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Sappiamo che, a differenza dell’Occidente, con le sue distinzioni tra sacro e profano operate dalla
sociologia e della fenomenologia delle religioni, «il tratto caratteristico dell’Oriente è quello di
essere in tutto e per tutto spirituale, religioso; e quindi, la sua visione del mondo e della società è
anch’essa religiosa» (Dh 222). «L’aspirazione più profonda e persistente dell’induismo è
un’ostinata ricerca dell’esperienza interiore e della percezione del divino» (Dh 59). Infatti,
«l’induismo è una religione compenetrata da una profonda esperienza mistica che ne caratterizza
in modo esplicito la natura salvifica» (Dh 106) e «la vita religiosa indù ha come suo scopo
essenziale l’esperienza del divino, concepito sia come Dio personale sia come l’Assoluto
sovrapersonale; tale scopo viene raggiunto attraverso tre atti religiosi: il culto, la preghiera e la
meditazione, che si presentano come fasi successive del cammino che porta l’uomo religioso
all’esperienza del divino» (Dh 78). Questi aspetti appaiono più chiari col passaggio dalla fase del
Vedismo a quella del Brahmanesimo.

1. Il BRAHMANESIMO (900-500 a.C)

A. CARATTERISTICHE GENERALI: LO SVILUPPO STORICO DAL VEDISMO

- Il Vedismo gravita attorno al sacrificio compiuto dai brahmini (da “bràhmana: F 296; ma a 295 e 299
brahmani), i discendenti degli antichi veggenti (F 296): è un sacrificio riparatore (contro le trasgressioni
all’ordine socio-cosmico retto dal Dharma). Ed è un sacrificio propiziatorio: conserva l’universo
nell’esistenza e rinsalda e ricompone i legami con le divinità (F 294).
- Col passare del tempo, a mano a mano che le popolazioni degli Arii penetravano nel subcontinente
indiano, stabilendosi nella valle del Gange, il sacrificio diviene sempre più complesso, e la classe
sacerdotale dei bramini (F 296, 307-308), che appartenevano al mondo degli Arii (F 293) (il sacerdote, il
bràhmino, da brahman, maschile; da qui Brahmanesimo), coloro che disponevano della parola/formula
sacra (brahman, neutro) dei Veda, gli unici che potevano officiare i riti sacrificali, si andò sempre più
specializzando e acquisendo prestigio (godendo di molti privilegi).
- Tra il X e il VII secolo a.C si accentuò l’importanza della purezza rituale per entrare in contatto con gli
dèi e l’importanza della parola sacra dei Testi (F 296-298). Tale parola è carica di forza creatrice
(=magia)1, tanto che gli dèi sono sottomessi ad essa; l’intervento degli dèi è superfluo e la loro importanza
diminuisce. La parola (contenuta nei testi) ha un potere magico in quanto è efficace per se stessa; e perciò
dà potere a chi la conosce (i brahmani). Già negli Atarvaveda si legge che chi possiede le parole genera il
mondo (VI, 61,2-3). Sul “Nome” nella Bibbia cf. CCC 203, 209, 213. «Nominare un essere divino
equivale a manifestarlo» (FS 39)
- Se le loro formule garantiscono il mantenimento del Dharma, si fa strada l’idea che, in realtà, gli dèi sono
loro sottoposti. Proverbi del tempo: «le formule legano gli dèi all’esaudimento»; «il cosmo è sottomesso
agli dèi, gli dèi agli scongiuri, gli scongiuri dipendono dai brahmani. E perciò i brahmani sono i nostri
dèi».
- Dunque, non sono più gli dèi del pantheon vedico a garantire la salvezza. Ora viene negato il carattere
trascendente e/o personale delle divinità. Si fa strada l’idea che la salvezza/liberazione non è più presso
gli dèi, e nemmeno tramite i sacrifici, bensì mediante la conoscenza delle formula sacre, che danno
potere. La caratteristica principale (e la differenza) del brahmanesimo rispetto al periodo vedico è la
minore importanza attribuita alle divinità, a favore della casta sacerdotale (Br 23).
- Peraltro, per reazione alla supremazia che andavano acquisendo i brahmani, sorsero i movimenti di
riforma del Buddhismo e del Giainismo (nel VI sec. a.C.): Rag 24-25 →

B. I TESTI SACRI (oltre ai Veda):

 BRÀHMANA: “Testi sacrificali” (900-600 a.C.) che commentano i Veda e i riti, descrivendone
minuziosamente origine, significato e fine (F 296)
 ÀRANYAKA: (“Testi della foresta”), su parti segrete dei riti e corrispondenze col cosmo (F 298)
 UPANISAD (“sedersi accanto al Maestro”, Dottrina segreta, F 298-302): trattati mistico-filosofici
esoterici (800-300 a.C.) che si preoccupano di rispondere alle domande filosofiche sull’origine dell’uomo
e il suo destino, come anche sul fondamento dell’universo. Chiamati Vedanta = fine dei Veda. Sono

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Rag 22-23
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destinati agli iniziati; il contenuto non è sistematico, ma contengono le dottrine più importanti
dell’induismo sul divino, sostenute dal bisogno di superare il formalismo rituale → Classici delle
Religioni, Utet
- Suddivise in 13 trattati (o libri), distinti in adhyàya (letture) [o prapàthaka, recitazione], raggruppate
in sezioni o capitoli (brahmana) [o khanda, sezione; anuvàka, capitolo]

1. L’ETICA (delle Upanisad)

- La prima caratteristica delle Upanisad è lo spostamento dell’interesse, e perciò della riflessione


(filosofica), dalla formalità rituale (che tuttavia non viene negata) all’interiorità, la quale favorisca
«un’esperienza mistica che…sciolga i vincoli dell’ignoranza dell’uomo e gli sveli l’Assoluto» (F 299ss.)
- La dottrina nuova introdotta dalle Upanisad è quella del samsàra (passaggio da uno stato all’altro), legata
alla legge del karma (già presente nel Vediamo): ogni azione (buona o cattiva) è legata alle sue
conseguenze (F 299ss).
- Si afferma che anche il regno degli dèi è soggetto alla legge del karma. Per questo, a differenza del
Vedismo, il desiderio dell’uomo non è più il cielo con la compagnia degli dèi, perché anche loro sono
sottoposti alla legge del karma (→stessi principi di Buddha). Si nega il carattere trascendente della
divinità. La liberazione non avviene mediante i sacrifici, ma attraverso la propria perfezione spirituale.
- La vita dei brahmani diventa modello di vita per tutti, in quattro stadi (F 309-310): 1) studiando con loro i
Veda (rapporto maestro-discepolo); 2) costituendo una famiglia, e rendendosi abile in una professione; 3)
lasciando la famiglia e ritirandosi nel bosco, dedicandosi alla meditazione e ascesi (è considerato come
morto dal mondo); 4) vagare come pellegrino, distaccandosi dai beni materiali.

