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L'AMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A.

SCHOPENHAUER
Author(s): UMBERTO A. PADOVANI
Source: Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vol. 23, No. 4/5 (LUGLIO-OTTOBRE 1931), pp.
345-385
Published by: Vita e Pensiero – Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
Stable URL: http://www.jstor.org/stable/43069762
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UMBERTO A. PADOV AiNI

Professore incaricato di Introduzione alla storia delle religioni


nell'Università Cattolica del 5. Cuore

L'AMBIENTE E LE FONTI NEL


PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER <"

Dopo la classica affermazione medievale dell'ascetismo e del pessimismo


cristiano, onďé risolto il problema dei male mediante una concezione anti'
mondana, ma non antiumana, della vita, l'umanesimo pagano risorge e si svolge
in una forma più perfetta, attraverso l'immanentismo moderno: iniziando un
nuovo episodio della lotta eterna del mondo contro Cristo (2), Questa nuova
negazione del Cristianesimo avrà principio nella vita paganamente celebrata
del Rinascimento; si manifesterà nella ribellione della Riforma all'assoluta, tra*
scendente o divina autorità della Chiesa; e cercherà poi man mano nel pen^
siero e nella filosofia la giustificazione teorica dei principi già praticamente ap^
plicati. La civiltà moderna nacque - dice pertanto lo Spaventa (3) - quando,
« caduta la teocrazia, fondata la monarchia, aperta la via dell'oceano, inven^
tata la stampa, fatte tante altre 'scoperte, l'uomo aveva incominciato a riaver

(1) Il prefato scritto è il primo capitolo di un volume su Arturo Schopenhauer


gio storico'critico sul pessimismo e V ascetismo ). (N. d . R.)
(2) Espressione caratteristica di questa concezione medievale della vita può essere
considerata la celebre opera (De contemptu mundi ) di uno dei maggiori uomini dell'e*
poca, il più grande pontefice del medioevo, Innocenzo III dei conti di Segni. Il quale -
patrizio e cardinale, dotto e sapiente - fa una descrizione del mondo che poco ha da
invidiare, non dico Job e l'Ecclesiaste, ma Buddha e Schopenhauer. Naturalmente altro
da costoro - ossia cristiano - è il punto di vista ond'egli considera la realtà. Cfr. il
bel volgarizzamento fattone da G. Battelli, « La Voce », Firenze, 1924.
(3) Non è possibile dare qui una bibliografia sistematica completa per quanto con*
cerne questo capitolo. Oltre alle pubblicazioni citate di volta in volta nel corso del ca*
pitolo stesso, ci limitiamo ad indicare alcune opere più notevoli e più note sulla storia
della filosofia moderna: G. WlNDELBAND, Storia della filosofia moderna , trad, dal tedesco
di A. Oberdörfer, Vallecchi, Firenze, 1925 (3 voli.); A. Hoeffding, Storia della filosofia
moderna, trad. ital. di P. Martinetti, Bocca, Torino, 1906 (2 voll.); J. Royce, Lo spirito
della filosofia moderna, trad, dall'inglese di G. Rensi, Laterza, Bari, 1910 (2 voli.);
B. Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, Laterza,
Bari, 1908. Ricordiamo pure le storie generali della filosofia di R. Eucken, La visione
della vita nei grandi pensatori, trad, dal tedesco di P. MARTINETTI, Bocca, Torino, 1921;
e del già citato G. Windelband, La storia della filosofia, trad, dal tedesco di C. Dentice
d'Accadia, Sandron, Palermo (2 voli.). Il passo dello Spaventa è a pag. 24 e 29 del'
Vop. cit .

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UMBERTO A. PADOVANI

fede in sè stesso e nel suo valore, a non credersi più straniero in questo mondot
e a rivolgere gli occhi seriamente sopra di esso ». Il che avrebbe importato
infine una nuova filosofia. « Una filosofia che ponesse per principio il sog'
getto e ncn l'oggetto, il pensiero e non Tente, Pintelligente e non l'intelligi"
bile, e che dalla coscienza di sè, dalla notizia intuitiva dell'essere contenuto
nel pensiero , procedesse alla vera concezione della natura e di sè stesso ».
Era naturale che il Cattolicesimo non potesse altrimenti rispondere che
colla guerra a questi principi negatori della sua più intima essenza. E di fronte
alla glorificazione pagana della vita, riaffermasse i suoi immanenti ideali asce"
tici, e alle virtù mondane e terrene dei nuovi eroi - celebrati dal Machia"
velli o dall' Ariosto - contraponesse le cristiane virtù di rinuncia e di peni"
tenza di S. Luigi Gonzaga o di S. Teresa di Gesù. E di contro al libero esame
e alla esperienza interiore della Riforma, riaffermasse in religione il principio
d'autorità e, insieme, il valore della ragione per la fede, e costituisse e lanciasse
attraverso l'Europa e il mondo quella Compagnia di Gesù, che era special"
mente destinata ad incarnare, a propagare, a difendere questi stessi principi,
E in opposizione alla nuova esigenza dell'assoluta libertà del pensiero, riven"
dicasse il diritto della Chiesa di giudicare il pensiero, contrario alla verità cat'
tolica - e dunque falso - e facesse valere tale diritto mediante la rafforzata
Inquisizione, che procedette contro Bruno e Galileo (i). Ma se la Controri"
forma cattolica fece quanto umanamente era possibile fare per arrestare i primi
effetti esteriori e pratici del nuovo errore, non potè impedire che questo a
poco a poco oscuramente si sviluppasse e prendesse forma speculativa e siste"
matica, e così - ritornando a quella concreta realtà ond'era sorto, ma fatto
adulto e presa coscienza di sè - attraverso il razionalismo illuministico pene"
trasse e dilagasse dovunque. Fino a che colla Rivoluzione francese il raziona"
lismo anticattolico cercherà una integrale applicazione nella vita politica e
morale, attuando così praticamente quel divorzio dal Cattolicesimo, che teore"
ticamnte era già stato consumato dalla filosofia. Tale sconvolgimento porterà
la provvidenziale liberazione della Chiesa romana dall'oppressione politica di
governi, di principi, di ministri giansenisti e illuministi, non più ormai di"
sposti ai doveri degli stati cattolici verso la Chiesa, ma pur facenti valere e
prevalere i diritti tradizionali degli stati cattolici contro la Chiesa stessa. Seguirà
però la più fiera persecuzione che la Chiesa avesse fin allora patita da parte
della civiltà moderna: cacciati e dispersi da parte degli stessi stati cattolici i
Gesuiti ultramontanisti e papisti, imposto alla S. Sede lo scioglimento del corpo
dei suoi pretoriani ; assalita la Chiesa nella stessa Roma, il Pontefice tratto pri"

(i) Tra i realizzatori politici della Controriforma cattolica merita di esser ricordato
in primo luogo Filippo II di Spagna - travisato e calunniato da protestanti e razionali"
sti, precisamente in causa della sua opera assidua a vantaggio della Chiesa. Il suo assolu-
tismo politico, nonostante qualche intemperanza regalista, fu cattolicamente ispirato:
ispirato anzi - dominante ancora il Rinascimento - ad una concezione ascetica della vita,
come appare da tutta Topera sua privata e pubblica. Si cfr. a questo proposito le belle
monografie di L. Bertrand (Philippe II à l'Escoriai , L'artisan du livre, Paris, 1920; e Phi-
lippe II, Grasset, Paris, 1929), il quale va felicemente rivendicando la spiritualità catto"
lica spagnola dell'epoca, come altri stanno facendo per la Francia e per l'Italia.

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L'AMBIENTE F. LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

gioniero dal potere laicale? condotto al patibolo il Re Cristianissimo» in luogo


del Sacramento, sull'altare profanato, la Ragione adorata in figura di una mima»
Le vie, i tentativi, gli sviluppi principali del moderno movimento specu-
lativo immanentistico, dopo il Rinascimento - il quale già contiene i germi
di questi sviluppi in Campanella e Telesio - sono l'empirismo, che rivendica
come suo capostipite Francesco Bacone, e il razionalismo, che si rifa al nome
di Renato Descartes« Indirizzi in apparenza opposti, ma in realtà animati dallo
stesso ideale umanistico e immanentistico, e anzi Tun l'altro complementari:
che la nuova scienza - genuina espressione di un empirismo fenomenistico -
non intenderà scrutare l'essenza delle cose trascendente l'esperienza, ma at'
tuare l'immanente dominio dell'uomo sulla natura; e la nuova metafisica non
si piegherà all'umile contemplazione delle cose create da Dio, ma vorrà su-
perbamente costruire l'universo con l'umana ragione e imporsi alle cose stesse.
Bacone, Locke, Berkeley e Hume da un lato, Cartesio, Spinoza, Malebranche
e Leibniz dall'altro, senza saperlo o senza volerlo, muovono dunque dallo
stesso principio e procedono alla stessa meta. Lo mostrerà (Emanuele Kant, ove
queste due correnti dominatrici del pensiero moderno convergono e si fondono
nella loro dialettica unità: determinando così, in campo speculativo, una rivo*
luzione simile a quella che nello stesso giro di tempo si operava in campo poli'
tico, e da cui doveva cominciare una nuova storia. Kant difatti accetterà le
reciproche critiche dei due indirizzi, ma manterrà gli elementi positivi di en*
trambi, componendoli logicamente in una sintesi superiore. Accetterà la critica
di dogmatismo che giustamente l'empirismo doveva muovere al razionalismo,
per la sua pretesa che un sistema più o meno costruito a priori con l'astratta
ragione dovesse darci la realtà concreta, e tanto meno che un mondo derivato
dal soggetto, ideale, dovesse valere per una realtà trascendente, obbiettiva: ma
manterrà i diritti della ragione, dell'intelligibile, della forma, senza cui non è
possibile nessun conoscere (ed operare) umano, la scienza e la filosofia. Senon-
che questo elemento razionale, puro, a priori verrà applicato non ad uno stra-
niero mondo di cose in se, ma ad un dato materiale, ad un contenuto sensibile,
che non ha alcuna pretesa di trascendere il soggetto conoscente, ma è subbiet-
tivo come l'elemento razionale, sebbene in altro grado. Viceversa accetterà -
Kant - la critica di scetticismo che non meno giustamente il razionalismo mo'
veva all'empirismo, per il suo assurdo tentativo di risolvere più o meno l'umano
conoscere, di attingere la realtà, nel dato sensibile, materiale: ma riconoscerà
che senza dato materiale, senza contenuto sensibile l'umano conoscere è un
vuoto astrattismo, uno sterile formalismo. Senonchè questo elemento empirico
non deve aver alcuna pretesa di rappresentare meglio che l'elemento razionale,
di essere più di lui vicino ad una realtà in sè, ma - come quello - produ-
zione del soggetto conoscente. Vengono così composti i due opposti indirizzi
astratti nella loro logica concreta unità; viene così restaurato l'umano sapere
nei suoi elementi costitutivi, essenziali, sensibile e intelligibile. Ma è una re-
staurazione totalmente subbiettiva, perchè alla sintesi conoscente di senso e
intelletto non corrisponde più una sintesi ontologica di materia e forma; anzi

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il valore della prima è condizionato dalla negazione della seconda» Tale la ri'
voluzione copernicana operata da Kant»
Il pensiero kantiano - come è noto - fu diversamente interpretato» se*
condo la lettera o lo spirito, l'intenzione del filosofo o la logica delle sue idee,
realisticamente e idealisticamente. E se l'interpretazione realistica può avere
per moi un maggior valore di verità, in quanto più si avvicina alla concezione
scolastica del reale, e fa dunque onore all'austero filosofo di Konigsberg - -
come al Roveretano - che non voleva in alcun modo venire alle conclusioni
umanistiche dell'assoluto idealismo; certo è che l'interpretazione idealistica ha
un maggior valore di realtà, in quanto, inquadrando Kant nello svolgimento
del pensiero moderno, riesce a comprendere l'indiscutibile importanza storica
di lui. Il significato fondamentale del pensiero kantiano non sta di fatto in una
forma di dualismo, di platonismo, teistico o panteistico, non sta nella distin-
zione tra fenomeno e noumeno, che si ritrova in Platone, o nel primato della
volontà, che gli veniva dal Cristianesimo, dal Protestantesimo. Siblbene nel
concetto di sintesi a priori - teoretica e pratica - onde lo spirito è costituito
(preteso) creatore della realtà, e così aperta la via all'idealismo assoluto. L'enu-
cleazione e il dialettico svolgimento di questo fertile principio sarà precisa-
mente l'opera dell'idealismo posteriore : il quale - superato l'ultimo e illogico
residuo realistico della kantiana cosa in se, ove poteva trovar logicamente fon-
damento una concezione pessimistica e ascetica della realtà e della vita, quale
si presentava in fondo la concezione kantiana (dottrina del male radicale) -
afferma che la realtà è assolutamente creazione dello spirito e (dunque) neces-
sariamente razionale. Così veniva ripreso e anzi condotto a maggior perfezione
l'ottimismo moderno prekantiano, che si accentra in Leibniz: non più nel
senso di una razionalità dominatrice, ma astratta e trascendente più o meno la
realtà concreta, che perciò doveva sfuggire alla luce di quella razionalità; ma
nel senso di una razionalità immanente, intima, identica alla concreta realtà
del divenire, della storia, ove lo spirito celebra la sua divina epopea. Con que-
sto non intendiamo affermare che fuori dell'idealismo - il quale, attraverso
Fichte e Schelling, culmina in Hegel - non vi siano altri indirizzi, altri svi-
luppi del pensiero kantiano, non razionalistici e forse più vicini alla verità,
che anzi la storia sta a provare il contrario; ma solo che il pieno e logico svol-
gimento del pensiero kantiano, il quale è un pensiero originale e moderno pre-
cisamente pel concetto di sintesi a priori , sta nell'idealismo assoluto di Hegel,
il grande sistematico della filosofia moderna e il legislatore della filosofia con-
temporanea (i).

