibia Sabina. Desiderava che il mondo le
vedesse come virtuose, servizievoli e obbedienti. E i propagandisti
imperiali si dettero da fare per promuovere questa immagine.
L’arte ufficiale ritraeva le donne di Traiano con tratti regali e austeri.
Tutte appaiono con una capigliatura ben acconciata ma non rigogliosa, la
bocca rivolta all’ingiù e lo sguardo quieto. I busti di Plotina la presentano
come una donna calma, di nobili tratti, con i capelli acconciati
impeccabilmente. Marciana appare rigida e imperiosa, con i capelli
accuratamente intrecciati e raccolti in una stretta crocchia. Non ostenta i
ricchi virtuosismi di riccioli dei ritratti delle donne flavie, come
Domizia. Anche i ritratti presenti sulle monete mostrano la stessa simile
moderazione. Plotina vi appare con i simboli della famiglia, della casa e
della Castità – una dea, quest’ultima, alla quale essa fece erigere un altare.
Marciana è ritratta con la figlia e due nipotine. I vari busti di Salonia
Matidia ci restituiscono una donna maestosa e dall’aspetto
imperturbabile, col naso aquilino e lo sguardo inquisitorio. Il volto lungo
e quasi mascolino ricorda quello di suo zio Traiano, effetto forse
volutamente ricercato dall’artista.
La narrazione ufficiale viene formulata in modo ancora più attento. Nel
100 un console di fresca nomina chiamato Gaio Plinio Cecilio Secondo,
noto come Plinio il Giovane, pronunciò un discorso in lode di Traiano al
Senato, che poi pubblicò. Il Panegirico, questo il titolo, è prodigo di lodi,
e il successo che in seguito coronò la carriera del suo autore è un segno
dell’approvazione che riscosse dall’imperatore. Oltre a partecipare al
consiglio di Traiano e ad essere eletto fra gli àuguri, che erano funzionari
religiosi, Plinio venne nominato governatore dell’importante provincia
della Bitinia e del Ponto (l’attuale Turchia nord-occidentale).
Nel suo discorso, Plinio cita esplicitamente le donne della famiglia di
Traiano. E precisa che molti uomini prestigiosi sono stati messi in
imbarazzo da una pessima scelta della moglie o dalla debolezza che li ha
indotti ad evitare il divorzio per la convinzione della gente che un cattivo
marito non possa essere un buon cittadino. Ma la moglie di Traiano è un
modello di castità e un prototipo delle antiche virtù romane. Plotina è
modesta, moderata e fedele al marito. Come Traiano, preferisce stare in
silenzio piuttosto che attirare l’attenzione su di sé e segue l’esempio del
marito nello spostarsi a piedi, «per quanto lo comporta il sesso»33. E
soprattutto, si accontenta di ricercare una gloria non maggiore della
propria obbedienza. Tutto ciò, dice Plinio, va ad onore del modo con
cui Traiano l’ha allevata.
Plinio loda anche Marciana, in quanto è una buona sorella e si comporta
con lo stesso candore e la stessa semplicità di Traiano. Rilevando
maliziosamente che fra donne che vivono a stretto contatto può insorgere
rivalità, elogia poi le due signore imperiali per aver convissuto senza
rancori né disaccordi34. E plaude alla modestia che hanno dimostrato nel
rifiutare quel titolo di Augusta che il Senato aveva auspicato di
riconoscere loro. Declinare una tale offerta era un ulteriore modo per
segnare una netta differenza con Domizia e il precedente regime.
L’arte ufficiale elabora un’analoga scena di armonia fra le due cognate
della corte imperiale. I nomi di Marciana e di Plotina, ad esempio,
vengono inscritti su un arco eretto nel nuovo porto fatto costruire da
Traiano ad Ancona, il cui vertice era forse decorato con statue delle due
donne a fianco di quella dell’imperatore. La realtà, com’è ovvio, era
probabilmente più complessa.
Non c’è affatto da credere che Plotina, Marciana e Matidia fossero così
obbedienti e riservate come Plinio o l’arte ufficiale tendono a far pensare.
Così come nelle Res gestae Augusto dipingeva falsamente il proprio
regime come un’associazione esclusivamente maschile, così l’arte e la
letteratura ufficiale del periodo traianeo tendono a mettere in ombra il
ruolo delle donne imperiali. Ognuna di esse possedeva ricche proprietà
con numerosi schiavi e liberti. Quelle di Plotina erano probabilmente le
più consistenti, e comprendevano una tenuta nell’Italia centrale nella
quale era attiva una fiorente fornace di mattoni – gestita per giunta da una
donna! Fra i suoi liberti c’erano funzionari della burocrazia imperiale.
Oltre a disporre di risorse finanziarie in proprio, le donne imperiali di
Traiano godevano di un notevole prestigio. Ognuna di esse alla fine
ottenne il titolo di Augusta: Plotina e Marciana nel 105, Matidia nel 112.
Difficile pensare che non esercitassero potere e influenza, e infatti le fonti
lo confermano. Plotina era una persona colta, con interessi letterari e
filosofici, e forse anche musicali e matematici35. Scrittori ambiziosi si
davano da fare perché lei leggesse le loro opere36, e s’interessò
personalmente di una scuola filosofica ad Atene37.
In alcune fonti antiche si afferma che Plotina intervenne anche in
campo politico. Sebbene alcuni studiosi respingano tali informazioni
ritenendole frutto di pettegolezzi, Plotina non fece niente che le mogli
degli imperatori precedenti non avessero fatto. Fece, ad esempio,
pressioni sui senatori e su Traiano stesso per conto della comunità ebraica
di Alessandria, che in quel periodo si contrapponeva a quella greca
esistente in città. Accompagnò il marito in occasione di importanti
missioni all’estero, anche in tempo di guerra, sebbene naturalmente
rimanesse lontana dal fronte. Rimproverò Traiano per l’opera di
amministratori corrotti, che estorcevano denaro dalle province
formulando accuse false, avvertendo il marito che essi stavano mettendo a
repentaglio la sua stessa reputazione, tanto che l’imperatore pose fine a
quegli abusi e restituì le somme di cui quei funzionari si erano
impossessati. In seguito, Traiano affermò che il Tesoro era come la milza,
perché quando si ingrossava, finiva per danneggiare gli altri organi38.
L’aspetto più notevole, come vedremo, è che Plotina svolse un ruolo
importante nella scelta del successore del marito.
È possibile scorgere un riferimento al ruolo attivo svolto da Plotina
nell’opera di Dione Crisostomo, politico e oratore greco dell’epoca (nato
intorno al 40 e morto in data imprecisata dopo il 115), che scrisse una
serie di orazioni riunite sotto il titolo Sul regno, la terza delle quali fu forse
pronunciata nel 104 alla presenza di Traiano. Fra i due vi erano rapporti
cordiali, almeno stando a una storia che faceva riferimento al greco
intelligente e all’imperatore dai modi schietti, secondo cui Traiano disse a
Dione: «Non so cosa dici, ma ti amo come me stesso»39. In una delle sue
orazioni Sul regno, Dione afferma in modo adulatorio che un buon re
guarda a sua moglie «non solo come compagna del suo letto e dei suoi
affetti, ma anche come compagna nel consiglio e nell’azione, e di fatto in
tutta la sua vita»40. Se con ciò intendeva riferirsi a Plotina, Dione le
attribuisce un ruolo assai più rilevante di quanto non faccia Plinio. In
ogni caso, offre un contrappunto all’immagine tramandataci da
quest’ultimo, quella cioè di una donna silenziosa e ubbidiente.
Le successive generazioni guardarono a Plotina con atteggiamento
affettuoso. Perfino uno scrittore antico che talvolta si mostra critico con
lei ritiene che il comportamento che tenne durante il regno di Traiano
fosse irreprensibile41.
Quando nel 112 sua sorella Marciana morì, Traiano chiese al Senato di
elevarla al rango di divinità, ottenendone il consenso. Prima di allora
nessuna sorella di un imperatore aveva ricevuto un simile onore. Era un
ulteriore modo per legittimare il governo traianeo, ampliando
potenzialmente la base del suo consenso. E gli permetteva di estendere il
suo controllo alle donne dell’impero, come testimonia il sepolcro di una
ricca signora italiana.
L’elaborato cippo funerario di Cetrania Severina fu collocato in una
cittadina collinare a circa trecento chilometri da Roma. La donna era
vissuta a Sarsina nel II secolo, ed era una sacerdotessa del culto della diva
Marciana. Ai suoi giorni, le donne romane non avevano il diritto di
votare né di esercitare cariche politiche, ma potevano svolgere le funzioni
di sacerdotesse; e ricoprendo un ruolo di vertice nel culto imperiale,
Cetrania ottenne uno degli incarichi sacerdotali più elevati. Suo marito,
che le sopravvisse ed eresse il monumento sepolcrale, si riferisce a lei
come a una moglie «sanctissima»42, utilizzando lo stesso termine che
Plinio il Giovane aveva usato in una lettera per descrivere Plotina. La
circostanza fa pensare a un provinciale che tenti di mostrare che ce l’ha
fatta imitando l’élite.
Cetrania visse in un periodo in cui una donna non poteva gestire i
propri possessi, e come Plotina le sacerdotesse avevano vaste proprietà.
Decise così di istituire una sorta di fondazione di cui una dettagliata
iscrizione lapidea ricorda i termini. In cambio di una considerevole
donazione annua di olio in occasione della ricorrenza della sua data di
nascita, le principali organizzazioni collegiali artigiane cittadine
avrebbero celebrato riti annuali in sua memoria. Cetrania si affidava alla
buona fede (fides) dei responsabili delle corporazioni, ritenendo che
avrebbero mantenuto l’impegno loro spettante. La stessa parola può
essere evocata per riassumere i vincoli di fedeltà che tenevano unite le
élites attorno all’impero. Onorando la memoria della sorella
dell’imperatore Traiano, un’importante signora locale manifestava la
perdurante fedeltà a Roma della propria città. E dimostrava con ciò anche
l’importante ruolo che una donna poteva svolgere nell’assicurare la
solidità dell’impero.

L’UOMO CHE AVREBBE VOLUTO ESSERE ERCOLE


Quando si trattava della sua immagine pubblica, Traiano non si poneva
limiti. Presentava sé stesso quasi come un semidio, rappresentante degli
dèi in terra. Affermava di avere una missione divina, consistente nel
condurre il mondo romano alla vittoria, alla virtù e alla benevolenza. Per
quanto arrogante tutto ciò possa sembrare, si trattava pur sempre di un
progresso rispetto alla pretesa di Domiziano di essere «signore e dio».
Assumendo questo atteggiamento, infatti, Traiano abbracciava il ruolo al
quale invano i filosofi avevano tentato di indurre i primi imperatori:
quello di sovrani moderati. Diversamente da Domiziano o da Vespasiano,
Traiano non espulse i filosofi da Roma. Anzi, come prima di lui aveva
fatto Nerva, strinse con loro legami di amicizia.
Fra le divinità, i due punti di riferimento ai quali Traiano si ispirava
erano Ercole, il più grande eroe dell’antichità, e Giove, re degli dèi e
padre del genere umano. Diversamente da Domiziano, che era devoto
alla dea Minerva, Traiano rivolse scarsa attenzione a questa divinità. Ciò
gli consentì di marcare la propria diversità dal suo predecessore e di
presentarsi come un uomo gradito agli altri uomini.
Nei miti antichi Ercole compare a volte come una canaglia o un
prepotente, ma nella maggior parte dei casi è un simbolo di virtù: una
persona virile e coraggiosa che lavora altruisticamente e senza paura per il
bene comune. È in questa luce che lo vedevano molti filosofi
dell’antichità. Anche i romani si entusiasmavano per questa immagine, e
Traiano più di ogni altro. Secondo la mitologia romana Ercole arrivò a
Roma durante il viaggio che lo riportava in Grecia dalla Hispania, dove
aveva portato a compimento la sua decima fatica su un’isola al largo delle
coste. Traiano, nativo spagnolo e soldato lui stesso, si paragonava all’eroe.
Nella sua città natale43 Ercole era popolare, e spesso l’imperatore faceva
raffigurare il semidio sulle sue monete44. Una nuova legione, la Traiana
Fortis, adottò Ercole come proprio simbolo. Plinio il Giovane scrive che
Traiano, come Ercole, era stato chiamato dalla Hispania a compiere
intrepide imprese al servizio di un uomo meno coraggioso di lui, un re –
nel caso di Traiano, Domiziano45. E paragona il robusto fisico di Traiano
a quello del figlio di un dio.
Giove, per i romani, era il re degli dèi: lo chiamavano l’Ottimo
Massimo (optimus maximus). Traiano adottò un analogo status, come
testimoniano le arti e la letteratura.
Nel Panegirico, risalente al 100 circa, Plinio il Giovane elogia
l’imperatore per la sua capacità di dispensare giustizia con tranquilla
razionalità, come un dio. Poi lo paragona a Giove46. Il padre del mondo
non è più costretto a preoccuparsi delle questioni terrene, poiché ha
conferito a Traiano il potere di rappresentarlo di fronte a tutto il genere
umano. Un bassorilievo scolpito sull’arco di Traiano, a Benevento,
trasmette proprio questo messaggio. Vi è ritratto Giove mentre dona la
sua folgore a Traiano, come a significare che l’imperatore
governava  l’impero per autorità divina e con un potere di natura quasi
olimpica. Nel frattempo, le monete gli riconoscevano il rango di optimus
princeps47.
Sebbene all’inizio Traiano non accettasse il titolo di optimus, quando si
trattava di presentare sé stesso, Giove ed Ercole erano i suoi punti di
riferimento. Lo stesso si può dire di un terzo simbolo di potere,
Alessandro Magno. Il famoso conquistatore faceva risalire le sue origini
proprio ad Ercole, e affermava che suo padre altri non era che Giove
stesso. Traiano si paragonava ad Alessandro e affermava che mirava ad
emularne le conquiste. È difficile dire quanto fosse sincero nell’ispirarsi a
un tale modello, o se puntasse semplicemente a blandire i greci
ossequiando il loro famoso antenato.

TRAIANO E I CRISTIANI
Plinio il Giovane resse la carica di governatore della ricca e popolosa
provincia della Bitinia e del Ponto in Asia Minore dal 110 al 113. In
seguito pubblicò la corrispondenza che tenne con Traiano in quel
periodo. Il carteggio illustra quale fosse il grado di decentramento
dell’amministrazione romana, che consentiva una notevole libertà di
movimento ai governatori provinciali. In alcuni casi, tuttavia,
l’imperatore doveva intervenire in prima persona. Prendiamo in esame,
in tal senso, un famoso scambio di lettere fra Plinio e Traiano in merito al
trattamento dei cristiani.
La lettera di Plinio mostra quanto fosse diffuso il cristianesimo
nell’Oriente greco. Il governatore scriveva infatti che, per la prima volta
nella sua carriera, si trovava di fronte a una vasta minoranza cristiana,
presente sia nelle città sia nelle zone rurali, composta da giovani come da
vecchi, da uomini e donne, liberi e schiavi. Dopo aver ricevuto una serie
di denunce, alcune delle quali anonime, si trovò costretto a compiere
delle indagini. La popolazione romana, in larga maggioranza pagana, e da
molto tempo animata dal sospetto che i cristiani fossero dei criminali, era
irritata, e a Plinio, in quanto governatore, spettava il compito di riportare
la calma. Ma che cosa si presupponeva che dovesse fare? A Roma il
governo riteneva i cristiani sospetti, ma non aveva una politica generale
nei loro confronti e lasciava che la questione venisse affrontata dalle
singole autorità locali.
Per Roma, i cristiani erano pericolosi per molti aspetti. I romani
pensavano che la propria religione – onorata dal tempo, abbracciata dallo
Stato e celebrata in pubblico – fosse il fondamento stesso della loro
civiltà. Prendendo parte a feste e rituali sacrificali, ogni persona
contribuiva a far ottenere a Roma sicurezza e prosperità. I cristiani
ruppero le regole. Non veneravano le divinità tradizionali e non
offrivano sacrifici all’imperatore, atteggiamenti questi che li rendevano
atei agli occhi della gente. Un uomo non timorato degli dèi era non solo
un potenziale criminale, ma anche una minaccia per la struttura stessa
della società: una persona che poteva far arrabbiare gli dèi a danno
dell’intera comunità.
I cristiani potevano poi apparire anche troppo religiosi, ovvero colpevoli
di una paura irragionevole ed eccessiva nei confronti della divinità,
atteggiamento che i romani bollavano come superstizione. Anche sugli
ebrei gravava l’accusa di ateismo, ma i romani li tolleravano in virtù
dell’antichità della loro religione. Il cristianesimo, invece, era
relativamente nuovo, e Roma guardava sempre con sospetto le novità.
L’espressione latina per indicare una rivoluzione era res novae (cose
nuove).
A quell’epoca, poi, i cristiani si riunivano in associazioni private, e la
storia romana insegnava che, laddove esisteva un’associazione, si annidava
la sedizione. E infatti, seguendo le istruzioni ricevute da Traiano, Plinio
aveva bandito le confraternite religiose dalla propria provincia.
Tutto ciò era vero, e tuttavia era anche vero che in generale i cristiani
mantenevano la pace e badavano ai propri affari. Plinio, quindi,
procedette con cautela. Spiegò che interrogava i cristiani accusati almeno
tre volte. Se provavano la loro innocenza denunciando Cristo e
venerando una statua dell’imperatore con preghiere, incenso e vino, li
metteva in libertà. Se si rifiutavano di farlo, li giustiziava. Come spiegò,
cristiani o no, essi meritavano comunque di essere puniti per
l’ostinazione e l’arroganza mostrata.
Dalla lettera emerge che la classe e il livello sociale avevano il loro peso.
Se i cristiani che si ostinavano a rimanere tali erano cittadini romani,
Plinio non li faceva uccidere, ma firmava un ordine per trasferirli a
Roma, poiché, essendo appunto cittadini, avevano diritto a un processo
celebrato nella capitale. Gli schiavi, ovviamente, si collocavano all’altra
estremità della scala sociale. Plinio spiegava che per poter scoprire cosa
realmente avvenisse nelle riunioni dei cristiani aveva torturato due
schiave «che venivano dette diaconesse»48. Non credeva a quanto i
cristiani sostenevano in loro difesa: che cioè si limitassero a cantare inni e
pronunciare giuramenti di onestà e sincerità e di astensione dal furto o
dall’adulterio, per poi semplicemente condividere un pasto. Si aspettava
di scoprire una cospirazione finalizzata a commettere un reato, e trovò
invece semplicemente una «superstizione irragionevole, smisurata»49.
Naturalmente, Plinio si sbagliava. La cortesia, la socievolezza e il sostegno
reciproco che accompagnavano i riti cristiani contribuirono
potentemente al successo della nuova religione.
Plinio scrisse all’imperatore, come faceva ogni volta che aveva dubbi su
qualcosa. Si era comportato adeguatamente nei confronti dei cristiani?
Nel rispondergli, Traiano lo elogiò per essersi mosso esattamente come
doveva. L’imperatore auspicava una politica difensiva, piuttosto che
aggressiva. Non era opportuno andare a scovare i cristiani, ma quelli
soggetti ad accuse dovevano essere messi alla prova uno per uno. Ogni
caso faceva storia a sé, non esistevano modelli rigidi. Perfino a coloro di
cui si dimostrava la colpevolezza si sarebbe dovuta offrire l’opportunità di
pentirsi «sacrificando ai nostri dèi»50, in modo da ottenere il perdono.
Infine, le accuse dovevano essere firmate. Non c’era spazio per denunce
anonime. Erano un cattivo precedente, e «non degno del nostro
tempo»51.
Secondo i nostri criteri attuali, sotto Plinio e Traiano i romani si
comportarono da persecutori. Se guardiamo alle norme romane, però,
essi si mostrarono duri, ma umani. Traiano preparò un terreno
intermedio per il futuro trattamento dei cristiani. Senza volerlo, dette al
cristianesimo la libertà di crescere.

LA CONQUISTA DELLA DACIA


Traiano trascorse quasi la metà del suo regno fuori da Roma, impegnato
in campagne militari. Considerando il suo amore per la guerra,
sicuramente non ebbe a lamentarsene. Il suo grande successo lo ottenne
in Dacia (che corrisponde molto approssimativamente all’odierna
Romania).
Durante tutto il corso della sua storia, Roma guardò sempre con
preoccupazione all’insorgere di potenziali minacce. La Dacia, governata
da un re deciso e bellicoso, aveva costretto Domiziano ad accettare un
compromesso. Le fonti parlano del suo re Decebalo come di uno scaltro
guerriero, esperto in imboscate quanto in feroci battaglie campali,
maestro nella scelta dei tempi e astuto amministratore tanto della vittoria
quanto della sconfitta52. Decebalo era indipendente e ricco, e stava
costruendo una rete di alleati antiromani. Con questa sua iniziativa,
violava l’accordo che aveva raggiunto con Domiziano. Da parte sua,
Traiano era a sua volta un guerriero. E decise di attaccare.
I romani invasero la Dacia nel 101, guidati da Traiano. Si trattò di una
spedizione imponente, che coinvolse forse un terzo dell’esercito romano.
La guerra richiese aspri combattimenti, opere ingegneristiche non
comuni e prodigiosi espedienti di comunicazione e diplomazia. Un anno
più tardi, dopo che i romani avevano distrutto i villaggi della Dacia e
sconfitto il nemico in battaglia, Decebalo accettò la pace. Sperando di
poter controllare la situazione, Traiano gli concesse di rimanere sul
trono, poi rientrò a Roma, dove celebrò un trionfo e ricevette il titolo di
Dacico.
Ma quella gioia era prematura, poiché ben presto il re Decebalo si
sollevò nuovamente. Traiano, quindi, invase per una seconda volta la
Dacia nel 105, stavolta reclutando due nuove legioni. Duri scontri in
montagna precedettero la conquista della capitale di Decebalo. Il re fuggì,
e quando vide che ormai la cattura era inevitabile si suicidò. La sua testa
venne portata a Traiano, che a sua volta la fece mostrare all’esercito e la
mandò a Roma, dove venne gettata giù dal Campidoglio.
Sebbene Traiano, diplomaticamente, inviasse regolari rapporti al Senato
dal campo di battaglia, come avrebbe fatto un generale dell’età
repubblicana, guardava alla guerra che durò per un anno come a un
possibile grandioso e glorioso successo personale. Nelle fonti rimangono
pochi particolari, ma Dione riassume il conflitto affermando che Traiano
vinse «dimostrando molte doti strategiche e dando prove di valore;
altrettanto valorosi si mostrarono i soldati, affrontando i pericoli e dando
anch’essi prova di coraggio»53.
In un bassorilievo l’imperatore è ritratto come forse lui stesso avrebbe
gradito vedersi: a cavallo nel pieno della battaglia, con indosso
un’armatura completa e il manto gonfiato dal vento, mentre cavalca con
ardimento verso i nemici che combattono a piedi54. Nella vita reale, le
guardie di Traiano lo avrebbero certo protetto, ma l’immagine di uno
splendido combattimento è ciò che si sarebbe ricordato di quella guerra.
Mentre Domiziano aveva dovuto accettare un compromesso con la
Dacia, Traiano la conquistò, annientò la sua classe dirigente e la aprì alla
colonizzazione dei veterani romani. La distruzione dell’élite locale fu
talmente completa che sebbene la Dacia sia rimasta una provincia romana
per soli duecento anni, oggi i romeni parlano una lingua derivata dal
latino.
La Dacia era un paese ricco, e la guerra fruttò a Roma enormi proventi.
Traiano trovò il tesoro nascosto di Decebalo: qualcosa come 160
tonnellate d’oro e 330 tonnellate d’argento. Era uno dei più ricchi tesori
dell’antichità, e non sarebbe finita lì, perché nel paese c’erano anche
miniere auree che Roma avrebbe potuto sfruttare.
Traiano scrisse Dacica, una narrazione delle guerre dacie. Ne rimane
una sola frase, concisa come quelle di Cesare: «Da Berzobim,
proseguimmo quindi per Azi»55. Ma da queste poche parole non traspare
un egocentrismo analogo a quello di Cesare. Mentre questi nei suoi
scritti parla di sé stesso in terza persona, Traiano usa il «noi»,
trasmettendo un senso di cameratismo con i suoi soldati. Da prodigo
impresario qual era, forse Cesare avrebbe però approvato i giochi della
vittoria che Traiano organizzò a Roma. Fu un evento che si prolungò per
123 giorni, durante i quali lottarono diecimila gladiatori e furono uccisi
undicimila animali, sia selvatici sia addomesticati.
Traiano assomigliava a Cesare anche da un altro punto di vista, poiché
era il più grande conquistatore che reggeva Roma dai tempi del dittatore.
Né Augusto, che conquistò l’Egitto, né Claudio, che aveva conquistato
la Britannia, erano dei guerrieri. Tiberio e Vespasiano erano stati dei
grandi soldati, ma solo prima di diventare imperatori. Nonostante il gran
parlare di espansione dell’impero, la maggior parte degli imperatori
ritenne in realtà che puntare su questo obiettivo fosse troppo costoso e
destabilizzante. Traiano fu un’eccezione.
Diversamente da Cesare, per fortuna, sapeva come tenere a freno la
propria arroganza e come ammorbidire il Senato. Seppe poi conquistarsi
ulteriori favori spendendo il tesoro che aveva conquistato per conto del
popolo romano.

IL COSTRUTTORE
Traiano fu un grande costruttore – per certi aspetti il più grande di tutti
gli imperatori. Un suo successore, Costantino, lo definì «un rampicante
che cresce sui muri»56, a causa del fatto che il suo nome compariva su un
gran numero di edifici. Era in parte una frecciata a Traiano, come a dire
che acquistava credito grazie ai progetti cominciati dai suoi predecessori
– una critica sensata, ma superata dall’imponenza dei nuovi lavori da lui
realizzati. Traiano finanziò opere ingegneristiche come un grande ponte
sul Danubio (nell’odierno territorio romeno) da utilizzare per attaccare la
Dacia, con una carreggiata in legno sostenuta da venti piloni in muratura.
Ridusse i tempi di viaggio sulla via Appia tracciando una nuova strada
nell’Italia meridionale, la via Traiana. Costruì nuovi porti per diverse
città italiane, fra cui la stessa Roma. I suoi progetti più famosi furono
realizzati nella capitale: la colonna Traiana, una sorta di grattacielo
dell’epoca, con i suoi oltre 40 metri di altezza, decorata con un
innovativo rilievo a spirale in cui è illustrata la conquista della Dacia; le
terme di Traiano, il primo dei grandi complessi termali imperiali,
destinato a diventare il modello di quelli successivi; il Foro di Traiano,
comprendente una basilica, il più vasto e ambizioso dei fori imperiali.
Quest’ultimo fu finanziato con i bottini di guerra provenienti dalla
Dacia57, e ciò conferì al vincitore Traiano dei privilegi da far valere.
Come Augusto, Traiano aumentò la presenza di marmo a Roma, ad
esempio nelle pavimentazioni e nelle colonne. Ma nel periodo traianeo,
il più importante materiale da costruzione nella capitale erano i mattoni,
seguiti dal calcestruzzo. L’edilizia costituiva un grande affare, fonte di
ricchezza per alcuni e di occupazione per il 4-6% della popolazione
romana negli anni di maggiore attività dei primi due secoli dell’era
cristiana.
Nel campo delle costruzioni il maggiore collaboratore di Traiano fu
Apollodoro di Damasco. Come indicano il suo nome e il suo luogo di
nascita, l’ingegnere militare Apollodoro era un greco. Fu lui a costruire il
ponte sul Danubio, e scrisse un libro su come condurre un assedio. La
sua fama è però legata soprattutto al Foro di Traiano. È possibile che
anche le terme fossero opera sua.
Il Foro di Traiano abbandonò la consueta sistemazione che prevedeva
un tempio collocato nella piazza, per adottare una pianta quasi quadrata,
forse con un richiamo al campo militare. Segnò un’insolita
combinazione tra una vasta piazza aperta in stile greco e un edificio
coperto romano o basilica. Vi si possono trovare anche elementi
architettonici provenienti dal Vicino Oriente. La varietà delle forme
richiamava simbolicamente le immense dimensioni dell’impero, e lo
stesso vale per la presenza di colonne di marmo di vari colori e graniti
provenienti da Oriente come da Occidente. Analoghe considerazioni
valgono per le dimensioni del progetto: la sola piazza aperta, ad esempio,
occupava un rettangolo di circa 120 metri per 90, ed era lussuosamente
pavimentata con marmo bianco. Le statue dei prigionieri daci erano
disposte lungo i tetti, facendo del Foro una sorta di mausoleo della
vittoria. Avevano l’utile funzione di simboleggiare il successo di Traiano,
il potere di Roma, e l’onnipresente minaccia dei nemici stranieri; meglio
che la gente pensasse a questo che ai problemi interni. Dei porticati e due
biblioteche fiancheggiavano la colonna Traiana, mentre all’estremità
settentrionale del Foro si ergeva una maestosa basilica.
I progetti edilizi traianei erano delicati quanto Ercole che spacca in due
con una clava una montagna, come il mito narra che fece per creare lo
stretto di Gibilterra, chiamato appunto nell’antichità le Colonne
d’Ercole. Gli ingegneri di Traiano tagliarono un pezzo di montagna per
far avvicinare al mare una strada nei pressi di Roma. Nel frattempo,
demolirono una parte del Colle del Quirinale per poter costruire il Foro
di Traiano, e poi dovettero costruire una nuova struttura a più piani (gli
odierni Mercati Traianei, un complesso di negozi e uffici) per sostenerne
la parte restante58. Per costruire le sue terme, Traiano ricoprì l’unica parte
residua della Domus Aurea di Nerone, un’ala sull’Esquilino, e gettò i
muri portanti del nuovo edificio negli splendidi saloni di un tempo. Era
un messaggio dispendioso ma eloquente. Non solo Traiano era
abbastanza ricco da sotterrare un edificio in perfetto stato, ma anche
abbastanza altruista da negare a sé stesso un palazzo magnifico,
dedicandone invece lo spazio al popolo romano.
I progetti di Traiano ne promossero l’immagine. Portavano tutti il suo
nome, compreso il nuovo acquedotto che doveva soddisfare l’accresciuto
fabbisogno idrico di Roma dovuto alle sue terme: l’Aqua Traiana. I
romani entravano nel Foro di Traiano attraversando un ingresso
monumentale che era probabilmente sormontato da una statua
raffigurante l’imperatore su un carro a sei cavalli. All’interno del
complesso si ergeva una statua di Traiano a cavallo, e altre sue statue erano
collocate ad ogni angolo. La colonna Traiana, poi, narrava la storia della
conquista della Dacia mediante un fregio scolpito in 155 scene, che la
risaliva avvolgendosi su di essa come un gigantesco rotolo. L’imperatore
vi compare più di sessanta volte. Ma niente poté promuovere la figura di
Traiano in modo più esplicito dell’imponente tempio che si ergeva
all’estremità del complesso architettonico. Con ogni probabilità, Traiano
rinunciò a imporre il proprio nome all’edificio poiché i romani non
avrebbero tollerato che un imperatore ancora in vita erigesse un tempio
alla propria divinità. Tuttavia, era esattamente questo che stava facendo.
Dopo la sua morte il tempio sarebbe stato consacrato con la
denominazione di Tempio del Divo Traiano e avrebbe ospitato al suo
interno una colossale statua dell’imperatore seduto al modo di Zeus
Olimpio o Giove. Nel suo complesso, il Foro costituiva un gigantesco
progetto propagandistico del potere di Roma e della gloria
dell’imperatore.

LA NEMESI IN ORIENTE
Più o meno nello stesso periodo nel quale era impegnata nella conquista
della Dacia, Roma si annetté il territorio dell’Arabia (corrispondente
approssimativamente alle odierne zone della Giordania, della penisola del
Sinai e della penisola arabica nord-occidentale). Con l’annessione di
queste due nuove province, l’impero romano raggiunse la sua massima
estensione. Ma Traiano voleva ancora di più.
Forse perché desiderava emulare Alessandro Magno, che aveva
conquistato l’Iran, oppure perché voleva superare Cesare e Marco
Antonio, che non erano riusciti a fare altrettanto, oppure semplicemente
perché non scorgeva all’orizzonte uno Stato in grado di rivaleggiare con
Roma, Traiano mosse guerra contro la Partia. Il pretesto fu un
disaccordo sull’Armenia, che per lungo tempo aveva costituito uno Stato
cuscinetto fra i due imperi. Roma pretendeva di esercitare un diritto di
veto su di essa, ma erano stati i parti a scegliere l’ultimo re armeno.
Tuttavia, quando essi fecero marcia indietro, Traiano rifiutò comunque
di accettare. Voleva la guerra per desiderio di gloria59.
Fu così che allestì una grandiosa spedizione in Oriente. Nel 114 Plotina
e Matidia lo accompagnarono nel tragitto di avvicinamento fino ad
Antiochia. Traiano e l’esercito proseguirono assumendo il controllo
dell’Armenia e conquistando poi tutta la Mesopotamia (più o meno l’Iraq
odierno) fino al Golfo Persico. I parti furono distratti dalla guerra civile.
Per certi aspetti, l’opposizione più forte con cui Traiano dovette
scontrarsi fu il terremoto che nel dicembre del 115 colpì Antiochia,
l’evento sul quale si è aperto questo capitolo. I romani dichiararono che
l’Armenia e la Mesopotamia erano due loro nuove province.
Quando raggiunse il Golfo Persico, Traiano rivolse malinconicamente
lo sguardo a Est, verso l’India e le più remote conquiste di Alessandro
Magno. Fu costretto ad ammettere di essere troppo in là con gli anni per
poter emulare il suo eroe, e disse: «Sarei certamente arrivato anche presso
gli Indiani, se fossi ancora giovane!»60. Ciò nonostante, scrisse al Senato
che era arrivato più lontano di Alessandro Magno. I senatori a loro volta
lo proclamarono Partico e affermarono che poteva celebrare un trionfo
per quante nazioni volesse, poiché aveva loro riferito un numero di
trionfi maggiore di quanti essi ne potessero seguire.
I parti, però, si radunarono nuovamente. Fomentarono una ribellione in
Mesopotamia e attaccarono le linee di rifornimento romane a nord fino
all’Armenia. Allo stesso tempo, le comunità ebraiche si sollevarono nelle
province orientali fuori dalla Giudea e in Mesopotamia. Fu una rivolta di
grandi dimensioni, originata dal malcontento per il settarismo e le tasse,
oltre che dalla volontà di sostenere i parti, e per reprimerla Traiano
dovette inviare truppe e comandanti esperti. L’imperatore riuscì a
riprendere il controllo della Mesopotamia e fece ritorno a Roma. Il
governo romano in Oriente, però, rimaneva fragile.
Mentre puntava verso nord, Traiano mirò a un’ultima vittoria cercando
di assaltare la ricca città carovaniera di Hatra (nell’Iraq settentrionale).
Prese parte di persona all’attacco condotto dalla cavalleria, che ebbe un
esito quasi fatale, come si legge in un rapporto. Sebbene si fosse tolto il
mantello purpureo per evitare di essere riconosciuto, i nemici, «vedendo
la maestosità della sua canizie e la fierezza del suo portamento,
sospettarono della sua identità, mirarono contro di lui con le frecce ed
uccisero uno dei cavalieri che lo scortavano»61. Si trattò di uno sforzo
notevole per un uomo di oltre sessant’anni, che mostra quanto
l’imperatore amasse il combattimento.
Per Roma il controllo dei nuovi territori si rivelò impossibile. Quando
Traiano raggiunse Antiochia, nel 117, aveva di fatto già perso tutte le sue
conquiste orientali. La Partia aveva ripreso il controllo dei territori
appena perduti. Per Roma la guerra fu sanguinosa, costosa e infruttuosa.
Alla fine, l’ultima sua importante conquista fu la Dacia e non la Partia.

CINQUE BUONI IMPERATORI?


Disturbati dal suo bellicismo e dal suo complesso di Giove, per noi è
difficile appassionarci a Traiano, nonostante la sua generosità e il suo
buon senso politico. E tuttavia, il suo approccio funzionava. Seguendo le
orme di Nerva, regalò all’impero cento anni di relativa pace e prosperità.
Dopo l’uccisione di Domiziano nel 96, per quasi un secolo nessun altro
imperatore sarebbe stato assassinato. Una volta morto Traiano, Roma
non combatté guerre fuori dai suoi confini per quarant’anni. Il tocco
politico di Traiano era così sicuro, il suo impegno per il benessere del
popolo dell’Italia così profondo, i suoi progetti edilizi talmente
impressionanti che si possono comprendere facilmente sia il suo titolo di
optimus sia il fascino che esercitò sulle epoche successive.
Traiano fu il secondo dei cosiddetti «cinque buoni imperatori». Oltre a
Nerva (che regnò dal 96 al 98) e allo stesso Traiano (98-117), gli altri
sono Adriano (117-138), Antonino Pio (138-161) e Marco Aurelio
(161-180). In genere si pensa che l’impero raggiunse lo zenit sotto la loro
guida.
Lo storico Edward Gibbon fece un famoso commento su quell’epoca
nella sua grande opera Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano: «Se
qualcuno fosse chiamato a individuare nella storia del mondo il periodo
nel quale la condizione del genere umano fu più felice e prospera,
citerebbe, senza esitazione alcuna, quello che si svolse dalla morte di
Domiziano all’ascesa di Commodo»62.
Sebbene questo, certamente, non sia vero oggi, Gibbon scrisse queste
parole nel 1776, e a quell’epoca l’affermazione aveva un senso. Si stima
che nel II secolo il prodotto interno lordo totale dell’impero e quello pro
capite fossero paragonabili a quelli dell’Europa del XVII secolo63. Ancor
più impressionante è il fatto che i dati relativi alla città di Roma sono
analoghi a quelli delle città dei Paesi Bassi del Seicento. Nonostante la
difficoltà di compilare statistiche attendibili per il mondo antico, su
queste stime esiste un vasto consenso fra gli studiosi.
Roma poteva godere anche di un clima favorevole. Quello che gli
studiosi di lingua inglese definiscono il «Roman Climate Optimum» –
un periodo caldo, umido e con condizioni climatiche stabili – costituiva
un tratto comune del mondo mediterraneo64. Ed era ideale anche per gli
agricoltori e per i consumatori.
L’impero aveva un’economia di mercato per beni come i cereali e la
terra. Le banche fornivano una fonte flessibile di credito. Sebbene lo
schiavismo fosse molto diffuso, era consentita l’emancipazione, e molti
schiavi riuscivano a ottenere la libertà. In quest’epoca, non solo l’impero
raggiunse la sua massima estensione geografica, ma la sua popolazione
passò da 50 a 70 milioni di persone. Fu allora che Roma conobbe il suo
più intenso boom edilizio, e vide una straordinaria fioritura della
produzione artistica. L’agricoltura, l’estrazione mineraria e le manifatture
prosperarono. La pace, le buone strade e i moderni porti dettero impulso
al commercio e alle comunicazioni.
Ciò nonostante, non tutto era rose e fiori65. I tassi di mortalità
rimanevano elevati, e la salute pubblica era carente. I romani erano afflitti
da malnutrizione e malattie. Per le donne, morire di parto era una
possibilità concreta. L’aspettativa di vita alla nascita per i membri della
classe senatoria era di trent’anni, mentre per gli altri scendeva a
venticinque. La mortalità infantile era elevatissima: circa un terzo dei
bambini moriva prima di raggiungere i ventotto mesi di età.
Quanto alla distribuzione della ricchezza, le disuguaglianze erano
notevoli. I senatori erano soltanto seicento, tutti estremamente ricchi. Si
stima che vi fossero duemila membri del ceto equestre a Roma e
trentamila nei territori imperiali, tutti ricchi. Poi c’erano altri due gruppi
facoltosi: i grandi proprietari terrieri e i consiglieri delle città, seguiti da
negozianti, commercianti, cambiavalute, artigiani, medici, insegnanti e
altri membri delle professioni, e infine da funzionari municipali di basso
grado. A parte un piccolo gruppo di salariati liberi, la maggior parte della
popolazione era composta da contadini, vale a dire da coltivatori poveri
ma liberi. Gli schiavi ammontavano forse al 15-20% della popolazione
romana. Fino al termine del III secolo in Italia non esisteva né un’imposta
progressiva né una tassa sulle proprietà. I ricchi diventavano sempre più
ricchi, con lo Stato che veniva gestito a loro vantaggio, mentre le masse
povere non avevano altra scelta che quella di inventarsi di volta in volta
qualcosa.
Gli abitanti della capitale godevano di alcuni privilegi speciali, ma ciò
nonostante a Roma spesso le condizioni erano difficili. I romani
ricevevano gratuitamente grano e olio; il vino veniva sovvenzionato. I
cittadini potevano accedere alle terme usufruendo di sconti. Al
contempo, le persone delle categorie sociali più elevate e con buoni
contatti beneficiavano delle sportulae: «omaggi» da parte dei ricchi, come i
pagamenti a favore dei clientes per le visite quotidiane ai loro patroni. I
clientes mostravano il proprio rispetto con queste visite e anche assistendo
il loro patrono in pubblico, circostanza che ne dimostrava il prestigio. I
poveri di Roma potevano assistere gratuitamente a spettacoli teatrali,
corse di carri, lotte fra gladiatori e spettacoli in cui si uccidevano animali.
Ma nella capitale c’erano problemi di sovraffollamento negli alti edifici
condominiali, che contribuivano a diffondere le malattie e aggravavano le
conseguenze degli incendi.
Roma era una città piena di energia e brulicante di gente. Aveva,
secondo le stime, circa un milione di abitanti, ed era ormai molto diversa
dalla piccola e omogenea comunità di qualche secolo prima. Non era più
un posto in cui tutti parlavano la stessa lingua e veneravano le stesse
divinità. Sebbene il latino fosse la lingua dell’amministrazione, vi si
poteva sentir parlare anche l’aramaico, il celtico, l’egiziano, il tedesco,
l’ebraico e, soprattutto, il greco.
Nel II secolo la vita cittadina fiorì in tutto l’impero. Da Londinium
(Londra) a Berytus (Beirut), le città fondate o rifondate da Roma
ottennero il loro dovuto riconoscimento. Alcune erano state in origine
colonie di veterani, altre erano campi dell’esercito che crescevano
diventando città, altre ancora luoghi naturali di mercato o centri religiosi.
La pianificazione urbanistica seguiva modelli romani, a volte contigui a
quelli locali. Un romano poteva trovarsi in un Foro dall’aspetto familiare
o nella sede di un Senato in Gallia come in Asia Minore, o a passeggiare
all’intersezione fra il cardo e il decumano di un centro urbano, con a
fianco un colonnato, e deviando leggermente poteva ritrovarsi in viuzze
tortuose, circondato da abitazioni e templi costruiti secondo lo stile
architettonico locale.
Fu una grande epoca urbana. Le ambiziose élites locali possedevano
spesso tenute di campagna, ma la loro vita gravitava attorno alle residenze
cittadine, come per le élites della capitale. Aspiravano a far parte di un
consiglio municipale, modellato sul Senato romano. Cercavano di
ottenere la cittadinanza romana, un privilegio che gli imperatori
concedevano a un numero sempre maggiore di persone di spicco delle
province.
L’epoca dei cinque buoni imperatori abbonda di testimonianze
materiali sulla vita dei romani comuni. Dai sandali allacciati di una
sacerdotessa alle semplici scarpe in cuoio di un falegname, dalle mani
callose di un cacciatore alle unghie ben curate di una dea, dal modo con
cui un poeta teneva in mano il proprio rotolo alla presa sulle redini di un
cavaliere, dall’estasi di un danzatore allo sguardo abbassato dei genitori
che piangono la perdita di un figlio, l’arte antica ci offre migliaia di
squarci sulla vita quotidiana nell’impero romano. Abbiamo bambole
infantili e ferri chirurgici, elmi e corni da caccia, specchi levigati e
ampolle di profumo, collari da schiavi e sudari, stampi per bottiglie e
punzoni per mattoni, tazze per bere e tubi idraulici, dadi da gioco e
proiettili per catapulte. Questi umili resti ci ricordano quanto poco i
monumenti dedicati alle vittorie di Traiano rivelino del mondo in cui
viveva la maggior parte dei romani.

MORTE A TRAIANOPOLI
Nel momento in cui dovette affrontare una sconfitta in Oriente, la salute
di Traiano venne meno. Un busto bronzeo che qualcuno identifica con
l’imperatore nei suoi ultimi anni ritrae un uomo dalle guance infossate, il
naso prominente, la fronte corrugata e uno sguardo che lascia trasparire
un tormento, come se presentisse la fine66. A quanto si sa, nel 117 ebbe
un colpo apoplettico, che gli provocò una parziale paralisi67. La causa era
probabilmente genetica o dovuta alle sue difficili condizioni di vita, ma
Traiano si convinse di essere stato avvelenato. Non ci sarebbe da stupirsi
che un uomo come lui, alla fine dei suoi giorni, si sentisse amareggiato,
avendo visto i propri successi in Partia appassire come dei fiori recisi.
Sebbene il suo lungo declino non si possa spiegare col veleno, non è
inconcepibile che qualcuno alla fine gli somministrasse, malfermo di
salute com’era, qualche sostanza per farlo fuori.
Plotina e Matidia convinsero Traiano a rientrare a Roma. Nessuno dei
suoi predecessori era morto fuori dall’Italia, e nessuno voleva che Traiano
fosse il primo. Così, assieme al gruppo dei suoi congiunti, salpò dal
porto di Antiochia. Dopo due o tre giorni, però, le sue condizioni erano
talmente critiche che l’imbarcazione dovette attraccare nel porto più
vicino, Selinunte, in una regione frastagliata chiamata «Cilicia Aspra»
(l’odierna costa sud-occidentale della Turchia). Uno scrittore antico la
descrive come una zona la cui «costa è stretta, e non è mai o quasi mai
piana; e oltre a ciò, è situata ai piedi dei Monti Tauri, il che consente solo
uno scarso sostentamento»68. Il principale motivo della sua fama derivava
dal fatto che fosse stata un covo di pirati. Non era un posto nel quale
andare in cerca di gloria: nessun palazzo e nessun campo di battaglia. È là
che l’8 agosto 117, a sessantatré anni, l’imperatore morì, reso invalido
dalla paralisi e, come rileva Cassio Dione, sofferente per un grave edema.
Selinunte venne ribattezzata Traianopoli. Nella città sorsero nuovi edifici
e, in particolare, un monumento a due piani e un tempio a lui dedicato,
ma non diventò mai un centro degno della grandiosa ambizione di
Traiano.
I resti dell’imperatore sarebbero stati riportati ad Antiochia per la
cremazione, per poi giungere, dopo un lungo viaggio, a Roma. Dopo
l’onore di una parata trionfale, furono collocati in un’urna alla base della
colonna Traiana. Sebbene all’interno della città di Roma le sepolture
fossero proibite, fu fatta un’eccezione per l’uomo definito dal Senato il
miglior sovrano di Roma.
Forse. O forse Traiano fu un magnifico e machiavellico anacronismo,
che garantì un governo sorprendentemente buono quando riuscì a
mettere da parte la sua vanagloria. Raro esempio di conquistatore-
imperatore, non era un intellettuale, ma in compenso eccelse in saggezza
pratica. Coniugò scaltrezza e autocontrollo. Concentrò il potere nelle sue
mani, ma rispettò la dignità dei senatori e risparmiò loro la vita. Gratificò
il popolo, non dimenticando al contempo di ricompensare le proprie
legioni. Promosse l’immagine di un patriarcato, che poté essere un
sollievo dopo le bizzarrie dei suoi predecessori, ma probabilmente sua
moglie gestì un potere notevole. Sebbene acquisisse credito per i suoi
grandiosi lavori pubblici, essi andarono al servizio del popolo, e non
semplicemente del suo ego. Promosse il commercio e le comunicazioni.
Da guerriero qual era, gettò le basi per la più grande epoca di pace e
prosperità della storia romana.
E tuttavia, quella ricchezza non era ripartita equamente. La maggior
parte degli abitanti – decine di milioni di persone – viveva in povertà,
mentre altri milioni erano schiavi e vivevano in catene. La situazione era
leggermente migliore per la popolazione libera dell’Italia e soprattutto di
Roma. La maggior parte delle persone poteva essere grata almeno per la
pace romana, considerando quanto spesso, invece, la storia del mondo
antico era sanguinaria.
Eppure, lo stesso Traiano massacrò decine di migliaia di persone in
Dacia, distruggendo la lingua e la cultura di quelle terre. Si ostinò a
muovere guerra contro i parti in Oriente, andando incontro a un
completo fallimento. E poi ci fu la questione della successione.
La filosofia di governo di Traiano era che Roma potesse avere tutto.
Egli poteva espandere l’impero, promuovere una frenetica attività edilizia
e di miglioramento delle infrastrutture, dare avvio a un nuovo
programma assistenziale in Italia e soddisfare il Senato, il popolo e
l’esercito allo stesso tempo. E Roma poteva permettersi tutto questo
senza rovinare il bilancio o esaurirne le risorse. Il suo successore avrebbe
rimesso in discussione queste conclusioni.
Ma chi sarebbe stato al governo dopo di lui? Trovare una soluzione al
problema era di estrema importanza. Traiano non l’aveva fatto, anche se
aveva preso alcune decisioni in tal senso. Alla fine, sistemò le cose sul
letto di morte. Oppure lo aveva fatto? L’incertezza su come fossero
andate veramente le cose contribuì a generare la violenza che avrebbe
afflitto fin dall’inizio il successivo regno – quello di un altro romano di
origine spagnola, lontano cugino di Traiano, di nome Adriano.
 
1
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.24-25.
2
Mustapha Meghraoui et al., Evidence for 830 Years of Seismic Quiescence from Palaeoseismology,
Archaeoseismology and Historical Seismicity Along the Dead Sea Fault in Syria, in «Earth and
Planetary Science Letters», CCX (2003), pp. 35-52.
3
Plinio il Giovane, Panegirico LXXXVIII.4
4
Eutropio, Compendio di storia romana VIII.2 e VIII.5; si veda Julian Bennett, Trajan, Optimus
Princeps: A Life and Times, Indiana University Press, Bloomington 1997, p. 107.
5
Svetonio, Domiziano XIII.2.
6
Ivi, III.
7
Ivi, XVIII.
8
Si vedano, ad esempio: Musei Capitolini (Roma), inv. MC 1156; Museo del Louvre (Parigi),
inv. Ma 1264.
9
Museo del Louvre (Parigi), inv. Ma 1193.
10
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.74; Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 13.8.
11
Plinio il Giovane, Panegirico XV.1-3.
12
Svetonio, Domiziano XXI.
13
Cassio Dione, Storia romana LXVII.15.2-4.
14
Publio Cornelio Tacito, Agricola, III, in Id., Gli annali. La vita di Giulio Agricola, Garzanti,
Milano 1981.
15
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.3.4; Plinio il Giovane, Panegirico VIII.6, VII.6-7 e VIII.1.
16
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.5.5.
17
Si veda, ad esempio, Glyptothek (Monaco di Baviera), inv. 336.
18
Ronald Syme, Tacitus, Clarendon Press, Oxford 1958, p. 39.
19
Plinio il Giovane, Lettere ai familiari III.20.12.
20
Id., Panegirico 20.
21
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.7.3.
22
Eutropio, Compendio di storia romana VIII.5.1.
23
Plinio il Giovane, Lettere ai familiari V.6.36.
24
Marco Cornelio Frontone, I fondamenti della storia. Elogio del fumo e della polvere. Elogio della
negligenza, in Id., Opere, a cura di Felicia Portalupi, Torino, UTET 1974, 18 (A 259), p. 443.
25
Giovenale, Satire X.81.
26
Dione Crisostomo, Orazione 31.31 (Dio Chrysostom, Discourses 31-36, con traduzione
inglese di James Wilfred Cohoon e Henry Lamar Crosby, Harvard University Press -
Heinemann, Cambridge, MA - London 1940).
27
Plinio il Giovane, Lettere IX.2.
28
Id., Panegirico 44.
29
Digesto XXIX.1.
30
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.23.1.
31
Ivi, LXVIII.8.2.
32
Ivi, LXVIII.5.6.
33
Plinio il Giovane, Panegirico 83.8.
34
Ivi, 83-84.
35
Nicomaco di Gerasa, Encheiridion Harmonicum, in Karl von Jan, Musici Scriptores Graeci.
Aristoteles, Euclides, Nicomachus, Bacchius, Gaudentius, Alypius et Melodiarum Veterum Quidquid
Exstat, Teubner, Stuttgart 1995 [1895], p. 242, rigo 14.
36
Plinio il Giovane, Lettere ai familiari IX.28.1.
37
Edith Mary Smallwood (ed.), Documents Illustrating the Principates of Nerva, Trajan and Hadrian,
Cambridge University Press, Cambridge 1966, docc. 442 e 152.
38
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 42.21.
39
Filostrato, Vite dei sofisti I.7, p. 75.
40
Dione Crisostomo, Sul regno 3.119. (Dio Chrysostom, Discourses 1-11, con traduzione
inglese di J.W. Cohoon, cit., 1932).
41
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 42.20–21; Cassio Dione, Storia romana
LXVIII.5.5.
42
Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. XI, Inscriptiones Aemiliae, Etruriae, Umbriae Latinae, pars
II, fasc. 1, Inscriptiones Umbriae, viarum publicarum, instrumenti domestici, a cura di Eugen
Bormann, Brandenburg Academy of Sciences and Humanities, Berlin 1968 [1901], 6520, p.
981; cfr. Plinio il Giovane, Lettere ai familiari IX.28.1.
43
Gaditanus – il culto di Ercole di Gades (l’odierna Cadice), città situata di fronte all’isola nella
quale si narra che Ercole compì le sue fatiche.
44
Si veda, ad esempio, RIC II Trajan 49 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.2.tr.49_denarius).
45
Plinio il Giovane, Panegirico 14.5 e 82.7; il paragone fra Traiano ed Ercole si ritrova anche in
Dione Crisostomo, Orazione 1.56-84 (Dio Chrysostom, Discourses 1-11 cit.).
46
Plinio il Giovane, Panegirico 80.3-5.
47
Si veda, ad esempio, RIC II Trajan 128 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.2.tr.128).
48
Plinio il Giovane, Carteggio con Traiano X.96.8.
49
Ibid.
50
Ivi, X.97.2.
51
Ivi, XX.97.1.
52
Cassio Dione, Storia romana LXVII.6.1.
53
Ivi, LXVIII.14.1.
54
Si tratta di un pannello che ritrae l’imperatore in battaglia a cavallo, uno dei bassorilievi del
grande fregio traianeo rimossi da un precedente monumento per adornare la parte centrale
dell’arco di Costantino, a Roma.
55
Prisciano, Institutio de arte grammatica VI.13.
56
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 41.13.
57
Aulo Gellio, Le notti attiche XIII.25.
58
La demolizione del Quirinale fu avviata da Domiziano, ma fu Traiano a progettare e a
portare a termine il resto dell’intervento edilizio.
59
Cassio Dione, Storia romana LXVIII.17.1.
60
Ivi, LXVIII.29.1.
61
Ivi, LXVIII.31.3.
62
Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 3 voll., a cura di
David Womersley, Penguin, Harmondsworth 1994, vol. I, p. 103 (trad. it. di Giuseppe Frizzi,
Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, con un saggio di Arnaldo Momigliano, Einaudi,
Torino 1967).
63
Per queste stime, e più in generale per l’economia di mercato, si veda Peter Temin, The
Roman Market Economy, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2013.
64
Kyle Harper, The Fate of Rome: Climate, Disease and the End of an Empire, Princeton
University Press, Princeton (NJ) 2017, pp. 14-15 e 39-55 (trad. it. di Luigi Giacone, Il destino
di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero, Einaudi, Torino 2019).
65
Si veda l’analisi presentata da Frank McLynn, Marcus Aurelius: A Life, Da Capo Press,
Cambridge (MA) 2009, pp. 2-13.
66
Museo delle civiltà anatoliche (Ankara), inv. 10345; fra coloro che contestano questa
identificazione, si veda Stephen Mitchell, The Trajanic Tondo from Roman Ankara: In Search of
the Identity of a Roman Masterpiece, in «Journal of Ankara Studies», II (2014), 1, pp. 1-10.
67
Cassio Dione, Storia romana LXXV.32-33.
68
Strabone, Geografia (The Geography of Strabo, traduzione di Horace Leonard Jones, 8 voll.,
Harvard University Press, Cambridge (MA) 1929, vol. VI, p. 327).
Adriano
6
Adriano, il greco

Prima di morire nella remota Selinunte, Traiano adottò il suo lontano


cugino Adriano. Così vuole la storia ufficiale, ma il precedente
comportamento dell’imperatore autorizzava qualche dubbio. Nel corso
degli anni, aveva promosso Adriano a incarichi sempre più elevati. Gli
permise anche di contrarre matrimonio all’interno della famiglia
imperiale, ma manifestò una certa esitazione nei suoi confronti, forse per
divergenze politiche. Non lo adottò né gli conferì le onorificenze di cui
avevano goduto i precedenti eredi imperiali.
Alcuni affermavano che sul letto di morte Traiano non avesse proferito
parola riguardo all’adozione, e che l’intera vicenda fosse stata orchestrata
da due persone: la sostenitrice di Adriano, Plotina, che di Traiano era
moglie, e l’uomo che gli aveva fatto da tutore, il prefetto del pretorio
Publio Acilio Attiano. Entrambi gli erano stati accanto negli ultimi
giorni. Una fonte solleva il sospetto che fosse stata Plotina a firmare le
lettere al Senato con cui Traiano nominava Adriano come proprio figlio
ed erede, mentre prima di allora non aveva mai apposto la sua firma nelle
lettere dell’imperatore1. Secondo altri, Plotina utilizzò un attore perché
imitasse Traiano che con un filo di voce dichiarava la sua decisione di
adottare Adriano – nascondendo il fatto che il marito, in realtà, fosse già
morto2.
Poi, c’è un particolare strano: dalla scoperta casuale di una pietra
tombale sappiamo che due giorni dopo la morte di Traiano il suo
assaggiatore di vini, un giovane liberto, morì a soli ventotto anni.
Naturalmente, è possibile che si trattasse di morte naturale – ad esempio
sia lui sia Traiano potrebbero essere rimasti vittime di uno stesso virus –,
ma è altresì possibile ipotizzare che il giovane fosse stato ucciso o si fosse
suicidato perché sapeva troppo. Anche il fatto che occorsero dodici anni
per riportare le ceneri di Traiano a Roma è tale da autorizzare sospetti,
come se qualcuno avesse voluto mantenere in ombra la sua memoria.
C’era qualcosa di vero in tutto ciò, oppure siamo di fronte a una
semplice coincidenza e a un altro caso di pregiudizio dei romani nei
confronti di una donna forte? Non lo sapremo mai. Quel che è chiaro, è
che Roma ebbe un nuovo sovrano, vigoroso e di talento.
Adriano era alto, ben fatto, forte e in buona salute. I suoi busti ci
mostrano un uomo dall’aspetto intelligente e imperioso, dal volto ovale e
dalle guance tondeggianti, il naso aquilino, orecchi grandi e occhi
«luminosi e brillanti», come lo descrive un suo contemporaneo3. In quei
giorni, aveva una barba curata e una capigliatura folta, che teneva
arricciata con cura.
La barba di Adriano non era solo una questione di moda, ma anche un
segno di tipo culturale e politico. Gli uomini dell’élite romana
solitamente avevano il volto rasato; i greci, invece, portavano la barba. In
tal modo, Adriano manifestava il proprio amore per la cultura greca e un
orientamento politico, volto a conferire maggiore importanza all’area
orientale e di lingua greca dell’impero. Quel che sorprende è che rimase
fermo abbastanza a lungo da permettere di essere ritratto nelle
numerosissime immagini che di lui sopravvivono – più di quelle di
qualsiasi altro imperatore4. Sembra che Adriano fosse sempre a cavallo o a
bordo di una nave, perennemente in movimento da un capo all’altro
dell’impero, dalla Britannia alla Siria, passando per quasi tutte le province
intermedie, intento a visitare più località di ogni altro imperatore5. Si
impegnò ad incontrare la gente comune – a «stringere mani» a destra e a
manca, come si dice, alla maniera di un politico attuale. Ovunque
andasse, si mescolava alle truppe, condividendone i semplici pasti e
mangiando, come loro, all’aperto. Per essere d’esempio, andava in giro a
capo scoperto, «sia nel gelo della Germania sia nella calura dell’Egitto»6, e
una volta marciò per una trentina di chilometri indossando l’armatura,
per incoraggiare i suoi soldati. Per distrarsi, metteva alla prova la propria
abilità nel suo passatempo preferito, la caccia. Ed era talmente bravo che
una volta riuscì a uccidere un cinghiale con un colpo solo7.
Adriano fu uno dei più importanti e affascinanti imperatori romani.
Nessuno come lui si impegnò per assicurare la pace o assunse una
posizione altrettanto ferma contro l’espansionismo imperiale. Nessuno
prestò personalmente maggiore attenzione alle province. Nessun altro
imperatore fu uno studioso dei classici più impegnato o un poeta e
architetto migliore di lui – e inoltre sapeva scolpire e dipingere. E
tuttavia nessuno fu contraddittorio quanto lui. Secondo uno scrittore
antico, «nella sua indole si fondevano ugualmente serietà e festevolezza,
affabilità e contegno, sfrenatezza e circospezione, avarizia e generosità,
ipocrisia, crudeltà e pietà. Unica nota costante: l’incostanza in tutto»8.
Era un romano che amava la Grecia, ma è ricordato soprattutto in Italia
e in Britannia – e dagli ebrei, la cui cultura tentò di distruggere e i cui
annali ne maledicono la memoria. Era un uomo che piaceva agli uomini
e che doveva il proprio successo alle donne che lo amavano, ma concesse
il suo cuore a un adolescente.