2. LA CONCEZIONE DEL DIVINO E L’ANTROPOLOGIA

- La tendenza dei Veda a ridurre la molteplicità degli dèi a un unico principio, diviene ora dominante (F299)
- “La tendenza all’unità (presente nei Veda) caratterizzerà la speculazione teologica della classe
sacerdotale; speculazione che, postasi sulla via dell’astratto, si avvierà a quel panteismo che più tardi, tra
l’800 e il 500 a.C., trionferà nelle idee conservateci nell’ultima parte della letteratura vedica, le Upanisad”
(Rag 22).
- La perfezione spirituale dell’individuo è legata alla nuova concezione della divinità. Nel Brahmanesimo
l’Assoluto, l’Uno, o Dio supremo è il Brâhman (F296,299), che è impersonale, privo di sentimenti e di
forma, eterno (→come nel Taoismo), inconoscibile (Rag 23; Kena Up I,3): da qui la “teologia apofatica o
negativa: solo riconoscendo di non conoscerlo si può dire qualcosa di esso” (Rag 23; Kena Up II,3). Si fa
strada la concezione monista della divinità (in realtà è una forma di panteismo: Rag 22,24), con la dottrina
dell’advaita (non-dualità), della indistinzione tra creatore e creatura: dal Brahman deriva ogni cosa,
come il filo dal ragno; la scintilla dal fuoco, i raggi dal sole.
* Il concetto di brahman si è evoluto da preghiera/mantra (nel Vedismo), a Essere assoluto dal quale
tutto deriva e che tutto permea.
* Emerge anche la nozione di Brahmà, demiurgo personale responsabile della manifestazione del
mondo (F 296)
- Due concezioni del Brahman, e perciò del modo con cui si entra in contatto con la divinità.
Sue modi di esistenza (→come nel Taoismo):
a) Nirguna Brahman: la realtà divina al di sopra delle categorie e delle perfezioni
umane, senza relazione con il mondo;
b) Saguna Brahman: si entra in relazione con qualità divine che permettono il
rapporto (onnipotenza, bontà, ecc.).
«Per la mente indù è difficile capire sia la personalità divina sia quella umana, poiché considera il
Dio personale Dio in quanto riflesso attraverso l’ignoranza cosmica (màyà). È Dio in quanto
saguna (con attributi): il divino in quanto riferito a noi. In se steso Egli è nirguna (al di là degli
attributi)» (Dh 249-250; 255-256)
- Ebbene, ogni realtà, divina e umana, si identifica con il Brâhman. Anche l’«io» (Àtman) dell’uomo (F
300), che rappresenta il sé individuale e cosciente, il suo respiro e la sua persona (l’anima individuale per
il Vedismo).
- «I concetti sono di origine diversa: il Brahman appartiene alla tradizione sacerdotale e nasce dalla
speculazione sull’armonia fra l’ordine cosmico e la natura dei riti sacrificali; l’atman è il fulcro della
tradizione ascetica che ha scavato negli stati interiori della coscienza. La speculazione delle Upanisad
congiunge i due percorsi, nell’idea che Brahman e atman sono i due nomi della verità, due prospettive di
un’unica realtà» (F 300).
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- L’dentificazione dell’anima individuale e immortale con l’Assoluto universale domina tutta la concezione
filosofica e mistica delle antiche Upanishad. «Tat tvam asi» (“tu sei quello, il Tat [pronome dimostrativo
neutro: “Ciò”: Rag 23; F 300], il principio supremo” opp. “questo sei tu”); «Aham Brahmàsmi” (“io sono
brahman”). (Shvetâshvatara Upanisad 1,10; 3.2; 4.20; Brhadàranyaka 1,4,10). Fine dell’uomo, e «nuova
ermeneutica di salvezza» (F 300) è «l’assorbimento totale nel Brahman» (Rag 24): «l’uomo è chiamato a
contemplare l’unicità dell’esistente, cioè l’identità tra l’Uno e il Tutto, al di là delle apparenze del
molteplice…realizzare quest’idea significa liberarsi della propria individualità empirica, superare le
barriere dei dualismi concettuali e mettere fino all’eterno ritorno del mondo» (F 300). «Come uno
specchio impiastrato di sporcizia risplende luminosamente non appena è stato pulito, così colui che
dimora nel corpo, non appena riesce a contemplare il proprio Io come esso è realmente, diventa uno,
raggiunge la sua mèta e si libera dal dolore. Quando un uomo così integrato contempla il Brâhman per
mezzo del proprio Io, come per mezzo di una lampada, allora egli conosce il puro Dio eterno che
trascende tutte le cose come esse sono realmente e, conoscendolo, è liberato da ogni legame»
(Shvetâshvatara Upanisad 2,14-15).
- Ecco la dottrina monista dell’advaita (o non-dualità) (F 304): tutta la realtà (uomini e dèi) è l’unica e
medesima realtà; la distinzione è solo un fenomeno illusorio ( màyà). Gli indù considerano questo
concetto-cerniera tra il Vedismo e l’Induismo come uno dei contributi più alti all’umanità, in quanto il
sapere più alto (e salvifico) ed il valore più grande della vita sono costituiti dalla meditazione sull’Atman.
- Le contemporanee sette religiose di origine indù (Meditazione trascendentale, ecc.) fanno leva su questo
concetto, che condiziona anche la contemporanea categoria di spiritualità (intesa spesso come ricerca di
divino dentro noi stessi).
- Un secondo nome dell’Assoluto è Purusa. Già conosciuto da Rgveda X,90, la riflessione verte sul
principio che contiene l’universo, si identifica con l’Assoluto, e che viene smembrato dagli dèi per dare
origine a tutto ciò che esiste (F 300). Nelle Upanisad, influenzate dalle tradizioni Yoga e Sàmkhya (F
300,315-317)2, «emergono con sempre maggiore chiarezza delle formulazioni teistiche di carattere
devozionale» (F 300), centrate sulla figura di Purusa. «Si delinea un nuovo orientamento verso l’Assoluto,
bastato sull’identità del purusa in tutti gli uomini col Purusa divino che li ha generati» (F 300).
L’itinerario dell’asceta consiste «nel suo progressivo svincolarsi dalla propria individualità empirica fino
all’annullamento nel supremo Purusa», che viene identificato ora con Visnu, ora con Shiva (F 300). In
definitiva: «la nozione di Assoluto assume due possibilità di interpretazione: come Brahman, principio
impersonale e come, Dio. L’identità tra Purusa e Visnu o Shiva, così come le sintesi fra tecniche yoga e
l’abbandono di fede costituiranno gli elementi portanti del [successivo] induismo classico» (F 300-301)
- L’atman non è nato, né perisce. Esso trasmigra da un’esistenza a un’altra, in un ciclo continuo di vita,
morte e rinascita (samsàra), «che si alternano in una spirale angosciante infinita. E maggiore angoscia
deriva dal sapere che questo eterno reincarnarsi dell’atman è guidato da una logica ferrea, il karman.
L’esistenza in cui l’anima si trova (vegetale, animale, uomo o donna, di casta superiore o inferiore)
dipende dagli atti compiuti nella vita precedente così come ogni atto che si compie in questa vita porterò
i suoi frutti nelle reincarnazioni, migliori o peggiori, del futuro» (F 301). Nelle Upasisad «il karman…è
una legge inesorabile di retribuzione che tiene prigioniero l’uomo nel ciclo delle rinascite » (F 301)
Anche il buddhismo l’accetterà (F 301). Il karman sarà la risposta al problema del male nel mondo, ma
non lasciando alcuna consolazione: «l’uomo deve accettare il suo destino e con esso di essere causa del
proprio dolore. Vi è un senso di terribile solitudine, di stanchezza esistenziale nella teoria del samsàra e
del karman…Nasce una visione pessimistica dell’esistere e la ricerca di una vita che porti al
superamento del relativo, alla figa da un destino di illusione e sofferenza» (F 301).).
- «Il nuovo ideale soteriologico insegnato dalle Upanisad, molto vicino alla speculazione buddhista, pone la
salvezza nella liberazione». Moksa desgina la liberazione, lo scioglimento di questo vincolo, sia
attraverso l’azione, sia mediante la conoscenza (vidyà, jñàna) della vera natura del proprio sé (F 302),
mediante il superamento del ragionamento convenzionale che contrappone dualisticamente soggetto e
oggetto (F 302; P 13). La salvezza, infatti, «non può essere raggiunta solo attraverso l’azione, che
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In un complesso di religioni e riti come quello hinduista, dove non esiste un magistero, è comprensibile che si siano
sviluppate scuole di pensiero filosofiche (darshana) che hanno approfondito il sapere della rivelazione vedica,
proponendo però un cammino spirituale di salvezza autonomo per i loro seguaci: se ne contano 6, tra le più importanti:
la Scuola Vedànta, col noto e influente teologo Shankara (VII-VII sec. d.C.) che formulò la posizione teoretica “non-
dualista” (advaita), secondo cui esiste soltanto l’Assoluto, il Brahman, «uno senza secondo» (F 313); il mondo è solo
apparenza e la liberazione consiste nella conoscenza vera che elimina l’illusione dell’effimero. L’atman si riconosce ed
estingue nel Brahman. All’interno della Scuola, le tendenze «teiste e quelle assolutistiche» (F 314). Altre scuole
importanti sono la Sàmkhya e lo Yoga, con i suoi otto stadi di progressione spirituale, secondo la quale l’unica forma di
salvezza è data dalla conoscenza, più che le pratiche religiose: «lontano dal mondo, in solitudine, l’uomo, sotto la guida
del suo maestro spirituale, controlla e sopprime gli stati psicomentali e infine supera i fattori che li generano e cioè
l’attività dei sensi e del subconscio» (F 315). Sullo Yoga, cf. F 312-317.
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produce effetti karmici che portano alla rinascita e ad altre azioni e così via. Quindi deve essere
subordinata ad un più alto ideale: la conoscenza della vera natura del proprio sé…liberazione è
liberazione dall’ignoranza. L’uomo deve rinunciare ai suoi desideri, distaccarsi dalle illusioni del suo sé
empirico e attraverso lo studi e la meditazione, con la guida di un maestro…, raggiungere la
comprensione mistica del Brahman e realizzare l’identità profonda con l’Assoluto» (F 302). Il tema in Gv
9,2-3; 5,14 e Lc 13,1-5, ma con risposte diverse.
- Le diverse via di salvezza →

- La perfezione spirituale, cui si accennava in precedenza, consiste nello scoprire e prendere consapevolezza
dell’unità col Brahman mediante il pieno sviluppo delle nostre facoltà intellettuali, come la conoscenza e
la meditazione. Il cammino di ascesi, che permette di liberarsi dai desideri, favorisce questo percorso.
Questo cammino è condotto con l’insegnamento di un maestro bramino, il guru. È lui che, interpretando i
Veda, insegna i segreti dell’Assoluto ai discepoli, a scoprire il Brahman dentro di sé, assegnando a
ciascuno il proprio mantra (F 298). Si tratta di un insegnamento esoterico. L’obiettivo, come sostengono
ancora gli indù contemporanei, è di raggiungere la perfezione attraverso la manifestazione della nostra
innata divinità, così che si comprenda come il sé, in rapporto col Brahman, è paragonabile al sale
disciolto nell’acqua (Chândogya Upanisad 6,13-3). Attraverso la manifestazione/realizzazione dell’unità
con la divinità che è in noi, attraverso il pieno sviluppo delle nostre facoltà, l’uomo supera il samsara,
ottenendo la salvezza cogliendo l’Essere. L’evoluzione e la regressione nella sequenza infinita delle
rinascite dipende da come l’uomo realizza la sua divinità e nella spersonalizzazione nel Brahman.
- - Tra le forme più raffinate di meditazione figura lo Yoga: disciplina attraverso la quale si ottiene il
dominio (= acquietamento delle funzioni) su tutte forze corporali e spirituali mediante esercizi di
meditazione, favorita dalla concentrazione su un oggetto. Il fine varia secondo dottrine, ma si tratta di
rendere libero l’intelletto in cui il sé si rispecchia e si riconosce come identico al Brahman (→ Libro p.
151-152).
- L’idea centrale del Bramanesimo dell’identificazione soggetto-Assoluto influenzerà anche la fase
successiva dell’Induismo, che pure insisterà sull’amore confidente nei confronti del Dio supremo Visnu o
Shiva) al fine di raggiungere la salvezza.
Le tradizioni e le dottrine induiste, anche se contraddittorie, anziché escludersi come nella logica occidentale, si
sovrappongono e coesistono senza difficoltà perché considerate come aspetti parziali della realtà. Non deve
sorprendere, quindi, se nell’induismo registriamo sia una visione teista (che distingue la divinità e l’uomo) sia
una visione monista, benché la tendenza prevalente sia quella del monismo panteista. Pertanto, anche nella 3 a
fase dell’induismo, chiaramente teista (la divinità è distinta dall’uomo) è possibile (non necessario) che
l’esperienza della divinità sia interpretata sulla linea dell’unità monista. L’uomo è divino per natura, per cui la
differenza con gli dèi (anche Visnu o Shiva) è solo relativa. Per i teisti, Dio è Ìshvara (Signore); per i non
dualisti (monisti) è l’Assoluto Brahman (Dh 59 n. 1)
- Osservazioni dal punto di vista di teologia delle religioni, che i trattati di storia delle religioni tralasciano.
Come osserva H. Bürkle3, il tat tvam asi non garantisce
1. il fondamento dell’unicità e della specificità della persona e dell’atto creatore di Dio (il “nome”),
giacché la realtà è la medesima cosa del soggetto;
2. di conseguenza non è in grado di garantire la dignità dell’unicità individuale di ogni singolo uomo,
giacché il valore persona non si può pensare come uno stadio di passaggio
3. dal punto di vista teologico, ne scaturisce la categoria della «divinizzazione dell’uomo», concetto
caro al cristianesimo e ai Padri, soprattutto nella sua corrente orientale (in occidente è
sviluppato in DV 2; 2Pt 1,4). Nel cristianesimo è un dono.