(i) Nota G. Windelband, nella Storia della filosofia moderna cit., vol. III, par. 69
( L'irrazionalismo ), pp. 186-189: « Il panlogismo hegeliano porta il carattere generale dello
sviluppo dialettico della filosofia tedesca alla sua espressione più acuta... si tratta, alla
fine» d'una completa risoluzione della realtà in concetti razionali ». Onde, caduto il con-
cetto della cosa in se, e il conseguente fenomenismo, « l'idealismo kantiano era ridiven-
tato razionalismo assoluto, illimitato. - Senonchè la completa risoluzione della realtà
nella ragione non è che apparenza... - C'è, così, in ogni sistema razionalistico un re-
siduo, innanzi al quale s'arresta la coscienza razionale » : ossia non suscettibile di riso-

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L'AMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

Naturalmente, la famosa affermazione immanentistica che tutto il reale è


razionale e tutto il razionale reale, e la tentata giustificazione, noi troviamo
piena solo in Hegel (Was vernünftig ist, das ist wirklich; und was wirklich
ist, das ist vernünftig); ma pure i grandi idealisti che procedono da Kant a
lui più o meno vagheggiano lo stesso ideale, e si sforzano di attuare sulla stessa
linea storicistica una concezione fondamentalmente umanistica e ottimistica
della realtà e della vita. Spunti pessimistici si possono trovare in Kant - so-
pratutto - e pure in Fichte e più in Schelling e fìnanco nello stesso Hegel:
ma è un pessimismo empirico, apparente, che alla fine si risolve più o meno in
un ottimismo metafisico (immanentistico). Per non dir nulla del carattere irra-
zionale (dato) dell'origine e varietà del contenuto dell'esperienza, del suo ele-
mento sensibile, Kant ci mostra senza dubbio quanto la natura è poco favo-
revole alla felicità umana, e come la virtù sia quaggiù in contrasto con la fe-
licità: ma la vera spiegazione della vita, l'ultima ragione delle cose deve esser
cercata fuori dell'ordine sensibile, nell'ordine morale, intelligibile, noumenico,
che è propriamente il valore supremo, e la vera spiegazione della stessa
natura. Ugualmente Fichte trovò un concetto limite - al razionalismo asso-
luto - nel mondo irrazionale delle sensazioni, della natura. Che non si può
giustificare teoreticamente, di cui non si può trovare la ragione, il principio,
perchè nulla precede la sensibilità, fuori dell'Io, il quale è assoluto, libero; ma
solo si può giustificare praticamente, trovarne il fine. E anche così (dal punto di
vista pratico) si può bensì dedurre l'attività, la realtà del mondo sensibile, ma
non il contenuto. Tuttavia i fenomeni sensibili (in genere), l'apparenza della ma-
teria, non sono che una scena transitoria, preparata - dallo stesso Io assoluto
(pratico) - per un fine unico, il compimento del dovere, l'azione libera dell'io,
che persegue, nella sua reazione contro il mondo esterno e nel suo conflitto
con la sensazione, il più alto carattere che gli sia possibile realizzare. Ne si
confonda l'atto infinito di Fichte con la volontà diretta a se di Schopenhauer:
l'attività rivolta esclusivamente a se stessa è, in Fichte, l'autonomia dell'auto"
determinazione morale, in Schopenhauer l'assoluta irrazionalità d'una volontà
senza oggetto: ossia per entrambi la volontà, essendo la realtà assoluta, è ri-
volta esclusivamente a se stessa, ma la volontà di Fichte è razionale, etica,
quella di Schopenhauer irrazionale e cieca.

luzionc concettuale, indeducibile dalla ragione, dato* « La comprensione critica dell'in-


sufficienza del razionalismo ad intendere sino in fondo la natura delle cose, porta innanzi
tutto a contrapporre alla conoscenza razionale un'irrazionale, che dovrebbe avere la sua
origine in qualche dato di fatto ». Onde una serie di sistemi dell'arazionalismo, o del'
l'irrazionalismo, o del sovrarazionalismo, che accompagnano, quasi come ombra, lo svol*
gimento dell'idealismo razionalistico da Kant a Hegel, dai vari concetti limiti dal quale
sorgono, senza formar tra loro unità di svolgimento, pur dipendendo più o meno dal
criticismo kantiano: « ognuno d'essi è una diramazione sorta, dal lato dell'ombra, dal
tronco principale dell'idealismo, in una fase determinata del suo sviluppo, I concetti di cui
si servono questi sistemi dell'irrazionalismo sono perciò sempre gli stessi del sistema
razionalistico, contro il quale essi si sviluppano in forma critica e polemica ». La serie,
che può considerarsi aperta da F. E. Jacobi, ha il suo massimo esponente - non occorre
dirlo - in A. Schopenhauer.

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Pure in Schelling si possono riscontrare - ancor più che in Fichte -


elementi irrazionalistici e pessimistici, sempre più marcati» onde l'indirizzo del
suo pensiero andrà orientandosi precisamente verso quelle correnti irraziona-
listiche e pessimistiche postkantiane, di cui è principe Schopenhauer, e - come
lui - si farà critico del razionalismo assoluto hegeliano. Il sistema schellin-
ghiano dell'identità aveva lasciato irresoluto il problema: come giungono le
idee all'indipendenza, o come i! mondo deriva da Dio? Hegel tenterà di risol-
vere il problema per via puramente filosofica, razionale, concependo l'assoluto
come idea intesa nello sviluppo necessario, o come spirito assoluto. Schelling*
tentò invece di risolverlo per via teosofica, non razionale. Tra Dio e le idee,
tra Dio e il mondo c'è uno jato nel sistema dell'identità: la genesi del finito
dall'assoluto è irrazionale, è un ¡atto originario che dall'assoluto non può venir
dedotto, ma solo esser riconosciuto e descritto. Il distacco del mondo da Dio è
un peccato originale , azione possibile, ma non necessaria, libera, cui terrà dietro
l'espiazione del primo distacco, che è la stessa vita dell'idea divenuta indipen-
dente. Ossia, secondo Schelling, « mentre il contenuto della realtà è razionale
e divino, in quanto in essa si realizzano le idee divine, il suo essere effettivo
è decadenza, colpa, irrazionalità » (i). Ma il finito deve redimersi, deve tornare
alla divinità, e vi tornerà mediante il processo storico, in cui la divinità si rivela
e pure si autorivela, poiché l'assoluto giunge alla sua completa autooggettiva-
vazione solo dopo essersi autosdoppiato. Ossia l'universo è l'autoevoluzione
della divinità dall'imperfetto al perfetto, da ciò che è colpevole a ciò che è
sacro, dalla natura allo spirito. È il processo tra l'Alfa e l'Omega di Dio, tra il
Deus implicitus (irrazionalità della volontà originaria) e il Deus explicitus (auto-
coscienza e autodeterminazione della ragione), ond'egli attua pienamente la sua
divinità. - Una volta partito dal monismo, per poter spiegare l'elemento irra-
zionale della realtà, Schelling ha dovuto farlo risalire alla divinità stessa, conce-
pendo questa come non razionale (cfr. la dottrina della libertà ). Dio, o la causa
originaria (Urgrund), è il solo e semplice essere, l'esistenza priva di ragione, che
non esiste necessariamente (la sua essenza non implica l'esistenza): come -
si e visto - non è logicamente deducibile l'esistenza del mondo, sebbene sia
intelligibile la sua essenza, razionali i rapporti delle cose, dialettiche
le leggi della natura e della storia (rivelazione di Dio). Tuttavia, siccome
in questo essere abissale deve esser data la possibilità di qualcosa di più
perfetto, così esso può sussistere solo come oscuro bisogno, tendenza incon-
scia. La causa originaria è quindi volontà oscura ed inconscia : « in ultima
istanza non c'è altro essere che il volere ». In luogo dell'idea assoluta (di He-
gel). la volontà assoluta ; e perchè Dio è volontà, libertà assoluta, è essenzial-
mente personalità, e può farsi uomo ! Ma il volere ncwi può indirizzarsi ad altro
che all'assoluto, e tende sopratutto a rivelare a sè stesso la ragione oscura,
alla sua autooggettivazione. Genera così il razionale, in cui si rivela, e che lotta

(i) G. Windelband, Storia della filosofia, vol. II, par. 43o (La metafisica dell' irrazio*
naie ), p. 338.

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coirirrazionale nella natura, e alla fine trionfa di lui nella storia.. Nel mondo
dunque domina sì la contraddizione, il bisogno, il dolore, ma attraverso il
dramma della storia la ragione in ultimo trionfa. Le cose realizzano il loro fine
tornando a Dio, che così ad esse si rivela e pure così può pienamente autori-
velarsi e cosciente tornare a se stesso, in un processo umano-divino. Onde,
dopo aver messo sotto i nostri occhi il più triste quadro della natura oscurata
e della vita desolata dal male, Schelling ci conduce ad una soluzione finale,
che è incontestatamente una specie di ottimismo teologico.
Nello stesso Hegel infine - il corifeo dell'ultimo razionalismo, del pan-
logismo e dell'ottimismo - permangono, com'è fatale, residui irrazionalistici
e pessimistici; nonostante il suo titanico sforzo di risolvere dialetticamente l'u-
niversa realtà, razionalizzando il mondo romantico delle idee, l'intuizionismo
di Schelling, in un sistema, ove essere e ragione si convertissero, si identifia
cassero. Egli perciò pretende, in generale, di assimilare in unità dialettica Tem*
pirico e l'assoluto, il molteplice e l'uno - mentre non si può altro che subor-
dinare il primo elemento (dato) al secondo (formale ). iE quindi si sforza a rica-
vare dialetticamente - sia pur non analiticamente - l'un grado della realtà
dall'altro, lo spirito dalla natura e la natura dall'idea: che poi sarebbe -
quest'ultima - la derivazione del sensibile, del particolare (i cui rapporti sono
il tempo e lo spazio e legge il divenire) dall'intelligibile, dall'universale (i cui
rapporti sono logici e legge l'identità): i quali sono perciò essenzialmente
diversi, e dunque assurdo il divenire intelligibile hegeliano. E, finalmeinte, la
dialettizzazione del falso nel vero, del male nel bene, che è il maggiore di
tutti gli assurdi (i). Permane adunque l'irrazionalità della natura di fronte
all'idea, la quale ha sempre costituito una delle più gravi difficoltà del sistema
di Hegel. « Mentre s'apprestava - dice il Windelband (2) - a svolgere dia*
letticamente il trapasso dell'idea nella realtà naturale, trovò nella natura qual-
che cosa di estraneo all'idea, una negazione, che non significava soltanto man-
canza dell'elemento ideale, ma anche, e più, una forza opposta della realtà,
forza ch'egli dovette riconoscere come un fatto, col nome di casualità della na -
tura, senza poterla intendere razionalmente. E così, si ripresentò sotťaltra
forma questo Proteo del residuo irrazionale della realtà, e la casualità costituì
il concetto limite dell'idealismo logico ». Ma permane, sopratutto, la irraziona-
lità immanente a tutta la realtà - nonostante il tentato superamento dialet-
tico. Nel sistema di Hegel, tutta l'esistenza finita è condannata alla legge do-
lorosa di distruggere se stessa con le sue contraddizioni. Questa legge della
sofferenza, risultante dalla divisione e dalla limitazione dell'idea, contiene un
principio di pessimismo, che il Volkelt ha messo bene in luce (3). Dunque

