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Tecnologia lattiero casearia Lz.

8 27-10-2021

GLI EFFLUENTI DEL CASEIFICIO


Per effluenti intendiamo tutto ciò che viene fuori dalla lavorazione e che è liquido, usare il termine
specifico reflui o sottoprodotti di caseificio comporta una differenza sostanziale ai fini della legge e una
differenza sostanziale nelle scelte aziendali e nella classificazione di queste acque. Quindi, quando parliamo
di effluenti parliamo di tutto ciò che è liquido e che viene fuori alla fine della lavorazione.

Ricordiamo che tutti gli effluenti che esistono nell’industria manifatturiera e non solo quella alimentare
devono essere gestiti, il residuo liquido che vien fuori nel caso dell’industria alimentare sono delle
sospensioni acquose e nel caso delle aziende manifatturiere possono essere delle miscele di solventi che
possono anche essere sostanze tossiche, devono essere gestiti e non possono essere riversati nell’ambiente
perché altrimenti inquiniamo.
Questa esigenza è sempre più urgente man mano che ci avviciniamo alla comprensione reale dei
cambiamenti climatici, fino a 30-40 anni fa non c’era la gestione degli effluenti dell’industria manifatturiera
ad eccezione per gli effluenti tossici soprattutto delle aziende metallurgiche e chimiche.

Per poter fare il passaggio di terminologia da effluenti a reflui o rifiuti o sottoprodotti dobbiamo capire cosa
dice la legge, la legge dice che tutto quello che non rispetta certi parametri chimici e microbiologici è un
refluo ovvero rifiuto liquido. Esistono 51 indici inseriti nella tabella D del decreto legislativo 152 del 2006,
testo unico sull’ambiente, in cui è disciplinata la gestione dei reflui liquidi e solidi e le emissioni gassose e
odorose.
I 51 indici vanno a garantire, quando vengono rispettati i limiti, che possiamo sversare nell’ambiente o nelle
pubbliche fognature questi effluenti e vengono paragonati agli effluenti domestici, questo non avviene
praticamente mai perché sono tabelle estremamente rigorose.

Gli indici che prendiamo in considerazione sono tre: BOD, COD e cloruri; vediamo questi tre in particolare
perché sono i più critici e i più difficili da rispettare per come è fatto un ciclo di lavorazione.
 Per acque superficiali BOD 25 mg/L, COD 160 mg/L (O 2 attivo), cloruri 1,2 g/L
 Per pubblica fognatura BOD 250 mg/L, COD 500 mg/L (O 2 attivo) cloruri 1,2 g/L

I cloruri vuol dire la quantità di ione cloro che è presente nell’effluente che non può essere superiore a 1,2
g/L in percentuale 0,12%.
L’acqua di mare ha una concentrazione del 4% ovvero 40g/L quindi parliamo di una soglia bassissima 1,2g/L
e nell’industria casearia si usa tantissimo sale, quindi, è inevitabile.
BOD è l’ossigeno biologico necessario per ossidare in presenza di microrganismi aerobi, COD è la quantità di
ossigeno per un’ossidazione chimica; per ridurre tutto in sostanza organica ovvero in Sali.

Vediamo come per lo sversamento in acque superficiali (mari, fiumi, ruscelli) il livello di BOD e COD si
abbassa rispetto allo sversamento in pubblica fognatura, mentre i cloruri sono uguali. I cloruri possono
diventare tossici per i microrganismi aerobi presenti nei depuratori, nei depuratori comunali sono tutti dei
digestori aerobici, ci sono delle mega vasche in cui arrivano gli effluenti domestici e industriali e ci sono
delle colture aerobie che vengono tenute in vita, che ossidano e riducono tutta in sostanza organica
nutrendosene. Bisogna aver cura anche di quello che arriva nei depuratori perché se arriva di tutto la
microflora muore, i depuratori non funzionano più e scaricano nel mare i liquami, il destino finale delle
acque depurate è il mare. Quando nelle località balneari c’è l’esplosione delle popolazioni turistiche e i
depuratori non sono stati opportunamente dimensionati, ricevono tanti scarichi perché la popolazione
aumenta ma il depuratore non riesce a tenere il passo e quindi scarica i liquami nel mare.
Bisogna sempre dimensionare il depuratore alla popolazione che c’è e all’attività produttiva che c’è e stare
sempre attenti a quello che si sversa.

Oggi chi vuole aprire una nuova azienda deve subito pensare cosa fare degli effluenti o come gestirli, prima
ancora di aprire l’attività.

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Tra gli effluenti che si producono in caseificio abbiamo il siero che è l’effluente liquido più abbondante, è
l’effluente più facilmente valorizzabile, più gestibile e riciclabile. Il siero rappresenta circa l’85% del latte
lavorato, quindi, un’azienda che lavora 100 quintali di latte al giorno alla fine della giornata si ritrova con 85
quintali di siero. Una delle strade che può prendere il siero è la produzione della ricotta, ma non è una
soluzione al problema degli effluenti perché anche la produzione di ricotta fa nascere un nuovo effluente
che si chiama scotta che rappresenta il 90% del siero.
Quindi, se il siero è l’85% del latte ovvero 85 quintali di siero da 100 quintali di latte, e la scotta è il 90% di
siero quindi alla fine troveremo poco meno di 80 quintali di scotta che rimane una grossissima quantità.

Nei piccoli caseifici tutto il siero viene destinato alla produzione ricotta; quindi, i piccoli caseifici hanno solo
scotta come effluente di lavorazione primaria e non hanno siero, mentre, le aziende un po' più grandi che
lavorano 40-50 quintali di latte al giorno, da questo quantitativo in su, non tutto il siero viene destinato alla
produzione di ricotta perché non sono in grado di collocarle nel mercato. Le aziende un po' più grandi
destinano alla ricotta solo quella quantità di siero che sono certi di poter trasformare e vendere in ricotta;
ricordiamo che la ricotta è una materia estremamente deperibile e se invenduta diventa un rifiuto solido.
Man mano che l’azienda cresce avremo sempre più siero e sempre meno scotta, ci sono le aziende che
lavorano 2.000 quintali di latte al giorno che destinano alla produzione di ricotta solamente il 10% di siero.

Un terzo effluente che si può trovare nell’industria casearia è il latticello, il latticello è il residuo liquido della
burrificazione. Per la produzione del burro si parte dalla crema di latte che si ottiene o per affioramento o
per centrifugazione, sottoporlo ad uno sbattimento ovvero ad una rotazione all’interno delle zangole, la
massa viene sbattuta finché i globuli di grasso si uniscono tra loro a formare dei coaguli grassi che si
uniscono ed espellono tutta l’acqua, questo processo si chiama inversione di fase; il liquido che rimane si
chiama latticello. Il latticello è diverso dal siero perché la crema di latte non è altro che latte arricchito in
grasso, la fase liquida contiene caseine per cui il latticello è molto simile al latte scremato; infatti, è quello
che il DOB e COD più alto perché praticamente è latte scremato.

In realtà questo effluente è poco presente negli ambienti meridionali perché si produce poco burro e quello
che si produce lo si fa dalla crema di siero, il siero ha sempre un certo quantitativo di grasso che si recupera
e si manda in purificazione. Invece, al nord il burro si ottiene dalla crema di latte e quindi al nord si ottiene
un quantitativo maggiore di latticello.