- Conclusioni dal punto di vista della fenomenologia delle religioni.


La concezione delle Upanisad, con il fluire senza gioie di nascita e morte, dà una visione pessimistica della
vita, rispetto a quella più serena e naturalistica dei Veda. Qui si tratta di evadere dalla ruota delle esistenze.
- L’evoluzione e la regressione nella sequenza infinita delle rinascite dipende da come l’uomo realizza la
sua divinità: fin quando l’individuo è sotto l’incantesimo dell’ignoranza a proposito della propria
dimensione divina, egli ne è schiavo in tutti gli aspetti. Il fine è spersonalizzarsi nella pace (→ che col
buddhismo si chiamerà Nirvana)
- Nell’islam, il tema della divinizzazione non solo è totalmente estraneo, ma soprattutto è contestato.
- In positivo, però, la dottrina del karma delle Upanisad incrementa e favorisce un comportamento etico più
consapevole e maturo, piuttosto che accontentarsi della correttezza della formalità rituale del Vedismo: ogni
individuo deve seguire la propria legge, stabilita dalla propria casta, e rispettarne gli obblighi e i doveri (il
dovere etico non è la scelta di valori di cui si è responsabili, ma nella realizzazione di ciò che il singolo è
destinato a compiere per nascita). L’induismo contemporaneo si sforza di reinterpretare questi principi in
3
H. Bürkle, L’uomo alla ricerca di Dio. La domanda delle religioni, Jaca Book, Milano 2000, 120-134
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direzione di un’etica della responsabilità: l’attenzione all’altro e l’etica dell’amore sono le tematiche
comuni col cristianesimo. Il vero brahmano non è colui che per nascita appartiene alla casta dei sacerdoti,
ma l’uomo dal cuore buono e dal carattere saldo.

2. L’INDUISMO (500 a.C→)


- Il tema di quello che viene chiamato «induismo classico» (F 301) è introdotto da Filoramo con una
presentazione (F 302ss.) delle principali opere di “rivelazione secondaria” (qui definite come «tradizione»),
cui abbiamo accennato all’inizio delle considerazioni sul Vedismo, quando le si distingueva dalle raccolte
di rivelazione primaria (definita come «rivelazione»), puramente divine (F 293,302): le Samhità, i
Bràhmana, gli Àranyaka e le Upanisad.
- La divinizzazione dei Veda fu una reazione al Canone buddhista, che vi si distingueva e allontanava,
conferendo al canone validità assoluta rispetto alle testimonianze umane (F 302)
- I testi della tradizione dovevano (inizialmente) servire per chiarire l’oscurità del linguaggio vedico e
insegnare i precetti con esempi chiari (F 302); la distinzione epistemologica tra rivelazione e tradizione
permise uno sviluppo speculativo più libero rispetto ai Veda, a condizione che non fosse in contraddizione
con essi (302-303). La rivelazione vedica continuava a vivere nella società indiana, con la rielaborazione
della smrti. La letteratura più rappresentativa del corpus della memoria è prodotta dalle scuole sacerdotali e
approfondisce i principi che strutturano il cosmo e la società (F 303)
- I Dharmasùtra (sutra: aformisma, discorso), 600/300 a.C -400 d.C. (F 303)
- I Dharmasàstra (sàstra : trattato dottrinale, leggi), tra cui il Mànavadhamasàstra (“Leggi di Manu”), con
le regole di vita dell’uomo nei suoi vari stadi dell’esistenza (F 303)
- Opere di letteratura epica, del mondo cavalleresco, alle corti dei re, esaltando ideali dei guerrieri e della
gloria in battaglia, narrando della sapienza e del divino e proponendo riflessioni morali; hanno l’intento di
produrre nel lettore un’emozione estatica e religiosa, uno stato di calma interiore nel lettore perché i
racconti appartengono all’eternità della storia (F 303): il Mahàbhàrata (guerra dei Bharata per la conquista
del trono) e il Ramàyana (gesti di Rama). Quest’ultima è la storia del principe Rama (dalla pelle azzurra,
avatara di Visnu, nobile e talentuoso), la sua abdicazione forzata e l’esilio nella foresta con la moglie Sita e
fratello Lakshmana. Sita è rapita dal malvagio demone Ravana. Da qui la battaglia tra Rama e Ravana. Il
poema, in cui prevalgono i temi etici, è composto di 24.000 versi. Il primo poema, invece, di 100.000 versi,
più teologico, narra la lotta tra i Kaurava e in Pàndava. Questi ultimi accedono al trono per merito di Krsna 4,
- I Puràna: libri (18 maggiori – Mahàpuràna - e 18 minori – Upapuràna) dottrinali e devozionali destinati
alle persone più umili, alle donne e ai shùdra (la classe degli schiavi) (F 303-305). Ampliano il patrimonio
mitico dei Veda, ispirandosi a tradizioni preariane, senza contrapporle: convivono pensiero razionale e
narrazioni legate al mito come vie per raggiungere la verità (F 305)
- Nei Mahàbhàrata è inserita la Bhagavadgita, «un testo di grande spiritualità e di fascino letterario, che
ha sempre goduto di un altissimo prestigio» (F 303 e 304). Scritta probabilmente dal III sec. a.C. ,
costituisce il VI capitolo della Mahabharata.
- Qui il Purusa prende il nome di un Dio, Visnu o Shiva, “superando” la fase del monismo (F 305).

-→ Come un asceta yogin, assorto nelle profondità della meditazione, il Dio si risveglia e scende negli stati
della meditazione, unendosi alla natura, la prakrti, e da questa interazione affiorano tutte le forme. Ma il Dio
è al di là di ogni sua manifestazione.
- In prossimità della grande dissoluzione (la fine del mondo), Dio riassorbe in sé tutte le creature: come
«emana da sé i mondi [ora] per salvarli li distrugge» (F 305); annullandosi in Dio vengono salvati (F 305).
Per salvarli li distrugge, così da poterli fare rinascere (F 305). Nella tradizione shivaita, Shiva è Purusa e la
sua sposa, la shakti, come prakrti, sono uniti al momento della dissoluzione dell’universo. È il tema
iconografico dell’Andrandàrìshvara, “il dio che è metà donna” (F 306). La loro unione rappresenta
l’esperienza ultima del riassorbimento di ciò che è distinto nell’unità primigenia del Brahman (F 306). Ma
verrà una nuova “creazione”: di nuovo scatenerà l’energia creativa della prakrti, per cui nuovamente l’Uno
si dividerà in molteplice (F 306).
- Si intravedono le tre figure divine principali della Trimurti: Brahmà è il Dio che crea. Shiva è il Dio
che distrugge e Visnu è il Dio che, in meditazione, preserva l’ordine di questo ciclo infinito (F 306). Le
antiche concezioni cosmogoniche dei Veda, col sacrificio di Purusa, ora sono reinterpretate con Brahmà che
è l’universo e la vittima sacrificale; Shiva colui che distrugge il mondo col fuoco e compie il sacrificio.
Visnu è il principio stesso del sacrificio, che preserva i resti dell’offerta perché saranno l’inizio di un nuovo
ciclo sacrificale; Visnu si risveglia dalla meditazione, Brahmà rinasce e l’universo si ricrea (F 306).