(1) Per la critica al panlogismo hegeliano, cfr. : P. MARTINETTI, Introduzione alla me*
tafisica , 1: Teoria della conoscenza , Torino, Clausen, 1904, p. 398 e segg.
(2) G. Windelband, Storia della filosofia moderna, vol. cit., p. 188.
(3) « Se ogni momento della realtà è un momento della ragione assoluta, tutto cio
che è, è razionale, buono e perfetto: ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è ra-
zionale. Ora di fronte a questa affermazione, che è conseguenza rigorosa e diretta del
principio hegeliano, abbiamo la stessa confessione di Hegel, che vi sono nella realtà

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anche per Hegel - come per Schopenhauer - il mondo è tragico. « Soltanto


per Schopenhauer la tragedia è disperata» cieca, punto divina; mentre per
Hegel è la divina tragedia del Logos dai mille cimenti, il cui gaudio sta sopra
tutti i dolori del suo mondo » (i). Poiché l'idea, da principio divisa, er-
rante fuori di se, tende a ritornare a se stessa per la coscienza del mondo«
Questo divenire dello spirito, questo processo del mondo che si continua
senza posa attraverso il dramma mutevole dai fatti, è una vera teodicea,
una giustificazione di Dio nella storia. Dunque è l'ottimismo che - attra-
verso il concetto di svolgiménto universale, di progresso necessario - domina
in queste dottrine che mettono capo ad Hegel. Un fine preciso è assegnato al
moto dell'universo, il quale va attuandosi attraverso un preciso ordine prov-
videnziale: una ragione divina avviluppa, come in un tessuto meraviglioso,
tutti i fenomeni, pure i più insignificanti e i più strani della natura e della
storia: cui, attirandoli in serie determinate, impedisce d'extravagare a caso e
di perdersi nell'inanità. E questo ottimismo - e questo razionalismo - va
man mano cercando - e trovando - la sua via, la sua più perfetta espres-
sione. Fichte giustifica la natura - per Kant data - mediante l'attività spi-
rituale, morale, per cui è condizione; Schelling spiritualizza la stessa natura -
rimasta per Fichte povera e oscura nella sua nuda contrapposizione al soggetto
- considerandola come spirito in fieri; Hegel risolve il nuovo dualismo schei-
linghiano, di natura e spirito, la cui unità era solo data, nell'unità del divenire
logico. Onde dice bene il Royce (Op. cit., vol. I, p. 303) : « L'idealismo mo-
derno come si sviluppò da Kant in poi (Fichte, Schelling, Hegel), fu sin dal
principio uno sforzo per scoprire la razionalità del nostro mondo mediante
un'analisi della natura della coscienza ».
Contro questo ottimismo, che è l'anima della civiltà e del pensiero mo-
derno, e che - come si è visto - prima di Kant trova la sua maggior espres-
sione nel razionalismo leibniziano, e dopo realizza la sua concretazione più
perfetta nell'immanentismo hegeliano, protesta Schopenhauer, in nome sopra-
tutto delle più legittime esigenze della coscienza umana (2). Le miserie indi-

molte cose le quali non possono in nessun modo venir fatte rientrare in quest'ordine.
Così, p. es.t quando Hegel costruisce il concetto dello Stato, mostra che a questo con"
cetto è essenziale la personalità del monarca, cioè che lo stato deve essere essenzial-
mente monarchico. Così vuole la ragione eterna delle cose. Ma vi sono anche repub-
bliche. Non importa, dice Hegel, queste sono accidentalità irrilevanti. Ma in un mondo
che è pura ragione, donde queste accidentalità? Ad un critico che gli oppose, nei primi
tempi, questa obbiezione, Hegel rispose con la derisione e lo scherno: cioè in realtà
non rispose perchè non poteva rispondere » (P. MARTINETTI, La filosofia religiosa deb
V hegelianismo, in: Saggi e Discorsi , Paravia, Torino, 1926, pp. 151-52).
(1) J. Royce, Op. cit. vol. i, conf. 8a (Schopenhauer), p. 313.
(2) Dice acutamente uno storico idealista della filosofia moderna (V. Fazio Allmayer,
La visione della vita nella filosofia moderna , Sandron, Palermo, 1925, pp. 46 e 52):
« Ottimista è in fondo tutto lo spirito della filosofia moderna, perchè l'uomo non può non
considerare con serena speranza una realtà di cui sa ormai ch'egli è autore, una realtà
che nasce dallo spirito, nè può avere una finalità e un risultato che siano in contrasto
con la finalità dello spirito » La quale concezione culmina nel pensiero di Hegel. « Que-
sta dottrina, va per il corso del secolo XIX facendosi dottrina europea, informa di se

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L'AMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

viduali si sono alla fine ribellate contro le ragioni dialettiche, che volevano
loro imporre la sofferenza come una immanente necessità salutare» stanche in
realtà di servire a fini stranieri (i). Non la ragione, l'idea, è Panima di questo
nostro mondo, ma dovunque domina l'irrazionale, la vita significa bisogno,
lotta, noia, senza scopo e senza fine, dolore. L'intelletto, cui Hegel aveva as*
segnato il primo posto, che egli aveva divinizzato, Schopenhauer considera
come un fenomeno derivato, secondario, anzi terziario, rispetto alla realtà as*
soluta, che è immanente cieca volontà. Allo svolgimento, al progresso, in cui
Hegel aveva concretato il suo razionalismo, Schopenhauer contrappone il vano
divenire - che fenomenico è il tempo - l'eterno ritorno - come espressione
di u«na volontà irrazionale. « Noi siamo dell'opinione - dice egli - che
è lontano da una conoscenza filosofica del mondo, tanto quanto il cielo
della terra, chiunque crede di poter comprendere l'essenza del mondo stesso
storicamente , sotto qualsiasi forma, comunque la cosa si voglia finalmente ma-»
scherare » (2). E allora nessuna fede in questa nostra vita, nessuna speranza
nel progresso, nella civiltà, nessuna carità attiva, operativa; ma solo la pietà,
la compassione verso gli altri, e la rinuncia per noi, che la vita è dolore, il
dolore lo stato positivo della vita. Rinuncia piena, assoluta, che, attraverso la
catarsi estetica - onde il dolore dell'esistenza è solo sospeso con la sospen-
sione del volere, per l'assorbimento completo dello spirito nella contempla-
zione dell'idea - e alla catarsi etica - onde per il superamento dell'egoismo,
nel fecondo riconoscimento dell'unità metafisica degli esseri la malvagia volontà
(individuale) è mortificata - si attua nella catarsi ascetica - ove è fatta nega-
zione non solo della volontà nella sua molteplicità fenomenica, ma della vo-
lontà per se stessa, in cui sta la radice dell'infelicità, e nell'indifferenza estatica
è conseguita la pace.
Nonostante questo radicale irrazionalismo, Schopenhauer - come He-
gel - è pur figlio di Kant, e accetta il dogma fondamentale del pensiero
moderno, il concetto monistico della realtà : (e questo passare attraverso il pen -
siero moderno deve particolarmente dar valore alla sua critica delVimmanen *
tismo idealistico ). Ma del pensiero moderno ritiene gli elementi che esso si
trova ad aver comuni con la più antica tradizione filosofica e religiosa del-
l'umanità: che - come vedremo - di Kant non accoglie in fondo che il

tutti gli spiriti, siano essi seguaci od avversari, diviene il nuovo concetto della vita ».
Non occorre dire che solo dal punto di vista storico, - s'intende - noi accettiamo, in
massima, l'interpretazione del pensiero moderno data dall'idealismo attuale: il quale
questo movimento, come il suo movimento, ha penetrato molto bene e nella quale in-
terpretazione anzi crediamo stia il suo merito principale.
(1) Cfr. : E. Caro, La maladie du pessimisme au dix'tieuvième siècle : II, L'ecole
pessimiste en Allemagne , son influence, son avenir : in: « Revue des deux mondes »,
fase. Io dicembre 1877, pp. 482-83.
(2) « Mentre Schleiermacher propugna un ottimismo idealistico, crede allo svolgi-
mento della ragione attraverso alla natura e alla storia, così come Hegel, Schopenhauer
occupa nel complesso del pensiero europeo un posto assolutamente unico, poiché egli
rompe con la presupposizione fondamentale dell'armonia dell'esistenza » (A. HOEFFDING,
Op. cit.f vol. II, p. 202).

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fenomenismo» e vuota il monismo moderno di ogni razionalità: onde il suo


monismo non è panteistico - come in Spinoza o in Hegel - ma ateo. Figlio
del pensiero moderno, adunque, perchè prende le mosse da Kant e si mantiene
neirambito del monismo; ma il maggior critico del pensiero e della civiltà
moderna, in quanto mette spietatamente in luce tutta la infinita miseria di que-
sto nostro mondo, che il pensiero moderno afferma e la moderna civiltà adora
come divino. Anzi ad essi contrappone una opposta concezione del mondo e
della vita, che dall'India a Platone fino al Cristianesimo ha sempre accompa-
gnato i tragici destini dell'umanità. Non meschinamente figlio del suo tempo
allora - come non voleva esser figlio del suo popolo - ma cittadino del
mondo ; e dunque erede della sapienza umana, dell'esperienza universale, (che
è un altro pregio delV opera sua). E così non sarà compreso dal suo tempo, da
quella civiltà moderna, che egli sferza a sangue, e per il cui bigottismo pan-
teistico e fariseismo ottimistico il suo sistema fu scandalo e stoltezza. Ne per
il suo tempo scriverà, ma per lontani posteri più umani e meno umanisti,
anche al prezzo dell'oscurità e della sfortuna filosofica, cui i contemporanei,
più che mai soddisfatti del presente e preoccupati dei beni di quaggiù, lo con-
dannarono fin quasi al finir della vita (i).
Certamente l'avversione irreducibile e la critica feroce di Schopenhauer
contro Hegel (e Fichte e Schelling) ebbe anche dei motivi contingenti e per-
sonali : Hegel difatti teneva felicemente lo scettro del reame filosofico in Ger-
mania (e fuori), dava norma alla filosofia, formava i filosofi, distribuiva le cat-
tedre, e anche morto i discepoli lo venerarono come una divinità. Tantoché
Heine ci descrive nei suoi Reisebilder come « nel caravanserraglio dotto di Ber-
lino, i cammelli si raccolgono attorno alla fontana della saggezza hegeliana,
s'inginocchiano, ricevono sul loro dorso gli otri preziosi e s'incamminano di là
attraverso i deserti di sabbia del Brandeburgo ». Ë il giorno della morte di
Hegel, tra i discepoli raccolti intorno alla sua tomba, Marheinecke - un teo-
logo - ne fece questo modesto elogio : « simile a Gesù Cristo, la cui magglior
gloria fu d'averlo preceduto sulla terra, egli è tornato alla sua vera patria ed è
morto per risuscitare e regnare » (2). Schopenhauer invece - pieno l'animo di
amore alla verità e desideroso di far opera di redenzione - resta oscuro e sco-
nosciuto, senza seguaci, senza discepoli, nella stessa città, nella stessa università
dove il suo rivale trionfava, straniero al suo tempo quanto quello ne era esal-
tato. Non si deve però dimenticare come in Hegel, Schopenhauer in fondo do-
veva scorgere - e criticare - la pratica manifestazione, la coerente applicazio-
ne, le tristi conseguenze di una concezione immanentistica e umanistica della
realtà e della vita - come doveva vedere una connessione tra il filosofico otti-
mismo dell'inviso Leibniz e la sua mondana attività. Una volta concepito questo

(1) Per maggiori particolari sull'ambiente filosofico storicistico (specie Fichte, Schei'
ling, Hegel) in opposizione alla concezione pessimistica e ascetica di Schopenhauer, cfr. :
A. Covom, La vita e il pensiero di A. Schopenhauer , Bocca, Torino, 1910, p. 86 e segg.
e 132 e segg.
(2) Cfr.: A. Foucher DE Careil, Hegel et Schopenhauer, Études sur la philosophie
allemande moderne depuis Kant jusqu'à nos jours, Paris, Hachette, 1862, pp. 13 e 147.

