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CAPITOLO II

TOSCA: LA STESURA DEL LIBRETTO DI ILLICA E


GIACOSA E LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE
DELL’OPERA

2.1. La genesi di Tosca

La stesura del libretto di Tosca, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare,


è stato un processo in continua evoluzione, dipanato nell’arco di qualche
anno, quando Puccini era ancora impegnato nella composizione di Manon
Lescaut
Inizialmente, l’impressione era che il dramma di Sardou fosse assai poco
adatto ad essere musicato.

Bernard Shaw liquidò il dramma come «antiquato, inefficace, costruito


rozzamente, senza senso, come una zucca vuota, o una parvenza di un
giallo a buon mercato».
Shaw era interessato, allora come sempre, ai drammi di idee. La Tosca
è un dramma di avvenimenti di avvenimenti, un meccanismo
d’orologeria lubrificato dall’erudizione storica in cui non c’è spazio per
pensare. I lunghi discorsi sono tutti narrazione e riferiscono
dettagliatamente gli eventi che hanno preparato quelli che
effettivamente capitano in quel momento. Da questi racconti
apprendiamo la storia passata di ognuno dei principali personaggi. […]

1
A prima vista sembrerebbe difficile individuarvi addirittura un qualsiasi
spazio per la musica, a parte le prove della cantata di Paisiello nel
secondo atto. 1

Queste riflessioni di Shaw sembrano essere sulla stessa lunghezza d’onda di


quelle di Illica: il librettista infatti aveva distolto Puccini già nel loro primo
incontro nel 1891 dalla scelta del soggetto di Tosca.
Il dramma originale infatti si prestava assai poco all’essere messo in musica:
lo stesso Illica ne aveva già ricavato un abbozzo di libretto per Franchetti, nel
1892, ma la perplessità principale era circa la catena senza fine di duetti, che,
almeno in quel periodo, cozzavano con lo stile librettistico e operistico,
formalizzato, almeno a grandi linee, nel congegno della solita forma.
Sebbene, già con Verdi, la netta divisione dei numeri musicali era andata
scemando, attenuandosi in forme più ibride, fluide, di fatto però persisteva
una distinzione più o meno netta tra sequenze statiche e sequenze cinetiche e,
cosa più importante, l’aria o la romanza occupavano ancora il nucleo di
interesse sia del pubblico che del compositore stesso.
Ci vollero altri sei anni prima che Puccini si convincesse e prendesse una
decisione finale su Tosca, durante i quali terminò il lavoro su Manon Lescaut
e scrisse compiutamente tutta La Bohème.
Il percorso che ha portato alla creazione dell’opera inizia il 7 maggio 1889,
nemmeno un mese dopo la prima di Edgar: stando alla lettera che lo stesso
Puccini scrisse a Ricordi, Tosca diventò il dramma che il compositore
lucchese avrebbe voluto musicare più di ogni altro.

Carissimo Signor Giulio,


dopo due o tre giorni di ozii campestri per riposarmi di tutte le
strapazzate sofferte, mi accorgo che la volontà di lavorare invece di
essersene andata, ritorna più gagliarda di prima… penso alla Tosca! La
scongiuro di far le pratiche necessarie per ottenere il permesso da
Sardou, prima di abbandonare l’idea, cosa che mi dorrebbe moltissimo,

1
J. BUDDEN, Puccini, Roma, Carocci 2008, p 200

2
poiché in questa Tosca vedo l’opera che ci vuole per me, non di
proporzioni eccessive né come spettacolo decorativo né tale da dar
luogo alla solita sovrabbondanza musicale. A giorni sarò a milano per
mettermi subito alla correzione edgariana, anzi ho qui con me Carignani
che mette in ordine la riduzione del 3° atto.
Accetti i più cordiali saluti da Fontana, Carignani e le signore
femmine.
Rispetti alla signora Giuditta e alla signorina e al Tito.
(Puccini a Giulio Ricordi – Milano, 7 maggio 1889)

Ricordi non perse tempo e si rivolse subito al suo agente a Parigi,


affinché andasse immediatamente da Sardou e iniziasse a negoziare i
diritti per la messa in musica; il contratto non venne chiuso
immediatamente, perché lo stesso Sardou prese tempo per rialzare le
sue quotazioni.

Il contratto era ancora in mano a Puccini nel giugno 1892, e


probabilmente Tosca si sarebbe fatta subito dopo Manon se non
fosse intervenuto, come fulmine a ciel sereno, l’amore a prima
vista per il romanzo di Murger. Ad onorare l’impegno preso da
Ricordi col drammaturgo francese fu chiamato Alberto
Franchetti, reduce dal successo di Cristoforo Colombo (1892),
forse il primo anello di una lunga catena di opere italiane della
fin de siècle in cui la storia romanzata è al centro dell’azione. Egli
possedeva dunque tutti i requisiti per affrontare l’impresa, e Illica
ebbe il compito di approntare una tela dell’azione, che venne poi
sottomessa all’approvazione di Sardou tra la fine del 1893 e
l’inizio del 1894. 2

Nel corso dell’estate si raggiunse quindi l’intesa; Illica avrebbe adattato


la fonte di Sardou in un libretto operistico, che sarebbe poi stato
successivamente musicato dallo stesso Franchetti. I due si sarebbero

2
M. GIRARDI, Tosca: Roma tra fede e potere, in M. GIRARDI, Giacomo Puccini. L’arte
internazionale di un musicista italiano, Venezia, Marsilio, 2000, p 151.

3
infatti recati nell’ottobre dello stesso anno da Sardou stesso, per
discutere con lui i termini della riduzione del dramma.3
Tuttavia, come si apprende tramite le lettere di Illica all’editore
Ricordi4, Franchetti non sembrava particolarmente entusiasta di avere
tra le mani un libretto simile: confrontando la struttura dell’adattamento
di Illica alle altre opere musicate da Franchetti stesso, ci si accorge
come le divergenze tra i due non potessero che risultare incolmabili.
In ogni caso, alla fine fu proprio lo stesso Franchetti ad abbandonare il
progetto, facendo sì che l’onere di musicare Tosca tornasse proprio
nelle mani di Puccini.

2.2 Dal dramma storico al melodramma d’azione: Tosca come prima


opera del Novecento.

Una volta che l’accordo per la cessione del lavoro nelle mani di
Giacomo Puccini fu raggiunto, ad Illica venne affiancato ufficialmente
Giacosa, così che questi correggesse e rendesse più poetica la stesura di
Illica, che era decisamente abile nel descrivere delle situazioni
drammatiche ma meno elegante nella scelta delle formule versuali più
adatte.

3
Secondo le fonti biografiche di prima mano, lo stesso Verdi era presente a
quell’incontro tra Sardou, Franchetti ed Illica, poiché si trovava a Parigi in
concomitanza con la prima di Otello all’Opéra. Il compositore bussetano pare che
abbia dichiarato il suo entusiasmo per il soggetto, fornendo suggerimenti su come
migliorare l’ottimo adattamento di Illica. Ciò che aveva infiammato l’animo di
Verdi era l’ampio monologo di addio alla vita e all’arte che il librettista aveva scritto
poco prima della fucilazione.
4
Cfr A. FRACCAROLI, La vita di Giacomo Puccini, Milano, Ricordi, 1925, pp 107-
108; G. MONALDI, Giacomo Puccini e la sua opera, Roma, Selecta, 1925, pp 41-43.
Secondo Fraccaroli Illica si assunse l’impegno di convincere ad abbandonare l’idea
di quell’opera, natuarlmanete senza dirgli che Puccini voleva riprenderla.
L’iniziativa gli riuscì più facile di quanto pensasse. Franchetti cominciava ad avere
dei dubbi sulla musicabilità di Tosca. Illica si adoperò a rafforzare questa idea di
abbandono e un bel giorno Franchetti rinunciò a Tosca definitivamente. Il giorno
dopo, Puccini firmava il contratto che lo impegnava a musicarla. In realtà la rinuncia
avvenne soprattutto per divergenze fra Illica e Franchetti, e fu ratificata nel maggio
del 1895.