4
Cf. Ferro p. 84
6
- Ma perché la “creazione” dell’universo? Non perché Dio sia obbligato a fare nulla (come dichiara Krsna
all’eroe Arjuna in Bhagh. III, 22): è incondizionato, senza carenze o desideri. La risposta è nel termine lìlà:
gioco, attività spontanea, piacevole e innocente, fascinosa e illusoria, simile al capriccio delle persone di
alto rango che passano il tempo. Un agire assolutamente libero (F 306). Le → avatara di Visnu e tutti i suoi
atti sono pensati come atti ludici (F 306), “trasgressivi” e “liberatori”, giochi d’amore che superano le
regole del comportamento tradizionale (F 307); Dio agisce in uno stato estatico simile a quello dell’artista
nel momento della tensione creativa (306-307), «per puro suo gusto e senza nessun vincolo» (F 307). Il →
comportamento degli dèi dell’antica Grecia
- Nella Bhagavadgita si evidenzia come Krsna agisca obbedendo al suo “dovere” di proteggere il bene del
mondo. In ciò la speculazione visnuita non vede alcun contrasto con quanto detto al riguardo dell’assoluta
libertà divina nell’azione: «in dio l’“azione di gioco” è allo stesso tempo “azione di bene”, perché dio è
buono e ciò che fa spontaneamente non può essere che bene» (F 307). L’autore insiste col “dio” minuscolo.
- Dunque «gli dèi supremi danzano: Shiva, sacro e terribile, danza sui mondo che ha appena distrutto e
liberato, danza in estasi alla presenza della dea incantata, Làlita, “amorosa” (“colei con cui si gioca”).
Nella visione tantrica, la shàkti (la sposa) danza sul corpo immobile di Shiva. Gli dèi si divertono: Shiva e
Pàrvatì (sua sposa) giocano ai dadi nel loro paradiso ed è un momento segreto, di intimità, ma stanno
giocando le sorti del mondo» (F 307)
- Infine, l’ambiguità ed il fascino di lìlà: «può voler dire che l’universo è stato creato solo per finta, è solo
màyà, l’incanto di illusioni…svelando così il senso di sottile “inganno” di dio, la disillusione verso il
relativo delle forme dell’esistenza». Ma è anche affascinante perché «dischiude un senso di gioco di vita, di
accettazione positiva del mondo e delle sue realtà» (F 307). Pertanto: «è facile pensare che il bene sia
frutto del gioco divino; ben più difficile accettare che anche il male e la sofferenza obbediscano alla logica
misteriosa e insondabile di un “giocare ai dadi” di dio» (F 307).

- Anche la via alla salvezza per mezzo della conoscenza (F 302), che è stata l’ideale soteriologico delle
Upanisad, con cui si è tentato di superare la via dell’azione sacrificale (F 302), mostra i suoi limiti .
L’insegnamento upanisadico considera la rinuncia al mondo come unica via di liberazione dal ciclo delle
rinascite (F 317). Ma coloro che sono chiamati a vivere “nel mondo” e a rispettare i loro doveri sociali,
come i re, i guerrieri, e gli altri membri della società, benché attratti dall’ideale soteriologico, sono
impossibilitati a realizzarlo perché «la stessa fede proibisce loro di venir meno ai propri doveri». Da qui il
dilemma. La speculazione dei maestri ha permesso di individuare il nodo del dilemma nel kàma, il
desiderio egoistico, che è l’espressione dell’io, la fonte che origina l’attaccamento illusorio e al relativo, e
quindi è causa dell’ignoranza. Dunque si deve rinunciare non al mondo, bensì al kàma. « Il pensiero induista
riesce così a trovare la possibilità di una salvezza davvero universale, che non implichi una scelta tanto
difficile ed elitaria come quella dell’asceta» (F 318).
- Le direttrici che si aprono perché si possa superare il kàma sono date dal tantrismo e dalla bhakti. 1) «Il
pensiero tantrico porrà il desiderio e i valori che ne derivano al servizio della liberazione: l’esperienza
religiosa si realizza attraverso i desiderio. 2) La seconda soluzione sarà nell’idea della bhakti di far vivere
i valori del rinunciare nella logica della vita secolare, il tentativo, cioè, di abolire il desiderio nell’animo
dell’uomo che vive l’esperienza del mondo, sublimandolo nell’amore devoto verso dio». Si adempie il
proprio dharma, il proprio dovere nel mondo, ma distaccandosi dai suoi effetti e «non avendo altro
desiderio se non quello verso dio» (F 318). In questo modo anche il laico può aver acceso alla liberazione
(F 318) → Bhagavadgîtâ più avanti
- Con l’induismo classico, dunque, si fa strada «un ideale che rinnova radicalmente la visione religiosa
tradizionale» (F 317): è la categoria della bhakti. «È una via di liberazione attraverso l’esperienza di
purificazione e sublimazione dell’io nell’amore di Dio. La parola “devozione” non traduce tutta l’intensità
e le sfumature emozionali implicite nella ricerca di uno stato di comunione totale con la divinità», che i
poeti mistici a volta equiparano «alla devozione rispettosa del servo verso il padrone, al calore e alla gioia
dell’amico verso l’amico, all’affetto del figlio verso la madre, alla passione erotica dell’amante» (F 317,
326).
- «Lo slancio devozionale verso la divinità (pronta a soccorrere il fedele che a lei si rivolga con totale
abbandono) postula l’idea di un dio supremo. Îshvara, origine, substrato e fine del mondo. Una
tradizione adora Visnu come divinità più alta; un’altra adora Shiva. Entrambe immaginano il dio
prescelto con precise caratteristiche e tratti molto personali e venerano le varie forme con cui si è
manifestato nel mondo» (F 317)
- Le Bhaktisùtra, descrivendo le tappe della discesa del dio fra gli uomini, le propongono al fedele come le
fasi, in un processo inverso, dell’ascesi dell’anima verso dio» (F 318)
- La figura del guru non è più quella del maestro che insegna i Veda, bensì l’interprete e la guida della
divinità e manifestazione stessa di dio in terra (F 318)
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- Caratteristiche religiose della bhakti:
1. due temi simbolici: «il sogno dell’unione con dio e la tristezza della separazione da lui» (F 318)
2. «Ogni creatura “appartiene” a dio e può scegliere di amarlo fino al dono completo di sé. La
“via della bhakti” non è riservata agli iniziati, ma aperta a tutti, senza tener conto delle divisioni
castali»; anche gli shùdra vengono coinvolti, giacché il purusa divino trascende il puro e l’impuro
e pertanto la salvezza è al di là di ogni distinzione e gerarchia umane (F 319). Da qui il suo
successo!
3. La natura egualitari sta della via di salvezza implica la centralità dell’esperienza di gruppo, con
lo «slancio di comunione col prossimo», intesta come la promessa di visioni comunitarie di felicità
in paradiso, e il radunarsi in gruppo, danzando e cantando insieme per «raggiungere stati estatici di
annullamento dell’io empirico in dio» (F 319)
4. Sul culto a una particolare divinità suprema, Visnu, Shiva, la Devìshakti, oppure Krsna o
Ràma, si formano dei movimenti devozionali» (F 319); queste tenenze riformiste della bkakta –
con l’idea che «l’abbandono in dio trascenda il sacrificio e la sapienza, superando l’esperienza
di meditazione yoga e perfino gli ideali religiosi dell’asceta» (F 319) – influenzeranno anche il
jainismo e il buddhismo (con la corrente della Terra Pura) (F 319). E tuttavia, i gruppi, costruiti
attorno della fede esclusiva nella divinità, (per le regole della sociologia), tendono a diventare
esclusivi e settari, a creare un mondo chiuso e a definirsi in contrapposizione con altre sette
mediante vari mezzi: segni sul corpo, forme di disciplina ascetica, speciali pratiche devozionali,
linguaggi di preghiera; in definitiva, si ripropone lo schema puro/impuro, tipico del sistema delle
caste, contro cui l’esperienza della bhakti si era ribellata (F 319).

- Non esistendo un fondatore, non si è concordi nel fissarne l’inizio


- È la terza fase dell’Induismo, nella quale prevalgono le tendenze TEISTE, PERSONALISTE E
MONOTEISTE delle tre correnti principali: Visnuismo, Shivaismo e Shaktismo (pur ammettendo gli dèi
celesti [deva] e sotterranei [asura] dei Veda): sono le tre forme religiose più praticate.
- Accetta le dottrine insegnate nei testi sacri precedenti (Rag 34): il Brahman, il dharma, il karma, i Veda ,
le caste (con la credenze nello stato sacrale dei brahmani), il bagno nel Gange come forma di
purificazione dal peccato, il sacrificio domestico cui si aggiunge l’offerta di incenso, il lavaggio e
l’omaggio di fiori alla divinità presente nell’immagine (nei templi in occasioni solenni: lì la statua
è pulita, profumata, vestita; i sacrifici cruenti di animali sono offerti solo alla dea Durgà. Nelle
feste, le immagini sacre sono portate in processione per la città in carri festosamente addobbati.
Assai importanti nella vita religiosa indù sono i pellegrinaggi: tutti gli anni i pellegrini si recano in
folla soprattutto ai lavacri del Gange (Benares, Mathura, Allahad, ecc.) per liberarsi dai loro
peccati. L’intera vita di un indù, dalla nascita alla morte, è legata al compimento di determinate
cerimonie. Digiuni e penitenze, l’osservanza di certi voti e la concentrazione meditativa servono a
purificare il cuore e ad acquistare un buon karman. (F 311-312; Rag 41-42)
- Questa fase include anche diversi movimenti filosofici (F 312-317) che praticano la salvezza tramite la
conoscenza
- Le correnti religiose indù non vanno pensate come alternative. In realtà, come sempre nella spiritualità
indù, si tratta di pratiche religiose che non si escludono a vicenda giacché i devoti possono passare da un
culto ad un altro. Nel momento del sacrificio, nel quale si offrono alla raffigurazione della divinità cibo,
ghirlande, ecc., è quella ad essere percepita come la divinità suprema. In questo senso gli indù migrano
senza problemi da un culto ad un altro, prassi che nella storia delle religioni è classificata come enoteismo o
monolatria: la divinità principale è quella scelta al momento del culto e tutte le altre le sono subordinate.
Alla base di questo comportamento sta la convinzione che ogni individuo, consigliato dai maestri spirituali,
deve scoprire la propria strada di salvezza in un contesto religioso nel quale tutti i sentieri sono percepiti
come confluenti verso lo stesso fine ultimo, che è il Brâhman.

