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SEMINARI
E CONVEGNI
Convegno di studi
Pisa, Scuola Normale Superiore
10-12 aprile 2003
Storie inglesi
L’Inghilterra vista dall’Italia
tra storia e romanzo
(XVII sec.)
con l’edizione del Cappuccino scozzese
di Giovan Battista Rinuccini (1644)
e del Cromuele di Girolamo Graziani (1671)

a cura di
Clizia Carminati e Stefano Villani
© 2011 Scuola Normale Superiore Pisa
isbn 978-88-7642-413-7
Sommario

Premessa 7

La Scozia come simbolo della persecuzione cattolica nel mondo


protestante: Maria Stuarda nella letteratura italiana del Seicento
Stefano Villani 11

Per un regesto delle carte diplomatiche di Giovan Francesco


Biondi (1609-1619 ca.)
Chiara Petrolini 35

Londra 1632: discussioni linguistico-letterarie tra


Giovan Francesco Biondi e Baldassare Bonifacio
Stefania Sanna 43

Verità, eresia, conversione nel Cappuccino scozzese


di Giovan Battista Rinuccini
Martino Capucci 83

Una sfida secentesca: la legittimazione del romanzo


attraverso la storia
Lucinda Spera 97

Santi e libertini. Gli storici italiani del Seicento e


la ‘rivoluzione puritana’
Pietro Messina 115

La ‘Storia’ come romanzo: il Teatro britannico di Gregorio Leti


Franco Barcia 171
Sulle orme del principe. Viaggi di tecnici toscani in Europa
negli ultimi decenni del Seicento
Francesco Martelli 187

Giovan Battista Rinuccini


Il Cappuccino scozzese
Edizione criticamente riveduta a cura di Clizia Carminati 215
Nota al testo 217
Il Cappuccino scozzese 227
[Lettera dedicatoria] 229
Parte prima 230
Parte seconda 242
Parte terza 256
Parte quarta 276

Girolamo Graziani
Il Cromuele
Edizione a cura di Maurizio Fasce
con la collaborazione di Carlo Alberto Girotto 297
Introduzione 299
Nota al testo 305
Cronologia 329
Il Cromuele 331
[Frontespizio] 333
[Lettera dedicatoria] 334
Lo Stampatore a chi legge 337
Interlocutori 338
Atto primo 339
Atto secondo 362
Atto terzo 386
Atto quarto 410
Atto quinto 436

Indice dei nomi 471


Premessa

Si raccolgono qui gli atti del convegno svoltosi a Pisa nel 2003,
nell’ambito di un progetto ‘giovani ricercatori’ finanziato dalla Scuola
Normale Superiore. Questo incontro faceva seguito a un altro seminario
tenuto, sempre presso la Scuola, su Questioni di storia inglese tra
Cinque e Seicento: cultura, politica e religione nell’aprile 2002 (i cui atti,
a cura di Stefano Villani, Stefania Tutino, Chiara Franceschini, sono
usciti nel 2006). Proprio in quella prima occasione di confronto nacque
l’idea di riunire alcune persone che, da ambiti disciplinari diversi e con
differenti approcci metodologici, si erano occupate dei rapporti tra
Italia e Inghilterra nel XVII secolo. Storici e studiosi di testi letterari si
incontrarono così per dar vita a un contesto che esaminasse i legami
cinque-secenteschi tra la cultura inglese e quella italiana, attraverso
l’esame della storia politica, degli scambi culturali, delle traduzioni.
Oggetto dell’incontro fu lo studio delle trasfigurazioni letterarie
della storia inglese, a partire in primo luogo dalla straordinaria for-
tuna del personaggio di Maria Stuarda che durante il convegno fu
al centro di una splendida relazione di Franco Croce su Federico
Della Valle. Due altri testi vennero ampiamente discussi nelle gior-
nate di studio: il Cappuccino scozzese di Giovan Battista Rinuccini,
pubblicato nel 1644, e il Cromuele di Girolamo Graziani pubblicato
nel 1671. Alla prima di queste opere, una biografia romanzata del
nobile George Leslie che, nato in una famiglia protestante, dopo la
conversione al cattolicesimo in Francia entrò nell’Ordine cappuccino
e morì in Scozia nel 1637, erano dedicate le due relazioni di Martino
Capucci, che oltre a ricostruire la fortuna italiana di questo volume
più volte edito nel corso del Seicento ne dava una lettura originale e
affascinante, e di Davide Conrieri che ne indagava invece la fortuna
europea, le molteplici traduzioni e gli adattamenti apparsi in Spagna,
Portogallo e Francia. Al Cromuele, una tragedia in cui le vicende della
Rivoluzione inglese venivano narrate con ampia libertà rispetto alla
realtà degli avvenimenti di quegli anni, vennero invece dedicate le tre
relazioni di Maurizio Fasce, Grazia Distaso e Stefano Tomassini, che
8  Storie inglesi

ne esaminavano la storia editoriale e la struttura. Tomassini metteva


in luce le potenzialità di questo testo descrivendo la messa in scena
di una sua riduzione ad opera della compagnia Infidi lumi nel 1997,
con musiche di Massimo Berzolla. La vivace discussione su queste
due opere ha poi indotto gli organizzatori dell’incontro a promuovere
la loro edizione in questo volume. A Lucinda Spera si deve un’analisi
della Rosalinda di Bernardo Morando, romanzo (pubblicato nel 1650)
nel quale le vicende dei protagonisti si collocano sullo sfondo della
guerra civile inglese, e della Marchesa d’Hunsleij di Antonio Lupis,
apparsa a stampa nel 1677, biografia romanzata che narra la storia di
un altro cappuccino scozzese, John Forbes (morto nel 1606), il quale,
figlio di una cattolica e di un protestante, decise di seguire la religione
materna. La dialettica tra agiografia e elementi romanzeschi, decisiva
per la fortuna secentesca di opere come il Cappuccino scozzese del
Rinuccini e la Marchesa d’Hunsleij del Lupis, era anche al centro della
relazione di Clizia Carminati sulla Principessa d’Irlanda di Carlo Della
Lengueglia, del 1642, testo dedicato alla storia di Santa Brigida, vissuta
nel VI secolo.
Le tre relazioni di Pietro Messina, Franco Barcia, Anna Scattigno
ponevano al centro dell’attenzione il rapporto tra storiografia e let-
teratura nelle narrazioni secentesche di argomento inglese. Pietro
Messina, con la sua ampia disamina della produzione storiografica
italiana del Seicento, ha individuato nell’Accademia veneziana degli
Incogniti il centro principale di interesse verso le coeve vicende ingle-
si. A Gregorio Leti, figura chiave dei rapporti anglo-italiani della fine
del Seicento, autore di un Teatro Britannico e di biografie di Cromwell
e della regina Elisabetta, era dedicata la comunicazione di Franco
Barcia, autore tra l’altro di una insuperata bibliografia degli scritti
di questo prolifico autore. Anna Scattigno si è occupata di come la
regina Elisabetta venisse descritta nella continuazione degli Annali del
Baronio di Odorico Rinaldi.
Le tre relazioni di Stefano Villani, Edward Chaney e Francesco
Martelli, infine, indagavano alcuni dei canali attraverso i quali giun-
gevano nell’Italia del Seicento le notizie dall’Inghilterra. L’esame delle
relazioni degli ambasciatori veneti in Inghilterra del XVI e XVII
secolo di Stefano Villani mirava a capire il peso di questa produzione
nell’ambito di quella che potrebbe essere definita una storia dell’infor-
mazione politica nell’Europa di Antico Regime. Se Edward Chaney,
nel descrivere l’evoluzione del Grand Tour tra XVI e XVII secolo,
sottolineava l’importanza di questa pratica per la formazione culturale
9  Premessa

e intellettuale delle élites inglesi, Francesco Martelli, esaminando una


serie di resoconti di viaggi di tecnici toscani in Inghilterra negli ulti-
mi decenni del Seicento, conservati manoscritti presso l’Archivio di
Stato di Firenze (e in primo luogo quello splendidamente illustrato di
Benedetto Guerrini), faceva riflettere sull’importanza che questa sorta
di Grand Tour alla rovescia ebbe nel costruire l’immagine di questo
paese nell’Italia di quegli anni. Nel momento in cui l’Italia diventava
meta imprescindibile dei nordici alla ricerca del passato classico e
dell’arte, l’Inghilterra incominciava infatti a essere la destinazione di
intellettuali italiani interessati a scoprire nuove tecniche e a indagare
una diversa organizzazione del lavoro.
Le tre intense giornate di discussione misero in luce numerose linee
di ricerca che sarebbero potute scaturire dall’indagine della percezione
letteraria della Gran Bretagna in Italia («terre tragiche», per riprende-
re il titolo di un volume che esamina la ricezione della storia inglese
nella Francia del Seicento: J. Conroy, Terres Tragiques: l’Angleterre et
l’Ecosse dans la tragédie française du XVIIe siècle, Tübingen, Gunter
Narr 1999). La distanza temporale che separa il convegno dalla pubbli-
cazione degli atti ci permette di dire, con una qualche soddisfazione,
che la direzione di ricerca individuata allora è stata effettivamente
feconda di sviluppi, come dimostrano una serie di pubblicazioni che
alle discussioni di quei giorni si sono ispirate (si vedano ad esempio i
saggi del volume Narrazione e storia tra Italia e Spagna nel Seicento,
a cura di Clizia Carminati e Valentina Nider, Trento, Università degli
Studi 2007; e, per restare nell’ambito che ospitò il convegno, il volume
Fortuna europea degli Incogniti, a cura di Davide Conrieri, in corso di
stampa, esito del lavoro di un gruppo di ricerca cui si sono affiancate
altre iniziative, sempre volte all’indagine dei rapporti cinque-secente-
schi tra cultura italiana e cultura europea).

L’uscita a così grande distanza dallo svolgimento del convegno ha


comportato alcune variazioni rispetto all’impianto originario: si è
dunque scelto di proporre i saggi in un nuovo ordine rispetto a quello
in cui vennero presentati all’uditorio.
Con nostro grande rammarico il nome di Franco Croce non com-
pare tra quelli degli autori: la sua improvvisa scomparsa nel dicembre
2004 gli ha impedito di consegnare il suo saggio sulla Reina di Scozia
di Federico Della Valle. Alla sua memoria ci sia lecito dedicare questo
tardivo omaggio, non solo per l’eminenza dei suoi contributi allo stu-
dio della cultura secentesca, ma come ringraziamento per l’energia e
10  Storie inglesi

per l’entusiasmo con cui seppe animare con i suoi fervidi interventi il
dibattito al termine di ogni sessione del convegno.
A Giovan Francesco Biondi, assente dal convegno ma figura fonda-
mentale per lo studio dei rapporti secenteschi tra Italia e Inghilterra,
si è ritenuto utile dedicare due contributi di carattere documentario, a
mostrare quanto ancora sia da reperire e da studiare entro la carriera
avventurosa di questo personaggio. La relazione di Stefano Villani
sulle corrispondenze diplomatiche, superata dall’avvenuta pubblica-
zione online delle corrispondenze medesime, è stata sostituita da un
saggio su Maria Stuart come personaggio letterario. L’intervento di
Clizia Carminati sulla Principessa d’Irlanda di Carlo della Lengueglia
risultava, in ultima analisi, meno attinente di altri al tema del con-
vegno: si è preferito lasciare spazio ad altri contributi, tanto più che
all’autrice è affidata la cura dell’edizione del Cappuccino scozzese.
Non sono stati consegnati, infine, i saggi di Anna Scattigno, Grazia
Distaso, Stefano Tomassini, Edward Chaney e Davide Conrieri,
quest’ultimo con nostro particolare rammarico perché pensato, con
quello di Martino Capucci, in accompagnamento all’edizione appena
ricordata. L’intervento di Maurizio Fasce è stato incluso come intro-
duzione nell’edizione del Cromuele, rivista e corredata di uno studio
bibliografico per le cure di Carlo Alberto Girotto, cui va il nostro più
sentito ringraziamento.

Clizia Carminati
Stefano Villani
Santi e libertini. Gli storici italiani del
Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

1. Questa relazione vuol essere la continuazione di un mio vecchio


articolo sull’argomento apparso su «Studi Storici» nel 19841, in cui
cercavo di mostrare come alla metà del Seicento, mentre nel nostro
continente si affermava la tendenza alla formazione di un’area nor-
doccidentale decisamente orientata verso il capitalismo e il trionfo
della società borghese, e contemporaneamente l’inizio dell’arretra-
mento di un’altra parte dell’Europa (tra cui il nostro Meridione dove
furono sconfitte le tendenze altrove vittoriose), quello dei nostri storici
fu un contributo non secondario alla comprensione di ciò che stava
accadendo in uno dei punti cruciali della crisi, offrendo ai loro lettori
e al nostro circuito culturale una nuova percezione della «mutazione
di Stato», ormai affrancata dall’idea della congiura nobiliare, e anche
una nuova percezione del protagonismo popolare, che da subalterna
protesta, o mera pedina delle trame dei ‘Grandi’, si era fatto progetto
e proiezione verso uno Stato di tipo nuovo.
Naturalmente non possiamo pensare di trovare nelle loro pagine
la rivoluzione inglese come noi la conosciamo: uno dei grandi scon-
volgimenti dell’epoca moderna, che inaugurò un periodo di oltre due
secoli di mutamenti profondi, orientati al sovvertimento totale e senza
ritorno del vecchio ordine europeo. Il ventennio 1640-1660 vide in
Inghilterra grandi rivolgimenti con una straordinaria ricchezza di fer-
menti intellettuali, civili, religiosi. Pesava sui nostri autori una visione
del mondo (nella quale non potevano non essere immersi, e con cui
non potevano non fare i conti) che comportava, prima ancora che
un’avversione radicale, una estraneità di fondo all’idea di ‘innovazio-
ne’, di ‘novità’, intesa come «la negazione di regole fondamentali del

1
  Vorrei ringraziare la mia amica Alessandra Abbrugiati per il suo prezioso aiuto
informatico. Cfr. P. Messina, La Rivoluzione inglese e la storiografia italiana del
Seicento, «Studi storici», 25, 1984, pp. 725-46.
116  Pietro Messina

vivere civile e dell’ordine naturale»2, dove la colpa di fellonia e ribel-


lione era considerata accusa infamante in una scena del mondo che
appariva sostanzialmente invariabile. Essi affrontarono l’interpreta-
zione degli eventi inglesi, tanto complessi e per molti versi così alieni,
con gli strumenti ereditati dalla storiografia politica rinascimentale:
il loro maestro rimane Guicciardini3. Dire che questi strumenti, per
comprendere e interpretare la rivoluzione inglese così come noi la
percepiamo, erano del tutto inadeguati è, ovviamente, una banalità.
Più utile è cercare di capire la natura di questi limiti, vedere se anche
in essi vi fu qualcosa di positivo.
Uno dei limiti più gravi è senza dubbio la mancanza di intima
unitarietà delle loro opere, dove predomina l’impressione di trovarsi
davanti a una congerie di dati, notizie, ‘fatti’, priva di una più alta
organicità, senza un più profondo equilibrio fra le parti della narra-
zione, anche se questa è, in parte, una deformazione prospettica, dato
che nelle nostre coscienze è acquisita l’esistenza di un processo storico,
politico e sociale che chiamiamo rivoluzione inglese, inserito in una
più ampia trasformazione che ha portato alla formazione dell’Europa
contemporanea, mentre i nostri storici non solo scrissero di avveni-
menti a loro contemporanei dagli esiti ignoti − ricordiamo infatti che
circa i due terzi della produzione di cui ci occupiamo vide la luce tra
il 1640 e il 1660 −, ma la stessa concezione della storia come processo
era loro sconosciuta.
L’incapacità di scorgere più profonde connessioni tra i semplici
‘fatti’ portò dunque a una sostanziale incapacità di comprendere il
fenomeno rivoluzionario nel suo complesso, anche perché gli storici
mutuarono dal Guicciardini non solo i moduli storiografici, ma anche
l’amara visione antropologica, secondo cui «illusione sarebbe il cre-
dere che nel mondo [l’uomo] operi non per sé solo e per la sua utilità
ponendosi contro tutti se è in giuoco il proprio vantaggio, ma anche
per i propri amici, in nome di un idolo appartenente al mondo dei
miti»4. In Gualdo Priorato, Bisaccioni, Siri, Brusoni, questa visione è

2
  R. Villari, Elogio della dissimulazione, Roma-Bari, Laterza 1987, p. 8; Id., Il
ribelle, in L’uomo barocco, Roma-Bari, Laterza 1991, pp. 109-37; Id., Considerazioni
sugli scrittori politici italiani dell’età barocca, in Storia, Filosofia e Letteratura, Scritti in
onore di G. Sasso, a cura di M. Herling e M. Reale, Napoli, Bibliopolis [1999], pp. 332-7.
3
  B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Bari, Laterza 1929, pp. 99 e 136.
4
 G. Toso Rodinis, Galeazzo Gualdo Priorato. Un moralista veneto alla corte di
Luigi XIV, Firenze, Olschki 1968, p. 5.
117  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

senza remissione; il brutale interesse, l’ambizione, la cupidigia sono i


soli motori delle azioni umane, con il loro necessario seguito di trame,
intrighi, sotterfugi, inganni: ecco il filo conduttore anche delle vicen-
de inglesi, dove si può trovare un certo senso di continuità nella lotta
per il potere, per difenderlo, per conquistarlo o usurparlo, e che vedrà
prevalere il più astuto, il più ambizioso, il più abile manipolatore di
simulazione e artifici: Cromwell.
Tale visione aveva antiche e solide radici nella nostra cultura; per
tanti aspetti era organica a una concezione conservatrice della storia,
vista essenzialmente come teatro delle sole umane passioni, e perciò
del tutto impreparata a recepire quei fenomeni che vedevano emerge-
re soggetti sociali, idee, valori profondamente antagonisti alla società
assolutistico-feudale5.
Punto di riferimento primario per la loro griglia interpretativa fu
anche il modello elaborato per le guerre civili in Francia del secolo
precedente, così come lo troviamo in Boccalini, e soprattutto nella
fondamentale opera del Davila, associato honoris causa agli Incogniti
e il cui libro era uscito proprio a Venezia nel 16306. Come in Francia,
si credette che anche in Inghilterra si stava assistendo a una lotta tra
fazioni e partiti che dilaniavano la nazione distruggendo l’autorità del
re, servendosi della religione come bandiera e copertura dei loro inte-
ressi, e per poter guidare un popolo ignorante e superstizioso: da qui
anche la loro radicale avversione per i ribelli.
A rendere ancora più profondo il solco fra i nostri storici e gli avve-
nimenti inglesi ci fu, poi, l’orizzonte essenzialmente biblico-teologico
in cui si inquadrò ideologicamente la rivoluzione, che espresse i suoi
valori culturali attraverso forme di pensiero religiose, una forma a cui
i nostri storici, con i loro canoni interpretativi e le loro ascendenze
teoriche, erano del tutto impermeabili.
Tutta e solo politica è infatti la loro interpretazione delle tendenze e
delle lotte religiose. Essi videro il puritanesimo come un pericolo per
l’esistente ordine sociale, videro i suoi legami con i ceti più bassi, ma
non riuscirono a concepire in alcun modo come gli uomini potessero
battersi per grandi cambiamenti guidati dalla fede in ideali trascen-
denti. Queste motivazioni profonde all’azione per grandi masse di

5
  Cfr. N. Recupero, Storia provvidenza utopia. Forme ideologiche nel Seicento
inglese, Catania, Giuseppe Maimone [1994], pp. 130-9.
6
  A.C. Davila, Historia delle guerre civili di Francia, Venetia, Tomaso Baglioni
1630.
118  Pietro Messina

uomini, che il puritanesimo dava proprio perché, oltre che teologia,


veicolo ideologico e aderente perciò ai bisogni e alle aspirazioni di più
vasti gruppi sociali, per i nostri storici erano inaccessibili; essi riman-
gono ancorati alle loro teorie sull’«interesse», l’«ambizione» e il loro
seguito di trame e intrighi, dove religione e libertà altro non sono che
maschere, «mantello» sotto «il cui colore» appositamente si celano le
«private passioni». Furono in questo eredi e continuatori della forma
mentis con cui Guicciardini e la nostra storiografia rinascimentale
avevano guardato alla Riforma protestante, e più in generale ai feno-
meni religiosi nella storia, e si posero sulla scia dei maggiori eredi di
quella tradizione: Sarpi, Davila, Bentivoglio7. Questa impostazione
essenzialmente umanistica era patrimonio non solo della nostra
storiografia, ma improntava di sé, pur con diverse sfumature, una
parte tutt’altro che esigua della nostra cultura, ispirando ad esempio
il modo di vedere e pensare di molti diplomatici: dispacci e relazioni
degli agenti veneti, del toscano Salvetti, dei genovesi, del Rossetti, pure
ecclesiastico e nunzio apostolico, non sfuggono a questa impostazione
tutta ‘politica’, e del resto il materiale da loro prodotto fu una delle
fonti dei nostri storici. Vero è però che tale tendenza (che li portò a
risolvere la religione nella politica come voleva l’eredità machiavel-
liana) si sarebbe rivelata ricca di inevitabili, esplosive contiguità con
le teorie libertine sull’impostura religiosa8, anche perché occorre
rimarcare come praticamente tutti gli autori che più diffusamente si
occuparono della rivoluzione inglese appartennero all’ambito dell’Ac-
cademia degli Incogniti, principale centro del libertinismo italiano. E
al pensiero di Guicciardini e Machiavelli, veri assi portanti della loro