4
Curiosamente, consultando il fac-simile della copia di lavoro del
libretto5, ci si rende conto come, nel processo di stesura del testo
teatrale, siano intervenuti non solo i due librettisti designati, ma anche
Puccini e lo stesso Giulio Ricordi.
Inoltre, non ultimo, anche Sardou avrebbe partecipato, tramite alcune
consulenze e, soprattutto, approvando o rigettando le modifiche o i tagli
alla sua fonte originale.
Il primo problema con il quale Illica si trovò a fare i conti era la
pressoché totale incompatibilità del testo originale alla versificazione e
alla messa in musica, tanto da dire che «il dramma originale si impone
troppo ed invade il libretto.»
La lamentela principale era la catena senza fine di scene a due che, nella
fonte di Sardou, si susseguono senza soluzione di continuità durante
l’arco del primo atto; da un punto di vista strettamente organizzativo,
soprattutto secondo quelli che erano stati i dettami dell’opera
romantica, risultava difficile pensare ad una sequenza di situazioni
drammatiche canonica. In più, nessuna delle scene menzionate si
adattava alla possibilità di un momento solistico, un’aria e vera e
propria, che avrebbe comportato la necessità di una sezione di versi
lirici.
Pertanto, il primo passa nel lavoro del librettista fu quello di asciugare
la vicenda da tutti i riferimenti storici, tutte le varie digressioni, tutto il
didascalismo, ossia ripensando alla base l’intero dramma.
In questo senso, il primo grande cambiamento fu quello di ridurre
drasticamente il numero dei personaggi coinvolti nella vicenda,
ripensando e caratterizzando nuovamente sia le singole psicologie, sia
i rapporti che si creano tra gli stessi personaggi; così, delle varie figure
secondarie che popolano il primo atto, l’unico superstite è il Sagrestano,
che viene privato del suo nome, diventando semplicemente il

5
G. BIAGI RAVENNI (A cura di), Copia di lavoro del libretto di Tosca, CENTRO STUDI
GIACOMO PUCCINI, TESTI E DOCUMENTI, Firenze, Leo S. Olschki, 2009

5
Sagrestano, quasi venendo degradato ad una sorta di maschera, di
carattere comico, simile alla vecchia commedia dell’arte.
Inoltre, come già accennato in precedenza, il libretto ha come peculiare
caratteristica quella di essere scritte interamente in versi sciolti; nella
concezione ottocentesca dell’opera, della quale Tosca è comunque
figlia, queste sezioni erano destinate alla cìnesi, all’azione e allo
sviluppo drammatico.
Non è un caso, infatti, che Tosca sia principalmente un’opera d’azione,
incalzante e continua, all’interno della quale l’amore, il contenuto quasi
esclusivo delle sezioni statiche in versi lirici, ossia le arie, è una
manifestazione fugace ed effimera, destinata ad un epilogo tragico.

Con Tosca Puccini si confronta per la prima volta con un’opera


d’azione. Perciò il passo è più veloce, i motivi ricorrenti più
brevi, più taglienti e più numerosi che nelle opere precedenti e
non hanno sempre la funzione con gli elementi del dramma è
talvolta più vaga che nella Bohème, presagendo così la qualità
camaleontica che caratterizzerò certi motivi nelle opere tarde.6

Si parte con una rapida pantomima segnata di negatività: Angelotti,


come già enunciato in precedenza, è in fuga dalle forze della polizia
papalina, e disperatamente cerca di rifugiarsi nella chiesa di
Sant’Andrea della Valle, a differenza del testo originale di Sardou, dove
l’intero primo atto è ambientato presso la chiesa di Sant’Andrea dei
Gesuiti.7

6
J. BUDDEN, Puccini, Roma, Carocci 2008, p 216
7
Le ragioni di questo cambio di ambientazione non sono ben chiare, né sono chiaramente esplicitate
in alcuno dei carteggi tra Puccini e Sardou, o nella corrispondenza con Illica e Giacosa, o l’editore
Ricordi. Volendo azzardare un’ipotesi, probabilmente la scelta del cambio è dovuta alla volontà di
evitare che un’azione come quella che viene descritta nell’opera di Puccini fosse ambientata
all’interno di una chiesa gesuita, o forse per mantenere una sorta di unità di tempo e di spazio: infatti,
i tre luoghi ove l’azione si svolge sono circoscritti in un’area piuttosto vicina, e gli spostamenti
dall’uno all’altro, soprattutto per quel che riguarda Palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo,
forniscono una sorta di ulteriore verosimiglianza alle azioni descritte.

6
Appare evidente come, fin dalle prime frasi del libretto, messe in risalto
da una composizione musicale che è sempre al servizio dell’azione, più
che la storia, è la dinamica di potere, completamente diversa da quella
di Sardou, a occupare il cardine centrale dell’intera narrazione.
Tosca è un’opera che parla del Potere e dei meccanismi che da esso
sono originati e che lo presuppongono, che è un vero e proprio
personaggio, un sostrato musicale e d’azione che contribuisce a
sviluppare suspence e a funestare la storia d’amore tra i due
protagonisti.8
Il Sagrestano è il secondo personaggio ad entrare in scena: non è
caratterizzato psicologicamente, né dalla stesura librettistica, né dalla
musica, che è un semplice motivo, estremamente tonale ed orecchiabile,
semplice, quasi ovvio, che lo accompagnerà per tutto il resto dell’atto.
Al suono della campana dell’Angelus9, il Sagrestano si inginocchia: è
così che lo trova Mario Cavaradossi, quando entra in chiesa, per
continuare il dipinto che ha iniziato già da tempo.
Il suo arioso, scritto in versi sciolti, di fatto sembra richiamare alle
vecchie forme chiuse dell’aria ottocentesca ma, grazie anche ai continui
borbottii del Sagrestano, che strizzano l’occhio ai vecchi pertichini
delle arie di sortita, si configura di fatto come un vero pezzio d’azione,
con conseguenti modifiche alla normale struttura ternaria.

Recondita armonia
di bellezze diverse!... È bruna Floria,
l’ardente amante mia,
e te, nobile fior, cinge la gloria
dell’ampie chiome bionde
Tu azzurro hai l’occhio e Tosca ha l’occhio nero!

8
L’amore, nella produzione Pucciniana, spesso viene rappresentato come effimera circostanza
mortale, che conduce ad un esito infausto e catastrofico, il più delle volte: è osservabile in Manon
Lescaut, dove i temi musicali sembrano perseguitare inesorabilmente i due protagonisti, in Bohème,
nella quale Mimì è malata già prima di entrare in scena, e anche nella futura Madama Butterfly,
dove l’asimmetria culturale diventa un vero e proprio abisso incolmabile, che porta la giovane geisha
al suicidio.
9
Queste quattordici battute di fa ripetuti sopra armonie sempre diverse, in una sorta di corda di recita
che verrà anche replicata dai due personaggi in scena, sembra ricordare la veglia di mezzanotte del
Falstaff di Verdi.

7
L’arte nel suo mistero
Le diverse bellezze insiem confonde:
ma nel ritrar costei
il mio solo pensier, Tosca tu sei!10

Come si evince dal fac-simile del primo libretto pubblicato, prima della
prima rappresentazione, il testo è in settenari ed endecasillabi sciolti;
non ci sono lasse isometriche, il testo non è rientrato, segno evidente
della volontà dei librettisti di mantenere una sorta di continuità
nell’azione scenica, che fa di questa riflessione un cardine, più che un
approfondimento psicologico o un mero abbandono sentimentale, come
era stato nelle romanze o nelle arie del melodramma romantico.
La centralità che qui assume il suo sentimento d’amore che lo lega a
Tosca, espresso in una forma che, in pochi versi, mette in relazione
reciproca l’amore sacro e l’amor profano (le diverse bellezze), è
fondamentale anche ai fini dell’azione successiva, visto che la stasi
nella trama viene rotta a causa della gelosia di Floria, che fa precipitare
l’intera vicenda inesorabilmente verso l’epilogo tragico.
Il Sacrestano si prepara a uscire, non senza aver gettato uno sguardo
avido verso il cesto che contiene il pranzo per Cavaradossi, fedele al
vizio che lo accomuna all’Eusebio di Sardou; è a questo punto che si
inserisce l’incontro con Angelotti, completamente asciugato da un
punto di vista librettistico, rispetto alla sua controparte originale.
Niente digressioni, niente racconti sulla sua relazione con Lady
Hamilton, nessun chiarimento circa la relazione tra Mario e Floria, ma
solo poche frasi, su un’orchestrazione incalzante, che riprende il tema
iniziale, interrotte dalla voce fuori scena di Tosca, che chiama a gran
voce il suo amante.
Finalmente la protagonista viene fatta entrare, e lo fa «con una specie
di violenza, allontanando bruscamente Mario che vuole abbracciarla e
guardando sospettosa intorno a sé», come si legge dal libretto; il

10
V. SARDOU, L. ILLICA, G. GIACOSA, Tosca, Roma, Ricordi, 1899 (Roma – Teatro Costanzi,
stagione 1899-1900, Fac-Simile)

8
carattere della primadonna viene delineato già dalle prime battute,
ponendo l’accento su quello che costituisce il suo tallone d’Achille, il
punto debole che fa precipitare tutta la vicenda ad un epilogo
catastrofico.

Tosca è un’attrice con tutta la volubilità superficiale della sua


natura, la sua gelosia è prevalentemente una questione di
atteggiamento e per questo il suo amante non la prende troppo
sul serio. È venuta a deporre fiori ai piedi della Madonna, e la sua
fondamentale tranquillità è disturbata solo per un breve momento
da un riferimento musicale a momenti precedenti, quando parla
del suono di passi e di fruscio di abiti. Un bacio di Cavaradossi è
sufficiente a tranquillizzarla, anche se provoca un dolce
rimprovero.11

I gesti devozionali di Tosca rendono un quadro psicologico di un


personaggio assai insicuro, fragile e, a volte, un po’ bigotto: non riesce
infatti a distinguere affatto tra amore sacro e amor profano.
La situazione che ne emerge, con Illica che ha individuato i tratti salienti
per caratterizzare in maniera efficace e con solo poche frasi il carattere
dell’eroina, di fatto si configura come una sorta di corto circuito
mentale; Tosca non si fa problemi, innanzitutto, ad amare fuori dal
matrimonio, in maniera non esattamente platonica, e arriva anche ad
esprimere questa sua bramosia e voluttuosità subito dopo aver,
pudicamente, rifiutato un bacio da Mario, poiché non ha ancora
infiorato la statua della Madonna.12
A questo punto si trova la prima vera sezione in sensi lirici, che sembra
alludere alla vecchia forma dell’aria; la motivazione, suffragata anche

11
J. BUDDEN, Puccini, Roma, Carocci 2008, p 220
12
Puccini è particolarmente abile nel rappresentare le sottigliezze psicologiche dei personaggi; la
musica esprime spesso i sentimenti e i pensieri dei personaggi, anche al di fuori da ciò che essi
esprimono nel libretto tramite i versi.