L’acqua di filatura è l’effluente liquido che si ottiene dalla lavorazione delle paste filate, le acque di filatura
è quello che resta quando le filatrici hanno terminato il loro lavoro, un caseificio che lavora paste filate
produce intorno al 10-15% di acqua di filatura rispetto al volume iniziale, se si lavorano 100 quintali di latte
alla fine si ottengono 10-15 quintali di acqua di filatura.

A questi effluenti aggiungiamo le acque di processo ovvero tutte quelle acque per raffreddare il prodotto,
tutto quello che viene a contatto con il prodotto.
Ad esempio, nel settore delle paste filate sappiamo che c’è una fase di raffreddamento e l’acqua che si
utilizza deve essere acqua potabile ed è un’acqua di processo, tutta l’acqua che viene a contatto con il
prodotto deve essere acqua potabile.
Queste acque sono presenti in quantitativi enormi ma per fortuna i BOD e i COD sono bassi, oggi non sono
considerate un problema e infatti nella maggior parte dei casi vengono direttamente scaricate in fogna.

Ci sono anche le salamoie esauste, le salamoie non sono eterne ma vanno rinnovate e sostituite; quanto
volume si produce dipende da quanto frequentemente viene sostituita la salamoia.

Le acque di lavaggio degli impianti e degli ambienti che contengono detergenti e sanificanti, alla fine va nei
chiusini di scolo collegati alla fogna, e dovrebbero andare in fogna, ma all’interno di questo tipo di effluenti
ci sono tanti principi attivi che entrano nei 51 indici, quindi anche questi andrebbero gestiti.
Le acque di lavaggio degli impianti e degli ambienti vanno gestiti come rifiuto perché all’interno sono
presenti acido nitrico, soda, detergenti, fosfati, schiumogeni ecc.
Queste acque che dobbiamo gestire le possiamo già definire rifiuto.

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Qualche anno fa in certe aree in cui i depuratori erano in maggiore sofferenza, i comuni che hanno
depuratori più piccoli e sofferenti sono quelli che fanno maggiori controlli, mentre i comuni in cui i
depuratori sono funzionanti fino al momento in cui non arriva l’emergenza nessuno pressa affinché
vengano fatti i controlli.

Alla fine, ci troviamo con molti effluenti, la normativa dice che è consentito il deposito temporaneo cioè
una azienda può stoccare temporaneamente questi effluenti per 2-3 giorni a seconda delle dimensioni ma
poi devono essere smaltiti. La cosa più semplice da fare è prendere un serbatoio e mettere insieme tutti gli
effluenti e alla fine c’è un miscuglio di tutto che inevitabilmente diventa rifiuto.
Se vogliamo pensare a qualche soluzione diversa dobbiamo tenere separati gli effluenti man mano che gli
produciamo e questo significa avere anche diversi serbatoi in acciaio inox ed è un primo investimento.

Le aziende di una grande dimensione devono avere il depuratore aziendale però i depuratori aziendali
funzionano con lo stesso principio del depuratore comunale; dunque, il depuratore aziendale serve solo per
poter ricevere le acque di lavaggio o di processo ovvero le acque non troppo ricce di sostanze organiche.
Solitamente nei depuratori aziendali si gestiscono proprio gli scarichi delle acque di lavaggio e le acque di
processo; le acque di processo hanno un grande vantaggio perché essendo poco sporche fanno da diluitore
per tutto il resto, per cui le acque di detergenza mescolate alle acque di processo diventano più facilmente
gestibili, dopo un passaggio in depuratore in cui c’è un raschiatore che elimina i pezzi di cagliata residua, i
grassi sospesi e poi con un po' di decantazione e un po' di attività dei microrganismi aerobi riusciamo a
rientrare nei valori in tabella e a scaricare in fogna.
Nel depuratore non può entrare né siero e né scotta perché BOD e COD sono troppo elevati, quindi il
depuratore è sempre necessario, però bisogna sempre selezionare quello da mandare.

I volumi complessivi di siero, scotta e acqua di filatura; la somma solo dei tre effluenti più legati al processo,
escludendo le acque di processo, arriviamo a 1,5 volte il latte lavorato, chiaramente per quanto riguarda le
acque di lavaggio dipende dalla dimensione aziendale, alla frequenza dei lavaggi e di come vengono
effettuati i lavaggi.

La normativa
In passato c’era una gestione meno rigorosa tant’è vero che siero e scotta venivano inquadrati come
mercuriali, era una categoria che li configurava né come rifiuti né come roba innocua, erano una via di
mezzo. I mercuriali erano tutti quelli effluenti che potenzialmente potevano servire a qualcosa. Oggi questa
denominazione è scomparsa per cui tutti gli effluenti di caseificio diventano rifiuti se non gestiti in maniera
tecnologicamente avanzata, e quindi, come tutti i rifiuti sono soggetti a degli obblighi (deposito
temporaneo, registri, formulari, bilancio carico scarico) deve essere tutto tracciato. Quando vengono fatti i
controlli fanno i bilanci di massa, quanto effluente sta sui registri? E quanto latte hai lavorato quel giorno?
Fanno dei conti e cercano di vedere se non c’è stata un’omissione.

Una novità arriva nel 2002 quando viene introdotto il concetto di SOA ovvero sottoprodotto di origine
animale, è una novità importante perché c’è la possibilità che questi effluenti non siano più un rifiuto ma
siano qualcos’altro. Questi effluenti possono essere inquadrati come SOA se gestiti seconda un’opportuna
prassi ovvero secondo alcune regole, queste condizioni sono presenti nel testo unico dell’ambiente che è
stato introdotto nel 2006.
La normativa definisce le condizioni di utilizzo (stabilimenti destinatari autorizzati trattamenti termici, ecc.),
di raccolta e trasporto (contenitori, documenti di trasporto, registri).
I rifiuti e i SOA devono essere separati.

Quella dei SOA è una possibilità cioè un’azienda può decidere di configurare come SOA i propri effluenti ma
un’altra può non farlo, per cui una certa categoria di effluenti in un caseificio possiamo trovarlo qualificato
come SOA e in un altro come rifiuto, nel caseificio in cui è qualificato come rifiuto possiamo vedere il
camion dell’auto-spurgo che se li prende e se li porta mentre dove è considerato come SOA l’auto-spurgo
non entra mai.

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Per poterlo configurare come SOA o rifiuto bisogna rispettare queste definizioni:
D.L.152/2006–CODICE AMBIENTE:
Rifiuto è “qualsiasi sostanza od oggetto … di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di
disfarsi”

Sottoprodotti sono “i prodotti dell’attività di impresa (prodotti del processo), che, pur non costituendo
l’oggetto dell’attività principale di trasformazione, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale
dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo…”.
L’impresa non lavora per produrre quell’effluente ma inevitabilmente l’effluente viene fuori e allora è uin
sottoprodotto. Per essere definiti sottoprodotti devono essere destinati ad un ulteriore impiego o al
consumo.
L’utilizzazione del sottoprodotto deve essere certa e non comportare condizioni peggiorative alla salute ed
all’ambiente; quindi, deve essere dimostrato quale prodotto si produce, dove, come e se dà luogo ad altri
effluenti.
Dunque, gli effluenti di caseificio rappresentano o meno un rifiuto a seconda di come vengono gestiti.

Configurare come SOA comporta la creazione di una filiera del siero vera e propria, diventa una nuova
materia prima; se questa filiera non viene creata, in assenza di un impiego certo il siero è un rifiuto speciale.
“rifiuto speciale” non è sinonimo di rifiuto tossico, il rifiuto tossico può immediatamente creare delle
emergenze e quindi non può essere destinato a nulla, mentre il rifiuto speciale non dà problematiche di
sicurezza ambientale acuta ma solo se non gestiti correttamente.
Oggi un metro cubo di effluente dell’agroindustria (10 quintali) costa circa 50€, il caseificio che lavora 100
quintali di latte produrrà 150 quintali di effluenti, 15 m 3 x 50€= 750€ al giorno.