A. LA TRIMURTI E LE RELIGIONI INDÙ


- Come anticipato, nel ricco pantheon indiano acquistano sempre più popolarità i culti a Visnu e Shiva, che
insieme a Brahmà (Brahman evoluto in Brahmà), costituiscono la Trimurti (lett.: tre-forme): Dio è uno
nella sua essenza, ma si presenta in tre forme differenti. Il simbolo è ॐ Esso rappresenta il suono
sacro di OM o AUM, che è il seme di tutti i mantra o preghiere, il suono primordiale che racchiude il
divino. È la sillaba del contato col divino e mezzo efficace di liberazione. Il Mantra è accompagnato da un
rosario di 108 grani. Il 3 è la triplice manifestazione di Dio (Brahmà, Visnu e Shiva); l’O è il silenzio del
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contato col divino. La Trimurti rappresenta i tre aspetti dell’azione divina: creazione, conservazione e
distruzione, personificati rispettivamente in Brahmà, Visnu e Shiva.

BRAHMÀ: è il dio della creazione, la forza vitale e creatrice. L’iconografia lo rappresenta con 4 teste
incrociate (i punti cardinali, che simboleggiano il suo potere assoluto sulla realtà)
- quattro mani che recano i quattro Veda; una ciotola con l’acqua del Gange; bastone e corona
- per il suo carattere astratto e speculativo non è mai stato oggetto di culto popolare
Sposa (SHAKTI): ogni divinità ha una consorte, un principio femminile (che in Cina sarà lo yin, che si
affiancherà a quello maschile dello yang). SARASVATI è la sposa ed è la dea della sapienza
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Sarasvati

B. VISNUISMO (F 320-322, 324-326)

VISNU: insieme al culto a Shiva, è la più importante religione indù (benché, come detto, i due culti non si
escludono)
- all’interno del Visnuismo si registrano molte correnti e scuole: alcune moniste (advaita, non-dualità);
altre dualiste, per cui l’essere supremo e il mondo empirico sono realmente diversi.
- Le scuole principali fanno capo a SHANKARA (780-820 d.C), monista non dualista, e a RAMÀNUJA
(1050-1137), teista (Dh 123-124, 255-258)
- Tentativi di armonizzazione. Superate le riflessioni astratte, bisognava rispondere al bisogno di venerare
una divinità dalla quale trarre benevolenza e conforto: da qui la dedizione ad un dio personale. La divinità e
il mondo sono come l’oceano e le onde: né identiche, né diverse. Entrambe risentono di un certo panteismo:
«tutti gli esseri sono in Dio come sua forma particolare di essere o qualità, distinti da lui, ma radicalmente
dipendenti da lui, o formanti una Totalità» (Dh. 257); il mondo è reale (in contrapposizione alla posizione
advaita dell’illusorietà del reale, governato dell’impersonale Brahman); la relazione di Visnu col mondo è
come quella della sostanza con gli attributi, per cui Dio è «nel cuore di ogni essere come guida interiore pur
senza cancellarne la libertà» (F 321). →Il tema del rapporto Dio-mondo è al centro della riflessione della
«teologia filosofica» o «teologia razionale», ma con risposte prettamente razionali, che prescindono da
considerazioni “mistiche” o religiose: cf. M. Grison, Teodicea o Teologia naturale, Paideia 1967

- Nel Vedismo è una divinità minore, che qui assurge a figura principale: è la divinità cosmica e benefica
che sostiene e conserva l’universo, governandone l’armonia; sempre attiva e pronta ad intervenire a
difendere il diritto e la verità; è Signore (Ìshvara) misericordioso. Giace dormiente (il suo è uno stato di
concentrazione yoga) su un mitico cobra avvolto su se stesso,
- Ha il potere di trasformare, simulare, incantare. Giocoliere: creazione del mondo come “gioco” (F 306-7)
- L’iconografia lo rappresenta con l’espressione benevola sul volto, col blu profondo del suo corpo, le otto
braccia, quattro delle quali utilizzate per sorreggere la conchiglia, il disco solare, la clava e il fiore (F 320)
- In opposizione alle forze negative si presenta agli uomini nelle sue “discese” o “apparizioni”: avatara (pp.
84-85) al fine di: a) ristabilire il Dharma (la moralità); b) proteggere i buoni) c) salvare dalle reincarnazioni .
Il tempo è ciclico, senza inizio né fine/compimento.
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- È oggetto di culto proprio con le avatàra (manifestazione, “discesa” nel mondo terreno sotto forma di
animale o uomo, F 320-321). Sono questi gli espedienti che hanno permesso di fargli assumere
un’importanza centrale nell’induismo, insieme allo sviluppo della devozione presso la scuola Pàñcaràtra, tra
il I sec. a.C e il I sec. d.C. , che lo identificò come il Purusa supremo (F 320). Da questa scuola, ne sorse
un’altra, la Shrìsampradàya, dalla quale emerse la personalità di Ràmànuja (F320-322).
- Nove si sono realizzate; la decima avverrà alla fine dell’epoca attuale (kaliyuga), ossia nel
425.000 d.C., quando apparirà col cavallo bianco (Kalkin) e farà trionfare il Dharma: il diritto e la
giustizia.
- Nelle avatara passate si è manifestato come pesce, tartaruga, cinghiale, uomo-leone
(Narasimha), nano, Ràma (l’eroe paradigma del sovrano ideale), Buddha (la 9a, estremo
tentativo di riassorbire il Buddhismo, che ormai si era staccato dall’alveo indù). Ma soprattutto si è
manifestato con l’8a KRISHNA (lett. “nero”, F 324-326), la cui figura e il cui insegnamento sono
contenuti nel Libro sacro più importante per i visnuiti che è la BHAGAVAD-GÎTÂ → Classici
delle Religioni, Utet (e nei poemi epici Ramàyana e Mahabhàrata). Il testo in italiano, col
commento letterale, è reperibile anche al sito dell’organizzazione Hare Krisna che lo diffonde:
http://www.prabhupada-books.de/translations/gita-italian/La_Bhagavad-gita_cosi_come_Bhaktivedanta_Swami.pdf
- È raffigurato con un flauto di bambù, con la pelle azzurro/nera, amoreggia con le pastorelle (gopi)
- La Bhagavadgîtâ (Il Canto del “Bhagavat”, Beato), che si struttura in 18 Capitoli (18
Letture), comprendenti 700 versi (F 304), costituisce una svolta nella concezione di Dio
perché orientata in una direzione tesitica personale, dalla quale scaturisce la dottrina della
bhakti (devozione-amore) come via per la salvezza (F 317-319). Ma proprio per la
compenetrazione delle tre stratificazioni dell’induismo, la devozione alla divinità (bhakti),
che rappresenta la fase matura dell’evoluzione in senso teista dell’indusimo, può essere
esperita anche come espressione dell’identità tra l’uomo e la divinità dal momento che la
divinità cui ci si rivolge non è distinta da se stessi. L’idea che soggiace è quella che il
Brâhman tutto compenetra e tutto abbraccia, inglobando in sé dèi e uomini.
- Il testo (F 304) si costruisce attorno al dialogo tra Krsna, manifestazione terrena di Visnu,
e l’eroe Arjuna, alla vigilia della grande battaglia per la conquista del regno. Nello
schieramento avversario, Arjuna riconosce tanti volti cari; egli invoca Dio per lenire
l’animo lacerato dall’angoscia di doverli combattere. Krsna gli rivela che egli deve
assolvere al suo dharma e affrontare la battaglia, ma con animo libero, senza curarsi
dell’esito finale. Da qui il messaggio religioso: come ogni uomo, deve assolvere i propri
doveri religiosi, ma con distacco da essi e dal loro risultato. Nel colloqui con l’eroe, Krsna
gli rivela il suo mistero come colui che comprende tutte le forme. «Rapito e al contempo
distaccato dall’immane visione cosmica di dio, creatore e distruttore dell’universo, Arjuma
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comprende di essere lo “strumento” di un destino già segnato per tutti. Con mente pura e
distaccata, si avvia alla battaglia» (F 304).
- La battaglia è chiaramente metaforica: è figura di quella interiore per la liberazione.
L’eroe è l’anima che ha timore di affrontare il combattimento contro il sé egotico, contro le
proprie passioni. Krsna, auriga dello spirito, gli indica tre cammini (marga) verso la
salvezza, che, come abbiamo visto, riassumono i passaggi religiosi dal vedismo
all’induismo, passando dalle Upanisad: l’azione, la conoscenza, la devozione. Quest’ultima,
che è la forma migliore, con la quale l’anima si dona a lui come in sacrificio, si indirizza a
lui come il dio che fonda l’armonia dell’universo, è il principio di amore, l’essere supremo
che agisce per la salvezza anche quando opera la dissoluzione delle esistenze del mondo (F
304)

Secondo gli Hare Krisna – F 332 – (con il loro più noto maestro spirituale Svàmì o Srìla
Prabhupàda), Egli è «colui che attrae tutti”. “infinità affascinante” perché ingloba tutti
gli attributi. Bhagava Purana è l’Essere supremo» (1,3.28). Va invocato col mantra
supremo che è
Rama= colui che dà piacere a tutti, è Lui (fratello o espansione di Krisna)
Hara = (Hare, vocativo): energia (di piacere) del Signore  culto all’energia del
Signor, Khrisa
http://www.radharamana.it/srila-prabhupada/spiega-il-maha-mantra.html→ http://www.harekrsna.it/mantra-hare-
krishna/

https://www.youtube.com/watch?v=NCusDs1scmY&index=1&list=RDNCusDs1scmY: 9’19”
https://www.youtube.com/watch?v=NxvJ0Xfl0A4 15’57”