9
da ciò che Tosca ha appena pronunciato13, potrebbe essere individuata
nella volontà di far esprimere la primadonna con un linguaggio che, in
una prospettiva meta-teatrale, ella conosce bene.
Si rivolge a lui, evocando un’immagine arcade e bucolica della loro
casetta, immersa nel verde, nido della loro corrispondenza d’amorosi
sensi: il messaggio è chiaro ed è l’eros il sentimento prevalente, che fa
impennare la vocalità iniziale, leggera e frivola, verso una assai più
ampia, distesa e passionale, che culmina con l’esclamazione di Mario,
a mo’ di suggello della loro intesa amorosa.
Il raccordo che segue mette in luce, ancora di più, la gelosia della donna
e la sua scarsa attitudine alla razionalità, soprattutto quando è turbata:
Tosca non riesce a concepire che Mario possa dipingere un’altra donna,
che possa trarre ispirazione da un’altra figura che non sia lei,
dimostrando quanto lei esiga di essere il centro totale del suo mondo.
Anche in questo caso, sono sufficienti poche frasi, che Puccini
abilmente accompagna con la melodia del tema di Angelotti, a
dimostrazione della buona fede di Mario e dell’irragionevolezza della
scenata che la donna ha appena terminato.

Il problema di scolpire a tutto tondo una protagonista al suo


primo apparire da nessuna parte viene risolto in modo più
efficace di qui. Tosca non è un tipo come Mimì, che può
riassumere tutto il suo carattere nell’autopresentazione, lei ha
tratti molto più individuali. Eppure, tutto di lei è in questa prima
scena con Cavaradossi: la dignità, la religiosità (si tratta
ampiamente però di pratica esteriore), l’inclinazione alla gelosia,
gli sprazzi di umorismo e una certa mondanità teatrale. Qui
l’opera è pesantemente in vantaggio sul dramma, la cui

13
Le parole che Tosca rivolge a Mario sono le stesse parole che un’attrice dice a un collega per
rimproverarlo di un’interpretazione scadente; la Tosca di Puccini, diversamente dal passaggio del
dramma, è una donna di teatro con grande esperienza. Cfr. J. BUDDEN, Puccini, Roma, Carocci
2008.

10
protagonista rimane puramente monocorde: non ci meraviglia
che Sardou stesso sia arrivato a preferirla.14

Qui si apre la seconda sezione in versi lirici, una sorta di brevissimo


arioso disteso, una breve lassa isometrica, in endecasillabi, di otto versi,
disposti con uno schema delle rime ABBA, ripetute identicamente;
insomma, un’esposizione lucida e semplice, che ha come scopo proprio
quello di rivolgersi, in un linguaggio a lei consono, alla donna
ingelosita.
Il duetto si chiude quindi con un’unica idea musicale, enunciata in
questo preciso istante, ripetuta quattro volte e distribuita variamente tra
le due voci, in cui la quiete viene ripristinata, e i due innamorati sono
di nuovo appacificati.
Questa prima parentesi statica all’interno di un’azione, a tratti convulsa
ed incalzante, si chiude con l’uscita dalla scena di Tosca e con la nuova
apparizione di Angelotti; ancora una volta, il vero protagonista, benché
non sia ancora entrato in scena, è proprio il barone Scarpia.
A differenza del dramma originale, in cui Angelotti è ricercato prima di
tutto dalla regina Maria Carolina, qui è il poliziotto l’entità che si
colloca dietro tutte le trame che si intessono tra i personaggi,
costantemente inquietati da un controllo che sembra essere esercitato in
maniera perpetua e permanente, un po’ come un Grande Fratello ante
litteram.
Da un punto di vista versuale, il testo è di fatto un grande recitativo, che
lo stesso Puccini mette in evidenza con un fluire della musica per
condotta tematica: sono molti i temi che vengono incastrati e combinati
per rendere la natura dialogica di questa sezione.
Si sente un colpo di cannone da Castel Sant’Angelo, segno che la fuga
di Angelotti è stata scoperta. In più, proprio mentre Cavaradossi si
prepara ad accompagnare il fuggiasco alla sua villa, ecco l’ingresso del
Sagrestano, annunciato dal suo tema in fortissimo, che porta con sé una

14
Ivi p.222

11
schiera eccitata di chierici, accoliti e coristi; sommo giubilo, egli è
portatore di una buona notizia, ossia della presunta sconfitta di
Napoleone a Marengo.
Il giubilo raggiunge il suo apice tra scoppi di risa e di grida, ma viene
improvvisamente represso dall’ingresso di Scarpia, che finalmente
risponde alla sua chiamata in scena, che viene ribadita a più riprese fin
dai primi accordi dell’opera.
Il colpo di scena è costruito secondo un modello che, nei momenti di
maggiore importanza nel corso dell’opera, si ripeterà in maniera
analoga, ossia viene collocato all’apice del climax che inizia a
sobbollire già da prima.

Fino a questo momento l’azione aveva seguito abbastanza


fedelmente quella del dramma, ma ora il libretto fa un salto in
avanti, anticipando uno sviluppo che Sardou riserva per il giorno
successivo, collocandolo in Palazzo Farnese dove Tosca sta per
esibirsi. Mentre lei aspetta il segnale per attaccare la cantata di
Paisiello sotto la direzione del compositore, Scarpia continua ad
accendere la sua gelosia utilizzando il ventaglio dell’Attavanti,
provocando in lei esplosioni bambinesche, una dopo l’altra. Per
prima cosa si propone di scovare la Marchesa in mezzo ai
presenti e colpirla con forza in faccia col ventaglio. Quando le
viene detto che la Marchesa è partita per Frascati, pensa di
saperla lunga: partirà subito per la villa di Cavaradossi e coglierà
gli amanti in flagrante. […]
Tutto questo è splendido teatro, ma non trova posto nell’opera.
Lo stratagemma di Scarpia è anticipato nella scena in chiesa,
dove Tosca ora ritorna. Sgomenta per non trovare il suo amante
ancora al lavoro, lo chiama, ma è Scarpia che avanza.15

15
Ivi p.225

12
Il duetto Tosca-Scarpia che segue è un chiaro e classico esempio di un
duetto di seduzione, da non intendersi solo nell’ottica di una relazione
amorosa, bensì come un rapporto di potere.
Quando ritorna in chiesa, la primadonna è angosciata, insicura e tesa, e
ha bisogno di un conforto ulteriore: è lì che va a colpire Scarpia,
insinuando in maniera sottile il dubbio nella donna.
Mentre da un punto di vista librettistico, il dialogo è imperniato sui versi
fratti, ossia su una conversazione distribuita tra due interlocutori, con i
tempi di attesa tra una frase e l’altra che sono molto ravvicinati, da un
punto di vista musicale, Tosca canta delle frasi musicali che vengono
cantate e agganciate da Scarpia, che, facendosene garante, se ne
appropria, per ottenere un proprio obiettivo.
Da un punto di vista pratico, è Scarpia inizialmente ad adattarsi a
termini del dialogo, iniziando le sue frasi musicali con la stessa nota che
chiude la precedente, cantata da Tosca; questo continua per un po’,
finché non è il più forte a diventare il conduttore della melodia, a riprova
del successo della strategia seduttiva.
E questo è precisamente ciò che avviene: comincia con le lusinghe, poi
passa all’argomento delle donne sfrontate che vengono in chiesa e volge
esplicitamente lo sguardo verso il ritratto della Maddalena, suscitando
una reazione quasi violenta, per poi continuare con il suo infido
ostinato.
Ha suscitato l’effetto sperato: è bastato un ventaglio per far crollare la
donna, che, affranta se ne va.

Parte così l’inizio del finale, un ampio crescendo basato ancora


una volta su un disegno affidato alle campane, questa volta
un’oscillazione tutta pucciniana di due note. L’azione è ridotta al
minimo, un progressivo riempirsi della chiesa con una folla di
chierici, coristi e fedeli, che passano dalle risposte recitate fino al
canto del Te Deum. Ciò che mantiene desta la nostra attenzione
è il fatto che la musica è costantemente in una situazione di
preparazione della dominante. Il materiale melodico è

13
saldamente diatonico, liscio per andato e profilo. Per tutto il
tempo Scarpia prefigura con cupidigia la prospettiva di una
duplice vittoria, la cattura di Angelotti e il possesso di Tosca. Il
movimento raggiunge il suo climax con la frase dell’inno «Te
æternum Patrem omnis terra veneratur» cantata all’unisono che,
finendo sul si bemolle, permette a Scarpia di togliersi la maschera
con il suo motivo tutta forza nella tonalità originale.
Estesa su novantaquattro battute lente, rafforzata da organo,
campane e periodici colpi di cannone, questa è assolutamente la
più efficace oscillazione armonica creata da Puccini, e non
troverà uguali fino al finale del primo atto di Turandot.16

Il secondo atto è probabilmente il punto più alto dell’abilità di Illica


nello scrivere per teatro: il testo sviluppa una trama intensa ed
intrecciata, in un complicato rimando tra il detto ed il non detto, creando
una forte tensione drammatica e rimandandone quasi indefinitamente la
risoluzione, per poi omaggiare la tecnica del colpo di scena di Sardou,
trasponendo fedelmente e quasi alla lettera alcune delle scene della sua
fonte originale.
L’atto si apre con un ulteriore monologo17 di Scarpia, nel quale questi
mette a nudo la sua indole sadica e crudele, nella quale l’amore si
mescola, in maniera inquietante, alla sofferenza, al dominio, alla
prevaricazione e alla crudeltà.
Analogamente a ciò che si è verificato nel primo atto, anche in questo
caso, questa sezione è quanto di più vicino ed equivalente come
funzione ad un’aria ottocentesca: il lessico utilizzato rimanda
semanticamente alla caccia, proprio a voler sottolineare ancora
maggiormente lo spirito venatorio del barone, che liquida, sprezzante,

16
Ivi p.226
17
Il susseguirsi di due monologhi dello stesso personaggio, intervallati dalla chiusura d’atto,
crearono non poche perplessità ed obiezioni tra Illica, Giacosa e lo stesso Ricordi. Tuttavia, questa
apparente errore rispetto alle convenienze teatrali di fatto crea una sorta di continuità tra atti, che
Puccini metterà ancora di più in evidenza con l’utilizzo di una stessa formula di accordi,
identificata con il tema di Scarpia.