7
  G.M. Barbuto, Religione e politica in Guicciardini, «Il Pensiero Politico»,
33, 2000, pp. 385-413, in part. per l’atteggiamento verso la Riforma pp. 410-3; G.
Miccoli, La storia religiosa, in Storia d’Italia, II.1, Torino, Einaudi 1974, p. 983;
D. Cantimori, Interpretazioni della Riforma Protestante, in Grande antologia
filosofica, VI: Il pensiero della Rinascenza e della Riforma, Milano, Marzorati
1964, p. 275; Croce, Storia dell’età barocca in Italia cit., p. 133. Ma per le teorie
sull’‘interesse’ si tenga presente: D. Taranto, Studi sulla protostoria sul concetto
di interesse. Da Commynes a Nicole (1524-1675), Napoli, Liguori 1992, in part. pp.
53-158.
8
  Sull’ascendenza machiavelliana di queste teorie: T. Gregory, Apologeti
e Libertini, «Giornale critico della Filosofia italiana», 79, 2000, pp. 6-8. Id.,
Aristotelismo e libertinismo, ibid., 61, 1982, pp. 163-5; cfr. E. Cutinelli-Rendina,
Chiesa e religione in Machiavelli, Pisa-Roma, IEPI 1998.
119  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

visione della storia, occorre anche aggiungere, nel considerare il loro


sostrato intellettuale, gli apporti del libertinismo francese, la critica
bruniana alla religione, il magistero eterodosso del Boccalini, e il
pensiero politico di Campanella: quella parte almeno più ancorata al
realismo e che più risente dell’influsso machiavelliano, il Campanella
degli Antiveneti, degli Aforismi politici e per certi versi dell’Atheismus
Triumphatus; se è estraneo ai nostri storici il Campanella filosofo e
profeta cristiano, è infatti molto probabile che essi guardassero con
simpatia al congiurato antispagnolo, al perseguitato dall’Inquisizione
che finge la pazzia, all’autore che mostra di criticare ciò che in realtà
vuole meglio esporre e che non manca di accennare alla religione come
impostura, insomma al ‘Campanella libertino’9 (definizione che, ricor-

9
  G. Ernst, Campanella ‘libertino’?, in Ricerche su letteratura libertina e
letteratura clandestina nel Seicento, Atti del convegno di studio di Genova (30
ottobre-1 novembre 1980), Firenze, La Nuova Italia 1981, pp. 231-41; G. Spini,
Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano,
Firenze, La Nuova Italia 1983, pp. 39-40, 83-99, 114-24; V. Angiuli, Ragione
moderna e verità del cristianesimo, Bari, Levante 2000, paragrafo ‘Campanella
libertino’? del cap. viii, pp. 236-41, di un libro peraltro sconcertante, che arruola
senza batter ciglio Campanella (e Charron) nella più pura ortodossia cattolica.
Particolarmente interessanti per il libertinismo erano proprio quei luoghi in cui
Campanella dava una lettura politica della religione sotto l’influsso machiavelliano,
nella Monarchia di Spagna, negli Antiveneti, nell’Atheismus Triumphatus, e in quel
Dialogo politico contra luterani, calvinisti e altri eretici, dove «è la certezza addirittura
che sotto le apparenze d’un’apologetica confessionale si celi una concezione del
tutto ‘politica’ e machiavelliana della religione» (Spini, Ricerca dei libertini cit.,
p. 40). Anche Boccalini offrì sempre un’interpretazione squisitamente politica
delle guerre religiose in Germania, Olanda e Francia. Sui rapporti tra Boccalini e
il machiavellismo: M. Sterpos, Boccalini tacitista di fronte al Machiavelli, «Studi
secenteschi», 12, 1971, pp. 255-83. Sui rapporti tra Campanella e il machiavellismo:
L. Addante, Campanella e Machiavelli: indagine su un caso di dissimulazione, «Studi
storici», 45, 2004, pp. 727-50; V. Frajese, Profezia e machiavellismo. Il giovane
Campanella, Roma, Carocci 2002; P. Caye, Campanella critique de Machiavel. La
politique: de la non-philosophie à la métaphysique, «Bruniana & Campanelliana», 8,
2002, pp. 333-51; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna,
Roma-Bari, Laterza 1995, pp. 71, 77, 140, 153, 160-8, 468; G. Ernst, La mauvaise
raison d’État: Campanella contre Machiavel et les politiques, in Raison et déraison
d’État. Théoriciens et théories de la raison d’État aux XVIe et XVIIe siècles, éd. par
Y.C. Zarka, Paris, Puf 1994, pp. 121-49; J.M. Headley, On the Rearming of Heaven:
120  Pietro Messina

diamo, prende le mosse da un’idea di Hermann Conring − nome che


incontreremo ancora parlando degli Incogniti −; e va tenuto presente
in questo senso l’interesse di Naudé per il pensiero campanelliano10 e il
fatto che un testo quale il Theophrastus redivivus attinga a Campanella
più ancora che a Machiavelli11; e ricordiamo infine che sia Naudé sia
lo Scioppio, che portò clandestinamente fuori dal carcere le opere di
Campanella, furono poi annoverati fra gli Incogniti). Tutti i nostri
storici «libertini» parlano dei vari «eretici» d’Inghilterra non da un
punto di vista teologico religioso, ma sempre identificandoli con idee
e partiti politici; in particolare, i puritani e i calvinisti sono visti come
interpreti del programma popolare e democratico. In Bisaccioni, che
più degli altri sottolineò il ruolo della religione e del puritanesimo, c’è
una vera e propria immedesimazione tra calvinismo e mobilitazione
dei ceti inferiori. Paradigmatico questo suo brano:

Andavano li Bassi più sempre insinuando nel popolaccio, e ne’ villani concorsi
[…] per mezo de’ Predicanti quanto fosse convenevole e utile di abbassare
l’alterigia de’ Nobili piccioli tiranni del povero, sanguisughe delle sostanze
affaticate de i miseri, dilapidatori de i sudori più stentati de gli operarii al solo
fine di vivere fra le lautezze e dissolutezze più abbominevoli a Dio (sempre
Dio è lo scudo abusato da Calvino); che soppressa una volta questa turba di
gente otiosa e costretta a vivere nella purità Puritana (e che Purità!), sarebbe
in tutti abbondata la carità, e migliorata la conditione del povero.

Altrove, Bisaccioni costantemente insiste su «la setta Calvina, unica


inimica della Monarchia e della Nobiltà, et unica fautrice degli animi
plebei», scrivendo esplicitamente che il fine politico del calvinismo è
«introdurre la Republica Popolare»12; e simili citazioni si potrebbero

The Machiavellism of Tommaso Campanella, «Journal of the History of Ideas», 49,


1988, pp. 387-404; N. Badaloni, Tommaso Campanella, Milano, Feltrinelli 1965,
pp. 263, 269; M. D’Addio, Il pensiero politico di Gaspare Scioppio e il Machiavellismo
del Seicento, Milano, Giuffré 1962, pp. 359-70.
10
  G. Ernst, Tommaso Campanella, Roma-Bari, Laterza 2002, pp. 221-3, 250-1, e
L. Bianchi, Rinascimento e libertinismo. Studi su Gabriel Naudé, Napoli, Bibliopolis
1996, par. Naudé e Campanella del cap. I, pp. 62-70.
11
  Theophrastus redivivus, a cura di G. Canziani e G. Paganini, Firenze, La Nuova
Italia 1981-82, pp. 969-70, 983.
12
  M. Bisaccioni, Historia delle guerre civili di questi ultimi tempi, Bologna, per
Carlo Zenero 1653, pp. 58, 56, 30 (1a ed. Venetia, per Francesco Storti 1652).
121  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

facilmente moltiplicare. Così Brusoni, che segue Bisaccioni, parla


della «plebaglia di Londra» e del suo «amore del Calvinismo, nemico
giurato della nobiltà e della Monarchia»13; e Siri a volte sembra non
avere dubbi nel considerare il calvinismo un vero e proprio program-
ma politico a carattere popolare, repubblicano e antinobiliare, e arriva
comunque ad attribuire direttamente a Calvino e a Beza, oltre che a
Lutero e a gli «antichi Heresiarchi», la paternità delle idee contrattuali-
stiche e democratiche, e come Bisaccioni pensa che il calvinismo «con
fierissima avversione alla Monarchia tanto civile quanto spirituale
anhela a fabricare su la rovina dello Stato Monarchico quello della
Democratia»14.
Si può davvero affermare che per tutti i nostri storici la rivoluzione
inglese fu, per usare parole loro, «puritana» solo nella misura in cui fu
«democratica» e «popolare», anche se c’è da notare che non sempre
considerarono il calvinismo, pur nelle sue varie correnti, come l’unica
religione dei rivoluzionari (è infatti pressoché unanime il loro giudizio
sugli Indipendenti, ritenuti puri manipolatori dei sentimenti religiosi
ma intimamente non lontani da un sostanziale ateismo). In questa
inopinata, improbabile convergenza con quelle che saranno le analisi
weberiane e marxiste del Novecento, confluivano vari elementi. C’era
innanzi tutto la convinzione che in Inghilterra, con la rivoluzione,
si fosse verificata una frattura orizzontale nel corpo sociale; per tutti
loro la guerra civile fu anche guerra della «plebe» e del «popolo», dei
«Mercanti e artigiani» contro l’aristocrazia e il re, e la nobiltà che
imprudentemente aveva dato il via ai tumulti e che col re si era poi
schierata, col re fu travolta15. C’era inoltre il segno dell’inceppamento
della loro macchina interpretativa incentrata essenzialmente sul ruolo
dell’«interesse» puramente individuale; e c’era poi il loro modo di
porsi verso il fenomeno religioso, in cui troviamo molto più l’eredità
machiavelliana che non lo sforzo da lungo tempo avviato dalla Chiesa
di Roma per presentarsi come suprema garanzia di stabilità per l’ordi-
ne costituito. A questo proposito, Albano Biondi ricorda in particolare
il tentativo del Bozio «di ridurre a sistema il principio dell’equivalenza
tra religiosità (vera) e prosperità terrena», riformulando «in positivo

13
  G. Brusoni, Historie universali d’Europa, Venetia, per Francesco Storti 1657,
p. 696.
14
  V. Siri, Mercurio veridico, t. II, Casale, per Christoforo della Casa 1647, I, p.
248.
15
  Messina, La rivoluzione inglese cit., pp. 740-3.
122  Pietro Messina

il concetto – che andava confutato come proposta degli “impii poli-


tici” – della religione come “instrumentum regni”. Riproporla come
fundamentum, ma sottolinearne gli esiti anche utilitaristici, equivaleva
a salvare i principî, aprendo contemporaneamente un fertile filone di
pubblicistica immediatamente comprensibile»16; e in questo contesto
perfettamente si inseriva la propaganda cattolica che identificava gli
eretici coi sovversivi, secondo un modulo che avrebbe avuto vita lun-
ghissima17.
D’altro canto Gino Benzoni, riprendendo una tesi di Spini ostile al
libertinismo italiano, ripropone l’idea che «la stessa teoria libertina
dell’impostura della religione, nell’atto stesso in cui si traduce in uso
politico della religione per meglio dominare il gregge dei sudditi, può
essere – per certi versi – considerata figlia, degenere fin che si vuole,
ma pur sempre figlia del controriformistico teorizzare il nesso inscin-
dibile tra religione e autorità, del controriformistico denunciare l’“he-
retica pravità” come sconvolgimento su tutti i piani, come sovversione
sociale, come rivoluzione politica»18. Ricordando a questo proposito le
discordanti opinioni espresse da Tullio Gregory19, io credo che nelle

16
  A. Biondi, Aspetti della cultura cattolica post-tridentina, in Storia d’Italia,
Annali, IV, Torino, Einaudi 1981, pp. 293-4.
17
  Scriveva nel secolo seguente F. Lafitteau: «Il Giansenismo è il Calvinismo
stesso raffinato, e in ciò solo da questo diversifica, che quello minava l’Altare, e
il Trono secretamente, e questo lo fa palesemente». (Istoria della Costituzione
Unigenitus Dei Filius, tradotta da Innocenzo Nuzzi, I, Roma, Giovanni Zampel
1794, pp. xxiv-xxv).
18
  G. Benzoni, Intellettuali e Controriforma, in Storia della società italiana, XI:
La Controriforma e il Seicento, Milano, Teti 1989, pp. 135-6. Aveva scritto Spini
del libertinismo: «figlio magari illegittimo e scapestrato, ma pur sempre figlio
della grande mamma Controriforma» (Alcuni appunti sui libertini italiani, in, Il
libertinismo in Europa, a cura di S. Bertelli, Milano-Napoli, Ricciardi 1980, p. 120),
«una sorte di sottoprodotto eterodosso della Controriforma» (Ricerca dei libertini
cit., p. 42).
19
  T. Gregory, Il libertinismo della prima metà del Seicento: stato attuale degli studi
e prospettive di ricerca, in Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina
nel Seicento cit., pp. 3-47, in part. pp. 7, 40-1; Id., Aristotelismo e libertinismo cit.,
153-167; e si veda il bel saggio di C. Borghero, I ritmi del moderno. Discussioni
storiografiche su continuità e discontinuità nella storia del pensiero europeo tra
Cinquecento e Settecento, «Archivio Storico Italiano», 162, 2004, pp. 314-45, in part.
pp. 326-30; cfr. Id., Ragione classica e libertinismo, «Giornale critico della filosofia
123  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

pagine dei nostri storici sull’Inghilterra questa interpretazione tutta


politica della religione, se da un lato costituì un limite formidabile per
una comprensione più ampia di ciò che stava accadendo, dall’altra fu
molto più vicina a un’eterodossia tendenzialmente orientata verso il
dubbio scettico e la demistificazione e quindi l’antagonismo che al
conformismo verso gli schemi, i precetti e i valori egemoni del nostro
panorama culturale. Scriveva uno dei maggiori critici controriformisti
del Machiavelli, il Ribadeneyra:

Gli stessi politici contro i quali noi scriviamo tengono per ferma questa verità.
Et il Machiavelli che è il maestro di tutti, dice che la Religione è necessaria per
conservare gli Stati […]. E G. Bodino dice che i medesimi ateisti […] confes-
sano non essere cosa più efficace e di maggior forza per conservar gli Stati e le
Repubbliche che la Religione; e che essa è il principal fondamento della potenza
dei Monarchi e Signorie, e della esecuzione delle leggi, della ubbidienza dei
sudditi, della riverenza e rispetto che ai Magistrati si deve […]. Ma la differenza
che resta fra i Politici e noi altri, è che essi vogliono che i Principi approvino
e tengan per buona la Religione dei loro sudditi, in qualunque modo si sia o
falsa o vera. Noi all’incontro vogliamo che conoscano che la religione catolica
è la sola vera e che essa sola favoriscano20.

È esattamente questa visione dei «politici» che i nostri storici adotta-


no parlando dell’Inghilterra: si trovarono a trattare, in Italia, di eretici,
ed eretici che avevano spinto la loro rottura con Roma fino alle più
estreme conseguenze, eppure ogni condanna di natura morale o in
qualsivoglia modo ispirata alla religione è in loro assente; attaccarono
violentemente i calvinisti perché sovversivi e istigatori della plebe, non
perché seguaci della predestinazione, e prova ne sia il fatto che manca
in loro l’altro cardine del pensiero ufficiale a tale proposito: l’apolo-
gia del cattolicesimo. Nelle loro indagini la salvezza dell’anima nulla
conta, ed ecco che il teorema del Bozio, per loro, non può più valere;

italiana», 81, 2002, pp. 367-88; e cfr. L. Bianchi, Il libertinismo in Italia nel XVII
secolo, «Studi storici», 25, 1984, pp. 659-77.
20
  P. Ribadeneyra, Tratado de la Religion y virtudes que deve tener el Principe
Christiano, para governar y conservar sus Estados. Contra lo que Nicolas Machiavelo
y los Politicos deste tiempo enseñan, Madrid, P. Madrigal 1595, tr. it. Trattato della
Religione e virtuti, che tener deve il Principe Christiano, per governare, e conservare i
suoi stati, traduzione di Scipione Metelli, Genova, Gioseffo Pavoni 1598, p. 272, cit.
da D’Addio, Il pensiero politico di Gaspare Scioppio cit., pp. 321-2.
124  Pietro Messina

infatti la rivoluzione, parlando delle sue cause e del suo progredire,


non viene mai presentata con convinzione come frutto dell’ira divina,
con una procedura che, omologando il traumatico sovvertimento
politico alle catastrofi naturali, avrebbe fruito di uno dei più levigati
canali di ricezione e interpretazione del reale della mentalità dell’e-
poca, reso ancor più potente dai grandi sforzi della Controriforma
perché fosse riconosciuta solo la Divina Provvidenza come suggello e
guardiano metafisico dell’ordine del mondo.
Pur nella diversità delle valutazioni, sono tutte e solo politiche le
cause della rivoluzione per i nostri storici: ambizione e «contumacia»
nei sudditi e nel Parlamento, errori di Carlo e dei suoi ministri nei
rapporti col Parlamento, nella politica economica e in quella religiosa,
e se fu la materia religiosa la principale causa del precipitare della crisi,
il giudizio rimane politico, considerando la religione un pretesto per
programmi di altra natura, e insieme ribadendo la sua identificazione
come fondamentale istrumentum regni: per questo essa non va muta-
ta; errore madornale di Carlo fu il volervi introdurre «novità», tanto
più pericolose perché era evidente che esse irritavano profondamente
i sudditi. L’ascendenza teorica di questa posizione agevolmente si può
trovare nel passo di Machiavelli: «Quelli principi o quelle republiche
le quali si vogliono mantenere incorrotte hanno sopra ogni altra cosa
a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione, e tenerle sem-
pre nella loro venerazione» (Discorsi, I, 12)21.
Nessuna traccia in essi dell’ortodossia cattolica, anche perché tutti
loro, e potevano vederlo anche i lettori, sapevano che il culto che
Carlo avrebbe dovuto lasciare immutato per non scontentare i pre-
sbiteriani era non meno eretico. Particolarmente Gualdo sembra che
voglia approfittare di questa contraddizione, e, con un procedimento
tipico del libertinismo degli Incogniti, tanto più volutamente insiste
sul motivo – a questo punto solo apparentemente tradizionalista, e
perciò inattaccabile – della necessità di rispettare la «propria consue-
tudine» e «le regole […] con le quali sono morti li Padri»22. E Gualdo
sembra voler giocare ancora su questo punto sollecitando altre con-
traddizioni nel modo di vedere proprio della cultura ortodossa, come

21
  Su interpretazione politica della religione e tradizione libertina: T. Gregory,
Theophrastus redivivus. Erudizione e ateismo nel Seicento, Napoli, Morano 1979,
pp. 109-17.
22
 G. Gualdo Priorato, Historia del conte Galeazzo Gualdo Priorato. Parte secon-
da, Venetia, Bertani 1641, p. 39.
125  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

quando commentando lo spoglio dei beni della Chiesa episcopale non


manca di enfatizzare: «ingiuria così grave al Cielo, che non haverebbe
tralasciata la vendetta», mentre proprio nel brano immediatamente
precedente dedicato alla Gran Bretagna aveva riferito come in Irlanda
il nunzio Rinuccini si fosse scagliato contro l’accordo con il realista
Ormonde, lanciando la scomunica contro chi avesse accettato l’allean-
za con quegli eretici: il dubbio libertino di un Deus ultor non in linea
con la Santa Sede è inevitabile23.
Se a volte si affaccia il tema della rivoluzione inglese come nemesi
provvidenziale, punizione per l’apostasia di Enrico VIII, è abbastanza
evidente che il richiamo al Tudor, al grande ciclo che si compie con un
formidabile evento, quando non è formale, e quindi intellettualmente
sterile, ossequio all’ortodossia, è solo un espediente retorico; non lo è
solo nel momento in cui serve a introdurre considerazioni di ordine
squisitamente storico e politico: l’unico terreno dove la rivoluzione
può nascere. La punizione divina per l’abbandono della vera fede è
assente. Esemplari a questo proposito sono specialmente alcuni passi
del Bisaccioni: Enrico VIII permise che le eresie penetrassero nel
regno innescando un processo pericoloso, perché «l’Heresia è nemica
del buon Principato, perché se quella vuole la libertà, questo desidera
un’esatta obedienza», e il processo è durato cento anni:

Per cavare il frutto della Heresia, ch’è la rovina della Monarchia, bisogna prima
che la falsa dottrina sia predicata, dispersa e si radichi benissimo ne’ cuori de
gli huomini, onde si facia universale, e scacci la bona dottrina del Vangelo, et
all’hora il Calvinista assodato pratica la Repubblica popolare, che è l’ultima
sua maturità.