L’IRRESISTIBILE ASCESA DI PUBLIO ELIO ADRIANO


All’inizio, la sua è una storia di speranza e di ambizione. Adriano nacque
il 24 gennaio del 76. Chiamato Publio Elio Adriano, secondo il nome
del padre, vide la luce a Roma, dove la sua famiglia si era trasferita dalla
Hispania seguendo la carriera del padre. La città da cui provenivano era
diventata ricca grazie all’esportazione di olio d’oliva. Si trattava di una
famiglia importante, che contava fra i suoi antenati un senatore, e faceva
risalire le proprie origini a un antico colono, un soldato romano
proveniente da Hatria (l’attuale Atri), centro urbano piceno, da cui deriva
il nome Adriano.
Sotto Vespasiano, che regnava all’epoca in cui nacque Adriano, Roma si
era sempre più aperta ai rapporti con talentuosi uomini dell’élite
provinciale, e il padre di Adriano era uno di questi. Il senatore Elio
Adriano Afro fu pretore e forse comandante di legione, funzionario al
servizio di un governatore provinciale oppure governatore lui stesso. La
madre di Adriano, Domizia Paolina, anch’essa spagnola, proveniva da
una città portuale della costa atlantica della Hispania, da una famiglia le
cui origini probabilmente risalivano a coloni fenici. Adriano aveva anche
una sorella, di nome Paolina.
A dieci anni rimase orfano di padre, come lo era stato Augusto. Poiché
le donne romane si sposavano più precocemente degli uomini, possiamo
supporre che a quell’epoca Domizia fosse ancora viva. Se è così, fu lei
probabilmente a prendersi cura del figlio, come a suo tempo Azia aveva
fatto col giovane Augusto. Un’altra analogia fra i due futuri imperatori è
certa, in quanto, come Augusto, a Roma il giovane Adriano aveva
accesso a uomini potenti. Aveva due tutori, entrambi con radici nella sua
città natale. Uno era Publio Acilio Attiano, un cavaliere romano che
sarebbe diventato comandante della guardia pretoriana. L’altro era il
cugino di suo padre, un promettente soldato e statista: il futuro
imperatore Traiano. Poiché questi all’epoca era impegnato nello
svolgimento di un incarico come ufficiale, fu Attiano a prendersi cura
dell’educazione di Adriano. Se si eccettuano due visite che fece in
Hispania quando ancora era adolescente, per un sopralluogo a due
proprietà di famiglia, Adriano venne allevato sempre a Roma.
Estremamente intelligente e dotato di una prodigiosa memoria,
Adriano era uno studente eccellente. La principale materia di studio nel
curriculum di un giovane dell’élite romana era costituita dai classici greci
e latini. Egli si dedicò con passione alla lingua e alla letteratura greche.
Certamente ebbe ampie possibilità di contatto col mondo ellenico,
poiché a quell’epoca Roma ospitava una vastissima comunità di greci,
tanto da rivaleggiare con Alessandria come maggiore città greca del
tempo. Anche nei suoi passatempi si comportava come un greco: adorava
la caccia, attività tipica dell’élite greca ma non molto amata dai romani.
Tutto ciò gli valse l’appellativo, non certo lusinghiero, di «grecuzzo»9. I
romani delle classi superiori ammiravano, ma al tempo stesso mal
sopportavano, la superiorità culturale della Grecia, e cercavano talvolta di
compensare il divario richiamando il potere di Roma sulla Grecia.
Traiano, il tutore di Adriano, espresse un’opinione abbastanza comune
quando commentò, con atteggiamento prevenuto: «Questi piccoli greci
hanno un debole per i ginnasi»10. E disapprovava il fatto che Adriano
praticasse la caccia.
Fortunatamente per Adriano, la moglie di Traiano, Plotina, la pensava
diversamente. Anche lei era animata da entusiasmo per il mondo
ellenico. I due, in effetti, avevano molte cose in comune. Intelligenti e
colti, studiavano entrambi filosofia, e rientravano entrambi nell’orbita di
Traiano, e – qualcuno potrebbe malignare – amavano entrambi Adriano.
Adriano aveva infatti un non trascurabile amor proprio, e Plotina adorava
quel giovane e brillante pupillo del marito.
Sebbene fosse probabilmente per età più vicina ad Adriano che a
Traiano, che aveva ventidue anni più del giovane, gli faceva un po’ da
madre. Certamente ne tutelò gli interessi nei momenti cruciali della sua
carriera, a cominciare dalla sua istruzione. Plotina fece, infatti, in modo
che Adriano studiasse con uno dei migliori insegnanti di Roma.
Plotina studiava la filosofia epicurea, un sistema di pensiero sviluppatosi
ad Atene diversi secoli prima e che ancora vi manteneva una scuola ai
tempi di Adriano. Oggi, per epicureo si intende una persona dedita al
piacere, specialmente sessuale e voluttuoso, ma gli epicurei antichi erano
in realtà convinti della necessità di limitare i desideri. Erano materialisti
convinti che la religione fosse una forma di superstizione e che la ragione
fosse la migliore guida dell’uomo. Prediligevano la buona compagnia
rispetto al buon cibo, e preferivano lavorare dietro le quinte piuttosto che
sulla scena pubblica. Il loro motto era «vivi senza farti notare», e
perseguivano l’amicizia11. Erano epicurei molti esponenti dell’élite
romana, compresi numerosi politici, i quali trovavano consolante quella
filosofia, per quanto ne rifiutassero il quietismo.
Per Plotina, come per Adriano, la «grecità» non era semplicemente una
dichiarazione di principio alla moda. Sebbene i romani dovessero il loro
impero alla forza, Adriano comprese che la penna era più potente della
spada – e che quella più forte apparteneva ai greci. Riconobbe, con
Orazio, che «la Grecia conquistata conquistò il suo fiero vincitore, e
introdusse le arti nel Lazio, dedito all’agricoltura»12. Credeva che la
Grecia avesse ancora una profonda saggezza da offrire. Sembra che fosse
influenzato da diverse scuole filosofiche greche dell’epoca, fra cui
l’epicureismo, e una volta incontrò il grande filosofo stoico Epitteto.
Adriano ebbe per la vita intellettuale una considerazione più alta di
qualsiasi altro precedente imperatore. Dopo Traiano, orgogliosamente
non intellettuale, e Vespasiano, aggressivamente plebeo, si trattava di un
cambiamento di grande rilievo. Fu proprio l’intellettualismo, infatti, a
sostenere la singolare visione adottata da Adriano nella sua opera di
governo. Ciò ne fece il più grande amico che la Grecia avesse mai avuto a
Roma.
Adriano entrò nella vita pubblica a diciotto anni, e fece rapidamente
carriera. Dapprima occupò posizioni di secondaria importanza nella
capitale, poi ebbe l’incarico di tribuno militare, prima in Europa centrale
e in seguito nei Balcani. Si trovava nella remota regione balcanica sul mar
Eusino (l’attuale Mar Nero) quando, alla fine del 97, arrivò la notizia che
l’imperatore Nerva aveva adottato Traiano come proprio figlio e
successore. All’epoca, Traiano era stato incaricato di un comando nella
Germania superiore. Adriano fu scelto per portare le congratulazioni
dell’ esercito al suo tutore – ora erede al trono. Come ricompensa, fu
trasferito dal lontano mar Eusino a una destinazione più centrale, sul
Reno, mantenendo la sua carica. Prestando servizio per tre mandati,
invece dei consueti due previsti dalla norma senatoriale, Adriano ebbe
modo di accumulare una preziosa esperienza in campo militare.
Poco dopo, all’inizio del 98, giunse la notizia che Nerva era morto, e
che Traiano era stato proclamato imperatore. Adriano colse l’opportunità
e accorse a informare di persona Traiano, da cui lo separavano circa 180
chilometri. Lungo il tragitto, il carro su cui viaggiava si ruppe, ma lui
proseguì a piedi e riuscì a portare la buona notizia a Traiano. Così narra
la storia, che riferisce anche come fosse stato un certo Serviano a sabotare
il carro di Adriano. Sulla vicenda è lecito nutrire un certo scetticismo,
perché la storia potrebbe anche derivare dallo stesso Adriano, che negli
anni successivi si trovò ai ferri corti con Serviano. Stranamente, i due
erano cognati.
Lucio Giulio Urso Serviano, infatti, aveva sposato la sorella di Adriano,
Paolina. Era un matrimonio dettato dall’ambizione e dalla volontà di
ascesa sociale, poiché Paolina, come Adriano, era cugina di Traiano, e
Serviano, governatore ed ex console, puntava a entrare nella cerchia
ristretta dell’imperatore. Non sorprende che due uomini determinati
come Serviano e Adriano entrassero in conflitto.
Adriano era il più stretto parente maschio di Traiano, e una volta che
questi, senza figli, diventò imperatore, per Adriano si aprì una corsia
privilegiata per succedergli. Ma non era un esito scontato. Da quando
Augusto era passato sopra al proprio nipote Agrippa Postumo
preferendogli il figliastro Tiberio, era chiaro che perfino un parente
stretto doveva guadagnarsi un diritto del genere. E così fu per Adriano,
che dovette dar prova di capacità politiche, militari e amministrative. Ma
non era tutto.
L’ascesa di Adriano fu un trionfo dell’arte della cortigianeria. Incantò le
donne imperiali vicine a Traiano, impressionò il suo ex tutore Attiano –
il quale adesso era prefetto della guardia pretoriana –, oltre che, fra gli
altri, il braccio destro di Traiano, Sura.
Il più stretto alleato di Adriano era sempre Plotina, moglie
dell’imperatore. Fu lei a convincere Traiano a dare Vibia Sabina in sposa
ad Adriano, creando così fra loro un rapporto di parentela, perché Sabina
era la nipote della sorella di Traiano, Marciana. Sabina apparteneva a una
famiglia ricca e influente. Possedeva personalmente schiavi in Hispania,
oltre che a Roma e in altre località italiane. Sia sua madre, Salonia
Matidia, sia sua nonna, Marciana, vivevano nel palazzo imperiale ed
erano fra i più stretti confidenti di Traiano.
Il promettente Adriano e la ben inserita Sabina si sposarono nel 100.
Adriano adorava sua suocera Matidia. Lui era ventiquattrenne, Sabina era
una ragazza di quattordici o quindici anni. Un divario di età di dieci anni
fra marito e moglie era per Roma una cosa consueta. L’età minima al
matrimonio per una ragazza era di dodici anni, per un ragazzo di
quattordici. Sebbene le donne tendessero a sposarsi nella tarda
adolescenza e gli uomini un po’ prima della trentina, spesso l’élite
senatoriale e soprattutto la famiglia imperiale anticipavano i tempi. Un
uomo ambizioso come Adriano era sicuramente impaziente di sposare
un buon partito come Sabina.
Inoltre, c’è da immaginarsi che egli trovasse molto da apprezzare nella
sua sposa, che stava diventando donna. Non vi è dubbio che le sculture
imperiali tendano a trasmettere immagini idealizzate e propagandistiche,
ma è improbabile che siano un puro frutto d’invenzione, poiché i
soggetti ritratti dovevano essere riconoscibili nelle opere che li
raffiguravano. I vari busti e le statue a figura intera di Sabina ce la
presentano come una donna con un volto piacevole e dai tratti regolari, il
collo delicato e il naso classico. Intorno a lei si intravede un’atmosfera
cortese. La sua capigliatura è folta, ondulata, pettinata con la riga al
centro, secondo quello stile greco che sicuramente piaceva ad Adriano e
forse anche a lei13.
Sabina è una delle rare donne romane che abbiano lasciato una
testimonianza scritta. Certo, è breve: si tratta semplicemente di un
poscritto a quattro poesie composte da una persona che era stata sua
compagna di viaggio. E tuttavia, quella compagna era una donna e
un’intellettuale greca, il che fa pensare che Sabina avesse interessi in
comune con Adriano, o almeno che si sforzasse di averli. Lo scritto
mostra che condivideva col marito anche l’orgoglio per il loro status e per
quello che avevano realizzato.
Il loro era comunque un matrimonio dinastico, non un’unione
d’amore, e la coppia era per vari aspetti divisa. Fu un matrimonio senza
figli, e Adriano le preferiva gli uomini giovani. Le voci dicevano che i
due non si sopportassero; che avessero rapporti sessuali, ma che Sabina
prendesse precauzioni per non rimanere incinta; che Adriano la trovasse
bizzarra e intrattabile, e che avrebbe voluto essere un privato cittadino
per poter divorziare14. Ma le voci sono solo voci, e non sarebbe la prima
volta che si sente dire di due sposi per motivi politici che collaborano
anche se non vanno d’accordo a letto. Nonostante il presunto cattivo
sangue che scorreva fra Sabina e Adriano, vi sono anche elementi che
indicano cooperazione e armonia fra loro, e Adriano ricompensò la
moglie con onori. Comunque, il ruolo di Sabina non dovette risultare
facile.
Adriano ebbe l’opportunità di far progredire la propria carriera in
occasione delle guerre di Traiano in Dacia (101-102 e 105-106). Nella
prima campagna, l’imperatore lo portò con sé come membro di grado
elevato del suo Stato maggiore. Adriano passò al fronte un anno,
un’esperienza della quale ci resta un solo particolare, vale a dire che prese
a bere molto come Traiano, che lo ricompensò per questo15.
Adriano prestò nuovamente servizio nella seconda guerra dacica, nel
105-106, stavolta come comandante di legione. Per entrambe le
campagne fu insignito di decorazioni militari. Sebbene altri uomini
avessero svolto un ruolo più importante nella vittoria di Roma, Adriano
ricevette da Traiano un dono simbolico: un diamante che lui stesso aveva
avuto dal precedente imperatore, Nerva16. Sembrava un presagio di
successo, e Adriano teneva in gran conto questi segnali. Nonostante
studiasse filosofia, conservò per tutta la vita interesse per la magia e
l’astrologia.
Sotto Traiano, Adriano continuò la sua ascesa rapidamente, ma non
quanto, da giovane ambizioso qual era, avrebbe voluto. Dal 106 al 108 fu
governatore della Pannonia inferiore. Nel maggio del 108 venne
nominato console suffectus (sostituto), a trentadue anni, età precoce per un
non patrizio. Si dice che in quel periodo avesse appreso da uno dei più
stretti consiglieri di Traiano, Sura, che l’imperatore era in procinto di
adottarlo17. Sura morì poco dopo, e quindi non sappiamo se la notizia
corrisponda a verità. In ogni caso, Traiano non adottò Adriano, sebbene
ricorresse a lui per stendere i propri discorsi.
Era un incarico di fiducia, ma non sufficiente a trattenere Adriano a
Roma. Nel 112, se non prima, sappiamo che visse ad Atene,
presumibilmente col permesso di Traiano. L’imperatore poté forse
ritenere utile tenerlo nell’Oriente greco perché gli riferisse quel che
vedeva e sentiva – e forse gli faceva comodo tener lontano quello che era
il principale aspirante al potere. Al confronto di Roma, Atene era
piccola, ma la sua eredità culturale proiettava ancora un’ombra gigantesca.
Con lo sfondo del Partenone, in mezzo a filosofi e poeti, Adriano ne era
incantato. L’élite locale lo invitò a diventare un cittadino ateniese, e poco
dopo venne eletto arconte, vale a dire magistrato supremo.
Fu forse durante questo soggiorno ad Atene che Adriano acquisì quello
che rimase il suo celebre contributo alla moda romana: la barba. Stabilì
un precedente, e nei successivi centocinquanta anni i suoi successori sul
trono imperiale ne avrebbero seguito l’esempio.
Traiano, probabilmente, rimase stupito nel vedere il suo giovane cugino
barbuto, quando passò da Atene durante il viaggio che lo portava a
combattere una nuova grande guerra ad Oriente. Al suo seguito c’era
gran parte della corte, comprese Plotina e Matidia.
Come Cesare e Marco Antonio, Traiano puntò a una guerra contro la
Partia. Nel capitolo precedente abbiamo già parlato di quella campagna.
Basterà aggiungere un cenno ai rapporti che riferiscono come Plotina
sfruttasse la propria influenza per assicurare ad Adriano un posto fra i
collaboratori di Traiano durante la guerra18. Apparentemente, però,
Adriano non esercitò rilevanti poteri prima di diventare nel 117
governatore; altro incarico che, si dice, dovette a Plotina.
Presumibilmente, fu l’influenza di quest’ultima che gli permise di essere
nominato console una seconda volta, nel 118.
Soprattutto quando fu annunciato il secondo consolato, tutto faceva
pensare che Adriano fosse destinato alla successione al trono. Le voci
dicevano che stesse corrompendo i liberti di Traiano e corteggiando i
suoi influenti amichetti19. E tuttavia, l’imperatore non lo adottò, né lo
insignì del titolo di Cesare o dei poteri che Tiberio, Tito e Traiano
stesso avevano ricevuto quando erano stati designati eredi alla
successione. E neppure, nel corso degli anni, Traiano fece di Adriano
uno dei suoi principali generali. Il motivo fu forse la mancanza di
entusiasmo da parte di Adriano per le conquiste militari. Diversamente
da Traiano, egli non intendeva espandere l’impero, e ciò può forse
spiegare l’esitazione dell’imperatore a nominarlo proprio successore.
Probabilmente, quel vecchio romano severo non gradiva l’ellenismo del
suo ex pupillo.
Correva voce che Traiano avesse in animo di designare un altro come
proprio successore, o di attribuire la decisione al Senato. Alcuni
dicevano perfino che il grande ammiratore di Alessandro Magno
intendeva lasciare la successione «al più forte»20, come aveva fatto il
macedone alla sua morte, nel 323 a.C.; ma poiché la decisione di
Alessandro Magno aveva portato a cinquant’anni di guerra civile, appare
improbabile che Traiano volesse seguire quel precedente. È a quel punto
che arrivò la crisi.

LA CRISI DI SUCCESSIONE
Come abbiamo visto, alcuni contestavano la veridicità della storia
secondo cui Traiano in punto di morte aveva adottato Adriano. Questi
però disponeva di una risposta efficace: le legioni orientali, il cui
appoggio aveva ottenuto immediatamente dopo essersi mosso
intelligentemente, con la concessione a loro favore di un doppio premio.
In seguito, presentò le sue scuse al Senato per essersi preso il trono senza
chiederne il consenso. Ma lo Stato, disse, non poteva essere lasciato privo
di un imperatore. Nel frattempo, come Vespasiano, altro sovrano che
aveva conquistato il potere con la forza, prese a considerare come inizio
del proprio regno il giorno in cui era stato acclamato dall’esercito: l’11
agosto 117.
Il nuovo regno si aprì con una serie di omicidi di ex marescialli di
Traiano, quasi come in una faida malavitosa. Alcuni erano suoi rivali per
il potere imperiale, altri non condividevano le politiche militari di difesa
che Adriano aveva in mente. A Roma, l’ex tutore di Adriano, Attiano,
dichiarò di avere scoperto un complotto organizzato da quattro uomini
contro il nuovo imperatore. Erano personaggi di notevole spessore: ex
consoli dello Stato romano, fra i quali uno dei più stretti collaboratori di
Traiano e un altro uomo che riscosse l’ammirazione di Plutarco. Vennero
uccisi senza processo, e il Senato fu costretto ad approvare. Molti senatori
non perdonarono mai il loro nuovo sovrano per quello che venne
definito «il caso dei quattro ex consoli», ma quasi tutti ebbero paura di
lui. Quanto ad Attiano, Adriano lo promosse senatore, il che significa
che dovette lasciare il suo incarico di prefetto del pretorio, un posto
riservato ai cavalieri romani.
Nonostante tutto il suo amore per la filosofia, le arti e l’astrologia,
Adriano era spietato, violento e senza scrupoli. Tuttavia era anche un
buon politico, e sapeva riallacciare i ponti. A Roma elargì somme di
denaro ai poveri, bruciò i registri delle tasse inevase, allestì splendidi
giochi gladiatori e lanciò un grande programma edilizio.
Adriano, però, non credeva nel governo costituzionale. Gibbon ne
riassume efficacemente il carattere, scrivendo: «Fu di volta in volta un
eccellente principe, un ridicolo sofista e un geloso tiranno»21.

PACE E PROGETTI EDILIZI


Pochi imperatori salirono al trono con una visione e una sicurezza pari a
quelle di Adriano. Aspirava nientemeno che ad essere un capo in grado
d’introdurre importanti trasformazioni. Alla fine arrivò a vedere sé stesso
come un secondo Augusto, e col tempo prese infatti a chiamarsi Adriano
Augusto, preferendo questa formula alla sua denominazione completa,
Cesare Traiano Adriano Augusto. Si considerava il secondo fondatore
dell’impero.
Di fatto, fu un secondo Tiberio. Di questi, riprese la strategia
largamente difensiva, abbandonando la politica di espansione traianea.
Pur avendo un profilo più da umanista rispetto a Tiberio, Adriano non
rifuggì dai contrasti col Senato e, talvolta, dai metodi tirannici che
avevano caratterizzato il suo predecessore.
All’inizio del suo regno dovette fronteggiare rivolte sia in Oriente sia in
Occidente: in Dacia, sul Danubio, in Mauretania (una provincia romana
nell’attuale Marocco) e in Britannia. In alcune aree reagì con fermezza,
altrove preferì arretrare. Ordinò un immediato ritiro dal piccolo
territorio rimasto delle conquiste di Traiano nell’impero dei parti, e
concluse la pace con il loro sovrano. Restituì anche la parte orientale della
Dacia. Come misura precauzionale per bloccare gli invasori, fece
addirittura smantellare il grande ponte sul Danubio costruito da Traiano.
Cedere territori sembrava una pratica poco degna di Roma, e molti
senatori vi si opposero fieramente. Di fatto, fu probabilmente il
disaccordo con la nuova politica, e non un complotto, il vero motivo per
cui i quattro ex consoli pagarono con la vita. Ma Adriano rimase fedele
alla linea. A suo giudizio, dopo le guerre di espansione traianee, l’impero
era esausto. Inoltre, sembra che fosse consapevole dei vantaggi militari,
economici e morali del riarmo.
Sebbene l’imperatore avesse i suoi oppositori, la maggior parte dei
membri dell’élite romana probabilmente era d’accordo con lui. Era
venuto meno il precedente incentivo a combattere guerre di conquista
territoriale. Prevalevano anzi motivi opposti, poiché gli imperatori
temevano i generali vittoriosi, e talvolta li mandavano a morte. Non era
più necessario avere grande esperienza militare per fare una carriera
pubblica di successo o per diventare senatore. Uno scrittore
contemporaneo esprimeva probabilmente un concetto ampiamente
condiviso quando scrisse: «nella mia epoca l’imperatore Adriano [...] era
estremamente religioso per il rispetto che aveva per le divinità, e
contribuiva grandemente alla felicità dei suoi vari sudditi. Non entrò mai
volontariamente in guerra»22.
Per Traiano, Roma era una superpotenza, e come tale doveva agire. Per
Adriano, era un mercato comune, più simile insomma all’odierna
Unione Europea che agli Stati Uniti, alla Russia o alla Cina. Adriano
voleva un impero nuovo, nel quale le élites provinciali partecipassero al
governo su un piano di parità. Si guadagnò la loro fedeltà estendendo la
concessione della cittadinanza romana ai consiglieri municipali delle
varie regioni dell’impero – un beneficio fino ad allora riservato ai
magistrati.
Per quel che riguardava Adriano, quelle élites avrebbero parlato latino
in Occidente e greco in Oriente. Ma cosa sarebbe stato delle altre élites
locali nei vari territori dell’impero? Cosa sarebbe spettato ad arabi, celti,
daci, egiziani, germani, ebrei, mauretani, numidiani, fenici, siriani e altri
gruppi? Sarebbero stati assimilati o lasciati fuori. E in effetti Adriano
sembrò dire loro: «Non avete il diritto di essere liberi; avete il diritto di
essere romani – o greci». Il greco era la lingua più diffusa nella metà
orientale dell’impero. Il suo suono era musica per gli orecchi di Adriano,
il «grecuzzo», ed era sua intenzione favorirlo.
Per la maggior parte del suo regno Adriano si concentrò sulle zone
orientali dell’impero. Ciò rispecchiava non semplicemente una sua
preferenza personale, ma anche la realtà del potere. Roma disponeva della
forza militare e dell’organizzazione politica, ma l’Oriente aveva forza
lavoro, ricchezza, città, cultura e profondità intellettuale e spirituale.
L’Occidente, eccetto l’Italia, era sottosviluppato e arretrato in confronto,
e poteva vantare poche grandi città. La principale eccezione era
Cartagine, situata al di là del Mediterraneo, sulla costa settentrionale
dell’Africa. Distrutta durante la Terza guerra punica, nel 146 a.C., la città
era stata ricostruita come colonia romana da Augusto secondo il piano di
Giulio Cesare. All’epoca di Adriano, era la seconda città del
Mediterraneo occidentale. E tuttavia, il centro urbano dell’impero era ad
Oriente, e per qualcuno quelle regioni rappresentavano il futuro di
Roma. Su questo, Adriano non aveva alcun dubbio.
Sia Giulio Cesare sia Marco Antonio furono tentati di spostare la
capitale dell’impero verso Est, ad Alessandria o perfino a Troia. Adriano
rivolse lo sguardo ad Atene. Amava tutte le città greche, ma quella era la
sua preferita, il luogo in cui aveva passato più tempo che in qualsiasi altro
del mondo greco. Fu iniziato ai Misteri, il più solenne ed esclusivo
rituale religioso della città. Si trattava di una cerimonia segreta che offriva
la speranza di una vita dopo la morte.
L’impulso che Adriano dette all’edilizia cittadina non aveva paragoni fin
dai tempi dell’età d’oro di Pericle, oltre cinquecento anni prima.
Finanziò un vero e proprio boom edilizio, facendo di Atene il centro di
una nuova Lega panellenica delle città greche. I turisti che oggi si recano a
visitarla possono ancora vedere i segni dei progetti edilizi di Adriano: nei
resti di una biblioteca, in una cisterna – che oggi è una piazza pubblica
ma un tempo faceva parte di un moderno sistema di fornitura idrica  –,
nelle enormi colonne del tempio di Zeus Olimpio, il più vasto della
Grecia, e poi nella porta ad arco in marmo che introduceva a un nuovo
quartiere urbano denominato Città di Adriano. Ma Atene costituiva solo
una piccola parte del programma di costruzioni adrianeo.
UN TEMPIO E UNA VILLA
Oggi il nome di Adriano viene forse più facilmente associato a un luogo
che a una persona. Probabilmente, è noto soprattutto per il Vallo di
Adriano in Inghilterra e per Villa Adriana a Tivoli, per non limitarsi che
agli esempi più famosi. La città di Roma vanta la presenza del mausoleo
di Adriano, altrimenti noto come Castel Sant’Angelo. Se poi prendiamo
in considerazione i progetti edilizi che non portano il suo nome, nella
capitale un tempo esisteva anche l’enorme tempio di Venere e di Roma,
disegnato personalmente dall’imperatore, che si dilettava di architettura,
provocando il disgusto dell’architetto capo di Traiano, Apollodoro, che
ne scrisse in termini critici23. Di ciò Adriano si arrabbiò a tal punto che
quando, poco dopo, Apollodoro morì, corse voce che era stato lui stesso
a dare l’ordine di giustiziarlo. Ma né la tomba né il tempio furono i più
importanti edifici adrianei.
Augusto aveva lasciato il proprio segno nell’area dal Campo Marzio,
situata fra l’antico nucleo della città e l’ansa del Tevere. Adriano
evidenziò la propria pretesa di essere il nuovo Augusto ristrutturando
quella zona e ricostruendovi un’importante struttura che era danneggiata:
il Pantheon, tempio di tutte le divinità, opera in origine di Agrippa, il
braccio destro di Augusto. Ne scaturì quello che non solo è l’edificio
meglio conservato dell’antichità classica, ma anche uno dei più belli
esistenti al mondo. Entrandovi e rivolgendo lo sguardo in alto, un
visitatore si rende conto che la cupola è uno dei doni che Roma ha
lasciato in eredità alla civiltà.
Il Pantheon testimonia genialità nella concezione che l’ha ispirato e
perfezione esecutiva. E dimostra, inoltre, l’abbondanza delle risorse
finanziarie dell’imperatore, poiché una struttura così splendida e duratura
comportò ovviamente costi tutt’altro che trascurabili. Ad Adriano spetta
il merito dell’idea che ispirò la creazione, sebbene fosse troppo poco
esperto per essre in grado di progettarla nei particolari. Non conosciamo
il nome dell’architetto, ma chiunque fosse riuscì a simboleggiare l’unità
dell’impero usando una combinazione di mattoni, marmi e calcestruzzo.
La rotonda rinvia all’orbis terrarum (il circolo delle terre), come i romani
chiamavano il mondo. Il reticolo del pavimento in marmo o il soffitto a
cassettoni richiamano alla mente il disegno regolare di un campo militare,
o di una città o di un paesaggio romani. La cupola simboleggia il cielo,
retto da Giove, il quale come l’imperatore governa l’impero. È una vera e
propria meraviglia tecnologica, il cui spessore va dai 7 metri alla base ai
soli 60 centimetri circa alla sommità. Con il suo diametro di oltre 43
metri, fu per milletrecento anni la cupola più grande al mondo, finché
nel 1436 venne costruita quella del Duomo di Firenze (a sua volta
superata, quanto al diametro, solo alla fine dell’Ottocento).
Adriano si astenne dal far comparire il proprio nome nel Pantheon,
facendovi scrivere soltanto «Marco Agrippa, figlio di Lucio, console per
la terza volta, edificò». Si trattava di una modestia in realtà immodesta,
visto che rinviava al prestigio di uno dei padri fondatori dell’impero.
Dette però il proprio nome ad Adrianopoli (l’odierna Edirne, in
Turchia), città fondata sul sito di un precedente villaggio. Era una delle
otto località nei territori dell’impero che si chiamavano Città di
Adriano24, e l’unica che mantiene ancora oggi un’eco della sua origine nel
proprio nome (Edirne deriva dal greco Hadrianopolis). Situata nella
Turchia europea, vicina ai confini con la Bulgaria e con la Grecia, si trova
in corrispondenza di un crocevia storico. A partire dall’epoca di
Costantino e proseguendo fino al XX secolo, è stata il luogo di non
meno di sedici grandi battaglie, fra le quali quella che nel 378 costò la più
devastante sconfitta subita dall’impero romano. Lo storico militare John
Keegan la definì «il luogo più spesso conteso del pianeta»25. Il soldato-
statista Adriano avrebbe forse apprezzato un tale onore per la città che da
lui prendeva il nome.
Una delle sue «costruzioni» riguardò il settore giuridico. Adriano infatti
conferì a un giovane brillante giurista l’incarico di codificare l’editto
pretorio, vale a dire la dichiarazione annuale dei principi del diritto
romano. Sebbene in teoria ogni anno un nuovo pretore potesse
ricominciare da capo, in pratica la maggior parte dei pretori introdusse
pochi mutamenti nella tradizione ricevuta. Ma nel corso degli anni le
incongruenze si accrebbero. Grazie all’iniziativa di Adriano, l’intero
complesso di norme venne consolidato e codificato in una sintesi chiara e
razionale, che in seguito prese il nome di «editto perpetuo». L’opera
costituì una riforma di grande importanza per Roma, e più in generale
per la storia del diritto.
Raramente, però, il diritto entusiasmava Adriano quanto l’attività
edilizia. Tiberio e Nerone ebbero i loro palazzi di piacere, ma in questo
Adriano li superò. Quella che oggi conosciamo come Villa Adriana era,
di fatto, un’enclave reale, come in tempi moderni lo è stata Versailles. La
villa contiene trenta importanti edifici che punteggiano gli oltre 120
ettari – due volte la superficie di Pompei –, nel contesto di una rigogliosa
valle fluviale a Tibur (Tivoli), distante circa 30 chilometri da Roma, da
dove la si poteva raggiungere con un tragitto di tre ore a cavallo.
La sua costruzione prese probabilmente avvio all’inizio del regno di
Adriano, e proseguì per tutto il suo corso. Vi giunsero materiali edili da
ogni regione imperiale, al fine di trasmettere il senso della varietà
dell’impero e della forza di Roma. Il complesso era ricco di
testimonianze artistiche e scultoree, oltre che di giardini, stagni, canali e
fontane. Fu l’imperatore in persona a progettarne alcune delle strutture.
Non c’erano solo le sue amatissime «zucche» (le cupole)26, ma vi trovò
posto anche il primo esempio a noi noto di curve a esse in architettura,
vale a dire la sinuosa alternanza di muri concavi e convessi. Il progetto
generale dell’insediamento era raffinato, complesso e insolito come il suo
autore. Nessun altro imperatore fece di più per creare un luogo in cui
l’arte e la natura si unissero per diventare una fonte d’ispirazione. La villa
simboleggiava anche le élites imperiali che Adriano teneva in alta
considerazione. Lo stile architettonico preponderante era romano, ma
l’arte greca era onnipresente. Anche i temi egiziani avevano un ruolo di
spicco, perché l’Egitto avrebbe avuto una parte di grande rilievo nella vita
di Adriano. Il complesso era mantenuto da un notevole numero di
schiavi. Ufficiali e soldati romani erano presenti ovunque.
La villa aveva tutto. Oltre a un palazzo, c’erano padiglioni per i pranzi,
biblioteche, terme, templi, un teatro e perfino un’arena. C’erano edifici
riscaldati per l’inverno e luoghi esposti a nord per il fresco d’estate. La
villa era per Adriano un ritiro e un luogo per impressionare e ricevere i
visitatori, ma anche un posto in cui poteva perdere il contatto con la
realtà.
Tibur era il paese delle meraviglie di Adriano. Era una sorta di Roma
alternativa, una Roma senza il Senato e senza il popolo; una
combinazione fra una delle basi militari adorate da Adriano e una città
greca. Da lì egli poteva governare Roma senza dover entrare in città, e
viaggiare senza uscire di casa. In quel luogo Adriano rimaneva un
viandante.

I VIAGGI DI ADRIANO
Nessun imperatore dai tempi di Augusto aveva viaggiato nelle province
quanto Adriano, il quale alla fine percorse un territorio perfino più vasto
del suo predecessore. Il suo regno durò ventun anni, e fu il più lungo dai
tempi di Tiberio. Passò circa la metà del tempo in viaggio. Quando era
nel suo pieno vigore, dai quarantaquattro ai cinquantacinque anni, tra il
120 e il 131, fu raramente a Roma. Negli anni dal 121 al 125 fece un
lungo giro nelle province nord-occidentali, poi si diresse verso est, in
Grecia e in Asia Minore. Pochi anni dopo, a partire dal 128, si recò in
visita in Sicilia, nell’Africa del Nord, in Egitto e in altri territori del
Mediterraneo orientale, soprattutto in Grecia. Poi fu la volta della
Giudea, per affrontarvi questioni urgenti.
Non fu un temperamento inquieto a spingere Adriano a viaggiare, ma
un desiderio di rifare l’impero fin dalla base. Era anche un modo per
fuggire da Roma, da un Senato e da un popolo che gli apparivano
bisognosi di continue attenzioni e insaziabili.
Il personale che lo seguiva nei suoi viaggi, comprendente fra l’altro
segretari imperiali, burocrati, parassiti, servi, la moglie con il suo seguito,
era una sorta di seconda Roma, un governo itinerante. Insomma, una
sorta di Air Force One (l’aereo presidenziale statunitense) del mondo
antico. Doveva essere uno spettacolo vedere l’imperatore e la sua corte in
movimento, ma non tutti se ne facevano intimidire. Una volta un’anziana
donna tentò di fermare Adriano mentre stava passando, per consegnargli
una petizione. Quando le disse che non aveva tempo per ascoltarla, lei
rispose che in quel caso non sarebbe più stato imperatore. E lui le
concesse udienza27.
Ovunque l’imperatore si recasse, faceva tappa in una delle basi militari
romane. La sua politica di non espansione richiedeva di mantenere
sempre perfettamente pronto l’apparato militare. Un autore antico
commenta così questo aspetto: «Benché desideroso di pace curò
l’addestramento dell’esercito sul piede di guerra»28. E inoltre, Adriano
amava l’esercito.
L’imperatore era un uomo forte e virile, il cui cuore batteva per
l’accampamento militare. Durante una visita ad una guarnigione di
legionari nell’Africa del Nord, ad esempio, dopo aver assistito a una serie
di manovre, disse alle truppe riunite: «L’eccezionale virilità di quel
nobile uomo, il mio vice Catullino [Quinto Fabio Catullino, il
comandante della legione], si riflette in voi che avete servito sotto di
lui»29. Poi ci fu la volta in cui le sue guardie a cavallo guadarono il
Danubio armate di tutto punto, sotto i suoi occhi estasiati30.
Nel 121, dopo essere passato da Roma, Adriano si diresse a nord verso
la Germania, dove affrontò il rigido inverno con disinvoltura. Lo
accompagnavano l’imperatrice Sabina e importanti personalità come il
comandante della guardia pretoriana e il suo segretario personale.
Quest’ultimo è oggi più noto come scrittore, poiché si tratta nientemeno
che di Gaio Svetonio Tranquillo, l’autore del De vita Caesarum (Le vite dei
dodici Cesari). La possibilità di accedere agli archivi imperiali gli permise
di utilizzare una documentazione ricca quante altre mai. La narrazione si
apriva nel 100 a.C. con Giulio Cesare e si concludeva due secoli dopo
con la morte di Domiziano, nel 98. Toccare eventi più recenti sarebbe
stato troppo pericoloso.
Il motivo per cui Adriano si recò in Germania fu la costruzione di una
nuova frontiera a protezione dell’impero. Si trattava di una ininterrotta
palizzata in legno, in sostituzione della rete di forti e di torri di
avvistamento realizzata dai suoi predecessori. Era alta forse tre metri e si
estendeva per circa 560 chilometri lungo quelli che oggi sono i territori
della Germania sud-occidentale, dell’Alsazia e della Svizzera.
Era l’inizio del famoso limes romano, che al momento della sua massima
estensione, nel II secolo, copriva gli oltre 4.800 chilometri dalla
Britannia settentrionale fino al Mar Rosso. Era costituito da mura, torri,
forti, fossati e strade, ma era un complesso tutt’altro che sistematico. Se il
limes rappresentava la difesa della frontiera fissa e stabile, testimoniava
anche i limiti del potere di Roma.
In Germania e altrove il limes svolgeva la funzione di posto di controllo,
ma non costituiva un serio ostacolo nel caso vi fosse un tentativo di
invasione concertato. La sua funzione principale era simbolica: il limes
mostrava dove cominciava e dove finiva l’impero. E anche che Roma
aveva finito di espandersi.
A questo riguardo è significativa la tappa successiva che Adriano fece
dopo la Germania: il Vallo di Adriano in Britannia, ovvero la parte più
famosa del limes costruita sotto il suo regno.

IL VALLO DI ADRIANO
Il Vallo di Adriano si sviluppa lungo i rilievi ondulati del paesaggio
inglese. Estendendosi per una lunghezza di 117 chilometri, dal fiume
Tyne presso il mare del Nord fino all’estuario del Solway sul mare
d’Irlanda, è una delle icone dell’imperialismo romano più note a livello
mondiale, e giustamente attrae milioni di visitatori. E tuttavia, la realtà
storica non corrisponde alla sua immagine moderna.
Adriano e il suo seguito si recarono in Britannia, probabilmente per
l’inaugurazione della costruzione. Era un’opera che andava a gloria
dell’imperatore, e comprendeva anche un significativo corrispettivo del
ponte costruito da Traiano sul Danubio. Alla sua estremità c’erano infatti
un ponte, intitolato ad Adriano, e una serie di torri e forti che si
allungavano verso Occidente attraverso l’isola; e gran parte dell’opera
rifulgeva al sole. Era certo un simbolo del potere di Roma ma, come in
Germania, le sue funzioni dal punto di vista militare erano limitate. Forse
quella più importante consisteva nel separare i diversi popoli britannici
che in precedenza avevano dato vita a un’alleanza e si erano sollevati
contro Roma. Quando nel 117 Adriano salì al trono, nella parte
settentrionale dell’isola c’era stata una rivolta. I particolari restano oscuri,
ma sappiamo che si trattò di un evento importante, che forse determinò
addirittura la distruzione di un’intera legione.
Il muro presentava una triplice serie di difese, fra cui un fossato doppio
a nord e una strada a sud, oltre alla costruzione stessa. Avrebbe impedito a
un gran numero di nemici di penetrare, ma la muraglia era troppo stretta
per poter servire da bastione per i combattimenti.
Sebbene il vallo apparisse imponente osservandolo da lontano, a uno
sguardo ravvicinato si rivelava un’opera poco curata e spesso di scarsa
qualità, costruita da uomini poco esperti. Era stato eretto più per
impressionare che per una reale utilità, e sotto un successivo imperatore
furono necessari ampi interventi di ricostruzione. Il muro in torba
costruito più a nord dal successore di Adriano fu senz’altro meno
appariscente ma decisamente più funzionale. È difficile credere che una
parte dei finanziamenti per la costruzione del vallo non finisse in tasche
private, a causa dei funzionari romani e degli appaltatori locali che vi
facevano la cresta.
Quel mondo popolato dagli addetti alla costruzione e alla sorveglianza
del muro ci ha rivelato però delle sorprese. Non molto tempo fa, infatti,
gli archeologi hanno ritrovato una serie di tavolette in legno
perfettamente conservate nel fango, che gettano luce sulla vita quotidiana
in quei luoghi: dalle manovre militari agli accordi con i costruttori, a un
invito a una festa di compleanno, documento quest’ultimo che
costituisce forse la più antica testimonianza in latino scritta da una donna.
Nella lettera si legge: «Ti invito di cuore a venire da noi, sorella mia,
rivolgo un caloroso invito per esser certa che tu venga da noi, per rendere
ancora più felice la mia giornata con la tua presenza [...]. Ti aspetto,
stammi bene, sorella»31.
I soldati provenivano da tutte le regioni dell’impero – Batavia (negli
odierni Paesi Bassi), Pannonia, Siria, Arabia – e spesso si sposavano e
facevano figli con abitanti locali. Veneravano divinità ibride e senza
dubbio parlavano un latino corrotto. Costituirono la più vasta comunità
multietnica che la Britannia abbia conosciuto fino alla fine del XX
secolo.
Prima che Adriano lasciasse l’isola, dovette affrontare uno scandalo.
Licenziò Svetonio, il comandante dei pretoriani, e altri funzionari,
perché mostravano con Sabina una familiarità eccessiva rispetto a quella
consentita dall’etichetta. Come sempre, la moglie di Cesare doveva essere
al di sopra di ogni sospetto. Se dobbiamo credere alle fonti, Adriano
aveva una mezza idea di divorziare32. Purtroppo, però, ci manca la
versione della moglie!
Questo era l’atteggiamento di Adriano verso l’imperatrice, ma quando
si trattava della sua vita personale, al contrario, tollerava una certa
sfacciataggine. Il poeta e storico Publio Annio Floro, ad esempio, gli
inviò un motivetto, di cui ci è giunta la parte essenziale, nel quale lo
prendeva in giro per i suoi viaggi:
Non voglio essere Cesare:
s’aggira per le squallide
regioni dei Britannici,
lo punge il freddo Scitico.

Adriano gli rispose a tono:


Floro non vorrei essere:
s’aggira per le bettole
sprofonda nella crapula,
le zanzare lo pungono33.

LA POLITICA DELLA MORTE


Matidia, la suocera di Adriano, morì nel 119, dopo soli due anni dalla
sua ascesa al trono. L’imperatore la onorò pronunciandone l’orazione
funebre. Fece tenere dei giochi gladiatori in sua memoria, e la fece
divinizzare, com’era avvenuto per Marciana, madre di lei e sorella di
Traiano, e costruì un tempio dedicato a entrambe nel recinto cittadino.
Adriano fu forse il primo uomo nella storia a far divinizzare la propria
suocera. Ma la ragione di ciò non riguardava semplicemente la fedeltà
familiare. Diventando genero di una divinità, fatto ricordato da ogni
romano che si trovasse a passare davanti al tempio di Matidia, egli
rafforzò la propria legittimazione come imperatore. Anche Sabina
apprezzò certamente l’onore attribuito a sua madre, ma sapeva che il
marito aveva un’altra donna.
La madre surrogata di Adriano, Plotina, rimase vicina all’uomo che
aveva aiutato a salire sul trono. Non gli chiese mai troppo, perché non ne
aveva bisogno. Era una donna ricca, e viveva agiatamente. Era rispettata
da Adriano, sulle cui monete era ritratta con la formula «Plotina, Augusta
del divo Traiano»34. Ed era molto scaltra. Nelle rare occasioni in cui
chiese dei favori, lo fece per ottenere qualcosa che stava molto a cuore
allo stesso Adriano: ad esempio, chiese e ottenne l’aiuto dell’imperatore
perché venisse nominato un nuovo reggitore della scuola epicurea ad
Atene. Adriano apprezzava la sua discrezione, e per questo la elogiò
dopo la sua morte.
Quando nel 123 Plotina morì, Adriano vestì di nero per nove giorni.
La fece divinizzare, come aveva fatto con Matidia, e riconsacrò il tempio
che aveva costruito per Traiano al Divo Traiano e alla Diva Plotina (viene
da chiedersi se il nome di Plotina non fosse previsto anche nel progetto
originale della struttura, risalente a Traiano stesso). Adriano dispose che
le ceneri di Plotina fossero deposte presso quelle di Traiano, alla base
della colonna che ne portava il nome. Fece poi costruire un grande
edificio pubblico in memoria della donna nella sua città natale,
Nemausus. Si cominciò a far riferimento alla scomparsa Plotina come alla
diva mater di Adriano35.
Non vi è ragione di dubitare dell’attaccamento di Adriano a Matidia e a
Plotina, ma ovviamente era a capo di una dinastia, non di un fan
magazine. «Siamo una famiglia», avrebbe potuto essere il suo motto; ma la
famiglia in questione era quella di Traiano, e ciò non lasciava alcun
dubbio sul diritto di Adriano al trono. Inoltre, facendo spesso
riferimento ad Augusto e ad Agrippa, Adriano lasciava intendere di
essere un legittimo erede anche della famiglia del primo imperatore.
La politica della morte seguita da Adriano aveva assunto un andamento
particolare nel 122, l’anno precedente la scomparsa di Plotina. Fu allora
che l’imperatore perse il suo cavallo da caccia preferito. Il destriero era
probabilmente un regalo di un re barbaro, un uomo con cui Adriano
aveva negoziato un accordo di pace nel 117. Può darsi che avesse ricevuto
lo splendido animale, che aveva chiamato Borysthenes (l’altro nome del
fiume Dnepr), dopo che era cresciuto nelle steppe. Quando il cavallo
morì nella Gallia meridionale, Adriano gli allestì una vera e propria
tomba con una lastra su cui fece inscrivere versi probabilmente da lui
stesso composti36. Era un’esagerazione, ma la tomba di Borysthenes
assolveva a uno scopo politico: ricordare ai suoi sudditi che remote tribù
barbariche gratificavano il loro imperatore con doni magnifici e virili.
Adriano non era sempre altrettanto generoso quando si trattava di
concedere onori postumi. Quando nel 130 morì sua sorella Paolina, ad
esempio, fu particolarmente avaro. Quello stesso anno, invece, una
morte diversa avrebbe avuto un profondo effetto su di lui.

IL GIOVANE GRECO
Verso la fine di ottobre del 130, un giovane di vent’anni annegò nel Nilo,
a circa 340 chilometri a sud del Cairo. Non è certo se si trattò di un
incidente o di un suicidio – e, in questo caso, se fosse dovuto a un atto di
amore o di disperazione. Quel che avvenne poi, tuttavia, è assolutamente
chiaro. Improvvisamente, e al di là di ogni ragionevole ipotesi, il giovane
fu dichiarato un dio. Sarebbe poi diventato oggetto di una nuova
religione che eresse una città nel deserto, e ispirò devozione, costruzione
di templi, feste, giochi e capolavori dell’arte greco-romana, dal
Mediterraneo orientale all’Italia, destinata a durare secoli prima che il
cristianesimo vi ponesse fine. Fu una delle ultime fioriture dell’arte
classica e del paganesimo greco-romano gestito dallo Stato. E, in modo
sinistro e involontario, indicò la strada che sarebbe stata percorsa in
futuro.
Il giovane in questione si chiamava Antinoo. Era originario di
Claudiopolis (Bolu, nell’odierna Turchia, a 240 chilometri a est di
Istanbul), una città di provincia nella stessa regione della Bitinia da cui
Plinio il Giovane scrisse a Traiano riguardo ai cristiani. Antinoo era di
bellissimo aspetto e condivideva con Adriano l’amore per la caccia. A
parte questo, di lui non si sa altro. Non sappiamo a quando risalisse
l’incontro fra i due, anche se l’ipotesi più probabile è che fosse avvenuto
in occasione del passaggio di Adriano da Claudiopolis, nel 123, quando
Antinoo aveva tredici anni. Non sappiamo se fra loro vi fosse una
relazione fisica, ma che l’imperatore amasse quel giovane è fuor di
dubbio.
Come Marco Antonio, Adriano s’innamorò di una persona greca. Per
Antonio fu Cleopatra; per Adriano, Antinoo. In entrambi i casi,
l’infatuazione li portò fino in Egitto. Adriano vi arrivò attorno all’agosto
del 130. Prima di lui avevano visitato quel paese solo due imperatori:
Augusto e Vespasiano. Adriano aveva in progetto di ispezionare la più
ricca provincia romana e di rafforzarvi la presenza greca fondandovi una
nuova città greca nella media valle del Nilo. È possibile che all’origine di
quel viaggio vi fossero anche motivi di salute. In una fonte più tarda, e
senz’altro a lui ostile, si legge che Adriano si recò in Egitto perché era
malato37. Forse si trattava di una malattia respiratoria, magari il primo
manifestarsi del morbo cronico di cui poi sarebbe morto. L’Egitto aveva
fama di essere un luogo adatto alla cura delle affezioni dell’apparato
respiratorio. Ma si tratta di speculazioni, e se l’imperatore aveva problemi
di salute, non erano abbastanza seri da impedirgli di viaggiare fin lì.
Una volta giunto in Egitto, Adriano si recò in visita alle tombe di
Pompeo e di Alessandro Magno. Ad Alessandria prese parte ai dibattiti
che si tenevano al Museo, la grande istituzione educativa cittadina.
Adriano amava dibattere con i (si legga: battere i) sofisti, gli oratori e gli
intellettuali itineranti dell’epoca. Uno di loro, Favorino, spiegò
chiaramente per quale motivo permetteva all’imperatore di avere la
meglio nelle loro dispute, considerando «più dotto di tutti uno che ha al
suo comando trenta legioni!»38.
Sembra che Adriano e Antinoo si rifugiassero insieme in un luogo di
villeggiatura fuori Alessandria. È certo, in ogni modo, che entrambi
presero parte a una caccia al leone nel deserto occidentale dell’Egitto.
Antinoo faceva parte del gruppo dei cacciatori, e l’arte e la poesia ufficiali
narrano che l’imperatore lo salvasse da un leone uccidendo l’animale39.
Adriano viaggiava con un vasto personale al seguito comprendente vari
funzionari, studiosi, poeti, parassiti e via dicendo: qualcosa forse come
cinquemila persone. Sopravvivono testimonianze del notevole impegno a
cui erano sottoposte le città egizie per preparare le vivande per il loro
arrivo40. Con l’imperatore c’era non solo Antinoo, ma anche sua moglie
Sabina. Almeno due anni prima, Adriano le aveva assegnato il titolo
onorario di Augusta. Ciò rafforzava la sua legittimazione come
imperatore e costituiva anche un gesto di rispetto per la consorte, forse
perfino un gesto di amore. Il gruppo imperiale s’imbarcò per una
crociera sul Nilo. Lungo il percorso, oltre a visitare le piramidi e altre
attrazioni turistiche dell’epoca, Adriano consultò sacerdoti e maghi su
questioni riguardanti la vita e la morte.
Il 22 ottobre l’Egitto celebrava la festa annuale dedicata al Nilo. Il 24
ottobre era l’anniversario della morte del dio Osiride nel Nilo. Secondo
le credenze locali, Osiride aveva trionfato sulla morte e portato fertilità e
immortalità a quelle terre. Fu più o meno in questo periodo, forse quel
giorno stesso, che Antinoo annegò, proprio in quel tratto della valle del
Nilo in cui Adriano progettava di costruire la nuova città. Nell’arco di
una settimana, il 30 ottobre, l’imperatore dichiarò che il nuovo
insediamento sarebbe sorto nel luogo esatto in cui il corpo del giovane
era stato depositato a riva. Non vi è dubbio che in origine avesse pensato
di denominare il nuovo centro Hadrianopolis, ma ora decise per
Antinopolis.
Adriano scrisse, forse nella sua perduta autobiografia41, che Antinoo era
caduto nelle acque del Nilo accidentalmente42. Ma l’imperatore avrebbe
negato il suicidio del giovane perché il costume egizio negava ai suicidi
l’immortalità, ed era invece proprio l’immortalità che Adriano e i suoi
consiglieri intendevano attribuire al giovane. Altri scrittori antichi
forniscono una versione diversa43. Alcuni affermano che Antinoo si era
sacrificato nobilmente e altruisticamente per garantire lunga vita ad
Adriano, mentre altri sostengono che il giovane si suicidò disperato
perché Adriano insisteva per continuare la loro relazione amorosa anche
una volta passata l’età della decenza. Si tratta di supposizioni, se non di
pettegolezzi maliziosi. Né i greci né i romani avevano il costume di
considerare il sacrificio della vita personale come un mezzo magico per
allungare la vita di qualcun altro, ma forse Antinoo era semplicemente un
adolescente in preda al turbamento. Ma non sapremo mai quali furono i
motivi del suo annegamento.
Adriano tenne duro, e il gruppo imperiale continuò a ridiscendere il
Nilo, come se non fosse successo nulla. Si recarono a vedere una famosa
statua colossale di un faraone egizio, che i greci pensavano fosse il
leggendario re etiope Memnone. La statua era celebre perché emetteva
uno strano suono acuto, soprattutto all’alba, probabilmente dovuto
all’evaporazione della rugiada nella roccia. Fu lì che la compagna di
viaggio di Sabina, Giulia Balbilla, una nobildonna poetessa di
discendenza mista greco-romana, recitò quattro poesie. I versi
celebravano la visita di Adriano e Sabina alla statua, e in seguito furono
inscritti sul piede e sulla caviglia sinistri della statua, nella posizione più
in vista. Sabina stessa lasciò quattro righe di testo in prosa greca nello
stesso posto:
Sabina Augusta,
moglie dell’imperatore Cesare
Adriano, udì Memnone
per due volte nell’ora...44

Per quanto breve e formale, questo testo ha un valore inestimabile, e


costituisce una testimonianza rarissima. Sabina vi proclamava il proprio
rango e quel che aveva fatto. Se aveva provato emozione per la morte di
Antinoo, la tenne per sé.
Senza dubbio Adriano pianse la scomparsa del giovane, ma nessun
imperatore era disposto a permettersi di sprecare una tragedia. Come
Augusto aveva istituito un culto religioso in memoria di Cesare, così
Adriano ne creò uno in memoria di Antinoo. Se Augusto aveva
affermato che la comparsa nei cieli di una cometa era la prova
dell’immortalità di Cesare, Adriano sostenne che l’apparizione di una
nuova stella assumeva lo stesso significato in relazione ad Antinoo.
Il nuovo dio Antinoo ebbe i suoi templi e i suoi sacerdoti. In suo onore
furono tenuti giochi in Grecia, Asia Minore, Egitto e Italia. La sua tomba
ad Antinopolis era costituita da un santuario, mentre a Tibur sorse un
tempio a lui consacrato. Oggi disponiamo di oltre cento statue che lo
raffigurano, oltre che di monete e bassorilievi, e sicuramente un tempo
esistevano altri manufatti del genere. Si dice che le immagini
riconducibili ad Antinoo siano più numerose di quelle dedicate a
qualsiasi altra personalità, eccetto quelle di Augusto e di Adriano stesso45.
Sebbene inizialmente fosse venerato al fine di compiacere Adriano, il
nuovo dio divenne poi realmente popolare.
Paolina, la sorella di Adriano, morì più o meno in quello stesso
periodo, ma ebbe onori per nulla paragonabili a quelli ricevuti da
Antinoo. Il fratello la commemorò assegnando il suo nome a una delle
dieci tribù (approssimativamente distretti) della città di Antinopoli.
Alcuni romani mettevano in ridicolo il nuovo culto religioso46. Erano
infastiditi dalla divinizzazione da parte di Adriano di un giovane greco
defunto, più di quanto non lo fossero per la sua relazione amorosa con
uno vivente. Alcuni si lamentarono del fatto che per lui l’imperatore
«pianse come avrebbe pianto una donna»47.
Ma l’istituzione del nuovo culto non fu da parte di Adriano un semplice
atto di sentimentalismo. Egli capiva che il mondo stava cambiando, e che
l’Oriente greco offriva un modello culturale per il futuro.
Sicuro di sé, l’imperatore non si sarebbe sorpreso se alla fine il mondo
romano fosse arrivato a credere, come lui stesso, in una nuova divinità
salvatrice che prometteva la resurrezione. Sarebbe rimasto scioccato,
tuttavia, se avesse scelto l’oscura setta cristiana, ispirata dall’ebraismo,
piuttosto che la rinata gloria della Grecia. Gesù era morto quasi
esattamente un secolo prima di Antinoo, ma nell’improbabile caso che
Adriano o i suoi teologi avessero in mente Gesù quando promossero
l’idea del potere salvifico di Antinoo, forse non sarebbero stati disposti ad
ammetterlo neppure a sé stessi. Adriano non perseguitò il cristianesimo
più di quanto non avesse fatto Traiano, ma fu sempre disposto a
giustiziare coloro che rifiutavano apertamente di venerare l’imperatore.
Le cose non andarono come previsto. Adriano propose Atene, ma alla
fine l’impero scelse Gerusalemme. Tuttavia, per quanto riguardava
Adriano, Gerusalemme non esisteva più. Infatti, stava tentando di darle
una dignitosa sepoltura.