14
le relazioni amorose, considerandole solo come miseria, e mettendo in
chiaro quale sia la sua inclinazione.
Non ama, bensì brama, insegue, caccia e, dopo aver agguantato la preda
ed essersene cibato, la getta via, pronto ad inseguirne un’altra.18

Nel dramma si assiste all’arrivo di Tosca alla villa Cavaradossi,


dove viene placata dal pittore che, per la prima volta, le parla di
Angelotti. Scarpia e i suoi uomini irrompono subito dopo nella
villa e sottopongono Cavaradossi alla tortura. Nell’opera invece
la caccia è affidata a Spoletta, mentre Scarpia ritorna nel suo
quartier generale in una stanza ai piani alti di Palazzo Farnese,
nel quale ora si sposta l’azione.19

Nel libretto di Illica, anche in questo caso, la riconciliazione dei due


amanti viene data già per scontata e l’asse della narrazione, ancora una
volta, viene centrato sulla figura del barone Scarpia, in una sorta anche
di continuum tra gli atti, che rispettivamente terminano e cominciano
con lo stesso personaggio in scena, annunciato anche dall’oramai ben
noto tema musicale.
L’interrogatorio del Cavalier Cavaradossi è, nella sostanza,
equivalente alla controparte non operistica, mentre nella forma è
profondamente diverso, disposto sia su coordinate spaziali diverse, sia
mediante ad uno svolgimento dell’azione diverso: se quindi, le parole
del testo originale sembrano essere state trasposte da Illica quasi
integralmente, è la sua collocazione in simultanea rispetto alla cantata
celebrativa a marcare le distanze in maniera maggiore.
La cantata fuori scena è probabilmente l’idea più sconvolgente, rispetto
a ciò che era consueto osservare nella produzione operistica, per una
serie di ragioni: se, da un punto di vista formale, non è altro che una
composizione per coro e solista, su un testo biblico che segue un

18
La figura di Scarpia è, per molti versi, molto simile a Don Giovanni: entrambe sono alla ricerca
della varietà umana. Non importa chi siano le persone cui si rivolgono, l’importante è che siano
sempre diverse.
19
Ivi p.227

15
disegno ternario, in una struttura tonale di la minore, do maggiore ed
infine la minore, in uno stile falso rinascimento con qualche punto di
imitazione, è il suo inserimento a destare sgomento e a rievocare
l’atmosfera del finale d’atto precedente.
Proprio come era accaduto per il Te Deum, Puccini accosta due
situazioni, una di natura religiosa e l’altra di natura quasi violenta;
questa volta però, anziché confonderle insieme, le separa, da un punto
di vista spaziale, e le mette in relazione reciproca da un impianto
bitonale. Così, interrogatorio e invocazione procedono di pari passo, in
un analogo crescendo, culminando in un’acme comune; la sonorità è
così invadente, che è lo stesso Scarpia a ordinare che la finestra venga
chiusa, per incalzare ulteriormente l’interrogatorio di Mario.
Simbolicamente è decisamente suggestiva la descrizione che viene
fornita dell’intera situazione drammatica: su uno sfondo di religiosità,
devozione e fede, prende forza la rappresentazione del potere, come
esercizio esclusivo della violenza e, al centro tra le due, si colloca la
figura di Scarpia.
La lunga scena a due che segue è di fatto il cardine su cui l’intero atto
secondo si fonda: al suo interno, i personaggi secondari sembrano
gravitare, come satelliti in moto, attorno allo scontro tra Tosca e
Scarpia, con il Barone che sapientemente utilizza le armi della
persuasione e della violenza psicologica per raggiungere il suo scopo.
Il dialogo mette subito in luce il divario tra la condizione psicologica
dei due personaggi: il poliziotto è serafico e conciliante e si esprime in
modo tranquillo, mite, quasi cantilenante, espresso da un tempo in 6/8,
che rievoca il primo incontro tra i due in Chiesa.
Tosca, dal canto suo, è evidentemente sgomenta e terrorizzata, per
quanto cerchi di celare come possa il suo turbamento; il libretto riporta
come didascalie, alle battute della donna, «siede con calma studiate» o
«con simulata indifferenza».
Questa calma apparente dura assai poco, perché è lo stesso Scarpia a
rivelare alla donna ciò che sta accadendo dentro la stanza.

16
Da qui in avanti c’è una tortura doppia, per il pittore, le cui sofferenze
si odono nell’accompagnamento orchestrali, e per Tosca, la cui linea
melodica è costellata di salti terrificanti, che cercano proprio una
mimesi con il linguaggio parlato.

I risultati più stimolanti sono raggiunti da Illica e da Puccini


attraverso un uso sapiente dello spazio. In Sardou le due
sequenze più audaci (la tortura di Cavaradossi e la violenza
psicologica – e quasi anche fisica Tosca) sono dislocate in due
differenti atti (rispettivamente terzoe quarto) nonché in due
diversi spazi (la villa di Cavaradossi e Castel S. Angelo). La
rielaborazione drammaturgica del libretto, fondendo in un atto
solo il terzo e il quarto del dramma di Sardou, unifica di fatto le
due scene che risultano pertanto potenziate, maggiormente
esaltate. In Sardou la camera della tortura è improvvisata in una
qualunque stanza della villa. In Puccini si tratta invece di uno
spazio predisposto a priori per i suoi cupi scopi istituzionali. La
stanza preesiste all’arrivo di Cavaradossi; è colma di tutti i
sinistri strumenti funzionali all’estrinsecazione delle proprie
finalità.20

La scena infatti è evocata da Scarpia, che si premura di mettere ben in


chiaro cosa stia succedendo all’amante di Tosca, con l’orchestra che
interviene con degli strappi di sonorità estreme, quasi violente.
La camera della tortura, in Puccini, è vicina alla camera di Scarpia, alla
stanza in cui Scarpia vive, mangi e lavora.
Il senso profondo di questo accostamento è ben chiaro: per Scarpia il
dolore è legato al piacere, giustifica e motiva l’eccitazione e il
godimento. L’angoscia che nasce dallo strazio e dalla violenza è fonte
di appagamento per alcuni dei bisogni del barone.

20
R. ALONGE - Puccini: la stanza della tortura e/è la stanza dello stupro, in Scene Perturbanti e
rimosse. Interno ed esterno della rappresentazione teatrale, Roma, La Nuova Italia Scientifica 1996
p. 111

17
Osservare la donna prostrata ai suoi piedi o udire le grida di dolore di
Mario rendono Scarpia compiaciuto, anche da un punto di vista fisico.

Insomma la tortura, la violenza, non sono una realtà eccezionale,


quindi confinate in uno spazio remoto, lontano, ma fanno parte
della quotidianità della vita di Scarpia, alimentano giorno dopo
giorno la sua esistenza normale, consueta. Le urla e i pianti si
mescolano e si intrecciano con i ritmi della vita abituale. Il
sangue dei torturati e il vino rosso di Spagna da bere, le carni
straziate sul letto della tortura e i cibi esibiti sulla tavola
imbandita. Anche qui Puccini radicalizza frammenti che sono già
nel drammaturgo francese. In Sardou è assai rilevata, nel quarto
atto, la reversibilità fra la cena di Scarpia e la lunga aggressione
psicologica condotta su Tosca. […] Le persone sono ridotte a
oggetti del gioco impietoso di Scarpia che si compiace di palpare
e maneggiare corpi così come tocca e assapora cibi e bevande.
Ma il fatto che Puccini abbia fuso nel suo secondo atto il terzo e
il quarto di Sardou ottiene l’effetto capitale di unificare non solo
piacere della tavola e piacere del sesso violento, ma anche questi
due con il piacere sadico di torturatore di una vittima maschile.21

La soluzione spaziale e drammaturgica è decisamente ciò che rende


questo secondo atto il cardine espressivo di una nuova concezione di
teatro: ciò che accade fuori scena non è più separato e meno importante,
ma assume una rilevanza quasi fondamentale, con la sonorità che
sembra attraversare i muri, che irrompe prepotentemente nella stanza,
sia quando la porta è chiusa, sia quando Scarpia dispone che questa si
apra e che Tosca possa vedere con i suoi stessi occhi la tortura ai danni
di Mario.
L’ambivalenza semantica, completamente assente nella Tosca di
Sardou, è proprio quella tra dolore (dell’altro) e piacere (di Scarpia); il

21
Ivi pp. 112-113

18
ritratto del sadismo dell’ufficiale di polizia si arricchisce di quelle
nuances che afferiscono alla sfera della violenza e dell’eros.
È la duplice tortura infatti ad eccitare Scarpia: una, ai danni di Tosca,
l’altra, ai danni di Mario, sono accomunate entrambe da un disegno
scenico e prossemico decisamente efficace, che sembra ruotare intorno
alla figura del canapé, il divano presente nella stanza.
È infatti lì che viene fatta accomodare la donna, dopo essere entrata, ed
è sempre lì sopra che Mario viene deposto dopo essere svenuto.