Sono politici, per lui, i fini dei calvinisti, e politici sono gli insegna-
menti da trarne: non corrompere la religione, e non «permettere già
mai la prima insolenza de popoli»24. Ed è fin troppo agevole mostrare
come al segretario degli Incogniti fosse estranea ogni intenzione di

23
  Id., Dell’Historie del conte Galeazzo Gualdo Priorato. Parte quarta, Venetia,
per il Turrini 1651, pp. 61, 82.
24
  Bisaccioni, Historia delle guerre civili [1653] cit., pp. 2, 216, 215. Sul tema
cattolico della punizione divina per l’apostasia cfr.: R. Macgillivray, Restoration
Historians and the English Civil War, The Hague, Martuus Nijhoff 1974, pp. 229-30,
su quello analogo anglicano della Restaurazione come intervento provvidenziale
pp. 219-21, e bibliografia p. 220.
126  Pietro Messina

oltranzista paladino della fede contro gli eretici: Bisaccioni fu tra i più
grandi ammiratori di Gustavo Adolfo, in un libro che proprio per que-
sto finì all’Indice25; dedicò delle Considerazioni, rimaste manoscritte,
a un esame sereno e al confronto con le idee politiche di Henri de
Rohan, il capo degli ugonotti, per cui mostra grande interesse26, tant’è
che del Rohan tradusse anche il Parfait Capitaine27, dove domina un
rigoroso realismo politico. Egli, che fu ammiratore delle Province
Unite28, si scagliò contro i calvinisti di Inghilterra perché lì lo colpì il
connubio, e il ruolo motore che vi vide svolgere, con una sovversione
radicale ad ampia base sociale anche tra i ceti più umili, su un modulo
che non era quello dell’indipendenza dallo straniero.
Si confrontino le pagine dei nostri storici con quanto scriveva un
anonimo gesuita nel 1651:

Concludo che una tanta et così notabile Novità succeduta in quel Regno
sia stata determinata et permessa da Iddio per castigare [Re Carlo] e tutti li
suoi che discendevano da heretici; che in mille maniere hanno conculcata la
Religione Cattholica; et anche per punire tutta quella Gente che si è alienata
mattamente dal vero Culto che si dava a S. Divina Potestà […]; ciò è proceduto
per Giustissimo Giudicio di Dio, et perché essi Prencipi imparino di stare ben
costanti nell’osservanza della Legge Divina, acciocché in loro medesimi non
caschi uno stesso Flagello di Privatione di Stati et di Dominii29.

E tema simile, anche se di sapore più letterario che teologico, tro-


viamo in Vincenzo Armanni: «Quello stral velenoso, che di folle
amore piagando l’impuro seno d’Henrico infettò d’heresia e ruinò
questi popoli sfortunati è il folgore scoccato hoggi da Dio per gastigar
le colpe di quel Monarca impudico sopra il Capo d’un successore

25
  M. Bisaccioni, Commentario delle guerre successe in Alemagna dal tempo che
il Re Gustavo Adolfo di Svetia si levò di Norimberga, Venetia, A. Baba 1633; cfr.
Spini, Ricerca dei libertini cit., p. 153.
26
  M. Miato, Henri de Rohan e Maiolino Bisaccioni sull’interesse dello Stato, «Il
Pensiero Politico», 24, 1991, pp. 143-64.
27
  M. Bisaccioni, Sensi civili… sopra il Perfetto Capitano di H. D. R. e sopra la
tactica di Leone Imperadore, Venetia, T. Pavoni 1642.
28
  Miato, Henri de Rohan cit., p. 164.
29
  Biblioteca Nazionale Centrale Roma, Manoscritti Gesuitici, ms. 314, C38, f.
271.
127  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

innocente […]; or chi a questo grande arcano della Providenza non si


perde per meraviglia?»30.
E ancora, il gesuita Giacomo Lubrano in alcune sue poesie ripropo-
ne il tema del «sanguinario», «crudele», «impudico» Enrico, per le cui
colpe «il patibolo al tron successe erede»31, e quello dell’eresia punita
con la rivoluzione: «Sì, sì meste piangete / Spiagge d’Anglia interdette;
/ Già fischian le vendette, / E attonite vedrete / Fra tumulti improvvisi,
/ Da suddite mannaie i Re recisi»32. È il tema della rivoluzione come
punizione divina che troverà poi la sua massima espressione orato-
ria nell’elogio funebre di Bossuet per la regina Enrichetta Maria33. E
ancora si consideri quanta diversità rispetto al gesuita Luigi Giuglaris
(che considerava la nobiltà l’unico fondamento della monarchia e base
dello Stato, e pensava che le forche fossero «il più bel mobile ch’ab-
bino i Prencipi»)34; egli, in un’opera dedicata all’educazione di Carlo
Emanuele II di Savoia, riprende per la rivoluzione inglese il motivo
delle colpe di Enrico VIII che «a’ Re sui successori preparò le miserie
che tuttavia van soffrendo»; similmente parla del «genio di tutti gli
Heretici, per desiderio d’una licentiosa Anarchia indirizzar tutti i colpi
a distruggere la Monarchia», e fa convergere tutto il ragionamento
sull’esaltazione della religione cattolica come unico fondamento dello
Stato35: elemento che nei nostri storici, compreso il Bisaccioni che è il
più violento critico dei calvinisti, è assente (Bisaccioni infatti ribadisce

30
 V. Armanni, lettera all’abate Michele Giustiniani, in Lettere, vol. III, Macerata,
per Giuseppe Piccini 1674, p. 59; lo stesso Armanni aveva sull’argomento fatto con-
siderazioni più propriamente politiche nella Lettera di ragguaglio da me scritta in In-
ghilterra (Archivio di Stato di Gubbio, manoscritti di V. Armanni, II A12, f. 4), eviden-
temente sotto l’influenza del nunzio Rossetti di cui era segretario, e che diede sempre
una lettura essenzialmente politica delle vicende inglesi.
31
 G. Lubrano, Scintille poetiche o poesie sacre, e morali di Paolo Brinaccio (Jacopo
Lubrani S. J.), Ode VII, La Fata Morgana, Venezia, presso Andrea Paoletti 1692, p.
189.
32
  Ibid., Ode XVI, Il Zelo eloquente, p. 263.
33
  J.B. Bossuet, Oraisons funèbres, éd. par B. Velat, Paris, Gallimard 1930, p. 86:
«c’etait le conseil de Dieu d’instruire les Rois à ne point quitter son Église».
34
  Nelle sue prediche quaresimali, citato da A. Belloni, Il Seicento, in Storia
letteraria d’Italia, Milano, Vallardi 1929, p. 519.
35
  L. Giuglaris, La scuola della verità aperta a’ principi, Venetia, per il Miloco
1668, pp. 178, 126 (1a ed. Torino, Gio. Battista Ferosino 1650 e Bologna, Taurini
1650, con moltissime riedizioni lungo tutto il secolo).
128  Pietro Messina

in termini generali che il principe «non può godere lo Scettro se non


fa l’unità del credere de Vassalli»)36.
Questa impostazione di derivazione sia guicciardiniana sia machia-
velliana, e a cui forse non sono estranei gli Aforismi politici del
Campanella37 (opera la cui conoscenza era diffusa fra gli Incogniti),
costituì una gabbia interpretativa sicuramente angusta per la comples-
sità delle tematiche culturali e delle dinamiche sociali della rivoluzione
inglese, ma è anche vero che questo limite soggettivo dei nostri storici
era anche il portato di una nostra prestigiosa tradizione culturale;
in un’Europa illuminata dai roghi di eretici e streghe, una posizione
come quella dei nostri autori, che possiamo definire precorritrice di
una antropologia radicalmente laica, è tanto più di valore in quan-
to espressa in un luogo e in un momento di pesantissimo controllo
ecclesiastico su tutta la vita culturale. E non dimentichiamo poi una
certa assonanza con le interpretazioni «politiche» dei grandi con-
temporanei: Hobbes e Clarendon38. In particolare mi piace ricordare
l’osservazione che Charles Firth nel 1938 faceva sulla History del
Clarendon: «[it] has the fundamental defect that it is a history of a
religious revolution in which the religious element is omitted»39.
Vorrei ora tornare sul connubio denunciato dai nostri storici tra
calvinismo, teorie democratiche e ceti «ignobili». L’importanza data a
una religione come il calvinismo come fattore storico in rapporto cau-
sale con le insurrezioni e i sommovimenti popolari, oltre che trovare
conferma nell’esperienza delle guerre civili di Francia e soprattutto
negli avvenimenti olandesi, è da mettere in relazione con la presa
di coscienza che nei nostri storici iniziava a emergere del peso cre-
scente nella storia loro contemporanea di nuovi ampi settori umani.
Strati sociali non inquadrabili né comprensibili attraverso le lenti
culturali forgiate nel mondo delle corti rinascimentali italiane. A quel

36
  Bisaccioni, Historia delle guerre civili [1653] cit., p. 2.
37
  T. Campanella, Aforismi politici, a cura di L. Firpo, Torino, Libreria
Scientifica G. Giappichelli 1941, aforisma 112, pp. 129-30.
38
  G.M. Finlayson, Historians, Puritanism and English Revolution: the Religious
Factor in English Politics before and after the Interregnum, Toronto, University of
Toronto Press 1983, pp. 47-50; su Clarendon e la religione cfr. Macgillivray,
Restoration Historians cit., p. 221; B.H.G. Wormald, Clarendon, Politics, History
and Religion, 1640-1660, Cambridge, Cambridge University Press 1951.
39
  Cit. da R. Richardson, The Debate on the English Revolution Revisited, London-
New York, Routledge 1988, p. 34.
129  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

mondo e alle sue teorie appartenevano gli schemi basati su interesse


e ambizione, adatti forse per dinamiche politiche limitate, ma del
tutto inadeguati di fronte all’intervento sulla scena di grandi masse di
uomini. Ed ecco che per gli storici italiani il calvinismo appare come
una vera e propria teoria sovversiva, e sono costretti ad ammettere la
sua capacità di presa e mobilitazione; anche in questo caso, sia chiaro,
essi non danno alcun valore ai risvolti più precipuamente dogmatici o
spirituali, perché le dottrine puritane comunque non sono considerate
che un pretesto, una copertura, e in questo non c’è alcuna sostanziale
differenza tra Bisaccioni, che sul calvinismo insiste di più e Gualdo,
che non parla quasi mai di «puritani», identificando i nemici del re
sul piano religioso, politico e militare sempre come «Parlamentarii».
Certo, nel modo di vedere di Bisaccioni è accordata più autonomia, e
dunque maggiore attenzione, al figmentum – religione puritana. Ma
la vera novità che si coglie in tutti è che ora questo «mantello» della
religione non serve più a coprire solo mire o ambizioni di singoli indi-
vidui, bensì un programma politico più vasto, con obiettivi, quali la
lotta alla nobiltà o la «republica popolare», che raccolgono il consenso
di moltissimi uomini; ne consegue anche l’idea che la religione è sì
figmentum, ma non più solo mirato ad assicurare il potere e garantire
l’ordine dello Stato, ma ora anche a rovesciare un ordine stabilito per
instaurarne uno nuovo. Non solo, ma adesso è comparso anche un
nuovo potente strumento di fascinazione per i popoli e formidabile
leva di mobilitazione, non comprensibile e non adatto al vecchio sche-
ma dell’impostura religiosa: l’amore dei popoli per la libertà. E affiora
la contraddizione negli storici fra la constatazione di questa capacità
di presa e un aperto scetticismo verso la sincerità della fede dei rivo-
luzionari, e più in generale verso ogni motore d’azione diverso dal
mero interesse individuale. Chissà se i loro lettori contemporanei si
resero conto di questo. Sembra accorgersene Siri, con osservazioni che
intaccano alcune delle più profonde convinzioni di quella storiografia,
quando ammette che religione e libertà hanno il potere di smuovere i
popoli, al di là di ogni intrigo:

Se forse non vogliam dire, che gli stimoli della libertà e della Religione tiran-
neggiano di maniera gli animi de gli huomini che chiudono loro gli occhi a
qual si voglia consideratione d’interesse, di debito, e d’ubbidienza40; […] se
pure non vogliamo dire, che gli affetti della Religione e della libertà siano tanto

  Siri, Mercurio veridico cit., I, p. 280.


40
130  Pietro Messina

efficaci nella mente degli huomini, che non gli lascino discernere o ponderare
gli oggetti dell’utile, e del comodo, niuna cosa maggiormente stimolando gli
animi de’ popoli, niun’altra più animandoli, o che più presto chiude loro gli
occhi alla consideratione del rispetto, del debito, e dell’ubbidienza, non che
del profitto proprio, che la querela della salute delle loro anime, e delle forme
del servitio che fanno a Dio; ancorché non sia inverisimile il credere che li
communi interessi della libertà, e di fabricare con le rovine della Monarchia
lo Stato Democratico dall’uno e l’altro Regno ripieno di Calvinisti tanto
acclamato gli eccitassero a unione de fini e di consigli, postergati quelli del
comodo particolare41.

È da considerare, comunque, l’ipotesi che uno dei motivi che spinse


a occuparsi più largamente della rivoluzione inglese uomini tutti legati
all’ambiente degli Incogniti fosse anche la possibilità, parlando del
puritanesimo, di esprimere (evitando le censure, e anzi fruendo dello
schermo offerto dalla contiguità con temi e schemi propri dell’apolo-
getica controriformista) un insieme di idee patrimonio degli ambienti
libertini, che essi ritenevano forse valide non solo per la religione
riformata, ma in via generale per tutte le religioni. Voglio dire che
nelle loro pagine sulle vicende inglesi è tutt’altro che difficile vedere,
in trasparenza, la teoria libertina dell’impostura religiosa; rispetto ad
essa in loro non ci fu né originalità, né particolare forza o profondità
di pensiero, ma ebbero il merito di diffonderle a un grande pubblico
dando la possibilità a una visione critica almeno di far capolino anche
in cerchie più larghe di fruitori, insinuando per lo meno il dubbio che
le religioni potessero anche considerarsi spogliate di ogni trascenden-
za e pretesa di verità rivelata, per essere viste invece alla stregua di
umani mezzi per gli umani fini della lotta politica e della gestione del
potere, se non superstizione e impostura per manipolare i semplici e
gli incolti.
Quanto fossero in realtà lontani dagli schemi-schermi della cultura
ortodossa è indicato da più indizi. Innanzi tutto la mancanza di serie
critiche di sapore anche vagamente teologico, e quindi assenza di ogni
denuncia delle teorie puritane in quanto eretiche; poi l’insistenza sulla
«credulità» e l’«ignoranza» della gente che crede ai predicatori, la
denuncia del loro «fanatismo», «superstitione» e «hipocrisia». I parla-
mentari, dice Siri, coprivano i loro pensieri

  Ibid., p. 541.
41
131  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

col velame della pubblica libertà e della manutentione della Religione e de’
privilegii, affine d’affascinare con queste malie gli animi de più semplici; […]
troppo efficaci sono negli huomini di rozzo intendimento gli affetti della libertà
e della superstizione; e troppo facilmente agirabili da gli artificii di persone
sagaci e accreditate42; […] e di vero degno di riso e di compassione insieme era
il rimirare un Regno per innanzi sì florido, hora dilacerato in 1000 pezzi per
opera di pochi seditiosi e ignoranti Predicanti, che abusandosi della credulità
del popolaccio fondavano il loro credito su ’l ghiribizzo di nuove chimeriche
opinioni intorno alla Religione con nausea de gli huomini d’intendimento43.

Qui Siri mi sembra piuttosto vicino all’anticlericalismo di Hobbes,


così come di sapore campanelliano è quest’altro passo a proposito di
Londra, in cui nella massa, accanto alla stolidezza, si vede anche la
potenza della bestia «varia e grossa»: «tenevasi perciò communemente
che questo sì grande e possente animale non riconoscesse alla perfine
la sua forza; e scossa la briglia dell’altrui governo, non si rendesse
indomito»44. Bisaccioni parla del volgo «stolido sì, ma nerboruto» e
dell’«hipocrisie di Predicanti»45; e Gualdo scrive che «è facile agli huo-
mini di credito il commuovere gli animi del vulgo non di altro capace
che di un’immaginaria impressione»46, e riferendosi al popolo ricorda
che «la sua stolidezza, et inquietudine è facile ad esser persuasa da una
lingua accorta, o da una penna sagace»47. E Gualdo arriva a scoprirsi
fino a usare il termine «soperstizione», a proposito del Portogallo,
riferendolo a un episodio in cui è la religione cattolica a svolgere la
funzione di sobillamento alla rivolta, con l’occasione di un preteso
miracolo a cui egli non presta la minima fede, interpretandolo senza
dubbio alcuno come un trucco politico dell’arcivescovo di Lisbona48.
Ogni volta che tutti loro riferiscono di preghiere o cerimonie religiose
pubbliche, sempre torna la teoria della religione come impostura per
manipolare il popolo, e il culmine si avrà poi, come vedremo, nel caso
di Cromwell e della sua ispirazione religiosa. Tutto ciò è perfettamen-
te in linea con le classiche teorie libertine sulla politica e la religione,

42
  Ibid., pp. 279, 283.
43
  V. Siri, Il Mercurio, V, I, Casale, per Giorgio del Monte 1655, p. 202.
44
  Id., Il Mercurio, IV, II, Casale, per Giorgio del Monte 1651, p. 814.
45
  Bisaccioni, Historia delle guerre civili [1653] cit., pp. 63, 65.
46
  Gualdo Priorato, Historia cit., p. 70.
47
  Id., Dell’Historie cit., p. 156.
48
  Id., Historia cit., p. 246.
132  Pietro Messina

quali ad esempio appaiono in Naudé, certo non sconosciuto ai nostri


autori, che scrive del popolo:

Occorre che i principi o i loro ministri imparino a maneggiarlo e persuaderlo


con belle parole, a sedurlo e ingannarlo con le apparenze, ad attrarlo ed usarlo
per i propri progetti con predicatori e miracoli sotto il prestesto della santità,
oppure attraverso buone penne che scrivano dei libelli clandestini, manifesti,
apologie e dichiarazioni, composte a regola d’arte49.

Si dilunga inoltre sull’impostura religiosa usata da capi politici e


legislatori50, affermando che «la religione» «è sempre stata la prima
maschera che si è data a tutte le astuzie e gli inganni praticati nei
tre diversi generi di vita […] in cui è possibile praticare i “colpi di
Stato”»51.
Proprio esaminando il modo in cui vennero considerati poi la figu-
ra di Cromwell e il suo ruolo storico, è possibile vedere riuniti tutti i
punti salienti dell’interpretazione della rivoluzione data dalla nostra
storiografia, e quindi tutti i suoi limiti, gli stravolgimenti, le impreci-
sioni, ma anche le sue qualità. Mi soffermerò a questo proposito sulle
opere di Bisaccioni e Gualdo Priorato, rimandando a uno studio suc-
cessivo l’esame delle opere di Santacroce, Brusoni e Graziani.

2. Christopher Hill, nella sua fondamentale biografia di Cromwell,


polemizza con Trevor Roper, sostenendo che «sbaglieremmo se pen-
sassimo a Cromwell solo come leader militare dei parlamentari. Tale
egli fu, naturalmente; ma giocò anche un ruolo importante come
capo politico prima, durante e dopo la guerra civile»52. Nessuno dei
nostri storici avrebbe esitato a sottoscrivere queste affermazioni.

49
  G. Naudé, Considérations politiques sur les Coups d’Estat, par G.N.P., A
Rome 1639, tr. it. Considerazioni politiche sui colpi di Stato, a cura di A. Piazzi,
Milano, Giuffré 1992, p. 235. Sui diretti contatti di Naudé: Bianchi, Rinascimento
e libertinismo cit., pp. 48-75, M. Miato, L’Accademia degli Incogniti di Giovan
Francesco Loredan. Venezia (1630-1661), Firenze, Olschki 1998, pp. 100-6, 239;
A.L. Schino, Incontri italiani di Gabriel Naudé, «Rivista di storia della filosofia»,
44, 1989, pp. 3-36.
50
  Naudé, Considerazioni politiche cit., pp. 199-202, 232, 235-51, 178, 187.
51
  Ibid., p. 236.
52
 C. Hill, God’s Englishman. Oliver Cromwell and the English Revolution, New
York, The Dial Press 1970, tr. it. Vita di Cromwell, Roma-Bari, Laterza 1974, p. 53.
133  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

Naturalmente per essi la figura di Cromwell è paradigmatica di una


visione della storia che ha come motore principale le ambiziose pas-
sioni, l’inganno, l’abilità di macchinazione. Tutte le sue azioni sono
ispirate dall’ambizione e dalla sete di dominio, infiniti gli accenni
alla sua ipocrisia e falsità, alle sue «arti maligne», «sagacità», scal-
trezza e «condotta d’altissime machine» (Siri), grazie alle quali fonda
il suo successo. Del tutto assenti, ovviamente, le sue motivazioni
religiose; della religione lui si serve, e lo fa spessissimo, solo come
arma per ingannare e comandare, e tutti i nostri autori (chi più chi
meno esplicitamente) concordano nel ritenerlo pressoché «ateista».
Sull’importanza che ebbe in realtà la fede religiosa per il «God’s
englishman» non è neppure il caso di insistere: esemplari sono a tale
proposito i capitoli intitolati da Hill nella sua biografia Il popolo d’In-
ghilterra e il popolo di Dio e La Provvidenza e Oliver Cromwell. È bene
però ricordare ciò che Clarendon, protagonista diretto degli eventi e
maggior storico secentesco della rivoluzione, scriveva a proposito di
Cromwell: «The greatest dissembler living, always made his hipocrisy
of singular use and benefit to him, and never did anything, hovewer
ungracious or imprudent soever it seemed to be, but what was neces-
sary to the design»53; e Hobbes pensava che manipolasse i «fanatici»
religiosi, mentre lui «non aveva una posizione precisa ma aderiva
sempre alla fazione più forte e ne assumeva il colore»54. Su questa linea
di giudizio resterà anche Hume. Hill ricorda la vera e propria svolta
costituita dalla pubblicazione delle lettere e dei discorsi di Cromwell
ad opera del Carlyle, solo nel 1845, scrivendo che solo allora si «stabilì
una volta per tutte, e al di là di ogni disputa che Cromwell non fu
l’ipocrita ambizioso della tradizione»55. Hill si riferisce alla tradizione
britannica; del resto anche il più recente biografo di Cromwell, J.C.