LA GUERRA GIUDAICA
Adriano provocò una nuova ed enorme rivolta giudaica contro Roma,
che si protrasse dal 132 al 135. La causa scatenante fu probabilmente la
sua decisione di rifondare Gerusalemme facendone una città romana.
Proibì inoltre la circoncisione, che costituiva una pratica fondamentale
per gli ebrei (ma forse si trattò solo di una forma di punizione
conseguente alla ribellione: la cronologia è incerta). Si potrebbe pensare
che dopo la distruzione della città operata da Tito nel 70, Gerusalemme
fosse una landa desolata, ma in realtà era ancora abitata. Nell’antichità,
spesso piccoli gruppi di persone continuavano a vivere nelle città
«distrutte». Così, a Gerusalemme non solo era di stanza una legione, ma
continuavano a risiedervi anche ebrei. Sebbene il tempio fosse stato
distrutto, esistevano sette sinagoghe.
Sia Traiano sia Adriano accennarono inizialmente a politiche più
amichevoli nei confronti dei giudei, forse lasciando addirittura
intravedere una ricostruzione del tempio. Ma i progetti per la
costruzione di Aelia Capitolina, annunciati nel 130, posero fine a tutto
ciò. La nuova città avrebbe avuto un carattere profondamente romano,
una pianta ortogonale e sarebbe stata intitolata ad Adriano (Aelius) e a
Giove (Giove Capitolino).
La rivolta, quando scoppiò, fu violenta e spettacolare. I ribelli si
prepararono accuratamente fabbricando armi e utilizzando le grotte sia
come fortezze sia come rifugi. Dichiararono l’indipendenza e la
consolidarono, riuscendo a strappare ai romani un’ampia parte della
Giudea e a governarla per tre anni. Vararono leggi, coniarono monete e,
soprattutto, combatterono una guerra.
Diversamente dalla rivolta avvenuta fra il 66 e il 70, i giudei si
mostrarono uniti. Il loro capo era un uomo carismatico, spietato ed
efficiente, che assunse il nome di battaglia di Simon Bar Kōkĕbā, vale a
dire «Simone figlio di una stella». In questa scelta si può forse scorgere un
riferimento a una profezia biblica, o alla nuova stella che gli astrologi di
Adriano osservarono dopo la morte di Antinoo, o a entrambe le cose.
Bar Kōkĕbā assunse il titolo di principe di Israele, e le sue monete
annunciavano libertà e redenzione. Gli ebrei speravano che egli fosse il
Messia. I romani vi videro una minaccia alla sicurezza così grave da
richiedere una risposta forte, soprattutto quando gli attacchi dei rivoltosi
causarono perdite tali da provocare lo scioglimento di una o forse due
legioni.
Agli occhi di Adriano i ribelli poterono apparire ingrati, poiché non
accettavano di essere liberati dalle loro arretrate credenze. Prima di
decidere di costruire Aelia, parlò forse con gli ebrei ellenizzati, i quali gli
assicurarono che la maggior parte della popolazione locale avrebbe
accolto a braccia aperte l’ellenismo. Ma la realtà sarebbe stata ben diversa.
Adriano non fu né il primo né l’ultimo degli statisti occidentali a
sottovalutare il livello di resistenza che il Medio Oriente era in grado di
opporre ai riformatori stranieri.
Non c’è furia peggiore di quella di un imperatore tradito. Adriano
adottò misure di emergenza, fece accorrere le truppe in Giudea da altre
province e arruolò soldati in Italia, attuando una politica impopolare,
cosa che gli imperatori in genere tentavano di evitare. Spedì sul posto il
suo miglior generale, Sesto Giulio Severo, governatore della lontana
Britannia. L’imperatore forse visitò personalmente il fronte, circostanza
che testimonia la gravità della situazione. La strategia romana consisteva
nell’attuare una lunga e dura campagna contro-insurrezionale per avere la
meglio sui ribelli asserragliati nelle grotte. Al momento opportuno,
strinsero d’assedio la piazzaforte di Bar Kōkĕbā nella città di Betar, poco a
sud-ovest di Gerusalemme. La sua caduta alla fine del 135 segnò la fine
della resistenza organizzata, dopo oltre tre anni dallo scoppio della rivolta.
Bar Kōkĕbā fu ucciso, e la sua testa venne portata – a quanto si dice – ad
Adriano. In Giudea continuarono le operazioni di pulizia del territorio.
Adriano non era Hitler, ovviamente, e non puntava ad annientare gli
ebrei. Tuttavia, colui che fu il più civile degli imperatori romani scatenò
quello che è forse il più grave massacro della storia ebraica prima
dell’Olocausto; le fonti parlano dell’uccisione di 580.000 ebrei48. Come
al solito, si tratta di numeri da prendere con cautela, ma le perdite furono
sicuramente di vasta portata, e ad esse si aggiunsero le persone ridotte in
schiavitù e vendute.
Dopo la rivolta, gli ebrei si trovarono ad essere una minoranza in
Giudea (da allora denominata Siria Palestina). Era loro proibito l’accesso a
Gerusalemme e alle aree circostanti, con un’unica eccezione:
l’anniversario della distruzione del tempio, in occasione del quale
potevano celebrarvi il lutto.
Ciò nonostante, Adriano non distrusse completamente la vita dei
giudei nella loro terra. Con l’afflusso degli esuli dalla Giudea, il numero
degli ebrei in Galilea e in altre aree settentrionali rimase consistente,
mentre anche in Giudea continuò ad esservi una piccola minoranza. La
persecuzione di Adriano si concentrò sui principali rabbini, ma fece
anche dei martiri. Il Talmud considerava questi martirii una
«santificazione del nome di Dio», tale quindi da rafforzare il popolo di
Israele49.
Nel frattempo, la religione giudaica prosperò grazie alle sinagoghe e ai
maestri. I romani permisero ai giudei la libertà di riunione, e alla fine il
successore di Adriano rese meno rigido il divieto di praticare la
circoncisione. Ma la nuova città di Aelia rendeva difficile pensare che il
tempio sarebbe stato ricostruito in tempi brevi. Non sorprende, quindi,
che la tradizione rabbinica maledicesse Adriano, dicendo: «Possano le sue
ossa marcire!»50.

LA MORTE COGLIE L’IMPERATORE


Nel 134 Adriano era tornato a Roma, o meglio nella sua villa di Tivoli.
Era già un uomo malato. Oltre a consultare medici, astrologi e maghi,
continuava a prendersi cura degli affari dell’impero, spesso rimanendo
sdraiato sul divano51. Nel 136 la questione più urgente nella sua agenda
era quella della successione. Adriano non intendeva lasciare la questione
irrisolta fino a quando sarebbe stato in punto di morte, né ad altri dopo la
sua morte, come aveva fatto Traiano.
Nel 136, dopo aver avuto un’emorragia quasi fatale, nominò come
proprio successore Lucio Ceionio Commodo, e lo adottò come figlio.
L’élite espresse la sua generale opposizione a questa mossa, in quanto
Ceionio, all’epoca trentacinquenne, non aveva niente per cui potesse
essere raccomandato, se non il fatto di essere uno dei bei giovani nobili di
cui Adriano amava circondarsi52.
Nessuno si oppose più di Pedanio Fusco, pronipote di Adriano e
nipote di sua sorella Paolina, che aveva confidato di essere il prescelto per
la successione. Adriano vide nel dispiacere di Pedanio una minaccia, al
punto che lo fece giustiziare. Ancora una volta, l’imperatore manifestò la
propria tendenza alla tirannia. Inoltre, attaccò anche il nonno di Pedanio
per aver appoggiato l’ambizioso giovane. Questi altri non era che
Serviano, il suo vecchio rivale, il quale era abbastanza influente da essere
stato nominato console nel 134, ma non così potente da sfidare
impunemente l’imperatore. Sebbene avesse novant’anni, fu costretto a
suicidarsi. Prima di morire maledisse Adriano, augurandogli di
ammalarsi a tal punto da desiderare di morire senza però potervi riuscire.
La prima però a morire, alla fine del 137, fu Sabina. Aveva circa
cinquantadue anni. Prevedibilmente, si vocifera che fu Adriano ad
avvelenarla o a spingerla ad uccidersi53. La reazione dell’imperatore alla
morte della moglie non fa affatto pensare che lui la desiderasse. L’ascesa al
cielo di Sabina – Adriano la fece divinizzare – è raffigurata in un
bellissimo rilievo marmoreo che lo mostra nell’atto di osservare la moglie
mentre viene portata via da una donna alata. È una scena raffinata e
commovente. Anche in alcune monete e in un rilievo scolpito troviamo
raffigurate la divinizzazione di Sabina e la sua ascesa al cielo54.
E anche per il successore di Adriano, Ceionio, le cose non andarono
per il verso giusto. Infatti, sarebbe morto di tubercolosi il giorno di
capodanno del 138. A questo punto Adriano scelse per la propria
successione un uomo maturo, il cinquantunenne Aurelio Antonino –
che poi fu imperatore dal 138 al 161 col nome di Antonino Pio.
Adriano, però, non voleva lasciare l’impero nelle mani di un uomo che
era vecchio quasi quanto lui, e fece quindi pressioni perché Antonino
adottasse due giovani. Uno era Lucio Vero, figlio dello scomparso
Ceionio Commodo. L’altro era Marco Annio Vero, nipote acquisito di
Antonino in seguito a un matrimonio e lontano parente di Adriano. Era
un sedicenne promettente e di talento, e condivideva gli interessi
intellettuali di Adriano. Si trattava di un piano elaborato, ma molti
pensavano che l’imperatore puntasse in realtà su Marco, e che Ceionio e
Antonino fossero delle controfigure, con Lucio Vero come riserva.
Se Adriano con un atto di modestia evitò che il proprio nome
comparisse nel Pantheon, si rifece con la propria tomba, il mausoleo che
da lui prende il nome. Il mausoleo di Augusto era chiuso, per cui, come i
Flavi e Traiano, Adriano trovò una nuova località in cui riposare, e lo fece
con stile. Costruì una grandiosa tomba al di là del Tevere, nell’ager
Vaticanus, non lontano da dove un giorno sarebbe sorta la basilica di San
Pietro. Un nuovo ponte conduceva al sepolcro, offrendo al viaggiatore
una prospettiva meravigliosa. Il mausoleo era una struttura vasta e
complessa, con due anelli cilindrici a scalare che si ergevano su una base
quadrata decorata con splendidi marmi. La sua forma richiamava quella a
più piani di una pira funeraria imperiale. La somiglianza poteva indurre i
romani a richiamare alla mente la cerimonia funebre mediante cui l’anima
di un imperatore ascendeva fino agli dèi. Per grandiosità, il mausoleo di
Adriano rivaleggiava con quello di Augusto, visibile a circa ottocento
metri di distanza al di là del Tevere. Oggi è noto come Castel
Sant’Angelo, essendo stato per secoli utilizzato dai papi e dai nobili
romani. Il nucleo antico è ancora visibile.
Quando la malattia di Adriano giunse al punto terminale, nel 138, il
mausoleo era pronto. Perfino nella comoda sistemazione della sua
splendida residenza di campagna, l’imperatore respirava a fatica. Perdeva
sangue dal naso e aveva ritenzione di liquidi alle gambe e ai piedi, a causa
di un indurimento delle arterie e dell’insufficienza cardiaca. Vedendo
peggiorare le proprie condizioni, tentò con la magia e gli amuleti.
Quando constatò che non sortivano alcun effetto, ne concluse che la
morte sarebbe stata a quel punto un sollievo. L’uomo che aveva descritto
la propria anima come «ospite» del corpo era ormai pronto ad
andarsene55. Pregò i suoi servi di ucciderlo, ma nonostante promettesse
loro soldi e immunità, nessuno accettò di farlo. Dopotutto, era sempre
l’imperatore dei romani: e chi mai avrebbe voluto uccidere l’imperatore?
Alla fine, il suo assistente di caccia, un prigioniero di guerra di origine
barbara, schiavo noto per la sua forza e il suo coraggio, accettò di farlo.
Adriano tracciò una linea colorata sulla propria pelle, sotto un capezzolo,
nel punto in cui il suo medico gli aveva consigliato di dirigere il colpo,
ma alla fine anche il barbaro si tirò indietro. Sapendo che Adriano
avrebbe tentato di suicidarsi, il suo erede Antonino gli tolse il pugnale. A
questo punto, l’imperatore chiese al medico di somministrargli del
veleno, ma questi rifiutò56. A sessantadue anni, Adriano era in là con gli
anni ma non vecchio: «la sua anziana età era ancora fresca e forte»,
commentò uno scrittore antico57. Ma stava deperendo.
Adriano desiderava morire, ma i suoi disperati tentativi di trovare
qualcuno che lo uccidesse erano tutti falliti. Si avverò, così, la
maledizione di Serviano58. Finalmente, vide la fine arrivare. A quel
punto aveva ormai raggiunto uno stato di filosofica padronanza di sé.
Si narra che l’imperatore morente componesse una breve poesia, che
suona così:
O mia animuccia, o tenera,
dolce del corpo ospite,
or tu tra l’aure livide
fredde tra l’aure squallide
andrai d’un altro mondo
senza poter più vivere
un attimo giocondo59.

Animula vagula blandula: le prime parole del testo latino originale


evidenziano l’andamento cantilenante della poesia, quasi di filastrocca,
come se quel grande uomo volesse ritornare fanciullo – seguendo però
modalità finemente elaborate. Nei suoi versi l’imperatore morente
manifesta un certo sarcastico realismo: un distacco filosofico verso ciò
che lo aspetta. Oppure stava solo tentando di farsi coraggio?
Il 10 luglio 138 Adriano morì.
Quando scomparve, si dice che la gente manifestasse il proprio odio per
lui e che molti ebbero dure parole nei suoi confronti, ricordando le
uccisioni dell’ex console e di Pedanio e Serviano60. Non venne sepolto
nel mausoleo a Roma ma in una località del Golfo di Napoli, vicino al
luogo in cui morì. Il nuovo imperatore, Antonino, dovette battagliare col
Senato per ottenere il consenso alla sua divinizzazione. Ai senatori non
rimanevano ormai molti poteri, ma fra questi vi era l’approvazione da
dare in casi simili. Un anno dopo la morte, le ceneri di Adriano furono
finalmente deposte nel luogo che lui stesso aveva scelto, a Roma. Nel
139 il corteo funebre salì, in un’atmosfera solenne, la rampa a spirale nel
centro del sepolcro con una sontuosa marcia, alla luce delle torce, e le
depositò in un’urna posta nel cuore del complesso, dove si riunirono a
quelle di Sabina.

L’EREDITÀ DI ADRIANO
Per certi aspetti, Adriano costituisce un esempio di ciò che un
imperatore non avrebbe dovuto fare. Si sfinì a causa dell’eccessivo lavoro,
quando avrebbe potuto delegarne almeno una parte. Forse si ammalò per
la fatica dei viaggi o perché beveva, anche se è possibile che abbiano
pesato maggiormente fattori genetici o il puro caso. Si intromise
inutilmente negli affari delle province e suscitò una guerra disastrosa in
Giudea.
Adriano salì al trono in circostanze tutt’altro che limpide, e aprì il suo
regno uccidendo quattro uomini di primo piano, suscitando l’odio e la
paura del Senato. Era più cortese con la gente comune che con i suoi
pari, fra i quali non tollerava gli idioti. Era tendente alla malinconia,
volubile e competitivo.
I suoi critici lo definivano saccente e spaccone, dedito ad ogni
immaginabile attività, dalla filosofia alla pittura, e insofferente riguardo a
chiunque lo superasse. Lo storico Cassio Dione, che proveniva da una
famiglia delle province ammessa al Senato, si oppose appassionatamente
ai nemici di quella istituzione, fra cui Adriano, del quale scrisse: «Infatti,
dato che voleva primeggiare in tutto su tutti, odiava coloro che si
distinguevano in qualche attività»61. Quella che qualcuno riteneva
attenzione ai particolari, per altri era ingerenza; quella che alcuni
ritenevano disciplina, per altri era rigidità e ciò a cui alcuni plaudevano
come generosità veniva da altri criticato come ingerenza. Una lunga serie
di conquiste, però, fu in grado di bilanciare tutto questo.
Adriano si definiva il nuovo Augusto, un secondo fondatore
dell’impero, e per certi aspetti aveva ragione. Come Augusto, ricostruì la
città di Roma. Entrambi razionalizzarono, organizzarono e codificarono
il diritto e le consuetudini romane.
Entrambi viaggiarono nei territori delle province e promossero
cambiamenti fondamentali. L’uno e l’altro offrirono opportunità alle
élites provinciali, ma Adriano aprì la porta ancor più di quanto avesse
mai fatto il suo predecessore. Adriano promosse l’ellenismo, mentre
Augusto fu fondamentalmente romano. I due fondarono città, e diffusero
ovunque le loro immagini nell’impero, in misura superiore a qualsiasi
altro predecessore.
Per alcuni aspetti, tuttavia, Adriano fu l’opposto di Augusto – e ciò va a
suo merito, si potrebbe concludere. Sebbene entrambi promuovessero la
pace, Augusto sosteneva l’idea di un impero senza fine (imperium sine fine),
e con le sue continue guerre di conquista mostrò quanto ne fosse
convinto. Come Tiberio, Adriano riteneva Roma una potenza ormai
sazia: si ritirò dai territori conquistati da Traiano in Medio Oriente e
nella Dacia orientale, e costruì muri e fossati, segni di una politica di pace
all’interno e di frontiere stabili. Paradossalmente, Augusto non fu
propriamente un soldato, mentre Adriano amava la vita militare.
In politica, però, i due mostrarono molte differenze. Come Augusto,
Adriano era un genio pragmatico, ma privo della pazienza necessaria per
conciliare il Senato. In lui si intravede un Caligola o un Nerone che
aspettano di esplodere. Forse anche Traiano percepì questo aspetto, e
trovò così un ulteriore motivo per esitare prima di scegliere Adriano
come successore.
Adriano non aveva un alter ego o un braccio destro; nessuno di cui si
fidasse come Augusto aveva potuto fidarsi di Agrippa, o Vespasiano di
Tito, o Traiano di Sura. Ciò nonostante, promosse persone di talento.
Scelse un filosofo come governatore dell’Egitto, uno studioso come
proprio segretario personale, un giurista come riformatore delle leggi e
uno storico e teorico militare come governatore della Cappadocia, in
Asia Minore. Erano tutti intellettuali, ma per comandare la guardia
pretoriana, Adriano scelse un omaccione che proveniva dal rango di
centurione. Adriano aveva una mentalità aperta, ma non era facile
lavorare per lui: licenziò sia il suo segretario sia il prefetto del pretorio.
Era un uomo vanitoso, e si gloriava del suo multiforme talento in
campo culturale e architettonico (attivo come fu in settori come
l’architettura, il canto, il suono della lira, la matematica, la scienza
militare, la filosofia, la sofistica), mentre Augusto era più discreto. In una
delle poche eccezioni a questo suo modo di fare, scrisse il nome di
Agrippa sul Pantheon da lui ricostruito, senza far comparire il proprio,
ma il risultato finì per accrescere il suo merito perché in tal modo
associava la propria opera all’età augustea.
Augusto aveva centrato la sua vita personale sul matrimonio, sui figli e
sui nipoti, mentre Adriano era prima di tutto omosessuale, ed ebbe una
relazione amorosa con un giovane greco che avrebbe suscitato scandalo
nel suo predecessore, come fece con alcuni suoi contemporanei.
Entrambi crearono una nuova religione, ma Augusto concentrò
l’attenzione sul proprio padre adottivo, sulla propria famiglia e su sé
stesso, non su un giovane greco defunto.
Molti osservatori ritengono che l’epoca di Adriano costituisca l’apogeo
dell’impero romano. Adriano riuscì ampiamente nel suo scopo di
garantire all’impero pace, prosperità e maggiore apertura. Sotto di lui,
Roma e l’Oriente greco conobbero una ricca produzione culturale e una
fioritura delle arti. Alcuni dei più famosi monumenti antichi giunti fino a
noi risalgono al periodo del suo regno. Su tutto ciò aleggia il volto di
Adriano. Egli è non solo uno degli imperatori più spesso raffigurati
nell’arte antica, ma anche il più interessante: bello, intelligente, di volta in
volta compassionevole e terribile, con la barba che gli conferisce un
aspetto da filosofo, il portamento militare, l’espressione enigmatica.
Adriano ha lasciato un ricco patrimonio al suo successore. Sotto
Antonino Pio l’impero fu, se non altro, più pacifico e fiorente che sotto
lo stesso Adriano. Marco Aurelio cominciò continuando le politiche di
confine di Adriano, ma poi impresse agli eventi un corso diverso.
Forse ciò non sorprende, perché Adriano, nonostante tutto il suo
successo, suscita in noi il sentimento di una fine imminente. Aveva
coltivato un elitarismo greco-romano, costruito fortificazioni di confine
più appariscenti che di sostanza, represso ribellioni che avevano lasciato i
sopravvissuti spiritualmente più forti e fondato una nuova religione il cui
fascino doveva ancora essere messo alla prova. La rinascita del paganesimo
si sarebbe rivelata di breve durata. Il sistema delle difese di frontiera non
tenne a distanza i nemici che vivevano dall’altra parte. E i romani non
avrebbero mostrato a lungo l’autocontrollo necessario a non riprendere il
vecchio impulso a un’espansione senza fine.
 
1
Cassio Dione, Storia romana LXIX.1.2-4.
2
Historia Augusta, Adriano IV.10.
3
Le parole citate sono di Polemone: si veda Simon Swain, Polemon’s Physiognomy, in Id. (ed.),
Seeing the Face, Seeing the Soul: Polemon’s Physiognomy from Classical Antiquity to Medieval Islam,
Oxford University Press, Oxford-New York 2007, pp. 167-168.
4
The Cambridge Ancient History, vol. XI, The high empire, A.D. 70-192, a cura di Alan K.
Bowman, Peter Garnsey e Dominic Rathbone, Cambridge University Press, Cambridge
20002, p. 975.
5
Cassio Dione, Storia romana LXIX.5.3.
6
Ivi, LXIX.9.4; cfr. Historia Augusta, Adriano XVII.9 e XXIII.1.
7
Cassio Dione, Storia romana LXIX.10.3.
8
Historia Augusta, Adriano XIV.11.
9
Ivi, I.5.
10
Plinio il Giovane, Carteggio con Traiano X.40.2.
11
Plutarco, Se sia ben detto «Vivi senza farti notare», in Id., Tutti i Moralia, prima traduzione
italiana completa, testo greco a fronte, coordinamento di Emanuele Lelli e Giuliano Pisani,
Bompiani, Milano 2017, pp. 2194-2198 (1128B-1130D).
12
Quinto Orazio Flacco, Epistola II.1.156-157, in Id., Opere, a cura di Tito Colamarino e
Domenico Bo, UTET, Torino 2002, p. 436.
13
Si veda, ad esempio, il busto conservato al Museo del Prado (Madrid), inv. E00210.
14
Historia Augusta, Adriano XI.3; Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 14.8.
15
Historia Augusta, Adriano III.2.
16
Ivi, III.7.
17
Ivi, III.10.
18
Ivi, IV.1.
19
Ivi, IV.5.
20
Ivi, IV.3-5 e IV. 8-10.
21
Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 3 voll., a cura di
David Womersley, Penguin, Harmondsworth 1994, vol. I, p. 100 (trad. it. di Giuseppe Frizzi,
Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, con un saggio di Arnaldo Momigliano, Einaudi,
Torino 1967).
22
Pausania rileva un’eccezione al rifiuto della guerra da parte di Adriano, vale a dire la
repressione della rivolta giudaica: Pausania, Guida della Grecia, Libro I, L’Attica, introduzione,
testo e traduzione a cura di Domenico Musti, commento a cura di Luigi Beschi e Domenico
Musti, Fondazione Valla, Milano 1990, I.5.5.
23
Cassio Dione, Storia romana LXIX. 4.1-5; cfr. Anthony Birley, Hadrian: The Restless Emperor,
Routledge, London 1997, loc. 6316.
24
Furono numerose le località che aggiungevano al loro nome quello di Adriano, e ne esisteva
anche una chiamata «Caccia di Adriano», perché l’imperatore vi si era recato appunto per
cacciare.
25
John Keegan, A History of Warfare, Hutchinson, London 1993, p. 70.
26
L’espressione sprezzante risale all’architetto di Traiano, Apollodoro (Cassio Dione, Storia
romana LXIX.4.2).
27
Ivi, LXIX.6.3.
28
Historia Augusta, Adriano X.1.
29
Michael Speidel, Emperor Hadrian’s Speeches to the African Army: A New Text, Verlag des
Römisch-Germanischen Zentralmuseums, Mainz 2006, p. 15.
30
Cassio Dione, Storia romana LXIX.9.6.
31
Vindolanda, tavoletta 291: Vindolanda, inv. 85.057
(http://vindolanda.csad.ox.ac.uk/4DLink2/4DACTION/WebRequestTablet?
thisLeafNum=1&searchTerm=Families,%20pleasures%20and%20ceremonies&searchType=b
rowse&searchField=highlights&thisListPosition=3&displayImage=1&d
isplayLatin=1&displayEnglish=1). La traduzione italiana è tratta da Eva Cantarella, Perfino
Catone scriveva ricette. I greci, i romani e noi, Feltrinelli, Milano 2014, pp. 93-94.
32
Historia Augusta, Adriano XI.3.
33
Ivi, XVI.3.
34
Si veda, ad esempio, RIC II Hadrian 29 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.2.hdn.29).
35
Così viene definita Plotina su una moneta d’oro (Kunsthistorisches Museum, Vienna, MK
8622, 134-138).
36
Cassio Dione, Storia romana LXIX.10.2; cfr. Historia Augusta, Adriano XX.12.
37
James Elmer Dean (ed.), Epiphanius Treatise on Weights and Measures: The Syriac Version, con
una prefazione di Martin Sprengling, University of Chicago Press, Chicago 1935, p. 14.
38
Historia Augusta, Adriano XV.13.
39
Per i particolari, si veda Birley, Hadrian cit., pp. 240-243.
40
Più in particolare, si veda ibid.
41
Cassio Dione, Storia romana LXIX.11.2.
42
Ibid.
43
Ivi, LXIX.11.2-3; Historia Augusta, Adriano XIV.6; Aurelio Vittore, De Caesaribus 14.7-9.
44
Patricia Rosenmeyer, Greek Verse Inscriptions in Roman Egypt: Julia Balbilla’s Sapphic Voice, in
«Classical Antiquity», XXVII (2008), 2, p. 337.
45
Caroline Vout, Antinous, Archaeology and History, in «Journal of Roman Studies», XCV
(2005), p. 82.
46
Cassio Dione, Storia romana LXIX.11.4; Historia Augusta, Adriano XIV.7.
47
Historia Augusta, Adriano XIII.5.
48
Cassio Dione, Storia romana LXIX.14.1.
49
Bavli Berachot, 20a; Midrash Tehillim.
50
Si veda, ad esempio, Deuteronomio Rabbah 3:13; Pesikta Rabbati 21.
51
Cassio Dione, Storia romana LXIX.20.1.
52
Historia Augusta, Adriano XXIII.10.
53
Ivi, XXIII.9; Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus, 14.8.
54
Per le monete si veda, ad esempio, RIC II Hadrian 1051A
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.2.hdn.1051A); Harold A. Mattingly, Edward A.
Sydenham, Roman Imperial Coinage, vol. II, Vespasian to Hadrian, Spink & Son, London 1926,
pp. 386 e 399. Per la scultura, si veda Wolfgang Helbig, Die vatikanische Skulpturensammlung.
Die kapitolinischen und das lateranische Museum, vol. I, Führer durch die öffentlichen Sammlungen
klassischer Altertümer in Rom, Teubner, Leipzig 1891, p. 357; Gerhard M. Koeppel, Die
historischen Reliefs der römischen Kaiserzeit IV, in «Bonner Jahrbücher des Rheinischen
Landesmuseums in Bonn und des Vereins von Altertumsfreunden im Rheinlande»,
CLXXXVI (1986), pp. 1-90.
55
Historia Augusta, Adriano XXV.9.
56
Ivi, XXIV.13: qui si afferma che il medico invece di ucciderlo si suicidò, ma il fatto sembra
attribuibile a una voce di corridoio, forse fatta circolare dai nemici di Adriano.
57
Aurelio Vittore, De Caesaribus, 14.12, dove si può cogliere un’eco di Virgilio, Eneide,
VI.304.
58
Cassio Dione, Storia romana LXIX.17.1-3.
59
Historia Augusta, Adriano XXV.9.
60
Ivi, XXVII.1; Cassio Dione, Storia romana LXIX.23.2.
61
Cassio Dione, Storia romana LXIX.4. Neppure il padre di Dione, Aproniano, era un
ammiratore di Adriano: si veda ivi, LXIX.1.12.
Marco Aurelio
7
Marco Aurelio, il filosofo

Cominciamo dalla storia di una statua e di un libro, che spiegano per


quale motivo Marco Aurelio sia diverso da ogni altro imperatore
romano.
La statua è nota ai milioni di turisti che arrivano a Roma ogni anno e
visitano il Campidoglio, l’antico colle che s’innalza sopra il Foro. È lì che
possono vedere la famosa statua in bronzo dorato di Marco Aurelio a
cavallo. Con portamento dignitoso ed eretto, e raffigurato in dimensioni
leggermente più grandi del reale, l’imperatore cavalca con atteggiamento
tranquillo l’animale. Col braccio destro teso verso la piazza, capolavoro
rinascimentale dalle forme armoniose, l’imperatore trasmette un senso di
impareggiabile e palpabile serenità. Sebbene indossi abiti civili,
simboleggia la vittoria. In origine la statua fu eretta per un trionfo
militare su una tribù barbara ormai dimenticata. Oggi Marco Aurelio
sembra rappresentare un diverso tipo di vittoria: quella sulle forze del
disordine e delle tenebre interne ad ogni anima.
Si osservi attentamente il volto di quel cavaliere – preferibilmente
entrando nel museo adiacente, dov’è conservata la statua originale (quella
esposta in piazza, infatti, è una copia). Con i sui occhi spalancati e la pelle
liscia nella cornice dei capelli arricciati e di una lunga barba, il suo volto
ha la calma e la spiritualità di un bizantino. Niente vi è in lui della
stanchezza delle cose del mondo che si intravede in un altro suo antico
ritratto: né la pelle flaccida delle guance né le sottili rughe e borse sotto
gli occhi1. L’uomo a cavallo è nel fiore degli anni, pienamente padrone di
sé. O forse padrone non è la parola giusta: sembra tutt’uno col suo cavallo,
allo stesso tempo parte e signore della natura. È un’immagine adeguata
per un uomo che scrisse: «Pensa continuamente che il cosmo è come un
unico essere vivente che racchiude in sé una sostanza e una sola anima»2.
Nella sua espressività, la statua di Marco Aurelio presenta qualcosa che
rinvia alla Roma verso cui si rivolge: la Città Eterna il cui potere risiede
nello spirito più che nella spada. E questo ci porta al libro.
Marco Aurelio non è l’unico imperatore romano ad aver pubblicato un
libro. Anche altri lo fecero, a partire da Augusto, oppure dallo stesso
Giulio Cesare, se lo consideriamo fra gli imperatori. Ma nessuno di quei
volumi è sopravvissuto, se si eccettuano i commentari di Cesare e i
discorsi, le lettere e i saggi dell’imperatore Giuliano del IV secolo. Sono
opere di grande interesse, ma nessuna di esse tocca il cuore come riesce a
fare l’opera scritta da Marco Aurelio. Nessun altro sovrano del mondo
antico ha aperto il proprio animo come lui. Di fatto, sono assai rari gli
uomini di potere che nella storia hanno fatto qualcosa del genere –
almeno fino alla nostra epoca nella quale si racconta tutto, e forse neppure
oggi vi sono esempi del genere. Marco Aurelio ci si presenta come una
persona viva.
È l’unico imperatore che scrisse un libro in forma di viatico personale.
Non lo fece avendo in mente tale scopo, e neppure con l’intenzione di
pubblicarlo. Voleva mantenerlo privato (su ciò ci soffermeremo più
avanti). Ciò nonostante, i suoi Pensieri rimangono ancora oggi un best
seller, un libro amato da milioni di persone, una lettura prediletta di
presidenti e generali, nonché di stelle di Hollywood. Di tutti i libri che
furono scritti durante l’impero romano, l’unico oggi più letto di questo è
il Nuovo Testamento.
Marco Aurelio è quanto di più vicino a un filosofo-re che la storia
occidentale ricordi. Mentre Adriano si dilettava di filosofia greca, lui vi
viveva immerso e la respirava, in particolare quella stoica. E tuttavia,
come altri stoici del mondo romano, guardava a questa dottrina con gli
occhi di un romano. Vi trovava una ricetta per la virilità e per una
condotta basata sui principi e sulla responsabilità.
Marco Aurelio raccolse quel che Adriano aveva seminato. Rese la
cultura romana più greca di quanto fosse mai stata prima. E segnò anche
una grande svolta. Nel I secolo i filosofi stoici rappresentarono per l’élite
romana un’importante fonte di opposizione agli imperatori. Settant’anni
dopo che Domiziano aveva espulso i filosofi da Roma, un filosofo si
trovò alla guida dell’impero.
A dire il vero si trattò solo di un breve momento. Marco Aurelio fu non
solo il primo, ma anche – con un’unica successiva eccezione3 – l’ultimo
filosofo a governare Roma. E non fu solamente un filosofo: fu un
imperatore. Poteva essere duro e capriccioso, e rafforzò le distinzioni di
classe; durante il suo regno, inoltre, le persecuzioni contro i cristiani
aumentarono a livello locale, e in ciò egli ebbe sicuramente la sua parte di
responsabilità. Come generale, fu coscienzioso, più che eccezionale. E
tuttavia fu grande, perché più di ogni altro imperatore governò con
dedizione alla giustizia e alla bontà. Aveva come punto di riferimento
l’umanità, si astenne da crudeltà e spesso ricercò il compromesso. Fece
del dovere la propria stella polare. Sebbene desiderasse dedicare il suo
regno a dispensare giustizia e ad attuare riforme interne, passò però gran
parte del tempo a fare la guerra oltre confine. Ciò lo addolorò, ma riservò
i suoi lamenti al proprio diario. In pubblico, era una roccia.
E doveva necessariamente esserlo. Durante il suo regno, Roma subì
disastri di gravità senza precedenti. Oltre alla guerra su due fronti
stranieri e all’invasione subita dall’Italia settentrionale e dalla Grecia,
Roma fu colpita da una devastante epidemia, con tutti gli strascichi che
ne seguirono: mancanza di forza lavoro, disastri naturali e crisi delle
finanze. Solo un uomo dotato della forza di carattere di Marco Aurelio
poteva far fronte a calamità del genere – e anche lui non vi riuscì in modo
perfetto.
Regnò come imperatore per diciannove anni, ma è una figura di portata
epocale.

IL PRESCELTO
Marco era nato a Roma il 26 aprile del 121. La sua famiglia apparteneva
alla «mafia spagnola», come Traiano e il suo lontano cugino Adriano. I
suoi antenati si erano trasferiti a Roma, dove venne allevato. Alla nascita
gli fu imposto il nome di Marco Annio Vero. Prese a chiamarsi Marco
Aurelio in seguito, quando venne adottato all’interno della famiglia
imperiale.
Come molti altri romani, perse il padre precocemente, a soli tre anni.
All’inizio, fu il nonno paterno ad assumersi la responsabilità di crescerlo
con l’aiuto del patrigno di Domizia Lucilla, madre del bambino. Questa
svolse di fatto un ruolo importante, e Marco visse sotto il suo tetto fino
alla tarda adolescenza.
Domizia Lucilla era nobile e ricca. Fra le sue proprietà c’era una grande
manifattura di mattoni fuori della capitale. Di buona istruzione, leggeva il
greco bene come il latino. Quando Marco Aurelio era giovane, aveva
l’abitudine di sedersi sul suo letto e di conversare con lui prima di cena.
Nei Pensieri il figlio le rivolgerà un ringraziamento per avergli insegnato
«il sentimento religioso, l’altruismo, la ripugnanza non solo a
commettere il male, ma anche a concepire il pensiero di commetterlo;
inoltre la semplicità di vita e l’essere alieno dal modo di vivere dei
ricchi»4. Sebbene ringraziasse per primo suo nonno, per avergli
insegnato la buona morale e la mitezza, e poi suo padre, dalla cui fama
diceva di aver appreso la modestia e il carattere virile, Marco Aurelio si
soffermò molto di più su sua madre5. Come molti uomini romani, si
presentava come una persona formata e modellata, per importanti aspetti,
dalla madre.
Nel 138 la sua vita cambiò, poiché Adriano adottò come proprio figlio
e successore Antonino, e fece sì che questi adottasse sia Lucio Vero sia
Marco. Quando poco dopo, quello stesso anno, Antonino divenne
imperatore, Marco Aurelio andò a vivere nella residenza imperiale sul
Palatino.
Marco Aurelio ebbe una serie di tutori, molti dei quali uomini
eminenti e colti. Il più noto è il massimo oratore latino dell’epoca, Marco
Cornelio Frontone. Nordafricano di origini berbere e cittadino romano,
Frontone fece fortuna a Roma come avvocato. Antonino Pio lo nominò
tutore dei suoi due figli adottivi, Marco e Vero. Di lui sono state
conservate le lettere, comprese molte di quelle che scambiò col suo
allievo. Il futuro imperatore vi appare come un giovane serio, dotato,
talvolta spensierato e perfino insolente, amante della vita di campagna.
Partecipa alla vendemmia, e col suo cavallo disperde il gregge di un
povero pastore per puro divertimento6. Le lettere tendono a esagerare
l’importanza di Frontone agli occhi di Marco Aurelio. Altri maestri
ebbero una maggiore influenza sul giovane, ma su questi rapporti non
sono rimaste testimonianze epistolari.
Marco e Frontone si scrivono nel linguaggio stilizzato della pederastia:
quello dell’amore fra un uomo e un ragazzo. Si dicono continuamente
quanto si amano, talvolta in termini sdolcinati7. In parte si tratta di un
esercizio di reciproca adulazione, in parte mostra l’abilità di entrambi gli
scriventi nell’imitare il linguaggio omo-erotico dei greci classici. È
improbabile che Marco e Frontone si amassero davvero, per non parlare
di una relazione fisica. Se fosse stato così, difficilmente avrebbero
espresso tali sentimenti in lettere che potevano essere lette dalla madre di
Marco Aurelio o dagli schiavi istruiti che solitamente facevano parte del
personale di una ricca famiglia romana. I membri dell’élite romana
disapprovavano le relazioni omosessuali, e potevano persino perseguitare
legalmente i rapporti che coinvolgevano cittadini romani minorenni. Nei
suoi Pensieri, Marco Aurelio si dice favorevole a porre fine agli amori per
i ragazzi8.
Frontone voleva che Marco Aurelio diventasse un retore. Dopo anni di
studio della retorica, però, il giovane declinò l’onore offertogli, e decise
invece di dedicarsi alla filosofia. Nell’antica Roma, proprio come oggi,
un filosofo era un intellettuale impegnato in profonde dispute, ma lui era
anche qualcosa di diverso. Per gli antichi, la filosofia offriva una guida per
vivere: un filosofo era qualcosa di intermedio fra un guru e un prete.
Scegliere un filosofo come erede al trono potrebbe sembrare un
paradosso. A Roma la filosofia era nota soprattutto per la sua opposizione
agli imperatori, non per il suo sostegno. Il principale insegnante di
filosofia di Marco Aurelio, infatti, era il discendente di un filosofo fatto
giustiziare da Domiziano. Ma dopo Nerone, Vespasiano e Domiziano gli
imperatori non perseguitarono più i filosofi. I romani ora godevano,
come scrisse Tacito, «la rara felicità dei tempi presenti, in cui è
consentito pensare quanto si vuole e quanto si pensa esprimere»9.
Sebbene la filosofia di Marco Aurelio fosse eclettica, egli fu influenzato
soprattutto dallo stoicismo, la filosofia più popolare fra l’élite romana. Per
gli stoici il mondo era governato da un principio razionale, il logos, che
guida tutta la natura. Perseguendo la virtù, un uomo buono vivrebbe
secondo natura. L’austerità di questa dottrina era attenuata dalla fede nella
bontà di un universo governato dalla provvidenza divina, nonché nella
fratellanza del genere umano.
Lo stoicismo ebbe origine in Grecia, ma la sua severità attirava il
tradizionale temperamento dei romani, mentre il suo universalismo
appariva congeniale alle loro aspirazioni imperiali. Sotto gli imperatori,
quella filosofia infondeva agli uomini e alle donne il coraggio di resistere
e anche il motivo per farlo, poiché dimostrava la corruzione morale
interiore causata dalla sudditanza a un potere più elevato. E tuttavia, lo
stoicismo non rifiutava la monarchia in quanto tale, ma solo quella
dispotica e corrotta. Un buon imperatore che fosse liberale, moderato,
osservante della legge, animato da senso civico e rispettoso dei suoi
sudditi poteva essere un filosofo.
Così, il fatto che Marco Aurelio fosse un filosofo rappresentava più il
compimento di un ideale che un segno di eccentricità. Illuminato dalla
filosofia, egli realizzò la promessa dei quattro buoni imperatori che lo
avevano preceduto.
Come Adriano, ammirava la filosofia di Epitteto. Lo stoico greco non
mancava di motivi personali per attribuire maggiore importanza alla
mente rispetto alla realtà materiale, in quanto sia il suo corpo sia ragioni
personali gli insegnavano i limiti della carne. Era zoppo, aveva alle spalle
un passato di schiavo in Asia Minore. Era appartenuto a uno dei liberti di
Nerone, prima di ottenere lui stesso la libertà. Dopo essere diventato un
filosofo, Epitteto fu mandato in esilio da Domiziano – e scelse di
rimanervi anche dopo la morte del sovrano, per quanto a quel punto
avrebbe potuto fare sicuro ritorno a Roma. Evidentemente preferiva una
tranquilla vita in provincia. Nel suo pensiero dette importanza al
raggiungimento della libertà interiore. E Marco Aurelio fu assai
influenzato dal suo insegnamento.
Ripensando a Frontone in anni più tardi, Marco Aurelio lo ritenne
meno influente dei suoi insegnanti di filosofia, e non disse una parola
sulle lezioni di retorica che da lui aveva ricevuto. E di fatto, criticava la
retorica ritenendola inferiore alla filosofia. Ringraziò invece Frontone
per averlo aiutato a comprendere fino a che punto arrivassero l’invidia, la
doppiezza e l’ipocrisia dei tiranni, e quanto carente fosse nei cosiddetti
patrizi l’affetto paterno10. Forse era un modo gentile di ringraziare
Frontone perché aveva fatto del suo allievo Marco Aurelio una persona
che parlava onestamente, piuttosto che un imbroglione.

ANTONINO PIO
Antonino aveva scarsa esperienza dell’amministrazione provinciale e della
vita militare, ma Adriano non si aspettava che questo suo successore
cinquantunenne restasse a lungo al potere. Era Marco Aurelio che in
realtà voleva, non solo perché era suo parente ma anche per la sua
eccezionale forza di carattere. Gli attribuì così il soprannome di
Verissimus, con riferimento al nome che portava prima di essere
adottato, Vero. Marco Aurelio evidentemente non ricambiò il
complimento, poiché nel lungo elenco di amici e familiari che ringrazia
nei suoi Pensieri Adriano non compare.
Antonino sorprese tutti regnando per ventitré anni, ancor più di
Adriano. Governò di fatto più a lungo di qualsiasi altro imperatore dai
tempi di Augusto. Una persona di spirito una volta gli disse, dopo aver
visto la madre di Marco Aurelio in preghiera, che probabilmente aveva
chiesto che l’imperatore morisse, in modo che suo figlio potesse
prenderne il posto11. Non si sa quale sia stata la risposta di Antonino. In
ogni caso, Marco Aurelio dovette aspettare di essere quarantenne prima
di salire al potere.
Antonino proveniva da una ricca famiglia romana con radici nella Gallia
meridionale, diventata politicamente importante grazie al sostegno che
aveva garantito a Vespasiano fin dall’inizio. Divenne ancor più ricco
sposando Annia Galeria Faustina – Faustina Maggiore. Nonostante
l’unione di queste due fortune, Antonino cominciò a preoccuparsi per le
spese che la sua nuova posizione comportava, non appena fu adottato da
Adriano. Di lì a poco, quando Faustina Maggiore si lamentò della sua
eccessiva parsimonia nella gestione familiare, si dice che Antonino
rispondesse: «Sciocca, non comprendi che da quando sono salito al
potere ho perso anche quello che prima possedevo?»12.
Antonino fu denominato Pio, il termine latino che stava a significare
«fedele» o «leale». Da una parte, era un riferimento alla sua insistenza nel
tentare di indurre un Senato riluttante a concedere gli onori divini al suo
padre adottivo Adriano. Dall’altra, testimoniava la dedizione ai suoi
familiari e, più in generale, ai valori della famiglia. Non soltanto, quando
divenne imperatore, assunse l’insolita decisione di nominare Augusta sua
moglie, ma aumentò notevolmente il numero delle monete che
raffiguravano l’imperatrice.
In generale, tuttavia, Antonino era un conservatore. Sebbene non si
distinguesse particolarmente per le sue opere edilizie, fece erigere una
struttura che reggeva il confronto con quelle create dai suoi predecessori.
Costruì a Roma un tempio del Divo Adriano, vicino al tempio di
Matidia e Marciana, che a sua volta era a fianco del Pantheon. Chi si
trovasse a passare di lì avrebbe quindi visto in rapida successione i nomi
di Agrippa (sul Pantheon), Matidia, Marciana e Adriano. L’implicita
conclusione era che Antonino, figlio adottivo e fedele di Adriano, era
legittimato a pretendere di governare lui stesso in qualità di Augusto.
Antonino stimava il Senato, diversamente da Adriano, che con esso si
era mostrato spesso crudele. E anche la rinuncia ai viaggi lo distinse dal
suo predecessore. Dopo essere diventato imperatore, infatti, non lasciò
più l’Italia. Sebbene, diversamente da Adriano, fosse attento a contenere
le spese limitando i progetti edilizi, era realista e distribuiva spesso
denaro alla plebe romana e all’esercito. Nel 148 allestì degli splendidi
giochi in onore del novecentesimo anniversario della nascita di Roma.
All’epoca si credeva che Roma fosse stata fondata il 21 aprile del 753
a.C., ma in realtà la vera data non ci è nota. A causa delle notevoli spese
affrontate, Antonino dovette temporaneamente ridurre il titolo argenteo
delle monete romane.
L’élite provinciale non si sentì trascurata per l’assenza dell’imperatore, e
ciò vale indipendentemente dal credito che possiamo attribuire a un
famoso discorso tenuto a quell’epoca da Elio Aristide. Facoltoso greco
dell’Asia Minore nord-occidentale e cittadino romano, il retore arrivò a
Roma e pronunciò un’orazione davanti ad Antonino, concentrandosi
sulla grandezza della pace romana ed elogiando l’equanimità che portava
Roma a condividere la propria cittadinanza con milioni di persone. «Voi
conducete i pubblici affari nell’intero mondo civilizzato esattamente
come se fosse un’unica città», affermò13. Rese gloria ai romani poiché
grazie a loro nei territori dell’impero la guerra era diventata un evento del
passato, e per aver promosso l’agricoltura, il commercio e l’edilizia
pubblica. Oltre a ciò, avevano protetto i confini con qualcosa di ancor
meglio di un muro: l’esercito romano. «La Terra intera», disse, «è stata
resa bella come un giardino»14.
Antonino probabilmente si compiacque nell’ascoltarlo, avendo scarso
interesse per le questioni militari. I suoi generali avevano sistemato le
contese sui confini in Dacia e in Mauretania. Il maggiore sforzo fu quello
messo in atto in Britannia, dove repressero una rivolta, avanzarono nella
Scozia meridionale e costruirono il Vallo di Antonino, un muro di torba
analogo a quello in mattoni costruito da Adriano più a sud. Roma, però,
abbandonò la struttura dopo neppure un decennio dal suo
completamento, essendo evidentemente giunta alla conclusione che il
tentativo di aggiungere ulteriori territori alle sue conquiste era troppo
ambizioso.
Nei suoi Pensieri Marco Aurelio tracciò un elogio di Antonino,
descrivendolo come un uomo devoto alle esigenze dell’impero, energico
e lavoratore, razionale e affidabile, modesto, indifferente agli onori e
immune all’adulazione, tollerante e compassionevole, ordinato ma
deciso; in una parola: indomito15. E tuttavia, Marco Aurelio non faceva
menzione di questioni militari, un silenzio fuori dell’ordinario,
trattandosi di un imperatore romano – e probabilmente non lusinghiero.
Alla frontiera si stava addensando una tempesta e, guardando al passato,
Antonino non aveva fatto niente per preparare Roma a reggerne l’urto.

LA GIUSTIZIA ALL’INTERNO
Antonino morì il 7 marzo 161, nella sua villa di campagna. Sembra che
l’ultima parola che pronunciò fu «moderazione», con un invito a
mantenere la mente calma sotto pressione16. Era un buon consiglio per il
suo successore. Sotto molti punti di vista, Marco Aurelio aveva
un’ottima preparazione per il trono. Grazie all’istruzione ricevuta aveva
una formazione di livello eccellente in retorica e in filosofia, e aveva un
carattere migliore di qualunque altro uomo avesse mai governato Roma.
Prima di diventare imperatore, aveva prestato servizio in tutti gli
incarichi pubblici più importanti. Tuttavia, aveva anche evidenti lacune.
Antonino lo aveva tenuto al guinzaglio al suo fianco in Italia, e sembra
che Marco Aurelio avesse passato solo due notti lontano da casa durante i
suoi ventitré anni di regno17. Nel momento in cui Marco Aurelio
diventò imperatore non aveva mai comandato un esercito né governato
una provincia. Sembra impossibile, ma non era mai uscito dall’Italia. Al
contrario, a suo tempo Augusto, a ventun anni, aveva già alle spalle una
notevole esperienza militare e diplomatica.
Sebbene Adriano aveva fatto in modo che Antonino adottasse sia
Marco Aurelio sia Lucio Vero, per Antonino era chiaramente Marco
Aurelio ad essere destinato al trono. Quest’ultimo, però, per la sorpresa
di molti, associò Vero al trono e agì come una sorta di socio anziano. Era
più vecchio, più rispettato e l’unico titolare della carica di pontefice
massimo. Vero, invece, aveva la meritata fama di mezza calzetta amante
del lusso, sebbene non fosse un uomo vizioso come Nerone o
Domiziano. E prima di allora, nessun imperatore aveva avuto un
coreggente.
Il motivo per cui Marco Aurelio fece questa scelta è molto discusso.
Forse volle rispettare i desideri di Adriano, o forse quel che in realtà
desiderava era disporre di tempo da dedicare alla filosofia. Perfino
quando divenne imperatore, assisteva a conferenze di filosofia. Forse
temeva i potenti membri della famiglia di Vero e preferiva averli con sé
nella tenda, e contenti, piuttosto che tenerli fuori a lottare per entrare.
Forse, però, la vera ragione è che, da filosofo, si rendeva chiaramente
conto che l’impegno richiesto dall’incarico di imperatore era troppo per
un uomo solo. Se è così, era avanti rispetto ai suoi tempi. Il suo
immediato successore non seguì il suo esempio, ma poco più di un
secolo dopo la presenza di due imperatori sarebbe diventata la norma per
Roma.
A influenzare quella scelta poté essere anche il suo stato di salute, che
peggiorò col passare degli anni. Sappiamo che accusava sintomi come
dolori al petto e allo stomaco, emottisi e vertigini. L’imperatore si
avvaleva dell’assistenza di uno dei più famosi medici della storia, Claudio
Galeno, un greco che viveva a Roma. Una volta, già anziano, dopo che
ebbe ricevuto le sue cure, lo proclamò «primo tra i medici e unico tra i
filosofi»18.
Per il trattamento a lungo termine della sua malattia, Galeno gli
prescrisse della triaca, un medicinale composto da vari ingredienti
naturali da assumere con una pillola accompagnata dal vino. L’ingrediente
finale che Galeno aggiungeva alla pillola era l’oppio. Non si può
escludere che la quantità di oppio aggiunta dal medico fosse tale da
provocare l’intossicazione del paziente, ma non possiamo essere certi che
le cose andarono così.
Nei primi anni del suo regno, Marco Aurelio si rivelò un imperatore
popolare. Diversamente da Adriano, non era un cortigiano dedito a
intrighi. Era franco e aperto, almeno quanto poteva esserlo un politico.
Era attento ai desideri degli altri ma – stando a quanto scriveva di sé –
non acuto d’ingegno19. Tollerava il dissenso e perfino gli insulti. Si
impegnava a fondo nel lavoro. Nei primi tempi del suo regno, scrisse a
Frontone che gli era difficile rilassarsi, e si capisce bene il perché, visto il
rigore con cui si occupava degli affari.
Marco Aurelio si rivelò eccezionalmente attento e giudizioso quando
aveva a che fare con le leggi. Dedicò una particolare attenzione
all’affrancamento degli schiavi, alla nomina dei tutori per i minori e gli
orfani e alla selezione di consiglieri municipali per il governo locale delle
province. Si guadagnò la reputazione di essere fermo ma ragionevole.
Come il suo predecessore, ogni qualvolta era possibile decideva a favore
della libertà di uno schiavo.
Marco Aurelio fece di tutto per mostrare rispetto nei confronti del
Senato. Ne ampliò i poteri giudiziari e gli deferì perfino cause sulle
quali, come imperatore, aveva diritto di decidere autonomamente.
Ritenne doveroso partecipare alle sedute ogni volta che si trovava a
Roma. Quando un senatore veniva accusato di un crimine passibile di
pena capitale, prendeva personalmente in esame le prove a suo carico
prima di esporle in pubblico.
L’imperatore si faceva benvolere dalla gente anche in altri modi: ignorò
i rapporti degli informatori; migliorò i provvedimenti assistenziali per i
bambini poveri e vigilò sulle forniture di cereali; tenne le strade di Roma
pulite e in buono stato di manutenzione; si assicurò che in Italia i consigli
municipali fossero al completo e funzionassero in modo efficace.
Tuttavia, in una cosa probabilmente non era popolare: detestava a tal
punto gli spargimenti di sangue che quando assisteva ai giochi, faceva
usare ai gladiatori delle spade spuntate20. Il pubblico preferiva il sangue.
Come il suo predecessore, Marco Aurelio fece economie. Così, si rese
ben presto conto che la spesa militare finiva per sommergere altre
priorità. Non sorprende, quindi, che come Antonino, ma diversamente
da Adriano, si dedicasse poco alle costruzioni. A Roma eresse una
colonna monumentale per celebrare la divinizzazione di Antonino e uno
o più archi trionfali. Non sappiamo se fu Marco Aurelio stesso o il suo
successore a cominciare la costruzione della colonna che celebrava il suo
successo militare, ancora oggi visibile a Roma, e che fu terminata più di
un decennio dopo la sua morte. La statua di Marco Aurelio a cavallo,
oggi così famosa, era modesta se paragonata con quelle erette da altri
imperatori. Il monumento celebra una vittoria sulle tribù germaniche, e
probabilmente risale alla parte finale del suo regno, o a poco dopo la sua
fine.