Se riusciamo a mettere in piedi una filiera non abbiamo questi costi, addirittura se siamo in grado di
mettere in piedi una filiera in grado di valorizzare questi effluenti siamo in grado di ottenere un utile
almeno da una parte di questi effluenti, in questo caso non si parlerebbe più di smaltimento ma di
valorizzazione.

CARATTERISTICHE COMPOSITIVE DEGLI EFFLUENTI DI CASEIFICIO


Per capire quanto possano essere valorizzati i singoli effluenti dobbiamo capire cosa c’è dentro.
Siero vergine (dolce, non scremato)

Quando il siero è fresco, viene trattato subito, viene immediatamente prelevato e non viene fatto
acidificare viene detto comunemente siero vergine, all’interno di questo siero troveremo una certa quantità
di macrocostituenti: abbiamo il lattosio che passa poco nel formaggio e resta nel siero, un po' di proteine
che saranno soprattutto sieroproteine, grasso, Sali minerali, un pH che non deve scendere sotto 5,5 per
poter essere considerato u siero di qualità, pochi acidi organici.
C’è tanta roba che può diventare appetibile per qualche altra trasformazione: se si screma il siero si ottiene
la crema di siero che va al burrificio per produrre burro.
Così com’è questo siero ha un COD di 70-80.000 mg/L rispetto ai 500 che è il limite di legge.
Avendo tanti macrocostituenti è ottimamente valorizzata perché il lattosio è qualcosa che può essere
utilizzato se recuperato, anche le sieroproteine sono appetibili dall’industria alimentare e farmaceutica, il
grasso viene recuperato.

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Più questi effluenti sono ricchi, più sono potenzialmente inquinanti per carichi organici elevati ma sono
quelli che più possono essere valorizzabili, possiamo dire che una delle tecnologie che si utilizzano è quella
del recupero frazionato dei singoli componenti, alla fine si arriva all’acqua.

Siero acido scremato (Es: da paste filate)


Il siero che abbiamo nei nostri ambienti non è quasi mai siero vergine perché nel nostro territorio si
producono paste filate, infatti, il siero è acido perché la tecnologia di produzione delle paste filate prevede
un processo di acidificazione che il siero si porta dietro.
Nei nostri ambienti si applica una tecnologia che dà sempre luogo a sieri acidi, infatti se vediamo la
composizione del siero acido scremato, in cui è stato già tolto il grasso, possiamo vedere che quello che
cambia è che il pH è più basso, ci sono più acidi organici ma per il resto non ci sono molte variazioni.
Questi sono sieri acidi che si portano dietro il problema del pH basso, tra i 51 requisiti c’è anche quello
riguardante il pH che non deve essere troppo basso.

Se il siero viene scremato sia il COD sia il BOD si abbassa perché eliminiamo la componente organica ovvero
il grasso, però restiamo comunque a valori ben lontani rispetto ai limiti di legge.

Tutto sommato essendo un effluente che contiene lattosio e proteina ne possiamo fare qualcosa, perché
questi due sono gli elementi interessanti è un effluente che può diventare SOA abbastanza facilmente.

Scotta (da ricotta)


La scotta che deriva dalla ricotta può rappresentare un problema, all’interno della scotta c’è poca proteina,
se abbiamo mandato il siero alla produzione della ricotta, la proteina è diventata la base della ricotta quindi
c’è ne poca.
L’unico macrocostituente che può avere un interesse è il lattosio come zucchero, essendo un effluente
impoverito in sostanza organica in quanto è povero in grassi e in proteina e quindi COD e BOD scendono ma
sono ancora lontani dai 500 mg/L che ci permetterebbe lo sversamento in fogna.

Quindi, questo è il primo effluente


problematico perché valorizzarlo non è
facile, mentre, il siero viene acquistato
per il recupero del lattosio e delle
proteine.

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Acqua di filtratura
L’acqua di filatura non la vuole nessuno perché c’è un sacco di sale all’interno e questo è un grosso
problema.
In realtà, all’interno dell’acqua di filatura c’è un po' di lattosio che in filatura viene via; la nostra tecnologia
lascia molto lattosio nelle paste filate ecco perché molti intolleranti non riescono a mangiare la mozzarella,
le paste filate se prodotte con questa tecnologia che lascia intatto il lattosio l’acqua di filatura se lo assorbe
perché è solubile.
C’è un po' di proteina che per lo più è caseina perché durante la fase di filatura un po' di casina viene
dilavata, ma comunque poca roba che renda appetibile questo effluente, quindi, è un vero problema.

Un caseificio del nord che produce parmigiano reggiano, taleggio o gorgonzola non ha questo problema,
questo problema si verifica solo nei caseifici in cui si producono paste filate.

In questo caso possiamo parlare di refluo perché questo oggi rappresenta un rifiuto.

La presenza di tanto sale all’interno, fino all’1,2% ma il limite è 0,12, deriva dal fatto che quando si fanno i
prodotti a pasta filata soprattutto quelli freschi come burrate e mozzarelle, il sale viene messo nell’acqua
durante la filatura quindi in parte passa nel prodotto ma in gran parte rimane nell’acqua e questo è un
problema.
È una pratica che ha circa una trentina d’anni ovvero aggiungere il sale nel processo di filatura perché sono
sparite le salamoie che sono delle vasche ingombranti che vanno rigenerate e vanno smaltite, sono molto
onerose, per cui se un caseificio elimina le salamoie guadagna spazio e igiene, questa tecnica viene adottata
perché sono scomparse le salamoie. La mozzarella di bufala è l’unica che viene ancora salata in salamoia, la
pellicina che vediamo è il segnale che quella mozzarella è stata salata in salamoia.
La quantità e la qualità della sostanza organica non è altissima ma è sufficiente a rovinarci il livello del COD.

Domanda: Questo sale non può essere recuperato?


Il sale può essere recuperato mediante l’osmosi inversa che ci permette di recuperare facilmente il sale ma
un impianto di questo tipo è costoso, tutto quello che si fa in un’industria manifatturiera deve essere
sostenibile economicamente cioè alla fine del processo di lavorazione tutto quello che facciamo deve
portare ad un utile.
Tecnicamente possiamo frazionare tutto e arrivare all’acqua ma è una questione prettamente economica.

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Il latticello
Il latticello non è altro che latte scremato, la proteina è praticamente la proteina del latte; infatti, il COD è
molto alto.

Questo è un SOA, è un sottoprodotto estremamente semplice tant’è vero che negli ambienti anglosassoni
diventa da solo un prodotto alimentare, il latticello lasciato fermentare diventa il sour buttermilk (latticello
acido) è una sorta di yogurt povero che invece di farlo dal latte lo fanno dal latticello che somiglia al latte.

Nei nostri ambienti non abbiamo questo tipo di latticello, il nostro latticello non ha questa composizione, la
composizione del latticello presente nella slide è quello che deriva dalla crema di latte, se invece partiamo
dalla crema siero il latticello dalla crema di siero dovrebbe essere chiamato siericello perché chiaramente
non ha caseina e non ha nessuna destinazione.