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nostro mondo come divino» e posto dunque quaggiù l'ideale supremo della vita,
era naturale che gli interessi mondani acquistassero, più o meno, un'import
tanza assoluta : individuali, famigliari e sopratutto politici. Che nello stato, He*
gel, naturalmente, vede la più perfetta manifestazione, la più alta incarnazione
dello Spirito assoluto, Dio sulla terra. Era, fatalmente, la rovina, il livellamento,
il capovolgimento dei valori spirituali, morali, religiosi. « Il divenire reale è
progredire, è sforzo verso un fine; senza di ciò non sarebbe possibile distin-
zione di bene e di male, di vero e di falso. Ma se, come Hegel vuole, la realtà
è l'assoluta manifestazione dello spirito e tutto in essa è razionale e perfetto,
donde la distinzione di valore? Bene e male, vero e falso sono soltanto più
distinzioni interne, che scompaiono dal punto di vista dell'assoluto ». « Quindi
non deve recare meraviglia se Hegel, quando si tratta di proporre un oggetto
vero e concreto alla venerazione religiosa, non può additarci altro che lo Sta-
to » ; come Comte « non sa porre alla venerazione religiosa altro oggetto se
non quel così poco venerabile essere che è l'umanità ». Ma « una religione
senza fondamento trascendente è una vana parola: il principio d'ogni anima
religiosa si riassume in fondo, come Schopenhauer dice, in questa semplice
professione di fede: io credo in una realtà trascendente. Tutti i tentativi di
tradurre questa aspirazione verso il trascendente in qualche cosa di umano e
di finito hanno lo stesso valore dei tentativi di derivare la legge morale dal
piacere o dall'interesse: la filosofia conferma qui la credenza secolare dell'u-
manità, che il termine di tutte le nostre aspirazioni, come la legge della nostra
vita, sono al di là della vita » (i).
Il razionalismo e l'ottimismo fu criticato e sferzato anche prima di Scho-
penhauer: Bossuet e Fenélon hanno confutato Leibniz e Malebranche in nome
della fede e della ragione, sopratutto con argomenti teologici; Voltaire nel
Candide - e nello scritto sul disastro di Lisbona - ha fatto la satira dell'ot-
timismo. Ma nessuno così efficacemente come Schopenhauer, perchè nessuno
ha così profondamente penetrato e svelato, così concretamente analizzato e
descritto la infinita miseria della vita umana e i vani sogni della civiltà e del
progresso. Il razionalismo e l'ottimismo rinascerà anche dopo Schopenhauer:
ma egli ha colpito al cuore e ha dato il colpo di grazia alla sua più classica
espressione, all'umanesimo e immanentismo hegeliano, che anche per inte-
riore logico contrasto andrà poi sfacendosi (2); mentre i fatti smentivano e de-
molivano le utopie (politiche) romantiche - come sarà di tutte le folli speranze

(1) Cfr. : P. Martinetti, La filosofia religiosa dell* hegelianismo, in Op. cit,, pp. 153,
160 e segg. Cfr. pure nello stesso volume: Il compito della filosofia nell'ora pre -
sente (p. 76), ove il Martinetti afferma che l'idealismo immanente non sarebbe altro
che un adattamento della concezione idealistica alle tendenze naturalistiche, empiriche,
onde il mondo spirituale, in cui noi viviamo, è qualcosa di assoluto, la vita non è un*2-
scesa verso una realtà più alta, ma un corso perenne sempre rinnovato e in fondo sem-
pre uguale.
(2) È noto come - sulla via della sua storica dissoluzione - il razionalismo hege*
liano si scindesse nella cosidetta destra , di cui gli uomini più eminenti furono Göschel,
Rosenkranz e J. E. Erdmann, e nella cosidetta sinistra , rappresentata da D. F. Strauss
e L. Feuerbach, nel campo della filosofia religiosa, da A. Ruge, C. Marx e F. Lassalle,

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di un eden sopra la terra. Si potrà non accettare la soluzione che Schopenhauer


dà del problema del male, ma la posizione concreta che ne fa rimane - pres-
sochè - intatta. Anche staccate dall'insieme del suo sistema, le sue ori-
ginali osservazioni e profonde considerazioni sulla miseria dell'uomo nel
mondo - natura, spirito, famiglia, patria, umanità, civiltà, ecc. - costituiranno
sempre uno dei tesori dell'umanità pensante, e più che mai l'incalzeranno a
cercai veramente la soluzione del problema della vita in una trascendente
realtà: (e questo crediamo sia un pregio ancora dell'opera sua). L'opera di
Schopenhauer - dice l'Eucken (Op. cit., pp. 486-88) - «è una legittima e
vigorosa reazione contro l'ottimismo e l'entusiasmo per la coltura, che caratte-
rizzano il razionalismo e l'umanesimo tedesco, anzi tutta l'età moderna... Ed
egli ha per se il pieno senso della verità, quando mette in luce su tutta la li-
nea l'elemento irrazionale del mondo... Qui il comodo ottimismo razionalistico
ha ricevuto, sul terreno della filosofia, una ferita mortale; qui è stata definiti-
vamente eliminata dalla filosofia la tendenza a rappresentarsi con facili super-
ficialità il mondo e la vita umana come qualche cosa di piano e di eccellente...
Ma Schopenhauer rappresenta una reazione, non solo contro stati fuggevoli di
un'epoca, bensì contro la corrente principale della cultura moderna, e come
tale non sarà tanto presto superato ». Al che possiamo aggiungere la concorde
testimonianza dell'Hoeffding (Op. cit., vol. II, p. 224). « La energia e la
libertà di spirito con cui Schopenhauer mise a nudo le disarmarne ed i lati
oscuri della natura e della civiltà fecero entrare il problema apprezzativo in
una fase interamente nuova. Certo dopo di lui non sarebbe più così facile
attenuare i fatti, metter nell'ombra i problemi, come si amava un tempo.
Queste ha la sua grande importanza teoretica e pratica » (1).
Dunque il valore dell'opera di Schopenhauer starebbe nella spietata cri-
tica, onde egli ha crivellato il razionalismo e l'ottimismo (assoluto) in genere,

nel campo della filosofia giuridico-sociale. La prima conservatrice e tendente a conciliare


la filosofia del maestro con la fede tradizionale; la seconda rivoluzionaria, negatrice della
religione - facente appello alla concretezza, all'esperienza, come il positivismo - ma
assai più importante nello svolgimento del pensiero. Però, nella sua critica radicale del-
l'hegelismo classico, quest'ultima corrente manterrà fede al grande dogma hegeliano
dello sviluppo storico, continuando a credere ottimisticamente - sia pure dal suo punto
di vista - a quella vita e a quel progresso, cui Schopenhauer dall'alto del suo pessimi-
smo irrideva. Tanto poderosa era stata la spinta di Hegel in questo senso.
(1) Lo stesso hegelianizzante J. ROYCE, dopo aver sostenuto che Hegel supera il
' pessimismo di Schopenhauer, dialettizzando il male che questi descrive da maestro,
pure ammette che « in realtà, la vita finita è tragica, quasi precisamente quanto la rap-
presentò Schopenhauer, e tragica per la stessa ragione che Schopenhauer e tutti i con-
sigliatori di rinuncia non si stancano mai di esprimere, in quanto cioè è inesplicabile e
senza requie » ( Op . cit., vol. I» p. 340). E G. SiMMEL ( Schopenhūeur e Nietzsche,
trad, dal tedesco ed introd. di G. PERTICONE, Paravia, Milano, 191 3, cap. II e III,
pp. 27 e 47): « Questo dogma della ragione, considerata come la sostanza più profonda
dell'uomo, è stato abbattuto da Schopenhauer. - Di fronte alla posizione di Hegel:
che tutto il reale è razionale, Schopenhauer sosterrebbe che tutto il reale è irrazionale:
l'uno ha presente il contenuto del reale, l'altro la realtà del contenuto, il fatto dell'es-
sere, impenetrabile dalla ragione ».

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LAMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

ma specialmente il razionalismo e l'ottimismo immanentistico moderno -


dottrina del successo glorificato. E se egli non ha potuto superare l'assurda
posizione dell'irrazionalismo e del pessimismo assoluto, onde tenta risolvere
il problema del mondo e della vita, questo si deve - logicamente - alla con*
cezione monistica della realtà, che è l'anima del pensiero moderno, e di cui
egli non ha saputo liberarsi, nel suo passaggio critico attraverso il pensiero
moderno stesso. Che, una volta affermata la reale esistenza del male - di
centro per esempio ad un panteismo acosmistico, tipo Spinoza - e negata la
sua dialettizzazione nel bene - di contro per esempio ad un panteismo im*
manentistico, tipo Hegel - ; e d'altra parte concepita la realtà come una:
questa necessariamente non può essere che irrazionale. In un sistema moni*
-stico, immanentistico, non c'è veramente posto pel Razionale, pel Logo, per Id'
dio: onde il panteismo è un assurdo, una menzogna, la giustificazione d'ogni
immoralità - come ben nota Schopenhauer: (il che pensiamo sia un ulteriore
pregio dell* opera sua) (i). In una concezione immanentistica della realtà -
espressione estrema di ogni monismo - l'intelletto non può trovare nel mondo
la causa, la ragione del. mondo, e deve finire più o meno in una forma di irra"
zionalismo. Così - dal punto di vista pratico - la volontà nel mondo non ri'
trova mai la sua meta e la sua pace, e necessariamente finisce in qualche forma
di pessimismo. Tant'è vero che il motivo fondamentale dell'assoluto pessimi'
smo di Schopenhauer, sta nel fatto che la volontà una non può voler che se
stessa, e in questo volere senza oggetto adeguato e senza tregua sta la sua
tragicità infinita. Dice il Royce (Op. cit. , vol. I, pag. 337) : « Questo incessante
sforzarsi sarebbe tollerabile, se esistesse un bene supremo cui potessi raggiun*
gere col volere, e se, una volta raggiuntolo, potessi fermarmi. Ma se la volontà
costruisce il mondo ed è l'intera ed unica essenza di esso, allora nulla v'è nel
mondo di più profondo che la brama, il moto incessante, che è lo stesso noe*
ciolo di ogni volere. Non apparisce forse tragico questo moto incessante? ».
Noi diremmo altrettanto di una riduzione del reale al divenire dell'idea (2). Ma

(1) A questo riguardo, si vedano, p. e., i capp. XLVII e L dei Supplementi al Mondo
come volontà e rappresentazione (lib. 40) e pure il cap. V del 20 voi. dei Parerga und
Paralipomena (Qualche parola sul panteismo ). Nella Quadruplice radice del principio
di ragion sufficiente, par. 8° (A. SCHOPENHAUER, Sämtliche Werke , herausgegeben von
E. GRIESEBACH, dritte Auflage, Leipzig, Reclam, vol. III, p. 26), a proposito del pantei-
smo di Spinoza, Schopenhauer nota che Dio può esser concepito solo come essenziale
mente distinto dal mondo. « Poiché è una simile causa dell'universo, con in più la per-
sonalità, che designa la parola Dio, usata onestamente. Viceversa, un Dio impersonale è
una contradictio in adjecto ». E nella Volontà nella natura (ediz. Griescbach» cit.,
vol. III, p. 328) insiste su questo pensiero, notando come « agli intelligenti e perspicaci
filosofi dello scorso secolo (XVIII) non è mai passato per la mente di non considerare
Spinoza come un ateo, per il fatto che egli chiama Dio il mondo; la scoperta ch'egli
non fosse ateo era riservata ai filosofi da burla dei nostri giorni, i quali non badano
che alle parole ».
(2) La necessità per un monismo volontaristico - come qùello di Schopenhauer -
di concludere al pessimismo e all'irrazionalismo, è ammessa pure da G. SlMMEL (Op. cit.,
cap. III, pp. 43*44), se pure egli affermi che da una tale conseguenza si salverebbe un
monismo intellettualistico - come quello di Spinoza. Ma illogicamente, crediamo, perche

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poiché Passoluto pessimismo è assurdo come lo scetticismo assoluto, vi dovrà


pur essere una soluzione al problema della vita fuori e sopra di ogni conce-
zione monistica. E lo stesso Schopenhauer ci insegna che l'assoluto nullismo
è impossibile, non tanto per le sue intime persistenti platoniche speranze in
un'altra vita, quanto per la sua medesima dottrina dell'ascesi, onde la volontà
compie uno sforzo supremo, e dunque supremamente si afferma, anziché ri-
nunciare a se stessa ed annullarsi.
Questa soluzione precisamente si trova in quella concezione razionalistica,
dualistica, realistica, che, affermatasi in Grecia per opera di Platone e più di
Aristotile, nel Cristianesimo è stata perfetta per virtù di S. Agostino e più
di S. Tommaso. Per cui il male è reale (il mondo è malvagio), ma non neces-
sario, assoluto, anzi libero (peccato originale), ed è dialettizzabile, ma dall'As-
soluto trascendente fattosi immanente (Incarnazione), e in vista dell'Assoluto
trascendente stesso (rinuncia, ascetismo, follia della Croce). Anche questo ra-
zionalismo e questo ottimismo Schopenhauer involge nella sua critica, ma in-
sciente egli ne veniva ad appianare la via: direttamente per la sua critica a
quell'ottimismo immanentistico - che è l'anima del pensiero e della civiltà
moderna - e indirettamente per la sua (assurda) affermazione di assoluto pes-
simismo, cui non resta altra soluzione ragionevole che nel teismo cristiano, il
quale così più profondamente si impone.