RITRATTO DI UN MATRIMONIO
Come Adriano, Marco Aurelio si sposò all’interno della famiglia
imperiale, ma – per così dire – ascese a un grado più elevato di nobiltà:
Adriano aveva preso in moglie la nipote di un imperatore, Marco
Aurelio la figlia. Sebbene Adriano avesse nominato Marco Aurelio suo
eventuale successore, Antonino avrebbe potuto revocare la designazione
dopo la morte di Adriano. Invece la confermò, concedendo a Marco
Aurelio, che era nipote di sua moglie, la mano della figlia.
Questa, Annia Galeria Faustina, era praticamente sempre vissuta nel
palazzo godendone i privilegi, poiché suo padre era diventato imperatore
quando lei aveva otto anni. Sua madre, Faustina Maggiore, era una donna
molto ricca, che aveva acquisito l’appellativo di Augusta nel momento in
cui Antonino era diventato imperatore. Due anni dopo, quando Faustina
aveva dieci anni, sua madre morì e fu proclamata dea. Antonino fondò
un’istituzione di carità per le figlie dei poveri, che in memoria di sua
moglie furono chiamate puellae Faustinianae. Di lì a poco, ai margini del
Foro sarebbe sorto un tempio in onore di Faustina Maggiore.
Cinque anni dopo, Faustina sposò Marco Aurelio. Lui aveva
ventiquattro anni, lei quindici. Due anni più tardi, subito dopo la nascita
della sua prima figlia, suo padre attribuì a Faustina il titolo di Augusta.
Marco Aurelio era solo Cesare, quindi Faustina acquisì un rango più
elevato di lui. Ma Antonino provava devozione per sua figlia. Disse che
piuttosto che vivere nel palazzo senza di lei avrebbe preferito vivere in
esilio con lei su un’isola desolata21. Sul letto di morte, affidò lo Stato e sua
figlia a Marco Aurelio. Antonino morì il 7 marzo del 161. Al momento
dell’ascesa al trono di Marco Aurelio, Faustina diventò la prima donna
romana a succedere alla propria madre come imperatrice. Sei mesi dopo
l’avvento al potere di Marco, dette alla luce due gemelli: fu la prima
imperatrice dopo la moglie di Nerone, Poppea, a partorire un figlio
durante il regno del marito. Nei quattordici anni successivi avrebbe
avuto numerosi parti, per un totale di quattordici figli: era un fatto
senz’altro notevole, e la macchina della propaganda lo sfruttò ampiamente
nelle monete22. Solo poco più della metà dei bambini sopravvisse, un
dato che ci ricorda lo sconfortante quadro della mortalità infantile nella
Roma antica23.
La giovane Faustina era non solo nobile, ricca e prolifica, ma anche
bella, come si può vedere dai busti che la raffigurano24. Le immagini che
la ritraggono sulle monete la associano a Venere, la dea dell’amore e del
sesso, oltre che della vittoria25. L’austero Marco Aurelio probabilmente
limitava il suo interesse per le questioni amorose alla procreazione. Si era
compiaciuto di non aver perso la verginità prima che fosse necessario. E
il cuore non era l’unico organo in relazione al quale i due coniugi
differivano: il disaccordo coinvolgeva anche la mente. Faustina non
lasciava la politica al marito: tramava e faceva pressioni talvolta proprio
contro uomini di grado elevato che Marco sosteneva. Voleva divertirsi, e
a modo suo. Marco Aurelio era, invece, tutto dedito agli affari. Si stenta a
credere che il loro fosse un rapporto facile.
A Roma giravano pettegolezzi secondo cui l’infelice Faustina aveva una
serie di relazioni, e non solo con aristocratici ma anche con personaggi di
bassa lega. A Marco Aurelio gli amici riferirono che quando Faustina
stava nella sua villa al mare, frequentava gladiatori e marinai. A quanto
pare, egli rispose così: «Se rimando la sposa, devo pure rimandare la
dote»26. Vale a dire l’impero, che egli aveva ereditato dal suocero.
Marco Aurelio probabilmente comprese, se altri non lo fecero, che
l’impero era una questione di famiglia. Le persone potenti si attirano voci
maligne, e ciò vale ancor più se si tratta di donne, vista la diffusa
misoginia che regnava a Roma. Inoltre, se fossero state vere, le voci
avrebbero messo in dubbio la legittimità dei figli dell’imperatore stesso. Il
quale aveva quindi tutte le ragioni per negare le storie che circolavano
sull’infedeltà di sua moglie. In ogni caso, provava un sincero affetto per
lei. Nei Pensieri la descrisse come devota, affettuosa e semplice27.
Marco Aurelio mostrò senza dubbio anche amore per i figli. Definì, ad
esempio, la sua figlioletta Faustina «un cielo sereno, un giorno di festa,
una speranza prossima, un desiderio che si realizza, una gioia totale,
un’eccellente e perfetta fonte di orgoglio»28. E nel suo scritto fa più volte
riferimento al dolore provato per la perdita di un figlio29.
UN CIRCOLO VIZIOSO
Ben presto le vicende estere distrassero l’attenzione dell’imperatore dalla
sua famiglia. Il ciclo di guerre che si aprì mise infatti in ombra qualsiasi
altra vicenda interna. Lo trasformò da un riformatore illuminato che
governava alla luce del sole nel suo paese a un guerriero impegnato in una
lotta crepuscolare in terre di frontiera. E costrinse un uomo quasi privo
di esperienza militare a diventare un comandante di campo.
Naturalmente, commise degli errori.
Una guerra su due fronti fu il perenne problema di sicurezza con cui
Roma dovette fare i conti, e si trovò ad affrontarlo in concreto per la
prima volta proprio durante il regno di Marco Aurelio. La prima crisi si
determinò in Oriente, dove i parti individuarono un punto debole di
Roma. Senza dubbio, erano consapevoli che per decenni il potere non
era stato nelle mani di un militare. Attaccarono l’Armenia e cacciarono il
suo sovrano filoromano per insediare al suo posto un uomo a loro
favorevole. Quando una legione romana contrattaccò, i parti la
sbaragliarono, e il generale che la comandava si suicidò. Poi, invasero la
Siria sconfiggendo il governatore locale.
La gravità della situazione richiese la presenza dell’imperatore nelle zone
di guerra. Né Marco Aurelio né Vero avevano esperienza militare, ma
Vero era più giovane e più robusto fisicamente, e così fu lui ad esservi
inviato. A Roma non sarebbe mancato a nessuno, e non c’era da
preoccuparsi che potesse insidiare Marco Aurelio una volta tornato. In
Oriente, Vero sarebbe stato più o meno una presenza simbolica, in
mezzo a generali esperti che avrebbero retto di fatto le redini del
comando.
Per affrontare i parti, Marco Aurelio richiamò tre legioni e altre forze
dal fronte occidentale romano. Era una mossa necessaria ma pericolosa,
perché rappresentava una tentazione per un nemico irrequieto schierato
al di là del Danubio. Roma, però, non aveva riserve strategiche, e questa
era una debolezza fondamentale, che non lasciava all’imperatore altra
scelta se non spostare le legioni secondo le necessità che si presentavano.
Quei reparti comunque si rivelarono efficaci. La guerra contro la Partia
durò quattro anni ma si concluse con una vittoria su tutta la linea. Roma
riconquistò l’Armenia e insediò sul trono un uomo in tutto e per tutto
adeguato al ruolo: un senatore romano che aveva anche sangue regale
partico nelle vene. I romani, quindi, penetrarono a fondo in
Mesopotamia, dove dettero fuoco a un palazzo partico e,
vergognosamente, saccheggiarono una città amica.
Nel 164 Marco Aurelio dette in sposa la sua figlia quattordicenne,
Lucilla, a Vero che a quell’epoca aveva trentatré anni. La ragazza dovette
affrontare un lungo viaggio per giungere in Oriente, dove si celebrò il
matrimonio. Ma si era in guerra, e ognuno doveva sacrificarsi. Forse per
consolarla, Marco la designò Augusta immediatamente, ancor prima che
desse alla luce un figlio, cosa che non era avvenuta per sua madre, la quale
a suo tempo era stata investita del titolo solo dopo aver avuto un figlio.
La Partia non avrebbe più sfidato Roma per un trentennio. Sul fronte
occidentale, però, la situazione non era del tutto tranquilla. Nel 166 e nel
167 i germani attaccarono le province romane lungo il Danubio.
L’evento fu una pietra miliare nella storia dell’impero. Erano ormai molti
decenni che Roma non aveva affrontato una seria minaccia da parte delle
popolazioni germaniche, che ora invece scatenarono i loro attacchi. E
avrebbero continuato a minacciare l’impero in modo intermittente per
secoli, fin quando lo sconfissero definitivamente nella sua parte
occidentale. A peggiorare ulteriormente la situazione, gli invasori del
166-167 erano a loro volta pressati da altre popolazioni in movimento
nell’estremo Nord. Era l’inizio di una migrazione di massa di
proporzioni epocali.
Gli invasori si avvantaggiarono della ridotta forza militare romana
rimasta in Occidente. Marco Aurelio cercò di compensare il ritiro delle
tre legioni che avevano raggiunto Vero in Oriente reclutandone altre due.
Erano però prive di esperienza, e di dimensioni insufficienti.
Prima che Marco Aurelio potesse reagire all’invasione, nel 167 un
nuovo problema colpì l’impero: la peste. Questo è il termine che si trova
nelle fonti antiche, ma probabilmente si trattava di vaiolo. Gli storici
moderni la definiscono la peste di Antonino o la Grande Pestilenza. Nel
mondo antico le epidemie erano numerose, e non è chiaro se questa fu
una delle peggiori oppure se semplicemente sia quella meglio
documentata. Non disponiamo, ovviamente, di dati accurati sulla
mortalità, ma è certo che i decessi furono almeno un milione circa, e
forse addirittura molti milioni.
Vi è motivo di credere che il primo focolaio della malattia fosse
nell’Asia centrale, e che poi il contagio si fosse esteso a Oriente, verso la
Cina, prima di percorrere la Via della Seta, l’arteria commerciale che
portava in Medio Oriente. I soldati romani contrassero il morbo
dapprima in Mesopotamia, poi lo diffusero in ogni parte dell’impero, e
come loro fecero i mercanti. Quelle stesse strade ben lastricate e quei
mari sicuri che avevano conferito la gloria alla pace romana diventarono
ora dei vettori d’infezione mortali. Fu un’epidemia universale come
l’impero che colpì, e la più documentata fra quelle dell’antichità. Ci
rimangono descrizioni di sofferenze e morti che colpirono Egitto, Asia
Minore, Gallia, Germania, Italia e, soprattutto, Roma – d’altra parte,
tutte le strade conducevano lì.
Nella capitale la situazione divenne talmente critica che per paura di
contrarre l’infezione anche il celebre medico Galeno decise di far ritorno
in Asia Minore, sua terra di origine30. Nel frattempo, nelle città greche
dell’Oriente, la gente scriveva nei vani delle porte un verso per invocare
la protezione di Apollo31 – ottenendo a quanto sembra l’effetto opposto,
forse perché un eccessivo senso di sicurezza induceva le persone a non
prendere più precauzioni. Un sopravvissuto descrisse il suono dei gemiti
e dei lamenti, l’immagine dei cadaveri giacenti davanti alle porte
d’ingresso delle case, i medici che dovevano fare anche da infermieri
perché l’epidemia aveva ucciso i loro schiavi32.
Nel 167 Marco Aurelio avrebbe voluto dirigersi a nord, ma rimase a
Roma per affrontare l’epidemia. Nel 168 finalmente partì per il fronte
accompagnato da Vero. Era la prima volta che usciva dall’Italia, e riuscì a
restaurare temporaneamente l’ordine. Al loro ritorno, i due imperatori si
fermarono nell’Italia nord-orientale. Galeno li raggiunse e scoprì che
l’epidemia imperversava33. Marco Aurelio e Vero rientrarono a Roma
con un piccolo gruppo di soldati. Il nucleo più consistente dell’esercito
rimase nel Nord, e la maggior parte dei soldati morì, in quanto l’inverno
rese ancor più difficile resistere al morbo. Galeno riuscì a malapena a
salvarsi la vita. Vero fu sfortunato. Durante il tragitto che lo riportava a
Roma, all’inizio del 169, morì, forse di vaiolo. Marco Aurelio ne
accompagnò il corpo a Roma, dove Vero venne sepolto nel mausoleo di
Adriano e dichiarato un dio.
Nel frattempo, la crisi alla frontiera settentrionale continuava. Già prima
dell’epidemia le forze romane erano scarse, e il vaiolo le ridusse
ulteriormente. Il governo dovette reclutare nuove truppe, ma c’era il
problema di come sostenerne il costo. Le soluzioni a cui si ricorse furono
insoddisfacenti. Ancora una volta, come aveva fatto Antonino Pio,
Marco Aurelio ridusse il titolo argenteo delle monete. Inoltre, lo Stato si
rivolse a schiavi, gladiatori, cosiddetti banditi (in ogni caso gente
violenta) e forze di polizia provenienti dalle città greche, e li arruolò nelle
unità ausiliarie.
La figlia di Marco Aurelio, Lucilla, aveva solo vent’anni quando suo
marito Vero morì. Il padre volle che si risposasse con Tiberio Claudio
Pompeiano, un attempato senatore ed ex console, cinquantenne
originario della Siria. Sembrava un grande passo indietro rispetto allo
status di moglie del co-imperatore che Lucilla aveva in precedenza, e sia
lei che sua madre Faustina si opposero34. Marco Aurelio, però, riuscì ad
imporsi. Lucilla dette al suo nuovo marito un figlio che avrebbe fatto
carriera nella vita pubblica, ma molti anni dopo venne giustiziato su
ordine di un successivo imperatore.
Nell’autunno del 169 Marco Aurelio ritornò nel Nord. La primavera
successiva lanciò una grande offensiva al di là del Danubio. La vicenda
cominciò con una farsa, con l’imperatore che acconsentì a mettere due
leoni nel fiume per ottenere l’appoggio degli dèi; i due animali non
fecero altro che nuotare fino all’altra sponda, per poi finire bastonati a
morte dal nemico. La battaglia si concluse in lacrime, con una pesante
sconfitta dei romani, che subirono forse ventimila perdite. Poi, le truppe
nemiche riuscirono ad aggirare la parte restante dell’esercito romano e
irruppero nell’Italia settentrionale, dove incendiarono una città e ne
assediarono un’altra. Altri invasori assaltarono la Grecia penetrando verso
sud fino ai sobborghi di Atene, dove distrussero il tempio dei Misteri.
Per la prima volta nel corso di quasi tre secoli, delle forze straniere
avevano attaccato l’Italia. Le difese di Roma alle frontiere avevano fallito.
A posteriori la vicenda non è tale da suscitare sorpresa. Sul fronte del
Danubio le presenze militari erano diminuite. La Grande Pestilenza aveva
indebolito Roma ovunque. Marco Aurelio stesso era privo di esperienza
come comandante militare. Molte delle sue truppe erano di recente
formazione e ancora poco addestrate, e anche i veterani delle frontiere
avevano avuto scarsa possibilità di fare esperienza in battaglia nel lungo
periodo di pace appena trascorso.
L’anno successivo, il 171, la situazione cominciò a migliorare. Un
esercito romano al comando del nuovo genero dell’imperatore,
Pompeiano, cacciò gli invasori dall’Italia e li sconfisse in una battaglia sul
Danubio. Nel frattempo, Marco rimase sulla frontiera, negoziando con
gli ambasciatori germanici e cercando di mettere le tribù nemiche l’una
contro l’altra. Nel 172 lanciò una nuova offensiva oltre il fiume, e
continuò a condurre una campagna in quei territori fino al 175.
Nel corso di quegli anni, i romani assisterono a due miracoli, di cui
fecero ampio uso nella loro propaganda35. Dapprima un fulmine distrusse
un macchinario nemico usato per condurre gli assedi. Poi, in una calda
estate, una legione ormai stanca si trovò circondata dal nemico e dovette
quasi arrendersi perché era rimasta senz’acqua. Fu allora che
improvvisamente una pioggia provvidenziale salvò i soldati romani.
Pagani e cristiani dettero subito vita a una polemica su quali fossero state
le preghiere che avevano ottenuto il favore dei cieli36.
L’imperatore intendeva probabilmente creare due nuove province al di
là del Danubio, nella zona degli attuali territori di Ungheria, Repubblica
Ceca e Slovacchia. Lo scopo era sia di contenere il nemico e accorciare la
linea di difesa di Roma, sia di sostituire un confine costituito da un
fiume facilmente attraversabile con un territorio più difendibile a nord,
nei Carpazi. Ma le nuove province avrebbero ulteriormente gravato sulle
già sovraccariche finanze romane. Il piano di Marco Aurelio sarebbe
morto con lui.
L’imperatore ebbe più successo nell’altro progetto volto a risolvere il
problema dei barbari, che prevedeva di consentire loro di insediarsi nelle
terre dell’impero. Li ripartì in varie province, dalla Germania romana (gli
odierni territori della Germania sud-occidentale e dell’Alsazia) alla Dacia,
compresa l’Italia. Sebbene molti lo criticassero per questa linea
conciliatrice, e per aver introdotto dei pericolosi barbari all’interno dei
confini dell’impero, l’imperatore la pensava diversamente. Credeva di
aver trasformato dei soldati nemici in coloni romani, garantendo così
anche la disponibilità di una fonte di forza lavoro di cui c’era grande
bisogno.
Nel 175 Marco Aurelio raggiunse un accordo con le tribù germaniche
che vivevano al di là del Danubio. Era più una tregua che una pace,
poiché Roma non aveva certo distrutto i suoi avversari. Tuttavia, essi
restituirono i prigionieri, e inviarono a Marco Aurelio anche ottomila
elementi di cavalleria per prestare servizio nell’esercito romano, la
maggior parte dei quali venne addetta al servizio di frontiera in Britannia.
A giudicare da una notevole scoperta recente, alcuni dei cavalieri erano
donne. Nei pressi del Vallo di Adriano gli archeologi hanno, infatti,
rinvenuto due scheletri femminili che sembrano riconducibili a due
cavallerizze che facevano parte di questa forza37. Sebbene i romani non
consentissero alle donne di servire nell’esercito, alcune cosiddette barbare
lo facevano. I greci e i romani pensavano a loro facendo riferimento alle
Amazzoni.
Marco Aurelio non era un soldato nato, ma svolgeva comunque le
mansioni di comandante. Era il suo dovere, e a ciò era assolutamente
devoto. Nei Pensieri scrisse: «In ogni momento bada con fermezza, come
si addice a un Romano e a un maschio, a compiere ciò che hai per le
mani, con quella serietà che è al tempo stesso scrupolosa e non affettata,
con disposizione d’amore, con libertà, con senso di giustizia, e cerca di
renderti libero da ogni altro pensiero»38.
Marco Aurelio faceva il suo dovere, ma la cosa non gli piaceva. Come
chiarì in privato, aveva una bassa opinione della guerra e della conquista.
E, infatti, paragona i vincitori ai banditi: «Un ragno è fiero quando ha
preso una mosca, un uomo quando ha preso un leprotto, un altro quando
ha preso un’acciuga nella rete, un altro quando ha preso dei piccoli
cinghiali, un altro quando ha preso degli orsi, un altro quando ha preso
dei Sarmati [una delle tribù germaniche]. E costoro non sono forse tutti
briganti, se analizzi i loro principi?»39.
La guerra comportò sacrifici non solo per Marco Aurelio, ma anche per
Faustina, che dovette vendere un po’ della sua seta e dei suoi gioielli per
rimpinguare il Tesoro. Ancor peggio, dovette vivere per anni nelle zone
di frontiera, col marito. Le città di Carnuntum (nell’odierna Austria) e di
Sirmium (nell’odierna Serbia), dove stabilirono le loro basi, sarebbero
entrambe diventate capitali di provincia e avrebbero conosciuto la loro
parte di gloria in anni successivi, ma a quell’epoca erano ancora città di
guarnigione, poste sugli oscuri e freddi confini dell’impero, a grande
distanza dal palazzo di Roma. Fin dai tempi in cui Agrippina Maggiore
affiancò il marito Germanico in Germania e in Siria, centocinquant’anni
prima, nessuna donna della famiglia imperiale aveva vissuto negli
acquartieramenti militari a ridosso di un fronte in attività. Nel 174
Marco Aurelio nominò Faustina «Madre degli accampamenti» (Mater
Castrorum), prima imperatrice investita di questo titolo40. L’atto servì a
risollevare il morale pubblico in un periodo di crisi, ma probabilmente
per Faustina fu una misera ricompensa a fronte delle comodità a cui aveva
dovuto rinunciare.
In ogni caso, Faustina non fu l’ultima imperatrice a ricevere questo
appellativo. In futuro infatti le situazioni di emergenza e le invasioni della
frontiera sarebbero diventate molto comuni.

RIBELLIONE
Avidio Cassio fu il generale che ottenne le maggiori vittorie durante la
guerra partica di Vero. Era un uomo da tenere d’occhio, figlio di un
esponente degli equites che aveva superato suo padre ascendendo al rango
di senatore. Sotto Vero, Avidio conquistò le due grandi città partiche
della Mesopotamia. In seguito, fu console suffectus e governatore
dell’Egitto, la sua provincia natale. Infine, ricevette il comando supremo
su tutte le province dell’Oriente, compreso l’Egitto. Un successo del
genere avrebbe potuto dare alla testa a chiunque, soprattutto a chi, come
lui, riteneva di discendere dai re siriani che erano succeduti ad
Alessandro Magno.
Nel 75 Avidio rivendicò per sé il trono imperiale. Scatenò una
importante ribellione, col sostegno della maggior parte dei territori
orientali, fra cui province d’importanza cruciale come l’Egitto e la Siria.
Riemerge qui il dilemma, a cui tutti gli imperatori si trovarono di fronte:
investire qualcun altro di un glorioso incarico militare poteva comportare
il rischio che il prescelto tentasse di prendere il potere. Ma nessun
imperatore poteva essere presente sempre e ovunque, e pochi avevano un
talento militare sufficiente a svolgere nel modo più adeguato la funzione
di comandante di campo. Solo in rari casi, come in quello di Augusto,
poterono disporre di un amico fidato che comandasse l’esercito lasciando
a loro il merito delle vittorie.
Ma da un altro punto di vista l’azione di Avidio fu unica. Le fonti
riportano che Faustina gli scrisse incitandolo alla rivolta. A prima vista,
sembrerebbe una fra le tante accuse scandalose e misogine che si trovano
nei testi antichi, ma per una volta gli studiosi la ritengono plausibile –
sebbene, senz’altro, non dimostrata. Dopotutto, Marco Aurelio non era
in buone condizioni di salute, e Faustina aveva motivo di preoccuparsi
per il proprio futuro e per quello dei suoi figli. L’unico figlio maschio
sopravvissuto della coppia era Commodo, di soli tredici anni, che
rischiava di essere eclissato dal marito di sua sorella Lucilla. Forse
Faustina scrisse ad Avidio che lo avrebbe appoggiato qualora Marco
Aurelio fosse morto, ed egli fraintese pensando che l’imperatore fosse già
deceduto.
Fatto sta che la rivolta scoppiò. Il vecchio tutore greco di Marco
Aurelio, l’uomo più ricco di Atene, comunicò la propria opinione ad
Avidio inviandogli una lettera di una sola parola: emanēs (Sei pazzo!)41.
Nella lontana Sirmium, nel frattempo, l’imperatore radunò le forze e si
preparò a marciare per reprimere la ribellione. Tuttavia, prima che
partisse, un centurione, venuto forse a sapere che Marco Aurelio era
ancora vivo, pose fine alla rivolta uccidendo Avidio. La vicenda era
durata solo tre mesi e sei giorni.
L’imperatore fu fortunato, e non cercò vendetta. Quando gli venne
portata la testa mozzata di Avidio rifiutò di farsela mostrare. Senza
dubbio approvò – e forse ordinò personalmente – che fosse gettata nel
fuoco la corrispondenza del ribelle, che sicuramente conteneva una o più
lettere di Faustina, tali da poterla incriminare.
La rivolta era finita. Marco Aurelio decise però di recarsi comunque in
Oriente. Sembrò prudente mostrare ai suoi sudditi dell’Est che il loro
imperatore era sano e salvo, a capo della sua famiglia e con un figlio forte
pronto a succedergli.

LA DEA
Alla fine del 175 la processione imperiale di Marco Aurelio fece sosta in
una cittadina posta al limite meridionale dell’altipiano dell’Anatolia
centrale, ai piedi delle montagne (in quella che oggi è la Turchia centro-
meridionale). Circa ventitré chilometri dietro di loro c’era la grande e
ricca città di Tyana, abbellita solo di recente, sotto i regni di Traiano e di
Adriano, da splendidi acquedotti. Davanti a loro si scorgevano le
cosiddette Porte Cilicie, un passo di montagna che portava sul
Mediterraneo. L’esercito di Alessandro Magno, qualche secolo prima,
aveva percorso questa strada per avviarsi a conquistare l’impero persiano.
Il gruppo dei viaggiatori non era piccolo. Oltre a sua moglie, suo figlio
e almeno una delle sue figlie, l’imperatore portava con sé i suoi più stretti
consiglieri e un grande contingente di soldati, compresa una forza
composta da barbari. Lo scopo della spedizione era riappacificarsi in
Oriente, permettere all’imperatore di mostrarsi ai suoi sudditi, fedeli e
non, e punire i ribelli.
Nessuno sa cosa avviene realmente in un matrimonio, se non i due
diretti interessati. Appare chiaro, però, che Marco Aurelio avesse
perdonato Faustina per il possibile ruolo che aveva avuto nel fomentare la
rivolta. E tuttavia, un tragico destino bussò alla porta in quella polverosa
città lungo la strada romana. Fu là, e non in una villa, che Faustina,
l’Augusta, Madre degli accampamenti, figlia di Antonino Pio, moglie di
Marco Aurelio, madre di Commodo, morì.
Le fonti lasciano intravedere la possibilità di un suicidio
dell’imperatrice, ma la circostanza sembra improbabile42. A
quarantacinque anni, Faustina aveva dato alla luce quattordici figli, e forse
era di nuovo incinta. Soffriva di gotta, e le conseguenze della rivolta di
Avidio l’avevano snervata, per cui, in definitiva, è probabile che la morte
fosse dovuta a cause naturali.
In pubblico, Marco Aurelio apparve afflitto dal dolore, e il suo elogio
privato di Faustina nei Pensieri conferma quell’impressione43.
L’imperatore chiese al Senato di divinizzare la moglie scomparsa, e fece
coniare monete in cui si affermava che ora lei era fra le stelle44. Nel
frattempo, chiuse il capitolo del complotto per il quale lei era
incriminata, chiedendo al Senato di risparmiare tutti coloro che erano
sospettati di averne fatto parte. «Che non accada mai», disse ai senatori,
«che sotto il mio impero qualcuno di voi sia condannato a morte per mio
o per vostro decreto»45. Aveva deciso di perdonare e di dimenticare.
Faustina fu senza dubbio cremata nel luogo in cui morì, per quanto
umile fosse il contesto. Ma tale non sarebbe rimasto: il villaggio fu infatti
insignito dello status più elevato che una città potesse ottenere, quello di
colonia di cittadini romani. Assunse un nuovo nome, Faustinopoli, e vi
fu anche eretto un tempio in onore della nuova divinità.
A Faustina la cosa sarebbe piaciuta, ma probabilmente avrebbe preferito
gli onori che il Senato decretò in sua memoria a Roma46. Fra questi vi
erano un altare presso il quale ogni sposo e ogni sposa che contraevano
matrimonio in città dovevano compiere un sacrificio in sua memoria.
Come per sua madre, anche per ricordare Faustina fu fondata
un’istituzione assistenziale per ragazze povere, le cui beneficiarie furono
chiamate novae puellae Faustinianae. Il Senato approvò, inoltre, la creazione
di immagini argentee di Faustina e di Marco per il tempio di Venere e
Roma, il grande edificio religioso costruito da Adriano. Il
provvedimento più importante stabilì che una statua d’oro di Faustina
venisse portata all’interno del Colosseo alla presenza di Marco Aurelio e
collocata nel settore speciale in cui era solita assistere ai giochi, con tutte
le più importanti signore sedute attorno.
Nel frattempo, l’epurazione conseguente alla rivolta di Avidio Cassio
continuò. Una nuova legge proibì a chiunque di prestare servizio come
governatore della sua provincia di origine47. Durante il tragitto che lo
portava in Egitto, Marco Aurelio fece sosta nella provincia romana della
Palestina, che aveva appoggiato il ribelle Avidio. Una fonte romana
sostiene che l’imperatore trovò gli ebrei di quella regione talmente
litigiosi da definirli peggiori dei barbari che vivevano sulla frontiera del
Danubio48. Il Talmud, d’altra parte, sembra indicare che l’imperatore
concedesse udienza al rabbino Judah I (noto anche come Giuda il
Santo)49. Questi era non solo il patriarca unico, ma anche il compilatore
della Mishnah, la raccolta di leggi orali che rappresenta uno dei documenti
più influenti della tradizione ebraica. Non è difficile immaginarsi il
filosofo Marco Aurelio in conversazione con l’erudito rabbino.
Prima di lasciare le province orientali, Marco Aurelio visitò Atene,
dove assieme a Commodo venne iniziato ai Misteri, seguendo le orme
di Adriano. Fece, inoltre, ricostruire il santuario che era stato distrutto
nel 170, trasformando di fatto l’evento in una celebrazione del ritorno
alla normalità. Ad Atene ebbe tempo di nominare quattro professori di
filosofia.

IL CO-IMPERATORE COMMODO
Nel 176 Marco Aurelio fece ritorno a Roma, e decise di nominare
Commodo co-imperatore, al posto dello scomparso Vero. All’epoca
Commodo aveva solo quindici anni, ma un’epoca segnata da guerre ed
epidemie non consentiva di prolungare l’adolescenza. Aveva già
accompagnato suo padre sul fronte settentrionale e in Oriente, per cui
aveva già avuto modo di fare qualche esperienza di governo. Inoltre,
Marco Aurelio si era reso conto che era opportuno procedere a preparare
la successione. Tuttavia, non sembra considerasse seriamente la possibilità
che Commodo non fosse pronto per quell’incarico.
A Roma Marco Aurelio aveva emanato importanti provvedimenti sugli
schiavi, dando loro con una mano quel che toglieva con l’altra. Protesse
gli schiavi che erano stati liberati grazie al testamento dei loro padroni da
qualsiasi intervento di terzi mirante a mantenerli nella loro condizione.
Nello stesso tempo, dette disposizioni ai governatori provinciali e ad altri
funzionari pubblici e alle forze di sicurezza affinché aiutassero i
proprietari a rintracciare gli schiavi fuggitivi. Il disordine dell’epoca
aveva probabilmente determinato un aumento del numero degli schiavi
che si sottraevano ai propri padroni.
I cristiani correvano il rischio di diventare il capro espiatorio dei guai di
Roma e di pagare il prezzo della carenza di gladiatori, che venivano
reclutati nell’esercito. Poiché in quel periodo le arene avevano difficoltà a
reperire uomini per i combattimenti, il Senato consentì alle autorità
locali di comprare criminali condannati da utilizzare come gladiatori. E
come fecero i romani a rinfoltire le riserve di criminali condannati?
Sembra che aumentarono le accuse contro i cristiani.
Roma, quindi, era immersa in un fosco clima segnato da epidemie,
invasioni e persecuzioni. Sul fronte del Danubio il nemico riprese gli
attacchi, aggravando ancor più la situazione. E tuttavia, quando nel 178
Marco Aurelio lasciò nuovamente la capitale per ritornare al fronte, si
svolse una splendida scena, degna dell’Accademia platonica. Come si
legge in una fonte più tarda, l’imperatore fu attorniato da una folta
delegazione:
Marco Aurelio era di tale saggezza, cortesia, integrità e cultura che quando si apprestava a
marciare contro i Marcomanni assieme al figlio Commodo, che aveva associato a imperatore, fu
attorniato da un gruppo di filosofi che lo pregavano di non impegnarsi in una spedizione o a
combattere prima di aver spiegato loro alcune difficoltà e punti assai oscuri dei sistemi filosofici50.
Prima di lasciare Roma, l’imperatore dimostrò inoltre il proprio
rispetto per il Senato e per la religione tradizionale. Pronunciò un
giuramento sul Campidoglio garantendo che non si sarebbe reso
responsabile della morte di nessun senatore. Celebrò quindi un antico
rituale, scagliando una lancia insanguinata, simbolo della rettitudine
dell’attacco che Roma si avviava a compire in territorio nemico.
Per quanto onorevole fosse la sua lotta, si rivelò difficile e frustrante.
Nell’anno e mezzo seguente, durante il quale fu al fronte, Marco Aurelio
combatté senza riuscire a conseguire la vittoria finale.

PENSIERI
Di quei difficili anni ci rimane una riflessione personale. Marco Aurelio
scrisse i Ricordi da solo nella sua tenda sul fronte settentrionale, e in altri
luoghi, nel periodo che va dal 172 al 180. Il libro II reca il titolo Scritto tra
i Quadi sul fiume Gran, il libro III A Carnunto, mentre gli altri sono privi
di espliciti rinvii a precise località.
Marco Aurelio scrisse l’opera non con l’intento di destinarla al pubblico
ma per sé stesso: si trattava di taccuini privati. Un editore antico la
intitolò A sé stesso. Pensieri, o Meditazioni, sono titoli moderni. Non
abbiamo indicazioni certe su quando eventualmente fu pubblicata. Forse
furono gli amici di Marco Aurelio o uno dei suoi liberti a conservare il
manoscritto e a farlo circolare. Dal punto di vista dei sentimenti, la
favorita di Marco Aurelio appare sua figlia Cornificia. Era l’ultima
sopravvissuta dei suoi figli, quando fu costretta a suicidarsi da un
successivo imperatore molti anni dopo la scomparsa di Marco Aurelio.
Le ultime parole che pronunciò furono degne di suo padre: «Piccola,
sventurata, anima stretta in un misero corpo, vattene, liberati, mostra loro
che sei figlia di Marco, anche se essi non lo vogliono!»51.
I Pensieri sono scritti non in latino, ma in greco. È vero che questa era la
lingua della filosofia, ma molti precedenti pensatori romani avevano
comunque fatto largo uso del latino nelle loro opere. Il ricorso al greco
era un altro segno del crescente prestigio della parte orientale dell’impero.
I Pensieri costituiscono l’ultima grande opera della filosofia stoica dei
tempi antichi, e la più amata ai nostri giorni. Ciò non dipende certo dal
fatto che lo scritto abbia un tono ottimista: l’attenzione è spesso
incentrata sulla vanità della vita umana e sulla morte. Le nostre vite, scrive
Marco Aurelio, sono fuggevoli come un passero che appare e vola via.
Perfino i grandi uomini del passato sono svaniti: Augusto e la sua corte
non ci sono più, Alessandro Magno e l’uomo che strigliava il suo cavallo
sono entrambi ritornati ad essere polvere.
Il consiglio di Marco Aurelio su come affrontare le sfide della vita non è
per deboli di cuore. Scrive, ad esempio: «Devi essere simile al
promontorio, contro il quale i flutti s’infrangono incessantemente: esso
rimane immobile, e intorno a lui viene a placarsi il ribollire delle
acque»52.
E tuttavia, offre una ricetta per vivere con dignità e realizzare sé stessi.
Esprime inoltre un profondo rispetto per il mondo naturale e una salda
fede nella divina Provvidenza, quando scrive:
Se assolvi il compito che hai al presente seguendo la retta ragione, con diligenza, con energia,
con animo ben disposto, e non ti dedichi a nessuna cosa accessoria, ma ti curi solamente di
mantenere puro il tuo demone come se tu dovessi restituirlo da un momento all’altro; e adotti
questi principi senza attendere nulla e senza cercare di evitare nulla, ma soddisfatto di compiere
secondo natura l’azione presente e di dire eroicamente la verità in ogni tuo discorso e in ogni
parola che pronunci, allora vivrai felice. E non vi è nessuno che possa impedirlo53.

Marco Aurelio mostra anche un notevole rispetto per il mondo più


generalmente inteso, dirigendo lo sguardo perfino al di là dei confini
dell’impero che governava. Lo stoicismo antico conteneva un forte
elemento di cosmopolitismo, che egli esprime molto bene: «la mia natura
è razionale e fatta per vivere in società. Mia città e mia patria in quanto
Antonino è Roma, in quanto uomo è il cosmo»54.
Forse Marco Aurelio ci affascina soprattutto perché è fin troppo umano.
Parla spesso del bisogno di coraggio e di virilità, ma ammette le proprie
debolezze. Non voleva alzarsi al mattino, sapeva di essere soggetto alla
tentazione dello sfarzo, della falsità e dell’adulazione della vita di corte, e
si sforzava continuamente di contrastarla.
Il suo maggior difetto, tuttavia, era la rabbia. Ammette liberamente e
ripetutamente di aver difficoltà a controllare il proprio umore. Le
persone con cui lavorava erano per lui un’infinita fonte di disappunto,
per la sciatteria e le manchevolezze che mostravano. Tuttavia, era
consapevole di dover passare sopra al proprio disappunto e reprimere la
rabbia.
Insomma, più che un monumento lontano da noi e privo di vita, Marco
Aurelio ci appare come una persona che potremmo conoscere e guardare
con ammirazione. Ci parla non come un’opera d’arte di un museo, ma
come se fosse un consigliere e perfino un amico.

COMMODO
La vita di Marco Aurelio si concluse là dove aveva passato la maggior
parte dei suoi ultimi anni: sulla frontiera danubiana dell’impero romano,
probabilmente a Sirmium o nelle sue vicinanze. Morì il 17 marzo del
180, poco prima del suo cinquantanovesimo compleanno. Era malato:
forse prese il vaiolo, ma è possibile che avesse un tumore. Secondo
Dione, sebbene fosse in cattive condizioni, furono i suoi medici a
ucciderlo per guadagnarsi i favori di Commodo, che si trovava anche lui
al fronte. L’autore afferma di aver raccolto questa informazione da una
fonte affidabile, ma non possiamo esserne certi55. Il corpo di Marco
Aurelio fu cremato, poi le sue ceneri furono riportate a Roma e sepolte
nel mausoleo di Adriano.
Se la creazione di due nuove province fu l’opera della sua vita, quel
successo non fu definitivo. Suo figlio, che gli successe sul trono, preferì
fare la pace con i germani e rientrare a Roma. Tuttavia, Marco Aurelio
aveva danneggiato il nemico a tal punto da garantire a Roma più di un
cinquantennio di pace sul confine settentrionale. Al pari di altri, che
come lui ebbero la suprema responsabilità del comando, egli si accinse,
come scrisse un suo ammiratore antico, «ad una gloriosa morte per la
patria»56.
Fonti antiche più tarde, che riflettono il punto di vista del Senato e
dell’élite romana, avrebbero ricordato Marco Aurelio con grande affetto.
Come si legge in una di esse: «Fu dotato di tutte le virtù e di un carattere
celestiale e sembrò dato all’impero come un difensore dalle pubbliche
calamità. Perché infatti, se non fosse egli nato in quei tempi, è certo che
una sola caduta avrebbe trascinato con sé l’intero Stato romano»57.
Senza alcun dubbio, fra gli imperatori romani Marco Aurelio fu sia il
più dotato di senso di umanità sia, grazie ai suoi scritti, quello che ci
appare in una luce più umana. Ma non quello che ottenne i maggiori
successi. Fu un filosofo, ma dev’essere giudicato in quanto imperatore.
Non fu fortunato, sia per i tempi in cui visse, sia per le carenze della sua
preparazione. Si trovò ad affrontare crisi straordinariamente complesse, e
di fatto pochi imperatori nella storia romana ebbero problemi più gravi
di lui. Ed era privo della conoscenza tecnica e dell’esperienza necessarie a
un imperatore.
Tuttavia, rappresenta un luminoso esempio di come una persona di
saldi principi e dotata di disciplina intellettuale e di senso del dovere
possa essere all’altezza della situazione. Il suo regno rappresentò un punto
di svolta per Roma. Come disse un contemporaneo, con la sua morte
finiva un’epoca d’oro, e ne cominciava una fatta di ferro e di degrado58.
Certo è strano che un’epoca funestata da guerre e da epidemie venga
definita d’oro, ma il carattere benevolo dell’imperatore e il modo con cui
trattò il Senato (un aspetto sempre importante nelle fonti che rifettono
l’ottica dell’élite) spiccano, soprattutto in confronto con ciò che venne
dopo.
Marco Aurelio fu il primo imperatore nell’arco di ottantadue anni al
quale non successe un figlio adottivo. Fu infatti Commodo a prenderne il
posto, circostanza che ne fa il primo imperatore della storia romana ad
essere nato sul trono. Nessuno dei suoi predecessori aveva saputo di
essere destinato ad assumere il governo prima di diventare adolescente.
Commodo invece considerò sempre quest’esito scontato – il che può
contribuire a spiegare per quale motivò abusò del suo potere.
Quando diventò imperatore aveva solo diciotto anni, e si comportò
come un ragazzo improvvisamente liberatosi dal peso di un padre che gli
aveva richiesto un livello spaventosamente elevato di austerità e di
responsabilità. Interruppe la guerra che Marco Aurelio aveva fin lì
condotto nel Nord e concluse una pace negoziata. Tornato a Roma,
consegnò le redini del governo ad altri e si dedicò a discipline quanto più
possibile distanti dalla filosofia: i divertimenti sanguinari. Atletico, bello
e vanitoso, Commodo si identificò col dio greco Ercole. Si vantava delle
sue capacità di gladiatore e combatté realmente nell’arena.
Si mantenne la benevolenza dei ranghi dell’esercito pagando generose
indennità, e dei ceti popolari allestendo spesso giochi, finanziati con tasse
imposte ai senatori e svalutando la moneta. Gli esponenti dell’élite
romana, tuttavia, non erano disposti a sostenere un bruto decadente che
minacciava le loro vite e le loro proprietà, insultando il loro senso di
dignità. Furono organizzati vari complotti per ucciderlo, ma tutti
fallirono, provocando feroci repressioni. Alla fine, una cospirazione
capeggiata dalla sua amante e dai funzionari a lui più vicini andò a segno.
Su loro ordine, il compagno di lotta di Commodo, un gladiatore, lo
uccise strangolandolo nel suo bagno, il 31 dicembre 192.
Il governo della famiglia di Marco Aurelio era giunto alla fine. L’epoca
dei cinque buoni imperatori si era conclusa dodici anni prima con la
scomparsa di Marco Aurelio, ricordando a tutti la fragilità del sistema
imperiale. Come lo stesso Marco Aurelio dovette scoprire, esistevano
forze fuori della portata del controllo di Roma che costituivano un
pericolo costante: pressioni operate dalle migrazioni di popolazioni
barbariche a centinaia di chilometri dalle frontiere e da epidemie di
origini remote, sfide lanciate dalle ricorrenti ambizioni dinastiche dei
parti.
Il regno di Marco Aurelio ci ricorda inoltre che, nel suo nucleo
essenziale, l’impero romano era una monarchia militare.
Indipendentemente dai saggi editti e dalle leggi illuminate che un
imperatore poteva promulgare, o dai buoni rapporti che riusciva ad
intrattenere col Senato, alla fine dipendeva sempre dall’esercito. Nessun
imperatore poteva mai dirsi completamente al riparo da un colpo di Stato
o da una rivolta. Nessun confine era saldamente assicurato senza un
imperatore competente alla guida dello Stato e un esercito in forma e
pronto a difenderlo.
Avere un filosofo sul trono era una benedizione, soprattutto se si trattava
di un uomo abbastanza versatile da trasformarsi in un buon generale.
Tuttavia, i tempi richiedevano anche un uomo che fosse spietato nei
confronti della propria famiglia. Un uomo di governo più duro avrebbe
messo da parte un figlio come Commodo, scegliendo come proprio
successore un elemento migliore – ad esempio il suo genero Pompeiano.
Tuttavia, una decisione simile avrebbe forse portato alla guerra civile. Il
sistema dinastico romano, infatti, era flessibile solo fino a un certo punto.
Di fatto, la guerra civile arrivò comunque, dopo la farsa di Commodo.
E fu una guerra lunga e cruenta. Avrebbe portato sul trono un altro uomo
di notevole statura, privo però dell’ampiezza di visione di Marco
Aurelio. Ci volle più di un secolo prima che una figura del genere
comparisse di nuovo. Nel corso di quel tempo, Roma fu colpita da una
serie di disastri che fecero apparire un ricordo lontano, se non addirittura
mitico, gli anni felici intercorsi fra il regno di Nerva e quello di Marco
Aurelio.

 
1
Il riferimento è al busto aureo di Marco Aurelio rinvenuto ad Aventicum (l’odierna
Avenches, in Svizzera): Römermuseum (Avenches), inv. 39/134. Si veda Paul Schazmann,
Buste en or représentant l’empereur Marc-Aurèle trouvé à Avenches en 1939, in «Zeitschri für
schweizerische Archäologie und Kunstgeschichte», II (1940), pp. 69-93.
2
Marco Aurelio, Pensieri IV.40.
3
L’imperatore Giuliano, che regnò dal 361 al 363.
4
Marco Aurelio, Pensieri I.3.
5
Ibid.
6
Id., Lettere a Frontone 12 (e Marco Cornelio Frontone, Corrispondenza con M. Cesare II.13, in
Id., Opere cit., p. 109).
7
Si veda Amy Richlin (ed.), Marcus Aurelius in Love, Chicago University Press, London-
Chicago 2006, pp. 5-9.
8
Marco Aurelio, Pensieri I.16.2.
9
Tacito, Storie I.1. Tacito si riferiva a Nerva e a Traiano ma il commento si addice anche ad
Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio.
10
Marco Aurelio, Pensieri I.11.
11
Historia Augusta, Marco Aurelio VI.8-9.
12
Historia Augusta, Antonino Pio IV.8.
13
Elio Aristide, A Roma, traduzione e commento di Francesca Fontanella, introduzione di
Paolo Desideri, Edizioni della Normale, Pisa 2007.
14
Ibid.
15
Marco Aurelio, Pensieri I.16, I.17.3, IV.33, VI.30, VIII.25, IX.21 e X.27.
16
Historia Augusta, Antonino Pio XII.6.
17
Historia Augusta, Marco Aurelio VII.3.
18
Galen [Galeno], On prognosis, edizione, traduzione e commento di Vivian Nutton,
Akademie Verlag, Berlin 1979, XI.8, p. 129.
19
Marco Aurelio, Pensieri V.5.
20
Cassio Dione, Storia romana LXXI.29.4.
21
Marco Cornelio Frontone, Lettere ad Antonino Pio 2, in Id., Opere cit. Vi è chi ritiene che la
Faustina alla quale si fa qui riferimento sia Faustina Maggiore, moglie di Antonino.
22
Si veda, ad esempio, RIC III Marcus Aurelius 1635
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.3.m_aur.1635).
23
Ricerche recenti mostrano che a Roma i tassi di mortalità infantile tendevano a collocarsi fra
il 20 e il 35%: si veda Nathan Pilkington, Growing Up Roman: Infant Mortality and Reproductive
Development, in «The Journal of Interdisciplinary History», XLIV (2013), 1, pp. 1-35.
24
Si veda, ad esempio, Musei Capitolini (Roma), inv. 449; Museo del Louvre (Parigi), Ma
1176.
25
Si veda, ad esempio, RIC III Marcus Aurelius 1681
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.3.m_aur.1681).
26
Historia Augusta, Marco Aurelio XIX.8-9.
27
Marco Aurelio, Pensieri I.17.7.
28
Richlin (ed.), Marcus Aurelius in Love cit., lettera 44, p. 143.
29
Marco Aurelio, Pensieri VIII.49, IX.40, X.34, XI.34. Cfr. Frank McLynn, Marcus Aurelius.
Warrior, philosopher, emperor, Vintage Books, London 2010, p. 93.
30
Galeno, I miei libri, in Id., Opere scelte, a cura di Ivan Garofalo e Mario Vegetti, UTET,
Torino 1978, XIX.15.
31
Luciano di Samosata, Alessandro, o Il falso poeta, a cura di Dario Del Corno, traduzione e note
di Loretta Campolunghi, Adelphi, Milano 1992, XXXVI.
32
Aristide, A Roma cit., XLIII.38-44.
33
Galen [Galeno], On prognosis cit., IX.
34
Historia Augusta, Marco Aurelio XX.7.
35
Ivi, XXIV.2; Cassio Dione, Storia romana LXXIV.8-10; RIC III Marcus Aurelius 264-266
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.3.m_aur.264;
http://numismatics.org/ocre/id/ric.3.m_aur.265;
http://numismatics.org/ocre/id/ric.3.m_aur.266).
36
Giovanni Xifilino, cit. in Cassio Dione, Storia romana LXXII.9.
37
Adrienne Mayor, The Amazons: Lives and Legends of Warrior Women Across the Ancient World,
Princeton University Press, Princeton (NJ) 2014, pp. 81-82.
38
Marco Aurelio, Pensieri II.5.
39
Ivi, X.10.
40
Historia Augusta, Marco Aurelio XXVI. 8; Cassio Dione, Storia romana LXXI.10.5.
41
Filostrato, Vite dei sofisti II.1.13.
42
Cassio Dione, Storia romana LXXII.29.
43
Marco Aurelio, Pensieri I.14.
44
Si veda, ad esempio, RIC III Marcus Aurelius 1717
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.3.m_aur.1717).
45
Cassio Dione, Storia romana LXXII.30.
46
Ivi, LXXII.31.1-2.
47
Ivi, LXXII.31.1.
48
Ammiano Marcellino, Storie XXII.5.
49
Per le fonti si veda Maria Laura Astarita, Avidio Cassio, Edizioni di Storia e Letteratura,
Roma 1983, pp. 119-123.
50
Aurelio Vittore, De Caesaribus 16.9-10. Per una traduzione inglese, si veda Sextus Aurelius
Victor, Liber de Caesaribus of Sextus Aurelius Victor, traduzione di Harold W. Bird, Liverpool
University Press, Liverpool 1994, p. 19.
51
Cassio Dione, Storia romana LXXVIII.16.6.
52
Marco Aurelio, Pensieri IV.49.
53
Ivi, III.12.
54
Ivi, VI.44.
55
Cassio Dione, Storia romana LXXII.33.
56
Ammiano Marcellino, Storie XXXI.5.14.
57
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus XVI.2 (per una traduzione inglese, si veda
quella di Thomas M. Banchich, in www.roman-emperors.org/epitome.htm).
58
Cassio Dione, Storia romana LXXI.36.4.
Settimio Severo
8
Settimio Severo, l’africano

L’anno successivo all’uccisione di Commodo, il 193, viene talvolta


definito l’«anno dei cinque imperatori». Coincise con la prima guerra
civile scoppiata dopo più di un secolo. Per quasi 125 anni, infatti, la
successione al trono era stata relativamente pacifica, anche se non sempre
corretta. E dopo l’«anno dei quattro imperatori» (il 69), nessuno aveva
preso il potere marciando su Roma. Ma quell’anno era stato
relativamente tranquillo in confronto al 193. Se il cambio di dinastia
dopo la morte di Nerone venne risolto in diciotto mesi, occorsero
quattro anni per riportare la pace dopo l’uccisione di Commodo, e la
lotta proseguì fino al 197.
Alla fine, Roma si ritrovò con un nuovo sovrano, Settimio Severo. Il
suo governo ebbe un carattere paradossale. L’uomo era egoista, rude e
volgare, ma anche astuto e abile nel parlare. Sebbene non fosse un soldato
di mestiere, militarizzò il governo come nessuno dei suoi predecessori
aveva fatto. Coniugò riforme giuridiche illuminate con un potere
autocratico ed epurazioni all’interno, mentre all’estero scatenò guerre che
prosciugarono il Tesoro. Rappresentò anche una nuova fase della storia
etnica, e forse anche razziale, di Roma. Severo infatti fu il primo
imperatore africano, e fondò una dinastia che dette a Roma anche i suoi
primi imperatori provenienti dal Medio Oriente.