- Breve storia di Krisna: perseguitato dallo zio crudele che vuole ucciderlo, è affidato alle cure dei
pastori che lo allevano in segreto. Dall’infanzia dà prova di forza erculea e coraggio. Diventato
adulto, uccide lo zio e conquista il suo regno di Maturà. È il consigliere del principe Arjuna,
sotto le sembianze di un cocchiere. Ma riconoscendo nell’esercito avversario i parenti più
prossimi e gli amici più cari, Arjuna è preso dallo sgomento e non vuole più combattere,
preferendo essere ucciso piuttosto che spargere il sangue delle persone che ama: è il contrasto
tra il dovere del soldato e la morale, che vieta di uccidere. Krsna lo esorta a compiere il suo
dovere: solo i corpi vengono uccisi, non l’anima che è eterna. Dopo la battaglia di Kuru (i
dettagli sono sviluppati nei poemi epici di Ramàyana e Mahabhàrata), si ritira nella foresta
dove viene ucciso per errore da un cacciatore.
L’insegnamento più importante di KRISNA (e della Bhagavad-gita) è che:
1) Lui è il Dio supremo;
2) chi lo ama si salva; la via più efficace per la salvezza è proprio l’amore e l’abbandono in Dio
(bhakti, da bhaj= prendere parte): è la più efficace, anche perché è aperta a tutte le caste.
Ammette il rito vedico, ma ne limita l’efficacia al conseguimento di effimere gioie celesti perché,
esaurito il merito, i seguaci del rito ritornano al mondo dei mortali. La via permanente per la
liberazione è l’amore. Al riguardo della partecipazione alla benevolenza divina indirizzata alla
creatura, le scuole dualiste distinguono una partecipazione attiva al momento della liberazione
(immagine della scimmia), ovvero passiva e di puro abbandono (immagine del gatto) (Dh 128-
129)
3) lui ama l’uomo ( di cui sono figure le 16.000 pastorelle [gopì, tra cui la preferita è Radhà, e che
rappresentano l’anima umana devota verso Dio], da cui ha 180.000 figli: ruba le vesti delle
pastorelle al fiume, le appende all’albero e suona il flauto per invocare la pioggia. Metafora:
rivela la nudità verità all’albero della conoscenza; la pioggia è l’uomo che esiste solo in virtù del
soffio vitale della divinità;
4) insegna che per sfuggire al samsara bisogna conformarsi all’etica del proprio status sociale, e
perciò all’etica dell’azione, e che in ogni azione bisogna abbandonarsi amorevolmente (bhakti, da
bhaj = prendere parte) alla divinità (a Lui).
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Sposa: è LAKSHMI o Shrì: la dea della prosperità e della bellezza (F 330). È raffigurata su un loto
che viene purificato da due elefanti→è la forza benevola della Dea Madre

C. SHIVAISMO (F 322-324)

SHIVA secondo culto più importante indù. Insieme a Krsna è il più popolare e accessibile.
- Scritture proprie sono le Àgama (elaborate nella corrente più antica, VII-VII d.C.) e i Tantra.
- Nel Vedismo è Pasupati (signore degli animali, seduto in posizione yoghica) e poi Rudra, divinità
selvaggia e pericolosa come la natura.
- Personificazione dell’Assoluto; è principio distruttore e, nello stesso tempo, rigeneratore del mondo: la
distruzione e della morte, che sono premessa per una nuova creazione e rigenerazione. «Crea gli esseri, così
come li distrugge alla fine dei tempi, perché è causa sia dell’illusione delle forme dell’universo sia della
liberazione da esse» (F 322).
- Diversamente da Visnu, conduce una vita solitaria (modello degli yoghin): è il dio asceta che ha raggiunto
la più alta perfezione con la meditazione e le austerità; immerso nello yoga si disinteressa del mondo.
Immanente e trascendente, ha un corpo e un viso, ma nessuno può vederlo all’infuori della mente
dell’asceta in meditazione (F 322).
- È soprattutto il Dio dei contrasti: ispira orrore e fascino (→ R. Otto !): in lui tutti gli opposti si ritrovano:
può assumere tante forme e nomi: 1008
13
- È terribile con i nemici (= i dèmoni dentro l’uomo: la cecità spirituale, la concupiscenza, ecc.),
annientandoli e operando la liberazione; è adorno di testi e di serpenti, circndato da demoni.
- Affascina per la mitezza e la cordialità: colpisce per poter guarire e dispensa la saggezza; è dolcissimo
protettore di coloro che gli sono devoti; è l’affascinante “Signore dei danzatori”, che nella danza fa
affiorare all’essere le forme del mondo, così come, giovando, le fa tornare nel nulla (F 322).
- Il suo simbolo è il Lingam (simbolo fallico: è il dio della fertilità, perciò dell’energia creatrice che prevale
sulla distruzione), antico retaggio dei culti pre-arii (F 323). «È racchiuso nella cella dei templi o all’aperto,
si presenta inserito in un piedistallo a forma di vulva (yoni) che evoca la presenza della Dea quale shakti
[sposa] di Shiva che opera nella manifestazione e nella distruzione dell’universo» (F 323). Pertanto,
quando sono rappresentati insieme, il lingam e la yoni, diventano il simbolo dell’Assoluto che possiede in
sé le energie maschili e quelle femminili., ed è anche principio universale di nascita e di rigenerazione
dell’universo.
- L’iconografia lo rappresenta col Lingam; è danzante (simboleggia il ritmo delle nascite e rinascite); con la
luna a mezza falce sulla testa: misura il tempo in mesi (è caldo e freddo come la luna: F 323); porta il
Gange sulla fronte, che scorre dalle sue trecce: così cancella i “peccati”; ha serpenti attorno al collo (ciclo
senza fine del rinnovarsi degli anni) che scaglia sui nemici (→ religione tellurica 5); la gola è azzurra, a
ricordare il veleno che inghiottì per preservare il mondo da effetti nocivi; talvolta cavalca il toro bianco
(Nadìm) ad indicare la forza rigeneratrice. Gli appartiene il fuoco, che lo simboleggia, in quanto scatenato e
generoso (F 323).
- Numerosi sono i movimenti religiosi di devozione a Shiva, alimentati dalle esperienze dei diversi gruppi di
asceti: si distinguono da diverse prospettive soteriologiche (ora monistiche, settentrionali, ora dualiste,
meridionali) e da peculiari osservanze di culto (F 323), come quelle dello shivaismo àgamico meridionale, i
cui fedeli portano al collo, in un contenitore di metallo prezioso, il lingam (F 324) → Come i Tefillin di Dt
6,8-9.

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G 19-28; 65-67; 225-234; F 10-13
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A differenza di Visnu, non ha avatara, ma egli stesso è oggetto di culto, insieme ad altre 4 divinità principali
(“familiari”):
→ La salvezza, per gli shivaisti, consiste nell’unione con Shiva, compiendo pratiche ascetiche,
esercitando lo yoga e recitando i mantra. Liberazione nella meditazione e nella bhakti
- 1) La Sposa (assume diversi nomi, ad indicare i diversi aspetti del suo carattere): doppia natura di
Shiva: maschile e femminile: azione e riposo, forza dinamica ed energia creatrice
* Pàrvati: aspetto pacifico, simbolizzata dallo Yoni = organo femminile
* Durgà (inaccessibile): raffigurata con una donna che cavalca una tigre (F330)
* o (Kalì = nera): ha il collo circondato da una collana di teschi e la lingua penzolante
perché assetata di sangue (le vengono sacrificati 100 capre al dì e che sostituiscono i
sacrifici umani), e danzante sul cadavere di Shiva; è crudele con i malvagi; al contrario,
è amorevole (F 330)
* è conosciuta con altri 6 nomi: si manifesta secondo i suoi opposti: quello positivo,
dell’amore, e quello oscuro, che rappresenta il tremendum (particolarmente evidente in
India) dell’esistenza: inondazioni, siccità, morsi di serpenti ecc.
- 2) Ganesha: bambino panciuto con la testa di elefante; garantisce la ciclicità della legge del karma;
- personificazione della saggezza; protegge negli affari e nei viaggi (amato anche da visnuit
3) Sùrya: il dio sole
4) Kartikeya: il dio della guerra, che sconfigge le forze del male; è raffigurato come un pavone;
simbolo dell’India; è figlio SOLO di Shiva
- Diverse correnti dello Shivaismo: moniste (fine ultimo: conoscere la propria identità con Shiva e
confluire in lui) e, in prevalenza, dualiste/monoteiste. Il principio della terza fase dell’induismo è,
ancora una volta, quello secondo cui la liberazione si ottiene con l’unione con la divinità
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D. SHAKTISMO (“energia”, “forza originaria”) o TANTRISMO, più recente (tantra - “testo”,


“intreccio”, “telaio” - offerto agli uomini per conseguire poteri o perfezioni così da raggiungere la
liberazione dall’esistenza fenomenica: F 326-331): Tantràloka (“La luce delle Sacre Scritture”) di
Abhinavagupta (secc. X-XI d.C.) → Classici delle Religioni, Utet
- I testi sono oscuri perché destinati solo agli iniziati, segretamente passati dai maestri ai discpoli (F 327).
- La terza religione più diffusa dell’induismo, il cui culto è molto popolare, ma le origini oscure, fusione di
tradizioni degli asceti, pratiche autoctone, le discipline dello yoga, concetti esoterici dei Veda (come la
dottrina della parola sacra). Si sviluppò nelle regioni di confine, con scarsa influenza brahmanica; nei primi
secoli d.C. aveva assunto la fisionomia di corrente religiosa autonoma (F 326)
- Come detto in precedenza, un culto misterico come quello tantrico si potè espandere per l’India a motivo
del fatto che rovesciava l’antica soteriologia upanisadica basata sulla rinuncia, dunque impossibile da
praticare (F 327): la visione tantrica non contrapponeva il desiderio alla salvezza, non negava i sensi e i
sentimenti, «ma si proponeva di controllarli secondo un’ascesi graduale e di valorizzarli piegandolo a una
prospettiva di conoscenza e di liberazione che poteva essere raggiunta già qui in terra, in questo corpo» (F
327).
- I fedeli sviluppano il culto alla divinità femminile, consorte della maschile (« la divinità ha un aspetto
femminile e uno maschile» F 327). Il principio maschile resta immobile (F 327), mentre quello femminile
è il solo che conosce, agisce, conserva il mondo (è principio creativo, motore e operativo); trae
all’esistenza tutte le forme virtualmente presenti nel dio e, al termine di ogni ciclo cosmico, fa sì che
siano riassorbite in lui (F 327). È associata alla fertilità e viene placata con i sacrifici
- Riflesso della venerazione della Dea Madre, praticata nel II millennio a.C. nella Valle dell’Indo prima
dell’arrivo degli arii (F 329).