I simboli si richiamano equivocamente tra loro e si stringono


intorno al messaggio enigmatico, tabù: ogni violenza fisica nonè
altro che violenza sessuale, in una sovrapposizione perfetta di
Tosca e Mario. La visione del corpo manipolato, manomesso,
violentato di Mario prefigura, agli occhi di Tosca, il suo proprio
corpo egualmente manipolato, manomesso, violentato.22

La dinamica è chiaramente esplicitata, e queste riflessioni confermano


la grande perizia che hanno avuto Illica e Giacosa nell’andare a scavare
così a fondo nella psicologia dei personaggi, rendendoli molto più
umani, verosimili, onesti (da un punto di vista teatrale) di quanto non
faccia Sardou nella sua pièce.
Guardando con orrore le torture che vengono inflitte al suo amato, è la
stessa Tosca a provarle sulla sua pelle, in un processo drammaturgico
che sposta l’accento, forse per la prima volta nella storia del teatro, sui
propri meccanismi inconsci e nascosti23.

22
Ivi p.118
23
L’irrazionale era già entrato nella drammaturgia operistica ottocentesca. Nel romanticismo, le
scene di follia delle eroine, soprattutto quelle donizettiane, suscitavano un grande interesse nel
pubblico coevo. Tuttavia, il momento in cui questa prendeva il sopravvento rendeva il tutto
fortemente esteriorizzato, vale a dire che non c’era la possibilità di ritorno da uno stato di follia.
Lucia, eponima dell’opera Lucia di Lammermoor, fa intuire la possibilità di essere già non del tutto
equilibrata fin dal suo ingresso nell’opera, tuttavia nel momento in cui la follia prende il
sopravvento, non ha alcuna possibilità di ritorno alla realtà, con una conseguente irreversibile
alterazione dei sensi.
Molto spesso la follia prelude al finale tragico: le eroine impazziscono negli attimi di poco
precedenti alla propria morte o a causa di essa sono spinte sull’orlo del baratro.
In realtà, ciò che difetta considerevolmente e che qui è invece puntualmente sondato ed indagato è
proprio l’inconscio, inteso in maniera freudiana, ossia quella zona in ombra della propria psiche,

19
La tattica della tortura psicologica è così efficace che la donna confessa
immediatamente il nascondiglio del fuggitivo. Mario è portato dentro
la stanza, privo di sensi, madido di sudore e coperto da macchie di
sangue; Puccini fa risuonare il tema del pozzo e subito dopo, mentre la
donna tenta di far rinvenire il suo amato, una piccola oasi di sollievo,
decisamente effimera, viene rappresentata dall’ingresso di uno dei temi
che erano stati proposti durante il duetto d’amore (Qual occhio al
mondo…), prima che l’uomo apprenda del tradimento della donna
amata ed abbia uno scoppio di ira, maledicendola per aver confessato
tutto.

A questo punto l’opera ha un’altra delle sue sforbiciate. Il terzo


atto di Sardou finisce con Cavaradossi e Tosca, ancora in
disaccordo, che vengono fatti uscire per essere condotti a Castel
Sant’Angelo, ma ci sarà tempo per farli riconciliare nei due atti
che rimangono. Nell’opera non è così, perché mentre il pittore
inveisce contro la sua amata, un avvenimento inatteso devia il
corso dell’azione: entra Sciarrone a portare la notizia della
vittoria di Napoleone a Marengo. Lo stato d’animo di
Cavaradossi cambia di colpo ed è di esaltazione.24

Dal punto di vista della verosimiglianza teatrale, questo è decisamente


il momento più assurdo; emerge il Puccini verista ed esteriore, visto che
lo scoppio di vigore di Mario poco collima con ciò che la situazione
drammatica aveva presentato precedentemente.

Se c’è un punto in cui era necessario un tema nuovo, è proprio


questo, invece Puccini ricorre al tema del dipinto, proclamato in
modo eroico da tromboni, fagotti, violoncelli e contrabbassi sotto
il tremolo degli archi più acuti e terzine scandite nei legni. Ma il

che Puccini sottolinea puntualmente tramite l’utilizzo sapientissimo della tecnica motivica e della
condotta tematica, che a volte erompe e spinge i protagonisti ad azioni irrazionali, senza
comprometterne permanentemente la tenuta psichica.
24
J. BUDDEN, Puccini, Roma, Carocci 2008, p. 232

20
peggio deve ancora arrivare: un terzetto alla maniera di un
vecchio concertato, in cui Tosca implora pietà, Cavaradossi
esulta e Scarpia minaccia. Qui la melodia è effettivamente nuova,
ma non è di Puccini. Ancora una volta l’ha presa da un lavoro del
fratello Michele, e il risultato è evidente: una toppa di ovvietà
tecnica in una partitura che è invece molto personale, che non
convince neppure da un punto di vista psicologico. Cavaradossi
non è uomo da dimenticare l’amico tradito in un accesso di
entusiasmo per la causa che lui rappresenta. Le opere di Puccini
sono basate sulle relazioni reciproche tra gli individui, inoltre
l’idealismo può essere stato terreno per Verdi, non lo era
certamente per lui.25

Cavaradossi viene quindi trascinato via in attesa dell’esecuzione e,


ancora una volta, Illica dà prova di avere un’estrema abilità nell’isolare
e sintetizzare le situazioni drammatiche, sfrondando da tutto il materiale
originario superfluo; non c’è bisogno quindi di un ulteriore atto, come
accade nel testo di Sardou, per rappresentare il ricatto sessuale del
barone siciliano ma, al contrario, concentrare il tutto come chiosa del
secondo atto, per arrivare al colpo di scena finale, contribuisce a creare
un effetto di suspence perfettamente riuscito, che Puccini arricchisce e
ingarbuglia ancora di più tramite l’impiego di una musica che è
costantemente votata all’azione.
Scarpia attacca, su degli accordi che sembrano un’eco dell’introduzione
dell’ingresso di Mario, prima di Recondita Armonia, ossia una discesa
per toni, un ispirato cantabile: ancora una volta, si tratta di una sezione
in versi sciolti, settenari, quinari ed endecasillabi, analoga per funzione
alla precedente Ha più forte sapore la conquista violenta, ma modulata
su un’ampiezza melodica maggiore, per esplicitare la sua nuova
consapevolezza del suo potere.

25
Ivi p.233

21
La melodia ribadisce ostinatamente la voluttuosa discesa degli accordi,
un’effusione climatica ascendente, che si scontra però con la repulsione
della donna, ribadita dal tema della sofferenza.
Lo scontro tra i due viene interrotto da un suono di tamburi militari in
lontananza, proprio come era avvenuto durante la cantata in cui,
raggiunto l’acme, lo strepitìo crescente viene interrotto bruscamente da
un fattore esterno, come le finestre che si chiudono o il tamburo che
annuncia la marcia al supplizio per l’imminente esecuzione di
Cavaradossi.
A questo punto si collega la sezione del celebre arioso della
protagonista Vissi d’arte.
Innanzitutto, questa parte venne aggiunta solo in seguito da Puccini che
non gradiva il suo inserimento in questo momento, perché il momento
musicale sembra fermare l’azione in modo irreale.
La sezione è interamente costruita in versi sciolti, come è osservabile
dalla stesura del primo libretto; da un punto di vista musicale, la poca
simpatia di Puccini per questa scelta è ravvisabile dal fatto che, come
era accaduto per il terzetto precedente, non introduce alcun materiale
tematico o melodico nuovo, ma si limita a riprodurre interamente, quasi
a mo’ di reminiscenza, citazioni di altri momenti uditi in precedenza.
La discesa su triadi in rivolto di fatto rimanda all’ostinato del cantabile
di Scarpia, con la tonalità che viene confermata, solo nel modo minore,
e viene seguita dalla riproposizione integrale del pizzicato di ingresso
di Tosca; seppur non pienamente convinto dell’utilità di questa sezione,
nei fatti Vissi d’arte costituisce un momento più che plausibile
nell’economia dell’opera, spezzando un crescendo che sarebbe stato
difficilmente gestibile sia musicalmente che interpretativamente, e
fornendo uno scorcio di approfondimento psicologico che confermi il
carattere della donna fin qui rappresentato.