UN IMPERATORE VENUTO DALL’AFRICA


Lucio Settimio Severo era nato l’11 aprile 145 o 146, nella città di Leptis
Magna (o Lepcis), sulla costa mediterranea di quella che oggi è la Libia
occidentale, a circa centrotrenta chilometri a est dell’odierna Tripoli. Era
uno dei grandi centri urbani dell’Africa romana. Sotto il regno di
Antonino Pio, la pace romana era nel suo momento culminante, e
l’Africa lo condivideva in pieno.
Leptis era una città antica, un ricco centro commerciale fondato da
immigrati originari della Fenicia (l’odierno Libano), e aveva anche una
comunità di berberi libici. Fu soggetta a Cartagine, finché questa non
venne distrutta da Roma. All’epoca della nascita di Severo, Leptis era
sotto il governo romano già da trecento anni.
Il ceto dirigente era composto da un’élite latinizzata, ma molti dei suoi
membri, come lo stesso Severo, avevano antenati che parlavano il
punico, una lingua semitica assai affine all’ebraico e all’aramaico, che era
diffusa anche a Cartagine oltre che nella Fenicia. Severo parlava il punico,
il greco e il latino, ma a Roma veniva preso in giro per il suo accento
provinciale. La sua era una famiglia ricca, con importanti conoscenze a
Roma, fra cui due senatori. Sebbene probabilmente provenisse
dall’aristocrazia locale, il suo status si elevò quando Traiano dichiarò
Leptis una colonia, consentendo a tutti i suoi cittadini di condizione
libera di acquisire la cittadinanza romana.
Il padre di Severo, Publio Settimio Geta, non intraprese la carriera
politica. Purtroppo sua madre, Fulvia Pia, resta per noi poco più di un
nome. Lei e il marito ebbero altri due figli, un maschio e una femmina,
che raggiunsero entrambi, come Severo, posizioni elevate nelle cerchie
imperiali romane. Che Fulvia spingesse i suoi figli verso i loro futuri
successi, come molte madri romane erano solite fare, è tutto da
dimostrare. I suoi antenati erano probabilmente dei coloni italiani che si
sposarono con esponenti locali. Probabilmente era parente di Gaio
Fulvio Plauziano, amico di gioventù di Severo. I due giovani erano legati
da un rapporto di grande fiducia. I pettegolezzi dicevano che un tempo
furono amanti, ma nel mondo romano una voce del genere era scontata.
Come Augusto ed Agrippa, collaborarono per tutta la vita, anche se,
diversamente da quella coppia del passato, la loro amicizia non finì
felicemente.
Come si è detto, Severo fu il primo africano a diventare imperatore
romano. Ma fu anche il primo imperatore di pelle nera? Non lo
sappiamo, nonostante esista una varia documentazione d’epoca. Una
fonte scritta lo descrive come scuro di pelle, ma risale a vari secoli dopo
ed è sicuramente errata su altre questioni1. Un’immagine del tempo lo
raffigura con la pelle scura, ma si tratta di un caso isolato, e inoltre
proviene da una tradizione egizia che tendeva a raffigurare gli uomini con
la pelle scura e le donne con la pelle chiara2. È possibile che Severo fosse
di discendenza mista – italiana, mediorientale e forse berbero-libica – ma
si tratta di una pura ipotesi. Come avviene spesso, le fonti antiche non ci
dicono quello che vorremmo sapere.
All’epoca in cui visse Severo, l’Africa romana era nel periodo della
massima fioritura, e stava salendo alla ribalta com’era avvenuto alla
Hispania un secolo prima. Attorno al 200 forniva il 15% circa degli
equites e dei senatori di cui abbiamo notizia. A quell’epoca, il Senato non
era più dominato da esponenti italici, ma era rappresentativo dell’impero
nel suo insieme.
Nessuno simboleggia quel cambiamento meglio di Cassio Dione, che
visse dal 155 al 235. Senatore romano e figlio a sua volta di un senatore,
aveva una villa in Italia ma era nato e cresciuto nella città di lingua greca
di Nicea (vicina all’odierna Istanbul). Tuttavia, Dione il greco si sentiva
del tutto romano, segno questo dell’abilità con cui Roma riusciva ad
integrare le élites provinciali. La storia romana lo affascinava a tal punto
che ne scrisse una corposa narrazione in otto volumi, in greco,
impiegando nel complesso ventidue anni. Le parti relative alla tarda
repubblica e al primo impero ci sono giunte integralmente, ma per il
periodo dal 41 al 229 abbiamo solo un compendio di epoca successiva.
Dione conobbe personalmente Severo, e nutrì nei suoi confronti
sentimenti ambivalenti3. Ne ammirava l’intelligenza, l’industriosità, il
giudizio e la parsimonia, ma deplorava il modo in cui trattava il Senato.
Poiché Dione credeva che Roma fosse entrata in un periodo di declino,
forse per compensare, era disposto a chiudere un occhio sui difetti di
Severo.
Questi da ragazzo aveva studiato greco e latino a Leptis. Alla fine del
suo percorso di istruzione, diciassettenne, tenne un’orazione pubblica.
Diversamente da Marco Aurelio, non proseguì gli studi in modo
ufficiale, cosa di cui poi si sarebbe doluto. Dione lo descrive come un
uomo di poche parole ma ricco di idee4. Severo era attento, astuto e
strategico. Sebbene portasse una lunga barba, era un uomo di azione, non
un filosofo.
Dione afferma però che si concesse del tempo per dedicarsi agli studi,
dapprima durante una pausa della sua carriera politica prima di diventare
imperatore, quando soggiornò ad Atene, poi anche da imperatore,
quando passava regolarmente i pomeriggi impegnato in dibattiti in greco
e in latino. Fu abbastanza colto, infine, da pubblicare un’autobiografia,
apparentemente destinata a un pubblico ampio e non semplicemente a
lettori istruiti. Sebbene non ne sia rimasta neppure una parola, alcuni
riferimenti ad essa sembrano indicare che contenesse descrizioni di sogni
e presagi e cronache di guerra. Non dovremmo sottovalutare
l’importanza dei presagi nella mentalità pubblica, come mezzo per
legittimare un uomo che aveva usurpato il trono.
Severo aveva una passione speciale per il diritto. Si dice che da ragazzo
giocasse a fare il giudice5. Da imperatore, nei periodi di pace, affrontava
ogni mattina cause legali. I suoi giuristi ebbero un ruolo decisivo
nell’opera di codificazione del diritto romano. Sebbene solitamente il
suo favore andasse ai militari, promosse uno dei suoi migliori giuristi alla
carica di prefetto del pretorio.
Fisicamente, Severo era di bassa statura ma forte. Aveva i capelli ricci e
il naso corto. Si dice che fosse capace di sostenere lavori pesanti.
Che da giovane fosse ambizioso è cosa certa. Altre qualità sarebbero
emerse col tempo. Era energico6, curioso e schietto7, d’ingegno pronto e
deciso8. Aveva carattere, al punto da essere talvolta violento9. I suoi critici
lo ritenevano spietato e falso10, ma Severo non sopportava che si avesse di
lui una bassa opinione11.
A diciotto anni arrivò a Roma. Uno dei suoi cugini era un senatore, e
fece in modo che anche lui e suo fratello lo diventassero. In quel
momento sul trono c’era Marco Aurelio, che produsse un’impressione
indelebile sul giovane africano.
La sua carriera fu per molti aspetti quella tipica di un giovane in ascesa
nell’élite romana. Ricoprì importanti incarichi politici e amministrativi a
Roma e nelle province, compreso un periodo come comandante di
legione in Siria e come governatore nella Gallia nord-occidentale.
Raggiunse il grado di console nel 190, a quarantacinque anni. L’anno
seguente diventò governatore della Pannonia superiore, una strategica
provincia di frontiera sul Danubio. Marco Aurelio stabilì la sua base in
quei territori durante le guerre che combatté lungo i confini, e vi scrisse
una parte dei Pensieri. Da governatore, Severo controllava tre legioni, vale
a dire circa diciottomila uomini. Questo lo rese molto importante nel
momento in cui il potere centrale stava crollando. E poté contare
sull’aiuto di una partner intelligente, capace e con buoni contatti.

LA DONNA SIRIANA
Da giovane, probabilmente, Severo si era dato al bel tempo. Subì un
processo per adulterio, ma si difese con successo. Poi sposò una donna
dell’Africa romana i cui familiari erano cittadini romani di origine
punica, che però morì, lasciandolo vedovo e senza figli. Per trovare una
nuova sposa, guardò a Oriente.
Nel 185 sposò Giulia Domna, appartenente a una facoltosa e potente
famiglia di Emesa (oggi Homs), un ricca città siriana la cui popolazione
aveva radici arabe. Domna affermava di avere fra i suoi antenati coloro
che erano stati sovrani della città prima che venisse annessa a Roma. Suo
padre era il sacerdote della divinità locale, Elagabalo (letteralmente «Dio
della Montagna»). Il dio era venerato sotto forma di una pietra nera
conica collocata in un tempio cittadino. I familiari di Domna parlavano
come prima lingua l’aramaico e come seconda il greco, ed erano cittadini
romani.
Un tempo, i romani ambiziosi desideravano sposarsi nella cerchia della
vecchia nobiltà repubblicana. Ora cercavano volentieri moglie in
prominenti famiglie orientali, che fornivano amministratori imperiali e
senatori romani e potevano garantire ricche doti alle loro figlie, come
sicuramente fece il padre di Domna.
Lei era bella. Secondo una teoria alquanto congetturale, potrebbe
perfino aver fatto da modella per la Venere di Milo, la famosa scultura
marmorea oggi esposta al Louvre12. Per il momento, abbiamo molte
statue di lei e immagini che la ritraggono sulle monete13. Vi appare come
una donna dal volto largo e con una folta capigliatura ondulata, con la
scriminatura centrale, e tirata indietro sui lati della testa, o talvolta raccolta
in trecce al collo. Della pettinatura facevano parte probabilmente vari
toupet.
Domna conosceva i meccanismi del potere e le piaceva esercitarlo.
Come si sarebbe visto, era anche fertile. Dando due figli a Severo,
sicuramente aumentò il credito di cui godeva ai suoi occhi e la propria
influenza. Grazie a lei i Severi avevano la possibilità di fondare una
dinastia: la prima casa regnante libico-siriana di Roma.
Era una donna colta. Oltre all’aramaico e al greco, parlava il latino,
sebbene probabilmente non altrettanto bene. Nel periodo in cui fu
imperatrice, raccolse intorno a sé una vasta cerchia di intellettuali, della
quale facevano probabilmente parte filosofi, matematici e giuristi. Uno di
loro, Filostrato di Atene, era un letterato greco che si stabilì a Roma, le
dette il titolo di «filosofa»14 e, su sua sollecitazione, scrisse un libro su un
filosofo e operatore di miracoli greco del I secolo. Di vedute
conservatrici, serve come una sorta di guida per i principi, o, in questo
caso, per le principesse.
Insomma, Domna era un’ottima scelta, e non ci sarebbe stato da stupirsi
se Severo ne fosse innamorato. Le sue doti non avrebbero potuto essere
che una risorsa nella lotta che gli si profilava davanti.

L’ANNO DEI CINQUE IMPERATORI


Il 193, l’anno dei cinque imperatori, vide la prima guerra civile di Roma
in 124 anni, la più lunga e violenta in oltre 225 anni. Nonostante la sua
drammaticità, però, quel periodo non bastò a sistemare le cose. Ci
sarebbero voluti infatti quattro anni prima che un nuovo imperatore
potesse governare senza essere attaccato.
La storia comincia il 31 dicembre del 192, il giorno dell’uccisione di
Commodo. Venuto a sapere del complotto grazie a una soffiata, Publio
Elvio Pertinace fu pronto a essere nominato imperatore dal Senato quella
notte stessa. Era un uomo dai requisiti professionali impeccabili, con un
retroterra spiccatamente non aristocratico. Sarebbe stato difficile trovare
un esempio migliore di lui di quella società aperta alle opportunità che a
volte l’impero romano rappresentava. E come molti arrampicatori sociali,
Pertinace si adattò alla perfezione ai costumi della classe dirigente, nel suo
caso, quella senatoriale.
Figlio di uno schiavo affrancato dell’Italia nord-occidentale, dopo aver
cominciato come maestro di scuola e tentato senza riuscirvi di ottenere
un incarico come capitano dell’esercito, finalmente raggiunse una
posizione da ufficiale alla vigilia delle guerre di Marco Aurelio. Si
sarebbe distinto sulle frontiere del Reno e del Danubio, nonché come
governatore della Britannia. Va a suo credito il fatto che si guadagnò sia le
lodi di Marco Aurelio sia l’ostilità di uno degli scagnozzi di Commodo.
Uomo maturo, aveva quasi settant’anni quando diventò imperatore. Era
barbuto, e nelle monete che lo ritraggono ha le rughe e le guance
infossate tipiche della vecchiaia15.
Con lui sul trono, molti in Senato pensarono che il buon governo
avesse fatto ritorno a Roma. Ma Pertinace si dimostrò troppo ambizioso,
ed entrò immediatamente in conflitto con la guardia pretoriana. A questa
Commodo aveva lasciato la briglia sciolta; ora Pertinace tentò di
restaurare la disciplina. Essendo a corto di soldi, in occasione della sua
ascesa al trono offrì ai pretoriani un’indennità più bassa di quella che
avevano ricevuto dai suoi predecessori. La guardia reagì uccidendolo.
Era rimasto al potere appena tre mesi.
A questo punto la violenza lasciò il posto alla farsa. In un momento
decisamente inappropriato, due senatori si contesero il favore della
guardia, offrendo ognuno una sostanziosa gratifica. Il maggior offerente
ottenne il via libera per il titolo di imperatore. Ad avere la meglio fu
Didio Giuliano, il primo imperatore imposto dalla guardia pretoriana dai
tempi in cui, centocinquant’anni prima, quello stesso corpo armato aveva
messo Claudio sul trono. Giuliano era un esperto governatore
provinciale, ma le circostanze della sua «nomina» lo privarono di ogni
credibilità, perfino agli occhi degli stessi pretoriani.
A quel punto l’azione si spostò nelle province, dove improvvisamente si
poté puntare al potere imperiale. A mettere gli occhi sul trono furono tre
diversi governatori provinciali. Gaio Pescennio Nigro, governatore della
Siria, aveva riportato un modesto successo militare sulla frontiera
danubiana. Italiano, contava su un forte appoggio da parte del popolo di
Roma, ma per altro verso la sua base era in Oriente. Dopo essere stato
proclamato imperatore disponeva di dieci legioni pronte a marciare per
lui, e anche dell’appoggio dei parti.
Clodio Albino era governatore della Britannia. Nei suoi territori aveva
solo tre legioni, composte però da veterani temprati dalle battaglie, e
contava su seguaci in Gallia. Come Severo, era originario dell’Africa (del
territorio della moderna Tunisia) e, come Nigro, aveva ottenuto successi
militari nella regione danubiana. Alla fine, però, decise di sostenere
Severo. Scaltramente, questi gli aveva concesso il titolo di Cesare,
nominandolo quindi suo successore e staccandolo in tal modo da Nigro.
Un tempo Severo aveva prestato servizio sotto Pertinace in Siria, e si
considerava una sorta di vendicatore dell’imperatore martirizzato. Dodici
giorni dopo l’uccisione di Pertinace, Severo venne proclamato
imperatore dai suoi soldati sul Danubio. Assieme alle truppe schierate sul
Reno, poteva contare su sedici legioni a lui fedeli. Mentre si stava
avvicinando alla capitale, il Senato votò per concedergli il proprio
appoggio. Didio Giuliano venne così ucciso. Il nuovo sovrano fece il suo
ingresso a Roma il 9 giugno, due mesi dopo essere stato proclamato
imperatore, a una distanza di circa 1.200 chilometri dalla sua provincia di
servizio. Uno dei punti di forza di Severo fu senz’altro la rapidità.
Ora Severo era Augusto, e fu probabilmente in quel frangente che
proclamò Augusta sua moglie Domna. Giurò al Senato che non avrebbe
mai giustiziato alcun senatore. Tuttavia, entrò a Roma marciando col suo
esercito, chiarendo in tal modo che il suo governo aveva una base
militare. L’episodio è descritto in un memorabile passo di Dione:
Lo spettacolo si rivelò il più brillante al quale io abbia mai assistito; infatti la città intera era stata
addobbata con ghirlande di fiori e alloro, adornata di oggetti riccamente colorati e illuminata da
torce e incenso acceso; i cittadini, indossando vesti bianche e con atteggiamento radioso,
formulavano a gran voce buoni auspici; i soldati, pure, spiccavano vistosi con le loro armature,
muovendosi come se partecipassero a qualche processione festiva; infine, noi senatori
camminavamo in pompa magna. La folla si spingeva per la brama di vederlo e di sentirlo dire
qualcosa, come se fosse in qualche modo trasformato dalla sua buona fortuna; e alcuni di loro si
tenevano l’un l’altro su in aria, in modo che da quella posizione potessero scorgerlo16.

Come fu possibile che un uomo con scarsi contatti in Italia come


Severo potesse diventare imperatore? La risposta sta nelle sedici legioni di
cui disponeva, le quali a loro volta avevano ancora meno rapporti col
mondo della penisola. Nella maggior parte dei casi provenivano
dall’Europa del Nord. Gli italiani si erano ormai abituati a una lunga
pace. Un contemporaneo descrive efficacemente la situazione: «gli
abitanti della penisola erano dediti a una vita pacifica e laboriosa, e da
tempo erano estranei a tutto ciò che riguardava la milizia e la guerra»17.
Severo non rimase a lungo a Roma, perché doveva combattere una
guerra contro Pescennio Nigro. Sapeva anche giocare sporco, e si dette
da fare per prendere in ostaggio i figli del suo nemico, mettendo i propri
al sicuro. Seguirono due anni di conflitto armato contro Nigro in
Oriente, che si conclusero con la sua completa vittoria e la morte
dell’avversario. A quel punto, Severo attaccò il territorio partico e creò
una nuova provincia, annettendo uno Stato di confine che oggi è a
cavallo fra la Siria e la Turchia. In tal modo, si vendicò su coloro che
avevano appoggiato Nigro in quei territori, aggiunse all’impero un’area
ricca e compensò le critiche rivoltegli per aver ucciso suoi concittadini
romani durante la guerra civile. Ma non esitò a far giustiziare i figli di
Nigro, dopo averli tenuti a lungo in ostaggio.
Era inevitabile che un uomo così spietato sarebbe entrato in conflitto
col suo sostenitore Clodio Albino. I due rivali si affrontarono in una
guerra che ebbe il suo momento culminante in una battaglia combattuta
in Gallia, e nella quale per poco Severo non perse la vita. Alla fine le sue
forze prevalsero e uccisero Clodio, la cui testa fu da lui fatta mandare a
Roma e infilzata in una picca. Fece poi giustiziare anche la moglie e i
figli del nemico sconfitto. Così, all’inizio del 197, la guerra civile giunse
al termine.
Severo poté finalmente fare ritorno a Roma, consapevole sia del prezzo
che aveva pagato per governare sia del sostegno che non pochi membri
del Senato avevano dato ai suoi rivali. Sebbene concedesse il perdono a
trentacinque senatori, ne fece giustiziare altri ventinove, rompendo così
il suo giuramento di vari anni prima. Sappiamo inoltre di almeno altri
dieci senatori che furono da lui uccisi in altre occasioni. Un
contemporaneo equiparò il suo regno a quello sanguinario di Tiberio18,
mentre Severo paragonò apertamente sé stesso ai brutali soldati-statisti
della tarda repubblica, Gaio Mario e il dittatore Silla (Lucio Cornelio
Silla)19. Tuttavia, un confronto più adeguato è probabilmente quello con
Augusto, a sua volta citato da Severo, il quale fece uccidere più di cento
senatori prima di adottare un comportamento rispettabile20. Come
Augusto, Severo aveva combattuto una lunga e sanguinosa guerra civile.
Per punire la guardia pretoriana per il ruolo che aveva avuto
nell’uccisione di Pertinace e nella messa all’asta del trono, Severo fece
giustiziare diverse centinaia di guardie e licenziò quelle restanti.
Tradizionalmente, la guardia veniva reclutata in Italia, ma Severo ne
sostituì i vecchi membri con i suoi legionari nati all’estero, molti dei
quali probabilmente nella regione danubiana. Agli occhi dei romani,
soprattutto se nobili, le nuove guardie erano dei selvaggi.
Per completare l’opera, Severo raddoppiò le dimensioni della guardia
pretoriana. Raddoppiò anche il numero dei vigiles della capitale (gli
addetti al controllo degli incendi) e triplicò gli effettivi della sua polizia,
forze queste ultime entrambe di tipo paramilitare. Forse ampliò anche i
ranghi dei corpi militari speciali – gli arcieri e le spie, fra gli altri –, di
guarnigione nella parte sud-orientale della città. Inoltre, istituì un
presidio permanente per una delle sue legioni di stanza sui Colli Albani,
a sud della capitale, in una città lungo la via Appia. Costruito per durare,
l’accampamento è ancora visibile nelle rovine che punteggiano la
cittadina di Albano Laziale, lungo la strada che porta alla residenza estiva
dei papi.
Nel complesso, Severo aumentò il numero dei soldati di stanza nella
capitale e nei suoi dintorni da circa 11.500 unità a circa 30.000. Il suo
scopo era in parte di natura militare, in quanto le nuove forze fornirono il
nucleo di una riserva mobile di cui Roma aveva estremo bisogno per
essere in grado di reagire rapidamente alle sfide che potevano sorgere in
vari punti della frontiera (i successivi imperatori sarebbero intervenuti in
modo molto più deciso in tal senso). Ma i mutamenti apportati da Severo
ebbero anche un effetto politico, in quanto fecero sì che la capitale si
sentisse come chiusa in una morsa militare.
Per Severo, un esercito forte e uno Stato forte andavano di conserva.
Reclutò tre nuove legioni, facendo salire il numero complessivo a
trentatré, pari a circa mezzo milione di uomini. I soldati della regione
danubiana e dei Balcani occupavano una posizione di primaria
importanza nelle sue truppe.
Più in generale, l’imperatore favorì i militari. Concesse alle legioni il
loro primo aumento di paga in un secolo e consentì ai soldati di sposarsi,
come del resto molti di loro avevano fatto nel corso degli anni violando i
regolamenti. Un esercito più grande e meglio pagato era costoso, e per
poterlo finanziare l’imperatore ridusse il titolo delle monete. Così
avevano fatto anche Marco Aurelio e Commodo, ma Severo ne diminuì
ancor più il valore. Sul breve termine Roma fu sufficientemente forte da
assorbire il colpo, ma una successiva generazione avrebbe pagato questa
scelta subendo un’inflazione fuori controllo.
Severo diventò il più grande espansionista militare dai tempi di
Traiano. Anche in ciò seguì le orme di Marco Aurelio, sebbene questi
non fosse riuscito a creare nuove province stabili, e avesse tentato di
espandere l’impero solo in risposta a un’aggressione subita da Roma.
Severo non ebbe neppure tale scusa. Creò due nuove province in
Oriente al di là dell’Eufrate, ampliò i confini delle province romane in
Africa verso sud e in Britannia cercò di estendere la conquista all’intera
isola. Fu davvero un imperatore che ampliò l’impero, come si legge
nell’iscrizione posta sul suo arco trionfale a Roma.
Paradossalmente, Severo non aveva una solida formazione militare.
Prima del 193 la sua carriera era avvenuta quasi esclusivamente nel settore
civile. Aveva avuto il comando di eserciti, ma solo in tempo di pace, e
non aveva combattuto alcuna guerra. Era insomma più un burocrate che
un guerriero. E tuttavia, come Marco Aurelio, si trovò costretto dalle
circostanze a ricoprire quel ruolo, e se ne assunse volentieri l’onere.
Diversamente da Marco Aurelio, Severo assaggiò il gusto del sangue in
una guerra civile prima ancora che contro un nemico straniero. La
conseguenza fu che divenne una sorta di caudillo del mondo romano, per
paragonarlo ai capi militari che hanno imperversato nell’America Latina
contemporanea. O, forse, la migliore analogia è quella con un CEO
nominato per attuare un risanamento aziendale e che ristruttura
spietatamente una grande azienda per salvarla.
Per quanto violente siano, le guerre civili consentono di infrangere le
divisioni sociali. Attorno al 195, ad esempio, il direttore di una scuola
della Gallia si finse senatore romano, reclutò un piccolo esercito in
appoggio a Severo, ottenne una vera vittoria e visse per il resto della
propria vita con una pensione imperiale. Era un atteggiamento
impudente, per non dire altro, ma a Severo piaceva così.
Nell’aprile del 195 l’imperatore fece qualcosa che nemmeno i suoi più
stravaganti predecessori avevano fatto: adottò sé stesso! In pratica,
diventò figlio di Marco Aurelio, e lo fece autonomamente, senza tener
conto del Senato né, ovviamente, dell’imperatore, che era da tempo
defunto. Modificò inoltre il nome del suo figlio maggiore da Caracalla
(come continueremo a chiamarlo) a Marco Aurelio Antonino, e lo
insignì del titolo di Cesare, facendone il proprio successore. Allo stesso
tempo, annunciò la divinizzazione del figlio di Marco Aurelio,
Commodo, atto che suonava come un’offesa alla memoria dei non
compianti senatori che avevano perso la vita per averlo avversato quando
era imperatore. I soldati, però, avevano adorato Commodo, il quale li
aveva retribuiti bene, e sicuramente apprezzarono il provvedimento.
Una storiella che circolava a Roma elogiava Severo per aver trovato un
padre in Marco Aurelio: era un complimento ambiguo e allo stesso
tempo un bell’esempio di snobismo, poiché richiamava l’attenzione sugli
oscuri natali dell’imperatore21. Ma la mossa di Severo era un affare serio,
e non un semplice stratagemma furbesco. I romani volevano credere nella
successione ereditaria e nella continuità della famiglia imperiale.
Preferivano la discendenza in linea di sangue, che però non era un
requisito imprescindibile: nel loro pragmatismo, erano pronti ad
accettare l’adozione. Quella di Severo era senz’altro una menzogna
esplicita, e a qualcuno risultò indigeribile, ma in massima parte fu
considerata un prezzo accettabile da pagare per assicurare la pace
scongiurando la guerra civile.
Severo non perdeva occasione per ricordare che il suo governo si basava
sull’esercito. In tal senso, conferì a sua moglie Domna il titolo di Madre
degli accampamenti, richiamando colei che in precedenza aveva avuto
quel titolo, vale a dire Faustina, moglie di Marco Aurelio e madre di
Commodo. La casa dei Severi era l’esercito romano, l’esercito era la casa
dei Severi: questo voleva dire quel titolo. Alcuni legionari, addirittura,
incontrarono personalmente Domna, che seguiva sempre il marito nelle
sue spedizioni militari e nei suoi viaggi, dalla Britannia all’Iraq.
Severo ebbe un notevole impatto sul governo romano. Promosse suoi
conterranei africani al rango senatoriale e ad alcuni concesse governatorati
provinciali e comandi di legione, riequilibrando anche la distribuzione
dei nuovi incarichi amministrativi a favore degli equites e a scapito del
Senato.

GUERRA, POLITICA E DELITTI


Domna era preziosa per Severo, poiché costituiva un trait d’union con le
élites del Mediterraneo orientale. E lo era anche perché in Oriente aveva
contatti che tornarono utili quando nel 197 suo marito partì da Roma
per riaprire la guerra contro la Partia. Anche in quella occasione, viaggiò
con lui.
Severo aveva tre motivi per attaccare la Partia. Aveva bisogno di
vendicare l’invasione del territorio romano che i parti avevano compiuto
approfittando del fatto che lui era impegnato in Occidente per
combattere Clodio. Era in cerca di gloria per sé stesso, e sicuramente
aveva meno grattacapi a trattare con l’esercito che col Senato. Fu la prima
grande guerra di conquista di territori stranieri fin dai tempi di Traiano,
e Severo ricordava continuamente al popolo che stava seguendo le orme
di predecessori illustri.
L’imperatore invase l’Iraq, ne saccheggiò la capitale (nei pressi
dell’odierna Baghdad) e annesse all’impero la parte settentrionale del
paese, a cui impose il nome di provincia di Mesopotamia, facendo così
rinascere la provincia persa da Traiano. Come quest’ultimo, tuttavia, non
riuscì a conquistare un’importante città-fortezza, nonostante due assedi.
Comunque, si proclamò vincitore e assunse il titolo di Parthicus Maximus.
Severo trasformò la conquista della capitale partica in un colpo
propagandistico. Fece coincidere l’evento con il 28 gennaio 198, data del
centesimo anniversario dell’elevazione di Traiano a imperatore. E nella
stessa data fece cadere la ricorrenza della nomina di Caracalla ad Augusto
o co-imperatore. In poche parole, trasse il massimo vantaggio politico
possibile dal suo successo militare.
Ma avrebbe dovuto essere più attento a moderare i suoi desideri. La
nuova provincia della Mesopotamia rappresentava un ampliamento
eccessivo dell’impero, e non andava a vantaggio degli interessi romani.
Un critico coevo si lamentò delle spese che comportava e del fatto che
coinvolgesse Roma in nuovi e pericolosi conflitti22. Quando però
finalmente, nel 202, Severo rientrò a Roma, dopo diversi altri anni
passati in Siria e un lungo viaggio in Egitto, gli fu dedicato un trionfo.
Egli, tuttavia, decise di non celebrarlo, perché era troppo afflitto dalla
gotta per sfilare in piedi sul carro trionfale.
La sua salute non gli impedì, comunque, di compiere fra il 202 e il 203
un ulteriore viaggio assieme alla famiglia in Africa settentrionale, durante
il quale fece anche il suo orgoglioso ritorno a Leptis, sua città natale. Qui
finanziò un magnifico programma di rinnovamento urbano, con la
costruzione di monumenti marmorei ancora oggi visibili. Nel 203 fece
ritorno con i suoi familiari a Roma, dove si dedicarono a un grande
programma di costruzioni e di feste. Quello stesso anno, consacrarono il
nuovo arco di Severo e Caracalla, per celebrare le loro vittorie sulla Partia.
Gli archi trionfali rientravano pienamente nella tradizione romana, ma
Severo eresse il suo in un luogo insolito, vicino ai monumenti che
celebravano Augusto, quasi a voler sfruttare il riflesso della gloria del suo
predecessore. Quanto ai bassorilievi scolpiti sulla nuova costruzione,
raffigurano scene di vittorie militari insolitamente esplicite e brutali, che
si distinguono dalla tradizione precedente. Come faceva spesso, Severo
teneva un piede in un passato raffinato e uno in un presente violento.
Come la vittoria in una guerra civile gli era valsa l’impero – sembrava
voler dire –, così la vittoria in una guerra straniera giustificava la
prosecuzione della sua dinastia. Si gloriava di aver ottenuto l’espansione
dell’impero.
Fra gli altri progetti edilizi che realizzò a Roma, vi furono la
ricostruzione di templi che erano andati distrutti in un incendio, un
enorme ampliamento del palazzo imperiale e la costruzione di una
facciata a sé stante vicino al palazzo stesso. Questo monumento mostrava
i membri della famiglia imperiale circondati dai sette pianeti conosciuti
all’epoca, come a significare che la nuova dinastia godeva del favore dei
cieli.
Vi sarebbero state altre celebrazioni, soprattutto i Ludi saeculares del 204,
in occasione del compimento di un altro secolo circa della storia romana.
Anche in questo caso si coglie una eco di Augusto, primo imperatore a
celebrare i giochi. Un tratto nuovo fu, però, il ricorso all’espressione
Città Santa per riferirsi a Roma, che entrò in uso in quel periodo.
L’appellativo di Città Eterna risaliva all’età augustea, e l’aggettivo
«santissimo» era già stato utilizzato per descrivere vari imperatori23.
Definire santa la città stessa rappresentava il logico passo successivo.
Sebbene oggi la designazione di Roma come Città Santa sia riferita al
cristianesimo, l’espressione nacque in un contesto pagano.
Ma era a Tiberio, più che ad Augusto, che Severo assomigliava nella sua
disponibilità a devolvere gran parte del proprio potere al prefetto del
pretorio, nel suo caso Gaio Fulvio Plauziano. Questi era un suo intimo
comandante in seconda, un amico di gioventù che lo seguiva ovunque
nei suoi viaggi, ma non era uomo di cui fidarsi del tutto.
Come Seiano, lo spregiudicato prefetto della guardia pretoriana che
aveva servito sotto Tiberio, Plauziano puntava a costruirsi una propria
base di potere e in definitiva a conquistare quello supremo. Assiduo
tessitore di rapporti tanto con militari quanto con civili, riuscì a
diventare anche ricco, il che a sua volta gli procurò nuovi amici e
l’influenza necessaria per far giustiziare i nemici. Sparlava in
continuazione dell’imperatrice. Giunse al culmine del proprio potere nel
202, quando dette in sposa sua figlia a Caracalla, il quale all’epoca era
quattordicenne. La sua speranza era, quantomeno, che un giorno suo
nipote sarebbe stato imperatore, ma se giocava bene le carte che aveva in
mano, avrebbe anche potuto sbarazzarsi di Caracalla e succedere lui stesso
a Severo sul trono. Sia Caracalla sia sua madre temevano e odiavano
Plauziano e la sua famiglia, per cui non si trattò certo di un matrimonio
felice.
Plauziano, però, si spinse troppo in là. A Roma, durante le corse, la
folla si lamentava a gran voce della sua ambizione. Consentì che le statue
di bronzo che lo raffiguravano superassero per quantità quelle di Severo.
L’imperatore lo notò, e ne fece fondere alcune, ritenendo offensiva la
cosa. Quando nel 205 il fratello di Severo fu sul letto di morte,
pronunciò un avvertimento contro Plauziano. Infine, quello stesso anno,
Caracalla, all’epoca sedicenne, accusò Plauziano di aver complottato per
uccidere suo padre, l’imperatore.
Il 22 gennaio 205 Caracalla fece giustiziare l’arrogante prefetto nel
palazzo imperiale a Roma. Poi fece portare un ciuffo della barba della
vittima in un’altra stanza, dove erano in attesa sua moglie – la figlia di
Plauziano – e sua madre Domna. «Guardate il vostro Plauziano!», disse il
messaggero, suscitando l’orrore di una donna e la gioia dell’altra24. Poi
Caracalla divorziò dalla moglie e la spedì in esilio su un’isola remota.
Una traccia di questa squallida vendetta è ricavabile da un monumento
spesso trascurato, collocato in una tranquilla strada di Roma. Si tratta di
una porta in marmo, detta Arco degli Argentari, costruita nel 204 da un
gruppo di mercanti di bestiame bovino e dai loro «banchieri» come
tributo a Severo nel decimo anniversario del suo regno. Era l’equivalente
romano di una odierna donazione a favore di un candidato alle elezioni –
un regalo da parte di un gruppo di commercianti in onore della famiglia
imperiale –, senza dubbio con la speranza di avere in cambio favori quali,
ad esempio, agevolazioni fiscali.
La pietra è minutamente cesellata e presenta un’elaborata combinazione
di temi. A decorare il monumento, stemmi di legioni, aquile imperiali,
prigionieri di guerra, Ercole – il dio del mercato del bestiame, con la sua
clava e la pelle di leone –, animali guidati dai mandriani, coltelli e
mannaie per sacrifici. Le immagini più grandi sono riferite alla famiglia
imperiale: Severo e Domna sono raffigurati con lo sguardo rivolto in
basso, in posa frontale e non affettata, in un rilievo collocato su un muro
interno. L’imperatore, che indossa una toga, sta compiendo un sacrificio,
mentre sua moglie tiene in mano un simbolo del suo ruolo di Madre
degli accampamenti. Sul lato opposto è raffigurato il loro figlio più
grande, Caracalla, intento a sua volta a sacrificare agli dèi.
A uno sguardo più ravvicinato, sul manufatto si notano i segni di
violente abrasioni. Un tempo vi erano dipinti la moglie di Caracalla e suo
suocero, Plauziano, nonché il fratello minore di Caracalla Geta, ma poi le
tre immagini vennero scalpellate via dopo che le persone che
raffiguravano furono cadute in disgrazia, esiliate o uccise.

CARACALLA
Nel 208 Severo, Domna, i loro figli e gran parte del loro entourage
partirono per la Britannia, con la speranza di condurre un’ultima
campagna di conquista e di giungere a una riconciliazione fra i due eredi
al trono, che erano in lotta fra loro. I due ragazzi erano talmente
competitivi che una volta Caracalla cadde e si ruppe una gamba durante
una corsa di carri in cui gareggiava contro il fratello minore, Geta. E
minacciava di ucciderlo.
Apparentemente, Severo considerava credibile quella minaccia.
Qualcuno pensava che l’imperatore avesse deciso di intraprendere una
campagna militare in terre lontane, nonostante fosse in uno stato di salute
tale che dovette essere condotto in guerra in una lettiga coperta, proprio
allo scopo di distrarre i due ragazzi. Fu una speranza vana: non solo
Caracalla continuò a minacciare il fratello, ma una volta, mentre cavalcava
a fianco di Severo per recarsi a un colloquio col nemico in Caledonia
(l’attuale Scozia), alzò addirittura la spada contro suo padre. Gli uomini
dell’imperatore lo videro e gridarono con tale forza da bloccarlo. Una
volta rientrati al quartier generale, Severo dette una strigliata al figlio, ma
non fece niente per punirlo. L’imperatore incolpava spesso Marco
Aurelio per non essersi sbarazzato di Commodo, ma nonostante le sue
frequenti minacce, quando era preso dall’ira, di uccidere Caracalla, l’amor
paterno o il pragmatismo lo fermarono.
Severo lanciò la sua campagna britannica sognando allori. Combatté per
due stagioni in Scozia con la speranza di conquistare tutta la Britannia,
salvo poi vedere l’esercito bloccato da un nemico sfuggente e dal terreno
inospitale. In seguito, la malattia lo costrinse a rimanere negli
acquartieramenti per mesi interi. I malanni e le dure condizioni di vita
nell’ultimo decennio lo avevano logorato, e a sessantasei anni stava
perdendo la battaglia. Erano ormai andati i giorni in cui Severo non si
curava di cavalcare a testa scoperta sotto la pioggia e la neve, conducendo
la campagna sui monti pur di incoraggiare i suoi uomini. E tuttavia,
questo uomo basso aveva ancora una gran voglia di lavorare. Perfino in
quelle condizioni disse ansimando ai suoi aiutanti: «Portate, date pure, se
c’è qualcosa da fare!»25.
Caracalla e Geta lo assistevano, Giulia Domna era vicina. Anche se si
trovavano lungo la frontiera, a centinaia di chilometri da casa, teneva
duro. Non per niente portava il titolo di Madre degli accampamenti26.
Non meno determinata del marito, ne fu la costante compagna durante le
operazioni militari.
Afflitto dalla gotta, immobile, intristito, l’imperatore giaceva sul suo
letto. Sentendo avvicinarsi la fine, Severo si rivolse ai suoi figli,
pronunciando a quanto si dice queste testuali parole: «Andate d’accordo
tra di voi, arricchite i soldati, non datevi pena per tutti gli altri»27. I
pensieri recano il segno dell’uomo: tersi, secchi, saggi e, al contempo,
cinici e speranzosi.
Poi, il 4 febbraio 211, Severo morì. L’uomo nato fra i colonnati di
marmo di una ricca città, sull’assolata costa mediterranea dell’Africa del
Nord, concluse i suoi giorni nella remota Eboracum (l’odierna York),
una città militare spartana nella Britannia settentrionale. I rituali del
funerale imperiale – la doppia processione attorno alla pira adornata con i
doni dei soldati, il corpo rivestito da un’armatura, i due ragazzi che
accendono il fuoco – dissiparono la tristezza invernale. E lo stesso effetto
ebbe il tocco finale: un’urna purpurea nella quale vennero deposte le ossa
dell’imperatore. In seguito, i suoi resti furono riportati a Roma a riposare
nella tomba di Adriano. Si narra che Severo mandò a prendere l’urna
prima di morire. Dopo averla toccata, sembra che dicesse: «Conterrai un
uomo che tutta la terra non è riuscita a contenere!»28.
Severo non conquistò la Scozia, ma riuscì comunque a istituire una
dinastia. Caracalla gli successe come imperatore, condividendo dapprima
il potere col fratello Geta.
«Caracalla» in realtà è un soprannome, derivante dal pesante mantello
militare in lana, o caracallus, che l’imperatore vide utilizzare ai soldati
romani in Europa settentrionale e che portò agli eserciti in Oriente.
Caracalla si chiamava in realtà Lucio Bassiano, poi come detto, dopo che
suo padre si «adottò» divenendo membro della famiglia di Marco
Aurelio, assunse il nome di Marco Aurelio Antonino.
Nelle monete e nelle sculture ci appare come un uomo dall’aspetto forte
e dai lineamenti smussati29. Ha i capelli ricci, la barba tagliata corta, il
naso prominente e il collo robusto. A guardarlo non trasmette certo
un’impressione di dolcezza.
Domna era, adesso, anche la madre degli imperatori, e svolse un ruolo
importante non solo perché rappresentava la continuità, ma anche come
fonte di consigli. Alla fine Caracalla le affidò la cura della propria
corrispondenza e l’incarico di rispondere alle petizioni. Nessuna donna
imperiale aveva mai svolto una mansione simile, e la circostanza, oltre al
suo livello culturale, dimostra quante poche fossero le altre persone a cui
Caracalla potesse affidare incarichi importanti.
Ma non prestò ascolto agli appelli della madre. Meno di un anno dopo
la morte del padre, inviò una squadra di soldati a uccidere suo fratello.
Geta era nel palazzo, e si gettò fra le braccia della madre per mettersi in
salvo, ma venne ucciso. Domna venne ferita a una mano. Rimase certo
sconvolta, ma continuò a fare da consigliera a Caracalla, per dovere di
madre o per amore di potere, o per entrambi i motivi. Nel frattempo,
Caracalla si accattivò i favori della guardia pretoriana con una generosa
oblazione, poi epurò i suoi nemici. Più in generale, tenne conto dei
consigli ricevuti dal padre e aumentò le spese per i soldati.
Era astuto, abile nel parlare e ambizioso, ma anche emotivo, impulsivo e
violento. Amava l’attività fisica. Aveva molti nemici, e ciò non
sorprende. Chi si poteva fidare di un uomo che aveva dato ordine di
uccidere in quel modo suo fratello?
Passò la maggior parte del periodo successivo del suo regno impegnato
in campagne militari, dapprima in Europa settentrionale, poi in Oriente.
Considerandosi un novello Alessandro Magno, trattò per prendere in
sposa la figlia del re dei parti, e una volta vistosi respinto, preparò una
guerra di conquista. Viene, tuttavia, ricordato soprattutto per due fatti di
natura non militare.
Ai nostri occhi, la grande realizzazione di Caracalla fu l’estensione della
cittadinanza romana a ogni abitante di condizione libera dell’impero, con
una legge promulgata nel 212, la cosiddetta Constitutio Antoniniana (dal
suo nome ufficiale). Prima di allora, Roma aveva esteso la cittadinanza
per ricompensare comunità privilegiate e importanti funzionari locali,
ma probabilmente solo una minoranza di persone libere aveva lo status di
cittadini. Nella storia umana, non c’erano esempi di una così ampia
condivisione della medesima cittadinanza.
L’élite romana, tuttavia, si concentrò maggiormente sui grandi aumenti
delle imposte introdotti dall’imperatore per finanziare le spese militari.
Secondo Cassio Dione, lo stesso ampliamento dei confini della
cittadinanza fu dovuto all’intento di aumentare le entrate per le tasse di
successione, che toccavano solo i cittadini30. Nel corso dei decenni, la
divisione fra cittadini e non cittadini era diventata meno importante. Nel
mondo romano la divisione più rilevante era quella fra ricchi e
privilegiati, definiti ufficialmente honestiores, e la gente povera e umile, gli
humiliores. Il primo gruppo, che fosse o meno composto da cittadini,
godeva di vari privilegi sia sul piano giuridico sia su quello pratico,
mentre il secondo soffriva di varie mancanze. In poche parole, Roma
estese la cittadinanza solo quando questo requisito cominciò a contare
meno.
Nel frattempo, Caracalla intraprese la realizzazione di un enorme
progetto edilizio per guadagnarsi l’appoggio dei poveri della città. Le
terme di Caracalla, le cui grandi rovine vengono ancora oggi ammirate
dai turisti, furono una delle ultime imponenti costruzioni della Roma
imperiale. L’opera era stata progettata da Severo e fu portata a termine da
Caracalla. Il grande complesso comprendeva palestre, una piscina e
biblioteche (una latina, una greca). Opere d’arte di grande qualità ne
decoravano gli ambienti. Il complesso era aperto gratuitamente al
pubblico. Coloro che lo costruirono si trovarono di fronte a enormi sfide
dal punto di vista ingegneristico, dalla rimozione di mezzo milione di
metri cubi di argilla per gettare le fondamenta all’erezione di colonne alte
12 metri e pesanti circa 100 tonnellate. Tuttavia l’opera fu completata
nell’arco di sei anni, utilizzando dai 12.000 ai 20.000 operai.
Domna accompagnò Caracalla in Oriente e si stabilì in Siria mentre il
figlio procedeva ancora più verso est. Poi, nell’aprile del 217, Caligola
venne assassinato. Il prefetto del pretorio, Marco Opellio Macrino,
scoprì di essere in cima alla lista dei nemici che l’imperatore voleva
eliminare, e così colpì per primo. A un suo comando, un soldato che era
stato insultato da Caracalla lo pugnalò a morte. Macrino dispose che
l’omicida venisse ucciso e negò di essere minimamente responsabile del
fatto.
Sconvolta dalla notizia, e forse già malata, Domna si uccise. Macrino,
acclamato imperatore dai suoi soldati, rimase al potere per un solo anno.
La sorella maggiore di Domna, Giulia Mesa, era decisa a riportare un
esponente della loro famiglia sul trono. Nei suoi ritratti sulle monete ci
appare come una donna attraente e dignitosa31. Aveva i capelli ondulati
come la sorella, ma tenuti legati con una piccola crocchia dietro il collo.
In alcuni ritratti, indossa un diadema, simbolo della regalità.
Il suo candidato al trono era il nipote Vario Avito Bassiano, figlio di sua
figlia, di appena quattordici anni. Sebbene fosse cresciuto a Roma,
all’epoca viveva ad Emesa, in Siria, ed era sacerdote della divinità locale,
Elagabalo (ed è con questo nome che passò alla storia). Detta così, non
era certo una situazione promettente per un aspirante imperatore, ma
Mesa era determinata, e spese di tasca propria per ottenere l’appoggio dei
soldati. Affermando che Elagabalo era nato da una relazione avuta da
Caracalla, nel 218 riuscì a far sì che i soldati lo acclamassero imperatore.
Dopo una breve guerra civile Macrino venne sconfitto e ucciso, aprendo
così la strada all’ascesa al trono del ragazzo.
Neanche le epopee televisive dei nostri giorni presentano storie di
potere femminile esercitato dietro le quinte tali da competere con quelle
che all’epoca si svolsero a Roma. Mesa e sua figlia Giulia Soemia, madre
di Elagabalo, seguirono il nuovo imperatore nella capitale. E fu una
buona scelta, poiché tenevano in mano le redini del governo mentre il
giovane si dedicava a istituire il suo culto religioso in città. Nei suoi
ritratti sulle monete, Elagabalo appare come un baldo e vigoroso giovane
dal collo robusto, con in testa una corona d’alloro o un diadema, e
indosso un pettorale. Guarda davanti a sé con l’espressione energica di un
comandante militare. Ma questi erano pii desideri. Un busto marmoreo
ci mostra, invece, un giovanetto magro e riccioluto, con i baffi e l’aspetto
etereo32.
Elagabalo rielaborò la sua divinità dandole la forma del dio Sole,
qualcosa di familiare nel pantheon romano, definendolo dio Sol Invictus.
Già questo sollevò perplessità, ma il desiderio di Elagabalo di rimpiazzare
Giove, la più importante divinità romana, col suo dio, scatenò reazioni
furiose. E non si può dire che l’imperatore evitasse di dare nell’occhio.
Consacrò alla nuova divinità un tempio sul Palatino, mostrò per le vie
della città la pietra conica nera che ne era il simbolo e danzò attorno a un
altare. L’opinione pubblica si oppose a tutto ciò. È meglio mantenere un
cauto scetticismo sulle altre azioni che le fonti antiche gli attribuiscono,
come il suo presunto matrimonio con una Vergine Vestale e le sue
supposte relazioni omosessuali, nelle quali avrebbe sfidato le convenzioni
assumendo la parte del partner passivo.
Sia come sia, Elagabalo fu impopolare. Mesa, che non era tipo da
concedere troppo spazio ai sentimenti, decise che era necessario
sostituirlo per salvare la dinastia. Si rivolse così all’altra sua figlia, Giulia
Avita Mamea, e al figlio tredicenne di lei, Alessandro Severo. Dopo aver
accettato di adottarlo come proprio erede, Elagabalo ci ripensò, ma
ormai era troppo tardi. Nel 222 la guardia pretoriana uccise lui e Soemia
e li decapitò, gettando poi il cadavere di Elagabalo nel Tevere. Il suo
regno era durato quattro anni.
La Roma ufficiale si sentì sollevata nel vedere un uomo più
convenzionale sul trono, anche se si trattava soltanto di un ragazzino di
tredici anni e se probabilmente sua madre aveva su di lui più potere di
quanto non ne avesse avuto Agrippina su Nerone, che era diciassettenne
quando divenne imperatore. In una moneta del primo periodo del suo
regno si vede Alessandro in abito militare e regale, come Elagabalo, con
la differenza che mostra tutta la sua giovanissima età33. In alcune monete
più tarde porta la barba34. Un busto in marmo lo ritrae con indosso una
toga, il volto di un uomo fra la giovinezza e la maturità35. Mamea viene
raffigurata, in alcune monete, con la caratteristica capigliatura ondulata
della sua famiglia, pettinata in modo molto elaborato, con ciocche di
capelli parallele36. A volte indossa un diadema. Ha un aspetto regale e
dignitoso.
Mamea aveva il titolo ufficiale di Augusta, Madre dell’Augusto, degli
Accampamenti, del Senato e della Patria. Di fatto guidava l’impero. Non
era certo una cosa consueta, eppure madre e figlio rimasero popolari
finché Roma non cominciò a perdere guerre. Alessandro, poco incline
alle questioni militari, fece pochi progressi in Oriente contro la nuova
dinastia sasanide persiana. Rispetto ai loro predecessori i sasanidi erano
meglio organizzati, più minacciosi, più abili nell’utilizzare la tecnologia
militare, e dotati di maggiore capacità di resistenza. In Occidente,
Alessandro decise di tenersi buoni gli aggressivi germani della regione
renana, comprandoli invece di combatterli. Mortificati, i soldati schierati
in quelle zone acclamarono imperatore uno dei loro comandanti. Poi, nel
235, uccisero sia Mamea sia Alessandro Severo.

CONCLUSIONE
La dinastia fondata da Settimio Severo durò quarantadue anni, fino alla
morte di Alessandro Severo, se si eccettua l’interruzione di un anno
durante la quale il trono era stato occupato da un altro nordafricano,
Macrino. Fu un periodo molto più breve dei novantanove anni dei
Giulio-Claudi e inferiore anche ai cinquantaquattro degli Antonini
(Antonino Pio, Marco Aurelio, Lucio Vero e Commodo) ma molto più
ampio rispetto ai ventisette anni dei Flavi. Per un altro settantennio, dopo
il 235, nessuno avrebbe fondato una dinastia più longeva. Si può dire,
quindi, che si trattò di un risultato notevole.
Il fondatore stesso, Settimio Severo, aveva governato per quasi diciotto
anni. Il suo fu il regno più lungo di qualsiasi imperatore del secolo
successivo alla morte di Marco Aurelio. Ripristinò la stabilità dell’impero
dopo la tirannia di Commodo e la guerra civile che ne era seguita.
Prendendo a modello Marco Aurelio, Severo sostenne lo studio della
filosofia e dette inizio a un’epoca d’oro per il diritto romano. Tuttavia, se
guardiamo alla sua reputazione storica, il militare oscura il riformatore.
Sia per caso sia per scelta, Severo fu il primo vero soldato-imperatore.
Arrivò al potere con la spada, passò gran parte del suo regno impegnato
in campagne militari, mostrò al Senato di quale potere disponesse, e fece
l’impossibile pur di esaltare l’elemento militare. E fece presagire ciò che
sarebbe avvenuto in futuro.
Per Edward Gibbon, la mancanza di rispetto per il Senato mostrata da
Severo ne fece «il principale artefice del declino e della caduta»37
dell’impero. Gibbon era un snob che scriveva nell’epoca
dell’Illuminismo, con scarsa simpatia per chi veniva dal niente e per gli
outsider. Altri studiosi, che scrissero nel momento di massima
affermazione dell’imperialismo europeo del XIX e del XX secolo, sono
ancora più pungenti nei confronti del cosiddetto barbaro, tradendo senza
dubbio un atteggiamento un po’ settario nei confronti dell’imperatore
romano.
L’impero occidentale sarebbe durato 250 anni dopo la morte di Severo.
Molti dei suoi atti, sebbene scuotessero la tradizione, furono necessari. È
vero che Roma divenne meno civile, ma la crisi militare aveva fatto del
governo civile un lusso. Inoltre, Severo dedicò alle pubbliche relazioni
altrettanta attenzione che all’esercito, poiché si impegnò a legittimare e a
rendere popolare la propria famiglia. Infine, aprendo l’élite a persone
nuove, rese Roma non più debole, ma più forte.
Severo non si limitò a conquistare il trono: fondò una dinastia. I Severi
divennero la prima famiglia romana segnata dal disordine militare ma
anche da un illuminato multiculturalismo.
Fu il primo imperatore africano di Roma, mentre sua moglie Domna
era siriana e certamente di ascendenza non romana. Severo infarcì le più
alte cariche dell’impero di uomini di sangue diverso provenienti dalle
province, scrivendo così un nuovo capitolo nella storia della diversità
etnica e razziale di Roma.
Certo, nella Roma di Severo la spirale della violenza cominciò ad
andare fuori controllo. L’imperatore unì alle guerre civili di Augusto e
Vespasiano le politiche espansionistiche di Traiano e l’apparato da Stato
di polizia di Tiberio. Tuttavia, fu il momento adatto per uomini e donne
ambiziosi che sapevano come trafficare.
Come molti suoi predecessori, Severo non fu amico del Senato. Lo
epurò e uccise più senatori di Commodo o di Domiziano. Inserì negli
incarichi amministrativi e militari gli equites, esponenti del ricco ceto di
poco inferiore a quello senatoriale per rango e prestigio. Tuttavia, più
che un segno di ostilità verso i senatori, ciò poté essere dovuto
principalmente alla scarsità di senatori qualificati o alla mancata
disponibilità di alcuni senatori a prestare servizio. Raddoppiando le
dimensioni della guardia pretoriana e destinando una legione a un campo
permanente fuori Roma, fece gravare una pesante minaccia sulla libertà
di espressione.
Tuttavia fu quello stesso militarista – che in passato era stato avvocato
del fiscus – a dedicare un grande interesse al diritto romano. Nominò
eccellenti giuristi che con la loro opera codificarono il diritto per secoli.
Uno dei principi giuridici enunciati durante il regno di Severo fu quello
secondo cui «princeps legibus solutus est» (il principe non è soggetto alla
legge)38. Era un’enunciazione più sincera che nuova, visto che questa
regola aveva caratterizzato ogni regno a partire da Augusto. Per quel che
può valere, Severo e Caracalla promisero di vivere in accordo con le
leggi, sebbene non fossero tenuti a farlo.
Con i Severi, uno splendido multiculturalismo e un dispotismo
illuminato si associarono all’etica di una famiglia criminale. Forse era
sempre stato così, e forse l’unico errore di quella dinastia fu di non
impegnarsi maggiormente a dissimulare la cruda verità. Sebbene molti si
indignassero del fatto che Severo si paragonasse ad Augusto, egli non fu
meno ambizioso o spietato del primo imperatore romano. Fu
semplicemente meno raffinato.
Severo lasciò la sua impronta più forte nella sfera militare, o per meglio
dire nel modo con cui congiunse la sfera militare e quella politica. Sotto
di lui, venne a fondersi una serie di processi da molto tempo latenti, che
resero il governo romano meno civile e più militare. L’esercito ottenne
maggiore potere e diventò più costoso, mettendo a dura prova le finanze
imperiali e gettando le basi di una notevole instabilità. Aumentando le
paghe all’esercito, facendo la guerra e impegnandosi in un grande
programma edilizio Severo gravò pesantemente sul bilancio statale.
Invece di finanziare le spese con le imposte, lui e i suoi successori
inflazionarono la moneta, provocando alla fine effetti disastrosi sull’intera
economia romana. In modo analogo, ai vertici, sia l’esercito sia
l’amministrazione imperiale furono più diversificati. Il risultato fu una
Roma dal carattere più rude e dai modi più grezzi, con gente semplice
che dalle periferie affluiva al centro dell’impero, ma anche più aperta alla
partecipazione.
Sebbene le donne imperiali avessero esercitato una grande influenza in
tutti i periodi della storia romana, nessuna dinastia dai tempi di quella
Giulio-Claudia aveva visto all’opera donne così potenti come quelle dei
Severi. Probabilmente, Domna fu l’imperatrice più potente dai tempi di
Livia. Sua sorella Mesa ebbe un ruolo decisivo nel fronteggiare la guardia
pretoriana, sua nipote Soemia rappresentò il potere dietro le quinte del
trono, mentre l’altra nipote Mamea fu quanto di più vicino a una
reggente il sistema di governo romano consentisse.
I Severi amarono pensare in grande, che si trattasse di un nuovo
complesso termale, del rinnovamento urbano della capitale, della
ricostruzione della loro città di origine, Leptis Magna, di una campagna
militare contro i parti, di un’epurazione del Senato, dell’introduzione di
una nuova divinità a Roma o dell’estensione della cittadinanza romana
(per quanto ambigua fosse tale concessione).
Settimio Severo anticipò le forme che il potere avrebbe assunto
successivamente. Fu solo il primo di una serie di militari provenienti da
regioni distanti dell’impero. E non fu neppure l’ultimo imperatore ad
avere nella propria famiglia una donna che venerava una divinità non
tradizionale. Più di quanto non avesse fatto la maggior parte dei suoi
predecessori, basò il proprio potere sulla prosecuzione dei successi
militari, ma a Roma gli imperatori-soldati sarebbero diventati la regola.
Era un uomo violento, con una famiglia problematica e un incongruo
gusto per lo Stato di diritto. Ciò poté non apparire così contraddittorio
ai romani, con la loro mentalità legalistica, che enfatizzava gli aspetti
giuridici perfino della guerra. Severo abbinò un esercito forte a uno Stato
forte. Diocleziano e Costantino furono fatti della stessa stoffa.
E sarebbero stati a loro volta uomini brutali, che non esitarono a
ricorrere alla violenza per salvare il sistema, al costo però di introdurvi
enormi cambiamenti.
 