VALORIZZAZIONE DEI SOA


Una soluzione di valorizzazione deriva dalla tradizione perché noi sappiamo che il siero veniva dato ai suini,
era una pratica presente in qualsiasi fattoria in passato perché veniva lavorato poco latte e poteva
destinare quel po' di siero ai suini. Con la nascita delle industrie non è più così semplice, per anni dietro
questa tradizione che il siero si dava ai suini hanno dato di tutto ai suini anche la scotta, fino agli anni 60,
con la crescita del comparto i volumi di siero da destinare ai suini diventavano improponibili, con il tempo si
è capito che qualcosa non andava e che gli allevamenti suinicoli erano delle discariche abusive di effluenti.
Dopo anni di libertà, le regioni hanno disciplinato l’argomento.

Oggi ci sono dei vincoli e dei limiti allo smaltimento in aziende zootecniche: se qualcuno vuole conferire in
azienda può anche farlo ma anche in questo caso bisogna creare un piano di fattibilità e uno studio della
filiera (carico di bestiame, tipologia di bestiame, limiti di dosaggio per non avvelenare gli animali).
Ad esempio, la puglia ha deciso che è possibile somministrare siero agli equini, vitelloni all’ingrasso e ai
suini; quindi, quando si vuole recuperare questa vecchia tradizione bisogna fare i conti tra quantità di siero,
scotta e latticello prodotti e tipologia e quantità di capi che ha quell’azienda.

È obbligatorio che la cisterna che trasporta l’effluente all’allevamento sia refrigerato o che trasporti
l’effluente che sia stato refrigerato in azienda, quindi, abbattimento della temperatura ammenoché
l’allevamento che deve ricevere questa cisterna sia collocato in vicinanza all’opificio per cui in poche ore lo
riceve per ridurre il rischio di “derive microbiologiche”.

Tuttavia, bisogna tenere in considerazione il benessere degli animali per cui ci sono gli alimentaristi e i
veterinari che hanno posto dei limiti perché ci sono due metaboliti che possono creare problemi ovvero il
lattosio e il sale.

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Nei suini la concentrazione di lattosio e di sale tipica degli effluenti fa si che non si devono superare i 6-7
litri al giorno per capo.

Questa filiera del suino esiste in Lombardia dove per anni la filiera del grana padano e del parmigiano
reggiano sono cresciute insieme al prosciutto di parma al prosciutto san Daniele, grossi volumi di siero
grossi allevamenti; ma anche qui hanno raggiunto la saturazione con il limite di assunzione.

Possiamo concludere dicendo che in questo quadro normativo la soluzione dell’allevamenti è applicabile
per caseifici non troppo grandi e che sono in campagna o in prossimità di allevamenti. Se guardiamo la
nostra regione ci sono diverse aziende che hanno l’autorizzazione alla consegna in allevamenti ma sono
tutti caseifici piccoli.
In questo caso, chi riesce a gestire la filiera configura gli effluenti come SOA e non come rifiuti.

In realtà, c’è stato un certo periodo in cui il siero veniva ceduto all’industria mangimistica, per cui veniva
sempre considerato nell’alimentazione animale però in maniera indiretta, c’era l’industria mangimistica che
ritirava la cisterna e poi provvedeva ad utilizzarlo, è scomparsa questa pratica perché i costi di trasporto
erano troppo elevati, la sostanza secca è troppo bassa e quindi l’industria mangimistica preferisce comprare
lattosio in polvere, sieroproteine in polvere perché costano meno oppure è interessata ad acquistare i
concentrati cioè se riusciamo a concentrare gli effluenti allontanano un po' di acqua può essere che
troviamo un mercato per gli effluenti.

Tecnologie per la trasformazione del siero


La prima soluzione è stata la concentrazione termica che è stata avviata proprio per la trasformazione del
siero ed è stata la prima soluzione trovata per fare degli affluenti dei SOA.
Far configurare gli effluenti come SOA significa sottrarli al farli configurare come rifiuti e non c’è più il costo
di smaltimento, per farli configurare come SOA dobbiamo mettere in piedi la filiera; quindi, dobbiamo
trovare l’industria che sia in grado di mettere in piedi questi trattamenti oppure questa tecnologia la
acquisiamo noi e abbiamo a disposizione all’interno dell’azienda qualcuna di queste soluzioni.

La prima soluzione storicamente è stata la concentrazione termica, la prima richiesta che è stata fatta
dall’industria del siero è stata se mi concentrate il siero io lo compro e lo pago, quindi nacquero i
concentratori termici, sono degli impianti a multiplo effetto che lavorano sottopressione e a temperature
relativamente basse, si riesce ad ottenere l’evaporazione dell’acqua al di sotto dei 100°C anche a 60°C in
modo tale da avere un’evaporazione progressiva e alla fine il concentrato che si ottiene viene venduto
liquido all’industria mangimistica o addirittura c’è la disponibilità di arrivare al secco con gli essiccatori.

Questa soluzione è una soluzione obsoleta, qualche concentratore oggi c’è ancora in giro ma non è più una
soluzione, per cui tutti i nuovi impianti di trattamento degli effluenti di caseificio, soprattutto siero che è
quello più facilmente valorizzabile, si sono indirizzate verso tecnologie diverse questo perché il trattamento
termico, per quanto si possa operare a temperature basse sottovuoto, portava e porterebbe ancora ad una
certa denaturazione proteica e anche ad un imbrunimento; infatti, questi concentrati si presentavano
ambrati perché poteva partire la reazione di Maillard. Dal punto di vista nutrizionale e sensoriale non erano
di altissima qualità, quindi, oggi il mangimificio preferisce acquistare il prodotto in polvere e non più il
concentrato. La stessa azienda che ritira il concentrato per farne polveri, che non è il mangimificio, ma è
l’industria che produce siero in polvere, non vuole più i concentrati perché sono bruni e sono danneggiati
termicamente; il valore dei concentrati non di qualità si è abbassato (i concentrati di siero sono quotati in
borsa) e hanno fatto si che il costo di investimento e di funzionamento gli abbiano messi fuori mercato,
questi impianti oltre ad avere un costo di investimento importante sono degli evaporatori a effetto multiplo
molto grandi che devono essere alimentati e hanno bisogna di molta energia. Dunque, possiamo dire che la
concentrazione termica è una tecnica abbandonata.

Il concetto della concentrazione rimane però la concentrazione termica è stato sostituita dalla filtrazione su
membrana, gli effluenti se vanno alla concentrazione configurano come SOA e non sono più rifiuti e stanno
andando ad un trattamento ammesso dalla legge che ha una destinazione di mercato. La concentrazione su
membrana è più vantaggiosa perché la filtrazione viene operata a bassa temperatura, questi trattamenti si
fanno a 30-35°C, se refrigeriamo possiamo farli anche a freddo, si realizzano agevolmente a temperatura
ambiente, bisogna fare una blanda refrigerazione perché i fluidi per attrito si riscaldano.
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La concentrazione per filtrazione su membrana consiste nel far passare il nostro effluente, che nel nostro
caso è il siero perché è il più interessante, attraverso un setaccio molecolare, immaginiamo un filtro che
abbia dei pori di dimensione molecolare, la dimensione del poro stabilisce il tipo di molecola che viene
trattenuta. Se ad esempio, vogliamo trattenere le sieroproteine che rappresentano il macrocostituente di
maggior valore utilizziamo una porosità da 10.000 dalton, se vogliamo trattenere il lattosio utilizzeremo una
porosità da 200 dalton.