53
  E. Hyde, conte di Clarendon, The History of the Rebellion and Civil Wars in
England, IV, Oxford, Oxford University Press 1849, p. 335; cfr. ibid., p. 333. Il brano
è riportato da F. Raab, The English Face of Machiavelli, London, Routledge & Kegan
Paul-Toronto, University of Toronto Press 1964, p. 152, e da Hill, Vita cit., p. 257.
Scrive Macgillivray: «Clarendon recognizes him as a master of hypocrisy and
deception» (Restoration Historians cit., p. 219); cfr. J.C. Davis, Oliver Cromwell,
London, Arnold 2001, p. 50.
54
  T. Hobbes, The History of the Civil Wars of England, London 1679, tr. it.
Behemoth, a cura di O. Nicastro, Bari, Laterza 1979, p. 158.
55
  Hill, Vita cit., p. 259; cfr. D.J. Trela, A History of Carlyle’s Oliver Cromwell’s
Letters and Speeches, New York, E. Mellen 1992.
134  Pietro Messina

Davis, ha messo in luce le difficoltà che ancora oggi si incontrano per


capire bene forma e natura della religiosità cromwelliana specialmente
in rapporto alle sue scelte politiche56. Più che insistere su critiche, in
ultima analisi antistoriche, verso i nostri storici, è utile considerare
il terreno teorico su cui si innestarono i giudizi storici e politici su
Cromwell, e notare come su di esso si proietti, inconfondibile, l’ombra
del Machiavelli.
A ben guardare, le accuse rivolte a Cromwell sembrano rimandare a
uno stereotipato, consumato modulo di analisi politica. La sua figura
viene calata in un modello di «Principe Immorale» già da lunghi anni
conosciuto, mera incarnazione delle qualità negative previste dalla
universalità delle teorizzazioni politiche, morali, storiche, apologe-
tiche del tempo, che, seppure in diversa misura, tra i loro impegni
fondanti annoveravano la necessità di conciliare la politica con la
morale, vale a dire col cristianesimo. Costantemente si trova bollata,
contrapposta alla cristiana «prudenza», «l’astuzia» malvagia; vale a
dire la politica immorale che si nutre senza freni religiosi di ipocrisia,
ambizione, intrigo. L’antesignano di tale politica viene universal-
mente riconosciuto in Machiavelli. Un Machiavelli che dopo essere
stato cacciato dalla paludata porta della morale cristiana, veniva poi
reintrodotto, travisato, per la finestra della necessità, e con casistiche
e scolasticismi si ammettevano sia gli intrighi, sia le menzogne, sia la
spietatezza da parte del Principe Cristiano.
Un Machiavelli falsato, svilito, ridotto a meschino suggeritore di
intrighi, una figura che non era altro che lo specchio della cattiva
coscienza di un’epoca. Un Machiavelli che, come scrive Benzoni,
«amputato del messaggio rivoluzionario, si riduce a filosofo spicciolo
del potere», e che va dunque di pari passo con «l’unzione devota»57.

56
  Davis, Oliver Cromwell cit., cap VI: Man of God, pp. 112-37; non a caso Davis
apre il capitolo citando l’ambasciatore veneto Sagredo, che dava un’interpretazione
tutta politica della religiosità di Cromwell; su di essa anche: Id., Cromwell’s Religion,
in Cromwell and the English Revolution, ed. by J. Morrill, London, Longman 1990,
pp. 181-208; A. Fletcher, Oliver Cromwell and the Godly, ibid., pp. 209-33; la nota
bibliografica in Davis, Oliver Cromwell cit., p. 225.
57
  Benzoni, Intellettuali e Controriforma cit., pp. 125, 136. Sull’antimachiavellismo
nella Controriforma: A.E. Baldini, Ragion di Stato, Tacitismo, Machiavellismo e An-
timachiavellismo in Italia e in Europa nell’età della Controriforma, in La Ragion di
Stato dopo Meinecke e Croce. Dibattito su recenti pubblicazioni, Atti del seminario in-
ternazionale di Torino (21-22 ottobre 1994), a cura dello stesso, Genova, Name 1999,
135  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

Spesso la descrizione di Cromwell corrisponde esattamente a questo


tipo di quadro politico «machiavellico». In Siri, Bisaccioni e Gualdo
c’è dell’altro e di più, e questi autori, specie gli ultimi due, stanno
con un piede nell’ortodossia e l’altro fuori. Ma questa era l’idea più
gradita al conformismo ortodosso e più diffusa tra gli intellettuali
che lo sostenevano. E tale quadro risulta chiarissimo nella prima e
unica biografia di Cromwell pubblicata in Italia nel XVII secolo: La
vita di Cromuele del Pajoli, dove l’autore, attingendo a tutte le pre-
cedenti opere sull’argomento, introduce varie osservazioni politiche
che confermano l’immagine di Cromwell come Principe Immorale, e,
dunque, machiavellico. Scrive infatti esplicitamente:

Oliviero Cromueles, che il secolo presente ha veduto con la scorta d’un ese-
crabile parricidio stabilire un durevole fondamento a una portentosa tiranni-
de […]. Un sì famoso usurpatore assai più che Silla merita il celebre titolo di
“primogenito della fortuna”, e se il pernizioso politico fosse vissuto ai nostri
giorni, havrebbe assolutamente scelto questo Soggetto invece del Valentino
per idea del suo malvagio Principe58.

Non è un caso che la vita di Cromwell sia presentata, nello stesso


libro, di seguito alla Vita del Cardinale Giulio Mazzarini che incarna,
in speculare scolastica contrapposizione, l’ideale del «politico cristia-
no». Ancora una volta «l’astuzia» vede come giusto contrappeso la
«prudenza», con riferimento più a Botero e ai suoi epigoni che non a
Campanella59. Pajoli, come detto, non scrive nulla di nuovo, si limita,

pp. 221-65; V.I. Comparato, Il Pensiero politico della Controriforma e della ragion
di Stato, in Storia delle idee politiche, II: Il pensiero politico. Idee dottrine teorie, a cura
di A. Andreatta, A.E. Baldini, C. Dolcini, G. Pasquino, Torino, UTET 1999, p. 128; P.
Paolini, Giovanni Botero contro Nicolò Machiavelli, «Giornale storico della letteratu-
ra italiana», 175, 1998, pp. 373-95; D. Taranto, L’Antimachiavellismo italiano nella
seconda metà del Seicento, «Il Pensiero Politico», 29, 1996, pp. 374-401; R. Bireley,
The Counter-Reformation Prince. Anti-machiavellianism or Catholic Statecraft in Early
Modern Europe, London, Chapel Hill 1990; J. Macek, Machiavelli e il machiavellismo,
Firenze, La Nuova Italia 1980, pp. 256-63.
58
  A. Pajoli, Vite del Cardinale Giulio Mazzarini, e di Oliviero Cromuele, Venetia
e Bologna, per Giovanni Recaldini 1675, pp. 61-2.
59
  Scrive Botero «nel capitolo De’ Consegli: “Primieramente deve egli [il principe]
fare professione non di astuto, ma di prudente, e la Prudenza è una virtù il cui
ufficio è cercare e ritrovare mezzi convenienti a conseguire il fine”, laddove l’astuzia
136  Pietro Messina

pescando qua e là, a ricostruire la vita e l’ascesa politica di Cromwell;


non gli era difficile farlo alla luce della sua premessa iniziale, ché
abbondavano le accuse contro l’ipocrisia, la falsità, gli intrighi e le
frodi di Cromwell. Ma la sua «malvagità» è di un tipo molto partico-
lare: non vengono criticati i suoi costumi personali; non gli vengono
lanciate quelle che erano le accuse classiche contro i tiranni, cioè
l’aristotelica condanna di occuparsi più del proprio interesse che del
pubblico e la dissolutezza e la ferocia delle azioni private. Significativo,
a questo proposito, è quanto di lui scrive lo storico veneziano Giovan
Battista Nani: «Huomo grande ne i vitii e nelle virtù, che nell’arbitrio
di lecentiosa fortuna visse con mirabile continenza; sobrio, casto,
modesto, vigilante, indefesso, ma da estrema ambitione agitato, appe-
na poté satiarsi col sangue del Re, e coll’oppressione del Regno»60.
Dietro le critiche fatte a Cromwell appare, insomma, sempre, la figura
del suo grande mentore: il Machiavelli. Pajoli raccoglie tutte le accuse
rivolte a Cromwell, specialmente quella di essere fraudolento. E non
aveva forse detto il politico fiorentino che stimava «Essere cosa veris-
sima che rado o non mai intervenga che gli uomini di piccola fortuna
venghino a gradi grandi senza la fraude»? (Discorsi, II, 13) e Pajoli si
era naturalmente preoccupato di specificare che «nacque Oliviero d’o-

tende al medesimo fine, ma differisce dalla prudenza in questo, che “nell’elezione


de’ mezzi, quella (la prudenza) segue l’onesto più che l’utile, questa [l’astuzia] non
tien conto se non dell’interesse”» (R. De Mattei, Il problema della ‘Ragion di Stato’
nell’età della Controriforma, Milano-Napoli, Ricciardi 1979, p. 56; e cfr.: Croce,
Storia dell’età barocca in Italia cit., pp. 126-8). Distinzione tra prudenza e astuzia
in Campanella, Aforismi politici cit., aforisma 96, pp. 132-3, Id., La Monarchia
di Spagna, in Tommaso Campanella, a cura di G. Ernst, Roma, Istituto Poligrafico
e Zecca dello Stato 1999, pp. 720-2; Id., Atheismus Triumphatus, seu contra
antichristianismum, Parisis, Tussanus Dubray 1636, pp. 237-8, 243, 251, 274; ma
sulla specificità del pensiero campanelliano proprio su questa particolare antinomia
cfr. Addante, Campanella e Machiavelli cit., pp. 735-44. Sulla ‘prudenza’ contro
il machiavellismo: C. Continisio, Il re prudente. Saggio sulle virtù politiche e
sul cosmo culturale dell’Antico Regime, in Repubblica e virtù. Pensiero politico e
Monarchia Cattolica fra XVI e XVII secolo, a cura della stessa e di C. Mozzarelli,
Roma, Bulzoni 1995, pp. 311-53; R. De Mattei, Il pensiero politico italiano nell’età
della Controriforma, 2 voll., Milano-Napoli, Ricciardi 1982, I, pp. 68-82.
60
 G.B. Nani, Historia della Republica Veneta, II, Venetia, Combi & La Noù 1679,
pp. 483-4.
137  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

scurissima stirpe»61. Ed era sempre Machiavelli a pensare che «convie-


ne variare co’ tempi, volendo sempre avere buona fortuna» (Discorsi,
II, 9) e che bisogna che il Principe «abbi uno animo disposto a volgersi
secondo ch’e venti e le variazioni della fortuna li comandano, e, come
di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel
male, necessitato» (Principe, XVIII). E Cromwell è universalmente
descritto come un «Proteo», sempre pronto a captare la direzione in
cui mutano le circostanze, per poterne approfittare senza scrupoli.
E quale migliore esempio di quello di Cromwell poteva servire per
illustrare il consiglio di saper «bene colorire» la natura di «golpe», «et
essere gran simulatore e dissimulatore» (Principe, XVIII)? Cromwell è
presentato come un maestro dell’una e dell’altra arte.
Aveva scritto Machiavelli: «Anzi, ardirò di dire questo, che aven-
dole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono
utile: come parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso, et essere;
ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando non essere,
tu possa e sappi mutare el contrario» (Principe, XVIII). Anche per
quanto riguarda tale rapporto con la religione la figura di Cromwell
è esemplare, poiché egli non fa che servirsi della religione per farsi
grande. Pajoli insiste molto su questo punto: Cromwell maneggia gli
affari di religione, ma nel suo intimo è «Politico» e «Atheista». Pajoli
riporta brani e opinioni che ironizzano sulle «illuminazioni religiose»
di Cromwell, considerate all’unanimità dagli autori che lo avevano
preceduto solo abili ipocrisie politiche finalizzate a un disegno preci-
so, così come la sua tolleranza in materia religiosa era stata spiegata, e
tutto sommato giustificata, con la convenienza (Brusoni, Bisaccioni).
Insomma, il libro di Pajoli ci restituisce in modo ineluttabile la figura
di Cromwell come il perfetto negativo del principe cristiano, dove è
evidente come un sostrato teorico, politico e ideale orientato in senso
conservatore e conformista impieghi la critica antimachiavelliana per
attaccare Cromwell, il regicida, il nemico della nobiltà.
Con la difesa della teoria politica tradizionale si chiude il libro di
Pajoli: dopo aver considerato il classico parallelo fra Tiberio, il tiranno
per antonomasia della pubblicistica storico politica, e Cromwell, l’au-
tore conclude che questi era ancora peggiore,

avvegnaché il primo, ancorché dissimulato e maligno fu legittimo successore


d’Augusto, ove il secondo fu uno scellerato omicida del suo sovrano, al quale la

  Pajoli, Vite cit., p. 62.


61
138  Pietro Messina

fellonia e crudeltà servivano di scala per salire all’usurpata grandezza. Chiunque


per tanto esaminerà profondamente le azioni del Cromuele, verrà sicuramente
nel mio partito, ch’egli deggia più tosto paragonarsi a quei mostri abominevoli
che la giustizia divina, la quale crolla, dissipa, e spianta gli Imperi quando le
piace, permette sovente allor che le sceleragini degli huomini sono eccessive62.

Nell’Inghilterra stessa non erano mancati certo libri e libelli che


lanciavano l’accusa di machiavellismo contro Cromwell63. Si era
cominciato già nel 1648, con un polemico scritto di Prynne, e si era
proseguito poi, via via, fin oltre la Restaurazione, sia da parte dei
realisti sia da parte dei radicali delusi. Spesso, a proposito di questi
motivi, è da notare che contro Cromwell fu usato sì il machiavellismo,
ma in chiave molto particolare; si volle ricorrere cioè a un Machiavelli
inteso come «The Republican Idealist, almost speaking for the people
as much as against tyrants»64. Era il mito di Machiavelli schierato
contro i tiranni per smascherarli, interpretazione che proprio duran-
te la rivoluzione inglese, specialmente negli anni Cinquanta, ebbe
una grandissima diffusione65. E ricordiamo ancora che Clarendon,
come sottolinea F. Raab, considerava «Cromwell the embodiment of
Machiavelli’s “de facto ruler”, the Borgia figure»66.
Ma, per tornare all’Italia, è significativo, a mio avviso, che la più
autentica lezione machiavelliana non sia estranea al Bisaccioni, e
sia presente con forza in Gualdo Priorato: due autori che negli anni
Cinquanta mutarono, anche se in misura diversa, il proprio punto
di vista sulla rivoluzione inglese, giungendo il secondo a una aperta
ammirazione per Cromwell; entrambi vedendo in lui l’uomo che al
disordine e alla ribellione aveva saputo porre fine instaurando un
potere di tipo nuovo, che, pur se nato dal regicidio e dall’abbattimen-
to della nobiltà, lo aveva reso però «più potente di qualunque re»,
visione, come si può notare, non molto dissimile da quella di Hobbes.
Sarebbe troppo riduttivo ricondurre tale cambiamento al solo filo-

62
  Ibid., pp. 158-9. Alla Biblioteca Angelica di Roma è custodita, manoscritta, una
Comparatio inter Claudium Thiberium, et Oliverum Protectorem Angliae, instituta
a Petro Negeschio, ms. 1771, ff. 245-65.
63
  Di tali accuse e più in generale del rapporto tra machiavellismo e la figura di
Cromwell in Inghilterra parla Raab, The English Face of Machiavelli cit., pp. 130-54.
64
  Ibid., p. 139.
65
  Procacci, Machiavelli nella cultura europea cit., pp. 268-74.
66
  Raab, The English Face of Machiavelli cit., p. 150.
139  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

francesismo dei due nostri autori, ravvivato dalla nuova contingenza


del 1655 che vide l’Inghilterra allearsi alla Francia contro la Spagna,
sia perché questa revisione si collegava a idee già espresse in tutt’altra
congiuntura, sia perché, come nel caso di Gualdo, sarebbe stata riba-
dita più volte, e in tutt’altro scenario internazionale, anche molti anni
dopo che il cadavere di Cromwell era stato disseppellito e impiccato.
Va invece tenuto in considerazione il valore eterodosso e di rottura
con la cultura ufficiale della loro posizione: non dimentichiamo che
la figura di Cromwell non era solo quella di un «Grande» dell’epoca,
e non si può certo pensare che se apertamente era stata espressa dagli
accademici Incogniti ammirazione grandissima per il protestante
Gustavo Adolfo, altrettanto facilmente si sarebbe potuto fare con
lui. Bisaccioni e Gualdo in effetti apprezzarono in Cromwell le stesse
caratteristiche che tutti i libertini ammiravano sia in Enrico IV che
in Gustavo Adolfo: «una posizione di ‘politique’, sostanzialmente
indifferente alla barriera confessionale»67. Per quella ammirazione non
erano stati evitati guai con le censure ecclesiastiche, nonostante lo sve-
dese fosse un re legittimo e non un leader rivoluzionario. Cromwell,
invece, non solo incarnava (a ragione o a torto) tutto il processo rivo-
luzionario che aveva dietro le spalle, ma tutti i nostri storici lo avevano
sempre considerato come il più deciso fautore della repubblica e della
distruzione della monarchia; comune a tutti era stata l’emblematica
contrapposizione delle sue idee «democratiche» a quelle di Fairfax,
fautore di una «republica aristocratica». Cromwell rimane dunque
il regicida per eccellenza, nemico del re e della nobiltà, considerato
sempre, come si può ben vedere, molto più radicale di quanto in realtà
non fosse. In particolare non si sottovaluti lo ‘scandalo’ irriducibile
del regicidio: più di un secolo dopo e in ben altro clima culturale, un
personaggio non certo conformista come l’Alfieri non nascondeva le
sue simpatie per Carlo I vittima della furia rivoluzionaria68.