1
[Giovanni Malala], The Chronicle of John Malalas, traduzione inglese di Elizabeth Jeffreys,
Michael Jeffreys e Roger Scott, Australian Association for Byzantine Studies, Melbourne
1986, XII.18.
2
Tondo Severiano, Staatliche Museen (Berlino), Antikenmuseum, inv. 31329.
3
Cassio Dione, Storia romana LXXVII.16-17; cfr. ivi, LXXV.2 e LXXII.36.4.
4
Ivi, LXXVII.12.
5
Historia Augusta, Settimio Severo I.4.
6
Erodiano, Storia dell’Impero romano II.9.2.
7
Cassio Dione, Storia romana LXXVI.13. 240, LXXV.8.1 e LXXVI.8.1.
8
Erodiano, Storia dell’Impero romano II.9.2.
9
Historia Augusta, Settimio Severo II.6.
10
Cassio Dione, Storia romana LXXV.2.1-2; Erodiano, Storia dell’Impero romano II.14.4.
11
Cassio Dione, Storia romana LXXVII.15.3.
12
Barbara Levick, Julia Domna, Syrian Empress, Routledge, London 2007, p. 3.
13
Si vedano, ad esempio: il busto della Glyptothek (Monaco di Baviera), inv. 354; fra le
monete, ad esempio: RIC IV Septimius Severus 540
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.ss.540_aureus); RIC IV Septimius Severus 857
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.ss.857).
14
Filostrato, Vite dei sofisti, p. 341.
15
Si veda ad esempio, RIC IV Pertinax 1 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.pert.1).
16
Cassio Dione, Epitome di storia romana LXXV.
17
Erodiano, Storia dell’Impero romano II.11.
18
Cassio Dione, Storia romana LVIII.14.1.
19
Ivi, LXXVI.8.1.
20
Ibid.
21
Ivi, LXXVI.9.4.
22
Ivi, LXXV.3.3.
23
Hermann Dessau, Inscriptiones Latinae Selectae, vol. II, t. 1, Berlin 1902, nn. 6472 e 6988.
Adriano e Antonino Pio erano entrambi principi «santissimi».
24
Cassio Dione, Storia romana LXXVII.4.4.
25
Ivi, LXXVII.17.4.
26
Corpus Inscriptionum Latinarum, XII, 4345 e XIV, 120.
27
Cassio Dione, Storia romana LXXVII.15.2.
28
Ivi, LXVII.15.3.
29
Si veda, ad esempio, il busto conservato presso il Museo Archeologico Nazionale (Napoli),
inv. 6603.
30
Cassio Dione, Storia romana LXXVII.9.5.
31
Si veda ad esempio, RIC IV, Elagabalus 256 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.el.256).
32
Musei Capitolini (Roma), inv. MC 470.
33
RIC IV Severus Alexander 7d (http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.sa.7d?lang=bg).
34
Si veda, ad esempio, RIC IV Severus Alexander 648a
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.sa.648a).
35
Musei Capitolini, Roma, inv. MC 471.
36
Si veda, ad esempio, RIC IV Severus Alexander 670
(http://numismatics.org/ocre/id/ric.4.sa.670).
37
Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 3 voll., a cura di
David Womersley, Penguin, Harmondsworth 1994, vol. I, p. 148 (trad. it. di Giuseppe Frizzi,
Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, con un saggio di Arnaldo Momigliano, Einaudi,
Torino 1967).
38
Giustiniano, Institutiones iuris romani II.17.8.
Diocleziano
9
Diocleziano,
l’uomo della grande divisione

L’imperatore Diocleziano era un militare di carriera. Non era un


aristocratico, aveva alle spalle un’infanzia povera nei Balcani, e le sue
maniere forti sembravano sottolinearlo. Una volta aveva accoltellato a
morte un rivale davanti alle truppe schierate. Un’altra volta minacciò di
allagare una città ribelle con fiumi di sangue alti quanto le ginocchia del
suo cavallo. E tuttavia, la frase più famosa che pronunciò fu una sorta di
omaggio alle verdure: «Se solo tu potessi vedere a Salona i cavoli che
coltiviamo con le nostre mani», rispose alla proposta del suo
interlocutore, «sicuramente non riterresti ciò una tentazione»1. Ciò
significava la richiesta di riassumere il comando dell’impero a distanza di
tre anni da quando si era ritirato fuori della città di Salona,
sull’incantevole costa dell’attuale Croazia. Era una richiesta inusuale, ma il
suo era stato un pensionamento senza precedenti. Diocleziano fu il
primo e l’unico imperatore ad abdicare per propria scelta. Rinunciò
infatti al trono davanti al suo esercito e poi visse da privato cittadino.
Sebbene avesse riposto la spada, il riferimento ai cavoli sembra
un’affermazione sopra le righe. Ce lo si immagina, Diocleziano, come
un anziano don Vito Corleone che cura i suoi pomodori nel film Il
padrino, mentre nel suo giardino elargisce scaltri consigli al successore da
lui designato, suo genero e padre del suo unico nipote, che in quel
momento doveva affrontare una fiera opposizione politica. È difficile
immaginarsi l’imperatore in pensione indifferente agli eventi che erano in
corso. Come Walrus (il Tricheco) di Lewis Carroll, sicuramente
Diocleziano non parlava solo di cavoli, ma anche di re.
Fu uno degli imperatori romani che regnarono più a lungo, e fra i più
importanti. Rimase al potere per ventun anni. Assieme al suo più famoso
successore Costantino, Diocleziano pose fine alla crisi che aveva quasi
distrutto Roma. Gettò le basi che consentirono all’impero di
sopravvivere, in una forma assai diversa dal passato. Tuttavia, su questo
grande uomo le fonti attendibili sono piuttosto scarse.
Era un tipo grosso, coraggioso, brutale e ordinato. La finezza non era il
suo forte, ma quelli non erano tempi che richiedessero finezza. C’era
bisogno di forza militare, di una mente pronta, di una volontà di ferro e
di un’assoluta sicurezza di sé. Diocleziano le aveva.
I suoi ritratti scultorei mostrano un uomo dai tratti forti e barbuto, con
le sopracciglia inarcate e un’espressione guardinga. Un busto marmoreo
lo ritrae come una sorta di teppista dai tratti marcati, che tiene però gli
occhi rivolti verso l’alto, come per un’ispirazione divina2. Un altro
straordinario busto in basalto nero, che si ritiene lo raffiguri, mostra un
uomo anziano ma vigoroso. La bocca serrata trasmette un senso di
determinazione, mentre lo sguardo ha un’intensità tale da non far
desiderare di trovarselo davanti3.
Diocleziano riorganizzò l’impero romano e, letteralmente, lo salvò.
Tuttavia procedette per divisione: scuotendo il sistema prima di
rimetterne insieme i pezzi. Divise l’Oriente e l’Occidente, ponendo a
capo di ognuna delle due parti un distinto imperatore coadiuvato da un
vice, ognuno dei quali doveva però rispondere a un solo uomo: lui
stesso. Divise romani e barbari, militari e civili, e soprattutto pagani e
cristiani. Ottenne un certo grado di successo, anche se non la perfetta
armonia né i risultati a cui puntava maggiormente. Ma lasciò un regno in
condizioni più forti e meglio attrezzato per sopravvivere di quanto non
lo fosse stato per diverse generazioni.

DA DIOCLE A DIOCLEZIANO
Diocleziano era nato il 22 dicembre, nel 245 circa. Proveniva dalla
Dalmazia, oggi in territorio croato, forse dalla città di Salona, vicino a
Spalatum (Spalato). Il suo nome di nascita era Diocle, che in greco
significa «gloria di Zeus», il dio Giove dei romani. Era – come si è detto
– di famiglia povera. Suo padre era uno scriba, o forse il liberto di un
senatore. Sua madre sembra si chiamasse Dioclea.
Diocle, soldato di carriera, era portato per il comando. La sua ascesa nei
ranghi militari lo portò fino al grado di generale, e gli furono assegnate
truppe sul Danubio. Poi nel 283 prestò servizio sotto l’imperatore Marco
Aurelio Caro nella campagna che questi condusse in Oriente. A poco
meno di quarant’anni, Diocle si ritrovava al comando della guardia del
corpo imperiale, una forza scelta istituita una generazione prima e
distinta dalla guardia pretoriana.
Caro morì appunto nel 283, dopo un solo anno di regno. Ma fu un
anno segnato da immensi successi, nel corso del quale conquistò la
capitale sasanide in Iraq. Dopo una terribile tempesta, l’imperatore morì
nella sua tenda, non è chiaro se per cause naturali, per gli esiti di una
ferita riportata in battaglia, o perché colpito da un fulmine. In
precedenza, Caro aveva saggiamente nominato i figli suoi coreggenti.
Non era consueto che vi fossero dei co-imperatori, anche se non
mancavano precedenti. Marco Aurelio e Settimio Severo ne avevano,
infatti, entrambi nominato uno, mentre lo stesso Augusto e Vespasiano
avevano delegato il potere al proprio figlio e successore. Ma in nessun
caso prima di allora si era avuta una divisione formale dell’impero fra
Oriente e Occidente. Uno dei figli di Caro, Numeriano (Marco Aurelio
Numeriano), si trovava allora in Mesopotamia con l’esercito, che lo
acclamò imperatore. Suo fratello, Marco Aurelio Carino, era già stato
riconosciuto imperatore in Occidente, dove aveva vinto una battaglia
contro una tribù germanica.
Sebbene si fosse imposto contro i sasanidi, l’esercito romano decise di
non rischiare di intraprendere ulteriori combattimenti sotto un nuovo
sovrano non ancora sperimentato. Così retrocesse verso ovest.
Numeriano viaggiò in un carro chiuso, poiché, secondo il suo seguito,
aveva un’infezione a un occhio. Dissero che doveva proteggersi gli occhi
sofferenti dal vento e dal sole. Ma dopo qualche giorno i suoi soldati
sentirono un odore fetido. Aperto il carro, vi trovarono Numeriano
morto. I suoi attribuirono la morte a cause naturali, ma molti ebbero il
sospetto che si trattasse di un omicidio.
Chi avrebbe preso il suo posto? La scelta più ovvia era il prefetto del
pretorio, Arrio Apro, cognato di Numeriano. Emerse però un candidato
più impressionante: un rude, spietato e navigato comandante che sapeva
come esercitare il potere. Apro fu scavalcato dalla decisione di un
consiglio di alti ufficiali di Numeriano il 20 novembre del 284, che fece
cadere la scelta appunto su Diocle. Il quale ora assunse un nome dal
suono più latino: Diocletianus.
Il nuovo imperatore rispose al saluto delle truppe su un colle nei
dintorni della fiorente città di Nicomedia (oggi Izmit), situata
all’estremità di una baia della Propontide (l’odierno mar di Marmara),
non lontano dall’attuale Istanbul. Dopo aver giurato che non aveva tradito
né ucciso Numeriano, Diocleziano decretò Apro colpevole del presunto
delitto, estrasse la spada e lo uccise davanti a tutto l’esercito. Qualcuno
ipotizzò che Diocleziano stesse mentendo e che lui stesso facesse parte in
realtà di un complotto mirante a uccidere Numeriano. Se l’ipotesi era
vera, allora uccise Apro per ridurlo al silenzio.
Se Diocleziano mentiva, vi erano ancora più ragioni per calcare la
mano. Una fonte, richiamandosi a una testimonianza diretta, afferma che
Diocleziano, nell’atto di trafiggere Apro, citò un verso dell’Eneide – un
tocco molto letterario, non c’è che dire, per un militare4. Nella stessa
fonte si legge che Diocleziano ricevette una profezia secondo cui sarebbe
diventato imperatore dopo aver ucciso un cinghiale. In latino il nome
della sua vittima, Aper, significa appunto «cinghiale», come pare abbia
sottolineato lo stesso Diocleziano dopo l’omicidio5.
Roma aveva appena acquisito uno straordinario nuovo capo.
Diocleziano era un uomo non semplicemente determinato e violento,
ma anche energico, ambizioso e capace di una visione generale. Per
quanto avesse scarsa conoscenza di Roma, era profondamente romano,
perché Roma in quel momento era più un esercito che una città, e
l’esercito romano era la sua casa. Allo stesso modo, Diocleziano non era
un soldato di ristrette vedute, bensì uno scaltro stratega politico. Spesso
sottovalutiamo l’intelligenza dei grandi militari, ma farlo con Diocleziano
equivarrebbe a un errore fatale, poiché egli era un politico di
prim’ordine.
Il suo altisonante titolo completo era Cesare Gaio Aurelio Valerio
Diocleziano Augusto, ma si rendeva perfettamente conto che essere
acclamato imperatore dai soldati equivaleva a una semplice licenza di
caccia. Avrebbe dovuto guadagnarsi il titolo combattendo e manovrando
politicamente. Il fratello di Numeriano, Carino, governava la parte
occidentale dell’impero, e aveva proclamato di essere l’unico legittimo
imperatore. Diocleziano intraprese rapidamente una marcia per
attaccarlo. Si scontrarono nella primavera del 285 in Serbia, in una
battaglia che Carino vinse, per poi però uscire comunque sconfitto.
Secondo un resoconto, fu un ufficiale la cui moglie era stata sedotta da
Carino a ucciderlo6. È altrettanto probabile che l’ufficiale fosse un
traditore che agiva per conto di Diocleziano. Le truppe di Carino, ora,
accettarono come imperatore Diocleziano, il quale, dopo essersi
assicurato il controllo della regione, aprì la fase successiva della sua
campagna per conquistare la propria legittimazione. Varcò le Alpi per
entrare in Italia, poi raggiunse Roma, che forse vide allora per la prima
volta.
Il Senato romano a quell’epoca esercitava un modesto potere politico o
militare diretto, con un’unica rilevante eccezione: il suo consenso era
ancora necessario per legittimare la scelta dell’imperatore effettuata
dall’esercito. Inoltre, il Senato conservava ancora un enorme potere
indiretto. I senatori potevano complottare o promuovere i loro protetti
operando dietro le quinte. Ancor più importante era il fatto che il Senato
rappresentava la ricchezza e il potere del denaro in campo politico,
poiché i suoi membri disponevano di enormi patrimoni. Era insomma
un corrispettivo di Wall Street o della Silicon Valley di oggi, col
vantaggio, però, di essere esente da tasse. Aprendo o chiudendo i
cordoni della borsa, i suoi membri potevano determinare l’ascesa o la
caduta di un politico ambizioso.
Diocleziano tutto questo lo sapeva, e così andò a Roma. Durante una
breve visita, negoziò favori e strinse amicizie, ad esempio nominando
alcune figure chiave fra i senatori al consolato, che in anni recenti era
spettato ai militari. Per il momento, in ogni modo, aveva il Senato dalla
propria parte.
A Roma Diocleziano non perse tempo. L’impero si trovava a dover
affrontare enormi sfide, a partire dalle prove militari, e lui ora si dedicò a
questo. Passò la maggior parte del decennio successivo in campagne sul
Danubio e in Oriente.

LA CRISI DEL III SECOLO


Il primo e più grande successo di Diocleziano consisté nel conferire
nuovamente stabilità a un impero che era rimasto intrappolato in un ciclo
di violenze. Per comprendere la portata di questa realizzazione,
dobbiamo prima dare un’occhiata ai decenni che precedettero il suo
avvento al potere.
Il cinquantennio che separa l’omicidio di Alessandro Severo dall’ascesa
al potere di Diocleziano segnò un periodo di crisi e poi di lenta ripresa.
Roma aveva dovuto affrontare emergenze anche in precedenza, ma non
certo di tale portata.
A partire dal 240 circa, i nemici di Roma continuarono a premere alle
frontiere, sia in Oriente sia in Occidente. La Gallia e il territorio
corrispondente all’attuale Giordania dichiararono entrambi la propria
indipendenza. Decio (Gaio Messio Quinto Decio), un ambizioso
imperatore della metà del III secolo, cadde in battaglia contro degli
invasori germanici, nel territorio dell’odierna Bulgaria. Il figlio e
coreggente di Decio morì prima, circostanza che a quanto sembra spinse
l’imperatore a dichiarare virilmente che la perdita di un soldato non
poteva avere grande importanza7. Lo choc maggiore arrivò qualche anno
dopo, nel 260, con la cattura dell’imperatore Valeriano (Publio Licinio
Valeriano) da parte del re sasanide. Questi fece scolpire su una scogliera
in Iran un bassorilievo che lo ritraeva a cavallo mentre trionfava su
Valeriano. Un’iscrizione su una struttura in pietra nelle vicinanze
celebrava il fatto che il re aveva catturato l’imperatore romano e i suoi
ufficiali con le proprie mani e li aveva deportati in Iran, dove in seguito
morirono. Per i romani si trattò di un’enorme umiliazione.
La necessità di contenere invasioni e rivolte su fronti opposti portò
Roma al punto di rottura. Le sconfitte si moltiplicarono, e la maggior
parte della provincia della Dacia venne abbandonata per sempre. Per
finanziare la difesa, gli imperatori svalutarono la moneta, generando però
un’enorme inflazione. Come se ciò non bastasse, a metà del secolo
scoppiò un’altra grande epidemia, che imperversò in tutto l’impero per
un quindicennio, aggravando i problemi di reclutamento militare di
Roma8. Negli anni successivi al 240, inoltre, una siccità pose fine al
periodo di clima favorevole di cui aveva beneficiato l’agricoltura9.
La popolazione si ridusse, in particolar modo nelle città. Nel frattempo,
il pericolo di invasioni spinse molte città a costruire nuove fortificazioni
o ad ampliare quelle esistenti. La stessa Roma fu in tal senso il principale
esempio: le massicce mura cittadine ancora oggi visibili furono dapprima
costruite dall’imperatore Aureliano (Lucio Domizio Aureliano), che
regnò dal 270 al 275, e poi rinnovate in epoca medievale e moderna.
Il problema che caratterizzava Roma era l’instabilità politica. Omicidi e
guerre civili scuotevano la stabilità del governo. Fra il 235, quando
Alessandro Severo venne ucciso, e il 284 si contano venti imperatori, per
quanto in alcuni casi rimasti al potere per un periodo molto breve. La
durata media di un regno era inferiore ai tre anni.
Tuttavia l’impero si riprese, il che va ad onore della capacità di resilienza
di Roma ed è al contempo un segno della disunione e delle debolezze dei
nemici dell’impero. La ripresa cominciò durante il regno del figlio e
coreggente di Valeriano, Gallieno (Publio Licinio Egnazio Gallieno), il
quale durante il suo regno insolitamente lungo, dal 253 al 268,
introdusse una serie di riforme, escludendo i senatori dagli incarichi
militari di vertice e sostituendoli con militari di professione. Inoltre,
dette avvio a una nuova e più modesta politica di difesa delle frontiere. I
romani ora concessero gran parte della frontiera al nemico e assunsero un
atteggiamento difensivo: le città fortificate vicine al confine servivano
come basi dalle quali partire per impedire una più profonda penetrazione
del nemico in territorio romano. Roma concentrò anche dei reparti
mobili nei punti strategici delle retrovie, spostandoli quando necessario.
Grazie a questa nuova linea, Gallieno inflisse delle sconfitte agli invasori
germanici. I suoi successori contrastarono in modo decisivo gli invasori
e riconquistarono sia la Gallia sia l’Oriente. Ottennero una dolce
vendetta contro l’impero sasanide conquistandone la capitale e istituendo
nuovamente la provincia romana della Mesopotamia (che in questo caso
corrispondeva però non all’Iraq ma a una regione relativamente piccola
oggi compresa nella Turchia sud-orientale).
Gallieno proveniva dalla nobiltà senatoriale, ma i suoi successori furono
tutti militari che si erano fatti da soli, prodotti di quell’esercito
professionale che lo stesso Gallieno aveva creato. Nessuno di loro fu
capace di riaffermare la stabilità politica; quelli che più si distinsero
morirono infatti improvvisamente, e spesso in modo violento.
Solo Diocleziano sarebbe stato capace di restaurare l’ordine.
LA BANDA DI GUERRIERI CHE GOVERNAVA ROMA
Diocleziano sapeva bene che per poter mantenere il potere occorre
condividerlo. E applicò questo principio su larga scala. Già nel primo
anno in cui fu in carica, scelse un militare di professione proveniente dai
Balcani con cui lavorare: Massimiano (Marco Aurelio Valerio
Massimiano), di qualche anno più giovane di lui. Figlio di un negoziante
di alimentari di quella che oggi è la Serbia, Massimiano risalì la gerarchia
partendo dai ranghi, come aveva fatto Diocleziano. Avevano servito
assieme nell’esercito e probabilmente Massimiano era presente quando
nei dintorni di Nicomedia Diocleziano venne proclamato imperatore.
Dapprima Diocleziano lo nominò Cesare – suo vice e successore – e lo
spedì in Gallia. Poi lo elevò ad Augusto, quindi a co-imperatore, e gli
attribuì l’Occidente. Diocleziano mantenne principalmente l’Oriente, la
parte più ricca e popolosa dell’impero.
Un ritratto marmoreo che potrebbe essere di Massimiano lo mostra con
tratti forti e barbuto, gli occhi infossati, le guance incavate e
un’espressione astuta, con un che di scettico10. Chi in vita lo criticò
diceva che era feroce, sfrenato e incivile11.
Sebbene Diocleziano non fosse il primo imperatore ad affiancarsi un
co-reggente, l’aspetto straordinario fu la sua decisione di aggiungere al
vertice altri due uomini con il titolo di Cesare. Il provvedimento risale al
primo marzo 293, poco più di otto anni dopo la sua ascesa al potere. Nel
corso di quel periodo, segnato dal ricorrente rullare dei tamburi di
guerra, Diocleziano seguì un pesante programma fatto di combattimenti,
negoziati e viaggi. Nel solo 290, ad esempio, si calcola che abbia
percorso una media di sedici chilometri al giorno12. Nel corso degli anni,
capeggiò campagne militari sul Danubio, in Egitto e sul confine
orientale, facendo avanti e indietro da un teatro di operazioni all’altro.
Sovrintese alla costruzione di una nuova serie di forti sul fronte
orientale,che andava dalle rive dell’Eufrate al deserto arabico. Negoziò
inoltre una tregua con i sasanidi. Diocleziano si incontrò con
Massimiano per coordinare le rispettive politiche in presenza di una
rivolta del comandante ribelle della Gallia nord-occidentale, che guidò
anche un movimento separatista in Britannia. Nel frattempo, dovette
occuparsi anche dell’attuazione di riforme interne.
Con tutte queste cose da fare, non stupisce che a un certo punto andasse
in cerca di aiuto. Inoltre, condividere il potere con uomini di talento era
un mezzo per scoraggiare le loro eventuali velleità di rivolta. Fu un
bell’esempio del principio secondo il quale occorre tenersi vicini gli
amici, ma ancor più vicini i nemici.
I due Cesari servivano i due Augusti e svolgevano essenzialmente un
ruolo militare. In Occidente, Flavio Valerio Costanzo divenne Cesare
dell’Augusto Massimiano. Costanzo era stato governatore provinciale e
prefetto della guardia dello stesso Massimiano. In Oriente, Galerio (Gaio
Galerio Valerio Massimiano), già forse prefetto della guardia di
Diocleziano, divenne a sua volta Cesare. Tutti i quattro uomini erano
stati dei poveri ragazzi dei Balcani cresciuti nelle file dell’esercito
romano, e nessuno di loro viveva a Roma. Semmai, scelsero delle
residenze più vicine al fronte. Vissero nella Turchia nord-occidentale, in
Germania, in Italia settentrionale, in Siria e nella Grecia settentrionale.
Furono costantemente in movimento, vedendosela con guerre e rivolte,
ma raramente si incontrarono, se si eccettuano occasionali conferenze al
vertice. Comunicavano prevalentemente tramite lettere o messaggeri.
A volte vengono chiamati tetrarchi, e il loro sistema tetrarchia, vale a
dire «il potere di quattro», ma si tratta di termini moderni, non in uso
nell’antichità. E neppure si può dire che i quattro fossero tra loro uguali.
Al vertice supremo c’era Diocleziano, che lo mostrò chiaramente
inventando due nuovi titoli: definì se stesso Giovio, con esplicito
riferimento al re degli dèi, mentre a Massimiano conferì il titolo di
Herculius, Ercole, che di Giove era figlio. Se le monete imperiali di
questo periodo tendono a evidenziare un clima di armonia e di
concordia, è chiaro che la fedeltà a Diocleziano veniva al primo posto.
Come affermò un antico oratore, l’impero continuava ad essere
«un’eredità indivisa»13.
In pratica, e per la gestione quotidiana degli affari, Massimiano e
Costanzo amministravano l’Occidente e Diocleziano e Galerio l’Oriente,
ma non esisteva una divisione ufficiale dell’impero. Diocleziano ne
controllava la strategia complessiva e prendeva le decisioni finali.
Tuttavia, di fatto l’impero romano era diviso. Diocleziano si rese conto
che i problemi di Roma erano troppo grandi per essere gestiti da un solo
uomo. Da allora, e fino al termine della sua storia, l’impero ebbe di solito
due imperatori.

MADRE CORAGGIO E LA SPOSA DI MARTE:


LE DONNE IMPERIALI NELLA TETRARCHIA
Seguendo la normale procedura che risaliva ad Augusto, Diocleziano
utilizzò i matrimoni per cementare le relazioni politiche. Fece sposare la
figlia di Massimiano con il Cesare Costanzo, al quale venne chiesto di
divorziare dalla precedente moglie, facendo poi sì che Massimiano
adottasse come figlio lo stesso Costanzo. Statista-soldato, questi passò
gran parte della sua carriera impegnato in campagne militari, e anche
quando invecchiò non dette segni visibili di desiderare l’abbandono della
vita militare.
Nel frattempo, Diocleziano dette in sposa la sua unica figlia, Valeria, al
Cesare Galerio, adottandolo quindi come figlio. Nelle monete Valeria è
ritratta come una giovane graziosa, con un volto un po’ mascolino e la
capigliatura intrecciata in modo elaborato e sistemata sopra la fronte, e
indosso un piccolo diadema14. Lei e Galerio ebbero una figlia, che venne
promessa sposa al figlio di Massimiano.
Galerio da bambino aveva fatto il pastore, poi era entrato nell’esercito ed
era salito ai vertici della gerarchia. Era alto e robusto. Una fonte antica, a
lui decisamente ostile, dice che aveva un comportamento intimidatorio e
volgare. Sembra che tenesse degli orsi addomesticati cui dava in pasto dei
criminali mentre cenava15.
Nonostante l’importanza della politica matrimoniale imperiale nella
strategia di Diocleziano, sappiamo, purtroppo, molto poco delle mogli
dei quattro regnanti. Diocleziano era sposato con Aurelia Prisca. Come
avrebbero mostrato gli eventi successivi, era una madre fedele e
coraggiosa, ma il suo ruolo di moglie è poco documentato. Aveva il
titolo di Nobilissima Donna, e Diocleziano collocò la sua statua in un
tempio di Giove, a Salona16, ma non le conferì il titolo di Augusta. Non
siamo sicuri del motivo di questa scelta – forse l’intento di evitare di
offendere le mogli degli altri tre regnanti.
La madre di Galerio, invece, si presenta come un personaggio
interessante. Romula, questo era il suo nome, era una di quelle madri
romane della tempra di Azia e Agrippina, che svolsero un ruolo
importante per la vita e per l’immagine pubblica dei loro figli. Perfino la
villa che costituiva il ritiro di Galerio, un enorme edificio costruito sul
luogo della sua casa natale, nell’odierna Serbia, era intitolato al suo nome.
Romula era presumibilmente una pagana molto devota. Galerio affermò
che si era congiunta con Marte, il dio della guerra, il quale le si era
presentato in forma di serpente, e che lui stesso era figlio di quel
connubio17. La storia richiama la propaganda di Augusto secondo cui sua
madre si era unita al dio Apollo, sempre in sembianze di serpente. Non
vi è dubbio che Galerio avesse in mente di onorare sua madre, quando
costruì dei templi dedicati alla madre dea e a Giove all’interno della sua
villa.
Diocleziano e i suoi tre coreggenti erano già una «banda di fratelli» fin
dai tempi dell’esercito. Ora costituivano una famiglia (o almeno due
famiglie), tenuta insieme da veri e propri legami matrimoniali. Un
famoso gruppo scultoreo che raffigura i quattro regnanti, proveniente
dall’Oriente romano ma oggi all’esterno della basilica di San Marco a
Venezia, mostra l’immagine che essi davano di sé18. Sono divisi in due
gruppi, in ognuno dei quali l’uomo più anziano porta la barba e quello
più giovane il volto ben rasato. Indossano tutti pesanti armature e
copricapi di lana nello stile della regione danubiana. I manici delle spade
culminano con elementi di foggia barbarica raffiguranti teste d’aquila.
Ognuno tiene una mano attorno alle spalle del proprio collega e l’altra
sull’elsa della propria spada, dando l’impressione di essere pronti a
combattere gli altri proteggendosi al contempo a vicenda.
Le statue sono in porfido, una pietra ricercata proveniente dall’Egitto
che veniva spesso utilizzata proprio per ritrarre gli imperatori. Lo stile
rappresentativo è tutt’altro che classico. Tozze e pesanti, le figure
richiamano per certi aspetti alcune raffigurazioni medievali. Ma sono
tipiche dei grandi cambiamenti in atto nella scultura romana durante il III
secolo, un periodo nel quale l’arte assunse forme più semplici.

«UNA PACE CHE È COSTATA MOLTO SUDORE»


Ora che dalla primavera del 293 i suoi tre colleghi erano entrati in carica,
per Diocleziano era arrivato il momento di avanzare su tutti i fronti. Per
tutto il tempo, aumentò gli schieramenti di truppe sulla frontiera e
consolidò le fortificazioni. A confronto con i forti romani delle epoche
precedenti, quelli di Diocleziano erano più piccoli, compatti e di più
difficile accesso. In varie regioni di frontiera e costiere, in Oriente come
in Occidente, sono state ritrovate tracce di sistemi fortificati. Il numero
delle legioni aumentò nettamente, dalle trentatré dell’epoca di Settimio
Severo alle cinquanta sotto Diocleziano, ma con un minore numero
medio di soldati per unità. Non è chiaro se Diocleziano aumentasse le
dimensioni complessive dell’esercito, ma non vi è dubbio che rese più
facile raggiungere gli obiettivi di reclutamento; reintrodusse una leva
annuale per la prima volta dai giorni della repubblica, e costrinse anche i
figli dei soldati in servizio e dei veterani ad arruolarsi.
Diocleziano era un guerriero, ma Galerio era il suo cavallo da lavoro.
Dopo aver difeso la frontiera danubiana e aver schiacciato una ribellione
in Egitto, Galerio fu mandato in Oriente per affrontare l’invasione
sasanide dell’Armenia. Nel frattempo, nel 297 Diocleziano dovette
intervenire in Egitto in risposta a un’altra rivolta. Dopo un lungo assedio,
prese Alessandria tagliando le forniture idriche.
Quello stesso anno, Galerio subì una grave sconfitta contro l’impero
sasanide. Diocleziano, arrabbiato, lo umiliò. Avendo lasciato l’Egitto per
la Siria, ora Diocleziano costrinse Galerio, con indosso la sua veste
purpurea, a correre davanti al suo carro per un chilometro e mezzo,
mentre entravano ad Antiochia19.
Ma la vergogna di Galerio durò poco. Dopo aver raccolto nuove truppe
nei Balcani, nel 298 sconfisse in battaglia i sasanidi. Fece addirittura
prigioniero l’harem imperiale, con tutte le mogli, le sorelle e i figli del
sovrano. Mentre Galerio marciava verso il territorio dell’attuale Iraq,
Diocleziano riprese il controllo di ex territori romani nella Turchia
meridionale. Usando l’harem come pedina di scambio, Diocleziano
trattò con il re sasanide ottenendo il riconoscimento della sovranità di
Roma sui territori appena riconquistati. Questa grande vittoria romana
portò a un trattato di pace che sarebbe stato rispettato per circa
quarant’anni. A questo punto, Diocleziano accolse nuovamente Galerio a
braccia aperte. In seguito, lo inviò sulla frontiera danubiana, dove si
profilavano pesanti combattimenti. Galerio avrebbe passato gran parte del
decennio successivo in quella regione.
In Occidente, nel frattempo, Massimiano si dette molto da fare.
Represse rivolte in Gallia, in Spagna e in Africa, e respinse indietro vari
invasori germanici sulla terraferma e i pirati sul mare. Non riuscì, però, a
riconquistare la riottosa Britannia. Quel compito passò a Costanzo, che
dopo aver attraversato nel 296 il Mare Britannico (l’odierno Canale della
Manica) finalmente schiacciò la rivolta isolana, che era in atto da lungo
tempo. Abbiamo un medaglione d’oro che commemora il suo ingresso a
cavallo a Londra. La scritta lo celebra come il Restauratore della luce
eterna20.
Nel 298, dopo quattordici anni di guerre continue, Diocleziano e i
suoi coreggenti finalmente fissarono stabilmente le frontiere. Si
guadagnarono credito per avere sconfitto e ucciso i barbari – come li
chiamavano –, stabilendo in tal modo «una pace che è costata molto
sudore»21. Era giunto il momento di dedicarsi alle riforme all’interno e a
perfezionare ed estendere un programma che era in atto già da tempo.

UN GRANDE GOVERNO
I piani di Diocleziano erano costosi. Il settore militare, con la sua infinita
serie di guerre, era la voce di spesa maggiore, ma era anche in corso
un’enorme campagna di costruzioni. Oltre ai forti e alle strade lungo le
frontiere, ogni tetrarca aveva bisogno almeno di un palazzo, e spesso non
solo di uno. E Diocleziano non trascurò neppure la città di Roma.
Ricostruì il Senato dopo il devastante incendio che lo aveva colpito (la
nuova costruzione è ancora oggi visibile nel Foro), eresse un arco
trionfale (non più esistente) e costruì le enormi terme che da lui presero
il nome, le più grandi mai costruite in città. Da allora, le varie parti delle
diffuse rovine di queste terme, che occupano una superficie di oltre
quattro ettari, sono state trasformate in due chiese rinascimentali (una
delle quali progettata da Michelangelo), e hanno lasciato il posto a un
grande museo archeologico, a una sala per mostre ed ex planetario e
infine, ma non meno rilevante, a una delle principali piazze della Roma
moderna.
Un’altra importante spesa fu rappresentata dalla nuova e ampliata
struttura amministrativa che Diocleziano impose all’impero,
raddoppiando il numero della province da circa cinquanta a un centinaio.
L’imperatore raggruppò, inoltre, le province in dodici nuove regioni,
che chiamò diocesi (termine utilizzato dalla Chiesa cristiana per indicare
le sue unità territoriali amministrative), ognuna con un proprio
amministratore. I senatori erano praticamente tagliati fuori dai
governatorati provinciali, poiché quasi tutti gli incarichi venivano
assegnati ai cavalieri. Lo scopo del nuovo sistema era rendere più
semplice la riscossione delle tasse e applicare le leggi e i regolamenti.
Nel corso di tutta la storia dell’impero, l’Italia era stata esentata dalle
imposte. Ora non fu più così. Diocleziano trattò la penisola come
qualsiasi altra provincia. Perfino la città di Roma dovette versare il dovuto
e – imposizione più scortese di ogni altra – lo stesso dovettero fare anche
i senatori. Il risentimento cominciò a covare.
Per venire incontro ai bisogni di un esercito rafforzato, il governo istituì
delle fabbriche di armi in varie località dell’impero. Ciò, a sua volta,
portò all’imposizione di obblighi alle popolazioni locali.
L’amministrazione aveva un raggio d’azione molto ampio. La
documentazione di cui disponiamo mostra, ad esempio, che nel
settembre del 298 un fabbro egiziano non si presentò al lavoro
nell’arsenale locale. Il governatore dette così ordine alla polizia di trovarlo
e di arrestarlo, facendolo comparire davanti a lui assieme agli attrezzi da
lavoro22.
Occorre dire, però, che tutto ciò avveniva in un contesto in cui la
moneta era ormai quasi priva di valore. Già sotto Settimio Severo, le
monete d’argento romane erano composte solo per il 50% di metallo
prezioso. Negli anni sessanta del III secolo alcune monete contenevano
solo il 2-3% di argento. Non sorprende, quindi, che questo portasse a
una crisi finanziaria. Come al solito, Diocleziano aveva una risposta,
anzi, diverse risposte.
In linea generale, si tenga presente che nel clima di incertezza degli anni
di crisi in varie parti dell’impero i coltivatori rinunciavano alla propria
indipendenza per ottenere in cambio la protezione di un proprietario
fondiario locale, cambiando così il loro status e divenendo affittuari.
Diocleziano codificò la situazione che si era venuta a creare, e cercò di
legare i membri di questo nuovo ceto in modo permanente alla terra in
qualità di affittuari, perché i lavoratori stabili erano più facili da tassare.
Venne così istituito un nuovo sistema fiscale che prevedeva pagamenti in
natura invece che in denaro.
I soldati, tuttavia, dovevano essere pagati in moneta, per cui fu
necessario affrontare il problema dell’inflazione. Intorno al 294
Diocleziano aumentò il peso della moneta d’oro, creò una nuova e
affidabile moneta d’argento e riformò la monetazione bronzea.
Nonostante questo nobile tentativo, le monete di bronzo rimasero
sopravvalutate, e l’inflazione salì rapidamente. Così, nel 301 il governo
intervenne, emanando un decreto che di fatto tagliò della metà il valore
delle monete di bronzo.
Qualche mese dopo Diocleziano e i suoi colleghi fecero un grandioso
tentativo di imporre un sistema di controlli sui salari e sui prezzi, con
l’emanazione del famoso Edictum de pretiis, che fissava i prezzi massimi
delle merci. La parte introduttiva del provvedimento è significativa.
Dopo aver attaccato gli avidi e i profittatori, i quattro governanti
fissarono i livelli limite dei salari e dei prezzi. La pena prevista per la
violazione dei tetti di legge era la morte.
Una particolare preoccupazione veniva espressa per l’esercito, rispetto al
quale venivano citati casi di soldati che avevano perso il loro intero
salario e il loro premio in un’unica transazione. I malvagi, si leggeva,
stavano truffando non solo i singoli, ma la società nel suo complesso,
poiché i soldi derivanti dalle imposte servivano a pagare i soldati.
L’editto stabilì i prezzi relativi a oltre mille fra beni e servizi, dai ceci alla
senape, dalle capre ai fagiani, dagli indennizzi per i lavoratori del marmo
ai guidatori di cammelli, dai veterinari ai maestri di scuola. L’obiettivo
era ambizioso, ma destinato a non essere raggiunto. Alla fine, infatti, le
merci vennero ritirate dal mercato, mentre la borsa nera fiorì.

UN ININTERROTTO CERIMONIALE
Come si evince dal gruppo scultoreo che raffigura i tetrarchi,
l’imperatore era particolarmente attento all’autorappresentazione. Di
fatto, sotto Diocleziano la corte imperiale abbandonò ogni finzione di
repubblicanesimo e diventò un posto in cui i più alteri monarchi
potevano sentirsi a loro agio. Diversi dei suoi predecessori avevano già
esteso il cerimoniale di corte, ma Diocleziano si spinse ancora molto
oltre.
Spesso indossava una veste purpurea con fili d’oro, accompagnata da
gioielli e scarpe di seta. Per gli antichi, il porpora era il colore dei re. I
primi imperatori evitarono di indossarlo, e sebbene Adriano e i suoi
successori ne facessero sempre più uso, nessuno lo aveva adottato con più
gusto di quanto fece Diocleziano. Insisté anche per farsi chiamare signore
(dominus) in pubblico. I palazzi imperiali costruiti durante il suo regno
sono tutti dotati di grandiose sale per le udienze, organizzate in modo
tale da consentire al sovrano di produrre una favolosa impressione sui
visitatori. Spesso appariva circondato da figure che gli scrittori classici
disdegnavano, considerandoli un segno di dispotismo: gli eunuchi.
Questi personaggi avevano svolto un ruolo all’interno del governo
imperiale fin dai primordi, ma generalmente si trattava di funzioni
modeste. I romani li associavano all’autocrazia straniera, ma sotto
Diocleziano ebbero un ruolo a parte nel governo romano. Erano schiavi
liberati spesso provenienti dell’Armenia o dalla Persia, e occupavano
posizioni chiave all’interno della famiglia dell’imperatore, spesso
controllando l’accesso alla sua persona.
Un possibile contatto con l’imperatore poteva avvenire durante il suo
ingresso in città, che in genere veniva accompagnato dallo svolgimento di
un grandioso cerimoniale. Questo, assieme alla presentazione a corte,
poteva costituire il momento per pronunciare un panegirico, un discorso
di lode. Sempre eccessivamente ossequiosi già nei primi regni, questi
discorsi raggiunsero livelli di servilismo inediti sotto Diocleziano. Nel
301, ad esempio, Diocleziano e Massimiano tennero una riunione nel
palazzo di Mediolanum (Milano). Un estensore di discorsi esclamò:
«Quale visione la vostra pietà concesse quando coloro che erano stati
ammessi nel palazzo a Milano per adorare i vostri sacri volti vi colsero
entrambi con la vista, e voi, divinità gemelle, improvvisamente
confondeste la consueta pratica della venerazione singola»23.
Lo stesso scrittore afferma che quando i due sovrani uscirono dal
palazzo e furono portati in lettiga per le vie della città, gli edifici stessi
quasi si muovevano per la folla di gente che si riversava in strada o si
sporgeva dalle finestre dei piani alti per poter cogliere un’immagine; e
aggiunge che la gente gridava gioiosamente e senza timore: «Vedi
Diocleziano? Vedi Massimiano? Sono là entrambi! Sono insieme! Come
siedono vicini! Come discorrono in armonia! Come passano veloci!»24.
L’impero aveva percorso molta strada dai giorni in cui Livia curava di
farsi vedere mentre tesseva sul proprio telaio la toga di lana di suo marito
Augusto, o in cui sotto Tiberio il Senato mise fuorilegge i vestiti di seta
da uomo. Ma i duri soldati dei Balcani che regnavano in quel periodo
provenivano da un altro mondo. Ora che avevano la ricchezza e il potere,
amavano ostentarli.

LA GRANDE PERSECUZIONE
Potrebbe sembrare strano che Diocleziano dedicasse tempo ed energie
alle persecuzioni religiose. Infatti, da un militare del suo stampo ci si
sarebbe potuti aspettare che esclamasse, come fece il dittatore sovietico
Stalin: «Quante divisioni ha il papa?»25.
Ma i romani, diversamente dai moderni, non crebbero all’ombra della
credenza secondo cui Dio è morto. Al contrario, la maggior parte dei
romani vedeva nelle disgrazie dell’impero un chiaro segno della
disapprovazione divina. Gli dèi erano arrabbiati con Roma. Era
necessario placarli e lo Stato doveva restaurare quella che i romani
definivano «la pace degli dèi»26. Ma come?
Per qualcuno la risposta era «con nuovi dèi». La crisi del III secolo, con
le sue molte miserie, dette impulso alla tendenza a passare dalle vecchie
divinità alle nuove. Durante i primi secoli dell’impero a Roma erano
arrivate dall’Oriente varie religioni straniere e in alcuni casi nuove.
L’offerta religiosa della Roma del III secolo aveva l’aspetto di un mosaico
multicolore. I fedeli potevano scegliere fra i culti misterici greci, che
proponevano il segreto della vita eterna; il culto della divinità egizia Iside,
i cui sacerdoti sfilavano per le strade salmodiando con indosso vesti simili
agli Hare Krishna dei nostri giorni, ma in più autoflagellandosi; il culto
esclusivamente maschile di Mitra, una sorta di connubio fra il dio Sole e
un simbolo del machismo, i cui adepti prendevano parte a sacrifici di tori
in sotterranei che richiamano alla mente i capitoli di alcune confraternite
americane; il manicheismo, una religione intellettualistica proveniente
dalla Persia, che proponeva una concezione dualistica del mondo, visto
come il prodotto della lotta fra la luce e le tenebre. Il giudaismo attirava
molti convertiti, e probabilmente un numero ancora maggiore di
simpatizzanti che ne apprezzavano la teologia e il libro sacro nobilitato
dal tempo, più che le rigide norme.
Infine, c’era il cristianesimo, che prospettava la salvezza e proponeva i
rituali, il comunitarismo e i vantaggi del giudaismo senza le sue
restrizioni. L’ostilità delle autorità non impedì alla nuova religione di
diffondersi. Di fatto, il governo romano lasciò fare. Le persecuzioni
furono sporadiche, a carattere locale e relativamente rare, con l’eccezione
degli anni cinquanta del III secolo, quando gli imperatori, che ancora
non si erano ripresi da una serie di disastri, cominciarono a perseguitare
per un breve periodo i cristiani che non offrivano sacrifici agli dèi.
Presto, però, si ritornò alla precedente situazione basata su una tolleranza
di fatto.
Il cristianesimo conquistò seguaci grazie all’importanza che attribuiva
alla carità e alla comunità. La Chiesa era aperta anche alle donne e agli
schiavi. Nonostante le tendenze apocalittiche e rivoluzionarie, diventò
largamente accettato. Persone facoltose, intellettuali e perfino soldati
romani cominciarono a convertirsi.
I cristiani erano una minoranza concentrata in Oriente e nell’Africa
settentrionale. Ma costituivano forse il 10% della popolazione
complessiva dell’impero, una quota quindi non irrilevante, soprattutto
perché la maggior parte di essi viveva nei centri urbani, il cuore pulsante
della civiltà romana. Anche in conseguenza di ciò, i cristiani
generalmente apparivano e si comportavano come chiunque altro. Non
indossavano vesti speciali, né vivevano in ghetti, né seppellivano
separatamente i loro morti o parlavano una lingua a parte. Potevano essere
vicini di casa, donne che gestivano la famiglia o erano attive nel
commercio, insegnanti, avvocati, soldati della tenda accanto. L’unica cosa
che li rendeva diversi dagli altri romani era che non frequentavano i
templi e le cerimonie festive, celebravano il loro culto in chiese (nella
maggior parte dei casi, semplici stanze in case private) e rifuggivano dal
compiere sacrifici agli dèi in onore dell’imperatore.
Diocleziano rilevò questa loro tendenza, e la considerò un’omissione di
doveri. Non era tipo da cercare la pace con gli dèi ricorrendo a una
nuova religione. Al contrario, quell’uomo nato in umili condizioni in
Dalmazia celebrava le vecchie divinità romane col fervore tipico del
neofito. Oltre a compiere personalmente sacrifici in onore degli dèi
tradizionali, decise di perseguitare coloro che non lo facevano. Forse
eraun’idea che aveva in testa già da tempo, ma in tal caso non sarebbe
stato comunque in grado di metterla in atto fino al 298, quando
finalmente si concluse la guerra con la Persia. Forse, agì perché col passare
del tempo cominciò a pensare alla propria eredità e voleva ottenere il
favore degli dèi prima di finire i suoi giorni. In ogni caso, nel 303 passò
all’azione.
Dapprima Diocleziano si occupò dei manichei, che erano sospetti non
solo perché nuovi e diversi, ma anche perché la loro religione proveniva
dalla Persia. L’imperatore disse che erano come dei serpenti velenosi e
maligni27. Poi prese di mira i cristiani.
Diocleziano temeva e disapprovava il crescente potere della Chiesa
cristiana, e in particolare la sua penetrazione nelle file dell’esercito. Il suo
istinto lo spingeva a distruggerla. In ciò, ebbe il forte sostegno del suo
collega Galerio. Alcune fonti sostengono, anzi, che l’idea della
persecuzione vada attribuita proprio a Galerio. Un’ipotesi interessante è
che a spingerlo in tale direzione fosse sua madre Romula, animata dalla
sua profonda fede nelle divinità pagane28. Rientra, quindi, nel novero
delle possibilità che dietro la peggiore persecuzione subita dalla Chiesa
cristiana nell’antichità vi fosse una donna proveniente dalle ondulate
colline della Serbia rurale.
Una serie di ordini emanati nel 303 e nel 304 fu alla base di quella che i
cristiani avrebbero chiamato la Grande Persecuzione. I primi
provvedimenti presero di mira il clero, oltre che i cristiani che
occupavano cariche elevate. Poi, il regime attaccò anche quelli di
condizione comune e impose che offrissero sacrifici alle divinità pagane.
Furono distrutte chiese e confiscati i libri sacri della religione cristiana.
Diocleziano fu particolarmente attento a cacciare i cristiani dall’esercito.
Secondo Lattanzio, autore di fede cristiana, la persecuzione prese avvio
nell’inverno del 303 con la distruzione di una chiesa cristiana a
Nicomedia, nei pressi del palazzo di Diocleziano. Lo scrittore accusa
Galerio di aver appiccato il fuoco al palazzo dell’imperatore per darne poi
la colpa ai cristiani e spingere Diocleziano alla persecuzione29. Questi, a
quanto pare, abboccò e fece torturare i suoi servi sperando di estorcere
loro una confessione, senza però riuscirvi.
A quanto si dice, Diocleziano sospettò perfino di sua moglie e di sua
figlia. È probabilmente per questo, in ogni caso, che ordinò loro di
offrire sacrifici agli dèi30. Sicuramente le due donne non erano cristiane,
ma forse avevano espresso simpatia per i seguaci del cristianesimo.
I cristiani reagirono alle persecuzioni in vario modo. Alcuni si
nascosero, altri corruppero i funzionari pubblici, alcuni accettarono di
compiere sacrifici, altri si rifiutarono e furono giustiziati a morte a causa
della loro fede. Erano dei martiri, e così li descrive la letteratura cristiana.
Un veterano di nome Giulio, con ventisette anni di servizio militare e
sette campagne alle spalle, preferì essere giustiziato piuttosto che offrire
incenso agli dèi. Crispina, una donna facoltosa, madre di alcuni bambini,
che viveva nel territorio dell’attuale Algeria, accettò a sua volta di essere
uccisa piuttosto che piegarsi a compiere sacrifici. Il vescovo Felice, nella
regione dell’attuale Tunisia, si rifiutò di consegnare i libri sacri e venne
per questo giustiziato all’età di cinquantasei anni31.
Per i cristiani fu un periodo terribile. Le persecuzioni andarono avanti a
ritmo alterno per dieci anni, e provocarono grandi sofferenze, ma alla fine
fallirono. La fermezza e la determinazione dimostrate dai martiri è uno
dei motivi che spiegano questo insuccesso; un altro motivo va visto nella
indisponibilità di alcune autorità non cristiane a prendere parte alla
persecuzione. Quanti romani erano pronti a condannare a morte dei loro
concittadini che non avevano di fatto commesso alcun vero crimine? In
Britannia e in Gallia, Costanzo si limitò ad abbattere le chiese, ma per il
resto lasciò stare i cristiani. Sicuramente non fu l’unica autorità che operò
in modo da attenuare la portata degli ordini di Diocleziano.
I martiri non furono molto numerosi, ma la dimensione del martirio
assunse un posto molto rilevante nella coscienza cristiana, e
probabilmente attirò l’ammirazione anche dei non credenti, tanto che il
cristianesimo uscì rafforzato dalle persecuzioni subite.
Quanto a Romula, dopo la sua morte venne sepolta in un mausoleo
appositamente costruito nella proprietà di Galerio e a lei intitolato, e
venne proclamato il suo status divino32. Sarebbe difficile pensare,
guardando al suo destino, che la religione pagana che aveva protetto
sarebbe stata presto a sua volta perseguitata.
CAVOLI E RE
Diocleziano fu il primo e l’unico imperatore romano a scegliere
volontariamente di andare in pensione. Ancor più significativo fu il fatto
che visse senza essere molestato per quasi un decennio dopo essere uscito
di scena.
Perché lasciò il campo? Le fonti affermano che gli venne meno la salute,
ma bisogna dire che altri imperatori rimasero attaccati al potere anche se
afflitti da colpi apoplettici, malattie cardiache e gotta. Nessun capo
romano aveva ceduto il potere volontariamente sin dai tempi in cui,
quasi quattro secoli prima, il dittatore Silla rinunciò alle sue funzioni,
con un atto che all’epoca Giulio Cesare definì di analfabetismo politico,
sostenendo che i dittatori non possono andare in pensione33. Ma
Diocleziano non era uno sprovveduto. Sapeva che i suoi fedeli
coreggenti avrebbero cessato di essere leali nel momento stesso in cui
avessero sentito l’odore del sangue. Ognuno di loro agognava la porpora
e si sarebbe battuto per ottenerla, ma Diocleziano voleva scegliere
personalmente il proprio successore, e non avrebbe potuto farlo dalla
tomba. Probabilmente, pensò che era meglio cedere il potere, uscire di
scena e poi, all’occorrenza, tirare le fila da dietro le quinte mentre era
ancora in vita.
Massimiano e Costanzo erano entrambi uomini capaci e ambiziosi, ma
la preferenza di Diocleziano andava a Galerio. Per oltre un decennio,
questi era stato il suo fedele servo e la sua longa manus militare. Ed era
anche il marito di sua figlia Valeria e il padre di suo nipote. E così,
l’imperatore si preparò per il grande giorno.
Intorno al 300, Diocleziano cominciò a preparare la dimora nella quale
si sarebbe ritirato, in Dalmazia, a Spalatum, vicino al suo luogo di
nascita. Alle rovine che ancora oggi testimoniano lo splendore di un
tempo si fa spesso riferimento come al Palazzo di Diocleziano, ma non si
trattava solo di un palazzo. Il complesso stava alle case di riposo come
Fort Knox sta alla banca sull’angolo della strada.
Il palazzo di Diocleziano copriva, infatti, un’area di circa 215 metri per
180, e ospitava al suo interno migliaia di persone. Era cinto da mura
fortificate e diviso in quattro parti come un accampamento militare
romano; comprendeva al suo interno una piccola fabbrica di armi, un
tempio e un mausoleo (diversamente dai precedenti imperatori,
Diocleziano non costruì infatti il proprio mausoleo a Roma).
Il palazzo era anche una sorta di manifesto ideologico in pietra. Le
quattro parti di cui si componeva rappresentavano i tetrarchi, che erano
praticamente degli dèi in terra, il più importante dei quali era lo stesso
Diocleziano, figlio di Giove.
Massimiano non condivise l’entusiasmo di Diocleziano per la
prospettiva di andare in pensione. Voleva restare al potere, e anche fare in
modo che suo figlio Massenzio gli succedesse. Ma Diocleziano si
oppose. Costrinse Massimiano a dimettersi e a lasciar fuori Massenzio. I
due nuovi Augusti sarebbero stati Galerio in Oriente e Costanzo in
Occidente, i due nuovi Cesari rispettivamente Flavio Valerio Severo e
Massimino Daia, entrambi a loro volta militari originari dei Balcani e
collegati a Galerio (Daia era suo nipote).
Con cerimonie accuratamente coordinate e formali, Diocleziano e
Massimiano lasciarono il potere lo stesso giorno, il 1° maggio del 305.
Diocleziano a Nicomedia, Massimiano a Mediolanum. Smisero le loro
vesti purpuree e indossarono da allora quelle di privati cittadini.
Si pregiarono entrambi di un nuovo titolo: Senior Augustus. Era un
tentativo di mantenere autorità anche una volta in pensione, ma non
funzionò.
La Banda dei Fratelli si trasformò presto in Gioco del Trono, quando i
quattro nuovi tetrarchi entrarono in conflitto fra loro. Ci volle un
ventennio prima che si arrivasse a una soluzione, che però, quando fu
trovata, aprì la strada a una delle più grandi e drammatiche svolte della
storia della civiltà occidentale.
Il 25 luglio del 306, a distanza di poco più di un anno da quando
Diocleziano aveva lasciato il potere, l’Augusto di Occidente, Costanzo,
morì. Il caso volle che finisse i suoi giorni a Eboracum, in Britannia, la
stessa località in cui era morto l’imperatore Settimio Severo. I soldati di
Costanzo attuarono immediatamente un colpo di Stato, che sicuramente
era in preparazione da tempo. Invece di accettare la scelta del nuovo
Cesare da parte di Diocleziano, acclamarono come Augusto il figlio dello
stesso Costanzo, Costantino. Questi usò l’acclamazione come una carta
per far valere le proprie pretese nei negoziati. Dopo un accordo con
Galerio, accettò di retrocedere al titolo di Cesare, ma per lui si trattava
comunque di un grande passo.
Il successivo ostacolo alla realizzazione dei piani elaborati da
Diocleziano per la successione si presentò qualche mese dopo. Il 28
ottobre a Roma scoppiò una rivolta, alimentata in gran parte dalla rabbia
per un tentativo di tassare la gente comune. La guardia pretoriana, con
una mossa che richiamava i giorni andati, ruggì di nuovo e scelse il suo
imperatore, proclamando tale Massenzio, figlio dell’Augusto
Massimiano, ormai in pensione. I pretoriani gli conferirono il titolo
ormai antiquato di princeps. Massenzio richiamò il padre dalla pensione e
lo proclamò a sua volta nuovamente Augusto.
Per ampliare la cerchia dei sostenitori del figlio, Massimiano organizzò
un matrimonio strategico, concedendo la mano di sua figlia a Costantino
e riconoscendolo come Augusto. In cambio, Costantino riconobbe a sua
volta Massimiano come Augusto e anche Massenzio come Cesare.
Quel che avvenne poi è talmente complesso da confondere anche il più
scrupoloso degli osservatori. Massenzio era sposato con la figlia di
Galerio, il quale però si oppose violentemente alle manovre di potere del
giovane. Per combatterlo in Italia, Galerio, dalla sua base in Oriente,
inviò Flavio Severo, il quale però venne sconfitto e imprigionato, per poi
morire giustiziato. Galerio sferrò un nuovo attacco ma fallì ancora una
volta, anche se riuscì almeno a mettersi in salvo. Nel frattempo,
Massimiano ruppe con Massenzio. Da questa brutta lite scaturì un
tentativo da parte del padre, nel 308, di detronizzare il figlio.
A questo punto Massimiano rivolse a Diocleziano l’appello sul quale si è
aperto questo capitolo. Nel novembre del 308 i due si trovarono a
convegno a Carnuntum. Massimiano tentò di convincere Diocleziano a
riprendere il potere. L’ex imperatore saggiamente declinò l’offerta.
Indicò le sue verdure come il motivo per rientrare al sicuro fra le mura
del suo palazzo fortificato, da dove poteva influire sugli eventi operando
dietro le quinte. Massimiano dovette così abdicare da Augusto per una
seconda volta, ma continuò a scalpitare per il potere. Ora entrò in
contrasto col genero Costantino, e tentò perfino di assassinarlo. Era
troppo per Costantino, che nel 310 lo costrinse a togliersi la vita.
Nel frattempo, Galerio non stette con le mani in mano. Tentò di
rafforzare la propria posizione sia con un’azione di propaganda, sia con
manovre dinastiche. Sebbene Diocleziano non avesse mai attribuito a sua
moglie Aurelia Prisca il titolo di Augusta, ora Galerio concesse
quell’onore a sua moglie Valeria, figlia di Diocleziano. Intitolò a suo
nome anche una provincia. Galerio voleva in tal modo ostentare la
propria superiorità sugli altri regnanti, i quali però, naturalmente, non
furono d’accordo.
Sempre nel 308, Galerio nominò al rango di Augusto in Occidente
ancora una volta un soldato dei Balcani, nella speranza che potesse
finalmente sottrarre il potere a Massenzio a Roma. Il soldato in questione
era un vecchio compagno d’armi dello stesso Galerio, ed era stato uno
dei suoi generali nella guerra contro la Persia: si chiamava Valerio
Liciniano Licinio. Come ormai consueto, la sua storia era quella di un
povero ragazzo dei Balcani che si era fatto strada risalendo la gerarchia
dell’esercito. Ma neppure un esperto comandante militare poteva violare
le possenti mura di Roma, e neppure lui riuscì a scacciare Massenzio.
Galerio però sarebbe morto di cancro alla fine del 311. Prima della fine,
aveva revocato i provvedimenti che aveva emanato contro i cristiani,
anche se altri continuarono ad applicarli. Il motivo per cui lo fece non è
chiaro, ma alcuni sostengono che la malattia lo portò a rimettere in
discussione la sua convinzione che il dio dei cristiani non avesse potere.
Ora c’erano quattro uomini che rivendicavano il diritto di esercitare il
potere in una parte dell’impero romano: Costantino, Massenzio, Licinio
e Daia. Le lotte che li contrapposero saranno affrontate nel prossimo
capitolo. Nel frattempo, ritorniamo al destino che attendeva Diocleziano
e la sua famiglia.
Come e quando Diocleziano morì non è chiaro. La sua vita si concluse
in un momento compreso fra il 311 e il 313, in conseguenza di una
malattia o di un suicidio. Dopo la sua morte, sia la sua vedova sia sua
figlia – la vedova di Galerio – vennero uccise. Diocleziano non riuscì a
salvare la propria famiglia, ma aveva salvato l’impero e ne aveva
riorganizzato il governo.
Dai tempi di Augusto, nessuno come lui aveva introdotto cambiamenti
così radicali nel governo di Roma. È vero che la tetrarchia non
sopravvisse a lungo dopo la sua uscita di scena, ma per la maggior parte
del IV secolo l’impero fu governato da due uomini per volta, invece che
da uno solo, e ciò dà ragione alla convinzione di Diocleziano secondo
cui i problemi di Roma fossero troppo grandi per poter essere gestiti da
un’unica persona.
Diocleziano pose anche fine al potere della città di Roma, che da allora
non sarebbe più stata la capitale dell’impero. Come lui, la maggior parte
degli imperatori sarebbero ora provenuti dai Balcani e dall’esercito,
indebolendo così ancora di più i legami con la Città Eterna.
Grazie a Diocleziano, l’esercito romano fu finanziato meglio e schierato
in modo più massiccio lungo le frontiere, usufruendo di una nuova rete
di strade e fortificazioni. A lui si dovettero anche due generazioni di pace
con la Persia e con l’Oriente. Sempre per merito suo, l’amministrazione
imperiale fu più vasta e più capillare che mai. Per finanziare tutto ciò,
l’imperatore aggravò la tassazione. Infine, rafforzò e codificò un processo
che legava i contadini alla terra.
Fin qui per quanto riguarda i suoi successi. Ma dovette registrare anche
dei fallimenti. Nonostante le violenze messe in atto, non riuscì a bloccare
la crescita del cristianesimo. E neppure riuscì a mettere l’impero nelle
mani di suo genero e della propria famiglia. I nemici rialzarono la testa, e
neanche le solide mura del suo palazzo sarebbero bastate a mettere in
salvo i suoi familiari.
L’uomo che alla fine avrebbe trionfato diventando il successore di
Diocleziano, Costantino, introdusse cambiamenti meno radicali di
quanto potrebbe sembrare. Non vi è dubbio che il suo ruolo di primo
imperatore cristiano rappresenti di per sé una svolta. Ma riguardo alle
questioni dell’amministrazione, della difesa e dell’economia si comportò
in gran parte in modo analogo al suo predecessore. Costantino fondò una
dinastia che traeva origine da due dei più vicini compagni di
Diocleziano: Costanzo e Massimiano. Visti in prospettiva, i regni di
Diocleziano e di Costantino fanno parte di un’unica vicenda, centrata
sull’esigenza di riformare, e quindi di salvare, l’impero romano.