- Aspetto filosofico. Il seguace tantrico a gradi percepisce di vivere in una realtà infusa di energia divina, in
cui il cosmo e il corpo coincidono, e in cui tutti gli elementi, anche i più piccoli, sono forme dell’Assoluto
unite da connessioni segrete (F 327) 6. Tutte le forme del mondo, tutte le loro realizzazioni, possono essere

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Isomorfismo: il corpo è permeato di forze sovrannaturali, compenetrazione tra l’umano ed il divino. Nello specifico,
nell’uomo è presente l’energia divina femminile (shakti). Le pratiche sessuali sono utili per risvegliarla, così da
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usate per raggiungere la liberazione. Dunque: «una salvezza che non è nel rifiuto, ma nella piena
realizzazione di sé attraverso il gioco di forze sacre del cosmo che l’adepto comprende e attualizza in sé
con l’atto rituale» (F 328). I vari aspetti riti, molto complessi e spettacolari, sono simboli del divino, del
cosmo, dello stato della coscienza che racchiudono una sacralità misteriosa, la quale può essere compresa
sono dall’iniziato (F 328)
- Con l’aiuto del maestro, l’iniziato adotterà una disciplina fatta di mantra (parole e suoni sacri che
racchiudono in sé il potere divino), di meditazione sui mandala (diagrammi dell’universo e dei percorsi
della mente nella meditazione); la concentrazione nelle mudrà, gesti delle mani e posizioni del corpo che
simboleggiano concetti astratti (F 328). Le pratiche aiutano a risvegliare la shakti, intesa come energia-
serpente, che dorme nel profondo del soggetto così da farla salire fino al punto di unione con Shiva nel
cervello. «Bràvanà è lo stato di coscienza più alto, quando la mente e il corpo dell’adepto si
identificano completamente con la coscienza pura di dio e con il cosmo» (F328); → qui ci riallacciamo
al tat twuam asi e al fine delle pratiche dello yoga. «Il desiderio erotico e l’unione sessuale del dio e della
shàkti sono il fulcro delle visioni simboliche e dei culti tantrici…rivivere il momento primigenio
dell’amplesso di dio significa esprimere l’unità, prima di ogni opposizione fra spirito e materia, fra
maschio e femmina, fra puro e impuro, fra conoscenza e azione, e anche paradossalmente fra esistenza e
liberazione. In alcune sette l’unione sessuale è praticata ritualmente con una donna iniziata, ecc.» (F
329).
- Sette “della mano destra” e della “mano sinistra”. Per la prima, ci si serve dei suoni dei mantra, delle
posizioni del corpo (àsana) e dei gesti della mano (mudrà). Per la seconda, le pratiche valorizzano ciò che
invece la prassi della purezza del brahmanesimo bandiva, come il consumo di carne, di bevande inebrianti e
dell’unione sessuale: bene e male sono relativi e complementari (F 329). In definitiva, si propone di
giungere alla liberazione con i mezzi che il brahmanesimo vietava.
- Aspetto religioso: il culto
- Culto alla Dea Madre terra praticato prima dell’arrivo degli arii, i quali avevano una concezione della
divinità maschile e “celeste” (F 329-330). F, come sempre, traccia lo sviluppo storico del culto: la
religiosità preariana rimase sempre vivo e si diffuse, divenendo soprattutto prerogativa della famiglia reale:
la Dea era garante del potere (F 330). Il tantrismo e il movimento della bhakti trovarono una fonte di
ispirazione nell’idea tradizionale della Dea portatrice di fecondità, di vita, protettrice del Dharma (F
330). Si trasformò in sposa del dio e il tema della fecondità si trasformò nel simbolismo sacro
dell’unione sessuale, con forme di intenso erotismo. La speculazione filosofica, come visto nel paragrafo
precedente (“Aspetto filosofico”), «traspose in una dimensione metafisica l’atto amoroso per esprimere
l’unione dell’effimero con l’assoluto, dell’uomo in dio, del molteplice nell’uno» (F 330), imitando
l’unione tra Shiva e la Dèa.
Culto: nel rituale tantirco (F 329) vengono utilizzati mantra e simbologiae esoterica (dottrine composite da
visnuiti e shivaiti), ed è destinato ai soli iniziati, accompagnati dai maestri (guru); recitati mediante
dei “rosari” (aksamàlà)
- la letteratura è vastissima: le istruzioni che vengono date servono per sperimentare
l’identificazione interiore con l’energia simboleggiata dalla dèa, opportunamente risvegliata
in se stessi, e dunque sperimentarne il potere (siddhi), F 328.. Se la donna è immagine della dèa, da
qui la stima altissima
- - i riti, che spesso eccedono con l’uso di bevande inebrianti, prevedono l’unione sessuale tra le
varie caste, per ripetere l’unione perfetta tra il dio e la sua sposa e imbrigliare l’energia
spirituale verso un fine spirituale. La ritualità si tinge di sfumature erotiche. Le sette eccedono in
pratiche: l’identità tra anima e divinità si raggiunge con pratiche sessuali. Principi maschili e
femminili, rispettivamente il linga lo yoni
- Al tempo della dominazione coloniale: sacrifici umani; ora di galli, capre, bufali
- L’aspetto più rilevante è che nel Visnuismo e nello Shivaismo, Dio non è MAI PADRE: qui la
Dea è MADRE che dona la vita, ma castiga

- Il culto della Dea si affiancava a quello di Visnu e di Shiva.


- Laksmì è la sposa di Visnu. Quella di Shiva possiede, come lo sposo, «due diverse realtà: nel suo aspetto
terrifico è Durgà, è Kalì dalla ghirlanda di crani, nera, nuda, ebbra di alcolici e di sangue » (F 330). È la
grande Dea e la divinità centrale dello Shaktismo.
- Come detto a proposito di Shiva, la Dea può assumere la forma di «Signora dello yoga» (Yogeshvarì), così
da poter competere e conquistarlo (F 330).
- Nel X sec. d.C. si arriva a subordinare le divinità maschili a quelle femminili: senza la dèa gli dèi sono
inermi, incapaci di conoscere e agire: “senza Shakti, Shiva sarebbe un sava” (cadevere)”. Visione più

accedere al sovrannaturale.
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equilibrata: il principio maschile agisce per quello femminile della sposa, la quale, a motivo della sua
potenza generatrice insita nella natura dinamica e femminile del divino, che lo risveglia dall’estasi profonda
e così egli liberi le varie forme dell’esistenza e dia vita all’universo (F 330, 331): in questo senso la shakti è
Mahàlasà (la Grande attiva) e anche Mohinì (Colei che infatua lo spirito in perfetta contemplazione).

E. LE VIE (YOGA O MARGA) PER LA SALVEZZA (MOKSHA) DAL SAMARA (DC 132-133)
1.- karma marga: “dell’azione”: è l’osservanza dei propri doveri (all’interno della casta), cui si aggiungono
i sacrifici vedici
2 – jnana marga: della conoscenza:autocoscienza e distacco dal mondo irreale; ascesi  yoga
3 – bhakti marga: la più popolare perché di facile accesso e aperta a tutti e supera il sistema delle caste :
amore e devozione all’ Essere divino (di propria scelta)
[4. – raja m.=disciplina della conoscenza: consiste in tecniche respiratorie e recitazione dei mantra (8
gradi) → tantrismo. In questa quarta via la fede non occupa alcun posto]

CONSIDERAZIONI SU A) LA TRIMURTI E B) SULL’AVATARA (Dt 83-86, 148-155)