3. Bisaccioni, specie parlando degli inizi della rivoluzione, aveva


fatto trasparire la sua propensione per l’ideale politico di un potere

67
  Spini, Ricerca dei libertini cit., p. 172.
68
  Alfieri pensò a una tragedia sullo Stuart, dedicò l’Agide «alla maestà di Carlo I
re d’Inghilterra» e in un suo viaggio volle seguire un «itinerario stuardo»: J. Lindon,
Reticenze alfieriane nella «Parte seconda» (1803) della Vita: il quarto viaggio in
Inghilterra e la formazione dell’Alfieri «misogallo», «Giornale storico della letteraura
italiana», 171, 1994, pp. 321-42, in part. 339-41.
140  Pietro Messina

assoluto che vuole un’«esatta obedienza» e che male tollera opposizio-


ni e corpi intermedi, accomunando, a questo proposito, il Parlamento
inglese con quello siciliano, né vedeva di buon occhio l’obbligo dei
monarchi a sottomettersi a queste assemblee per le materie contri-
butive. Lo stesso malumore mostra per le prerogative cedute a centri
di potere diversi da quello sovrano e per le limitazioni giuridiche del
potere regale, che vorrebbe forte e deciso, e contro i plebei e contro
i «Grandi». Sono idee che si collegano a filoni presenti nel pensiero
politico del Seicento e che affermano un nuovo concetto e una nuova
pratica della sovranità. Per un verso si può risalire a Bodin; ma indiriz-
zi del genere erano presenti, pur in modo singolare, anche tra i liberti-
ni francesi, né è da dimenticare il «movimento demanialista» presente
in Italia nella prima metà del secolo, e non possiamo naturalmente
tralasciare il Machiavelli69.
Comunque, la monarchia cara a Bisaccioni è quella che sa assog-
gettare a sé tutti gli «ordini», baluardo e «al capriccio de’ popoli, e
alla tirannide de’ Potenti»70, che usciva dunque nettamente fuori
dalla precettistica politica imperante, che perseguiva invece una
armoniosa e mistificatoria coesistenza tra i vari «corpi». A mostrare
quanto al di sopra della trattatistica dell’epoca siano le idee politiche
di Bisaccioni valga l’apprezzamento da lui mostrato per il decreto
del Parlamento dell’estate 1641, che contro i vescovi allontanava gli
«Ecclesiastici» dagli affari di Stato, idea in cui possiamo rilevare una
parziale assonanza con il pensiero di Hobbes, che nel De Cive aveva
scritto: «È dunque chiaro che il nostro Salvatore ha affidato, o meglio
non ha sottratto, la suprema autorità di giudicare e di decidere tutte
le controversie su cose temporali ai sovrani e in generale a quelli che
detengono in ciascuno Stato il potere supremo»71. A questo proposito

69
  Per il filoassolutismo dei libertini si veda la nota bibliografica in Bianchi,
Rinascimento e libertinismo cit., pp. 78-9.
70
  Bisaccioni, Historia delle guerre civili [1653] cit., p. 93.
71
  T. Hobbes, Elementorum Philosophiae sectio tertia de cive, Parisiis 1642, tr. it.
Elementi filosofici sul cittadino, a cura di N. Bobbio, Torino, UTET 1988, p. 351; in
particolare sui vescovi cfr. Hobbes, Behemoth cit., pp. 10-1; e più in generale Id.,
Leviathan, London, Andrew Crooke 1651, tr. it. Leviatano, a cura di M. Vinciguerra,
Bari, Laterza 1911, III, 62: Del potere ecclesiastico, pp. 112-91; Bisaccioni, Historia
delle guerre civili [1653] cit., p. 40; nelle sue Considerazioni sopra l’interesse di Stato
«riconosce che il vero interesse di un principe è quello di lasciare il clero […] ad
occuparsi nei conventi e nei monasteri della cura delle anime, che è l’ufficio a cui è
141  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

dobbiamo a Stefano Villani l’identificazione di un «suggestivo riferi-


mento» del Bisaccioni al «volgo stolido sì ma nerboruto» che ricorda
il «puer robustus sed malitiosus» di Hobbes72. E altre assonanze pos-
siamo trovare nel brano in cui Bisaccioni tratta delle «instruttioni di
soda dottrina» che Cromwell avrebbe dato al figlio Henry per fronteg-
giare la riottosità di alcuni capi delle milizie in Scozia e Irlanda, e gli
«Anabattisti»: «stimò bastanti a vincere coloro, destrezza, maestà, pia-
cevolezza, speranza di esaltatione, qualche grano di timore tutti misti
insieme» e le difficoltà «non furono meglio vinte che con il farmaco
della speranza di rimuneratione […] ch’ell’è una grande arte politica
a chi la sa maneggiare». Hobbes aveva scritto: «Possono però con
una oculata distribuzione di pene e ricompense, far in modo da con-
vincere gli uomini che la via per raggiungere alte cariche non sta nel
criticare il regime esistente, né nella scissione in partiti, né nel favore
popolare, ma, se mai, proprio nelle azioni contrarie»73. E ancora, scrive
Bisaccioni a proposito di Cromwell: «Il Principe che spende molto oro
ne gli esploratori, o diciamoli bracchi della giustitia non può meglio
che in questa parte impiegarlo per la publica salute, […] così conviene
ch’abbia lunghe l’orecchie, ch’è l’udito se vuole ben governare, lungo
l’odorato», e scrive Hobbes: «È dunque necessario alla difesa dello
Stato che, in primo luogo, vi sia chi spii e sia in grado di prevedere

destinato» (Miato, Henri de Rohan cit., p. 153); ed è un attacco frontale alla politica
della Controriforma quando «lo Stato confessionale trionfava; e il concreto si era
l’intromissione della Chiesa nell’atto singolo di governo, per mezzo degli ordini
religiosi, dei confessori e dei consiglieri canonici dei principi» (F. Chabod, Scritti
sul Machiavelli, Torino, Einaudi 19805, p. 130).
72
  S. Villani, Uomini, idee, notizie tra l’Inghilterra della Rivoluzione e l’Italia
della Controriforma. Tesi di perfezionamento in discipline storiche, Scuola
Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia, 1999, p. 298. L’immagine
è pure vicina alla campanelliana bestia «varia e grossa» ma di grande potenza; e mi
sembra poi che il concetto sottinteso non sia estraneo alla critica libertina: Naudé
ha parole di fuoco contro l’«imbecillità», l’ignoranza, la credulità del popolo, che
lo fanno preda d’ogni sorta di impostori, ciarlatani e truffatori (Considerazioni cit.,
pp. 231-5), eppure conclude osservando la sua ineludibile potenza: «Ma dato che la
forza sta sempre dalla sua parte, ed è il popolo che dà il più grande impulso a ciò che
si fa di straordinario in uno Stato, occorre che i prìncipi o i loro ministri imparino
a maneggiarlo e persuaderlo» (ibid., p. 235).
73
  M. Bisaccioni, Historia delle guerre civili di questi ultimi tempi, 4a ed., Venetia,
presso Francesco Storti 1655, p. 232; Hobbes, Elementi filosofici cit., p. 261.
142  Pietro Messina

[…] le mosse e le intenzioni di tutti quelli che possono danneggiare lo


Stato»; anche se qui è più evidente, come meglio vedremo in seguito,
il richiamo a Campanella74. E ricordiamo l’assonanza, oltre che con
l’anticlericalismo di Hobbes, anche con quello di Clarendon75, e la sua
costante, radicale propensione per il più rigoroso realismo politico,
che lo avrebbe portato a interessarsi all’opera di Henri de Rohan, non
affatto estranea al machiavellismo76. Se si scorge Machiavelli, e con
lui Boccalini, dietro la rivendicazione della «libertà» italiana proposta
da Bisaccioni77, nel suo Demetrio moscovita ancor prima che nell’Hi-
storia si sente l’influsso del machiavellismo e di Naudé78, che danno
l’impronta alla sua piena accettazione dell’autonomia della politica.
Nonostante il carattere letterario, l’opera propone infatti riflessioni
eminentemente politiche79, che impongono l’idea di una sovranità
assoluta che deve avere solo il proprio interesse come limite e guida;
c’è dunque ostilità per i corpi intermedi e per tutte le fonti di potere

74
  Bisaccioni, Historia delle guerre civili [1653] cit., p. 233; Hobbes, Elementi
filosofici cit., p. 256.
75
  Per Clarendon cfr. Macgillivray, Restoration Historians cit., p. 205 e
Finlayson, Historians cit., p. 49; per Hobbes si veda l’Introduzione di Nicastro
a Behemoth cit., pp. xxxviii-xli, e L. Nauta, Hobbes on Religion and the Church
Between The Elements of Law and Leviathan: A Dramatic Change of Direction?,
«Journal of the History of Ideas», 63, 2002, pp. 577-98.
76
  Procacci, Machiavelli nella cultura europea cit., pp. 208-10, 212.
77
  Miato, Henri de Rohan cit., pp. 156-8.
78
  Sui rapporti tra Naudé e il machiavellismo: Bianchi, Rinascimento e libertinismo
cit., cap. III: Natura, storia e politica: le Considérations politiques, pp. 109-42; Procac-
ci, Machiavelli nella cultura europea cit., pp. 67, 140, 155-6, 159-60, 168, 211-2, 259,
266, 302, 308, 310; P.S. Donaldson, Machiavelli and Mistery of State, Cambridge,
Cambridge University Press 1988, cap. V: Gabriel Naudé: Magic and Machiavelli, pp.
141-85.
79
  Scrive E. Taddeo: «Al centro, il problema del potere, del suo esercizio, della
sua legittimazione. L’interesse del principe prevale su ogni altra ragione o vincolo»
(M. Bisaccioni, Il Demetrio moscovita. Istoria tragica, a cura di E. Taddeo, Firenze,
Olschki 1992, p. xlviii). Non posso concordare col Taddeo però, quando scorge
«una specie d’orrore» dell’autore (p. il) di fronte alla disumanità della politica; forse,
con gusto barocco, si compiace dell’orrore che può suscitare in chi la scopre, ma lui,
e ben lo si vede nell’Historia, non ha né dubbi né tremori d’animo. Il Demetrio era
stato pubblicato nel 1639 (Venetia, Sarzina), nel 1643 (Roma, F. Moneta) e nel 1649
(Venetia, M. Viest).
143  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

diverse da quello sovrano80, e la necessità per il principe di saper usare


dissimulazioni e artifici. Di fronte alla sedizione, poi, il principe deve
ricorrere a «un vomero, che tagli da ogni parte», e se deve punire
i ribelli «l’intendo che non si debba processare, ma gastigarsi alla
muta […]. Il ritrovarne i modi non è da scriversi, ma da esseguirsi»81,
dove è possibile leggere una consonanza con Naudé, che scrive a
proposito del nemico potente del principe: «meglio eliminare costui
segretamente […] senza passare attraverso le formalità di una giu-
stizia ordinaria»82. Segue ancora Naudé nel vedere le leggi del potere
autonome e svincolate da tutto: per conservare lo Stato il principe può
ignorare «parentele, colligazioni, promesse e ubligazioni […]: atten-
dan gli uomini di condizione inferiore al principato a questi cavilli»83.
E ancora, scrive Bisaccioni: «Ho sempre detto, ed è verissimo, che
quel che nel suddito è vizio, nel dominante è virtù»; «tutto quello
ch’è biasimevole e aboribile nella vita civile, è lecito per acquistare un
picciolo dominio, non che un imperio della Moscovia»84, ed è un altro
esplicito richiamo a Naudé e, attraverso di lui, a Charron85. Bisaccioni:
«niun regno sembra stabile se non è fondato sopra il sangue d’inno-
centi empiamente sparso, ma non è però che i primi fondatori non
abbiano tribolazioni incredibili»86; Naudé: «non vi è alcun dubbio
che le più importanti» occasioni per i Coups d’Estat «siano quelle che

80
  Bisaccioni, Il Demetrio cit., pp. 80-1.
81
  Ibid., pp. 102, 106.
82
  Naudé, Considerazioni politiche cit., p. 203. Quasi le stesse parole aveva usato
Boccalini parlando dei «popoli che nascevano dalla libertà di una republica», dove
ogni minima minaccia alla «patria libera, faceva bisogno vendicar subito co’ fatti dei
capestri e delle mannaie, non con le cavillazioni delle parole […], che prima faceva
bisogno mandar il reo in un paio di forche, e poi, con osservar i termini tutti legali,
giuridicamente formarli contro il processo informativo» (T. Boccalini, Ragguagli di
Parnaso, I, a cura di G. Rua, Bari, Laterza 1910, XVIII, p. 58).
83
  Bisaccioni, Il Demetrio cit., p. 114. Naudé, Considerazioni politiche cit., p.
185. Cfr. Bianchi, Rinascimento e libertinismo cit., p. 117.
84
  Bisaccioni, Il Demetrio cit., pp. 103, 162.
85
  Naudé, Considerazioni politiche cit., p. 131: «come dice Charron […] la
giustizia, la virtù e la probità del sovrano, procedono un po’ diversamente da
quella dei privati». Cfr. A. Pessina, Virtù e storia in Gabriel Naudé, in Ricerche su
letteratura libertina cit., pp. 290, 295; Id., Naudé interprete di Charron, «Rivista di
filosofia neo-scolastica», 71, 1979, pp. 508-42.
86
  Bisaccioni, Il Demetrio cit., p. 137.
144  Pietro Messina

si riferiscono all’instaurazione o cambiamento di regni e principati,


benché a mio avviso siano anche le più ingiuste»87. Ancora Bisaccioni
si ispira al Naudé, che aveva esaltato l’importanza dell’eloquenza per
principi e capitani88, dicendo che «se ogni Prencipe fosse eloquente e
l’udissero sovente parlare i sudditi, ne saria più che non è padrone89,
con un motivo presente anche in Campanella90.
In linea col Naudé e con tutta la tradizione machiavelliana, Bisaccioni
non ha dubbi nel criticare i mutamenti di religione, e a questo propo-
sito è bene notare che, specie nell’edizione del 1649 dove è aggiunta
una nuova parte, Il Demetrio moscovita propone situazioni e argo-
menti che non possono non richiamare i fatti inglesi: il re Demetrio
si trova a fronteggiare una violenta sollevazione del popolo, che teme
l’introduzione di cambiamenti nei riti e nelle forme della religione
ortodossa, voluti dal sovrano anche per ispirazione della moglie, catto-
lica; e il re si mostra debole, incapace di fronteggiare la situazione con
polso deciso, e dalla rivolta è travolto e ucciso. È lo stesso scenario che
Bisaccioni riproporrà per l’Inghilterra nell’Historia: Demetrio è anda-
to a toccare «religione e costumi antiquati», e la religione è «materia da
maneggiarsi con molta delicatezza, quando non si vogliono incontrar
i scogli delle rivoluzioni»91; si mostra incapace nelle arti di governo,
non sapendo maneggiare artificio e dissimulazione, e soprattutto si
rivela fiacco e incerto: sono gli stessi rilievi che l’autore muoverà a
Carlo Stuart. Uguale è il suo commento nel Demetrio («se il Prencipe
soggiacesse all’arbitrio del popolo, io non lo stimarei Prencipe, ma

87
  Naudé, Considerazioni politiche cit., p. 179. Cfr. Bianchi, Rinascimento e liber-
tinismo cit., p. 116; Pessina, Virtù e storia cit., p. 291.
88
  Naudé, Considerazioni politiche cit., p. 245: «se un principe avesse una dozzina
di uomini di tale tempra [eloquenti], devoti al suo servizio, io credo che sarebbe più
forte e meglio obbedito nel suo regno che non se avesse due potenti eserciti».
89
  Bisaccioni, Il Demetrio cit., p. 91. Tenendo presente che le Considérations
del Naudé uscirono all’inizio del 1639 in sole dodici copie, e assolutamente prive
dunque di una pubblica circolazione, il fatto che Bisaccioni nello stesso anno ne
fosse venuto a conoscenza e che le prendesse a riferimento induce a supporre
non trascurabili relazioni intellettuali fra loro, o più in generale fra il Naudé e
gli Incogniti, certamente più solide e proficue di quanto finora non sia apparso;
ciò porterebbe a correggere o per lo meno a integrare quanto detto in Miato,
L’Accademia degli Incogniti cit., pp. 100-6.
90
  Campanella, Aforismi politici cit., aforismi 61-69, pp. 110-3.
91
  Bisaccioni, Il Demetrio cit., pp. 139, 100.
145  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

suddito della vil plebe e canaglia»)92 a quello nell’Historia («il conser-


varsi al capriccio de popoli, e alla tirannide de Potenti è deliberatione
più vile…»)93.
È su questo assai fertile terreno che nascerà nel capitolo aggiunto
alla quarta edizione della Historia un cambiamento dell’atteggiamento
di Bisaccioni verso la rivoluzione inglese94. L’astio e le violente invet-
tive contro i rivoluzionari «plebei», «calvinisti», «democratici», sono
scomparsi, il tono è molto più pacato, la visione offerta più serena e
obiettiva. La scena è dominata da Cromwell che non è fatto oggetto
né di aperta stima né di critiche particolari, ma che sembra proprio
incarnare quel genere di monarca caro a Bisaccioni e che Carlo I non
era stato in grado di essere. A Bisaccioni non piaceva che gli eccle-
siastici si occupassero degli affari di Stato e Cromwell aveva istituito
un controllo laico sui predicatori; non gli piacevano gli uffici dati a
vita e non a tempo secondo il merito, e nel Protettorato si seguiva
proprio questa seconda via (e a questo proposito andrà ricordato
come anche Gualdo Priorato apprezzasse tale politica, e come simile
innovativa idea fosse stata espressa, ancora una volta, da Campanella
nei suoi Aforismi politici)95. Bisaccioni inoltre aveva mostrato tutta la
sua diffidenza verso le assemblee e i «Parlamenti» che potevano osta-
colare in mille modi l’attività dei sovrani, specie in campo finanziario
e giudiziario, ed ecco che Cromwell dimostra di essere il padrone
del Parlamento. E, parimenti, mostra di sapersi ben difendere, con
la forza e con l’abilità, dalle vane congiure degli «Anabattisti» e dal
malcontento dei capi militari. Traspare chiaramente in tutto ciò la
concezione che Bisaccioni ha della politica, che considera per necessità
di cose ben separata dalla morale; spietata la sua definizione di ragion
di Stato «che non considera né giustitia, morale, nè gratitudine né
qual si voglia altro interesse, che di se medesima»96, ma a differenza
dei critici sia conservatori (Bozio) che progressisti (Boccalini) della
ragion di Stato egli, pur davanti a un quadro così crudo, non pronun-

92
  Ibid., p. 141.
93
  Id., Historia delle guerre civili [1653] cit., p. 93.
94
  Id., Historia delle guerre civili [4a ed.] cit., pp. 209-36. Questa edizione verrà
ristampata presso lo stesso tipografo nel 1664.
95
  Campanella, Aforismi politici cit., aforismi 27, 28, 29, 103, pp. 98-9, 125; cfr.
anche il sonetto Non è re chi ha regno, ma chi sa reggere, in Le poesie, a cura di F.
Giancotti, Torino, Einaudi 1998, pp. 73-4.
96
  Bisaccioni, Historia delle guerre civili [1653] cit., p. 234.
146  Pietro Messina

cia nessuna condanna, seguendo un atteggiamento essenzialmente


razionalista, alla luce della lucida disamina della sola realtà effettuale.
Nella capacità di Cromwell di simulare e dissimulare, usare artifici,
fede religiosa, minacce, forza o concessioni valutando solo la loro
utilità, Bisaccioni vede la sua capacità di essere «vero politico», dopo
aver già affermato che «è dunque arte necessaria in chi domina e in
chi tratta negotii l’essere artificioso»97; di Cromwell, inoltre, aveva già
scritto che «ha fini grandi, et occulti nel cuore»98, e che se «il dominare
è il vero carattere dell’huomo di spirito»99, egli non può che seguire le
vie obbligate, né piane né pie, della politica. Così, nel descrivere la sua
ascesa, Bisaccioni non pronunzia nessuna condanna, limitandosi a
dire che «non poteva non farsi maggiore, e mantenersi nello stato che
s’era portato senza questi torbidi»100. Quando descrive la sua entrata
violenta in Parlamento, non c’è approvazione né condanna:

Ben è certo che non è materia fra le attioni humane, che l’ingegno non lo sap-
pia approvare o riprovare con apparenze di ragione, e a questa ne sussisteva
una apparentissima del troppo lungo Dominio di quel Parlamento facile a
convertirsi in una Oligarchia per non dire la tirannide di pochi101.

Bisaccioni definisce Cromwell una volta «tiranno», mostrando però,


in fondo, di giustificare la sua politica: «Non ha cosa il tiranno più
necessaria nel suo principio della piacevolezza, e s’è crudele, saperlo
dissimulare»102. Aveva del resto scritto in altra occasione: «la violenza,
no ’l niego, è la materia del regnare; […] quindi la tirannide è stata
chiamata cattiva ancorché talvolta buona»103, e non a caso, in questa
occasione fa riferimento a una scelta di politica religiosa (lasciare in
pace alcuni dissidenti). Bisaccioni, infatti, mostra sempre di approva-
re la linea della tolleranza scelta da Cromwell che, da «vero politico»,
capisce che tale scelta in quel momento favorisce il suo potere104.
Quando ascende al Protettorato, il più aspro critico dei rivoluzionari

97
  Ibid., p. 36.
98
  Ibid., p. 216.
99
  Ibid., p. 183.
100
  Id., Historia delle guerre civili [4a ed.] cit., p. 211.
101
  Ibid., p. 223.
102
  Ibid.
103
  Id., Il Demetrio cit., p. 129.
104
  Id., Historia delle guerre civili [1653] cit., p. 185; 4a ed., p. 223.
147  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

degli anni Quaranta si limita a considerare che se era stata «estinta la


podestà Regia per sostituirle la Repubblica», ora si è giunti a un ordi-
namento «che può render vana quella Repubblica», e «imparino le
repubbliche adunque di temere la possanza delle militie»105. Nessuna
condanna né politica né morale nel racconto, dove sembra aleggiare
solo la massima del Machiavelli: «colui che lascia quello che si fa per
quello che si dovrebbe fare, impara più tosto la ruina che la preser-
vazione sua» (Principe, XV). E non mancano giudizi pienamente
positivi sulle capacità politiche di Cromwell, sempre in maniera velata
(come nel già citato caso delle istruzioni date al figlio, considerate veri
capisaldi nell’arte di governo), talvolta in modo più deciso ma crip-
tato, come nell’esempio già citato sull’uso delle spie: «Perché il buon
Prencipe fa il buon suddito così conviene ch’abbia lunghe l’orecchie,
ch’è l’udito se vuole ben governare, lungo l’odorato; et in questa lun-
ghezza o ampiezza de’ sensi consiste il buon governo de’ Prencipi»106
dove è leggibile un richiamo a Campanella, che analoga metafora
riferisce allo Stato fondato dal legislatore «umano sapientissimo» che
«ha l’idea della sua politica […] nel governo dell’universo o del corpo
umano»107, per cui «la republica ha […] per l’occhi, i sapienti investi-
gatori delle scienze. Per l’orecchie, i mercanti e spie». E che si volesse
suggerire l’idea di Cromwell «legislatore sapientissimo» attraverso
questo obliquo richiamo agli Aforismi potrebbe essere confermato dal
fatto che, proprio a ridosso di questo brano, e dopo aver richiamati
due dei punti del programma cromwelliano che più incontravano il
suo apprezzamento («Quietata la militia, e mortificati li Predicanti»),
Bisaccioni inserisce un altro richiamo campanelliano:

Stimavasi il Protettore di essere protetto dal Cielo, o per lo meno dalla fortu-
na (s’altra fortuna però si può dare che il Cielo, ch’è lo stesso con la fortuna
humana, onde si accordano le due sentenze, che i Cieli si lasciano sforzare, e
l’altra che ciascheduno fabbrica a se medesimo la propria fortuna)108.

