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Sesta puntata (19 marzo 2008)

Le tre promesse

di Vittorino Andreali

La povertà

Concettualmente la povertà ha almeno due volti, storicamente bene evidenziati in quell’episodio


della vita di frate Francesco che lo raffigura mentre egli va dal vescovo di Assisi per manifestargli il
desiderio di fondare un ordine religioso che si caratterizzi proprio per la povertà. Il prelato gli fa
presente che la Chiesa è già povera, e dunque che non ce n’era affatto bisogno. A quel punto
Francesco si denuda per mostrare ciò che intende: la rinuncia a tutto, a non possedere nulla,
nemmeno l’essenziale. Il vescovo ha dalla sua delle ragioni: la povertà è il distacco dai beni. Si può
vivere addirittura in un palazzo, vestito come un principe, ed essere povero. È la povertà come
distacco che permette di servirsi dei beni senza esserne condizionati. Poi c’è la povertà intesa più
radicalmente, come mancanza effettiva di ogni bene di questa terra.

Eravamo nel XIII secolo ma la differenza di prospettive era già chiara. Entrambe nobili, queste
concezioni della povertà, ma da una parte c’è l’impegno alla povertà più rigorosa, che è la scelta del
monaco o del religioso, che nulla tiene per sé e in tutto dipende dagli altri; dall’altra c’è la scelta dei
sacerdoti diocesani che stanno nel mondo, vivono nella casa in cui il vescovo li manda per servizio,
hanno un corrispettivo al mese con il quale fanno fronte alle loro necessità, in una misura comunque
modesta, così da stare al livello del popolo.

La prima povertà è netta, totale; la seconda è relativa ed è intesa come distacco dai beni. Una
gradazione che rispecchia una differente chiamata e una differente missione dentro la comunità.
Nella società di oggi si discute ancora molto su cosa sia la povertà, si prospettano addirittura degli
indici che dovrebbero misurare la distanza della povertà dal benessere sia per il singolo, che per la
famiglia, che per l’intera comunità. Con il calcolo della redditività pro-capite si giunge a definire il
grado di povertà di una nazione o di un continente. E si parla pure di nuove povertà, estendendole
anche oltre gli oggetti di cui il mondo è pieno, cioè di povertà culturale o anche spirituale. E allora
il ricco può essere povero e il povero invece eccellere.

Credo sarebbe ancora utile che a dirimere la questione ci fosse un frate, un frate Francesco che si
spogli di tutto e mostri quale debba essere lo status che legittima a essere ultimi per entrare in
contatto con tutti, senza escludere alcuno. Essere ultimo.
A me pare un po’ ridicolo voler rappresentare la povertà attraverso dei numeri, perché so che
l’essere ultimi non prevede alcuna quantizzazione. In questa società, che si definisce del benessere o
addirittura dello spreco, esiste la povertà ed esistono gli ultimi, gli esclusi. Che ci sia qualcuno che
volentieri e per missione scende a questi livelli è importante e può rendere talora la distinzione tra la
povertà totale e quella intesa come distacco così sottile da farla quasi scomparire. Mentre in altre
situazioni resta segnata invece, e da mura anche alte.

Ritengo che la promessa che il sacerdote fa di essere povero gli permetta di stare vicino agli ultimi
della sua comunità. Ed è una scelta di campo precisa, la povertà come effige del dolore. In lui non
basta un’intenzione di distacco, come quella che potrebbe esprimere anche un Bill Gates, l’uomo
più ricco del mondo. Nella scelta del sacerdote c’è un dato effettuale, concreto. Nella sua scelta
circa la povertà a me pare che il sacerdote esprima la promessa di appartenere solo a Dio e di
affidarsi alla provvidenza, che è la speranza che il Signore provveda a ciò di cui abbisogna.
Non vi è dubbio che il legame con Dio su questa terra è mediato dalla Chiesa e non si può non
rilevare che proprio in questa identificazione, letta sul paradigma della povertà, possano emergere
delle contraddizioni e persino dei paradossi e una facile critica sociale; ma io guardo proprio
all’interno dell’ecclesia, dove mi pare di vedere una povertà vissuta come espressione di
appartenenza agli ultimi. A questa dimensione va la mia simpatia. Perché è difficile insegnare ad
aiutare i poveri se si è immersi nel lusso, e nell’inutile che però è necessario a un fratello.

Tuttavia bisogna avere il coraggio di dire che la povertà non è e non può essere indigenza, se non
altro perché toglierebbe i sacerdoti dall’esercizio attivo della missione cui sono chiamati.

L’ubbidienza
L’ubbidienza non è una espressione in sé chiara se non la si coniuga con un’autorità. E dunque
diventa ubbidienza a qualcuno. Acquista significato in funzione di colui a cui si dà ubbidienza o,
come accade nel rito, a colui cui la si promette.

Nel nostro tempo l’ubbidienza è svalutata, e semmai si apprezza la trasgressione, la disobbedienza,


persino l’opposizione. Occorre aggiungere però che sono rare nell’ambito della vita sociale figure
autorevoli, degne e meritevoli di obbedienza. Nell’ambito della famiglia ci sono a volte padri
indegni; nella scuola insegnanti che mercanteggiano un sapere superficiale e una credibilità tenuta
con la forza e il ricatto, oppure con la rinuncia sulla base del laissez faire.