Scarpia non ha fretta, e sicuramente è plausibile che la cantante,


in questo momento supremo, veda passare davanti ai suoi occhi,

22
mentre il tempo si ferma, tutto il suo passato: una vita dedicata
all’arte, all’amore e alla pratica religiosa.26

Nel libretto originale è possibile osservare che, subito dopo questa


sezione, Scarpia esclama un “Risolvi!”, ma questi versi sono stati
successivamente rimossi, lasciando direttamente la supplica di Tosca
“Ecco… vedi le man giunte stendo a te!”, resa eloquente dal richiamo
alla marcia al supplizio precedente.
Nonostante la notizia della morte di Angelotti, a Tosca non rimane altra
scelta se non quella di acconsentire al ricatto sessuale che l’uomo le ha
eloquentemente ribadito; dopo un momento di esitazione, la donna si
trova costretta a cedere, per poter così negoziare le condizioni per la
salvezza della vita di Mario.
Che Scarpia non abbia alcuna intenzione di lasciar vivo il Cavalier
Cavaradossi è ben chiaro: le indicazioni librettistiche scrivono che il
poliziotto, nel dare l’ordine, fissa con intenzione Spoletta che accenna
replicatamente col capo di indovinare il pensiero di Scarpia.

Il patto tra Tosca e Scarpia viene istituito nel seno stesso


dell’ambiguità linguistica: le indicazioni tranquillizzanti che
Scarpia fornisce a Tosca sui modi in cui deve realizzarsi la
salvezza di Mario, comportano viceversa l’ineluttabilità della
catastrofe tragica. L’esibizione alla vittima di un fantasma di
verità che essa non è nelle condizioni di cogliere, non si deve
peraltro alla beffarda Schadenfreude che è pure la dimensione
psichica preponderante in Scarpia, ma alla funzionalità di un
inusitato discorso triangolare. Due sono infatti i destinatari
scenici di Scarpia, Tosca e Spoletta: essi devono ricevere due
messaggi opposti, ma la vittima deve credere che il complice
abbia ricevuto nulla più e nulla meno che il suo stesso messaggio:

26
Ibidem

23
l’anfibologia è dunque richiesta dalla contemporaneità che è
destinata a vincere la diffidenza di Tosca.27

Questa riflessione esprime chiaramente la complessità della situazione


drammaturgica rappresentata; se nella sua controparte in prosa, la
percezione dell’ineluttabilità della conclusione è affidata
semplicemente ad un sottinteso, espresso dal discorso messo in bocca
ai protagonisti, in questo caso è la stessa musica a lasciar presagire, in
un certo senso anticipando, il finale, tramite la reiterazione di alcuni
temi, come ad esempio la cellula melodica su cui Tosca apre il suo
dialogo con Scarpia, enunciando “Sgomento alcun non ho”, cui l’uomo,
in questo caso fa eco dicendo “S’adempia il voler vostro”; nessuno dei
due sta realmente dando voce a ciò che davvero pensa, e non è casuale
che Puccini adoperi proprio questo tema, come a voler mettere in
guardia lo spettatore dell’ingannevolezza della situazione.
La stessa cosa vale per la sequenza di accordi, identificata con il tema
del pozzo, rifugio impenetrabile e sicuro, che si ode in orchestra, in
sottofondo a questa scena; è una sorta di conversazione tra compositore,
che svolge una funzione di commentatore, e spettatore, della quale i
personaggi sono ignari.

Scarpia è ora pronto a ricevere la sua ricompensa, ma Tosca pone


però un’altra condizione: un salvacondotto per sé e per il suo
amante. Scarpia acconsente con galanteria, di nuovo con il ritmo
cullante in 6/8 dell’inizio. Come lui si mette a sedere per scrivere
il documento, gli occhi di Tosca scorgono un coltello posato sulla
tavola e un mostruoso pensiero prende corpo nella sua mente. Il
tema della lama ha già percorso più della metà della sua interezza
prima che lei agisca, afferrando il coltello e nascondendolo dietro
la schiena, in modo tale che quando Scarpia si avvicina per
abbracciarla può piantarglielo nel cuore. 28

27
G. PADUANO, La scenica scienza di Tosca in Il giro di Vite, La Nuova Italia, Scandicci 1992 pp
213-214
28
J. BUDDEN, Puccini, Roma, Carocci 2008. p.235

24
L’orchestra esplode in un fortissimo, connotato da sonorità graffianti e
sforzate degli ottoni e dei legni, in un procedimento che diventerà tipico
del cinema futuro.
Durante la pantomima che segue, identica a quella del dramma,
predomina il tema della lama, con colori più attenuati.
Tosca si pulisce le mandi dal sangue, prende il salvacondotto dalle dita
serrate del morto ed esclama il suo famosissimo verso conclusivo “E
avanti a lui tremava tutta Roma!”.
La sua formazione religiosa però prende il sopravvento e la pietà
cattolica ed il senso di colpa per il peccato mortale che ha appena
commesso fanno sì che la donna torni vicino al cadavere e disponga un
crocifisso e delle candele.29
La melodia trionfale che apre l’ultimo atto è ciò che rimane del
cosiddetto inno latino, che tanto aveva entusiasmato lo stesso Verdi, al
punto tale di fargli prendere in considerazione la possibilità di musicare
il soggetto.
Quello che segue è un quadro musicale dell’alba sulla campagna
romana; per molti versi, c’è una certa parentela con l’apertura del terzo
atto della Bohème, la cosiddetta Barriera d’Enfer, dimostrando e
confermando ancora una volta la grande abilità del compositore di
connotare in maniera precisa, tramite la pittura sonora, delle
ambientazioni ben delineate.
Il canto del pastorello non era presente nella prima edizione del libretto;
è un’invenzione vera e propria, esattamente come per il lampionaio di
Manon Lescaut, e non ha altra funzione se non quella di descrivere ed
evocare un ambiente che funga da contraltare a ciò che sta per accadere,
preannunciato dalla comparsa del tema di Scarpia, in maniera
sporadica, nascosto tra gli scampanellii delle pecore al pascolo.

29
Pare che sia stato lo stesso Puccini a insistere affinché fosse inserita nell’opera, avendo visto la
Bernhardt interpretare questa scena ed essendone rimasto particolarmente colpito.

25
Nel frattempo sul palcoscenico ha luogo una pantomima che attira
l’attenzione, con il carceriere che fa i preparativi per ricevere l’ultimo
prigioniero. Quando alla fine arriva Cavaradossi scortato da un
picchetto, il commento musicale è un’esposizione dell’aria più celebre
dell’opera, «E lucevan le stelle». Un’anticipazione completa così vicina
all’aria vera e propria è insolita per Puccini e sicuramente deve avere
uno scopo drammatico. Dalla sua prima apparizione sulla piattaforma,
Cavaradossi è sotto l’ala della morte – una condizione che per Puccini
non prefigura gloria postuma, ma solo oscurità e annullamento.

La grande capacità di Illica, Giacosa e Puccini, a questo punto, è stata


quella di fornire e sintetizzare un quadro completo ed efficace, in cui
musica e parola scolpiscono un personaggio a tutto tondo.
Pare che, inizialmente, i due librettisti avessero pensato ad un addio alla
vita e all’arte, molto più in linea con il personaggio originale.30
Puccini, dal canto suo, aveva già individuato il potenziale drammatico
della scena, sulla quale ha costruito tutto il terzo atto: è il legame tra
amore e morte quello che al compositore interessa maggiormente.
Sull’esempio di Meyerbeer, l’arioso del tenore E lucevan le stelle,
consta di fatto di una singola idea melodica, anticipata già nell’ingresso
di Mario sulla scena, ripetuta due volte, distribuendo le ripetizioni tra
l’orchestra, all’inizio, e poi al cantante; le parole chiave su cui lo stesso
Puccini pare abbia insistito con Illica e Giacosa sono proprio “E muoio
disperato!”.
Non c’è conforto nella morte, non c’è nessuna consolazione nei ricordi
del passato che, al contrario, non fanno che accrescere il senso di
angoscia e la volontà di rimanere attaccato alla propria vita (“E non ho
amato mai tanto la vita”)

30
Nel dramma di Sardou, l’ateo e volterriano Cavaradossi viene delineato calmo, impavido, a
sangue freddo: egli dorme prima della sua fucilazione, e quando Spoletta lo sveglia, annunciando
un visitatore, pensa dapprima a un sacerdote, il cui conforto spiritale rifiuta sgarbatamente.

26
Il tema centrale dell’opera è la dimostrazione della fragilità e
della finitezza dei sentimenti. La loro intensità viene solo
evocata, per essere subito svelata come precaria e illusoria, vuoi
come espressione dell’inconscio sulla base dell’esperienza di
impulsi istintivi ambivalenti, vuoi nel confronto con la morte
intesa come condizione definitiva. 31

Il principio drammaturgico, quindi, che si dipana in tutto questo ultimo


atto, è quello del processo di disillusione, che costituisce la cifra
interpretativa di tutta l’opera e, più in generale, della produzione
pucciniana, tanto da poter affermare che la struttura di questo atto è da
considerarsi, secondo alcuni studiosi come Döhring, come una sorta di
paradigma drammaturgico pucciniano.
Il grande duetto che segue, diviso e strutturato in una sorta di strano
rondò strumentale, fa avvertire ancora di più da una parte l’ineluttabilità
del finale tragico mentre dall’altra rappresenta quella fuggevole
illusione che i personaggi sembrano vivere, seppur funestata da
un’angoscia di fondo che entrambi avvertono.
L’ingresso di Tosca è annunciato ancora una volta dal tema d’amore;
nel dramma di Sarodu, la donna è selvaggiamente compiaciuta
dall’omicidio che ha commesso, mentre invece nella stesura di Illica e
Giacosa, lo stato d’animo è estremamente più complesso.
La donna esita, prova una sorta di vergogna per l’atto che ha commesso
e, in definitiva, anche perché è rimasta spaventata dai suoi sentimenti e
dal compiacimento di essersi liberata del suo aguzzino, un orrore al
pensiero della violenza che stava per subire.
È uno dei casi in cui l’opera può raggiungere un grado di realismo
maggiore rispetto al dramma recitato; nell’opera la narrazione si nutre
dei motivi oltre che del testo, permettendo così di intessere delle
complesse allusioni musicali, in un discorso che va avanti e procede con
rapidità; l’inutile appello alla madonna e ai santi, il rullo dei tamburi, il