105
  Id., Historia delle guerre civili [4a ed.] cit., p. 230.
106
  Ibid.
107
  Campanella, Aforismi politici cit., aforismi 57-58, p. 109; cfr. Ernst,
Tommaso Campanella cit., p. 86. Cfr. P. Tuscano, Utopia e realismo negli Aforismi
di Tommaso Campanella, «Esperienze letterarie», 21, 1996, p. 12.
108
  Bisaccioni, Historia delle guerre civili [4a ed.] cit., p. 232.
148  Pietro Messina

Aveva scritto Campanella: «certo il fato è la stessa volontà di Dio,


eseguita dalle cause tutte insieme, che, da noi ignorata, si dice fato e
fortuna e, conosciuta, si dice provvidenza»109; inoltre, la stessa con-
clusione di Bisaccioni, sui Cieli che si lasciano sforzare e sulla fiducia
nell’azione puramente umana, si ricollega direttamente al Machiavelli
che scriveva: «iudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della
metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra
metà, o presso, a noi» (Principe, XXV), e ci indica il senso da lui dato
alla lettura di Campanella, ben lontano da quella di una mera ricaduta
nell’ortodossia. In questa stessa direzione, a mio avviso, va letta come
un’ulteriore, dissimulata, chiamata in causa di Campanella la notizia,
che poco dopo viene data a chiusura della storia delle guerre civili in
Inghilterra, di una profetessa, quasi un ammiccamento al momento
profetico del domenicano ribelle110, che fa molte «orationi», tutte
«per beneficio del Regno, della Pace, e del Protettore […] e prega
Dio che ad esso diverta li pericoli che gli sovrastano»; Bisaccioni,
benché mostri un certo scettico distacco, rimarcando l’assoluta lon-
tananza degli Incogniti da quell’aspetto del pensiero campanelliano,
coglie proprio questa occasione per citare san Paolo a proposito di
Cromwell: «omnis potestas a Deo»111; e nel chiamare l’Apostolo delle
genti a tutela del peggior capo dei peggiori eretici, ateo e usurpatore,
traspare anche il beffardo gusto libertino degli Incogniti, che non è
però vacua deriva goliardica, come già fu descritto, perché qui corona
la piena consapevolezza di un processo dove la forza, la virtù e l’occa-
sione reggono la storia umana emancipata da ogni trascendenza. Ma
se è lecito dubitare della sincerità della citazione paolina, molto meno
lo è però dei suoi sentimenti positivi per il protettore, perché già aveva
scritto nel Demetrio:

Non merita più il titolo di delitto, ma gloriosa lode colui che ardisce di uscire

109
  T. Campanella, Antiveneti, a cura di L. Firpo, Firenze, Olschki 1945, pp.
125-6; e anche pp. 7-8, 110. Lo stesso concetto in Discorsi ai principi d’Italia, a cura
di L. Firpo, Torino, Chiantore 1945, p. 119.
110
  G. Ernst, L’aurea età felice. Profezia, natura e politica in Tommaso Campanella,
in Tommaso Campanella e l’attesa del secolo aureo, Fondazione L. Firpo, Quaderno
3, Firenze, Olschki 1998, pp. 61-88; M. Fintoni, Impostura e profezia nelle poesie
filosofiche di Tommaso Campanella, «Bruniana & Campanelliana», 2, 1996, pp. 179-
93.
111
  Bisaccioni, Historia delle guerre civili [1653] cit., p. 236.
149  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

dai confini della propria condizione per farsi grande. Il furto che si fa con la
publica spada e a cielo scoperto perde il nome di infame azione, e acquistasi
quello di vincitor generoso, esser viltà d’animo non secondare un genio grande
che porta ad un imperio112.

4. Ha scritto Meinecke della visione scientifica di Machiavelli: «virtù,


fortuna e necessità sono tre parole che riecheggiano con suono di
bronzo nei suoi scritti»113, ed è proprio nelle pagine ricche di ammi-
razione che Gualdo Priorato dedicò a Cromwell che di quel suono si
sente ancora l’eco, flebile ma non distorto. Lo fece per lo più in opere
dedicate ad argomenti diversi dall’Inghilterra114, sempre dovendo fare
i conti con la necessità di nascondere il proprio pensiero, mascheran-
dolo e mischiandolo con le accuse di prammatica, tanto più che, specie
dopo la Restaurazione stuarda, era stata consacrata in modo definitivo
l’esecrazione assoluta per il parricida usurpatore. Ancora nel 1683
Bartolomeo Crasso gli dedicava questi versi:

Contémptor divum, patriae famisque tyrannus: / Fas omne abrumpens, bella


cruenta movens; / Anglorum dedecus, nostrique infamia Secli / Immanis
Cromuel, clauditur hoc tumulo: / Eu faber omnigeni sceleris. Ditisque minis-

112
  Id., Il Demetrio cit., p. 167; parole messe in bocca a un personaggio tutto
sommato positivo: impostore, ma alleato dell’eroina principale. Gli stessi crudi
concetti si trovano in Boccalini con un giudizio di segno opposto, derivato dalla
diversa ricezione della medesima lezione machiavelliana; tra gli Incogniti furono
Santacroce e Graziani i più vicini alla lettura di Boccalini, che così aveva scritto:
«A tanta cecità la scelerata ambizione di regnare ha condotti gli uomini potenti,
che rubare con ogni sorte di perfidia gli Stati altrui, non ribalderia esecranda come
veramente ella è, ma stimano mestiere nobilissimo e solo degno di re»; «il nome
vergognoso di ladro hanno convertito in quello di coraggioso soldato, quello di
scelerato ladrone in valoroso capitano» (Ragguagli cit., lxxvii, p. 275).
113
  F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, München-
Berlin, Oldenburg 1924, tr. it. L’idea della ragion di Stato nella Storia moderna,
Firenze, Sansoni 19772, p. 37.
114
  G. Gualdo Priorato, Historia delle Rivolutioni di Francia, Venetia,
Francesco Baba 1655; Venetia, Paolo Baglioni 1655; Colonia, per gl’eredi di Pietro
della Place 1670. Historia del Ministero del Cardinal Giulio Mazarino, Colonia, s. t.
1669; Bologna, Longhi 1677; Venetia, Iseppo Prodocimo 1678; Historia di Leopoldo
Cesare, I, Vienna, per G.B. Hacque 1670; Vite et azzioni di personaggi militari e
politici, Vienna, appresso Michele Thurnmayer 1674.
150  Pietro Messina

ter! / Ipsae, virile habuit robur, ad omne malum, / Induit. E chlamydem, (o


crimen, facinusque nefandum!) / Occisi Regis Sanguine, purpuream: / Illius
pereat, turpis cum nomine fama; / Sorbeat infaustum, fluminis unda Stygis115,

e il gesuita Lubrano lo vedeva come un esempio tipico del secolo


dell’Anticristo116. Gualdo nasconde i suoi giudizi in libri che parlano
d’altro, li mimetizza, con apparente schizofrenia, facendoli precedere
da pagine che, in stridente contraddizione, riprendono le solite accuse.
Così Cromwell viene definito usurpatore, tiranno, «hipocrito», odiato
dai sudditi, quasi a voler celare le pagine in cui, poco appresso, viene
espressa la stima per le sue capacità e i consensi che seppero racco-
gliere.
Se l’impalcatura dell’interpretazione ‘politica’ di Cromwell permane
(ambizione, volontà di potenza, artifici e macchinazioni, uso mera-
mente politico e strumentale della religione), ora tutto è illuminato
dalla spietata dialettica della necessità, della virtù e dell’occasione.
Scrive Gualdo: «procedeva sempre con finta modestia, e con ingan-
nevole humiltà, niente attribuendo hipocritamente alla sua virtù; e al
suo valore, ma tutto al solo voler di Dio in mano del quale rimetteva
sempre con apparenza d’intiera confidenza l’esito delle sue intrapre-
se». Nelle sue pagine Cromwell sembra incarnare alla perfezione l’im-
magine tipicamente libertina del capo che si finge mandato da Dio: «la
prima cosa ch’ei faceva nell’entrar nel Parlamento, o in altri consigli,
era di prostrarsi a terra, e humilmente supplicar il Cielo dell’inspira-
tioni più proprie, per beneficio del popolo, e per salute dell’anima sua;
regolandosi conforme ai dettami che diceva essergli suggeriti dallo
Spirito Santo, per lo che quanto più si dimostrava alieno dall’ambitio-
ne, tanto più veniva colmato di honore e di autorità»117, con evidente

115
  In L. Crasso, Elogij di capitani illustri, Venetia, Combi e La Nou 1683, p. 331.
116
  G. Lubrano, L’Anfiteatro della Costanza Vittoriosa, in Le solennità lugubri e
liete in nome della fedelissima Sicilia nella felice e primaria città di Palermo, Palermo,
presso Andrea Colicchi 1666: «Secolo mal auguroso, non senza ragione creduto
foriero dell’Anticristo […] tirannico ne’ Cromvelli sottopose alle accette de’ patiboli
l’arbore de’ diademi stuardi» (pp. 6-7); cit. da C. Sensi, La retorica dell’apoteosi.
Arte e artificio nei panegirici del Lubrano, «Studi secenteschi», 24, 1983, p. 90; stesso
brano anche in C. Ivanovich, Minerva al tavolino, Venezia, Nicolò Pezzana 1681,
pp. 313-4.
117
  G. Gualdo Priorato, Historia delle Rivolutioni di Francia, Venetia, Paolo
Baglioni 1655, pp. 161-2; cfr. Historia di Leopoldo Cesare cit., pp. 318-9.
151  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

rinvio a Machiavelli118. Infatti, l’ambiguità di Cromwell è poi spiegata


con la forza della necessità:

Sapeva ei, ch’il trionfo della vittoria fabbricato nell’eminenza della superbia
era troppo vicino al precipitio della propria lode, e al rischio della fortuna;
conoscendo quanto riesca odioso ad ogn’uno l’orgoglio della propria stima,
faceva tutto per far comprendere al Parlamento, e al popolo, che se in lui era
l’autorità, non teneva punto di pensiero d’imperare, né di servirsene che per il
beneficio pubblico. Come poi non è virtù minore il conservare, che l’acquisire
d’indi dietro si applicò a metter fondamenti stabili al nuovo governo, capitando
alle novità che stimò necessarie all’interesse e sicurezza propria119.

Gli artifici di Cromwell, insomma, si risolvono nella sua virtù. «Non


si debbe minacciare prima, e poi chiedere l’autorità»: è una massima
di Machiavelli (Discorsi, I, 44) e sembra proprio la via utilizzata da
Gualdo per spiegare la simulazione di Cromwell.
E la presenza di Machiavelli si avverte, del resto, sin dalle prime
pagine da lui dedicate alla rivoluzione inglese, in gran parte dei suoi
giudizi più salienti. Con troppa leggerezza Carlo imposta la sua politi-
ca religiosa; «cosa di maggiore delicatezza non esservi che la Religione;
questa avere espediti gli Imperii, gettati li fondamenti alle Monarchie,
come allo incontro rovinati li Regni, condotti a precipizio i Dominii»,
dice Gualdo120 dove si sente l’eco dei Discorsi machiavelliani (I, 11-5) e
quella di Campanella121. In particolare aveva considerato errore fatale
a Carlo il voler mutare le forme della religione (cfr. Discorsi, I, 12).
Convinto della necessità della dissimulazione egli ritiene che i principi
«è bene si ricordino la pelle della Volpe essere più propria per fodera-

118
  Principe, xviii: «e paia, ad udirlo e vederlo, tutto pietà, tutto fede, tutto
integrità, tutto umanità, tutto religione: e non è cosa più necessaria, a parere di
avere, che questa ultima qualità».
119
  Gualdo Priorato, Historia delle Rivolutioni di Francia cit., pp. 174-5.
120
  Id., Historia cit., p. 39.
121
  Scrive Machiavelli: «E come la osservanza del culto divino è cagione della
grandezza delle republiche, così il dispregio di quella è cagione della rovina
d’esse» (Discorsi, I, 11), e così Campanella negli Aforismi: «Di più la divisione della
religione benché non pregiudichi contra lo stato rovina l’imperio come il Francese,
il Germano, il Polono» (aforisma 112, p. 129), e in molti altri luoghi Campanella
aveva ribadito l’importanza della religione per la stabilità dello Stato.
152  Pietro Messina

re gli vestiti delle loro azioni, che quella del Leone»122, laddove scrive
Machiavelli: «coloro che stanno semplicemente in su ’l lione non se ne
intendono […] e quello che ha saputo meglio usare la volpe, è meglio
capitato. Ma è necessario […] essere gran simulatore e dissimulatore»
(Principe, XVIII). E ancora, netta la figura di Machiavelli si profila
dietro le critiche mosse alla politica di Carlo I, che era «d’animo facile
e dolce, senza quella simulatione, che tanto è necessaria a’ Prencipi che
vogliono regnar sicuri»123; a lui mancano capacità, ardimento, risolu-
zione, ma soprattutto «quelle considerationi Politiche, che non mai
doverebbero esser abbandonate da Dominanti», giacché «si può dir
esser stata la sua vita un epilogo di Virtù morali più tosto che un’Idea
qual doverebbe essere il Prencipe di Politiche massime», cosicché egli
«per l’eccesso della sua bontà, per la facilità del suo animo, per il soave
de suoi pensieri, per il rispettoso della sua coscienza perdette prima
la stima, indebolì il rispetto, lasciosi usurpar l’auttorità, e finalmen-
te restò privo di quella vita»124, «perché», ricorda Machiavelli, «uno
uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene
che ruini infra tanti che non sono buoni» (Principe, XV).
Al contrario sarà proprio Cromwell a incarnare agli occhi di Gualdo
il «principe nuovo»: «Oltre il valore nell’Armi, teneva una soprafina
intelligenza de termini con i quali devono i Principi farsi temere e nel
tempo medesimo amare da soldati e da Popoli»125, e si confrontino i
passi del Machiavelli (Principe, XVII) sul principe che deve «essere
temuto et amato». È il pericolo dell’ingratitudine che spinge Cromwell
ad agire (cfr. Discorsi, I, 29; I, 30; I, 32):

S’avvide che a lui potrebbe succeder ciò che per ordinario è solito provarsi
nelle Repubbliche, dove chi più degnamente opera con credito e applauso, più
soggiace al pericolo di provar i fulmini della massima, che vuole abbassato chi
troppo sopra gl’altri s’innalza. Si invaghì all’hora di quell’autorità che prima
con sprezzo havea negletta e pensò a’ modi di stabilirsi nella dolcezza di quel
dominio che non richiede alcun’altra dipendenza. Per farlo gli conveniva
deprimer prima tutti coloro che potevan emular le sue fortune.

122
  Gualdo Priorato, Historia cit., p. 215.
123
  Id., Dell’Historie cit., p. 597.
124
  Ibid., pp. 602-3.
125
  Id., Historia delle Rivolutioni di Francia cit., p. 161.
153  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

E questi ostacoli sono costituiti, per Gualdo, dal «Parlamento, e


la nobiltà del Regno»: essi sono, scrive, «gl’impedimenti maggiori».
I suoi alleati, di contro, sono il Popolo e la Milizia. E non manca di
ricorrere a nuovi artifici politici: «cominciò ad insinuar alla Plebe ch’ei
s’era affaticato per metter la quiete nel Regno; ma che il Parlamento
havea rinovata la guerra»; «tra la soldatesca fece correre, ch’altro più
non si pensava, che a licentiarla»; e naturalmente, una volta sciolto il
Parlamento, «fatte le consuete sue preghiere, alzò gli occhi al Cielo, e
disse haver bastantemente conosciuto esser quel governo poco grato
a Dio, e men caro agli huomini; onde per celeste ispiratione risolveva
di cambiarlo»126.
Una volta fattosi nominare anche Protettore e trovatosi ad avere un
potere

che non fu già mai concesso agli stessi Regi […], pose fine a quell’Humiltà
della quale s’era servito per sollevarsi a maggior grandezza. E come per coprire
l’intera ambitione, e sostener il concetto d’huomo moderato e zelante solamen-
te della libertà della Patria, s’era sempre mostrato vuoto d’ogni pretensione,
e totalmente dipendente da gli ordini del Parlamento; così per mantenersi
nel nuovo posto, e nell’usurpato dominio, diede piglio a que’ stromenti che
giudicò opportuni a farsi obedire da chi prima egli serviva, e farsi temere da
chi lui per avanti temeva127.

Come già in Bisaccioni, ogni condanna morale è del tutto abban-


donata, e Gualdo anzi procede poi verso un’aperta ammirazione. Già
prima aveva parlato della virtù di Cromwell in guerra e nel reggere i
Popoli, non mancando di apprezzare il suo «grand’ingegno» e «asso-
data prudenza»128; e ora, proprio dopo il brano appena riportato, riba-
disce il plauso alla sua «virtù e eccellenza».
L’ammirazione si accompagna, derivandone, all’analisi del suo
operato da un punto di vista obiettivo, rispetto alla morale cristiana.
Cromwell, infatti, pensa Gualdo,

sapeva che nell’attioni straordinarie e grandi gli huomini prudenti si doveva-


no quadrare secondo la corrente de tempi; onde se nel principio della nuova
Repubblica, e prima ch’egli havesse guadagnato l’intiero affetto e dipendenza

126
  Ibid., pp. 175-6.
127
  Ibid., p. 177.
128
  Ibid., p. 171.
154  Pietro Messina

assoluta della soldatesca, stette ne’ termini della moderatione, e governò con
altre forme, questo si comprese per non esser stata per anche la materia di-
sordinata dal tempo, e per esser troppo pericoloso l’intraprendere all’hora di
metter in servitù quelli che eran risoluti di viver liberi129.

Si sente l’insegnamento di Machiavelli sull’opportunità di seguire


le circostanze e le «variazioni della fortuna»: (Principe, XVIII, XXV;
Discorsi, III, 9); e ancora più l’idea che «coloro che per cattiva elezione
o per naturale inclinazione si discordano dai tempi, vivono il più delle
volte infelici ed hanno cattivo esito le azioni loro; al contrario l’hanno
quelli che si concordano col tempo» (Discorsi, III, 8: «chi vuole alterare
una Republica debbe considerare il suggetto di quella»).
Questa lezione è accolta in pieno da Gualdo, che si guarda bene
dallo svilirla e travisarla, riducendola al rango di consigliare meschini
inganni. Scrive così di Cromwell:

Adequava i modi del suo procedere con questi, col variar la sua natura. All’hora
che stimò necessario l’operar con rispetto e cautione, non fu veduto huomo
con minor pretensione; quando fu di mestiere il proceder con empito e con
rigore, ruppe la patienza e 1’humiltà, col che s’avanzò alle glorie maggiori, e alle
grandezze sublimi. S’havesse continuata la via che tenne nel cominciamento,
il variarsi degli ordini del nuovo governo, e la stessa fortuna […] l’havrebbe
rimesso nello stesso posto da dove l’haveva inalzato130.

È probabile che Gualdo, nel descrivere la graduale, abile scalata di


Cromwell, tenesse presente anche quest’altro pensiero del Machiavelli:

Perché chi è paruto buono un tempo e vuole a suo proposito diventar cattivo,
lo debbe fare per i debiti mezzi, ed il modo condurvisi con le occasioni, che
innanzi che la diversa natura ti tolga de’ favori vecchi, la te ne abbia dati tanti
de’ nuovi che tu non venga a diminuire la tua autorità; altrimenti, trovandoti
scoperto e sanza amici, rovini. (Discorsi, I, 61).

Che l’eroe di Gualdo sia lo stesso di Machiavelli è confermato dal


fatto che, parlando dell’inizio del dominio di Cromwell, Gualdo cita,
pari pari, il Segretario fiorentino:

  Ibid., p. 178.
129

  Ibid.
130
155  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

E come sia precetto di chi nuovo entra nel dominio d’uno Stato, il far ogni
cosa di nuovo; subito s’applicò a comporre nuovi governi, inventar nuovi titoli,
nuove autorità, a metter huomini nuovi nella cariche, e officij del Regno, ad
impoverir i ricchi, arricchire i poveri; […] con i buoni si faceva conoscer tutto
buono, con li cattivi tutto cattivo131.

(Si confronti con Discorsi, I, 26: «uno principe nuovo, in una


città o provincia presa da lui, debbe fare ogni cosa nuova, […] fare
i poveri ricchi, i ricchi poveri», e ancora una volta con gli Aforismi
campanelliani)132. Che Gualdo usi il machiavellismo per interpretare
le azioni di Cromwell penso sia fuori discussione. E altrettanto sicuro
è che se ne serve per forgiare un giudizio positivo.