★ ★

Si è detto che Schopenhauer è figlio del pensiero moderno, particolar-


mente di Kant, ma per ribellarsi al pensiero moderno, per farne la critica -
specie a! suo razionalismo e al suo ottimismo immanentistico - appellandosi
per ciò alle più profonde e legittime esigenze dello spirito, alle più antiche e
venerande tradizioni dell'umanità. Non figlio allora del pensiero moderno,
anzi fìgliuol prodigo, e cittadino del mondo. Il che meglio risulterà da un ra^
pido esame delle svariate fonti del suo pensiero; le quali però, se furono de-
terminanti di lui, furono alla lor volta da lui determinate; la sua fondamentale
intuizione pessimistica della virtù trovò in esse la propria obbiettivazione, la
propria sistemazione. - Anzitutto, il sistema di Schopenhauer può essere così
definito: per quanto concerne il problema gnoseologico, un idealismo subietti-
vistico, fenomenistico, che viene superato, risolto, mediante una forma di intuì -
gionismo, per cui lo spirito attinge la realtà assoluta; per quanto riguarda il
problema metafisico, un monismo irrazionalistico, perchè l'essere assoluto è

non vi e differenza essenziale tra un volere senza fine, e un conoscere senza principio
- da cui non può salvarsi nemmeno il panlogismo trascendente, una volta ridotto alla
forma estrema e rigorosa del panlogismo immanentistico. Dice adunque lo Simmel:
« Dove la varietà delle apparenze si raccoglie in una unità trascendente, ivi domina una
pace divina,, come in Spinoza, o un'estetica armonia, come in Schelling. Il tragico della
filosofia di Schopenhauer è in questo: che l'unità fondamentale di tutto Tessere rappre-
senta dal lato formale l'assenza di ogni lacerante opposizione, mentre, per la sua deter-
minazione interiore come volontà, porta con se dualismo, inquietudine, insoddisfazione ».

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L'AMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

volontà pura, che perciò vuole senza un fine; per quanto spetta infine al pro-
blema morale, un pessimismo assoluto e dunque un radicale ascetismo , onde
10 spirito possa da questa dolorosa esistenza liberarsi e posare nella pace del
nirwana. - Le fonti di tale complesso sistema sono parecchie, ma principale
mente tre - su cui pure insiste lo stesso Schopenhauer: e cioè Kant, Platone
e il pensiero dell'India. « Confesso - egli dice infatti - che io non credo, che
la mia dottrina sarebbe mai potuta sorgere, prima che le Upanischad, Platone
e Kant avessero, nello stesso tempo, versato i loro raggi nello spirito di un
uomo. Ma certamente stavano, come dice Diderot, molte colonne innalzate, e
11 sole splendeva su tutte; pure solo la colonna di Meninone risuonava » (i).
Colui che iniziò il giovane Schopenhaeur al kantismo, fu Gottlob-Ernest
Schulze, lo scettico autore del YEnesidemo, quando quegli si iscrisse (1809) alla
Università di Gottinga, ove questi appunto professava filosofia . E, precisa"
mente, lo Schulze consigliò Schopenhaeur di studiare anzitutto Kant e Pia-
tone, e di aggiungervi in seguito Spinoza ed Aristotele* Schopenhauer di-
fatti lesse, studiò e meditò lungamente Kant, che conobbe profondamente, si
assimilò e per cui nutrì sempre una grande ammirazione. Onde si può dire che
la formulazione della sua gnoseologia (fenomenistica) è per la massima parte
kantiana, come appare dai suoi scritti particolarmente consacrati a questo pro-
blema ( Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente e il primo libro
del Mondo come volontà e rappresentazione, con i Supplementi corrispondenti).
Questo però non impedì alla sua grande autonomia spirituale di criticare fran-
camente Kant, di opporsi anzi a lui in questioni fondamentali, specie nel campo
della metafisica e dell'etica, come risulta particolarmente dall'Appendice al-
l'opera sua principale (Critica della filosofia kantiana)t nonché dalla prima
parte (cap. III) del Fondamento della morale (2). Schopenhaeur accetta anzitutto
l'idealismo kantiano: « Die Welt ist meine Vorstellung ». Un idealismo feno-
menismo, subbiettivistico (non platonico), che lasciava aperta la via ad una
concezione monistica (antitrascendente) della realtà. E difatti a Kant attribuisce
il merito principale di avere col suo idealismo rovinato per sempre Yingenuo
realismo e il teismo scolastico, facendo allo spirito umano una specie di opera-
zione della cattaratta; criticando nello stesso tempo - come gli idealisti im-
manentisti suoi avversari - l'illogico postulato di una trascendente cosa in se.
Onde, la concezione monistica della realtà non attingerà direttamente da Kant
- sebbene quel pensiero dovesse logicamente sfociarvi - ma, rimanendo per
ora nell'ambito della filosofia moderna, piuttosto da Spinoza, come gli stessi
idealisti razionalisti, suoi avversari. Alla cui gnoseologia concettualistica Scho-
penhauer opporrà tuttavia una gnoseologia intuizionistica - come al loro ra-
zionalismo metafisico e ottimismo morale opporrà l'irrazionalismo e il pessimi-

(1) Cfr. : A. Schopenhauer, Handschriftlicher Nachlass , herausgegeben von E. Grie^


SEBACH, terza edizione, Reclam, Lipsia: Vol. IV ( Neue Paralipomena)t cap. 22o (Ueber
sich selbst) , p. 343.
(2) Intorno alla discussione schopenhaueriana del kantismo si veda pure il saggio
intitolato: Ancora qualche schiarimento sulla filosofia kantiana , nei Fragmente Zur Ge*
schichte der Philosophie (Parerga und Paralipomena , tomo I, par. 13o).

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smo assoluto - avendo egli respinta tutta la teoria della conoscenza intelligibile
kantiana, e attribuito airintuizione sensibile un valore intellettuale (intuizione
intellettuale , che avrebbe fatto inorridire Kant); e pure ad un'altra superiore
intuizione affidata la conoscenza dell'assoluto, e non ad una pura astratta ra*
gione, ccme Kant pretendeva dovesse - se gnoseologicamente possibile -
costruirsi la metafisica (i).
Onde, di tutta la Critica della ragion pura , si può dire che Schopenhauer
ritiene, completandola, solo Y Estetica trascendentale , con la dottrina della sog"
gettività delle forme di tempo e spazio (che, con l'aggiunta della causalità, co-
stituiscono il famoso principio di ragione , di individuazione ), per la sua gno-
seologia intuizionistica appunto» Mentre rifiuta la Logica trascendentale -
analitica e dialettica - e con essa quindi la dottrina centrale kantiana della
sintesi a priorif concettuale, e l'idealismo assoluto che logicamente ne dipende,
nonostante che Schopenhauer lo giudichi" una deviazione da Kant, di cui valo-
rizza piuttosto gli elementi empiristici. Dal fondamentale intuizionismo di Scho-
penhauer pure deriva la scarsissima simpatia di lui per la corrente razionali-
stica, ontologistica prekantiana (Cartesio, Spinoza, Malebranche, Leibnitz), e la
sua simpatia invece per la corrente empiristica, sensistica (Bacone, Locke, Ber-
keley, Hume), in cui vede i veri precursori - sia pur incompiuti - di Kant:
mentre ci sembra certa - come abbiamo cercato dimostrare più sopra - la
natura complementare delle due correnti rispetto al pensiero kantiano: e anzi,
per enucleare la metafisica dall'idealismo, sarebbe stata necessaria - se mai -
la spinta (monistica) venuta da Spinoza. Schopenhauer riconosce all'indirizzo
cartesiano il merito di aver modernamente posto il problema gnoseologico e
iniziatane una soluzione idealistica, ma l'accusa di aver continuato tut-
tavia a postulare una realtà trascendente, intelligibile. Riconosce i residui
dualistici dell'empirismo, ma ne ammira lo sforzo a risolvere (concretamente)
nel soggetto l'oggetto della conoscenza, aprendo così la via maestra a Kant.
Locke crede ancora alla realtà delle qualità primarie , ma riduce le qualità se-
condarie a pure affezioni dei sensi; Berkeley va fino in fondo, e afferma l'iden-
tità assoluta del soggetto e dell'oggetto (esse est percipi ), facendosi così il vero
iniziatore dell'idealismo, di un idealismo però empirico, non critico (non di-
stingue nella rappresentazione la forma dalla materia); sarà Hume il quale

(i) « Io dico, al contrario (di Kant): gli oggetti sono, anzitutto, oggetto dell'intuii
zione, non del pensiero, e ogni conoscenza di oggetti è, originariamente ed in se, intui*
zione, ma l'intuizione non è punto una semplice sensazione; al contrario, è già nell'in-
tuizione che si manifesta l'attività dell'intelletto. Il pensiero, privilegio esclusivo del-
l'uomo, il pensiero, negato agli animali, non è che semplice astrazione, astrazione
ricavata dall'intuizione; esso non dà alcuna conoscenza veramente nuova, non porta
avanti a noi degli oggetti che prima non c'erano, ma si limita a mutare la forma della
conoscenza, della conoscenza che era già cominciata grazie all'iutuizione; esso trasforma
questa conoscenza in una conoscenza di concetti, in una conoscenza astratta: per conse-
guenza la conoscenza perde il suo carattere intuitivo, ma diventa possibile sottometterla
a delle combinazioni ed estendere così indefinitamente la sfera delle sue possibili appli-
cazioni ». Cfr. : Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung , edizione Griese-
bach cit., vol. I, p. 605 (Appendce: Critica della filosofia kantiana ).

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L'AMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

rivolgerà la sua critica alle leggi che collegano i fenomeni (principio di causa)t
di cui mostra la soggettività, ma riducendolo alla soggettività inferiore della
pura sensibilità. In conclusione, Schopenhauer giudica il razionalismo e Tenv
pirismo da un punto di vista monistico - come gli idealisti suoi avversari
- ma, a differenza di costoro, le sue simpatie vanno alla corrente empiristica,
per l'importanza - gnoseologica, metafisica e morale - data alla sensibilità
e negata alla ragione.
Questa la posizione di Schopenhauer di fronte alla gnoseologia kantiana,
alla Critica della ragione pura . Vediamo ora la sua posizione di fronte alla
morale (e alla metafisica) di Kant, alla Critica della ragion pratica . Egli accetta
la dottrina kantiana del primato della ragion pratica, ma non nel senso che
per l'azione morale, meramente formale, intelligibile, razionale, l'uomo è in*
trodotto nel dominio del puro intelligibile appunto, creduto la realtà assoluta,
trascendente; sibbene nel senso che col primato, coll'assolutezza della ragion
pratica, dell'azione morale - e dunque del volere sul conoscere - Kant
avrebbe oscuramente riconosciuto che la volontà è precisamente l'essenza del
reale, la cosa in se, e così dato lo spunto alla metafisica schopenhaueriana.
Viene pertanto francamente rigettato il carattere puro, intelligibile, razionale
dell'azione morale (imperativo categorico), e affermatone il carattere intuitivo,
concreto, sentimentale : una morale che si fondi su astratti precetti è altrettanto
inefficace come è vuota una dottrina che muova da puri concetti, e finirebbe
allo stesso tempo nell'egoismo, di cui Kant aveva orrore, e in quel disumano
rigorismo - negatore d'ogni sentimento - che lo stesso Kant ha dovuto alla
fine illogicamente rinnegare con i famosi postulati della ragion pratica: onde
riappare esplicitamente il dualismo della precedente metafisica, di cui egli aveva
intrapreso la demolizione nella Critica della ragion pura (i). Della Critica della
ragion pratica Schopenhauer dunque ammette ancor meno della Critica della
ragion pura , appunto pel carattere maggiormente astratto, razionalistico, in*
tellettualistico di questa seconda opera kantiana, che doveva singolarmente
contrastare con il suo fondamentale intuizionismo: da quella il primato della
volontà, da questa l'idealismo fenomenistico (2).