È possibile disporre di membrane con porosità diversa per ritenere le molecole che vogliamo e lasciar
passare tutto il resto, alla fine di questo processo otterremo due fluidi da uno di partenza, dal siero una
volta che è passato su membrana otterremo una parte che è passata contenente soprattutto acqua e tutti i
soluti di dimensione più piccola dei pori che andrà a costituire il permeato perché permea la membrana, ciò
che invece non passa viene definito concentrato o retentato ovvero quello che viene ritenuto.
Il retentato non è una fase solida o in polvere, ma sia il permeato che il retentato sono due liquidi perché il
retentato è un concentrato arricchito nelle molecole che vogliamo trattenere mentre il permeato è
rappresentato da acqua con tutte le molecole che non vogliamo trattenere.
Nel permeato la molecola target non c’è, se ad esempio vogliamo trattenere le sieroproteine abbiamo una
porosità tale da non far passare nel permeato nemmeno una molecola, nel retentato però non ci sono solo
le molecole target che nel nostro caso sono le sieroproteine ma ci sarà un po' di acqua in quanto rimarremo
in fase liquida per forza, e in quell’acqua un po' dei soluti che dovrebbero essere presenti nel permeato
restano. Dunque, possiamo dire che il retentato non è altro che siero arricchito in molecole di dimensione
superiore ai pori.
Se immaginiamo che il nostro siero ha inizialmente lo 0,9% di proteine dopo il trattamento su membrana
quel nostro siero sarà diventato un retentato o concentrato di siero con una percentuale di proteine di 4-5
volte maggiore, ovviamente dipende dal processo.

In questa immagine vediamo l’imbuto con la carta da filtro ed è una normale filtrazione perpendicolare.

In queste tecnologie su membrana ovviamente non si utilizzano le carte da filtro, non si utilizzano i filtri
perpendicolari ma si utilizza la filtrazione tangenziale, in sostanza il nostro filtro lo possiamo immaginare
come il tubo stesso in cui fluisce il nostro siero. Nella filtrazione perpendicolare immaginiamo un tubo che
ci permette di convogliare il siero contro il filtro e comincia a filtrare, mentre, nella filtrazione tangenziale il
filtro sono le pareti del tubo stesso; infatti, le membrane di filtrazione tangenziale sono a superficie
filtrante; quindi, è il canale stesso che funge da filtro.

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Ma come può funzionare? Se c’è un tubo con le pareti filtranti fatto di materiale poroso, come fas il
permeato a passare dall’altra parte? Se devo spingere in avanti il mio flusso sicuramente andrà avanti ma le
pareti come fanno a filtrare? Si crea una contropressione, il siero o l’effluente viene spinto da una pompa
che tende a fluire in avanti senza permeare verso le pareti filtranti però siccome dalla parte opposta si crea
una contropressione, immaginiamola come una strozzatura del tubo, per cui all’inizio il lume del tubo è 8
pollici mentre alla fine è 0,5 pollici, lo strozzamento crea una contropressione ma in realtà la
contropressione viene creata in modo diverso e non c’è nessuna strozzatura, è chiaro che la pompa spinge
il fluido, la strozzatura all’opposto la blocca e lo costringe a rallentare e si crea una pressione positiva
all’interno. Secondo il principio di Pascal questa pressione positiva si distribuisce in tutte le zone per cui
anche contro le pareti filtranti, ecco come una parte di questo effluente permeerà la parete e passerà
dall’altra parte. È come se ad un certo punto questo tubo filtrante ovvero la parete porosa cominciasse a
trasudare ovvero si formano delle goccioline sempre più grandi e cadono alò di sotto.
La filtrazione si chiama tangenziale perché la direzione del flusso è tangenziale alla membrana perché è la
stessa parete del tubo che è la membrana filtrante.
Quello che abbiamo chiamato tubo è una membrana tubolare che ha una lunghezza di mezzo metro fino ad
arrivare ad un metro e mezzo in cui il nostro fluido è costretto a passare molto lentamente sotto una certa
pressione per vincere la contropressione che è sempre più bassa, regolando pressione e contropressione
regoliamo la velocità del flusso e quindi creiamo una forza filtrante che si spinge verso le pareti.

Questa filtrazione tangenziale è stata messa appunto perché l’occlusione dei pori, che si verifica nella
filtrazione perpendicolare, è ritardata perché la direzione del flusso tangenzialmente alla superficie filtrante
smuove il fluido e non fa creare dei gradienti di concentrazione. Se facessimo la filtrazione perpendicolare
man mano che passa il tempo a ridosso della membrana si creerà una concentrazione sempre più alta e si
dice che si crea un gradiente ovvero la polarizzazione.

Nel disegno possiamo vedere una membrana perpendicolare, quando cominciamo a filtrare abbiamo una
certa concentrazione della nostra molecola target come ad esempio la B-lattoglobulina (concentrazione
pari a C1) man mano che andiamo avanti a ridosso della membrana si creerà uno strato in cui la
concentrazione sale (C2), quindi il retentato diventa sempre più concentrato man mano che ci avviciniamo
alla membrana, ad un certo punto è troppo concentrato e i pori si occludono e la filtrazione termina.

Se invece la direzione del flusso la facciamo avvenire tangenzialmente c’è una sorta di dilavamento della
faccia filtrante della membrana, viene continuamente dilavata, quindi, il fenomeno della polarizzazione
verso la membrana viene ritardato.

Anche se lavoriamo tangenzialmente i pori si occludono anche se abbiamo ritardato l’evento, per questo
motivo bisognerà fermarsi e lavare o cambiare il filtro e si può riprendere il ciclo.

Filtrazione
tangenziale in
modulo filtrante

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Ci sono tante membrane però il principio non cambia, quello che cambia è la porosità.

Possiamo avere diverse dimensioni dei pori, oggi essenzialmente la porosità disponibile ci consente di avere
a disposizione quattro tipologie di membrane. Il materiale di cui sono fatte queste membrane va da
materiale polimerico al materiale metallico o alla ceramica, la tipologia di materiale stabilisce la porosità,
non c’è un’industria che crea i pori ma la tecnica di sintesi della membrana fa si che ci sia una certa porosità
che non è mai vigorosissima, più o meno la porosità è 10.000 daltons, vuol dire che avremo una porosità
dai 9 agli 11, parliamo di un range di porosità medio.
Più la membrana è isoporosa ovvero che ha tutti i pori uguali più è costosa, le membrane più economiche
sono quelle che hanno una precisione più bassa.

Abbiamo 4 tipologie di membrane ovvero 4 tecniche diverse:


 Microfiltrazione: nel concentrato ci sono microrganismi e grasso, nel permeato tutto il resto. È usata
come tecnica preparativa. Si parla di porosità intorno ad un micron che servono ad eliminare i
microrganismi, non è una vera e propria tecnica di concentrazione ma è una tecnica preparativa
debatterizzante
 Ultrafiltrazione: concentra le sieroproteine 10.000 dalton, il permeato contiene lattosio, sali e altre
sostanze a basso PM.
 Nanofiltrazione: concentra insieme proteine e lattosio, il permeato contiene sali e altre sostanze a
basso PM (<200-300 D).
 Osmosi Inversa: concentrazione indifferenziata di tutti i componenti, il permeato è acqua osmotizzata
con carico inquinante con COD inferiore ai 500 ppm di O 2.

Volendo possiamo lavorare a cascata ovvero il permeato dell’ultrafiltrazione può andare su una membrana
a porosità più bassa e quella successiva è la nanofiltrazione.