Eran – [i popoli] – da lui sostentati non con altro rigore, che quello richiedeva
necessariamente la ragione del buon governo, havendo egli per altro l’animo
generoso e ripieno d’humanità, ch’abbondantemente esercitava verso ognuno
che non fosse contumace, della Religione, e del nuovo governo di Stato133. […]
Studiava ei tutta l’arte, per farsi conoscer humano, affabile, e generoso, come di
non dar di sé esempio alcuno di crudele e di superbo, se non quanto l’occasione
lo violentasse a far altrimente, per imbrigliar la disobedienza di coloro che non
sapevano o non potevano accomodarsi l’animo a servire a chi prima haveva
commandato. Divideva i beni de delinquenti a più meritevoli, e così liberale si
mostrava nel rimunerare, come severo nel punire. E perché per rendersi ben
obedito bisogna intendersi del buon commandare, d’indi regolò i suoi ordini
a proportione delle qualità di quelli che dovevan esequirli134.

Gualdo esalta costantemente la «virtù» di Cromwell, che «attese


poscia a mettersi in stato di reggersi da se stesso, senza dipender dalla
fortuna e forza altrui, ma dalla sola sua potenza e virtù»135; grazie a que-
sta sua «virtù», alle sue sole capacità, sa afferrare dunque la Fortuna,
anzi «le havea inchiodato la treccia con la punta della sua spada
nell’Inghilterra»136. E «virtù», «fortuna», «occasione», torneranno nel
brano conclusivo del capitolo dedicato a Cromwell in Vite et azzioni

131
  Ibid.
132
  Campanella, Aforismi politici cit., aforisma 100, p. 124.
133
  Gualdo Priorato, Historia delle Rivolutioni di Francia cit., p. 173.
134
  Ibid., pp. 178-9.
135
  Ibid., pp. 179-80.
136
  Ibid., pp. 180-1.
156  Pietro Messina

militari e già contenuto nell’Historia di Leopoldo Cesare137. Gualdo usa


lo stesso linguaggio di Machiavelli. Machiavelli (Principe, VI) dice di
Ierone: «Costui spense la milizia vecchia, ordinò della nuova; lasciò
le amicizie antiche, prese delle nuove; e, come ebbe amicizie e soldati
che fussino sua, possé in su tale fondamento edificare ogni edificio».
Scrive invece Gualdo di Cromwell: «Cercò di assicurarsi degli emoli;
guadagnarsi i ben disposti, vincer per forza o per ingegno; […] inno-
vare gl’antichi ordini con modi moderni, disperder la militia infedele,
crearne di nuova, mantenersi l’amicitia de principi stranieri, farsi
conoscer severo, grato, magnanimo e generoso»138.
«Dove gli uomini hanno poca virtù, la fortuna dimostra assai la
potenza sua» (Discorsi, II, 30). Ma Cromwell con la sua spada l’ha
saputa inchiodare all’Inghilterra, offrendoci Gualdo in questa icastica
immagine la speculare riproposizione di quella di Carlo I, andato
incontro alla rovina per non aver saputo «allacciar alla sua spada i
crini di quella fortuna che nel principio benignamente gli rivolse la
fronte»139. In Gualdo insomma si accoglie in pieno il binomio machia-
velliano Fortuna-Virtù, e lo si usa per interpretare la storia, e più pre-
cisamente per apprezzare la figura di Oliver Cromwell.
Non è difficile riconoscere in lui, come si è visto, il «Principe
Virtuoso» machiavelliano, colui che sa essere «Golpe» e «Lione». Un
altro elemento che favorì in Gualdo l’identificazione di Cromwell
col principe machiavelliano fu la grande abilità militare che lo sto-
rico riconobbe e apprezzò moltissimo in Cromwell sin dagli anni
Quaranta. Il protettore, dunque, è insieme principe e condottiero,
anzi deve moltissimo alla sua virtù militare. Aveva scritto Machiavelli:

Debbe adunque uno principe non avere altro obietto né altro pensiero, né
prendere cosa alcune per sua arte, fuora della guerra et ordini e disciplina di
essa; perché quella è sola arte che si espetta a chi comanda. Et è di tanta virtù,
che non solamente mantiene quelli che sono nati principi, ma molte volte fa
li uomini di privata fortuna salire a quel grado (Principe, XIV).

Ed è bene ricordare come il machiavellismo fosse impiegato anche


in Inghilterra in alcune opere favorevoli a Cromwell. Felix Raab
ricorda che il machiavellismo, se fu usato per lanciare accuse contro

137
  Id., Historia di Leopoldo Cesare cit., pp. 319-20.
138
  Id., Historia delle Rivolutioni di Francia cit., p. 179.
139
  Id., Dell’Historie cit., p. 603.
157  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

Cromwell, fu usato anche in sua difesa. In molti casi, però, gli esti-
matori di Cromwell si limitano a ritorcere l’accusa di machiavellismo
contro gli accusatori, e a dimostrare che Cromwell non era affatto il
Principe di Machiavelli, ma bensì il Principe cristiano e «morale».
Rimane così integro il valore negativo del machiavellismo. Come dice
Raab a proposito di alcune di queste opere, «Oliver, in other words,
was directly associated with Machiavelli’s picture of the ‘de facto’
ruler, seen in an unfavourable light. The defence operated on the same
uncomplicated level, and consisted simply in denying that Cromwell
fitted these criteria in any way»140.
Ci sono anche i casi in cui, invece, raccogliendo la più autentica
lezione di Machiavelli, Cromwell risulta una figura che illustra appun-
to la «Virtù» machiavelliana. Raab, in questa direzione, ricorda soprat-
tutto la poesia di Andrew Marvell Horatian Ode upon Cromwel’s
Return from Ireland; anche se è poi discussa la conoscenza diretta di
Machiavelli da parte del poeta, si conferma tuttavia, sostanzialmente,
che in essa Cromwell è visto «as the epitome of Machiavelli’s rider,
brought by circumstances, Fortune and his own virtù to a position of
power»141. C’è poi James Harrington; Raab gli dedica un capitolo a sé ed
è opportuno ricordare quanto scrive Giuliano Procacci a proposito del
machiavellismo di Harrington, e Cromwell: «È certo che agli occhi di

140
  Raab, The English Face of Machiavelli cit., pp. 136-7; sulla figura di Machiavelli
durante la rivoluzione inglese: ibid., pp. 118-84; V. Kahn, Machiavellian Rhetoric
from the Counter-Reformation to Milton, Princeton, Princeton University Press
1994, pp. 169-235; Macek, Machiavelli cit., pp. 227-46; J.G.A. Pocock, The
Machiavellian Moment. Florentine Political Thought and the Atlantic Republican
Tradition, Princeton, Princeton University Press 1975, tr. it. Il momento
machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione anglossasone, Bologna,
Il Mulino 1975, in part. parte III, cap. XI: La repubblica anglicizzata: la costituzione
mista, il santo e il cittadino, pp. 625-86.
141
  Raab, The English Face of Machiavelli cit., p. 144; cfr., su Marvell e Cromwell
rispetto al machiavellismo: B. Worden, Milton’s Republicanism and the Thyranny
of Heaven, in Machiavelli and Republicanism, ed. by G. Bock, Q. Skinner, M. Viro-
li, Cambridge, Cambridge Universy Press 1990, pp. 227-8, 230; Id., Andrew Marvell,
Oliver Cromwell and the Horatian Ode, in Politcs of Discourse, ed. by K. Sharpe, S.
Zwicker, Berkeley, Los Angeles, University of California Press 1987, pp. 147-80; Pro-
cacci, Machiavelli nella cultura europea cit., p. 247; Kahn, Machiavellian Rhetoric
cit., pp. 132-3, 220-2, 251; Macek, Machiavelli cit., p. 239. Pocock, Il momento ma-
chiavelliano cit., pp. 652-4.
158  Pietro Messina

Harrington Cromwell appare nei panni del ‘Legislatore’ e del ‘Principe


nuovo’ machiavelliano»142. Harrington, ricorda Procacci, aderiva in
linea di massima all’interpretazione repubblicana di Machiavelli, ben-
ché in questo caso non esiti a lodare la «Virtù» di Cromwell.
Accanto a Gualdo troviamo dunque un Marvell, un Harrington, due
grandi figure della cultura inglese del XVII secolo: la cultura italiana,
attraverso uno storico come Gualdo, riusciva ancora a mantenersi
al passo coi tempi, ma con pensieri che sono costretti a dissimularsi
facendosi schermo del proprio contrario. È un altro, grande, punto a
favore degli storici libertini di quel periodo. Non possiamo non rimar-
care la profonda eterodossia del suo uso del machiavellismo, di cui
accetta in pieno e positivamente la lezione. Infatti, Gualdo non tenta
un suo recupero anomalo, presentandolo come lo «smascheratore dei
tiranni». Al contrario, assume in pieno i cardini del suo pensiero poli-
tico: Fortuna e Virtù. L’eticità di derivazione teologica che incardinava
l’antropologia cristiano-cattolica, non è più il punto di riferimento.
Da quando Possevino aveva tuonato:

An vero poterat consilium dari pestilentius, quam quum principi suadet, ut


spreto alieno consilio, suae ipsius prudentiae innitatur? […] Fortunae et casui
foelicitatem, non virtuti et religioni verae tribuat? Et haec quidem sceleratum
illud Satanae organum, prioribus duobus libris, quibus de Principe agit, sic
insipienti mundo obtrusit, ut hoc veneno epoto, plerique sese ingentes poli-
ticos, et consiliarios aestimantes, constitutas optime optimorum Regnorum
res, facili negocio pessumdederit143,

142
  Procacci, Machiavelli nella cultura europea cit., pp. 246-7, 263, 270; su
Harrington e Cromwell rispetto al machiavellismo vd. anche: Raab, The English
Face of Machiavelli cit., pp. 187-216; A. Cromartie, Harrington Virtue: Harrington,
Machiavelli and the Method of Moment, «The Historical Journal», 41, 1998, pp.
987-1009; E. Capozzi, Costituzione elezione aristocrazia. La repubblica ‘naturale’
di James Harrington, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1996, pp. 35, 53, 58, 59,
88, 102, 107, 116, 127, 221, 232; A. Strumia, L’immaginazione repubblicana. Sparta
e Israele nel dibattito filosofico-politico dell’età di Cromwell, Firenze, Le Lettere
1991, pp. 2, 7, 23, 37, 43, 50, 83, 85, 88, 101, 103-4, 117, 121, 123, 143, 166; Macek,
Machiavelli cit., p. 242; The Political Works of James Harrington, ed. by J.G.A.
Pocock, Cambridge, Cambridge Universy Press 1977, pp. 30-1; Id., Il momento
machiavelliano cit., pp. 654, 673, 680.
143
  A. Possevino, Iudicium de Nuae militis Galli scriptis, quae ille Discursus
Politicos, et Militares inscriptis. De Ioannis Bodini Methodo historiae: Libris de Repub.
159  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

il motivo del richiamo alla Provvidenza, buono e cristiano, contrappo-


sto a quello alla fortuna, in odore di miscredenza, dilagava in tutta la
produzione intellettuale, dalla politica alla letteratura al teatro, e tutti
tenevano a precisare che le uniche virtù erano quelle cristiane, e che
l’unica «Fortuna» possibile era la Provvidenza Divina.
Lo storico Scipione Ammirato aveva imboccato e indicato la nuova
via da seguire:

E se la fortuna appresso noi Christiani altro non è, che non seconda causa
mossa dalla volontà di Dio; è bene attribuire i nostri buoni avvenimenti più
alla volontà et bontà di Dio, che alla nostra virtù […]; Voglio dire, che non
avendo i Christiani altra fortuna che Dio, per conseguente confidiamo più in
Dio, che nella nostra virtù; per non essere da meno de Romani gentili, i quali
attribuirono più al valore della fortuna Dea loro, che a quel di se stessi […].
Tutte le cose essere avvenute felicemente a coloro i quali tengon conto di Dio,
infelicissime a coloro che lo disprezzano144.

Sono solo due esempi ma la letteratura sull’argomento è sterminata.


Fortuna e Virtù machiavelliane facevano paura, e, contro di esse, la
cultura ortodossa impose le sue leggi. Leggi oppressivamente, ossessi-
vamente pervasive di ogni attività intellettuale. Procacci ricorda a pro-
posito di Machiavelli la «semiclandestinità cui era costretto nei territo-
ri della cattolicità e non solo in essi un autore proscritto dalla chiesa.
Non solo un’aperta professione di “machiavellismo”, ma anche la sola
citazione del nome e delle opere del Segretario fiorentino comportava
dei rischi per evitare i quali era necessario ricorrere, come si è visto e
si vedrà, a vari sotterfugi ed accorgimenti o rassegnarsi all’inedito»145.
Tanto più è a mio avviso da ammirare, culturalmente e moralmente,
l’operazione intellettuale di Gualdo che, in pieno Seicento, rivaluta, in
Italia, il Machiavelli.
Machiavelli che è anche ampiamente presente in Antonio Santacroce,
Incognito come Gualdo e Bisaccioni, così come Incogniti erano

et Demonomania. De Philippi Mornei libro de Perfectione Christiana. De Nicolao


Machiavello, Romae, ex Typographia Vaticana 1592, pp. 157-8. Ma per l’attribuzione
del libro cfr. R. De Mattei, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo, Firenze,
Sansoni 1969, p. 240; Procacci, Machiavelli nella cultura europea cit., p. 120.
144
  S. Ammirato, Discorsi sopra Cornelio Tacito, Fiorenza, per Filippo Giunti
1598, pp. 469; 471-2 (1a ed. 1594).
145
  Procacci, Machiavelli nella cultura europea cit., p. 139.
160  Pietro Messina

Jacopo Gaddi, suo biografo, amico di Naudé, di Beriguard, di Sorbière


e che aveva conosciuto Milton e forse Neville, e Tommaso Tommasi,
che pubblicò una Vita del Duca Valentino a Montechiaro nel 1655; più
in generale al machiavellismo attingevano gli ambienti del libertini-
smo italiano e no146. Non è inoltre da escludere che il machiavellismo
di Gualdo si potesse nutrire nell’ambiente politico culturale fervente
intorno a Cristina di Svezia. Della sovrana Gualdo aveva scritto una
biografia nel 1656147, e poco dopo entrò al suo servizio; non immune
dal fascino del libertinismo la stessa regina, lettrice di Machiavelli148,
nel suo eterodosso carteggio ritroviamo, oltre al Naudé, Hermann
Conring: medico ammiratore di Harvey, in contatto con vari ambien-
ti scientifici italiani, continuatore della polemica antiermetica di
Casaubon, si era occupato di diritto ed economia, aveva curato le
edizioni di Guicciardini, Scioppio, Naudé, Bodin, interessandosi a
Botero, Boccalini, Zuccolo, Campanella; a lui risale la definizione di
quest’ultimo come «empio censore e subdolo maestro delle massi-
me di Machiavelli»149; egli aveva tradotto in latino Il Principe, e con
le sue Animadversiones politicae150 recupera in pieno Machiavelli, la

146
  Gregory, Il libertinismo della prima metà del Seicento cit., p. 12; Id.,
Aristotelismo e libertinismo cit., pp. 163-5; S. Bertelli, Presentazione, in Il
libertinismo in Europa cit., pp. 11 sgg.; Dal Machiavellismo al libertinismo. Studi
in memoria di Anna Maria Battista, «Il Pensiero Politico», 32, 1999, pp. 165-347;
C. Scarcella, Machiavelli, Tacito, Grozio: un nesso ‘ideale’ tra libertinismo e
previchismo, «Filosofia», 41, 1990, pp. 213-2; Procacci, Machiavelli nella cultura
europea cit., pp. 164-9; V. Frajese, Note su Machiavelli, editoria e cultura nell’Italia
del Rinascimento e della Controriforma, «Studi storici», 38, 1997, pp. 149-55.
147
  G. Gualdo Priorato, Historia della Sacra Real Maestà di Christina
Alessandra Regina di Svetia, Roma, nella Stamperia della R.C. Apostolica 1656, e
Venetia, per il Baba 1656.
148
  Sulle simpatie libertine di Cristina ci furono varie testimonianze dei
contemporanei, dal Condé al Leibniz; anche se è da considerare l’estremamente
volubile, eclettica versatilità della sovrana. S. Åkerman, Queen Christina of Sweden
and Her Circle. The Transformation of a Seventeenth – Century Philosophical
Libertine, Leiden, New York, Købnhavn, Köln, E. J. Brill 1991, pp. 28-43, 122.
Gregory, Il libertinismo della prima metà del Seicento cit., p. 13; Spini, Ricerca
dei libertini cit., pp. 10, 344. Su Cristina lettrice di Machiavelli ci riferisce Pasquale
Villari citato da Procacci, Machiavelli nella cultura europea cit., p. 259.
149
  Ernst, Tommaso Campanella cit., p. 55.
150
  H. Conring, Animadversiones politicae in Nicolai Machiavelli librum De
161  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

sua opera, il suo pensiero, ed è colui che «partendo dalla biografia


gaddiana […], può cominciare davvero ad erigere il nuovo edificio
machiavelliano, sulle macerie di Gentillet e di Possevino»151. Non
sono in grado di dire se Gualdo e Conring si incontrarono e se ci
fu corrispondenza tra loro; certo è che il loro modo di intendere il
machiavellismo è assolutamente in sintonia: Machiavelli è l’indagatore
dell’umana realtà che, rifiutando ogni trascendenza, con i mezzi da
quella stessa realtà derivati, offre la possibilità per poterla comprende-
re, e, all’occasione, trasformare. Un particolare significato assume poi
il fatto che Conring, nelle sue Animadversiones, propone «un sugge-
stivo paragone tra il principe nuovo machiavelliano e Oliver Cromwell
“qui, etsi optimates infestos habeat, populi tamen benevolentia tutus
est”»152. Su questo punto Gualdo, Conring e Harrington la pensavano
alla stessa maniera.

Principe, Helmestadii, typis atque impensis Henningi Mulleri 1661. La traduzione


del Principe è Nicolai Machiavelli princeps aliaque nonnulla ex italice latine nunc
demum versa partim infinitis locis sensis melioris ergo castigata curante Hermanno
Conringio, Helmestadii, Typis atque impensis Henningi Mulleri 1660.
151
  Opere di Nicolò Machiavelli, X: Bibliografia, a cura di S. Bertelli e P. Innocenti,
Verona, Valdonega 1979, Introduzione, pp. xcii-xciii. Su Conring: Hermann
Conring (1606-1681). Beiträge zu Leben und Werk, hrsg. von M. Stolleis, Berlin,
Duncker & Humblot 1983; A. Mazzacane, Hermann Conring e la storia della
costituzione germanica, in Diritto e Potere nella storia europea. Atti in onore di
Bruno Paradisi, 2 voll., Firenze, Olschki 1982, I, pp. 567-610; in particolare sui
suoi rapporti col machiavellismo: M. Stolleis, Staat und Staaträson in der frühen
Neuzeit: Studien zur Geschichte des öffentlichen Rechts, Frankfurt a. M., Suhrkamp
1990, tr. it. Stato e ragion di Stato nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino
1998, cap III: Machiavellismo e ragion di Stato. Un contributo sul pensiero politico
di Hermann Conring, pp. 69-102; Procacci, Machiavelli nella cultura europea cit.,
pp. 159, 166, 257-66, 277-8, 281-2, 284, 286, 303, 308, 327, 366; V.I. Comparato,
Il pensiero politico dei libertini, in Storia delle idee politiche economiche e sociali,
diretta da L. Firpo, IV, I, Torino 1980, p. 181; D’Addio, Il pensiero politico di
Gaspare Scioppio cit., ad indicem; sui suoi rapporti con Cristina: Åkerman, Queen
Christina of Sweden cit., ad indicem; sulla sua attività scientifica cfr. le indicazioni
bibliografiche in O. Trabucco, Tra Napoli e l’Europa: le relazioni scientifiche di
Marco Aurelio Severino, «Giornale critico della filosofia italiana», 74, 1995, pp. 321,
331-3, 336.
152
  Procacci, Machiavelli nella cultura europea cit., p. 263.
162  Pietro Messina

Giuliana Toso Rodinis studiando l’attività di moralista di Gualdo ne


ricerca le affinità coi moralisti di Port Royal, e lo mostra anticipatore
di una visione del mondo «ove i rapporti tra l’uomo comune e il gran-
de, pur mantenendosi entro certi limiti dell’interesse dello stato, sono
improntati ad una nuova forma di rispetto e di tolleranza»153; e parla
di un «machiavellismo morale» di Gualdo, individuando un «nuovo
machiavellismo dei teorici del Seicento, i quali vedono in Machiavelli
non soltanto l’autore della legge dell’interesse individuale, che è poi
l’interesse dello stato, bensì il propugnatore del dinamismo e dell’a-
zione, azione predicata anche da Guicciardini»154.
Inoltre, la studiosa aggiunge, sul significato progressista della cul-
tura di Gualdo: «e non è da trascurarsi la possibilità che il moralismo
italiano del Seicento, comprese anche le teorie di Galeazzo Gualdo
Priorato, fondendosi con il cartesianesimo, non sia estraneo alla
nascita dell’illuminismo e non abbia favorito il sorgere delle idee di
rinnovamento politico-sociale degli Enciclopedisti»155.
Ma è sul terreno della politica e della storia, ancor più che su quel-
lo della filosofia e della morale, che va valutato il machiavellismo di
Gualdo. La Toso Rodinis analizza varie sue opere ma mai, su un piano
autenticamente politico, risulta chiara l’adesione al machiavellismo
come nei brani scritti su Cromwell. E Cromwell, non lo si dimenti-
chi, era il regicida per eccellenza, il simbolo della rivoluzione inglese,
il nemico della nobiltà. Il suo assolutismo, come agli italiani risulta
molto chiaro, era di tipo nuovo, e non ricuciva affatto la rottura cruen-
ta col passato.
Il machiavellismo di Gualdo dunque, lungi dall’essere uno di quei
travisamenti che permettevano al Machiavelli di sopravvivere, o una
esausta tradizione ormai svuotata di contenuti, era uno dei canali vivi
della cultura italiana: un canale attraverso il quale ci si poté porre in
positivo contatto con la lezione rivoluzionaria inglese.
La Toso Rodinis punta il dito sul «dinamismo» propugnato da que-
sto machiavellismo secentesco, preludio alla cultura illuministica. Fu
questo «dinamismo», implicito vettore di una concezione attiva della
vita, a rendere possibile un accostamento tra la laica tradizione uma-
nistica italiana e il messaggio dei rivoluzionari puritani.