(1) A proposito della riapparizionc della teologia - che Kant credeva di aver eli'
minato per sempre - alla fine del sistema di lui, Schopenhauer fa una spiritosa ossero
vazione, come gli capita di frequente. Sembra vedere - egli dice - un marito scappato
dal nido, per correre a un ballo mascherato in carnevale, intrigare tutta la notte con una
attraente sconosciuta nascosta sotto un domino - sconosciuta nella quale, al togliersi
della maschera verso l'aurora, egli riconoscerà senz'altro la propria moglie!
(2) Possiamo così riassumere i meriti principali che Schopenhauer attribuisce a Kant e
- dunque - gli elementi che ne accetta: 1) affermazione che il mondo è rappresentazio'
ne, di contro al realismo scolastico (idealismo fenomenistico); 2) distinzione tra fenomeno
e noumeno, apparenza e realtà, di contro all'idealismo assoluto; 3) posizione del carattere
noumenico della volontà, per la dottrina del primato della ragion pratica. Viceversa cri'
tica e rifiuta Kant specialmente nei punti seguenti: 1) cosa in sè trascendente, intelligi*
bile, e relativa metafisica platonica, pura: onde impossibilità della metafisica (la quale
viceversa diventerebbe possibile, concependo la cosa in sè come immanente e intuibile);
2) conseguente separazione e svalutazione del senso, passivo, ma che pure ci dà la con'
cretezza dell'intuizione, di fronte all'intelletto, attivo, ma che non ci fornisce che

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UMBERTO A. PADOVANI

Il complemento» il correttivo del quale Schopenhauer ritroverà nell'intui-


zionismo idealistico di Platone, l'altra delle sue grandi fonti: per la cui dot-
trina delle idee completerà la sua gnoseologia, spingerà innanzi la sua meta-
fisica, e costruirà la sua estetica - per non dir nulla della sua etica, dall'asce-
tismo platonico certamente influenzata. La dottrina platonica dell'intuizione
delle idee difatti aiuterà Schopenhauer a trovar una via d'uscita dal mondo
fenomenico, in cui la conoscenza umana vera e propria era stata chiusa da
Kant come in un anello di ferro, e il varco al mondo di quella cosa in se, che
Schopenhauer non si contenta di affermare, ma vuol conoscere, onde poter
risolvere il problema della vita e l'enigma dell'esistenza. Per questa cono-
scenza - non astratta, ma intuitiva - per questa intuizione - non sensibile,
ma intelligibile - lo spirito apprende direttamente le idee , obbiettivazioni im-
mediate - non fenomeniche come le cose singole - della volontà, e dunque
gli si rivela la volontà stessa, la cosa in se. Tra gli esseri singoli, le idee e la
Volontà vi è nel sistema di Schopenhauer pressapoco lo stesso rapporto meta-
fisico che nel sistema di Platone intercorre tra le cose, le idee, e l'idea del Bene.
Con una duplice differenza però. Che per Platone le cose, le idee, e il bene sono
ontologicamente trascendenti l'un l'altro, laddove Schopenhauer afferma una
radicale concezione monistica della realtà: solo la volontà assolutamente sussi-
ste : le idee e le cose non esistono per se, ma unicamente, se pure diversamente,
in quanto concretazioni, determinazioni dell'unica volontà, nell'unica volontà.
Onde l'altra differenza: che le idee nel sistema di Schopenhauer - come in
quello di Schelling - vengono a compiere, tra la volontà e le cose, quella
funzione di generi, di forze, di principi attivi, che nel sistema realistico e dua-
listico di Platone non possono compiere.
Dunque, in fondo, non è che l'intuizionismo che Schopenhauer riceve da
Platone: onde, oltre alla gnoseologia platonica - integratrice di quella kan-
tiana - sopratutto quell'estetica, che egli svolge nel III libro dell'opera sua
principale. Nella quale riconosce che il bello è l'intuizione o l'espressione del-
l'idea nel sensibile, nelle opere della natura o dello spirito: e dunque al bello
riconosce una realtà non solamente formale ma pure di contenuto; e dunque
proclama la sua capacità liberatrice dal mondo fenomenico; e dunque afferma
essere l'arte più presso alla filosofia che non la scienza - imprigionata, più o
meno, per la soggettività dei suoi principi (di ragione, di individuazione) nel
mutevole mondo dei fenomeni. Pel resto, della filosofia di Platone, in cui e nel
cui fenomenismo-dualismo e conseguente ascetismo-misticismo riconosce il
vertice del pensiero greco, Schopenhauer trascura - come Kant - l' eie-

vuoti schemi concettuali; 3) oscurità, pedanteria, contraddizioni. Ora - quanto alla


critica positiva - se l'idealismo è elemento vitale nel pensiero di Kant, non egualmente
la distinzione tra fenomeno e noumeno, che anzi rovina la sintesi a priori, centrale in
quel pensiero stesso. E - quanto alla critica negativa - se sono giuste, internamente al
sistema, le osservazioni di Schopenhauer al dualismo kantiano (noumeno trascendente, in-
telligibile e fenomeno; metafisica agnostica e sapere scientifico; intelletto e senso), la
dualità deve esser logicamente superata per via razionale (sintesi a priori) e non irrazionale
(intuizione interiore), proprio secondo lo spirito di Kant, il quale ha validamente dimo-
strato come la conoscenza interiore sia identica a quella esteriore.

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LAMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

mento fondamentale, metafisico, ossia il realismo razionalismo del Videa: svol"


gimento e superamento del concetto socratico puramente mentale in una realtà
ontologica, la quale a sua volta da Aristotele sarà fatta immanente alle cose
come forma, e da Tommaso d'Aquino resa perfetta nel sistema scolastico me-
diante il concetto di creazione (i). Onde le fonti filosofiche della sua metafisica
(e della sua etica) non dipendono da Platone, come non derivano da Kant:
bensì, come vedremo, da quel pensiero indiano - bramanico e buddistico -
con cui Kant e Platone avevano in comune il fenomenismo, e in più i principi
di una dottrina monistica (e ascetica) che Schopenhauer assumerà integral-
mente di lì, e che costituirà - il monismo e non l'ascetismo - l'elemento prin-
cipale onde egli si accorda col pensiero moderno (2).
Schopenhauer fu introdotto nel sacro Oriente, fu iniziato al pensiero in-
diano dall'orientalista Federico Majer - un amico di Goethe - a Weimar, nel
1813, quando aveva ventisei anni* Allora l'India aveva cominciato ad invadere
l'Europa, e quella civiltà spirituale e ascetica esercitava un fascino sempre
crescente su questa nostra civiltà moderna materiale e mondana. Tanto che
Schopenhauer pensa che l'influsso della letteratura sanscrita sarà non meno
profondo e notevole, che, nel cinquecento, la rinascenza della letteratura greca;
ed è, viceversa, persuaso che l'India non si lascerà tanto facilmente convertire
dai mercanti di Bibbie inglesi o dai pietisti tedeschi (3). Ma immenso fu il fa-
scino e l'influsso che il pensiero indiano - bramanico e buddistico - massima-
mente preoccupato dal problema del dolore, esercitò man mano sopra di lui,
pel quale la soluzione di quel problema rappresentava il negozio più impor-
tante della vita. Onde studiò con intelletto d'amore e con lunga perseveranza

(1) Cfr. : Parerga und Paralipomena , Fragmente Zur Geschichte der Philosophie , So-
krates, Plato, Aristoteles, Die Scholastik (ed. Griesebach cit., vol. IV, pp. 57-69 e 83-84),
dove Schopenhauer accusa Aristotile - di contro Platone - di esser superficiale, empi'
rico, specie nella metafisica, e con lui la Scolastica che ne dipende.
(2) Dice bene A. Dietrich nella prefazione alla sua versione schopenhaueriana :
Philosophie et science de la nature (dai Parerga und Paralipomena), Alean, Paris, 191 1,
p. 25: « Egli adopera le forme del pensiero kantiano, per situare storicamente le sue
idee di contrasto tra l'apparenza e la realtà. In Platone vede anzitutto il filosofo mistico
che rilegò la realtà in un mondo trascendente, formante l'antitesi delle scene cangianti
dell'esistenza terrestre. Kant e Platone gli servono semplicemente, in somma, a rischia-
rare il suo spirito; essi gli forniscono l'impalcatura sulla quale egli poggia il suo sistema,
il canevaccio che serve di trama al suo pensiero ».
(3) Secondo questo spirito schopenhaueriano, PAOLO Masson-Oursel, in un saggio
intitolato: L'insegnamento che può derivare dalla conoscenza dell'India l'Europa con *
temporanea , e pubblicato nel Fünfzehntes Jahrbuch der Schopenhauer+Gesellschaft für
das Jahr 1928 (Winter, Heidelberg, 1928, p. 41), scrive: « L'India ci dà una lezione di
spiritualità... Essa maledice l'egoismo dell'individuo e quello delle nazioni. Quest'ultimo,
ai suoi occhi, è la causa dell'indebolimento dell'Europa, il cui prestigio è tanto diminuito
nel mondo dopov la guerra. La nostra esaltazione della forza materiale, il nosJtro culto
del vitello d'oro ci discreditano nel giudizio degli Orientali, sempre persuasi che i più
grandi valori sono d'ordine spirituale... Ora, di esserci fatti meno cristiani l'India non
ci sa per nulla grado, anzi al contrario: niente ci oppone tanto ad essa che lo spirito
laico, per cui noi perdiamo il senso religioso ».

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UMBERTO A. PADOVANI

i libri sacri dell'India, particolarmente le Upanischad (i) ivi riconosce la


fonte - o Pantecedente - principale del suo sistema, e perfino dall'Oriente
fa dipendere gli altri due suoi princpali maestri: Platone, attraverso l'Orfismo,
e Kant, attraverso Spinoza. In quelle dottrine egli ritrovava il fenomenismo
comune a Platone e a Kant (Maia); e poi il monismo, che aveva certo in co-
mune col pensiero moderno, ma - per la natura acosmistica e antimmanen-
tistica che assume in lui - è più di marca orientale; sopra tutto però quel pes-
simismo e quell'ascetismo assoluto, che sarà l'anima della sua filosofia e che è
di origine caratteristicamente indiana (2). Nel pensiero indiano adunque la
fonte principale del suo sistema: non nel senso di una dottrina bell'e formata,
ma di intuizioni isolate : « poiché io potrei dire - nota Schopenhauer - se
ciò non fosse troppo orgoglioso, che tra le affermazioni isolate che ci presen-
tano le Upanischad, non ve ne ha una che non risulti, come una conseguenza
facile a dedursi dal pensiero che esporrò, benché questo viceversa non si trovi
ancora nelle Upanischad » (3). E a chi gli movesse rimprovero di aver posto la
fonte principale del suo sistema negli incunabili dell'umanità, in armonia alla
sua concezione della storia egli risponderebbe che la verità può trovarsi subito,
anche a principio, per mezzo di spiriti eminenti; e che di fatti è apparsa nel-
l'India - sia pure in forma ancora asistematica - l'espressione più alta cui si