31
S. DÖHRING, Il realismo musicale nella «Tosca», in Tosca, a cura di V. BERNARDONI,
Bologna, Il Mulino, 1996 p. 77

27
tentato stupro, l’idea dell’omicidio ed il compimento dell’atto sono
espressi in un racconto climax che culmina con un arpeggio su due
ottave.
Il Mario di Puccini reagisce, a differenza da quello di Sardou, in modo
più profondo e sentimentale, in linea con ciò che, durante tutta l’opera
è stato delineato; le bacia le mani, la conforta, le dice esattamente ciò
che la donna ha bisogno di sentirsi ripetere.
Tramite la contrapposizione dell’arioso, in cui predomina uno scavo
interiore, con una forte accentuazione emotiva, al grande duetto che
segue, in cui invece è l’esteriorità a tirare le fila del discorso musicale,
gli autori (perché questo effetto viene ottenuto sia tramite la stesura del
libretto, sia tramite la conduzione musicale) sviluppano una sorta di
tensione verso il finale tragico: lo spettatore avverte fin dal principio
l’esito infausto che viene preparato, ma la risoluzione di questa attesa
viene rimandata indefinitamente, finché non si arriva al preannunciato
colpo di scena, che però è tale solo per i personaggi, perché per il
pubblico era ben chiaro come la vicenda si sarebbe svolta.
Mario viene così coinvolto nell’illusione di Tosa, sebbene egli stesso
non voglia interromperla più per tutela nei confronti dell’amata, che non
perché sia genuinamente convinto di riuscire a salvarsi.
Il duetto infatti sconfessa già dal principio questa possibilità, così che il
dislivello tra la rappresentazione della speranza di Tosca e la
drammaturgia musicale produce un vortice di tensione che genera
suspence, a causa dell’immediatezza dell’immedesimazione.32
Il ruolo della musica, in questo senso, non è solo a supporto della
concezione drammaturgica, ma funge da completamento, spesso
andando a descrivere situazioni che contraddicono apertamente ciò che
il testo esprime.

32
Tutto ciò è reso possibile dalla contrazione di due avvenimenti separati nel dramma di Sardou in
un unico quadro. Inoltre, la fucilazione è rappresentata in scena, sotto gli occhi dello spettatore e
del personaggio di tosca, così che il pubblico sia quasi obbligato all’identificazione con l’eroina,
poiché, seppur virtualmente, condividono lo stesso ruolo.

28
Non è possibile un’analisi corretta della scena se non si determina
in che misura l’onniscienza violenta e immortale di Scarpia entra
a far parte del quadro tematico. In altre parole: ciò che è sorpresa,
con radicale carattere di novità, per Tosca, lo è altrettanto per lo
spettatore?
Nei riguardi del lieto fine atteso c’è sempre una sospensione, una
diffidenza, un allarme che certamente si comunica attraverso
l’eloquenza motivica del linguaggio musicale, ma ha solide
fondamenta nella gestione del libretto. In esso, i rapporti tra
finzione di secondo e finzione di terzo grado sono organizzati da
un uso scaltrito e singolare dell’ironia tragica.33

Dopo un breve raccordo, quindi, in cui la donna descrive il suo piano


per fuggire, professando una forte speranza in un domani in cui saranno
lontani e felici, su un accompagnamento sincopato, che non dà alcun
respiro alla frase musicale, anzi la rende instabile, ecco che Illica e
Giacosa collocano un vero e proprio sonetto (Amaro sol per te m’era il
morire): in un libretto in cui le sezioni in versi lirici difettano
considerevolmente, in cui anche le melodie più riconoscibili sono
agganciate a dei lunghi recitativi, in questo preciso punto i librettisti
collocano un sonetto nella sua forma più classica.
Due quartine di endecasillabi, in rima alternata, affidate alla voce del
tenore, e due terzine, dallo stesso metro, date al soprano, sempre in rima
alternata; lo stesso Ricordi ebbe a che ridire su questo duetto34,

33
G. PADUANO, La scenica scienza di Tosca in Il giro di Vite, La Nuova Italia, Scandicci 1992 pp
213
34
«Ma Iddio Santo e Buonissimo!... cos’è il vero centro luminoso di quest’atto?... Il duetto Tosca-
Cavaradissi. Cosa ho trovato?... un duetto frammentario, a piccole linee che impiccioliscono i
personaggi; ho trovato uno de’ più bei squarci di poesia lirica, quello delle mani, sottolineato
semplicemente da una melodi, pure frammentaria e modesta, e per colmo, un pezzo talis et qualis
dell’Edgar!!... Stupendo se per la sua essenza vien cantato da una contadina tirolese!!... ma fuori
di posto in bocca ad una Tosca, ad un Cavaradossi. Infine, ciò che doveva essere una specie
d’Inno, latino o no, ma inno d’amore, ridotto a poche battute! Così, il cuore del pezzo è formato
con tre squarci, che si susseguono, ma interrotti, e quindi privi di efficacia!! Ma davvero, dov’è
quel Puccini dalla nobile, calda, vigorosa ispirazione?... Ma che?... la fantasia di lui, in un
momento fra i più terribili del dramma, ha dovuto ricorrere ad un’altra opera?... Che si dirà di
questo mezo d’escire da una difficile posizione?...» Lettera Ricordi a Puccini 10 ottobre 1899.

29
soprattutto circa la scelta di Puccini di utilizzare un precedente
frammento melodico già impiegato nell’Edgar, riveduto e ampliato.
La melodia del tenore è distesa, quella del soprano è molto più
rapsodica, con salti verso l’acuto e uno sviluppo della linea decisamente
frammentato e spezzettato.
Il messaggio è ben chiaro: tra i due protagonisti, è Tosca quella che sta
tentando di convincersi di più, avvertendo il fondo della paura alla base
dei suoi pensieri, mentre il suo amante è ben più rassegnato, oramai,
verso la fine che lo attende.

L’ambiguità del carnefice genera quella delle vittime: così nel


terzo atto, Tosca riproduce il modello di ironia tragica più
famoso, anche perché legato all’incomparabile situazione di
Edipo Re: quello in cui le parole si rivoltano contro l’intenzione
e il desiderio del parlante […]
L’ironia tragica è un sistema linguistico fondato sull’economia:
due cose concentrate in un solo discorso e un discorso fatto solo
di fattori polisemici, senza che nessuna parola rompa l’equilibrio
indirizzando lo spettatore a uno dei due significati.

Ed è proprio all’insegna di ciò che tutta la scena successiva si concentra:


sono gli stessi librettisti a creare un circuito comunicativo in cui la sola
Tosca è esclusa; è Mario a rassicurare che cadrà sul momento e al
naturale, consapevole che non c’è alcuna possibilità che lui veda
un’altra alba oltre quella.
L’urgenza con cui si rivolge di nuovo a lei conferma ancora una volta
quanto il consenso di Cavaradossi sia triste, preferendo ascoltare la voce
di lei quando insieme si abbandonano a un sogno di felicità futura; si
arriva così ad ascoltare l’ultimo frammento residuo dell’inno latino, uno
slancio retorico cantato da entrambe le voci all’unisono, senza gli
accenni voluti da Illica allo spirito dell’antica Roma che i avrebbero
dovuto portare nei loro cuori.

30
Ritorna ancora una volta il breve raccordo che aveva introdotto la
sezione del sonetto, che questa volta però funge da chiosa finale, prima
della marcia; questa di due elementi motivici contrastanti, uno di natura
cerimoniale e l’altro di natura emotiva.
La fisionomia è quella di una marcia distorta in modo grottesco, con tre
sezioni, che scandiscono l’ingresso del plotone, l’esecuzione e l’uscita,
differenziate da sonorità orchestrali ben recise: l’unione di tutto ciò crea
una sorta di danza cerimoniale, che sorregge l’avvenimento centrale
come una sorta di rituale.
Il punto culminante di questa dialettica tra apparenza e realtà è il
momento in cui l’ironia tragica viene prepotentemente a galla, con
Tosca che esclama “Ecco un artista!”
Per il finale, inizialmente, si pensava ad uno sviluppo nella tradizione
del primo Ottocento, con la possibilità di introdurre una scena di follia,
soluzione che sembrò piacere moltissimo anche a Sardou stesso;
Puccini invece optò per un finale breve, rapido, così da prolungare
quello stato di choc che deriva dalla risoluzione della tensione di
suspence; la musica funge da sfondo sonoro e da propulsore, con un
crescendo orchestrale che rappresenta l’avvicinarsi della folla a Tosca.
Le didascalie prescrivono che Tosca riesca a sfuggire ai suoi persecutori
per un attimo e, vedendo il parapetto, decida di saltare giù solo come
ultima via d’uscita.
In punto di morte, è Scarpia che Tosca invoca, prima che parta la ripresa
a piena orchestra del lamento di Cavaradossi: nonostante le critiche
mosse da una certa fetta degli studiosi Pucciniani, è perfettamente
plausibile che sia proprio questa la scelta di Puccini per sottolineare
ancora di più, tramite il suo tema riassuntivo, il binomio inscindibile tra
amore e morte, tema cardine dell’opera. È la disperazione totale di
fronte ad una morte senza trasfigurazione.