Immaginiamo di lavorare con il metodo a cascata: con la microfiltrazione debatterizziamo, con


l’ultrafiltrazione otteniamo le sieroproteine, con la nanofiltrazione otteniamo il lattosio e l’ultimo passaggio
è l’osmosi inversa con cui tratteniamo tutto quello che è passato dalla nanofiltrazione ovvero sono
molecole molto piccole (acidi organici semplici e Sali minerali).

Il concentrato dell’osmosi inversa sarà una soluzione salina eventualmente acida se ci sono gli acidi e il
permeato è acqua quasi pura, si dice che l’acqua sia osmotizzata ma non riesce mai ad arrivare ad acqua
distillata perché il meccanismo dell’osmosi inversa è più complesso e non si basa solo sulla dimensione dei
pori ma anche sulla carica di superficie degli ioni quindi nel permeato qualcosa passa sempre, però è un
permeato che se abbiamo lavorato bene è molto vicino all’acqua per cui potrebbe essere impiegato
nuovamente nel processo per raffreddare i prodotti ad esempio; se non sappiamo cosa farne la possiamo
scaricare in fogna perché abbiamo raggiunto l’obiettivo di stare sotto ai 500 COD.

La legge non consente ancora a questi permeati, anche se fossero acqua distillata, di tornare a contatto con
gli alimenti, oggi in Italia i permeati finali da osmosi inversa, che sono partiti da effluenti di caseificio, al
massimo possono essere utilizzati per effettuare i lavaggi esterni degli impianti.

La microfiltrazione è una tecnica che dovrebbe essere sempre usata e sta diventando una prassi perché
questi processi non sono istantanei e durano un certo tempo; quindi, noi dobbiamo stoccare per poter
finire il processo, in passato si pastorizzavano questi effluenti e venivano stoccati pastorizzati, oggi si
preferisce sempre più utilizzare la microfiltrazione. Bisogna fare qualcosa per stabilizzare quindi si utilizza o
la pastorizzazione o la microfiltrazione, con la microfiltrazione si può lavorare in continuo man mano che
l’effluente è pronto viene microfiltrato in modo tale che tutti i passaggi successivi lavorano in asettico o
comunque siamo in condizioni tali che ogni passaggio continua a purificare se qualcosa si è ricontaminato,
ad esempio abbiamo l’ultrafiltrazione che funziona ancor meglio della microfiltrazione perché i pori si
vanno restringendo.

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Questo metodo a cascata è la teoria cioè abbiamo fatto questo esempio per capire che se applichiamo tutto
possiamo avere mediante la microfiltrazione la debatterizzazione e inoltre ci permette di ottenere un
concentrato ovvero una quota di siero arricchita in microrganismi. La quota in siero arricchita in
microrganismi diventa biomassa che va eliminata, però con l’ultrafiltrazione otteniamo il nostro primo
concentrato ricco in proteina che possiamo vendere, poi otteniamo un concentrato di lattosio mediante la
nanofiltrazione e poi otteniamo i Sali minerali con l’osmosi inversa, applicando tutte le tecnologie
spacchettiamo l’effluente, eventualmente questo spacchettamento si può applicare anche al latte.
In questo modo otteniamo dei concentrati selettivi, ma non è detto che questo venga applicato perché
bisogna avere quattro tipologie differenti di impianti che sono molto costosi, inoltre, devono essere
collegati tra di loro perché le pressioni di esercizio sono diverse.

Quello che avviene nella realtà è che un’azienda si sceglie il taglio che vuole per acquistare l’impianto,
solitamente si sceglie una tecnica di preparazione tra la microfiltrazione o l’ultrafiltrazione e poi si sceglie
tra l’osmosi inversa o la nanofiltrazione.

In puglia ci sono molte aziende che trasformano i SOA ovvero gli effluenti all’interno della loro azienda,
quindi, concludono il loro processo con l’impianto a membrana, solitamente scelgono un preparativo e
l’osmosi inversa; in questo modo ottengono un siero concentrato spacchettato in cui tolgono i
microrganismi e i residui di grasso in microfiltrazione, il siero magro viene mandato all’osmosi inversa e
ottengono il siero concentrato e il permeato lo scaricano; questa è la soluzione più economica. Il
concentrato che si ottiene poi viene venduto ad un’azienda di rifinitura, le aziende che comprano il
concentrato e che lo rifiniscono hanno tutti gli impianti.

Dunque, possiamo dire che questa tecnologia ha risolto il problema, infatti tutte le industrie più grandi
hanno l’impianto a membrana.
Il problema è che non tutti possono farlo perché ci sono delle criticità che non possono essere ignorate,
idealmente se applichiamo le 4 soluzioni abbiamo il risolto il problema, ma non è economicamente
affrontabile per un caseificio, anche se questa sarebbe la soluzione a ciclo chiuso cioè alla fine non ci sono
più effluenti.

La prima criticità sono i volumi di effluenti che possono giustificare un impianto del genere, questo
impianto si deve autosostenere e possiamo farlo andando ad abbattere i costi di smaltimento dei rifiuti,
non viene più chiamato l’autospurgo e quindi è un mancato costo, e poi possiamo vendere il concentrato.
Questo impianto per sostenersi ha bisogno di una riduzione dei costi importante dal mancato smaltimento
e una certa quantità di concentrato da vendere.

Bisogna tenere in considerazione che le industrie che comprano il concentrato hanno a loro carico le spese
di trasporto, se i volumi fossero troppo miseri non lo farebbero mai, dunque, devono esserci almeno 15-20
m3 di concentrato, quindi c’è una criticità dimensionale.
Questo problema potrebbe essere risolto creando i consorzi, si consorziano le aziende che mandano i loro
effluenti e creano la massa critica però vanno risolte delle criticità:
 spesso gli opifici sono distanti tra loro, sono troppo piccoli e magari bisogna aggregarne tanti per
raggiungere il volume critico. Inoltre, questo crea un altro problema ovvero l’elevato costo della
raccolta dai singoli opifici
 bisogna separare gli effluenti, il siero è facilmente valorizzabile e sviluppa valori di mercato interessanti
per cui non ci possiamo mettere insieme la scotta o l’acqua di filatura perderebbe valore; dunque, la
separazione degli effluenti rappresenta un problema. Non molti caseifici hanno la disponibilità
economica e dimensionale per poter acquistare i diversi serbatoi per i diversi effluenti.
 La variabilità della composizione media dei reflui prodotti, ci sono periodi dell’anno in cui c’è più acqua
di filatura che siero e viceversa, comunque le quantità cambiano.
 C’è il problema di stabilizzare e quindi bisogna pastorizzare o microfiltrare

Quindi, se questo non viene fatto otteniamo un effluente unico, sporco che diventa automaticamente un
rifiuto.
Per poter convertire in SOA questi effluenti bisogna necessariamente trattarli come delle materie prime
ovvero con dei serbatoi dedicati, composizione, studio della composizione, costanza e stabilizzazione.

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In più ci sono i limiti che bisogna ricordare ossia i prodotti ottenuti sia i concentrati che i permeati sono
deperibili quindi non possiamo stoccarli, quindi possiamo comprare gli impianti di concentrazione ma poi il
retentato lo dobbiamo smaltire ogni 2-3 giorni perché poi va a male e questo rappresenta un grosso limite
per cui si parla di impiego certo, perché possiamo avere anche l’impianto ma se non abbiamo messo in
piedi tutta la filiera e non abbiamo i clienti a cui venderlo quello che abbiamo concentrato diventa un rifiuto
e quindi bisogna chiamare l’autospurgo per eliminarlo, quindi, oltre ad aver speso soldi per concentrare
bisogna pagare anche per smaltirlo.