(1) Le Upanischad sono dei trattati filosofico-morali redatti dai Bramani, e vengono
considerati come un complemento dei Veda . Anquetil-Duperron, già celebre per aver re-
suscitato la lingua di Zoroastro e il Zend-Avesta, aveva potuto tradurre in latino (1801-2),
sotto il titolo ďOupnekhat - id est Secretum tegendum - e da una versione parsi,
cinquanta delle più belle Upanischad . È questo il libro di predilezione, il manuale di
pietà usato da Schopenhauer, la sua « bibbia », la « consolazione della sua vita e della
sua morte », come dice egli stesso.
(2) Dice bene Th. Ruyssen nel suo bel volume su Schopenhauer (Paris, Alean,
191 1; nella collana Les grands philosophes ; p. 155 - cfr. pure pp. 1 13-14): « Se si
confronta da vicino la prima edizione del Mondo con la dissertazione sulla Ragion suf -
fícente, non si può non esser colpiti da questa constatazione che, eccezion fatta per la
dottrina delle idee, la quale è d'origine platonica, tutti i temi nuovi aggiunti dalla
grande opera del 1818 alla tesi del 1813 si ritrovano nei Veda, nelle Oupanischad o nella
dottrina buddistica » : anche se l'intuizione pessimistica fondamentale sia originaria in
Schopenhauer. Difatti, una nota della prima edizione del Mondo (cfr. ediz. GRIESEBACH
cit., vol. I, pp. 497^98) ci informa delle varie letture indianiste da cui Schopenhauer ha
tratto partito, dal 1814 al 1818. Anzitutto YOupnekhat, tradotto da Anquetil Duperron
(Strasburgo, 1801-1802, 2 voli.); poi VAsiastischer Magasin di Klaproth (Weimar, 1802,
2 voli.); la Mythologie des Indous, travaillée sur des manuscrits authentiques exportés de
Vlnde par le colonel de Polier, di Madame de Polier (Rudolstadt, 1899, 2 voll.); e le Insti -
tustes of Hindu'Law, or the Ordinances of Menu, tradotte da W. Jones, nella versione
tedesca dell'Hiittner (Weimar, 1802, 2 voli.); infine la grande raccolta Asiatic Resear -
ches, inaugurata a Londra nel 1806. Ma anche dopo egli non cesserà di mantenersi al
corrente dell'indianismo, come ne fa testimonianza la seconda edizione del Mondo ed i
Parerga . La sua biblioteca, quando morì, non comprendeva meno di ottanta opere con*
sacrate alle dottrine dell'Oriente, ed alcune molto recenti, come il Manual of Buddhism
di Spence Hardy (Londra, 1853), e ü Nirvana indien d'Obry (Amiens, 1856). Una lunga
bibliografia sul Buddismo Schopenhauer dà pure in una nota della Volontà nella na-
tura, capitolo Sinologia (cfr. ediz. Griesebach cit., vol. III, pp. 326-27).
(3) Cfr. prefazione alla Ia edizione del Mondo come volontà e rappresentazione (ediz.
Griesebach cit., vol. I, p. 13).

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L'AMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

sia elevata la saggezza umana. Se ora vogliamo considerare più da vicino la


parte avuta rispettivamente dal Bramanesimo e dal Buddismo nella forma"
zione del sistema di Schopenhauer, dobbiamo notare che dal primo egli ha
attinto - oltre agli elementi pessimistici ed ascetici, comuni al pensiero indiano
- più specialmente il monismo e dunque più specialmente la sua metafisica;
laddove dal secondo egli ha preso sopratutto il suo radicale pessimismo ed asce-
tismo, e dunque sopratutto la sua morale, ma pure il suo ateismo metafisico e la
concezione del desiderio come principio generatore del mondo fenomenico. L'a-
teismo certo ravvicina Schopenhauer più al monismo indiano che al moderno,
il quale è panteistico; mentre il suo volontarismo metafisico lo ravvicina di
più al pensiero moderno che all'indiano, perchè per quello la volontà genera-
trice delle cose ha una realtà metafisica appunto, per questo il desiderio crea-
tore del mondo fenomenico è anch'esso illusione.
Comunque, lo spirito pessimistico e ascetico della dottrina di Schopen-
hauer è indiano e particolarmente buddistico. Per convincersene, basta un
breve raffronto tra il sistema di lui e le quattro sante verità sul dolore, enun-
ciate dal Buddha nel famoso discorso di Benares. Dice la prima verità : « Ecco,
o monaci, la verità sublime intorno al dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia
è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l'unione con quelli che non
si amano è dolore, la separazione da quelli che si amano è dolore, non otte-
nere quello che si desidera è dolore: breve, i cinque aggregati della perce-
zione sono dolore ». È la constatazione, che Schopenhauer svolgerà ampiamente
e approfondirà insuperabilmente, sulla universalità del dolore e la tragicità
dell'esistenza; è la posizione del massimo problema della vita. Dice la seconda
verità : « Ecco, o monaci, la sublime verità intorno all'origine del dolore.
Causa del dolore è la sete dell'esistenza, la sete del piacere, la sete della po-
tenza. È la gioia unita all'attaccamento o alla passione, che ci fa cercare il pia-
cere e desiderare il prolungamento e l'ingrandimento dell'esistenza ». È la so-
luzione teoretica del problema del dolore, il quale è concepito come causato
dal desiderio - prodotto dall'ignoranza e produttore della realtà fenomenica -
che Schopenhauer erigerà in volontà metafisica. Dice la terza verità : « Ecco la
verità intorno alla soppressione del dolore. Questa si ottiene estinguendo la
sete predetta, annientando il desiderio, cacciandolo lungi da noi, emancipan-
dosene, non lasciandogli posto alcuno ». È la soluzione pratica del problema
del dolore, che si estingue estinguendo il desiderio, si vince colla rinuncia alla
vita, e su cui Schopenhauer erigerà tutta la sua morale, che è perciò nello
stesso tempo eudemonistica e ascetica. Dice la quarta verità : « Ecco la verità
sublime intorno alla via che conduce alla liberazione dal dolore: questa è la
via sacra dalle otto diramazioni che si chiamano: fede pura, volontà pura,
linguaggio puro, azione pura, mezzi di esistenza piyi, applicazione pura, me-
moria pura, meditazione pura». È la concretazione della precedente verità:
le azioni morali hanno pienamente un valore, si giustificano assolutamente in
quanto mortificatrici dell'egoismo, del desiderio, della volontà di vivere, catar-
tiche, e dunque via alla liberazione dall'esistenza, alla suprema pace - bud-
distica e schopenhaueriana - del Nirwana .

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Ed il Buddha fu veramente considerata la divinità redentrice, da Scho-


penhauer - « ciò che il crocifisso è pei cristiani ». Ci racconta il suo discepolo
Carlo Baehr, che egli possedeva e venerava una statuetta preziosa del Buddha,
e che, interrogato dal Baehr stesso sull'atteggiamento di mendicante in che
era foggiata la statua, Schopenhauer gli narrò la leggenda del Buddha con una
ispirazione tale, che egli non dimenticò mai più. Sì, diceva egli, il Buddha
mendica , il Buddha è un mendicante. Oh! è bella la leggenda che racconta
come fu condotto alla salvezza. Allevato in una dimora reale, vasta e sontuosa,
egli ne sorte per la prima volta nel suo ventesimo anno, e si trova di fronte alla
più splendida natura che possa essere dispiegata davanti gli sguardi di un
uomo. È stupefatto e confessa che resistenza è bella. Ma ecco un vegliardo
dalla testa tremante (e Schopenhauer imitava il gesto), che si avanza verso
di lui, e che sembra dirgli: « Guardami! Tutto ciò è nulla! » Il principe co-
sternato chiede ad uno dei suoi compagni : « Che è mai questo? - È la vec-
chiezza, principe: noi diventeremo tutti così». Il viaggio continua, e si fa
incontro un malato che si trascina sul ciglio della strada. Il Buddha chiede
alle persone del suo seguito: «Anche questo può colpirci?». Gli rispondono
che sì. Il corteo s'avanza ancora. Si vede passare una bara, sulla quale è ada*
giato un morto. Il Buddha non ha mai visto un uomo in questo stato; è spa-
ventato, e chiede con voce tremante se tutti gli uomini diventeranno così. I
suoi compagni si stringono nelle spalle. « Nessuno sfugge alla morte », di*
chiara Tuno di essi. « Che dici mai? - grida il Buddha - ; se la nostra esi-
stenza conduce alla vecchiaia, alla malattia, alla morte, che cosa siamo noi?
Io non voglio più vivere così; io voglio separarmi da voi, andare nel deserto e
meditare ». Arrivato nel deserto, congeda anche Punico servo che aveva te-
nuto, e mette in libertà il suo cavallo, dicendogli: «Tu pure sarai salvato un
giorno ». Quindi muta le sue vesti con quelle di un mendico, e passa il resto
dei suoi giorni nella meditazione e nell'astinenza (i).
Ecco adunque le principali fonti della dottrina di Schopenhauer: Kant
e Platone per la gnoseologia, per la forma del sistema; il pensiero indiano -
braman ico e buddistico - per la metafisica e la morale, per il contenuto del
sistema stesso. « Mistica ed atea ad un tempo - dice finemente il conte Fou-
cher de Careil (Op. cit., p. 358) di questa dottrina - ma di un misticismo
quintessenziale e raffinato, ove il Bouddha e non il Cristo presiede al funesto
imeneo dell'anima con il nulla, essa retrocede fino all'India panteista per tro-
varvi dei modelli di vita e dei fratelli da amare, come se la nostra Europa non
offrisse una materia abbastanza degna alle nostre virtù ». Tuttavia non si
può negare che pure il Cristianesimo ha avuto sul sistema di Schopenhauer
un'influenza notevolissima e originale - anche se egli pretende trovarne le
radici nell'India, come di Platone e di Kant - cosicché nessuna delle grandi
correnti spirituali dell'umanità è rimasta estranea al suo pensiero. Anzitutto
per il profondo - se non assoluto - pessimismo ed ascetismo onde il Cristia-

(1) Cfr. : Gespräche und Briefwechsel mit Arthur Schopenhauer , aus dem Nachlasse
von Karl Baehr, herausgegeben von Ludwig Schemann, Leipzig, Brockhaus, 1894,
pp. 16-17.

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L'AMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

nesimo si manifesta, sicché doveva naturalmente incontrare le simpatie di


Schopenhauer - il Cattolicesimo, sopra tutto; in secando luogo per alcune
speciali teorie che si trovano nel sistema di lui e che egli non poteva attingere
altrove*
È certo che il pessimismo - e l'ascetismo - è coevo di questa nostra pò*
vera umanità, più o meno seguace di ogni civiltà, accentuantesi anzi col pro-
gredire di essa. Lo ritroviamo nello stesso mondo classico, greco, razionalista
e sereno, negli stessi sommi rappresentanti di quel pensiero* Eduardo von
Hartmann - il maggior discepolo filosofico di Schopenhauer - nota un passo
del V Apologia, ove Platone gli fornisce un'immagine espressiva per l'afferma-
zione fondamentale del pessimismo. « Se la morte è la privazione di ogni
sentimento, un sonino senza alcun sogno, qual meraviglioso bene non è mai il
morire! Difatti, scelga chiunque una notte così passata in un sonno profondo,
non turbato da alcun sogno, e paragoni tale notte con tutte le notti e tutti i
giorni che hanno riempito l'intero corso della sua vita : consideri e dica in co-
scienza quanti giorni e quante notti nella sua vita sono stati più felici e più
dolci di quella: io sono persuaso che non solamente un semplice privato, ma
lo stesso gran re di Persia ne troverebbe un numero ben piccolo e che sarebbe
facile contare». E il già ricordato Caro aggiunge: «Aristotile ha rimarcato,
con una penetrante giustezza, che vi è una specie di melanconia la quale sem-
bra essere il retaggio del genio. Egli tratta la questione dal punto di vista fisio-
logico; ma non si può dire, da un altro punto di vista, completando il suo
pensiero, che l'altezza cui s'eleva il genio umano non serve che a mostrargli
più chiaramente e in più vasti orizzonti la fatuità degli uomini e la miseria
della vita? » (i). Tuttavia bisogna riconoscere che tali intuizioni, tali sentimenti
sono abbastanza rari, accidentali nel mondo classico, greco e romano - meno
che al suo tramontare - poiché domina in genere l'ottimismo, un ottimismo
empirico, il quale non trascende i beni terreni, sieno pure i più elevati, la pa-
tria o l'arte o la filosofia. E lo stesso Israele, che pur aveva gli elementi per una
diversa concezione della vita, e in Giobbe e nell'Ecclesiaste acquisterà coscienza
profonda della vanità di questa nostra esistenza, troppo spesso cerca la sua
felicità sopra la terra : « Onorate coi vostri beni il Signore, e offritegli le pri-
mizie di tutti i vostri frutti; ed allora i vostri granai saranno pieni di biade e
i vostri pressatoi rigurgiteranno di vino » - come si legge nei Proverbi, III,
9-10. Cosicché fuori dell'India - che ne ha dato una soluzione negativa, as-
surda - solo il Cristianesimo ha veramente sentito, e risolto, il problema del
dolore. All'ottimismo classico succederà il pessimismo: sia pure empirico e non
metafisico - come quello buddistico - perchè il pessimismo cristiano è irrag-
giato di speranze eterne.
« Vi è nel cristianesimo - dice ancora il Caro, Op. cit., pp. 246-47,
avendo particolarmente presenti Pascal e De Maistre - un aspetto cupo, dei
dogm; formidabili, uno spirito d'austerità, di rinuncia, d'ascetismo anzi, che