 
1
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 39.6 («Utinam Salonae possetis visere olera
nostris manibus instituta, profecto numquam istud temptandum iudicaretis»).
2
J. Paul Getty Museum, Villa Collection (Malibu, CA), 78.AA.8.
3
Worcester Art Museum, Head of a Man (possibly Diocletian), 1974.297.
4
Historia Augusta, Caro, Carino e Numeriano XIII.3-5.
5
Ivi, XIV.1-15.6.
6
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 38.8.
7
Ivi, 29.5; Iordanes, Getica, edizione, traduzione e commento a cura di Antonino Grillone,
Les Belles Lettres, Paris 2017, XVIII.
8
Harper, The Fate of Rome cit., pp. 136-145.
9
Ivi, pp. 129-136 e 167-175.
10
Civico Museo Archeologico (Milano):
www.comune.milano.it/wps/portal/luogo/museoarcheologico/lecollezioni/milanoromana/ritra
tto_massimiano/lut/p/a0/04_Sj9CPykssy0xPLMnMz0vMAfGjzOItLL3NjDz9Dbz9Az3ND
Bx9DIMt_UxMjc28DfQLsh0VAba4yro!. Per una immagine riportata sulle monete, si veda
RIC V Diocletian 342, http://numismatics.org/ocre/id/ric.5.dio.342.
11
Eutropio, Compendio di storia romana II.9.27.
12
Timothy David Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, Harvard University
Press, Cambridge (MA) 1982, pp. 51-52.
13
Genathliacus of Maximian Augustus, in Panegyrici Latini XI.6.3 (C.E.V. Nixon, Barbara Saylor
Rodgers, In Praise of Later Roman Emperors: The «Panegyrici Latini», con testo latino di R.A.B.
Mynors, University of California Press, Berkeley 1994, p. 91).
14
Si veda, ad esempio, RIC VI Serdica 34 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.6.serd.34).
15
Lattanzio, La morte dei persecutori IX.
16
Jasna Jeličić-Radonić, Aurelia Prisca, in «Prilozi povijesti umjetnosti u Dalmaciji» [Contributi
alla storia dell’arte in Dalmazia], LI (2008), 1, pp. 5-25 (http://hrcak.srce.hr/109683).
17
Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 40.17; Lattanzio, La morte dei persecutori XI.21.
18
Si vedano: www.basilicasanmarco.it/basilica/scultura/la-decorazione-delle-facciate/la-
facciata-orientale/?lang=en e https://it.wikipedia.org/wiki/Monumento_ai_Tetrarchi
19
Ammiano Marcellino, Storie XIV.11.10; XXII.7.1; Eutropio, Compendio di storia romana
IX.24; Rufio Festo, Breviario di storia romana, a cura di Stefano Costa, testo latino a fronte, La
vita felice, Milano 2016, XXV.
20
British Museum (Londra), B 1147 (The Arras Medallion).
21
Diocletian, Edict of Maximal Prices, cit. in Roger Rees, Diocletian and the Tetrarchy, Edinburgh
University Press, Edinburgh 2004, p. 139.
22
P. Beatty Panop. 1213-1216 (17 settembre 298); Rees, Diocletian and the Tetrarchy cit., II.21,
p. 149.
23
Panegyrici Latini cit. 11(3) (Treviri 21 luglio 291) (I cap. 4.2), 11.1.1; Rees, Diocletian and the
Tetrarchy cit., p. 132.
24
Panegyrici Latini cit. 11(3) (Treviri 21 luglio 291) (I cap. 4.2), 11.11.4; Rees, Diocletian and the
Tetrarchy cit., p. 132.
25
Winston Churchill, The Second World War, Houghton Mifflin, London 1948, vol. I, p. 105.
26
Ad esempio, Marco Tullio Cicerone, Orazione in difesa di Marco Fonteio, 30, in Id., L’orazione
per Aulo Cecina; L’orazione in difesa di Marco Fonteio, a cura di Francesco Casorati, Mondadori,
Milano 1973. Tito Livio, Storia di Roma, vol. I, Mondadori, Milano 1994, I.31.7.
27
Rescritto manicheo. Collazione delle leggi mosaiche e romane, 31 marzo 302(?),
Alessandria, cit. in Rees, Diocletian and the Tetrarchy cit., p. 174.
28
Lattanzio, La morte dei persecutori XI.1-3.
29
Ivi, XII-XIV.
30
Ivi, XV.1.
31
Herbert Musurillo, The Acts of the Christian Martyrs, Clarendon Press, Oxford 1972, pp.
260-265, 266-271 e 302-309.
32
Dragoslav Srejovic, Cedomir Vasic, Imperial Mausolea and Consecration Memorials in Felix
Romuliana (Gamzigrad, East Serbia), Centre for Archaeological Research, Faculty of
Philosophy, The University of Belgrad, Belgrado 1994, pp. 149-151, cit. in Bill Leadbetter,
Galerius, Gamzigrad and the Politics of Abdication, in «ASCS» [The Australasian Society for
Classical Studies], XXXI (2010), pp. 8-9. Si tratta di conclusioni plausibili, almeno sulla
scorta dei ritrovamenti archeologici.
33
Svetonio, Giulio Cesare LXXVII.
Costantino
10
Costantino, il cristiano

Nel cortile dei Musei Capitolini, che paradossalmente si trovano quasi


nel punto esatto in cui un tempo sorgeva il più sacro edificio pagano della
storia della città, oggi è esposto un enorme busto marmoreo di
Costantino, il primo imperatore cristiano di Roma. È impossibile
sottovalutare la portata della sua conversione. Nelle grandi come nelle
piccole cose, quell’evento cambiò la storia del mondo. Gli dette Cristo
come signore di Roma, la domenica come giorno di riposo e Istanbul
come città più popolosa d’Europa, un centro tale da fare ombra alla stessa
Roma. Di fatto, quella conversione è un momento talmente importante
per i successivi millesettecento anni della storia europea che è quasi più
semplice pensare a Costantino come a un uomo del Medioevo – l’Età
della fede – che come a un imperatore romano, successore di Cesare e di
Augusto. Ma il suo busto ci ricorda che tale fu.
È un monumento impressionante, adeguato a un sovrano e ben noto ad
ogni cultore di storia antica1. Un tempo faceva parte di una statua di
spropositata grandezza2. La sola testa è alta tre metri. Ne sopravvivono
poche altre parti, fra le quali un braccio destro muscoloso e con le vene in
rilievo, la mano destra col dito puntato3 e un piede. Ma è il busto a
catturare la nostra attenzione. Costantino vi appare radicalmente diverso
dai suoi predecessori, come avvenne per altro verso con Adriano, che fu
il primo imperatore a portare la barba.
Costantino ha il volto rasato, le fossette sul mento, l’aspetto giovane e
bello, ma anche forte e massiccio. Ha la capigliatura folta, il collo
muscoloso, e guarda verso l’alto, in cerca di ispirazione divina. Tuttavia,
per quanto nuovi siano questi tratti, si richiamano a modelli vecchi di
secoli.
Costantino era un romano dalla testa ai piedi. Uomo d’armi, statista e
costruttore, fu anche spietato e determinato, come del resto la maggior
parte dei grandi imperatori. Fu ambizioso, avido di potere, brillante,
sottile, spirituale e violento. Fu un guerriero, un amministratore, un
genio delle pubbliche relazioni e un visionario. Se ebbe un ego
sviluppato, anche in ciò non vi era niente di nuovo.
Si paragonò ad Augusto, ma Augusto a sua volta si era paragonato a
Romolo, ed entrambi vedevano in Alessandro Magno il loro precursore.
Come Augusto, Costantino abbracciò il cambiamento tentando al
contempo di conservare il meglio della tradizione. Come Augusto,
cominciò utilizzando la violenza e poi passò a metodi sostanzialmente
pacifici e graduali. Remunerò i soldati, ma dedicò attenzione anche alle
donne, e nell’ambito della famiglia fu coerente con un tradizionale
modello imperiale, mantenendo un profondo legame con la madre.
Aspirò a fondare una dinastia, e in ciò ebbe più successo di molti altri.
Costantino era sia romano sia cristiano. Lo vediamo nella descrizione
che dette delle sue realizzazioni combinando il Dio cristiano e la
promessa di salvezza col tradizionale imperialismo di stampo pagano:
«Grazie al sostegno della potenza di tale Dio, muovendo dai confini
dell’Oceano, ho destato via via di seguito salde speranze di salvezza
nell’intera ecumene»4.
Costantino era un uomo di sangue e un uomo di Dio. Anche nel porsi
come priorità la rielaborazione del rapporto fra Roma e le divinità, seguì
dei precedenti. Ma le conseguenze della sua politica si rivelarono
rivoluzionarie.
Fu una delle grandi vicende vincenti della storia. E questa fu forse la
cosa più romana di tutte.

L’ASCESA AL POTERE
Costantino era nato a Naissus (l’odierna Niš, in Serbia), il 27 febbraio del
2735. Nessuno, al momento della sua nascita, avrebbe potuto immaginare
che un figlio di quella capitale di provincia avrebbe un giorno fondato
quella che sarebbe diventata la più importante città al mondo, come per
un lungo periodo Costantinopoli fu, a oltre settecento chilometri dal suo
luogo natio. Né tantomeno che avrebbe dato avvio a un mutamento
epocale in campo religioso e culturale.
All’epoca in cui nacque Costantino, suo padre Costanzo, che proveniva
dal territorio dell’attuale Bulgaria, era un sottufficiale dell’esercito
romano. La madre di Costantino, Elena, era la rispettabile ma umile figlia
del proprietario di un piccolo albergo situato sulla principale arteria
militare della Turchia nord-occidentale. Costanzo la conobbe lì nel 272,
dove si trovava per una campagna militare con l’imperatore Aureliano. Si
innamorarono e si sposarono. Nove mesi dopo, nacque Costantino6.
Costanzo fece rapidamente carriera nell’esercito, e all’epoca in cui
Costantino aveva dieci anni era già diventato governatore provinciale.
Ora disponeva di risorse sufficienti per dare al figlio un’eccellente
educazione, fondata soprattutto sullo studio delle lettere latine ma anche
di quelle greche e della filosofia. Costantino venne istruito anche per
diventare un soldato come suo padre.
Probabilmente, era appena adolescente quando Costanzo divorziò da
Elena per sposare una principessa, la figlia del sovrano dell’impero
d’Occidente, l’Augusto Massimiano. Costanzo rimase vicino al figlio e
lo preparò a un grande e luminoso futuro. E tuttavia, il divorzio costituì
sicuramente un brutto colpo per il giovane. Possiamo solo immaginare il
notevole sforzo che Elena dovette fare per proteggerlo e tirarlo su.
Era una delle figure più importanti nella vita di suo figlio, e lo sarebbe
rimasta nei successivi tre decenni. Come molte madri romane che
l’avevano preceduta, quali Livia, Agrippina e Giulia Domna, Elena svolse
un ruolo importante nella vita adulta di un imperatore.
Più o meno nello stesso periodo in cui suo padre Costanzo, nel 293,
venne nominato Cesare, Costantino venne mandato in Oriente. Ormai
ventenne, militò negli eserciti che invasero la Persia e represse una rivolta
in corso in Egitto. Poi entrò nella corte di Diocleziano a Nicomedia.
Come figlio maggiore del Cesare Costanzo, era destinato un giorno a
succedere al padre.
Naturalmente, fece un buon matrimonio: non molto prima del 300
sposò Minervina, che si ritiene plausibilmente possa essere la nipote di
Diocleziano, e ne ebbe un figlio, Crispo.
Quando nel 303 prese avvio la Grande Persecuzione dei cristiani,
Costantino era ancora presso la corte imperiale di Nicomedia. Come suo
padre, si oppose all’intolleranza nei confronti dei cristiani, ma rimase
tranquillo, senza dubbio per non compromettersi la carriera.
La corte di Diocleziano era una scuola di potere politico. Fra le altre
lezioni che offriva c’era quella secondo cui tutto è possibile per un uomo
che sia sufficientemente ambizioso e dotato di talento. Dopotutto, lo
stesso Diocleziano proveniva da un passato oscuro, ma era arrivato al
potere supremo. Costantino aveva molti più vantaggi in termini sia di
nascita sia di educazione. Ma c’era una importante condizione: niente era
impossibile se un uomo aveva il favore del cielo. E di questo occorreva
tenere conto. Alcuni storici pensano che Costantino abbia avuto l’aiuto
della madre, che potrebbe essersi mossa nelle vicinanze del talentuoso
figlio e aver influenzato la sua concezione della divinità.

L’UOMO DEL DESTINO


Nel 305 Galerio fece saltare i calcoli del giovane Costantino
convincendo Diocleziano a modificare i suoi piani. Quando Diocleziano
e Massimiano lasciarono il potere, Galerio prese l’Oriente e Costanzo
l’Occidente, come da tempo si era previsto. Ma invece di nominare
come Cesari Costantino (figlio di Costanzo) e Massenzio (figlio di
Massimiano), Diocleziano preferì investire del titolo Massimino Daia
(nipote di Galerio) e Flavio Severo (compagno d’armi dello stesso
Galerio). Era un completo mutamento di prospettiva, attivato su richiesta
di Galerio. Nessuno dei respinti accettò senza reagire: erano troppo
ambiziosi.
Costantino lasciò Nicomedia e si diresse verso Occidente per
raggiungere suo padre in Britannia. Come abbiamo già visto, quando
l’anno seguente Costanzo morì in quella regione, Costantino accettò
l’acclamazione delle truppe come successore del padre nella carica di
Augusto dell’Occidente. I soldati tendevano ad approvare il principio
ereditario, e quindi Costantino rappresentò una scelta naturale; inoltre,
prima di morire, lo stesso Costanzo aveva appoggiato il figlio. E,
soprattutto, Costantino si era guadagnato il rispetto degli uomini
partecipando con loro alla campagna militare nella Britannia
settentrionale, oltre il Vallo di Adriano, negli ultimi anni della vita del
padre. Senza dubbio Costantino mise in mostra l’esperienza militare che
aveva acquisito in Europa orientale e nel Vicino Oriente, e poté sfruttare
anche un altro vantaggio: l’appoggio di un re germanico che agiva in
veste di fedele luogotenente militare di Costanzo in Britannia.
Qualche mese dopo, a Roma Massenzio si proclamò successore del
padre. Galerio cercò di fermare sia Costantino sia Massenzio, ma dopo
due fallite campagne militari in Italia fu costretto ad accettarli entrambi,
sebbene solo come Cesari e non come Augusti. E nominò un altro suo
ex commilitone, Licinio, come Augusto e sovrano dell’Occidente.
Nel frattempo Costantino consolidò il proprio potere. Come suo
padre, stabilì la propria capitale ad Augusta Treverorum (l’odierna
Treviri), nel territorio dell’attuale Germania sud-occidentale. Città
fiorente all’inizio dell’impero, Treviri era stata distrutta da tribù
germaniche nel 275, ma Costanzo e Costantino le conferirono una
nuova grandezza. Costantino vi costruì un palazzo, la cui sala delle
udienze si è conservata, perché in seguito fu utilizzata come chiesa.
L’edificio è costituito da un lungo e ampio salone con un’abside sul lato
opposto all’ingresso, dove un tempo era collocato il trono imperiale. La
luce filtra attraverso una doppia fila di grandi finestre tondeggianti.
Originariamente decorato con marmi colorati, l’interno dell’edificio non
era austero come appare oggi. Tuttavia era più semplice delle precedenti
sale di udienza imperiali, poiché era privo di colonne. Nella sua semplice
dignità, fissa un precedente per l’architettura ecclesiastica delle origini.
Da Augusta Treverorum, Costantino governò le province che erano
state del padre – Britannia, Gallia e Hispania – e nel contempo vinse
anche una serie di campagne militari contro gli invasori germanici sulla
frontiera del Reno. Anche se durante la vita di Costantino l’impero
mantenne una strategia difensiva, gli imperatori sconfinarono spesso in
territorio straniero per compiere razzie e saccheggi, dimostrando così alle
popolazioni locali chi era che comandava. Da imperatore, Costantino
condusse personalmente i suoi eserciti, come ogni sovrano romano
vincente. Andava orgoglioso dei titoli che aveva ottenuto grazie alle sue
campagne, come quello di Germanicus Maximus IV, che ricordava come
avesse sconfitto i germanici per quattro volte.
Nel frattempo, all’interno, Costantino promosse la propria posizione
trovando un accordo con i suoi rivali. Rimasto vedovo per la morte di
Minervina, ora fece in modo di sposare Fausta (Flavia Massima Fausta),
sorella di Massenzio. Fausta era di oltre vent’anni più giovane di lui, e a
giudicare dalle monete, abbastanza bella da poter essere considerata una
moglie da esibire orgogliosamente in pubblico da un marito più
attempato, ma servì gli interessi della dinastia partorendo figli.
Massimiano e Massenzio riconobbero a questo punto Costantino come
Augusto, mentre a sua volta lui riconobbe il suo nuovo genero come
Cesare e suo suocero come Senior Augustus. Costantino e Massenzio
proclamarono entrambi la tolleranza religiosa nei territori da loro
controllati che si estendevano dalla Britannia all’Africa del Nord, così
come il reintegro delle proprietà cristiane confiscate all’epoca della
Grande Persecuzione.
Massimiano però entrò in contrasto con Costantino e cercò di
ucciderlo. Nel 310 Costantino, allarmato da quanto era avvenuto,
costrinse Massimiano a togliersi la vita. Possiamo solo immaginare come
dovette sentirsi Fausta.
Nel frattempo, un’altra morte nella cerchia imperiale spostò
ulteriormente gli equilibri di potere: Galerio, infatti, morì di cancro.
Ora c’erano quattro uomini che si spartivano il potere all’interno
dell’impero, ma si fidavano poco l’uno dell’altro. In Oriente Licinio e
Daia erano bloccati da una lotta di potere; in Occidente, Costantino e
Massenzio si squadravano con diffidenza. Nel 312 si determinò una
nuova configurazione di alleanze: Costantino si unì a Licinio contro
Massenzio e Daia, poi passò all’azione, invadendo l’Italia. Costantino era
un guerriero al comando di truppe esperte, e Massenzio, molto più
debole, si preparò a sostenere un assedio al riparo delle possenti mura di
Roma. Non rimaneva che giocarsi il premio più alto: Roma.

PONTE MILVIO
Il Ponte Milvio attraversa il Tevere a nord di Roma. Edificato in origine
nel 206 a.C. e poi ricostruito, il ponte moderno contiene ancora alcune
delle pietre antiche. Fino ai tempi della giovinezza di Nerone era stato un
luogo in cui si andava per qualche scappatella notturna, e anche ai nostri
giorni è un punto di attrazione per le coppie di innamorati. Ma la sua
fama è legata alla battaglia che da esso prende il nome, che si combatté il
28 ottobre del 312, quando Costantino sconfisse Massenzio e conquistò
Roma. Fu lo scontro armato più decisivo della storia dell’impero dai
tempi in cui la vittoria navale di Azio sancì il potere di Augusto, il 2
settembre del 31 a.C.
La battaglia avvenne in realtà non sul ponte, ma a nord di esso, sulla
terraferma. La coincidenza volle che l’esercito di Costantino si schierasse
proprio sotto la collina sulla quale un tempo sorgeva la villa di campagna
di Livia. A quell’epoca, Costantino aveva inanellato una serie di vittorie,
e Massenzio era talmente preoccupato che seppellì le proprie insegne
imperiali sul Palatino, dove gli archeologi le hanno ritrovate nel 2006. Il
reperto più prezioso riemerso in quell’occasione è lo scettro di
Massenzio, l’unico scettro imperiale che sia mai stato ritrovato finora. Gli
scettri imperiali erano spesso costituiti da bastoni di avorio lunghi dai 60
ai 90 centimetri circa, sulla cui sommità erano collocati un globo o
un’aquila. Quello di Massenzio ha un globo blu che rappresenta la terra
ed è sostenuto da un elemento composto da una lega di ottone, del colore
dell’oro.
Per riuscire a tenere Costantino lontano dalla città, Massenzio distrusse
parte del Ponte Milvio per impedirgli il passaggio. Poi cambiò idea e
decise di marciare fuori dalle mura e di scontrarsi col nemico, e quindi
fece allestire un ponte galleggiante. Massenzio guidò le proprie truppe in
battaglia e subì una schiacciante sconfitta. Durante la ritirata caotica delle
sue truppe, cadde dal ponte e annegò nel Tevere con indosso la sua
armatura. Poi il suo corpo sarebbe stato restituito dal fiume.
Massenzio e Costantino erano cognati, ma non esitarono a combattere
l’uno contro l’altro fino alla morte. Né Costantino protestò quando la
testa mozzata del rivale venne portata come trofeo per le strade di Roma,
infilzata su una picca. In seguito, si recò in Africa del Nord con l’intento
di dimostrare ai suoi sostenitori locali che Massenzio era morto. Fu un
altro brutto colpo per Fausta, che si era vista uccidere il padre e il fratello
per ordine del marito.
Ancor più importante della sua conquista di Roma fu il modo con cui
Costantino la gestì. Annunciò al mondo che ora egli era amico della
Chiesa cristiana. Infatti, era lui stesso cristiano.
Come arrivò a questo punto e cosa significava per lui essere cristiano è
il tema di una storia affascinante, e assai discussa fra gli studiosi.
LA CONVERSIONE DI COSTANTINO
Diversi anni prima del 312 Costantino evitò di applicare i decreti che
stabilivano la persecuzione contro i cristiani. In ciò, seguì l’esempio di
suo padre, che non era cristiano. Ma Elena forse lo era. La fonte più
importante di cui disponiamo sulla vita di Costantino presenta le cose
diversamente, e sostiene che fu l’imperatore a convertire sua madre al
cristianesimo7. Tuttavia, gli storici della Chiesa più tardi affermano che
avvenne l’inverso8. Tutti questi autori perseguivano particolari intenti, e
per noi è difficile stabilire dove stia la verità.
Come minimo, è chiaro comunque che il cristianesimo fu qualcosa di
assai importante per Costantino, se voleva convertirvi sua madre; e sua
madre voleva dire molto per lui (emotivamente, oltre che politicamente)
se si preoccupava della sua affiliazione religiosa. Elena proseguì, più
avanti nel regno di Costantino, a svolgere un ruolo cruciale nel processo
di cristianizzazione del mondo romano.
Due anni prima della battaglia di Ponte Milvio, nel 310, Costantino e il
suo esercito ebbero una spettacolare visione nel cielo pomeridiano: un
alone solare, vale a dire un anello intorno al sole. Successe vicino a un
tempio di Apollo in Gallia. Apollo è il dio del Sole, ma il tempio
onorava anche un’altra divinità romana, il Sol Invictus. Si trattava della
divinità prediletta da Costanzo, il padre di Costantino, sebbene avesse
fatto il suo arrivo a Roma solo abbastanza di recente, dopo che durante
una campagna militare in Oriente l’imperatore Aureliano si era visto
vaticinare da un dio del Sole locale la sua vittoria in una battaglia in Siria.
Il giovane Costantino credeva di avere un rapporto speciale col dio del
Sole, e tuttavia era incerto sul da farsi dopo aver visto
quell’impressionante segno nel cielo della Gallia. Consultò vari saggi,
compresi dei vescovi cristiani, i quali gli assicurarono che la visione era
un segno proveniente non dal dio del Sole, bensì da Cristo. I cristiani
associavano già regolarmente Cristo al sole. Nei Vangeli, Gesù descrive
se stesso come «la luce del mondo»9, e l’evangelista Matteo afferma che il
volto di Gesù splendeva come il sole10. I primi cristiani consideravano
Cristo una fonte di illuminazione spirituale.
Ciò che convinse definitivamente Costantino fu un sogno nel quale
Cristo gli mostrava un segno da usare per proteggersi dal nemico.
Costantino appose così quello che è poi diventato un noto simbolo
cristiano sulla sua insegna personale (o sopra di essa): le lettere greche chi e
rho, l’equivalente del latino CHR, che stava per Cristo. L’episodio
avvenne probabilmente quando Costantino era ancora in Gallia e prima
che si spostasse in Italia. Ora fu lui a dichiararsi cristiano. In seguito,
prima della battaglia di Ponte Milvio, fece apporre il simbolo sugli scudi
dei suoi uomini. E ribadì la propria fede cristiana dopo essere entrato a
Roma.
Ma la conversione di Costantino era sincera? Sebbene le parole
«sincerità» e «politico» in genere non vadano molto d’accordo, abbiamo
motivo di pensare di sì. Gli antichi prendevano seriamente i sogni e i
presagi. I precedenti imperatori sicuramente lo avevano fatto, e anche
loro consultavano gli astrologi. Noi occidentali moderni andiamo alla
ricerca del «vero motivo» di un’azione, ma spesso siamo ciechi di fronte
alle motivazioni religiose.
È possibile che Costantino fosse un cinico dall’inizio alla fine, che
decidesse di manipolare la religione al solo fine di ottenere il potere. Ma
nel 312 convertirsi al cristianesimo poteva essere considerata una scelta
intelligente? Solo a una considerazione retrospettiva può sembrare di sì.
Non era però affatto scontato che la maggioranza pagana dell’impero
avrebbe tollerato un imperatore cristiano. Solo un uomo capace di
assumersi grandi rischi – un uomo convinto che Dio lo avesse
personalmente scelto per compiere una missione – si sarebbe comportato
come Costantino. Già nel 314, l’imperatore affermò che era stato Dio
stesso ad affidargli la direzione delle vicende umane, data la sua capacità
nel gestirle; e sarebbe ritornato sul tema della propria missione negli anni
successivi11.
Dopo la conversione Costantino continuò per anni a comportarsi da
vari punti di vista come un pagano. Ad esempio, dovette elaborare il
problema del rapporto fra il suo nuovo dio, Cristo, e la sua vecchia
divinità, il Sol Invictus. All’inizio non vedeva ragioni per non doverli
venerare entrambi. Per anni, le sue monete continuarono a recare
l’immagine del dio Sole, spesso accompagnata dalla scritta: SOLI
INVICTO COMITI (Al compagno Sole Invitto)12.
Ma era a capo di un impero in cui la grande maggioranza della
popolazione era di religione pagana, e ciò valeva soprattutto per i
militari, fra i quali i cristiani erano una netta minoranza. Durante la
Grande Persecuzione, singoli cristiani morirono martirizzati per
difendere i loro principi. Ma quando si trattò di coinvolgere una più
ampia porzione della popolazione pagana, poteva tornare comodo
sfumare la distinzione fra le vecchie divinità e il nuovo Dio.
Per una dozzina d’anni dopo la battaglia di Ponte Milvio, Costantino si
trovò a contrastare Licinio, che era a capo della parte orientale
dell’impero, un pericoloso rivale che tollerava il cristianesimo senza
abbracciarlo personalmente. Il pagano Licinio poté così usare la religione
più diffusa contro Costantino. Il quale, una volta sconfitto, nel 324, il
suo rivale ed essendo divenuto l’unico imperatore, poté essere più
flessibile, ma dovette pur sempre far fronte a formidabili minacce al
cristianesimo. I sovrani che non si curano della matematica non
sopravvivono, ma Costantino era sempre stato uno studente zelante.
Anche dopo il 312, commise delitti e provocò spargimenti di sangue
che avrebbero fatto arrossire perfino un pagano. Ma una conversione non
rende perfetti. Senza dubbio, Costantino diffuse il Vangelo e rese la
Chiesa splendida e più sicura. Senza dubbio, ciò ne fece un cristiano.

LA CRISTIANIZZAZIONE DELLA CITTÀ DI ROMA


Quando Costantino fece il suo ingresso a Roma, alla fine di ottobre del
312, quella era la prima volta che vi si recava. Aveva quasi quarant’anni,
era un consumato veterano di guerra, e aveva governato gran parte
dell’impero occidentale ancor prima di far visita alla Città Eterna. Che
avesse potuto raggiungere tali livelli senza averla mai vista la dice lunga sul
declino dello status di quella città.
Costantino rimase a Roma solo due mesi, abbastanza a lungo da
conquistare l’élite pagana della città e distribuire favori alla sua comunità
cristiana. Massenzio era un avido costruttore, e Costantino riprese e
portò a conclusione i suoi progetti, fra i quali l’erezione di una enorme
basilica da destinare alla pubblica amministrazione e ad attività
commerciali. Oggi pensiamo alle basiliche come a delle chiese, ma in
origine erano semplicemente degli edifici pubblici.
Costantino distrusse le basi del potere militare del regime sconfitto
abolendo le unità di cavalleria scelte e alla fine sciogliendo la guardia
pretoriana – o quel che ne rimaneva, poiché il corpo aveva subito pesanti
perdite al Ponte Milvio. La guardia era nata con Augusto, ma
Diocleziano ne aveva ridotto il ruolo, e ora Costantino poneva fine alla
sua lunga esistenza. Fermiamoci un momento per considerare quale era
stato l’impatto dei pretoriani sulla storia romana, dal potere del prefetto
del pretorio Seiano alla parte che essi avevano svolto nella scelta di
Claudio e di Nerone come imperatori, all’omicidio di Pertinace e alla
vendita del trono imperiale al miglior offerente.
Costantino sostituì i pretoriani con altre unità scelte, col compito di
proteggere l’imperatore. Creò nuovi reggimenti scelti di cavalleria – una
forza di 2.500 uomini alla fine del suo regno – che lo accompagnassero e
scongiurassero problemi di ordine pubblico. Fra questi, 40 furono
assegnati alla guardia del sovrano. Venivano chiamati «candidati» per le
tuniche bianche che indossavano, così come secoli prima, ai tempi della
repubblica romana, gli aspiranti alle cariche pubbliche (candidates)
indossavano delle toghe bianche.
Costantino cominciò immediatamente il processo mirante a fare di
Roma una città più cristiana, ma ispirandosi alla cautela e alla diplomazia.
Se si eccettua il fatto che fece installare una croce nella sua nuova basilica
– misura impopolare fra i romani della vecchia guardia –, destinò tutti i
progetti di edifici cristiani fuori del centro cittadino. Inserì invece una
serie di nuove chiese ai margini della città e su proprietà imperiali. La più
grande di esse, San Giovanni in Laterano, esiste ancora oggi. Fu la prima
grande chiesa cristiana. Prima di Costantino, in genere i cristiani si
riunivano in semplici strutture, spesso in case private. Sebbene le fonti
parlino di alcune chiese vere e proprie, non sappiamo niente della loro
comparsa. Di qualunque forma esse fossero, è certo che Costantino
costruì qualcosa di più spazioso.
Il Laterano era un grande edificio che misurava un centinaio di metri
dall’ingresso fino al termine dell’abside originaria. Come tutte le chiese
romane di Costantino, la sua magnificenza si esauriva all’interno, mentre
fuori era semplice e modesto, quasi a non voler offendere la vista.
Nonostante i successivi rimaneggiamenti che nel tempo ha subìto, un
visitatore odierno può ancora riconoscere la sua pesante struttura a
cinque navate, tipica dei tardi edifici pubblici romani. La basilica
assomigliava all’edificio destinato agli uffici governativi. Osservando
questa somiglianza architettonica, un visitatore dei tempi di Costantino
poteva ricavarne il chiaro messaggio che ora la Chiesa e lo Stato erano
collegati. Emerge poi un altro aspetto particolare: Costantino costruì la
nuova chiesa sul sito dei quartieri demoliti che un tempo ospitavano i
comandi delle truppe scelte di cavalleria di Massenzio. Anche in questo
caso, il messaggio era inequivocabile: era sorto un nuovo giorno.
Vicino alla basilica del Laterano si trovava una ricca casa privata, di
proprietà di Costantino. Il quale la offrì al papa Milziade, che ne fece la
residenza ufficiale dei papi nei secoli a venire. Il papa era vescovo di
Roma, e aveva già a quel tempo rivendicato uno status speciale quale
successore di Pietro e Paolo. Costantino mostrò rispetto per Milziade e
per il suo successore Silvestro I, ma non esitò a esercitare la propria
suprema autorità sulla Chiesa. I papi dei tempi di Costantino furono
importanti, ma i loro poteri non erano affatto paragonabili a quelli dei
loro successori più tardi.
Costantino si impegnò anche nella costruzione di santuari dedicati a
santi e martiri, e collocati nei sobborghi cittadini. Il più noto è la chiesa
di San Pietro, che sorse sul tradizionale luogo della tomba di Pietro, nella
zona del Vaticano, a ovest del Tevere. Rimase in piedi per oltre un
millennio, ma alla fine cadde in rovina. Fra il 1506 e il 1626 al posto della
chiesa costantiniana venne costruita la magnifica basilica rinascimentale
che oggi vediamo.
All’inizio Costantino operò più come un amico della Chiesa che come
il suo supremo sovrano. I suoi progetti destinati alla costruzione di edifici
cristiani furono essenzialmente atti privati di carità e non atti politici
dello Stato. Il volto ufficiale di Costantino a Roma era, di fatto,
inoffensivo per i pagani.
Il miglior esempio ufficiale di ciò lo vediamo in quello che è il più
famoso monumento costantiniano della capitale, almeno per i turisti
odierni: l’arco trionfale che porta il nome di Costantino e si erge a fianco
del Colosseo. Fu costruito dal Senato per commemorare la vittoria di
Ponte Milvio risalente a tre anni prima. Non conteneva niente che si
richiamasse apertamente al cristianesimo. Di fatto, il visitatore dell’epoca
vedeva un simbolo pagano – una colossale statua del dio Sole, l’originale
protettore di Costantino – apparire in lontananza attraverso l’arco centrale
del monumento.
Il monumento comprendeva una serie di rilievi scolpiti. Alcuni di essi,
commissionati appositamente, illustravano le vittorie ottenute da
Costantino in Italia, il suo ingresso a Roma e la sua distribuzione di
denaro al popolo romano. Altri, invece, erano stati presi da monumenti
imperiali più antichi. Quelli dei tempi di Traiano, Adriano e Marco
Aurelio mostrano scene di guerra, caccia e sacrifici pagani, e anche
Antinoo fa una piccola comparsa. La presenza di opere d’arte del passato
inserisce Costantino nel solco della tradizione imperiale romana, anche
se ciò può indicare che l’arco fu costruito a tappe forzate, costringendo
così i suoi artefici a riutilizzare opere precedenti.
Solo la dedica contenuta nell’iscrizione si presta a un’interpretazione in
senso cristiano – ma allo stesso tempo può essere letta anche in un’ottica
pagana. Vi si afferma che il Senato e il popolo romano dedicano l’arco
all’imperatore Costantino e ai suoi trionfi in quanto egli è mosso da
grandezza di spirito e «ispirazione divina»13. Quest’ultimo termine
poteva riferirsi a Giove o al Sol Invictus, come a Gesù Cristo. Sia questa
iscrizione sia le due più brevi fanno riferimento a Costantino come a un
liberatore dalla tirannia e al fondatore della pace, e si tratta in entrambi i
casi di tradizionali designazioni romane.

LA CONQUISTA DELL’ORIENTE
Nel 313 Costantino tenne un vertice con Licinio a Mediolanum, nel
quale i due Augusti si accordarono sulla divisione dell’impero.
Costantino siglò l’accordo con Licinio secondo il tradizionale sistema
romano, concedendogli cioè in sposa la sua sorellastra Costanza (Flavia
Giulia Costanza). Ma l’incontro è più noto per il celebre Editto di
Milano. La denominazione è fuorviante, perché non si trattava né di un
editto né fu emanato da Milano; era semmai una lettera inviata
successivamente da Licinio dalla sua base in Oriente.
Fu certamente un atto importante, ma non quanto talvolta gli storici
affermano. L’impero occidentale godeva già della libertà religiosa e aveva
già visto la restituzione delle proprietà confiscate ai cristiani durante la
Grande Persecuzione. Prima della sua morte, avvenuta nel 311, il
persecutore Galerio cedette e ripristinò la tolleranza. Solo Daia
continuava a perseguitare i cristiani nella parte orientale dell’impero, che
fu prevalentemente sotto il suo controllo fino al 313. A questo punto,
Licinio propose di estendere la politica di tolleranza anche al regno di
Daia.
Presto fu in grado di dare seguito al suo intento, poiché sconfisse Daia
in battaglia e assunse il controllo dell’Oriente. Daia si suicidò. Ora al
governo dell’impero c’erano solo due uomini, non più quattro, ma per
Costantino e Licinio non era abbastanza. Erano entrambi troppo
ambiziosi e troppo sospettosi l’uno dell’altro, e fra il 316 e il 324 si
combatterono in una serie di guerre civili. Durante una di quelle
battaglie Costantino, che come sempre guidava personalmente le truppe
al fronte, rimase ferito.
Nonostante dovesse anche pensare ai combattimenti in corso sulle
frontiere del Reno e del Danubio e rimediare a un errore tattico,
Costantino sconfisse Licinio ad Adrianopoli. Poi suo figlio Crispo
sconfisse la flotta di Licinio nell’Ellesponto, lo stretto all’ingresso del mar
Egeo che segnava il confine fra Europa e Asia. Lo scontro finale avvenne
il 18 settembre 324 a Crisopoli (l’odierna Üsküdar, in Turchia), in quello
che oggi è il settore asiatico di Istanbul. Il contrasto religioso era netto: da
una parte Licinio esponeva immagini degli dèi pagani, dall’altra
Costantino impugnava una bandiera militare recante il suo simbolo
cristiano. Costantino si sentì abbastanza sicuro da lanciare un attacco
frontale, e ottenne successo su tutta la linea. Licinio, dopo aver subito
gravi perdite, batté in ritirata con le truppe che gli restavano.
Costanza agì in questo frangente da intermediaria fra il marito sconfitto
e il proprio fratellastro. Si giunse così ad un accordo, secondo il quale
Licinio e suo figlio Liciniano avrebbero perso il potere avendo, però,
salva la vita. Vennero inviati in esilio nei loro ex territori. Costanza fu
riaccolta nella casa di Costantino e sarebbe divenuta una potenza a corte.
Non fu l’unica donna formidabile della famiglia di Costantino. La
moglie dell’imperatore, Fausta, ricevette il titolo di Augusta nel 324,
assieme alla madre di Costantino, Elena. La presenza accanto
all’imperatore di due donne così potenti rese inevitabili le rivalità, e il
rischio che insorgessero conflitti fu costante.
Nelle immagini presenti sulle monete Elena è una donna bella e
dignitosa14. Indossa un diadema, simbolo della regalità, e una modesta
mantella. Anche Fausta nei ritratti sulle monete rivela padronanza di sé e
un nobile portamento. A volte è raffigurata con un grazioso profilo da
statua classica greca. Ha una pettinatura elaborata e in alcuni casi porta
anche lei un diadema15.
Sul retro delle monete ognuna delle due donne appare a figura intera. Le
monete di Elena mostrano una figura femminile che tiene in mano un
ramo di olivo abbassato, e recano la scritta «sicurezza». In quelle di Fausta
si vede una donna con due bambini e la scritta «speranza», con un
riferimento alla maternità dell’Augusta.

VERSO UN IMPERO CRISTIANO


Dopo la sconfitta di Licinio, Costantino divenne più apertamente
cristiano. Nel 326, quando visitò Roma per celebrare il ventesimo
anniversario della sua elevazione a imperatore, per la prima volta si rifiutò
di offrire un sacrificio a Giove, suscitando proteste.
L’imperatore si sentiva investito di una missione. Credeva che Dio lo
avesse scelto per convertire l’impero al cristianesimo. In un discorso
pronunciato davanti a un uditorio cristiano, nel 325, disse:
Abbiamo impiegato tutta la nostra capacità nell’infondere a coloro che non sono iniziati in tali
insegnamenti buona speranza, avendo chiesto a Dio di assisterci nello sforzo. Poiché per noi non è
meschino volgere le menti dei nostri sudditi alla pietà se accade siano buoni, oppure, quando siano
malvagi e insensibili, condurli all’opposto, rendendoli utili invece che degli inetti16.

La religione romana dipendeva sempre dal sostegno del governo.


Costantino tolse sussidi ai pagani e li concesse alla Chiesa cristiana, che
ne trasse enorme beneficio.
Costantino aveva promesso la tolleranza in Occidente prima del 324,
ma ora aveva via libera in Oriente. Sebbene acconsentisse a conservare i
templi pagani orientali, ne confiscò le ricchezze, dall’oro al bronzo.
Proibì anche i sacrifici, tanto da rendere di fatto i templi dei gusci vuoti.
Uno degli scopi della concessione dei fondi consisteva nel costruire
chiese, e infatti ne sorsero molte grazie alla munificenza di Costantino.
Un autore pagano vi vide uno spreco di denaro pubblico, ma i cristiani
sicuramente la pensavano in modo diverso17. Un altro scopo era quello di
fare la carità ai poveri. Gli imperatori romani li avevano aiutati anche in
precedenza, ma non nella misura in cui lo facevano ora che sul trono c’era
un sovrano cristiano. Ciò avrebbe segnato una svolta definitiva nel
governo di Roma.
L’imperatore elevò anche lo status dei vescovi. Come tutto il clero
cristiano, questi furono esentati da obblighi dispendiosi in termini di
tempo e denaro, che invece altri ricchi romani avevano verso il governo.
I vescovi godevano di alcuni altri privilegi, e in particolare il diritto di
essere giudicati dai propri pari, che nessun altro romano aveva.
Operavano come agenti per la distribuzione dei fondi imperiali alle loro
chiese e ai poveri, e avevano anche il potere di sovrintendere, nell’ambito
della Chiesa, alla liberazione degli schiavi da parte dei loro padroni. Nel
complesso diventarono, quindi, molto importanti.
Sotto Costantino furono introdotti vari altri cambiamenti riguardanti i
cristiani. Fu abolita la punibilità del celibato, poiché i cristiani,
diversamente dai pagani, lo consideravano una virtù. La crocifissione,
che era stata inflitta a Gesù come a molti altri, venne abolita come forma
di condanna capitale. Il divorzio venne reso più difficile, anche se non
abolito, probabilmente per l’influenza del Nuovo Testamento e della sua
opposizione a questa pratica.
Come gli ebrei, i cristiani riconoscevano un giorno di riposo o Shabbat.
Gli ebrei lo celebravano il sabato (o per meglio dire, durante le ore che
andavano dal tramonto del venerdì al calar della notte del sabato). I primi
cristiani praticavano due costumi diversi: alcuni celebravano lo Shabbat
ebraico, altri scelsero la domenica, il giorno nel quale Gesù era risorto.
Nel frattempo, i pagani riconobbero la domenica come giorno sacro al
sole, sebbene non come giorno di riposo. Costantino decretò che la
domenica, «il venerabile giorno del sole», fosse un giorno di riposo per
tutte le attività cittadine (mentre invece in quel giorno gli agricoltori
potevano dedicarsi alle loro colture)18. Ci volle il tempo di un’altra
generazione, o due, perché la regola di Costantino venisse adottata
universalmente fra i cristiani.
La protezione di Costantino elevò la Chiesa, ma anche la trasformò. Il
movimento che era stato più estraneo al sistema era ora al governo. Gesù
aveva detto di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di
Dio19. Costantino era un uomo di Dio, ma era anche Cesare, e insisté nel
voler avere l’ultima parola su come e per cosa gli uomini fossero debitori
a Dio. Potrebbe aver agito per le migliori ragioni, in base alla
convinzione che un sovrano devoto ha il compito di promuovere la vera
religione. Ma agì, e i cristiani dovettero decidere come rispondere.
Costantino divenne il sovrano della Chiesa cristiana, o per essere più
precisi, delle Chiese cristiane. Il cristianesimo come Costantino lo
conobbe era una religione diversificata al suo interno, un complesso di
esperienze che ospitavano notevoli varianti regionali e diversità di scelte
dottrinali. Dopo circa vent’anni di aspre guerre e di scontri politici,
Costantino era infine riuscito a unire tutti i romani sotto il governo di un
solo uomo. Insisté inoltre nel tentare di unificare anche tutti i cristiani,
ma non si trattava di un compito facile.
Mentre ancora governava solo l’Occidente, intervenne in occasione di
uno scisma in atto nella Chiesa del Nord Africa, che si era divisa sulla
questione del grado di perdono da concedere ai cristiani che avevano
accettato di scendere a compromessi per salvarsi durante la Grande
Persecuzione. Essendosi schierato con la Chiesa, Costantino operò
perché i cristiani mostrassero un fronte compatto nei confronti dei loro
oppositori. Nel 314 scrisse al funzionario romano che aveva la
responsabilità del Nord Africa, descrivendolo come un «fratello fedele
dell’Altissimo Dio», e dichiarò il proprio scopo di realizzare l’unità
cristiana20. Ma anni di trattative, corruzione, esili e perfino esecuzioni
non riuscirono a ricongiungere le due fazioni della Chiesa africana.
Nel 325 Costantino s’impegnò a fondo in una ancor più vasta
controversia che affliggeva la Chiesa orientale. La questione fondamentale
in questo caso era in che modo Cristo fosse Dio. La maggior parte dei
cristiani credeva che Gesù avesse una natura allo stesso tempo umana e
divina, un mistero che solo la fede poteva spiegare. Gli ariani, che
prendevano il nome dal loro capo Ario, un cristiano egiziano, credevano
che Dio Padre avesse creato suo figlio Gesù, il quale era superiore agli
altri esseri umani ma non uguale a Dio stesso. Costantino tentò di portare
le due parti a un accordo convocando a Nicea il primo concilio
ecumenico. Fu il primo concilio ecumenico (cioè di tutte le terre,
secondo la parola greca oikouméne). Vi presero parte duecentocinquanta
vescovi, e a presiederlo fu l’imperatore in persona. Fra quei vescovi c’era
Eusebio di Cesarea, della Siria Palestina, uno dei maggiori scrittori e
pensatori cristiani. Egli costituisce la nostra più importante fonte coeva
su Costantino.
La posta in gioco a Nicea era alta, e il disaccordo coinvolse anche i
vertici della corte. Al concilio la fazione filo-ariana fu consigliata da
Costanza. In seguito, fin sul punto di morte, essa continuò a fare
pressioni sul fratello a favore degli ariani. Ma non ottenne quello che
voleva.
Il concilio trovò un accordo su una dichiarazione che riaffermava la
tradizionale credenza secondo la quale Gesù aveva una natura sia umana
sia divina. Con alcune modifiche, quella affermazione viene ancora oggi
recitata dai cristiani come il Credo di Nicea. Sebbene ciò ponesse la
Chiesa sostenuta dallo Stato in una posizione contraria agli ariani, il
cristianesimo ariano sopravvisse per secoli.
Costantino voleva imporre un cristianesimo ortodosso ufficiale e
opporsi ad altre credenze, che vennero classificate come eresie. Ma
«eresia» deriva dal greco haìresis, che significa «scelta», e il cristianesimo
aveva una lunga tradizione di libertà e di decentramento. E dimostrò di
saper resistere al controllo del potere centrale.
E comunque, ora che il cristianesimo era diventato la religione ufficiale
dell’impero, l’immagine di Gesù nell’arte cristiana cominciò a
modificarsi. In precedenza, gli artisti lo dipingevano come una persona
normale, impegnata, ad esempio, a guarire i malati. Solitamente lo
mostravano nelle vesti di un semplice pastore, con riferimento al fatto
che Gesù si era presentato come un buon pastore21. Ora la figura di Gesù
cominciò ad essere ritratta seduta su un trono, come l’imperatore, vestito
con una raffinata toga e attorniato dai suoi discepoli uomini, che hanno
l’aspetto di senatori, e da donne che sembrano esponenti della nobiltà
romana. Era un Cristo imperiale per una religione imperiale. Certo, il
cristianesimo non era ancora la religione ufficiale dello Stato, e non lo
sarebbe stata fino al 395. Il paganesimo era ancora praticato. Tuttavia, con
i suoi generosi finanziamenti e il patronato imperiale, Costantino avviò la
Chiesa sulla strada del successo.

IL DOLORE E LA GLORIA
Per conquistare Roma, Costantino aveva ucciso suo cognato. Per
aggiungere l’Oriente alle proprie conquiste, commise altri delitti. Dopo
aver promesso a Costanza che avrebbe risparmiato suo marito Licinio e
suo figlio, ritornò sulla sua decisione, accusando i due uomini di aver
cospirato contro di lui e facendoli giustiziare. Licinio venne ucciso per
primo, nel 325, suo figlio un anno dopo.
Ma per la famiglia di Costantino era solo l’inizio di una serie di
disgrazie. Nel 326 l’imperatore sottopose a processo suo figlio maggiore,
Crispo. Il giovane fu giudicato colpevole e condannato a morte mediante
avvelenamento. Era uno sviluppo sconvolgente, se si considerano lo
status di Crispo e i successi che aveva ottenuto combattendo contro le
tribù germaniche in Occidente e contro Licinio in Oriente. Ma
improvvisamente, a ventisei anni circa, la sua vicenda si concluse. Il suo
nome venne espunto da tutti i registri e documenti ufficiali.
I motivi che determinarono l’esecuzione di Crispo sono molto discussi,
ma la spiegazione più probabile è che Fausta lo avesse accusato di aver
avuto rapporti sessuali con lei22. Per età, era più vicina al suo figliastro che
a Costantino. Quel che Fausta diceva era vero, oppure, come un
personaggio del mito greco, fece delle avances a Crispo e poi lo accusò
falsamente una volta vistasi respinta? Occorre poi considerare un altro
fattore: Costantino le aveva ucciso il padre e il fratello, e non ci sarebbe
da stupirsi se Fausta avesse agito animata dal risentimento nei suoi
confronti. Ma siamo nel campo delle ipotesi.
In seguito, Costantino arrivò alla conclusione che in realtà Crispo fosse
innocente e che Fausta avesse mentito. Fu sua madre Elena a convincerlo
di ciò, e quindi del fatto che Crispo fosse stato ucciso ingiustamente.
Temendo una vendetta, Fausta si suicidò in un bagno bollente.
Figlia di un imperatore (Massimiano), sorella di un altro (Massenzio) e
moglie di un terzo (Costantino), investita essa stessa del titolo di Augusta,
Fausta aveva passato la maggior parte della propria esistenza nei palazzi
imperiali. Non si sarebbe mai aspettata una fine così sordida. Lasciò
dietro di sé cinque figli piccoli e una reputazione rovinata. Come
Crispo, Fausta venne bandita dai documenti ufficiali. Nel frattempo, la
famiglia imperiale andò in disgrazia.

LA TERRASANTA
L’anno seguente, Costantino mandò Elena in pellegrinaggio in Siria
Palestina. La decisione fu dovuta in parte a motivi di pietà, in parte a
esigenze di pubbliche relazioni, perché occorreva riparare il danno
subito dalla famiglia imperiale a causa degli eventi avvenuti l’anno
precedente.
Nel periodo trascorso in Siria Palestina, Elena individuò le principali
località in cui aveva vissuto Gesù, soprattutto a Gerusalemme. Era in
missione ufficiale e poteva disporre di fondi governativi illimitati, che
utilizzò per costruire nuove chiese e abbellire quelle esistenti, e
soccorrere i poveri. Fondò chiese di pregevole fattura a Betlemme e sul
monte degli Ulivi a Gerusalemme.
Sempre a Gerusalemme, Costantino finanziò l’edificio della chiesa del
Santo Sepolcro nel luogo in cui era avvenuta la resurrezione di Cristo.
Una parte di quell’edificio, in gran parte riadattata, esiste ancora oggi. In
origine, era vicina a una magnifica basilica, non più esistente.
Dopo aver distrutto Gerusalemme come rappresaglia per la rivolta
giudaica, i romani l’avevano ricostruita sotto Adriano, ma ne fecero una
città dall’impronta pagana, non ebraica; Aelia Capitolina, non
Gerusalemme. Ora la ricostruirono come Gerusalemme, ma ancora una
volta, non come una città ebraica, bensì cristiana.
Costantino impose alla Siria Palestina la nuova denominazione di
Terrasanta cristiana. Una provincia un tempo sperduta diventò il centro
dei pellegrinaggi cristiani, con conseguenze storiche di lungo periodo.
Da una parte, secoli dopo, portò allo scontro fra cristiani e musulmani,
nell’ambito delle crociate. Dall’altra, incise negativamente sul diritto degli
ebrei a vivere nella loro terra storica. E, com’è noto, la questione
dell’appartenenza di quei territori è ancora oggi al centro di conflitti e
divisioni.
Costantino non era amico degli ebrei. Ma secondo gli standard romani
dell’epoca, non era neppure il peggiore dei loro nemici: non distrusse il
tempio come fecero Vespasiano e Tito, né inondò di sangue la Giudea
come aveva fatto Adriano. E neppure distrusse la vita comunitaria
ebraica, che continuò a fiorire sia nella terra di Israele sia nelle zone della
diaspora. Tentò, però, di rendere l’ebraismo inferiore al cristianesimo.
Non fu il primo imperatore a offendere gli ebrei, ma il fatto che li
definisse «uccisori del Signore» si rivelò particolarmente dannoso23.
Decretò che fosse loro proibito accettare come correligionari cristiani
convertiti, e dichiarò illegale impedire loro di convertirsi al
cristianesimo. Tuttavia, fece involontariamente un favore agli ebrei
concedendo che i loro schiavi venissero liberati qualora si convertissero al
cristianesimo, affrancando in tal modo almeno in parte la comunità
ebraica da quello che noi consideriamo uno stigma morale – la schiavitù,
appunto.
Quando un eminente studioso rabbinico abbracciò la fede cristiana,
Costantino gli conferì un rango elevato e i finanziamenti necessari per
costruire le prime chiese in Galilea, un’area caratterizzata dalla presenza
di città dai tratti spiccatamente ebraici. Decenni dopo, da uno di quei
centri sarebbe partita una rivolta giudaica contro Roma.