Una delle soluzioni sarebbe quella di dotarsi di essiccatori industriali cioè che oltre all’impianto di
concentrazione compriamo anche uno spry-drier che ci permette di arrivare alla polvere che ci
permetterebbe di fare stoccaggio per anni ma è un impianto costosissimo.

Ripetizione: rifiuti o sottoprodotti?


Se gli effluenti configurano come sottoprodotti c’è un costo di smaltimento oneroso da sostenere, se lo
sostenessero davvero tutte le aziende probabilmente chiuderebbero tutte, per cui è opportuno che siano
configurati come SOA ovvero sottoprodotti di origine animale. Se c’è la configurazione SOA che richiede
l’attivazione di una filiera di trattamento opportuno si sfugge alla logica del rifiuto e quindi si può creare nei
migliori dei casi una filiera che si autosostiene e in alcuni casi si ottiene anche un utile.

Questa strada è perseguibile all’interno dell’industria solo se si ricorre alla tecnologia di membrana perché
gli effluenti hanno bisogno di essere pretrattati, c’è un’altra possibilità che per non è facilmente inseribile
nel contesto aziendale cioè la produzione di biocarburanti hanno ugualmente bisogno della cooperazione
con un terzo soggetto; anche nel caso della valorizzazione dei concentrati ottenuti su membrana c’è
bisogno della collaborazione con un’azienda ma questa azienda in sostanza compra il concentrato quindi
più che una collaborazione è un rapporto fornitore acquirente.

Nel caso della produzione di biocarburanti c’è bisogno proprio di un’azienda che trasformi l’effluente quindi
non si può fare in azienda come invece avveniva per la concentrazione; per la produzione di biocarburanti
gli impianti sono molto complessi da inserire all’interno dell’azienda quindi c’è bisogno di un’azienda che in
partnership lavora questi effluenti.

Gli effluenti di caseificio possono essere impiegati come substrato a basso costo per la produzione di
biocarburanti che sono di due tipi: biogas o bioetanolo.
Questi carburanti bio, che derivano da un processo biologico, sono prodotti in dei grandi serbatoi
ermeticamente chiusi che vengono chiamati digestori anaerobici; possiamo già capire che si parla di
fermentazioni che avvengono in anaerobiosi.
In Europa prevale la produzione di biogas mentre in sud America si è molto diffuso il bioetanolo.

Il biogas è costituito dal 50-70% da metano mentre il resto è anidride carbonica e gas di zolfo (idrogeno
solforato e altro) che non rendono questo gas particolarmente profumato. Questo gas è uno dei prodotti
delle fermentazioni di questi substrati, queste fermentazioni non si sono sviluppate da una sola specie
batterica ma da un mix complesso di batteri che fermentano i carboidrati, innanzitutto, ma ci sono
microrganismi che intervengono su substrati via via più semplici e lo step finale è il metano, quindi, ci
saranno dei microrganismi metanigeni.
Il biogas è piuttosto sporco, il metano rappresenta la metà o i 2/3 quindi il resto va separato per cui è
necessario operare una purificazione, il biogas purificato diventa metano che può avere le stesse
applicazioni del metano di rete; tuttavia, l’immissione in rete è una cosa complicata che fino a pochi anni fa
non era permesso, il metano prodotto viene perlopiù utilizzato per la cogenerazione cioè viene trasformato
in energia elettrica. Durante la combustione produce calore e quel calore viene utilizzato in azienda e viene
utilizzata anche la pressione che viene fuori da tutta la gestione della cogenerazione.
È possibile per cui far diventare autonomi ed energeticamente indipendenti un’azienda che faccia questa
trasformazione. La produzione di bioreattori è ormai presente ovunque.

Biogas: costituito per il 50-70% da metano e per il resto soprattutto da CO2. Sono gas di fermentazione
effettuata da parte di un “mix di batteri” che fermentano i carboidrati e altri substrati.
Il metano purificato è impiegato per generare energia elettrica, calore e pressione per l’uso aziendale

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La seconda tecnologia prevede la produzione di bioetanolo che richiede la presenza dei lieviti perché
avviene la fermentazione alcolica, per cui il mix di zuccheri presenti in questi effluenti + i lieviti+ altri
nutrienti danno luogo alla produzione di alcol, naturalmente bisogna garantire l’anaerobiosi, ricordiamo
che sono organismi facoltativi e in assenza di ossigeno fermentano altrimenti preferiscono respirare.
Il bioetanolo ha grosse applicazioni anche in campi diversi dal consumo come carburante infatti viene
venduto ampiamente nell’industria farmaceutica e alimentare, quindi, ha diverse applicazioni.

Queste due tecnologie hanno in comune il “motore” del sistema che è lo zucchero, quindi, possono trattare
solo gli effluenti che hanno i carboidrati semplici o complessi, l’importante è che ci siano, senza i carboidrati
il sistema non funziona.

È evidente che parlando di effluenti di caseificio quelli ricchi in zucchero sono quelli che vanno meglio
quindi scotta e siero, il siero ha anche le proteine mentre la scotta ne ha pochissime, meno bene vanno le
acque di filatura, l’acqua di lavaggio o le acque di processo non vanno proprio bene perché hanno pochi
zuccheri; anche i permeati di siero e di scotta trattati su ultrafiltrazione vanno bene perché contengono
zuccheri. Quando abbiamo parlato della concentrazione del siero per ultrafiltrazione abbiamo detto che il
concentrato è una miscela proteica arricchita perché abbiamo concentrato le sieroproteine mentre il
permeato contiene zuccheri, Sali minerali e acqua, quel permeato può andare benissimo, per cui uno si
recupera prima le sieroproteine e poi il permeato zuccherino lo manda nei bioreattori.

La produzione di biogas da effluenti di caseificio


La Germania è stata la nazione leader per l’utilizzazione dei bioreattori per ottenere metano da rifiuti
urbani o dai rifiuti o dagli scarti dell’ortofrutta. Quindi, i primi reattori utilizzavano rifiuti organici, vegetali in
decomposizione, carcasse in putrescenza, liquami zootecnici o di fognatura; in un quadro del genere gli
effluenti di caseificio ci entravano solo in parte perché presentano zuccheri molto diluiti, insufficienti ad
alimentare da soli le fermentazioni.

Nei primi bioreattori che sono stati messi a punto gli effluenti di caseifici (siero e scotta) non erano in grado
di favorire dei buoni rendimenti, poca sostanza secca, con il tempo però c’è stata un’evoluzione.
L’evoluzione ha consentito di lavorare sempre più su matrici povere, quello che è cambiato nel tempo è
stata la gestione del mix di batteri, questo è il punto chiave dei bioreattori.

Bisogna tenere in considerazione che per la conversione in biogas di sostanza organica c’è bisogno di
settimane, non è una cosa che si fa in un giorno per cui in questo tempo ci sono i microrganismi che si
succedono in una evoluzione continua, ci sono i primi microrganismi che fanno un lavoro grossolano cioè
degradano la sostanza organica in acido acetico, anidride carbonica e idrogeno; questo diventa il substrato
dei microrganismi metanigeni che concludono il processo producendo metano.

Le velocità di crescita sono piuttosto basse e la cosa più importante è che i diversi gruppi batterici non
hanno tutti gli stessi optimum di crescita per cui bisogna sempre creare un compromesso che stia bene un
po' a tutti. Le tipiche condizioni sono un pH neutro 7-7,5, una temperatura piuttosto alta intorno ai 35°C se
il mix di batteri è mesofilo, si può arrivare a 55°C se i batteri sono termofili, ma ci sono anche gli psicrofili
che possono operare a temperature basse più alte sono le temperature più il processo è veloce.