A)
- Per alcuni tratti, essa sembra alquanto vicina al concetto cristiano di Trinità. In effetti, il Bràhman, come
ogni divinità della Trimurti, è definito come essere (sat), sperimentato come puro atto di conoscenza (cit)
nella felicità (ânanda) d’una unità, ossia di non dualità (advaita).
- Ma al di là di questa similitudine di Dio come essere, intelligenza e beatitudine, non è affatto assimilabile
al mistero trinitario né il Bràhman né la stessa Trimurti. In effetti, il Bràhman è sostanzialmente
impersonale e presente panteisticamente in ogni realtà, la quale, a rigore di termini, non è diversa dallo
stesso Bràhman. La diversità del mondo che conosciamo è solo un’illusione (mâyâ) perché solo il Bràhman
è.
- Per questo l’induismo può essere descritto sostanzialmente come un monismo, termine più adeguato
rispetto a quello di panteismo, anche se in realtà il monismo non è che la forma emotiva del panteismo. Nel
cristianesimo, invece, se Dio è in tutte le cose (cf. At 17,28), tutte le cose tuttavia non sono Dio, che resta
perciò un essere personale e trascendente il mondo.
- Il Bràhman, al contrario, è il grande nascosto in tutte le creature e che avvolge tutto, come Signore
(Shvetàshvatara Upanisad, 3,7). Esso tutto penetra e tutto pervade. Non c’è che lui che veda, non c’è altri
che conosca oltre lui, il Sé, colui che guida dall’interno, l’Immortale (Brhadàranyaka Upanisad, 3, 7,23;
4,4,6).
- Non soltanto il Bràhman è diverso dal Dio della tradizione cristiana, ma anche la Trimurti. Se è vero che
Visnu e Shiva sono, come Brahmà, essere, intelligenza e beatitudine, si tratta tuttavia di tre forme differenti
in cui si manifesta la medesima divinità suprema, il Bràhman, che avvia l’eterno processo cosmico di
emanazione, conservazione e distruzione, per ricominciare daccapo.
- Pertanto, la Trimurti non va pensata come una forma di politeismo perché le tre divinità, e le loro
rispettive consorti femminili, vanno viste come la differenziazione funzionale della divinità suprema». La
Trimurti rappresenta una forma di modalismo.
- Ma va detto, tuttavia, che a livello popolare Brahmà Visnu e Shiva non soltanto sono creduti come dèi
differenti ma vengono anche affiancati dalla serie ininterrotta di altre divinità minori dell’antica tradizione
vedica che pertanto si sovrappone a quella più recente. Dunque, di politeismo si può senz’altro parlare
soprattutto a proposito degli dèi celesti del vedismo.
- Nel mistero trinitario le tre persone invece sono realmente distinte tra di loro. Se considerate rispetto
all’unica e indivisa natura divina, ognuna di esse è Dio perché si identifica con la natura divina (cf. CCC
253). Possiamo distinguerle soltanto per la loro reale relazione di origine, la quale non comporta in alcun
modo superiorità, ma semplicemente “ordine”: il Padre genera il Figlio, il Padre ed il Figlio, come unico
principio, spirano lo Spirito. Da qui la circolarità di amore tra il Padre, il Figlio e lo Spirito. Questa
circolarità di amore non soltanto è del tutto assente nelle divinità della Trimurti, le quali, al contrario, sono
in continua tensione per la supremazia dell’una sull’altra. Ne è riprova la testa mozzata di Brahmà da parte
di Shiva, per cui nelle raffigurazioni si presenta con quattro teste, mentre all’origine erano cinque. È la
dimostrazione che, soprattutto a livello popolare, Brahmà Visnu e Shiva sono talmente percepiti come dèi
diversi da rivaleggiare l’uno sull’altro.
- Ad ogni buon conto, come abbiamo osservato in precedenza, anche per la corrente tesita, nella quale Dio
(sembra) distinto dal mondo, in realtà, l’uomo è divino per natura.
- Pertanto la sua differenza con le divinità è solo relativa. Da qui segue che la salvezza, in ultima analisi,
consiste, nell’intuizione della propria identità con il divino. «La storia di Krishna evidenzia chiaramente –
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scrive M. Dhavamony – come la deità continuamente viene verso l’uomo di tempo in tempo per mostrare il
patto giusto che porta a realizzare la natura divina che è nell’uomo attraverso la conoscenza e l’amore della
stessa deità».

B)
- Le avatara indù non sono affatto assimilabili all’Incarnazione per tre ragioni sostanziali, che si collocano
nell’ambito di una differente concezione del rapporto Dio-mondo. Nell’induismo, il mondo è una
manifestazione del divino, un’emanazione dell’Assoluto, del Bràhmana; per il cristianesimo il mondo è una
realtà creaturale e unica, che si realizza una sola volta nel tempo.
1. Esse sono solo manifestazioni apparenti e passeggere. Visnu non assume in senso proprio, vero e
duraturo la natura umana, benché si presenti come uomo-dio con Krishna. Già prima di Krishna vi sono
state nove differenti discese, comprese quelle in forma animale. E ce ne sarà un’altra ancora, come
detto, nella forma di Kelkin. La divinità indù, pertanto, «non assume propriamente la natura umana e
non si unisce ad essa per formare un unico essere; l’idea che informa l’incarnazione indù è quella di un
divino Penetrante (Vishnu), il quale infonde la sua essenza nelle cose create, animate e inanimate, allo
scopo di attività particolari». La natura corporea è effetto del karma e quindi nasce, deperisce e muore.
Invece il corpo dell’avatâra è eterno e non prende forma dal ciclo delle nascite. E infatti non nasce.
2. Pertanto, Krishna non è un vero uomo perché «mai Visnu entra nella condizione umana, ma se ne
mantiene al di sopra». Con l’Incarnazione, invece, il Figlio di Dio si è fatto veramente uomo in Maria.
Ha assunto la natura umana in modo unico, non reiterabile e definitivo, per tutta l’eternità. E assumere
un’intelligenza e una volontà umane che lo rendono capace di amare con un cuore umano e di volere
con una libertà umana.
3. «Lo scopo dell’avatâra di Krishna non è cosmico come nel caso degli avatâra in forma animale, ma
soteriologico» (cf. Bhagavadgìtà 4,7). Ciò significa che Krishna si limita a rivelare: a) che egli è il Dio
supremo, la prima divinità e il capo di tutte le divinità (Bhagavadgìtà, 6,6-9; 7,7; 10,12 e 21ss.); b) chi
lo conosce (Bhagavadgìtà, 4,9; 18,55) e lo ama, compiendo con devozione e amore i sacrifici e i propri
doveri religiosi come un’offerta disinteressata a lui e affidandosi a lui come Dio personale, sia salva dal
ciclo di morte e rinascita (Bhagavadgìtà, 9,27; 12,7); c) infine, che lui ama l’uomo, di cui sono figura le
simboliche amanti pastorelle (16.000), dalle quale ha avuto 180.000 figli. Tra le sue mogli pastorelle,
con le quali gioca continuamente, la preferia è Ràdhà (tra le otto nominate). Ora, la distinzione tra
redenzione cristiana e liberazione indù sta nel fatto che «Krishna è un dio salvatore nel senso che libera
i suoi fedeli dalle catene dell’esistenza fenomenica per condurli all’immortalità, ma non è un redentore
perché non affronta la morte in espiazione dei peccati dell’uomo. La sua azione non ha un’efficacia
vicaria. Egli non ci “riscatta” (è questo il significato etimologico del termine redenzione) e la sua
sofferenza, se pure soffre stando tra gli uomini, non è affatto un sacrificio né un’offerta o soddisfazione
per i peccati del mondo. L’idea paolina di redenzione non può esser ricondotta a nessun modello indù»
(M. Dhavamony).

C. SINTESI (VISIONE SINCRONICO-SISTEMATICA)

- La vita religiosa indù è fortemente protesa verso l’Assoluto, di cui si sforza di fare esperienza. Per meglio
dire: «lo scopo della vita religiosa precisamente consiste nel divenire come il Divino, diventare divini,
realizzare il Divino nell’uomo» (Dhavamony). Tale scopo si realizza con quelle esperienze della religione
che sono il culto, la preghiera la meditazione. La dimensione comunitaria è meno sviluppata rispetto ad
altre religioni, se non per le feste o per i gruppi tantrici. Ordinariamente, il credente tutto concentrato sulla
propria salvezza individuale, è aiutato dalla figura del guru che lo guida con un percorso personalizzato.
- Sullo sfondo della religione vedica, l’indù è formato a concepire il divino come Assoluto sovrapersonale e
impersonale (presente anche nei Veda), che permea tutta la realtà come il sale permea l’acqua. È
l’imprescindibile insegnamento delle Upanisad del Brahmanesimo. Anche la Trimurti, sotto quest’ottica, è
solo una modalità relativa con cui si manifesta l’assoluto. Conoscere l’Assoluto e riconoscersi identico ad
esso, rappresenta la libertà e la pace perché si diviene immortali (Chàndogya Upanisad, 2,23,2; Katha
Upanisad, 3,15-17; 5,13; Brhadàranyaka Upanisad 4,47).
* Il grande commentatore Shankara (788-820 d.C.) insisterà sul concetto di advaita, ossia della non
dualità: dunque di un sostanziale monismo (F 313-314). Ma l’induismo conosce anche la Bhavadgìtà,
dalla quale emerge l’immagine di un Dio supremo personale e amorevole, un signore misericordioso
che conduce gli uomini all’unione con lui (12,13-20). La felicità consiste nell’affidamento amorevole a
lui. Anche lo Shivaismo include concezioni teiste.
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* Il commentatore Ràmànuja (1017-1137 d.C.) parlerà di un qualificato non-dualismo. la Realtà Ultima è
Signore (Isvara) e una cosa sola con le cose e l’anima personale (panteismo); tutti gli esseri sono forme di
Dio, Dio sta nelle anime e nelle altre sostanze come l’anima nel corpo; tuttavia egli le comprende in sé
come sua parte, sue emanazioni, distinte da lui, che esistono nell’unità dio-mondo-anima (f 320-322)
- Queste due concezioni convivono senza tensioni.

In ogni caso, l’uomo è parte di questo mondo divino; è una manifestazione del divino e dell’Assoluto.
- Dio è invocato come Padre nei Veda; non è più tale nel Brahmanesimo; nell’Indusimo, più che di padre, lo
si percepisce come madre nello Shaktismo.

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