Nel campo politico domina la stupidità e la mobilità, per cui il cambiamento di opinione è regola e
la coerenza considerata una debolezza. Il sapere pubblico è in mano spesso a intellettuali, sacerdoti
del narcisismo, cantori del potente di turno, che butta loro briciole sostanziose. Se si individuano
delle autorità con carisma e fascino, uomini e donne credibili e modesti, allora ubbidire è un piacere
straordinario, e allora si avverte quel bisogno di autorità che porta a legarsi e a seguirla liberamente.

Ci si meraviglia della promessa di ubbidienza di un sacerdote e si tende a considerarla una rinuncia


alla propria libertà, vista come rinuncia a una delle prerogative più straordinarie dell’umanesimo. E
si dimentica che un calciatore ubbidisce totalmente all’allenatore, dal quale dipende se gioca oppure
no, se sta in campo due minuti o un’intera partita. Non ci si meraviglia del fatto che i giovani che si
ritrovano in un gruppo, subito creano un leader di riferimento a cui ubbidiscono, che ci sono
camarille che hanno un capo con poteri di vita e di morte (è il caso delle organizzazioni criminali),
che ci sono nel mondo mezzo milione di sette gestite da un capo con cui non si discute e a cui si può
solo obbedire. Voglio dire che proprio oggi che ci riteniamo allergici all’ubbidienza, ci sono tante
diverse ubbidienze.

La vera ubbidienza andrebbe insegnata e difesa invece che ridicolizzata, anche se bisogna che la
società acquisti dignità, e dunque sappia proporre persone autorevoli e credibili. Ciò che manca
infatti è l’autorità in famiglia come nella scuola, ma anche nel potere pubblico. Dove si può creare
un clima di terrore e di paura, attivato dagli autoritarismi che sono la patologia dell’autorità.
Insomma tra ubbidire al capo di un governo attuale o passato, oppure al Padre eterno c’è una
differenza abissale anche agli occhi di chi il Padre eterno non lo ha ancora incontrato. Poi, certo,
talora può aprirsi anche un conflitto tra l’ubbidienza e la coscienza. Ma qui si sbaglierebbe a
ritenerle due poli oppositivi. La coscienza viene prima dell’autorità; e l’ubbidienza non c’è senza
coscienza.

La castità

In certa cultura superficiale e volgare, la castità è stata ridotta all’astinenza dal rapporto sessuale,
nelle sue espressioni più diverse, legate a una fantasia infinita che include talora ogni tipo di
perversione. A provarlo basta il numero incredibile di siti internet dedicati al tema, che assommano
alla dimensione di alcuni milioni.

La castità ha invece un significato profondo, sta per purezza e rimanda al corpo. Se la sessualità
nella sua visione riduzionistica è un’attività di organi, intesa invece in senso più ampio è
un’espressione del corpo, che a propria volta è parte della persona.

La sessualità riguarda non gli organi genitali, ma la persona, che è un insieme di corpo e di mente, e
per il credente anche di anima; e dunque è un’espressione complessa.

La promessa di castità non si lega, a parer mio, solo all’uso degli organi sessuali, che anzi
renderebbe il voto ridicolo, ma è la promessa di mantenersi casti e puri, e quindi di usare il corpo
come espressione di quell’unità che punta fin d’ora al cielo, dove il corpo non ha accesso.

Nell’impegno di castità è implicita – ovvio – la rinuncia ai vizi. Anche al non abusare di cibo o di
alcol o di droghe. La gola, direbbe Freud, è una forma di sessualità, anche se precoce rispetto alla
maturazione fisica, e propria della fanciullezza. Alla castità si lega persino la bellezza che è un
valore indubbiamente alto, straordinario, anche se non coincide con i canoni del successo televisivo
o dei modelli da velina o del body building. La castità è purezza e bellezza insieme. E nella donna è
tutto ciò che produce femminilità, che è l’opposto dell’esposizione del corpo come accade in molte
vie notturne delle nostre città. La castità è anche educazione, modo di porsi, rispetto nei gesti,
vittoria sulla volgarità, che va a sua volta intesa come antinomica alla castità.

Nel Dizionario etimologico del Battisti si trova che castità deriva da castus, che vuol dire conforme
alle regole o ai riti, puro, pudico, corretto. Deriva dal sanscrito cistah che significa istruito, ben
educato. È termine della lingua religiosa, e perciò preso dal latino cristiano che lo trasmise in forma
semidotta anche al romanzo occidentale, e da cui sono derivate parole come "casta", che vuol dire
razza pura, e deriva anche "incesto" (in castus) nel significato di impuro: una relazione tra parenti
stretti, considerata proibita.

Questa dimensione della persona e della dignità umana è stata ormai ridotta al comportamento
erotico e la promessa della castità è letta esclusivamente come astensione dagli atti sessuali. Ben
diversa è la promessa del sacerdotale, che nella dimensione ampia risulta una condizione del livello
di dignità umana che si confà alla missione dell’inviato di Dio. In questa luce è difficile vedere la
castità come una rinuncia, semmai come il raggiungimento di una dignità che finisce per mettere in
secondo piano anche il gesto erotico. Non diversamente dal buddismo, per esempio, che
raccomanda il controllo del dolore e del piacere.

In senso generale, ritornando all’insieme delle tre promesse sacerdotali, occorre ricordare che nel
caso non fossero perseguibili o si rivelassero impegni ossessivi e dunque difficili da seguire, rimane
pur sempre la possibilità di seguire Dio nella condizione del mondo. Del resto il sacerdozio è una
chiamata nella fede, che si concreta nel lasciare tutto e seguire Cristo.

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