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Il processo può variare da qualche settimana a qualche mese, può essere continuo o in batch ovvero
carichiamo, finisce il processo, scarichiamo i residui e partiamo con una nuova lavorazione, ovviamente i
processi moderni sono tutti continui.

La microflora che porta avanti la digestione è complessa, inizialmente l’abbiamo divisa in due gruppi ovvero
quelli che fanno la fermentazione iniziale e quelli che fanno quella finale, in realtà ci sono diverse reazioni a
cascata.

Vi sono interazioni tra le diverse specie batteriche ed i prodotti del metabolismo di alcune specie sono
utilizzati da altre come substrato o come fattori di crescita. Vi sono batteri:
 Idrolitici: degradano le macromolecole in sostanze più semplici (proteine, cellulosa, grassi, lattosio)
 Acidogeni: sono quelli che producono gli acidi organici, sono i veri e propri fermentatori che prendono
gli zuccheri che sono stati scissi e gli portano ad acido ovvero utilizzano come substrato i composti
semplici liberati dai batteri idrolitici e producono acidi organici a catena corta
 Acetogeni: sono i produttori obbligati di idrogeno e utilizzano come substrato i prodotti dei batteri
acidogeni quindi a partire dagli acidi dando luogo ad acetato, idrogeno e anidride carbonica.
 Omoacetogeni: sintetizzano acetato partendo da CO2 e H2
 metanigeni distinti in due gruppi:
o acetoclastici, producono metano ed anidride carbonica da acido acetico
o idrogenotrofi producono metano partendo da anidride carbonica e idrogeno

È una produzione di substrati a cascata, è evidente che ci vuole un equilibrio e una giusta ricetta di batteri,
una giusta composizione della ricetta, questo mix di substrati che alla fine sono semisolidi, soluzioni viscose,
non devono contenere fattori antimicrobici quindi c’è grande attenzione ad immettere all’interno del
bioreattore materiale che non abbia residui di antibiotici, detergenti, medicinali, pesticidi, non deve esserci
eccesso di sale ecc., ecco perché le acque di detersione non possono essere destinate ai bioreattori.
Il processo dura tanto più a lungo quanto è più bassa è la temperatura.

Il processo può essere:


 monostadio, quando le fasi di idrolisi, fermentazione acida e metanigena avvengono
contemporaneamente in un unico reattore
 bistadio, quando si ha prima idrolisi e fase acida, e la fase metanigena avviene in un secondo momento

Può essere condotta in: mesofilia (circa35°C, durata 14-30giorni); termofilia (circa 55°C; <14-16 giorni);
psicrofilia (10-20°C, contempi di residenza dell’ordine a 30-90 giorni). C’è questa possibilità perché bisogna
contestualizzare l’intervento, se bisogna creare un bioreattore in africa è evidente che ci conviene operare
in termofilia perché ridurremmo al massimo la gestione del raffreddamento, se volessimo lavorare in
psicrofilia in africa spenderemmo un sacco di energia. Per esempio, negli ambienti nordici ci conviene
lavorare a temperature più basse ma la gestione economica è più vantaggiosa.

Il rendimento dipende dalla biodegradabilità e dalla ricchezza del substrato.


Di particolare importanza è la concentrazione in sostanza secca e il rapporto C/N della biomassa (tra 25 e
35), se non c’è cellulosa il rapporto è sbilanciato e i mix batterici muoiono presto perché si sviluppa troppa
ammoniaca che è letale, ecco perché c’è sempre bisogno di fibra e cellulosa per fornire carbonio.

I primi impianti venivano chiamati a secco e ne cediamo uno nell’immagine perché funzionavano più che
altro con i rifiuti e avevano bisogno di un livello di sostanza secca superiore al 20%.
Un vegetale ha un 85-90% di acqua, la carne hanno un 70-75% di acqua; quindi, bisognava stare attenti a
superare il 20% di sostanza secca, ecco perché nei primi impianti gli effluenti di caseificio e le sanse liquide
non entravano perché troppo acquose.
È un impianto abbastanza semplice, immaginiamolo come un grande serbatoio dalle pareti robuste perché
all’interno si svilupperà gas che applicherà pressione alle pareti, deve essere alimentato con un caricatore,
all’interno deve esserci una movimentazione della massa per disperdere il calore e per disperdere il gas,
inoltre, anche per movimentare le parti non digerite che si possono localizzare nelle sacche, quindi, rendere
omogeneo il sistema e poi c’è il sistema di filtrazione del biogas prodotto.

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Questi sono due bioreattori con le pareti in cemento armato e con le cupole saldate in materiale plastico, in
gomma elastica, hanno quella forma perché all’interno c’è il gas che si sta sviluppando e sta producendo
pressione; sono fatte in questo modo per poter neutralizzare la pressione che si sviluppa, quando il
bioreattore è fermo la cupola si abbassa. All’interno ci sono tante sezioni che le movimentano in avanti, più
passa il tempo più il raschiatore porta in avanti il batch e intanto viene caricato l’altro, il sistema non si
ferma mai.
Questi impianti possono lavorare anche solo con gli effluenti di caseificio ma il problema è che rendono
poco cioè producono poco biogas, più è ricco il substrato più metano produciamo, quindi, solitamente
hanno bisogno di un concentrato a membrana annesso per poter prima concentrare gli effluenti, per poter
caricare nel sistema siero o scotta concentrata in modo tale da avere un contenuto in sostanza secca
intorno al 18-20% che dà rendimenti eccezionali; con questi rendimenti il sistema si autosostiene per 3-4
anni e poi comincia a rendere.
Ricordiamo che il primo rientro dell’azienda che ha questo impianto è che non ha più la bolletta dell’energia
elettrica.
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La produzione di bioetanolo da siero e scotta
Il bioetanolo viene prodotto da siero e da scotta perché solo loro hanno la quantità di zuccheri.
Classicamente questa è un’estensione di un’applicazione vecchia di 60 anni cioè la produzione di bioetanolo
veniva fatta dagli scarti dell’industria dello zucchero, quindi, gli scarti della canna da zucchero o dalla
barbabietola da zucchero. Dunque, è stato semplicemente adattato a questi nuovi substrati di siero e scotta
che utilizzano il lattosio che tanti lieviti non sanno consumare, quindi, è sempre necessaria la presenza di
lieviti selezionati o si applica preventivamente l’idrolisi enzimatica con la lattasi; anche in questo caso
bisogna concentrare per portare la concentrazione zuccherina ad un livello tale da far avanzare il processo
in maniera economicamente sostenibile.

Lo schema è un mix di tecnologie di membrana e fermentazione. Si parte dal siero, si fa un’ultrafiltrazione,


si recupera la proteina che è uno spreco mandarla al bioreattore, si recuperano le sieroproteine che hanno
un valore commerciale enorme, il permeato che conterrà lo zucchero va in osmosi inversa per concentrarsi
e allontanare un po' d’acqua e lo sciroppo di lattosio ottenuto va alla fermentazione. Nello sciroppo di
lattosio si ha l’innesto dei lieviti e poi si ha la fermentazione, quando la fermentazione termina avviene una
centrifugazione che serve a recuperare i lieviti che tornano nel processo e il liquido digerito va alla
distillazione per il recupero di etanolo al 95%, con la disidratazione si ottiene l’etanolo assoluto.

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