153
  Toso Rodinis, Galeazzo Gualdo Priorato cit., p. 211.
154
  Ibid., p. 151.
155
  Ibid., p. 212.
163  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

L’elogio della «Virtù» e del suo valore, il rifiuto del provviden-


zialismo, l’esaltazione delle capacità umane, attingevano, attraverso
Machiavelli, a una delle vene più profonde, e più feconde e vivificanti,
dell’Umanesimo e del Rinascimento con una visione positiva, attiva,
coraggiosa.
Gualdo, quando usa il medesimo linguaggio di Machiavelli (virtù,
fortuna, occasione), ne recupera in pieno il valore di rottura con la
cultura controriformista non meno che con quella scolastica e medie-
valeggiante. Non a caso, tale recupero avviene a proposito di un even-
to sentito all’epoca come portatore di una ineludibile carica eversiva:
la rivoluzione inglese, la rivoluzione dei ‘Puritani’. Solo apparente-
mente ciò è strano. Christopher Hill ci ha insegnato che il nocciolo
del Puritanesimo non era né il fanatismo né una fuga nel misticismo:
«Pochissimi dei cosiddetti “puritani” furono dei “puritani’’ nel senso
che la parola ebbe nel secolo XIX». «Il complesso di idee che meri-
ta l’appellativo di “puritano”, in mancanza di un termine migliore,
costituisce una filosofia per la vita, un atteggiamento nei riguardi
della realtà universale, che non escludeva affatto interessi terreni. Il
professor Frank, dopo aver studiato a fondo i giornali del periodo
1640-1660, ha affermato con molta decisione che la “rivoluzione puri-
tana” fu più “laica che religiosa” […]. E la stampa del tempo fu più
rivoluzionaria che puritana»156. La religione dei puritani è di questo
mondo: «in quest’epoca di accumulazione del capitale, quindi, piccoli
gruppi di uomini cominciavano molto lentamente a liberarsi dai loro
condizionamenti, sia dal punto di vista intellettuale e morale sia da
quello economico»157.
«Il Puritanesimo», ricorda Hill, «risollevava gli uomini dalla pas-
sività che, come accortamente faceva notare Oliver a Hammond,
poteva essere un alibi per la codardia»: «il puritanesimo non gettava
gli uomini nelle braccia del fatalismo; insegnava il coraggio, la vittoria
dello spirito sulla materia, della ragione sulla superstizione»158. «Il
Puritanesimo», insiste Hill, «rovesciò la dottrina dell’obbedienza pas-
siva all’autorità costituita per diritto divino, appellandosi alla forza di

156
  C. Hill, Intellectual Origins of the English Revolution, Oxford, The Clarendon
Press 1965, tr. it. Le origini intellettuali della Rivoluzione inglese, Bologna, Il Mulino
1976, p. 400.
157
  Id., Vita di Cromwell cit., p. 231.
158
  Ibid., p. 228.
164  Pietro Messina

volontà umana e, fino ad un certo grado, alla ragione umana, e non ad


un arbitrario intervento divino dell’esterno»159.
Pur partendo da premesse totalmente diverse, 1’ideologia dei rivolu-
zionari inglesi non era poi così lontana dal «dinamismo» e dall’amore
per l’azione umana dell’autentica eredità machiavelliana. Provvidenza
e fede in Dio, virtù e occasione, potevano generare una visione ugual-
mente attiva, moderna, dinamica della vita. Meinecke, partendo
dall’immagine «demoniaca» del machiavellismo scrive: «In questa
natura spogliata del divino l’uomo poteva fare assegnamento soltanto
su se stesso e sulle forze che la natura gli aveva elargito per accettare la
lotta con tutte le forze fatali di questa natura»160.
E scrive Hill: «“L’opera di Dio procederà”, disse Hugh Peter nel
dicembre 1648; ma “non sono dell’idea che ci si debba mettere le
mani in tasca ad aspettare quel che avverrà”. Così cooperando,
“facciamo del nostro destino la nostra scelta”, spiegavano Andrew
Marvell e Orinda l’Impareggiabile»161. Ricordiamo quanto aveva scritto
Bisaccioni commentando l’ascesa di Cromwell sui «Cieli che si lascia-
no sforzare», esprimendo la convinzione che «ciascheduno fabbrica a
sé medesimo la propria fortuna», e consideriamo le analoghe idee, di
sapore machiavelliano, espresse da Gualdo sulla dialettica di virtù e
fortuna, e quelle opposte dell’Ammirato, e la posizione di Campanella.
Dietro le loro considerazioni affiora poderosamente un punto nodale
della nostra storia culturale, carico di tutte le tensioni dovute all’in-
crociarsi e allo scontrarsi di visioni del mondo e dell’uomo diverse e
radicalmente antagoniste, e però anche gravido di sviluppi162.

159
  Ibid., p. 229. E si tenga presente anche Id., The World Turned Upside Down. Radi-
cal Ideas During the English Revolution, London, Maurice Temple Smith Ltd 1972, tr.
it. Il mondo alla rovescia, Torino, Einaudi 1981, pp. 141-74.
160
  Meinecke, L’idea della ragion di Stato cit., p. 36.
161
  Hill, Vita cit., p. 219.
162
  Scrive a proposito di Vico N. Badaloni: «la provvidenza è perciò un istinto
umano, o come dice Vico un senso comune, così come esso era stato teorizzato
da Campanella, ed anche dalla tradizione inglese ed in particolare da Herbert di
Cherbury» (Introduzione a G.B. Vico, Milano, Feltrinelli 1961, p. 385). Vico aderì
«esplicitamente alla teoria di Herbert sulle facoltà» (ibid., 352); Herbert, precursore
del deismo inglese, conobbe e apprezzò Cremonini e Liceti, fu in contatto con
Domenico Molin, come il Liceti accademico Incognito, con Niccolò Contarini
e, sporadicamente, con Campanella. Sulla connessione tra Machiavelli e l’idea
vichiana di Provvidenza (dove alcune posizioni dei nostri libertini possono ben
165  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

Assistiamo dunque al paradosso per cui proprio attraverso il


machiavellismo, che per tanti suoi aspetti fu un ostacolo alla compren-
sione della ideologia e delle motivazioni ideali dei rivoluzionari ingle-
si, il laico, il libertino Gualdo poté apprezzare il puritano Cromwell.
Un paradosso derivante dal fatto che, nell’Europa della metà del
Seicento, tutti gli uomini impegnati a portare linfa e vita a quell’infi-
nità di fermenti politici, economici, culturali, che ora attraverso lente
trasformazioni di strutture o sotterranee maturazioni di lunga durata,
ora attraverso rotture brusche e violente davano alimento al processo
che avrebbe condotto all’annientamento dell’Ancien Régime e del
suo universo, si trovarono anche a percorrere strade che per itinerari
tutt’altro che piani procedevano in direzioni a volte disomogenee e
anche contrapposte, ma, magari anche inconsapevolmente, essi anda-
vano minando il vecchio ordine, e stavano costruendo, ma non aveva-
no ancora elaborato un linguaggio comune: Locke non aveva ancora
dato lo sfratto ad Abacuc163.
Il machiavellismo in Gualdo si arricchisce di nuovi temi. Era stato
un mezzo, in fondo, attraverso il quale la prima grande rivoluzione
moderna aveva fatto una piccola breccia nella comprensione dei nostri
storici. Ma dietro Cromwell c’era appunto tutta la rivoluzione inglese.
Si è già detto di ciò che Cromwell significava. E non era certo lo storico
Gualdo Priorato ad ignorare ciò che era avvenuto in Inghilterra. Le
caratteristiche «Popolari» e antinobiliari della rivoluzione erano state
sottolineate e perfino amplificate dai nostri storici, che considerarono
il Protettorato come un cambiamento di rotta, ma non certo come un
ritorno al passato. E così vediamo Gualdo riconoscere alla machiavel-
liana virtù anche il potere di mettere in discussione, per certi versi, le
gerarchie sociali. Il «dinamismo», la visione attiva della vita, da idee
validissime ma astratte, esangui e puramente morali che erano, ave-
vano già preso sangue e sostanza dalla politica, incontrandosi con la
figura di Cromwell, e si arricchirono ulteriormente:

Saranno eternamente memorabili gli scherzi di così stravagante e capricciosa


fortuna, e rimarcabile dall’universo la direttione d’un huomo che de Stato Basso
assonto alle più sublimi grandezze, ha saputo domare a modo suo una natione

essere considerate un anello intermedio): L. Russo, Machiavelli, Bari, Laterza 19665,


pp. 232-3.
163
  L’immagine è di K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, in K. Marx, F.
Engels, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Roma, Editori Riuniti 1979, p. 489.
166  Pietro Messina

così feroce e altera qual’è l’inglese, e rendersi presso alli maggiori Potentati
della Terra in maggior stima e più temuto di qual si voglia Monarca164.

La Toso Rodinis è convinta che «per Gualdo come per i moralisti


del Seicento, il problema di un ordine sociale nuovo non si profila
neppure, non potendo essi prendere in considerazione che una società
fondata su istituti antichi e codificati dalla consuetudine, ai quali si
accede per diritto di nascita e per elezione divina»165.
Eppure la simpatia per il rivoluzionario Cromwell, «huomo di stato
basso», eletto da «la plebe di Cantabrigida» sta a dimostrare il con-
trario. Sono i nobili del regno che si oppongono al suo potere, dice
Gualdo (insieme al Parlamento). E si riferisce ancora ai nobili quando
accenna al suo rigore contro «la disobbedienza di coloro che non
sapevano o non potevano accomodarsi l’animo a seguire, a chi prima
haveva comandato». E così Gualdo mostra di apprezzare una prassi
sociale nuova quando loda Cromwell perché «dichiarò non esser bene
il perpetuar in governo di Repubblica le cariche in pochi, mentre
ognuno che n’era meritevole, doveva vicendevolmente goderne»166.
Aveva scritto Campanella: «Ma dove a caso entrano nelli ufficii, cioè
perché sono figli del re sono re, perché sono figli dei nobili sono uffi-
ciali, o perché sono parenti dei regnatori, o amici, o perché sono ricchi
e comprano la degnità, e non perché sono buoni e savii, ivi la republica
va sempre rovinando»; e simile tema è ampiamente presente anche in
Boccalini167.

164
  Gualdo Priorato, Historia di Leopoldo Cesare cit., pp. 319-20. Riecheggia
il giudizio dato dall’ambasciatore veneto Giovanni Sagredo nella sua relazione,
molto probabilmente una sua fonte: «Certo che le istorie avranno a distendersi
lungamente nel racconto di ciò che io sono andato restringendo in compendio; e
che egli può chiamarsi uno sforzo parziale della fortuna. Negar non si può che non
abbia, collo ingegno e colla industria, cooperato alla propria grandezza. Ma come
egli abbonda di valore, di accortezza, e di prudenza naturale, tutte queste parti ad
ogni modo sarebbero riuscite inutili se gli fosse mancato la congiuntura di farsi
grande» (G. Sagredo, Relazione al Senato, 1656, in G. Berchet, Cromwell e la
Repubblica di Venezia, Venezia, Naratovich 1864, p. 85).
165
  Toso Rodinis, Galeazzo Gualdo Priorato cit., p. 203.
166
  Gualdo Priorato, Historia delle Rivolutioni di Francia cit., p. 176.
167
  Campanella, Aforismi politici cit., aforisma 29, p. 99; di Boccalini, fra i tanti,
ricordiamo il discorso che fa fare a Pittaco, che vorrebbe che l’uomo «a conseguir
i premi onorati delle dignitadi supreme, debba incamminarsi col procaccio del
167  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

In Gualdo c’è il machiavellismo ma c’è qualcosa di più radicalmente


innovativo che rimanda a ben altri referenti che non il diritto divino o
la immutabilità della tradizione, una aspirazione innovativa che nella
rivoluzione inglese aveva trovato conferme. Così Gualdo commenta
l’ascesa «dell’huomo basso»:

E sarà da notarsi con questo istraordinario esempio che non le nascite, non
le ricchezze, che per il più toccano a meno intendenti, qualificano le cariche e
gl’impieghi, come per ordinario sogliono farsi, ma ben sì l’occasione è quella
che come il fuoco rafina i più impuri metalli, così risveglia gli spiriti e gl’in-
gegni a cose grandi168.

C’è l’«occasione» machiavelliana, ma c’è anche il rifiuto dell’ideale


della nobiltà di nascita e di sangue. Tema tutt’altro che accademico
nel nostro XVII secolo. Gualdo colse segni di crisi nella aristocrazia
italiana e lo colpì il decadere di antiche famiglie nobili: «Quante fami-
glie sono hoggi al Mondo, che se bene traggono l’origine da chiari e
nobili Antenati, avvilite nondimeno nella negligenza delle memorie, e
de fasti domestici, vivono tra la Plebe confuse, e non esenti dal volgare
disprezzo?»169. E nell’introduzione A chi legge delle sue Vite et azzioni
militari dice: «invece di trattar delle Famiglie discorro le qualità delle
Persone, mentre l’esperienza dimostra che molti usciti da Nobilissime
Prosapie degenerano da loro antenati».
Rosario Villari, occupandosi della crisi della nobiltà nell’Italia
meridionale, ricorda anche la reazione, che, sul piano culturale, si
accompagnò alla crisi e alle trasformazioni dell’aristocrazia, con l’«ab-
bandono e la svalutazione» della tematica umanistica che insisteva sul
concetto di nobiltà intesa come nobiltà d’animo, come virtù, piuttosto
che come qualcosa proprio del sangue e della nascita. E contro di essa,

merito e con la sicura scorta della virtù; e levate dal mondo tante scorciatoie, tante
strade traverse, tanti viottoli e tante smozzatoie che vi hanno saputo inventar gli
uomini ambiziosi e quei moderni ipocritoni […]. Ché certo quale scorno maggiore
può farsi alla virtù e al merito, che veder uno di questi tali posseder le dignitadi più
principali» (Ragguagli cit., lxxvii, p. 266).
168
  Gualdo Priorato, Historia di Leopoldo Cesare cit., p. 370. È questo anche il
brano conclusivo del capitolo su Cromwell in Vite et azzioni di personaggi militari
e politici.
169
  Id., Scena d’Homini illustri d’Italia, Venezia, per Andrea Giuliani 1659, avviso A
chi legge.
168  Pietro Messina

Scipione Ammirato ribadiva che «Antiquità e Splendore» sono gli


unici legittimi fondamenti della nobiltà170.
Le idee, di origine umanistica, sulla nobiltà legata alla virtù e non
alla stirpe, dice Villari, «nel Seicento […] dovevano apparire per
alcuni aspetti quasi eversive»171. Idee che invece troviamo largamente
diffuse tra gli Incogniti, e di cui ancora una volta notiamo la presenza
anche in Campanella e Boccalini172. Così scriveva Antonio, figlio del
Loredano, in un’opera composta insieme al padre: «È maggiore la
nobiltà delle virtù, che quella della nascita» e «Fondamento della vera
nobiltà è la virtù, quella però che illustre e eccellente arricchisce la
vita civile»; e «Si esclude dalla vera nobiltà quella che si guadagna con
le scelleratezze e co i vitii della sola gratia del Prencipe»173. E ancora:
«Sappi, che sì come un corpo senza anima divien fetido cadavere;
così la Nobiltà del sangue, de gl’Honori, e delle dignità […] dà mate-
ria d’odio e di disprezzo […]. Non v’è alcuno, che sia stimato, se ciò
non deriva dalla virtù»174; e il Morando nella sua Rosalinda, romanzo

170
  R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli, Roma-Bari, Laterza 19804, p. 185.
171
  Ibid., pp. 186-7.
172
  Campanella ad esempio nel sonetto Della nobiltà e suo’ segni veri e falsi scrive:
«In noi dal senno e dal valor riceve / esser la nobiltade / […] Il sangue è tal, che a
dirlo me n’incresce: / ignorante, falsario, inerte e greve» (Le poesie cit., p. 182); in
quello A Polonia: «Immortali intendendo che gli rende / virtù e gran gesti, non gran
sangue e carne» (p. 211); e ancora in quello Non è re chi ha regno, ma chi sa reggere,
«benché sia schiavo o figlio di bastaso» (p. 73). Quanto a Boccalini, è un maestro
della lotta ideale contro la nobiltà di nascita e le sue ideologie: strenuamente avversa
la guerra, i duelli, il bellicismo, contrapponendo loro l’operosità degli «artigiani»
e degli altri «cittadini fruttuosi», la mercatura, la pace; rigetta l’identificazione di
una nazione con la sua nobiltà, e in molti passi si accanisce contro la vacuità e la
stupidità delle pretese di un’aristocrazia basata sulla nascita e il sangue (mi limito
a citare: Boccalini, Ragguagli cit., xxxi, xxxxix, l; Ragguagli, II, a cura di L.
Firpo, Bari, Laterza 1948, vii, p. 38: «vedendosi provato che le ossa, i nervi, la carne
e le budelle delle persone, tutte erano fatte ad un modo, chiaramente mostrava che
la vera nobiltà degli uomini stava posta nel cervello non nelle vene»; e il frammento
su La vera nobiltà: «Disputa della nobiltà. Prima genitura non si seppe trovare.
Trovi gli uomini nudi ora tutti fatti ad un modo. Molti hanno le brache di tela e
il cervello di velluto», in T. Boccalini, Ragguagli di Parnaso e scritti minori, III, a
cura di L. Firpo, Bari, Laterza 1948, p. 287).
173
 A. Loredano, Primi studi, Venetia, appresso li Guerigli 1656, p. 116.
174
  Id., Freddure estive, Venetia, appresso li Guerigli 1664, p. 159.
169  Gli storici italiani del Seicento e la ‘rivoluzione puritana’

ambientato in Inghilterra durante la rivoluzione, dice «nobiltà senza


virtù, non è vera nobiltà»175. E scrive Brusoni: «La virtù, con la fortuna,
fa l’huomo grande» e «la vera gloria nasce dalla vera virtù»176. E così
Gualdo Priorato, subito dopo aver accennato alla decadenza delle
antiche famiglie, indica la nuova strada in cui crede: «Gli huomini in
quanto alla spetie, niente hanno di più de gli altri huomini; ma nell’in-
dividuo, più glorioso si deve stimare chi col proprio ingegno diventa,
che quello, che per sua ventura nasce Grande»177.
È un richiamo alla tradizione umanistica, che in Gualdo viene poi
a nutrirsi di nuovi apporti, mostrandoci come vari filoni della tra-
dizione rinascimentale potessero dialogare con la carica innovativa
della prima rivoluzione moderna, portando una parte del libertinismo
italiano a riconsiderare i temi del Potere, della sua fondazione, della
sua natura storica, della sua essenza e strutturazione nei rapporti coi
ceti e le varie articolazioni del corpo sociale, approdando a conclusioni
disincantate e per tanti versi innovative, ben lontane da quelle offerte
dall’ortodossia delle dottrine dominanti, e che ci riconducono a quel
filo tormentato e tenace che, attraverso radicali demistificazioni e
coraggiose affermazioni, dal Rinascimento arriva all’Illuminismo e
oltre, passando anche per le esperienze dei nostri libertini.

Pietro Messina

175
  B. Morando, La Rosalinda, Venetia, presso Antonio Tivani 1693, p. 32 (1a ed.
Piacenza, Bazachi 1650).
176
 G. Brusoni, Nuova scelta di Sentenze, Motti, e Burle d’Huomini illustri, Venetia,
per Francesco Garbizza 1657, p. 9.
177
  Gualdo Priorato, Scena di Huomini illustri cit., avviso A chi legge.
Finito di stampare nel mese di settembre 2011
in Pisa dalle
Edizioni ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
info@edizioniets.com
www.edizioniets.com

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