Tosca è un’opera d’azione e in questo stanno sia la sua forza che


i suoi limiti. Il fatto che la situazione cambi continuamente
impedisce l’esistenza di quelle pagine di grande

31
approfondimento che si trovano in Manon Lescaut e nella
Bohème. Il termine caleidoscopico è particolarmente adatto al
denso insieme di motivi. Allo stesso tempo, eventi sensazionali
richiedono più che un’usuale presenza di musica “di effetti”:
tratti isolati di brutalità, strappi tonali, cascate orchestrali sopra
armonie dissonanti che a volte forzano la coerenza musicale e
nello stesso tempo non consentono mai che la tensione si allenti.
Eppure entro un andamento inesorabile trovano posto alcune più
deliziose ispirazioni liriche di Puccini: «Recondita armonia»,
«Vissi d’arte», «E lucevan le stelle», ognuna perfettamente
coerente con il personaggio e con la situazione.35

2.3. 14 Gennaio 1900, la prima di Tosca.

La Tosca andò in scena al Teatro Costanzi di Roma, oggi Teatro


dell’Opera, la sera del 14 Gennaio 1900; sul podio il maestro Leopoldo
Mugnone, poiché Toscanini, che avrebbe dovuto dirigerne la prima, era
occupato a tempo pieno alla Scala.
Il ruolo eponimo fu dato alla soprano rumena Hariclea Darclée, cantante
dalla vocalità sicura e di bel timbro, che pare però difettasse di presenza
scenica e di temperamento: nonostante ciò, era stata la prima interprete
della Wally di Catalani e dell’Iris di Mascagni, e aveva in repertorio
molti dei ruoli delle eroine verdiane e belliniane, come Gilda, Aida,
Violetta, Desdemona, ed era stata una delle prime Mimì della Bohème,
antecedente a Tosca di appena pochi anni.
Scarpia era Eugenio Giraldoni, il figlio di Leone Giraldoni, famoso per
essere stato il primo Conte di Luna nel Trovatore e il primo Renato in
Ballo in maschera, ma, a differenza di suo padre, era questi
particolarmente versato nel repertorio verista a lui contemporaneo,
grazie ad una voce scura e risonante e forte di una presenza scenica
invidiabile, che lo resero l’interprete perfetto per Scarpia.

35
J. BUDDEN, Puccini, Roma, Carocci 2008. p.240

32
La parte di Mario Cavaradossi era invece affidata a Emilio De Marchi,
nonostante in un primo momento pare che fosse lo stesso Caruso ad
aver domandato di poter essere lui, ma, su insistenza di Ricordì, Puccini
preferì affidarsi ad un tenore più esperto e affidabile.
La voce di De Marchi è sopravvissuta in un frammento di registrazione
audio in una delle recite di Tosca, nel 1903 al Metropolitan; la vocalità
si prestava bene ad un repertorio del belcanto romantico, che
comprendeva i ruoli di Alfredo, Edgardo, Duca di Mantova, Enzo (La
Gioconda) Riccardo (Un ballo in Maschera); scrivono di lui:

«...un prodigio di tesori vocali. Facile, instancabile,


coscienzioso, spontaneo timbro che ascende alle vette tenorili più
ardue e più argentine. Esecuzione scenica non meno elegante e
coscienziosa" Emilio De Marchi, nella parte di Cavaradossi...
giustifica i trionfi riportati in Italia. Possente nella voce, prestante
nella persona, energico nella dizione, egli è un Mario ideale ...»36

Scenografie e costumi erano di Adolf Hohenstein: i suoi bozzetti


originali sono stati utilizzati per una messa in scena del 2015, al Teatro
dell’Opera, permettendo così di poter avere un’idea di come fosse
vedere a teatro Tosca, nella sua prima esecuzione.37
La critica, seppur in maniera cortese e moderata, non decretò un
successo unanime, anzi, tutto il contrario: nonostante il bis delle due
romanze del tenore e di quella del soprano, l’accoglienza fu piuttosto
tiepida. Erano presenti in sala, oltre alla Regina Margherita e al generale
Pelloux, anche Pietro Mascagni, Francesco Cilea, Alberto Franchetti,
Giovanni Sgambati, Filippo Marchetti e Mario Costa.
Pare che ci furono parecchie contrestazioni specialmente dopo il
secondo atto, e pungenti riserve in più di un settore.

36
Gazzetta musicale di Milano, LV [1900], p. 135
37
In appendice al lavoro, saranno collocati tutti i bozzetti utilizzati, insieme alle foto di scena dei
primi interpreti e alle foto dell’allestimento del 2015.

33
Nel “Popolo Romano” Alessandro Parisotti fa un’analisi minuziosa
dell’opera, dove attraverso riconoscimenti considerevoli traspare una
certa delusa freddezza.

«Il fatto d’aver dinanzi una tela di così forti colori è senz’altro la
causa prima per la quale rimane arduo non lasciarsi prender la
mano dal dramma. Tosca è una lotta a ferri corti fra le situazioni
eminentemente passionali e i colori della tavolozza melodica.
Non sempre la vittoria rimane alla tavolozza.»

Anche “Il Messaggero” solleva alcune perplessità, circa la nuova


partitura di Puccini:

«Un dramma così gagliardo come quello del Sardou aveva


bisogno di parecchi elementi per essere musicato, occorreva
innanzituttto che il maestro sentisse quei personaggi, palpitasse
della loro passione. Il maestro Puccini, che possiede invero
queste eminenti qualità, ha saputo vincere la prova? Superare
questi ostacoli? In questa Tosca da cui prorompe così
limpidamente la sua anima d’artista, c’è, con la potenza del
dramma, la dolce pieghevolezza degli accordi, la libera agilità del
ritmo, la ricca armonia delle tinte opposte e sovrapposte; c’è la
frase larga, sviluppata, compiuta che ci fa fremere d’amore o di
odio, che ci strappa la lacrima o la maledizione; ma non c’è
l’intima fusione, la corrispondenza esatta tra l’azione e la musica;
e ciò ha impedito forse che il giudizio del pubblico fosse così
unanime come avremmo desiderato.»

In linea con queste recensioni si collocano anche quelle di altre


importanti testate giornalistiche della critica romana, che di fatto non
ebbe di fronte a Tosca un atteggiamento molto diverso da quello della
critica torinese al momento de La Bohème, seppur più garbata, ma
sostanzialmente negativa.

34
I critici, mentre rendevano omaggio all’originalità di Puccini,
avanzarono riserve sull’opera nel suo complesso. Soprattutto, proprio
come Giacosa, trovarono che il soggetto non fosse adatto ad essere
musicato.
Eppure, come spesso è accaduto durante la storia del Melodramma,
Tosca divenne rapidamente una delle opere più eseguite al mondo,
entrando a pieno titolo e fin da subito nel repertorio dei grandi teatri,
arrivando, oggi, a contendersi il primato di opera più rappresentata al
mondo, con la Traviata di Giuseppe Verdi; non è da considerarsi come
il capolavoro assoluto del compositore lucchese, ma è indubbio come,
fin dal principio, Tosca sia stata la meno soggetta a ripensamenti, tagli,
aggiunte o riformulazioni di intere scene, come è invece accaduto con
Madama Butterfly.
Nel dettaglio, gli unici tagli che furono operati includono:

- Cinque battute aggiuntive nel duetto Tosca – Cavaradossi del


primo atto (Non è arte è amor)
- Un diverso finale del Te Deum corale alla fine del primo atto
- Una versione più lunga della sdegnata preghiera di Spoletta alla
fine della tortura di Cavaradossi
- Una riscrittura del famoso verso di Tosca “Quanto? Il prezzo”
- Due battute aggiuntive alla fine di “Vissi d’arte” (previste già
nel libretto di Illica e Giacosa con i versi “Risolvi/ No”)
- Una versione assai più lunga della scena della morte di Scarpia
e delle parole finali di Tosca
- Una conclusione sensibilmente diversa per gli ultimi momenti
dell’opera, con un’intensa declamazione di Tosca e una ripresa
più ampia di “E lucevan le stelle”

La prima cosa da dire su questi passaggi è che, senza alcun dubbio, fu


Puccini stesso a decidere di eliminarli tutti: al più tardi subito dopo la
prima rappresentazione, ma forse già durante le prove. Non è dunque il

35
alcun modo possibile affermare che questa versione sia quella più
autentica, suffragata dall’autorità del compositore o che il compositore
avrebbe preferito.38
Si può perciò affermare che, in linea di massima, la versione che
continuiamo a vedere a teatro nei nuovi allestimenti e nelle repliche di
quest’opera sia quella che il 14 Gennaio del 1900 andava in scena al
Teatro Costanzi, inaugurando un nuovo secolo, sia da un punto di vista
cronologico, sia per quel che riguarda un nuovo modo di pensare,
concepire, comporre e rappresentare l’opera lirica.

38
Cfr R. PARKER, “As a stranger give it welcome”: la prima Tosca, in P.d.s Teatro alla Scala,
Milano, stagione 2019-20
La Scala ha inaugurato la stagione 2019-20 proprio con Tosca, su una versione che portasse in
scena tutto ciò che Puccini stesso aveva tagliato, ma con un allestimento nuovo.

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