COSTANTINOPOLI
Come Diocleziano, Costantino riconobbe il fatto che l’impero era ormai
troppo vasto e complesso per essere governato da una qualsiasi singola
città, e che c’era l’esigenza di una capitale in Oriente, oltre che di una in
Occidente. E Costantino non governò da Roma. Per gran parte del suo
regno, resse l’impero o da Augusta Treverorum, in Occidente, o da
Sirmium e da Serdica (l’odierna Sofia, in Bulgaria), in Oriente. Dopo
aver piegato Licinio, volle istituire una nuova capitale negli ex territori
del nemico sconfitto. Nicomedia, da dove Diocleziano e Galerio
avevano governato l’Oriente, non sembrava più adatta, poiché era stata il
centro della Grande Persecuzione. In Oriente Costantino voleva una
nuova capitale cristiana per un impero cristiano. Inoltre, individuò un
luogo che offriva vantaggi sia strategici sia in termini di propaganda.
Poche città possono vantare una collocazione migliore di
Costantinopoli, ma l’imperatore fu il primo a sfruttarne pienamente il
potenziale. Non è un’esagerazione dire che rifondando Bisanzio, come si
chiamava allora, come Costantinopoli, egli abbia creato una delle città
più importanti, e senz’altro più vivaci, della storia.
Il sito sul quale sorgeva attirò la sua attenzione mentre era impegnato
nella battaglia per la conquista dell’Oriente, quando Licinio utilizzò
Bisanzio come propria base fortificata. Bisanzio era una città greca
fondata nel VII secolo a.C. che ebbe i suoi alti e bassi nel corso del
tempo, come quando recentemente era stata distrutta da Settimio Severo
per punirla dell’appoggio che aveva dato al suo nemico, quindi
ricostruita probabilmente da Licinio. Costantino ricostruì nuovamente la
città, imponendole il nome di Costantinopoli. È possibile che la
chiamasse anche Nuova Roma, ma questa denominazione potrebbe
risalire a cinquant’anni dopo lo stesso imperatore. Non lo sappiamo.
Costantinopoli è situata su una penisola dell’estremità meridionale del
Bosforo, lo stretto che si estende fra il mar Eusino e la Propontide e da lì
prosegue verso l’Ellesponto, il mar Egeo e il Mediterraneo. Su una
sponda del Bosforo c’è l’Europa, sull’altra l’Asia. Il Bosforo era, e resta
ancora oggi, uno dei più strategici specchi d’acqua del mondo.
Costantinopoli è posta sul versante europeo del Bosforo. La penisola è
circondata dal mare su tre lati, ed è accessibile via terra solo da un lato,
per cui è facilmente difendibile. Costantino dotò la città di nuove mura,
estendendone l’area per circa tre chilometri verso ovest. Ne risultò
un’ampia e ben protetta fortezza situata nel punto in cui i due continenti
si incontrano. La città è vicina al Danubio ed equidistante da due altre
frontiere romane, quella del Reno in Occidente e quella dell’Eufrate in
Oriente.
Costantinopoli rappresentò anche un monumento alla vittoria, perché
sorse presso il luogo in cui Costantino vinse la battaglia finale contro
Licinio, sull’opposta sponda asiatica. Costruendo la città nelle vicinanze
della propria vittoria su un concittadino romano, l’imperatore seguiva le
orme di Augusto. Questi infatti a suo tempo aveva edificato una città
sulla sponda opposta alla località in cui aveva sconfitto Antonio, Azio, e
l’aveva chiamata Nicopolis, vale a dire Città della vittoria. Ma l’analogia
finisce qui. Né Augusto né alcun altro imperatore infatti avevano mai
costruito una città di dimensioni pari a Costantinopoli.
La nuova città fu inaugurata l’11 maggio del 330. L’imperatore costruì
su grande scala. Costantino poté disporre di un nuovo palazzo, di un
circo per le corse equestri, di un foro circondato da portici, di un Senato
e di una serie di chiese. Nel centro del foro si ergeva un’alta colonna di
porfido, parte della quale si è conservata. In cima ad essa era collocata una
statua raffigurante Costantino nudo con in testa una corona da cui si
dipartono dei raggi. La si poteva interpretare come un simbolo cristiano
o come un simbolo del dio Sole, o in entrambi i modi. Sebbene fosse
cristiano, un politico come Costantino era capace di una calcolata
ambiguità, pur di estendere il proprio fascino.
LA RIORGANIZZAZIONE DEL GOVERNO
Costantino riorganizzò le istituzioni governative romane, rendendole più
specializzate e flessibili ma anche, soprattutto, più assoggettabili alla sua
volontà, a partire da quelle militari. Non c’era bisogno che qualcuno gli
ricordasse il consiglio di Severo di pagare bene i soldati. Come avevano
fatto gli altri imperatori da Gallieno in poi, Costantino separò le carriere
militari da quelle civili. Liberatosi dei vincoli derivanti dalla prassi di
nominare senatori ai posti di comando dell’esercito, aumentò il numero
degli ufficiali non romani, di uomini quindi che i romani stessi
consideravano barbari. Un re germanico, nientedimeno, fu investito ad
esempio del comando delle truppe a Eboracum quando morì il padre di
Costantino. Sebbene i soldati fossero per la maggior parte romani, un
discreto numero di stranieri varcò le frontiere per entrare nell’esercito
romano, nel quale vedevano una buona fonte di sussistenza. C’erano
mori, armeni e persiani, ma soprattutto germani.
Costantino rafforzò la separazione, già avviata sotto Diocleziano, fra
l’esercito da campo e le truppe di frontiera. Il primo gruppo era più
addestrato, meglio retribuito e restava in servizio per un periodo minore
dell’altro. L’esercito da campo operava sotto il diretto comando
dell’imperatore. Garantiva mobilità, consentendo all’imperatore di
spostare rapidamente i reparti ovunque ve ne fosse bisogno.
Costantino riempì il palazzo di personale amministrativo e istituì una
serie di potenti funzionari direttamente responsabili verso di lui. Erano
elementi nuovi e specializzati, posti alla guida di nuovi uffici. Esisteva
perfino un nuovo corpo, composto da legionari, addetto al trasporto di
messaggi riservati fra le istituzioni centrali e le province. Tutta questa
opera di consolidamento e di accentramento rese il governo più efficiente
ma non più onesto. Quella pletora di burocrati si attendeva di ricevere
«mance», per usare un eufemismo. Di fatto, più crebbero le dimensioni
dell’apparato amministrativo, più la corruzione diventò un problema.
Costantino comprese che lo scambio di regali e favori in cambio di
servizi era una parte non trascurabile dell’attività di governo. Così, per
poter stringere legami con persone potenti nelle province, creò nuovi
titoli e onori, perfino, come si è ricordato, un nuovo Senato per
Costantinopoli. Mostrò anche grande generosità nei confronti di singoli
individui e di intere città. Era un atteggiamento utile dal punto di vista
politico, ma non per il Tesoro. La conseguenza fu che le tasse
aumentarono.
Quel che invece andò a favore del Tesoro fu la nuova moneta d’oro
battuta da Costantino: il solidus, che rimpiazzò una vecchia moneta d’oro
svalutatasi per l’inflazione. Monete di buona qualità continuarono ad
essere coniate anche dai suoi successori. Di fatto, la moneta era destinata a
diventare talmente affidabile e pregiata che qualcuno l’ha definita «il
dollaro del Medioevo»24. Ma le monete di bronzo e di argento
continuarono a perdere valore.

CHIESA E MOSCHEA
Elena morì a Costantinopoli intorno al 328, non molto dopo il suo
ritorno dalla Terrasanta. Suo figlio fu con lei negli ultimi momenti. Inviò
il suo corpo a Roma, dove Elena aveva vissuto fino al 312. Il corpo fu
deposto in un elaborato sarcofago dentro un mausoleo sormontato da una
cupola, posto presso una chiesa consacrata ai martiri fuori città. Il
sarcofago è esposto ancora oggi presso i Musei Vaticani, visitati ogni
anno da milioni di turisti. Le rovine del mausoleo si trovano, invece,
all’interno di un parco ai margini di Roma, ma sono poco pubblicizzate
e attirano solo pochi visitatori.
I restanti anni di Costantino furono relativamente pacifici. Col
riprendere del fermento lungo la frontiera orientale, tuttavia, l’imperatore
programmò una nuova campagna militare contro la Persia. Sarebbe stato
lui stesso a guidarla. Poco dopo essere partito da Costantinopoli, però, si
ammalò e dovette fermarsi nei pressi di Nicomedia. Con l’approssimarsi
della fine, venne battezzato. All’epoca era una prassi comune posticipare
il battesimo a poco prima della morte, per ridurre al minimo il rischio di
peccare dopo averlo ricevuto. Costantino morì il 22 maggio 337.
Dei figli che aveva avuto da Fausta, ne rimanevano in vita tre. Negli
ultimi anni aveva nominato ognuno di essi Cesare, e così aveva fatto col
nipote, dando ad ognuno di loro responsabilità di governo in una parte
dell’impero. Li tenne tutti e quattro sotto stretto controllo, ma sperava
che al momento della successione avrebbero proceduto di comune
accordo gestendo in modo congiunto il governo dell’impero. Il nipote di
Costantino e suo padre, che era il fratellastro di Costantino, furono
entrambi uccisi immediatamente dopo la morte dell’imperatore.
I tre figli si divisero l’impero, ma l’accordo non durò a lungo. Uno dei
fratelli, rivendicando per sé una quota maggiore di territorio, attaccò le
terre di un altro, ma perse la battaglia e con essa la vita. Un secondo subì
un colpo di Stato e venne ucciso. L’unico dei tre rimasto in vita,
Costanzo II, regnò per ventiquattro anni dopo la morte del padre, dal
337 al 361. Dovette tuttavia combattere una ferocissima guerra civile
contro l’uomo che aveva usurpato il potere del fratello. E non fu più
tranquillo neppure dopo aver nominato Cesari due dei suoi cugini:
dovette giustiziarne uno per disobbedienza e fu sul punto di marciare
contro l’altro che aveva suscitato una ribellione, ma il piano non fu
attuato. Costanzo II morì, infatti, di morte naturale prima di poter
passare all’azione, e fu il cugino ribelle a prendere il suo posto.
Seguendo la consuetudine di molti imperatori, Costantino aveva
progettato la sua sepoltura molto tempo prima di morire. Come
Diocleziano e Galerio, voltò la schiena a Roma, scegliendo una località
collinare nella zona occidentale di Costantinopoli, un posto da cui si
vedeva il mare. Là sarebbero stati deposti i suoi resti, in un edificio che
era allo stesso tempo un mausoleo e una chiesa: la chiesa dei SS. Apostoli,
che oltre al sarcofago di Costantino conteneva i memoriali dei dodici
apostoli di Gesù. Vi furono portati, oltre ai resti degli apostoli, anche
quelli di altri padri della Chiesa, nonché reliquie provenienti dalla
Terrasanta. Nell’edificio fu collocato anche un altare, in modo che
l’anima di Costantino potesse beneficiare del culto che venerava gli
apostoli.
Era una costruzione magnifica: alta, coronata da una cupola e decorata
con marmi, bronzo e oro. Sebbene non esista più, da quanto ne
sappiamo era adeguata a un re. Più di un millennio dopo Costantino, nel
1453, i turchi ottomani occuparono Costantinopoli. A quell’epoca, la
chiesa dei SS. Apostoli era già in rovina. Il nuovo sovrano ottomano della
città, il sultano Maometto II il Conquistatore, ordinò che la parte residua
dell’edificio fosse demolita e che al suo posto venisse eretta una moschea.
Ne derivò una splendida struttura, la moschea del Conquistatore (Fatih
Camii), progettata dal più importante architetto dell’epoca. Danneggiata
da una serie di terremoti, fu ricostruita diversi secoli dopo secondo un
progetto diverso, ed esiste tutt’oggi. Fuori della moschea si trova la
tomba di Maometto II, colui che sottopose Costantinopoli al governo
musulmano. Associando la propria persona al luogo in cui riposava
Costantino, Maometto II rafforzò la propria pretesa di essere Kayser-i-
Rum, vale a dire Cesare di Roma. Segno anche questo di quanto potente
fosse la reputazione dell’uomo che aveva trasformato l’impero romano
dandogli una nuova immagine.

L’EREDITÀ
Se un altro uomo fosse emerso da una posizione minore e avesse
sconfitto dei potenti rivali per poi conquistare l’impero, riformare
l’esercito, riorganizzare l’amministrazione e creare una dinastia, dando
prova al contempo di una notevole energia nel combattere in battaglie che
si svolsero dalla Britannia settentrionale alla Renania, da Roma al
Danubio, dall’Ellesponto all’Eufrate, lo considereremmo una grande
figura. Eppure Costantino ha una statura storica così gigantesca da far
apparire tutte queste imprese che realizzò minori. A caratterizzarne
l’immagine sono, invece, il cristianesimo e Costantinopoli. Come altri
imperatori, egli lasciò molti monumenti, ma nessuno di essi supera la
città a cui dette il suo nome. Né fu l’unico imperatore a intervenire in
campo religioso, ma neppure Augusto aveva introdotto mutamenti
altrettanto fatidici.
I cristiani ortodossi riconoscono Costantino come un santo. Elena è
una santa non solo per loro ma anche per i cattolici romani e gli anglicani.
Se Costantino fu il padre del cristianesimo come religione romana, lei di
quella religione fu la madre.
Il trionfo del cristianesimo fu una delle svolte più rilevanti della storia.
La religione nata dalla predicazione di un santo giustiziato in un angolo
dell’impero diventò la religione favorita dallo Stato romano, e dalla fine
del IV secolo la sua religione ufficiale.
La Chiesa cristiana era già una forza possente nella società romana
quando Diocleziano le scatenò contro lo Stato, e la sua capacità di
sopravvivere alla Grande Persecuzione non fece che rafforzarla. Era
necessario trovare un modo per riconciliare lo Stato romano con quello
che era, in un certo senso, uno Stato nello Stato. E il modo fu
Costantino.
Dai tempi di Augusto, nessun altro imperatore come Costantino era
stato così sorprendentemente allo stesso tempo interno ed esterno al
sistema prima della sua ascesa al potere. Sia Augusto sia Costantino
trovarono alleati cruciali in uomini che erano la loro stessa immagine:
uomini che avevano potere e influenza, ma non appartenenti alla cerchia
più ristretta del potere. Per Augusto, furono gli equites italici e l’élite
senatoriale sopravvissuta, per Costantino furono i vescovi, i burocrati e
perfino i re delle popolazioni barbariche. Entrambi corteggiarono le
élites provinciali, e naturalmente l’esercito.
La storia offre pochi esempi di uomini capaci di comprendere il potere
meglio di Costantino. La sua enorme ambizione fu eguagliata solo dalla
sua genialità nel presentare sé stesso. Non c’è da dubitare della sincerità
della sua spiritualità, ma essa fu accompagnata dal gusto per la violenza e
dalla brama di potere.
Costantino fu uno degli statisti più creativi e originali della storia.
Trasformò il cristianesimo da una religione minoritaria alla forza
culturale dominante del mondo occidentale. Fondò una delle più grandi
città della storia, e spostò l’equilibrio strategico del mondo romano.
La trasformazione del cristianesimo da vittima della Grande
Persecuzione a religione imperiale ci appare vertiginosa, se non
miracolosa. Tuttavia, segue uno schema consueto per Roma. Comunque
fossero, gli imperatori erano pragmatici. A partire da Augusto,
sopravvissero abbracciando il cambiamento e, nello stesso tempo,
mantenendo quanto potevano del passato. A volte il cambiamento fu di
portata relativamente minore, come la rinnovata importanza attribuita
all’Oriente greco sotto Adriano; altre volte fu radicale, come la
distruzione delle libere istituzioni repubblicane sotto Cesare e Augusto,
e la loro sostituzione con la monarchia. Spesso, il mutamento fu violento,
e si trascinò dietro guerre civili, confische di proprietà ed esecuzioni.
Viste retrospettivamente, la Grande Persecuzione e le guerre civili di
Costantino possono essere paragonate con le proscrizioni attuate sotto
Augusto e con le guerre civili che lui stesso combatté. In entrambi i casi,
i conservatori soffrirono e resistettero, talvolta con la violenza. Tuttavia,
in entrambi i casi l’impero si trasformò e sopravvisse. Una grande
differenza fra i due casi, comunque, riguarda la geografia.
Come molti altri suoi predecessori, Costantino guardò ad Oriente. Era
stato l’Oriente a permettere ad Augusto la sua più ricca conquista,
l’Egitto, ma Augusto mantenne le sue radici in Occidente. Era stato
l’Oriente a proiettare Vespasiano sul trono – a Roma. Da lì provennero
l’ideale di Adriano, la filosofia di Marco Aurelio e la moglie di Settimio
Severo, ma tutti quegli uomini si concentrarono sulla Città Eterna. Poi,
Diocleziano fece dell’Oriente la sua base. Costantino andò oltre: spostò
l’asse dell’impero a Est, sia con una nuova capitale sia con la nuova
capitale spirituale del cristianesimo, a sua volta radicata in Oriente.
All’epoca della morte di Costantino, nessuno avrebbe potuto accorgersi
che egli aveva aperto la via all’eclissi di Roma. Senza averne l’intenzione,
creò le condizioni per un impero romano senza Roma, senza l’Italia, e
perfino senza la maggior parte dell’Europa. Egli gettò le fondamenta di
tre grandi imperi orientali: il califfato islamico, la Russia e l’impero
romano d’Oriente, o, come è più conosciuto oggi, l’impero bizantino.
Allo stesso tempo, indebolì involontariamente i sostegni che tenevano
in piedi la parte occidentale dell’impero. Nelle tre generazioni successive
a Costantino, nessun uomo governò l’intero impero per più di quindici
anni. Infine nel 395, sessant’anni dopo la sua morte, l’impero venne
ufficialmente diviso in due metà, quella orientale e quella occidentale.
Non sarebbe più accaduto che un imperatore governasse dalla Britannia
all’Iraq settentrionale.
L’Occidente romano era sempre stato più povero dell’Oriente romano.
Ora diventò anche meno potente. Nel V secolo Roma venne messa al
sacco due volte. Costantinopoli, nel frattempo, era così ben fortificata
che nessun avversario poté conquistarla per nove secoli dopo che
Costantino l’aveva fondata.
Forse con una guida migliore e un più saggio uso delle risorse, l’impero
occidentale avrebbe potuto sopravvivere. Ma 139 anni dopo la morte di
Costantino, l’impero romano d’Occidente cessò di esistere. Gli invasori
avevano già conquistato la maggior parte delle sue province, e poi
costrinsero l’imperatore ad abdicare. Il giovane Romolo Augustolo
cedette il potere alla città italiana che era stata nel corso di tre generazioni
la capitale dell’Occidente romano, Ravenna, il 4 settembre 476.
Fu una triste fine per la saga dell’Occidente romano, ma non per
l’impero romano. I pragmatici romani si erano semplicemente spostati ad
Est. I successori di Augusto continuarono a regnare, ma non da Roma.
Nel 476 la grandezza di Costantinopoli era appena cominciata.

 
1
Musei Capitolini (Roma), inv. MC0757.
2
Anticamente, la statua era collocata nella basilica di Massenzio, all’estremità del Foro
romano.
3
Della mano esistono due versioni.
4
Il brano è tratto da una lettera di Costantino a Sapore II, della dinastia sasanide: Eusebio, Vita
di Costantino IV.9. Cfr. Eusebius, Life of Constantine, introduzione, traduzione e commento di
Averil Cameron e Stuart George Hall, Clarendon Press, Oxford 1999, p. 193
5
Timothy David Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, Harvard University
Press, Boston 1982, pp. 36 e 39-42.
6
Secondo la ricostruzione contenuta ivi, pp. 36-37 e 39-42. È possibile, ma meno probabile,
che i due in realtà non si fossero sposati, il che farebbe di Costantino un figlio illegittimo.
7
Eusebio, Vita di Costantino III.47.2; si tratta di un testo compilato poco dopo la morte
dell’imperatore, nel 337. Timothy David Barnes, Constantine: Dynasty, Religion and Power in
the Later Roman Empire, Wiley-Blackwell, Chichester 2011, pp. 44-45, sostiene che
l’affermazione di Eusebio è dovuta solamente al suo atteggiamento adulatorio nei confronti
dell’imperatore.
8
Si veda ad esempio Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica, introduzione, traduzione e note di
Antonino Gallico, Città Nuova, Roma 2000, I.18. Cfr. Eusebius, Life of Constantine cit., p.
395.
9
Vangelo di Giovanni VIII.12.
10
Vangelo di Matteo XVII.2.
11
Letter of Constantine to Ablavius (or Aelafius), in Mark Edwards (ed.), Optatus: Against the
Donatists, Liverpool University Press, Liverpool 1997, pp. 183-184.
12
Si veda, ad esempio, RIC VII Treveri 135 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.7.tri.135).
13
Corpus Inscriptionum Latinarum, VI.1139 (instinctu divinitatis).
14
Si veda, ad esempio, RIC VII Treveri 481 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.7.tri.481).
15
Si veda, ad esempio, RIC VII Treveri 484 (http://numismatics.org/ocre/id/ric.7.tri.484).
16
Costantino, Discorso all’Assemblea dei Santi (Oratio ad Sanctorum Coetum) 11.1, trad. inglese in
Barnes, Constantine cit., p. 119.
17
Zosimo, Storia nuova, introduzione, traduzione e note di Fabrizio Conca, Rizzoli, Milano
2007, II.32.
18
Codex Theodosianus, recognovit Paul Krueger, apud Weidmannos, Berolini 1923, II.8.1.
19
Vangelo di Matteo XXII.21.
20
Letter of Constantine to Ablavius cit., pp. 183-184.
21
Vangelo di Giovanni X.11.
22
Zosimo, Storia nuova cit., II.29.2; Pseudo-Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus 42.11-12;
Barnes, Constantine cit., pp. 144-150.
23
Eusebio, Vita di Costantino IV.27.1; cfr. ivi, III.18.2; Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica cit.,
I.9.
24
Robert Sabatino Lopez, The Dollar of the Middle Ages, in «The Journal of Economic History»,
XI (1951), 3, pp. 209-234.
Epilogo
I fantasmi di Ravenna

Ravenna è a pochi chilometri dalla costa dell’Adriatico. Per secoli, fu un


porto di mare, ma col tempo il bacino in cui si trovava si interrò ed ora è
collegata al mare da un canale. Oggi è un posto tranquillo, spesso
trascurato rispetto a due suoi famosi vicini, Venezia e Rimini. Tuttavia,
molto tempo fa Ravenna offriva una serie di raffinate attrazioni, in
particolare una affascinante serie di mosaici. Queste immagini
richiamano tempi andati, quando l’impero romano cadde in Occidente
ed emerse in Oriente. Più di qualsiasi altro luogo, Ravenna evoca il
crepuscolo della Roma imperiale.
Oggi chi visita la città si trova di fronte a una serie di fantasmi. Il primo
è il palazzo imperiale che una volta dominava la città. Negli anni
successivi a Costantino la funzione di capitale dell’impero romano
d’Occidente era svolta di consueto da Mediolanum, piuttosto che da
Roma o da Augusta Trevororum. Ma nel corso del IV secolo, l’impero
perse la capacità di difendere l’Italia dagli attacchi esterni. Dopo che una
tribù germanica strinse d’assedio Mediolanum, fu evidente che la città,
nella pianura dell’Italia settentrionale, era troppo esposta per continuare a
svolgere le funzioni di capitale. Ravenna era più sicura: era protetta da un
anello di paludi, che fino a tempi relativamente recenti sono stati terreni
di coltura della malaria. A quell’epoca aveva anche un buon porto, che
permetteva di rifornirsi via mare – o di avere una via di fuga. Augusto
aveva compreso i vantaggi strategici della città e ne fece il porto dell’Italia
orientale in cui stazionava la flotta imperiale romana.
Nel V secolo, Ravenna diventò così la capitale dell’impero romano
d’Occidente. Gli imperatori che da lì governarono l’impero furono una
dozzina, e occupavano un palazzo grandioso. Almeno pensiamo che lo
fosse, ma non possiamo esserne certi perché non ne è rimasta traccia.
L’ultimo degli imperatori che vi esercitarono il potere viveva lì. Si
chiamava Romolo Augusto, e salì al potere nel 475. Portava due nomi
famosi, quello del leggendario fondatore di Roma e suo primo re,
Romolo, e quello del suo primo imperatore Augusto, ma la loro
altisonanza non faceva che nascondere la reale debolezza del personaggio.
Il suo soprannome, Augustolo, è più vicino al vero. Quando salì al trono
aveva solo quindici anni. Ad esercitare realmente il potere era suo padre,
un generale. Aveva conquistato Ravenna e deposto il precedente
imperatore, ma per qualche ragione preferì mettere al potere suo figlio
invece che assumerlo in prima persona. Romolo Augustolo governava
un impero che si era ormai ridotto all’Italia e alla Gallia meridionale. Era
privo di legittimazione, poiché l’imperatore romano d’Oriente non
riconosceva il suo governo.
Il vero potere in Italia era nelle mani di Flavio Odoacre. Era il capo di
una tribù straniera – forse germanica, ma la circostanza è incerta – che
aveva guidato i mercenari germanici dell’Italia. Come molti precedenti
soldati romani, quei mercenari volevano avere terre in proprietà. Il padre
di Romolo Augustolo oppose loro un diniego, e ciò scatenò la rivolta. I
mercenari uccisero sia il padre sia lo zio dell’imperatore, poi presero
Ravenna.
Il giovane Romolo Augustolo venne risparmiato, ma fu costretto a
lasciare il palazzo. Gli concessero una generosa pensione e lo esiliarono in
una villa sulla costa affacciata sul Golfo di Napoli. Assieme a lui partirono
anche i suoi parenti, fra i quali forse anche sua madre. Odoacre venne
proclamato re d’Italia. Nel frattempo, a Roma, il Senato – che esisteva
ancora – prese i simboli del potere imperiale, compreso il diadema e il
mantello, e li inviò all’imperatore a Costantinopoli, a significare che
l’imperatore d’Occidente non esisteva più.
La data dell’abdicazione di Romolo Augustolo, il 4 settembre 476,
arrivò a poco più di cinquecento anni da quando a Roma Ottaviano era
stato proclamato Augusto e 139 anni dopo la morte di Costantino.
L’impero romano d’Occidente cessò di esistere, sebbene Odoacre e gli
altri sovrani germanici che vennero dopo di lui si considerassero degni
successori al titolo imperiale. Sostennero, ad esempio, l’arte e la
letteratura romane dell’Italia, come avevano fatto i precedenti imperatori,
e continuarono a finanziare splendidi mosaici e monumenti a Ravenna.
Ma ora erano i germanici a governare l’impero occidentale. I cittadini
romani di quelle regioni mantennero incarichi governativi di grande
rilievo, ma nessuno di loro sarebbe stato nuovamente imperatore.
Scrivendo circa un secolo dopo, un autore descrisse Romolo
Augustolo come l’ultimo sovrano dell’«Impero occidentale di razza
romana», rilevando che «da allora in poi i re dei Goti, un popolo
germanico, tennero Roma e l’Italia»1. Un imperatore occidentale rivale,
Giulio Nepote, proclamò il proprio potere ancora nel 480, ma non
dall’Italia: viveva in esilio in Dalmazia, dove il padre di Romolo
Augustolo lo aveva costretto a fuggire nel 475. Finì ucciso.
Come si poté arrivare a questo punto? Per quale motivo gli uomini «di
razza romana» smisero di regnare in Occidente? Basti dire che, una dopo
l’altra, le province dell’impero occidentale caddero nelle mani di vari
invasori non romani. Vale la pena di ricordare alcune date notevoli: nel
410 i romani si erano ormai ritirati dalla Britannia, nel 418 insediarono i
goti, un popolo germanico, nella Gallia sud-occidentale, e nel 435
concessero gran parte dell’Africa del Nord ai vandali, anche loro invasori
germanici.
Poi, vi furono gli attacchi che terrorizzarono i romani senza privare
l’impero dei suoi territori. Negli anni Quaranta e Cinquanta del V secolo
Attila e gli unni, un popolo nomade mongolico composto da feroci
cavalieri, invasero i Balcani, la Gallia e l’Italia. Sebbene saccheggiassero
diverse città ed estorcessero oro, non conquistarono nessun territorio
romano. Nel frattempo, i barbari misero al sacco la stessa Roma nel 410 e
poi, ancora una volta, nel 455.
Conquistando le vitali province romane produttrici di cereali del Nord
Africa, i vandali tagliarono le linee dei rifornimenti alimentari all’Italia.
Solo l’impero romano d’Oriente, la cui capitale era Costantinopoli,
disponeva di risorse sufficienti per reclutare una spedizione militare e
tentare di riaprirle. Tuttavia, quando la flotta dell’impero d’Oriente cercò
di sbarcare sulle coste dell’odierna Tunisia, i vandali la distrussero
sferrando un attacco notturno con un’imbarcazione incendiaria. La
battaglia di Capo Bon, nel 468, segnò il destino dell’impero romano in
Occidente.
Molto tempo fa Edward Gibbon suggerì che il cristianesimo aveva
svolto un ruolo rilevante nella caduta di Roma, poiché fiaccò lo spirito
guerriero del suo popolo2. È un’affermazione senza senso. La metà
orientale dell’impero romano fu più appassionatamente cristiana
dell’Occidente, ma nel 476 non cadde. Rimase anzi un impero per altri
centocinquant’anni, finché gli islamici non ne conquistarono la maggior
parte. In seguito, sopravvisse come una potenza regionale per altri
ottocento anni, per scomparire infine nel 1453, quasi un millennio dopo
la caduta dell’Occidente. E non si può certo dire che il cristianesimo
abbia impedito agli Stati europei di combattersi reciprocamente e di
conquistare gran parte del mondo nel corso di quasi due millenni.
L’impero romano d’Occidente cadde per il malgoverno, oltre che per le
insufficienti forze militari schierate, le divisioni interne, la forza messa in
campo dai nemici, gli svantaggi derivanti dalla geografia e il declino delle
risorse. L’impero avrebbe avuto altri grandi capi prima della caduta
dell’Occidente, ma nella maggior parte dei casi operarono in Oriente.
I soldi, il potere e il talento si spostarono a Est. La grande capitale
Costantinopoli non aveva una sua equivalente in Occidente, dove
neppure vi erano fortezze che le si potessero paragonare.
Costantino fortificò adeguatamente la sua nuova capitale, sia sulla
terraferma sia sul mare. Nel corso di un secolo la città si espanse ben al di
là delle sue mura. Così, all’inizio del V secolo i romani costruirono una
nuova cinta muraria ancora più solida circa un chilometro e mezzo più ad
ovest, raddoppiando in tal modo la superficie urbana. Il potente
complesso murario – composto da mura interne ed esterne protette da un
fossato – si allungava per circa cinque chilometri e mezzo, ed era
collegato alle muraglie collocate nelle acque prospicienti che
proteggevano la città dagli attacchi provenienti dal mare.
Mentre Roma si riprendeva dai saccheggi subiti, Costantinopoli si
sviluppò ulteriormente. E questo ci porta, invertendo la rotta, alla
seconda serie dei fantasmi di Ravenna. Li troviamo, all’inizio, proprio a
Costantinopoli, che raggiunse uno dei suoi vertici durante il regno di
Giustiniano (527-565) e di Teodora (527-548), l’imperatore e
l’imperatrice. Queste due figure dominarono la storia della prima fase
dell’impero bizantino così come lo conosciamo oggi (ironicamente, il
termine «bizantino» entrò nell’uso solo dopo la caduta dell’impero
d’Oriente).
Nel solco della tradizione di Augusto e Costantino, Giustiniano fu un
grande conquistatore, legislatore, amministratore e costruttore, che
sovrintese a un’era di straordinario fervore letterario e artistico. In
Oriente, salvaguardò il potere bizantino da una forte offensiva persiana.
In Occidente, i suoi generali conquistarono l’Italia e parte del Nord
Africa. Fu però incapace di arrestare gli attacchi nei Balcani e di impedire
l’insediamento degli slavi e dei bulgari nel territorio bizantino.
Come legislatore, Giustiniano fu uno dei più influenti in assoluto nella
storia. Finanziò un’opera di codificazione del diritto romano che portò
alla promulgazione del Codice di Giustiniano, una magistrale opera di
consultazione che ebbe un’influenza enorme sulla tradizione giuridica
occidentale. Come amministratore, promosse il buongoverno, attaccò la
corruzione e sostenne il commercio.
Nel campo dell’edilizia, Giustiniano finanziò un grandioso programma
di lavori pubblici, comprendenti ponti, forti, acquedotti, orfanotrofi e
perfino intere città. Il suo progetto più famoso fu la basilica di Santa
Sofia, a Costantinopoli, che esiste ancora oggi, ed è stata trasformata in
un museo. Come Nerone e Adriano, Giustiniano costruì una struttura a
cupola, che resta il suo capolavoro architettonico. Riccamente decorata
all’interno da mosaici, fu per un millennio la più grande cattedrale del
mondo. Quando la vide per la prima volta, l’imperatore rimase talmente
colpito dalla magnificenza dell’edificio che esclamò: «Salomone, ti ho
superato!», riferendosi al re ebraico che aveva costruito il primo tempio
di Gerusalemme3.
Alla guida della Chiesa cristiana ortodossa, Giustiniano attuò un giro di
vite ai danni di eretici, pagani, ebrei e samaritani (i quali seguivano una
diversa versione del giudaismo rispetto alla tradizione rabbinica osservata
dalla maggioranza degli ebrei). Espulse gli insegnanti pagani
dall’Accademia platonica di Atene e allontanò molti cristiani, che in
Egitto e in Siria seguivano una teologia non ortodossa. Proibì una parte
essenziale del giudaismo, vale a dire le interpretazioni rabbiniche della
Bibbia. Molti dei divieti giustinianei non furono rispettati, ma
suscitarono comunque sommosse e rivolte.
Teodora proveniva da umili ambienti, e aveva lavorato come attrice, una
professione poco rispettabile. Ma era astuta e brillante, oltre che bella, e
conquistò l’amore di Giustiniano, che la sposò e la nominò Augusta.
Teodora ebbe una grande influenza sul suo regime. È ricordata per aver
incoraggiato Giustiniano in occasione di alcune rivolte a Costantinopoli
che stavano quasi per spodestarlo.
«La porpora regia è il più nobile sudario», gli disse per superare la sua
esitazione ad affrontare il nemico e a combattere4. Poco dopo, uno dei
suoi generali sconfisse i rivoltosi. Teodora viene ricordata anche per aver
sostenuto una legislazione concepita per aiutare le donne a sottrarsi alla
prostituzione forzata e per concedere loro diritti più ampi in relazione al
divorzio e alle proprietà personali.
Dopo Giustiniano e Teodora ci sarebbero stati molti grandi imperatori
e imperatrici bizantini, ma in un certo senso essi rappresentarono una
sorta di fioritura finale per Roma in quanto furono gli ultimi grandi
sovrani dell’impero d’Oriente a parlare latino. In seguito, il greco
divenne la lingua dei sovrani e del loro governo, così come lo era del
Mediterraneo orientale. Tuttavia, essi continuarono a chiamarsi romani.
E così facevano anche gli abitanti di Ravenna. Anche loro facevano
parte dell’impero di Giustiniano. Il suo più grande generale conquistò
Ravenna sottraendola al popolo germanico che se ne era impossessato in
precedenza. Rivendicò l’Italia all’impero romano, sebbene la penisola
non fosse stata governata da Costantinopoli fin dal 395. Ora però i
bizantini erano in Italia, e vi sarebbero rimasti per duecento anni, con
Ravenna come loro sede. La città avrebbe vissuto un lungo rinascimento
culturale, ma il suo momento emblematico lo visse all’inizio. Poco dopo
la conquista bizantina, nella chiesa cittadina di San Vitale venne eseguita
una favolosa serie di mosaici. Dei pannelli gemelli posti ai lati dell’abside
raffiguravano Giustiniano e Teodora. I due sovrani appaiono con la testa
cinta da un’aureola su uno scintillante sfondo dorato, attorniati da uno
splendido gruppo di signori e signore, dal clero e da soldati armati, come
se assieme al loro corteggio fossero fisicamente nella chiesa. Queste
splendide immagini sono i ritratti iconici dei due sovrani, e occupano un
posto d’onore nell’arte medievale.
Ma cosa stanno facendo i monarchi dell’Oriente romano a Ravenna?
Né Giustiniano né Teodora misero mai piede in una città che è per
sempre associata ai loro nomi. Governavano da Costantinopoli. Come il
perduto palazzo imperiale di Ravenna, anche loro sono dei fantasmi.
E tuttavia, qualcosa della presenza dell’imperatore romano a Ravenna
rimane. È il nome della regione in cui la città si trova: Romagna, «la terra
dei romani». Il termine fu in uso dapprima nel V secolo, poi di nuovo
quando l’area fu sotto il governo di Bisanzio. È comprensibile che la
gente fosse fiera della connessione con quell’impero. Sotto Giustiniano,
l’impero romano era una delle più grandi potenze al mondo, e
Costantinopoli era una delle più grandi città. Tuttavia, quando Augusto
creò l’impero romano, non avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe
stato nella piccola Ravenna, una città portuale lontana da Roma, che si
sarebbero scorti i riflessi delle ultime luci del suo lungo giorno. Se ha
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1
Iordanes, Getica cit., XLVI.243.
2
Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 3 voll., a cura di
David Womersley, Penguin, Harmondsworth 1994, vol. III, cap. LXXI.II, pp. 1068-1070
(trad. it. di Giuseppe Frizzi, Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, con un saggio di
Arnaldo Momigliano, Einaudi, Torino 1967).
3
Narratio de Aedificatione Templi S. Sophiae 27, in Theodor Preger (a cura di), Scriptores Originum
Constantinopolitanarum, in aedibus Teubneri, Lipsiae 1901, p. 105.
4
Procopio di Cesarea, La guerra persiana I.24.37, in Id., Le guerre: persiana, vandalica, gotica, a cura
di Marcello Craveri, introduzione di Filippo Maria Pontani, Einaudi, Torino 1977.
Nota sulle fonti

La bibliografia sugli imperatori romani è vastissima. Ci si limita qui a segnalare i volumi più
accessibili in lingua inglese che possono costituire un punto di partenza per ulteriori letture.

TESTI A CARATTERE GENERALE


E OPERE DI CONSULTAZIONE
Cancik, Hubert et al. (eds.), Brill’s New Pauly: Encyclopaedia of the Ancient World, Brill, Leiden
2002.
Hornblower, Simon; Spawforth, Anthony; Eidinow, Esther (eds.), The Oxford Classical Dictionary,
Oxford University Press, Oxford 20124.
OCRE, Online Coins of the Roman Empire
(http://numismatics.org/ocre/).
Orbis, The Stanford Geospatial Network of the Ancient World
(http://orbis.stanford.edu).
Talbert, Richard J.A. (ed.), Barrington Atlas of the Greek and Roman World, Princeton University
Press, Princeton (NJ) 2000.

FONTI ANTICHE
Molte fonti antiche sono disponibili in rete sia in lingua originale sia in traduzione inglese. Tra i siti
web, si consigliano: Lacus Curtius: Into the Roman World
(http://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/Roman/home.html); Perseus Digital Library
(www.perseus.tus.edu); Livius.org, Articles on Ancient History (www.livius.org), nel quale si
possono consultare sia i testi originali sia voci enciclopediche.
La maggior parte delle fonti antiche a cui si fa riferimento in questo volume è disponibile in
lingua originale e in traduzione inglese nella collana della Loeb Classical Library (Harvard
University Press). Oltre a questi volumi, si segnalano qui di seguito alcune edizioni in inglese di
importanti fonti.
Birley, Anthony, Lives of the Later Caesars: The First Part of the Augustan History, with Newly
Compiled Lives of Nerva and Trajan, Penguin, Harmondsworth 1976.
Cocceianus, Cassius Dio, The Roman History: The Reign of Augustus, trad. di Ian Scott-Kilvert,
Penguin, Harmondsworth 1987.
Josephus, The Jewish War, a cura di Martin Goodman, trad. di Martin Hammond, Oxford
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Pliny the Younger, Complete Letters, trad. di P.G. Walsh, Oxford University Press, Oxford 2009.
Suetonius, Lives of the Caesars, trad. di Catherine Edwards, Oxford University Press, Oxford 2000.
Tacitus, The Annals, trad. di A.J. Woodman, Hackett, Indianapolis 2004.
Id., The Histories, a cura di Rhiannon Ash, trad. di Kenneth Wellesley, Penguin, London 2009.

NOTA BIBLIOGRAFICA ALL’EDIZIONE ITALIANA


[N.D.T.]
Si indicano qui di seguito le edizioni italiane (o, in mancanza di traduzioni moderne, in lingua
originale) delle principali opere antiche alle quali si è fatto riferimento nelle note, in forma
abbreviata, per i rinvii e le citazioni testuali nella presente traduzione italiana.
Ammiano Marcellino, Storie: Ammiano Marcellino, Le storie, a cura di Mario Selem, UTET,
Torino.
Appiano, Guerre civili: Appiano, La storia romana, Libri XIII-XVII, Le guerre civili, a cura di Emilio
Gabba e Domenico Magnino, UTET, Torino 2001.
Augusto, Index Rerum Gestarum: Cesare Augusto Imperatore, Gli atti compiuti e i frammenti delle
opere, a cura di Luciano De Biasi e Anna Maria Ferrero, UTET, Torino 2003.
Aulo Gellio, Le notti attiche: Aulo Gellio, Le notti attiche, introduzione, testo latino, traduzione e
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Aurelio Vittore, De Caesaribus: Aurelius Victor, De Caesaribus: Sexti Aureli Victoris, Liber de
Caesaribus. Praecedunt Origo gentis Romanae et Liber de uiris ilustribus urbis Romae, subsequitur
Epitome de Caesaribus, recensuit Fr. Pichlmayr, editio stereotypa correctior editionis primae,
addenda et corrigenda iterum collegit et adiecit R. Gruendel, Teubner, Leipzig 1970, pp. 77-
129.
Cassio Dione, Storia romana: Cassio Dione, Storia romana, testo greco a fronte (curatori vari), 9
voll., Rizzoli, Milano 1995-2018.
Erodiano, Storia dell’Impero romano: Erodiano, Storia dell’Impero romano dopo Marco Aurelio, a cura di
Filippo Cassola, prefazione di Luciano Canfora, Einaudi, Torino 2017.
Eusebio, Vita di Costantino: Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, introduzione, traduzione e note
di Laura Franco, testo greco a fronte, Rizzoli, Milano 2009.
Eutropio, Compendio di storia romana: Eutropio, Il Compendio di storia romana, con introduzione e
note di Tullio Tentori, Sandron, Palermo 1926.
Filostrato, Vite dei sofisti: Filostrato, Vite dei sofisti, introduzione, traduzione e note di Maurizio
Civiletti, Bompiani, Milano 2002.
Giovenale, Satire: Decimo Giunio Giovenale, Le satire, testo latino e versione poetica di Guido
Vitali, 2 voll., Zanichelli, Bologna 1971.
Giuseppe Flavio, La guerra giudaica: Flavio Giuseppe, La guerra giudaica, 2 voll., Fondazione Lorenzo
Valla - Mondadori, Milano 1974.
Historia Augusta (seguito dall’indicazione degli specifici capitoli): Scrittori della storia Augusta, a cura
di Leopoldo Agnes, UTET, Torino 1960.
Lattanzio, La morte dei persecutori: Lattanzio, Come muoiono i persecutori, introduzione, traduzione e
note a cura di Mario Spinelli, Città Nuova, Roma 2005.
Marco Aurelio, Pensieri: Marco Aurelio, Scritti. Lettere a Frontone; Pensieri; Documenti, a cura di
Guido Cortassa, UTET, Torino 1984.
Marco Aurelio, Lettere a Frontone: Marco Aurelio, Scritti. Lettere a Frontone; Pensieri; Documenti, a
cura di Guido Cortassa, UTET, Torino 1984.
Marziale, Epigrammi: Marziale, Epigrammi, a cura di Simone Beta, Mondadori, Milano 2007.
Nicolao di Damasco, Vita di Augusto: Nicolao di Damasco, Vita di Augusto, introduzione,
traduzione italiana e commento storico a cura di Barbara Scardigli in collaborazione con Paola
Delbianco, Nardini Editore - Centro Internazionale del Libro, Firenze 1983.
Plinio il Giovane, Carteggio con Traiano: Plinio il Giovane, Carteggio con Traiano (libro X), Panegirico a
Traiano, commento di Luciano Lenaz, traduzione di Luigi Rusca e di Enrico Faelli, testo latino a
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Plinio il Giovane, Lettere ai familiari: Plinio il Giovane, Lettere ai familiari, introduzione e commento
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Press, Princeton 2009.
Ward-Perkins, Bryan, The Fall of Rome and the End of Civilization, Oxford University Press,
Oxford 2005 (trad. it. di Mario Carpitella, La caduta di Roma e la fine della civiltà, Laterza, Roma-
Bari 2008).
Cronologia
dei regni imperiali

Augusto (27 a.C.-14)


Tiberio (14-37)
Nerone (54-68)
Vespasiano (69-79)
Traiano (98-117)
Adriano (117-138)
Marco Aurelio (161-180)
Settimio Severo (193-211)
Diocleziano (284-305)
Costantino (306-337)
I personaggi della storia

AUGUSTO
Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, poi Augusto
primo imperatore di Roma (27 a.C.-14 d.C.)
Azia
madre di Ottaviano
Ottavia
sorella di Augusto
Cesare, Gaio Giulio
dittatore, prozio e padre adottivo di Augusto
Agrippa, Marco Vipsanio
vice di Augusto e poi suo genero
Cicerone, Marco Tullio
il più grande oratore di Roma
Antonio, Marco
il più grande rivale di Augusto
Cleopatra
regina d’Egitto
Livia Drusilla
moglie di Augusto
Giulia
figlia di Augusto
Tiberio, Claudio Nerone
figlio di Livia, poi figlio adottivo di Augusto e suo successore

TIBERIO
Tiberio, Claudio Nerone
successore di Augusto, imperatore (14-37)
Livia Drusilla
madre di Tiberio, vedova di Augusto, investita del titolo di Giulia Augusta
Vipsania
moglie poi divorziata di Tiberio
Giulia
moglie poi divorziata di Tiberio
Germanico, Giulio Cesare
nipote di Tiberio, nominato da Augusto successore dello stesso
Vipsania Agrippina (Agrippina Maggiore)
nipote di Augusto, moglie di Germanico
Seiano, Lucio Elio
prefetto del pretorio, vice di Tiberio e minaccia nei confronti del suo potere
Antonia Minore
nipote di Augusto
Caligola, Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico
figlio di Germanico e di Agrippina Maggiore, poi successore di Tiberio

NERONE
Caligola, Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico
imperatore (37-41)
Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico (Claudio)
imperatore (41-54)
Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico
imperatore (54-68)
Valeria Messalina
moglie di Claudio, poi giustiziata
Giulia Agrippina Augusta (Agrippina Minore)
madre di Nerone e moglie di Claudio
Seneca, Lucio Anneo
tutore e consigliere di Nerone, filosofo e letterato
Poppea Sabina
il grande amore di Nerone, poi sua moglie

VESPASIANO
Galba, Servio Sulpicio
imperatore (68-69)
Otone, Marco Salvio
imperatore (69)
Vitellio, Aulo
imperatore (69)
Vespasiano, Tito Flavio
imperatore (69-79)
Cenide
amante di Vespasiano
Tito Flavio Vespasiano
figlio maggiore di Vespasiano, imperatore (79-81)
Muciano, Gaio Licinio
governatore della Siria, alleato di Vespasiano
Berenice (Giulia Berenice di Cilicia)
principessa ebrea, amante di Tito
Antonio Primo
generale, politico, alleato di Vespasiano

TRAIANO
Domiziano, Tito Flavio
imperatore (81-96)
Nerva, Marco Cocceio
imperatore (96-98)
Traiano, Marco Ulpio
imperatore (98-117)
Pompeia Plotina
moglie di Traiano, poi Augusta
Marciana
sorella di Traiano, poi Augusta
Licinio Sura, Lucio
vice di Traiano
Plinio il Giovane
intellettuale, propagandista imperiale e governatore provinciale

ADRIANO
Adriano
imperatore (117-138)
Vibia Sabina
moglie di Adriano, poi Augusta
Plotina Augusta
patrona e promotrice di Adriano
Svetonio Tranquillo, Gaio
segretario particolare di Adriano e biografo imperiale
Antinoo
amante di Adriano, divinizzato post mortem

MARCO AURELIO
Antonino Pio
imperatore (138-161)
Marco Aurelio
imperatore (161-180)
Domizia Lucilla
madre di Marco Aurelio
Frontone, Marco Cornelio
tutore di Marco Aurelio
Lucio Vero
co-imperatore con Marco Aurelio (161-169)
Annia Galeria Faustina (Faustina Minore)
figlia di Antonino Pio, moglie di Marco Aurelio,
Augusta e Madre degli accampamenti
Galeno di Pergamo
medico di Marco Aurelio
Commodo, Marco Aurelio
figlio di Marco Aurelio, imperatore (180-192)

SETTIMIO SEVERO
Pertinace, Publio Elvio
imperatore (192-193)
Giuliano, Marco Didio
imperatore (193)
Pescennio Nigro, Gaio
imperatore (193-195)
Clodio Albino
imperatore (193-197)
Settimio Severo
imperatore (193-211)
Giulia Domna
moglie di Settimio Severo
Caracalla
figlio maggiore di Severo, imperatore (211-217)
Geta
fratello minore di Caracalla, co-imperatore (211)
Elagabalo
imperatore (218-222)
Giulia Avita Mamea
madre di Alessandro Severo, reggente di fatto
Alessandro Severo
imperatore (222-235)

DIOCLEZIANO
Aureliano, Lucio Domizio
imperatore (270-275)
Numeriano, Marco Aurelio Numerio
imperatore (283-284)
Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio
imperatore (284-305)
Aurelia Prisca
moglie di Diocleziano
Galeria Valeria
figlia di Diocleziano, moglie di Galerio
Massimiano, Marco Aurelio Valerio
Augusto di Occidente
Massenzio, Marco Aurelio Valerio
figlio di Massimiano
Galerio Massimiano
Cesare di Oriente
Romula
madre di Galerio
Costanzo Cloro
Cesare di Occidente
Costantino, Flavio Valerio Aurelio
figlio di Costanzo

COSTANTINO
Costanzo Cloro
padre di Costantino, Cesare e Augusto
Elena
madre di Costantino, poi santa
Costantino I
imperatore (306-337)
Fausta
seconda moglie di Costantino
Crispo, Flavio Giulio
figlio maggiore di Costantino
Massimino Daia
imperatore (305-314)
Massenzio
imperatore (306-312)
Licinio
imperatore (308-324)
Eusebio
vescovo di Cesarea

RAVENNA
Romolo Augustolo
imperatore (475-476)
Giustiniano I
imperatore (527-565)
Teodora
imperatrice (527-548)
Alberi genealogici

La famiglia di Augusto. La dinastia Giulio-Claudia


Albero genealogico dei Flavi
La famiglia di Traiano e di Adriano.
I cinque buoni imperatori
I Severi
La prima tetrarchia
La famiglia di Costantino
Cartine
Ringraziamenti

La gratitudine, dice Cicerone, contiene la memoria dell’amicizia e della


gentilezza da parte degli altri, nonché il desiderio di ripagarli di ciò
(Sull’invenzione II.161). Se è così, allora, la mia memoria è dolce, il mio
desiderio ardente, ma temo che la mia capacità di ripagare sia scarsa.
Quel che segue è un modo inadeguato di dire grazie per l’amicizia e la
generosità che mi sono state dimostrate durante la preparazione di questo
volume.
Sono profondamente grato ai colleghi, agli amici e agli studenti che
hanno letto in parte o per intero quanto andavo scrivendo in forma non
definitiva. Lo hanno reso molto migliore. Gli errori, ovviamente,
rimangono solo miei. Grazie dunque a Maia Aron, Kathleen Breitman,
Serhan Güngör, Adam Mogelonsky, Jacob Nabel e Tim Sorg.
Il dottor Francesco M. Galassi, dell’Università di Zurigo, mi ha messo a
disposizione la sua esperienza sulla medicina antica, Mary McHugh il
suo lavoro e le sue valutazioni sulle due Agrippine. Con Waller Newell
ho potuto avere molte stimolanti conversazioni sulla tirannia
nell’antichità. Walter Scheidel ha condiviso con me le sue idee su cui si
basa il suo prossimo progetto sugli imperatori romani. Barry Weingast
mi ha dato utili indicazioni su istituzioni e paradigmi, antichi e moderni.
Kevin Bloomfield e Jonathan Warner mi hanno fornito una professionale
assistenza nella ricerca. Il colonnello in pensione Timothy Wilson, della
Royal Artillery, è stato una generosa guida al Vallo di Adriano.
Il mio progetto ha potuto beneficiare del generoso sostegno di quattro
istituzioni: l’Accademia americana di Roma, dove sono stato visiting
scholar; la Fondazione Bogliasco, dove sono stato fellow; la Hoover
Institution, dove sono stato visiting scholar; infine la Cornell University,
che è stata così disponibile da concedermi dei congedi per portare avanti
la ricerca e scrivere il libro. All’Accademia americana di Roma ci
sarebbero troppe persone da ringraziare; vorrei però ricordare, in
particolare, l’attuale direttore e il suo predecessore: John Ochsendorfer e
Kim Bowes. Quanto alla Fondazione Bogliasco, desidero ringraziare
Laura Harrison, e con lei molti altri. Della Hoover Institution, vorrei
ringraziare Victor Davis Hanson per la sua amicizia e l’ospitalità, nonché
per l’esempio che costituisce come storico. Un ringraziamento va anche
a David Berkey e a Eric Wakin. Ringrazio, poi, i miei colleghi della
Cornell University e il personale del Department of History and of
Classics; è stato poi un piacere lavorare nella nostra splendida John M.
Olin Library.
Tantissime persone hanno messo a mia disposizione la loro
competenza, mi hanno offerto ospitalità, si sono offerti di farmi da guida
nei siti storici, mi hanno ascoltato e incoraggiato, e hanno fatto la cosa
più preziosa di tutte: erano lì quando ne avevo bisogno. Grazie dunque a
Benjamin Anderson, Darius Arya, Jed Atkins, Ernst Baltrusch, Elizabeth
Bartman, Colin Behrens, Leo Belli, Sandra Bernstein, Lisa Blaydes,
Nikki Bonanni, Philippe Bohström, Dorian Borbonus, Elizabeth
Bradley, Mary Brown, Judith Byfield, Holly Case, Christopher Celenza,
Giordano Conti, Bill Crawley, Craig Davis, Angelo De Gennaro,
Megan Drinkwater, Ertürk Durmus, Radcliffe Edmonds, Gary Evans,
Michael Fontaine, Bernard Frischer, Adam Friedman, Lorenzo
Gasperoni, Rick Geddes, Genevieve Gessert, Giovanni Giorgini,
Stephen Greenblatt, Meyer Gross, Stephen Haber, John Hyland, Isabel
Hull, Brian Jay Jones, Eleanor Leach, Susann Lusnia, Craig Lyons, Stuart
Manning, Harvey Mansfield, Brook Manville, Adrienne Mayor, Kelly
McClinton, J. Kimball McKnight, Alison McQueen, Ian Morris,
Thomas J. Morton, Josiah Ober, Grant Parker, Piergiorgio Pellicioni,
Verity Platt, Danielle Pletka, Sergio Poeta, David Pollio, Eric Rebillard,
Claudia Rosett, Lukasz Rzycki, Aaron Sachs, Daniel Szpiro, Ramie
Targoff, Robert Travers, Christian Wendt, Greg Woolf e Theodora
Zemek.
Alla casa editrice Simon & Schuster, il mio editor Bob Bender ha
superato sé stesso per la cura e l’attenzione che ha dedicato al mio
manoscritto e per la saggezza e i ponderati giudizi che è sempre stato
pronto a condividere con me. La sua assistente Johanna Li è stata un
valido aiuto e si è dimostrata paziente. Li ringrazio per questo, e con loro
il direttore del settore marketing Stephen Bedford. Quanto alla mia
agente letteraria, Cathy Hemming, è una dei migliori amici dell’autore.
Nessun aggettivo sarebbe sufficiente a esprimere la mia gratitudine a
mia moglie Marcia e ai miei figli Sylvie e Michael, per il loro costante
sostegno e il loro affetto.
Dedico questo libro ai miei studenti, attuali e del passato. Penso non
esista un modo migliore per testimoniare quanto ne apprezzi l’energia, le
intuizioni e l’amicizia di questa affermazione del Talmud: «Ho imparato
molto dai miei maestri, molto dai miei colleghi, e più di tutto dai miei
studenti».
Referenze iconografiche

Augusto: testa, I sec. d.C., da Pergamo (Turchia). Istanbul, Museo Archeologico. © 2019.
DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze.
Tiberio: testa. Paestum, Museo Archeologico. © 2019. Foto Scala, Firenze.
Nerone: testa, I sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana. © 2019. DeAgostini Picture
Library/Scala, Firenze.
Vespasiano: moneta in bronzo, I sec. d.C. Gerusalemme, Museo di Israele (IDAM).
Traiano: busto, I sec. d.C. Monaco, Staatliche Antikensammlungen und Glyptothek. Foto:
Jochen Remmer. © 2019. Foto Scala, Firenze/bpk, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und
Geschichte, Berlin.
Adriano: busto, II sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. © 2019. Foto Scala, Firenze.
Marco Aurelio: busto, I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. © 2019. DeAgostini Picture
Library/Scala, Firenze.
Settimio Severo: busto, III sec. d.C. Monaco, Glyptothek. © 2019. DeAgostini Picture
Library/Scala, Firenze.
Diocleziano: testa, III sec. d.C., da Nicomedia (Turchia). Istanbul, Museo Archeologico. ©
2019. DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze.
Costantino: testa, inizio IV sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. © 2019. Foto Scala, Firenze.

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