(1) Cfr. : E. Caro, La maladie du pessimisme au dix-neuvième siècle , I: Un pré -


courseur de Schopenhauer , Leopardi , in: « Revue des deux mondes », 15 novembre
1877, p. 244-

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non rappresenta certo tutta la religione, ma però una parte essenziale» un eie-
mento radicale e primitivo, avanti le attenuazioni e gli emendamenti che vi
apportano di continuo le compiacenze dell'io naturale o l'affievolimento della
fede... La natura umana svelata e schernita, la perversità radicale messa a nudo,
l'incapacità assoluta delle nostre miserabili facoltà per il vero e per il beine
(il che veramente è giansenismo, come sembra riconoscere lo stesso Autore),
il 'bisogno di distrazione per questo povero cuore che vuole sfuggire a se stesso
e alPidea della morte, agitantesi nel vuoto, e sopra tuttociò il pensiero per-
petu o del peccato originale che incombe su quest'anima angosciata con le sue
conseguenze più estreme e più dure, la visione continua e quasi sensibile del-
l'inferno, il piccol numero degli eletti, l'impossibilità della salvezza senza la
grazia - e quale grazia! non solo la grazia sufficiente , che non basta - infine
questo spirito di mortificazione senza pietà, questo disprezzo della carne, questo
terrore del mondo, la rinuncia a tutto ciò che dà valore alla vita, un simile
quadro, estratto dalle Provinciali e dai Pensieri, doveva piacere al futuro autore
del Bruto minore e de la Ginestra , nelle sue tetre meditazioni di Recanati ».
iE nemmeno Schopenhauer poteva restar insensibile a queste suggestioni di
dolore, sordo a queste voci di pianto: e si inchina al Cristianesimo. E se
accetta anche le correnti eterodosse, purché ascetiche e mistiche, ha una ra-
dicale avversione - egli protestante - per il Protestantesimo razionalista e
mondano - come per il Giudaismo ottimista e utilitario - cui antepone il
Cattolicesimo classico, ascetico e mistico. Onde giudicava che i pastori sposati,
eruditi, comodi, fossero quel che si voglia, tranne dei cristiani degni di portare
questo nome glorioso; e viceversa avrebbe apprezzato grandemente verso la
fine della sua vita le compiacenze di certi cattolici a suo riguardo, poiché vi
avrebbe visto la prova della sua autentica filiazione cristiana.
Schopenhauer venerava la figura del Cristo, redentore per la Croce, e
meditava gli Evangeli, onde era stata capovolta l'ottimistica morale ellenica;
ammirava la rigorosa e pessimistica dottrina di Agostino sulla grazia e la prede-
stinazione, e Francesco d'Assisi, che egli giudicava il Buddha dell'Occidente;
era tutto penetrato dalla lettura della vita di S. Elisabetta d'Ungheria, scritta
dal conte di Montalembert, e da quella, scritta da Chateaubriand, dell'abate di
Rancè, suo eroe favorito in ascesi (i); ed era pure colpito dalla figura di Te-
resa di Gesù, che moriva per non poter morire, e di Pascal, che aveva così
profondamente inteso la vanità di tutte le cose. Ma accanto agli asceti e mistici
ortodossi, asceti e mistici eterodossi fino al penteismo: neoplatonici, gnostici,
giansenisti, quietisti, da Scoto Erigena, madame Guyon, Miguel de Molinos,
a Jacob Boehme, Bruno e Spinoza. E questo perchè Schopenhauer del Cristian
nesimo assume in fondo solo la posizione - pessimistica - e non la soluzione
- teistica e sovranaturale - del problema della vita. Onde i suoi dogmi prin-
cipali interpreta secondo quel simbolismo proprio della filosofia religiosa

(i) L'abate di Rancè è senza dubbio una grande espressione del profondo pessimi*
smo ed ascetismo cristiano: proprio tra gli splendori dell'alta società del secolo di Re
Sole. Intorno a lui cfr. la recente monografia di A. Cherel, Rancè , Flammarion, Paris,
1930 (Les grands coeurs ).

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moderna - come Spinoza, Kant e anche Hegel - pur valorizzandoli da un


opposto punto di vista. Egli anzitutto valorizza ed interpreta il dogma del
peccato originale, per la concezione pessimistica della vita umana che da esso
discende (dopo il peccato il mondo è diventato il regno di Satana contro il
regno di Dio). All'origine dell'esistenza empirica, della vita fenomenica sta un
fatto irrazionale, una caduta originale, perchè il mondo è lotta, male, dolore.
Solo che, mentre il Cristianesimo pone la caduta nell'uomo, per la sua conce"
zione teistica, Schopenhauer, per la sua concezione monistica della realtà, la
pane nell'Assoluto stesso. Alla valorizzazione del dogma del peccato originale
doveva necessariamente seguire la valorizzazione del dogma della redenzione.
La liberazione dal male, dal dolore, dal peccato si attua attraverso la mortifica^
zione e la rinuncia, perchè dalla concupiscenza, dal desiderio, dal voler vivere
dipende ogni miseria umana. Solo che la redenzione non è cristianamente con^
cepita come trascendente e divina opera di Cristo, ma buddisticamente confi'
data all'uomo, alla volontà immanente, come ascetica imitazione di Cristo.
La lotta tra il peccato originale, che ci incalza all'affermazione della vita, e la
redenzione (per la grazia), che ci sollecita a negare in noi la volontà di vivere,
ecco tutta la dottrina cristiana agli occhi di Schopenhauer. Adamo è il simbolo
dell'affermazione, Gesù quello della negazione; e pure la colpa di uno è il
male degli altri e l'espiazione di uno è la redenzione degli altri, ma per la
monistica unità schopenhaueriana degli esseri; e il Vangelo una sublime para*
boia ad uso del popolo, per concretare questa concezione tutta pessimistica
della vita.
Tuttavia vi è un punto ove Schopenhauer sembra invocare un elemento
reale del Cristianesimo. Per la liberazione è necessaria l'ascesi : ma donde viene
la forza all'ascesi, alla vittoria sulla realtà che è concupiscenza, volontà di
vivere, desiderio fatale? Ci vuole un soccorso straordinario per la conversione
(e la perseveranza), che certo non può venir dall'uomo e dalle sue opere: solo
la fede salva. Qui Schopenhauer pare ricorrere al dogma cristiano della grazia
e della predestinazione, non intesa in senso metaforico, ma in senso proprio:
come una (misteriosa) azione della cosa in sè, della volontà assoluta sull'io
empirico, sulla volontà fenomenica: la quale non è tanto facilmente armoniz^
zabile col suo sistema monista, ateo, volontarista e determinista, ma certo
risponde a intimi bisogni dello spirito umano - come pure Kant aveva
sentito, fino a sacrificare la coerenza logica del suo sistema. Ugualmente sa^
remmo tentati di interpretare positivamente l'ai di là, il nirwana di Scho^
penhauer: non come elemento coerente ad un sistema che fatalmente deve
sfociare nel nullismo, ma come espressione di una profonda esigenza dello spi'
rito di lui, intimamente platonico e mistico - e anche qui un raffronto con
Kant potrebbe essere istruttivo. Bastino ricordare le parole con cui si chiude
l'opera sua fondamentale : « Per coloro i quali la volontà anima ancora, ciò
che resta dopo la soppressione totale della volontà, è effettivamente il nulla.
Ma, al contrario, per coloro i quali hanno convertito e abolito la volontà, è
questo nostro mondo attuale, questo mondo così reale con tutti i suoi soli e
tutte le sue vie lattee, che diviene il nulla ». Cui possono servire di commento

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queste altre parole, scritte dieci anni dopo (1828): «Io credo che la morte
avendo chiuso i nostri occhi, noi entriamo in una luce, di cui il nostro sole
non è che l'ombra » (1). E allora dovremmo dire che per Schopenhauer la
religione, la mistica, il Cristianesimo non poteva essere solo una filosofia sim-
bolica - come il razionalismo pretende - ma pure (e sopratutto) rivelatrice
di quel mando assoluto, cui neppure per lui la filosofia giunge, e che essa
religione dovrebbe esprimere simbolicamente, mitologicamente, con immagini
umane, appunto perchè è superumano e ineffabile (2). Ad ogni modo, se, a dif-
ferenza del razionalismo moderno, egli tien conto sopratutto del lato ascetico
e mistico del Cristianesimo, con lui e più di lui, dato il suo irrazionalismo,
trascura e deprezza, non conosce e non intende, la teologia scolastica, per la
comune avversione alla trascendenza, al teismo cattolico. Onde egli non giu-
dica nel suo giusto valore la filosofia scolastica - che sembra ridurre al pro-
blema degli universali - e ignora S. Tommaso - cui certo non può attri-
buire a merito la feconda e cristiana sintesi dell'odiato teismo (ebraico) col -
non meno odiato - realismo, dualismo greco, aristotelico. Il razionalismo e
l'ottimismo greco, ebraico, scolastico-cristiano egli porrà in fascio con quello
classico moderno, prekantiano e postkantiano, dei tre odiati sofisti, Hegel so-
pratutto, come una corrente sofistica e immorale che si contrappone irreduci-
bilmente all'altra pessimistico-ascetica : India-Platone-Mistica cristiana. Senza
vedere l'abisso che divide i due razionalismi, come quello che separa la tra-
scendenza dall'immanenza, e il primo - per il perfezionamento ricevuto dal
Cristianesimo - riavvicina precisamente alla tradizione pessimistica ascetica e
dunque a lui stesso (3).
Se abbiamo affermato che l'anima del sistema di Schopenhauer è il pessi-
mismo e l'ascetismo, e che dunque le fonti principali del suo pensiero stanno
nell'India (e nel Cristianesimo), con questo non intendiamo confinare il filo-
sofo nell'Oriente antico e nel Medioevo cristiano, tagliandolo fuori dalla cor-

ti) Cfr. : Neue Paralipomena cit., cdiz. Griesebach, cap. IX, p. 185.
(2) Dice E. SeillièrE nel suo penetrante, per quanto breve, saggio su Schopenhauer,
considerato in rapporto al Romanticismo (Paris, Bloud, 191 1): « Non v'è dubbio che
Schopenhauer nato nella Francia del secolo XVII sarebbe stato tra i famigliari di
Arnauld e di Pascal » (p. 156). E conclude: « Arturo Schopenhauer non è che un mi-
stico cristiano che ha rigettato gli impacci del dogma e il peso della disciplina ecclesia-
stica » (p. i68). Similmente il Royce (Op. cit., vol. I, p. 319): « La formula adatta a
Schopenhauer è che il suo pessimismo è semplicemente la dottrina dell'Imitazione con
omessa la gloria di Dio ».
(3) Schopenhauer - come i filosofi moderni in genere - ha un'idea affatto errata
e nutre una cieca avversione per la Scolastica. Bastino questi due luoghi, tratti dalla
Appendice al Mondo come volontà e rappresentazione (Critica della filosofia kantiana ):
sotto il nome di scolastica egli crede di poter « comprendere in blocco tutto il periodo
che comincia a partire da sant'Agostino, Padre della Chiesa, e che termina precisamente
a Kant » (!). « Senza dubbio questa scolastica, una volta arrivata al culmine del suo
sviluppo, ricavò la dimostrazione principale dell'esistenza di Dio dal concetto dell'ens
realisstmum, e non si servì che accessoriamente delle altre prove » : eppure nelle famose
cinque vie di S. Tommaso, la prova ontologica non è compresa - anzi criticata! (cfr.:
Die Welt als Wille und Vorstellung t edizione Griesebach, cit., vol. I, pp. 540 e 646).

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rente del pensiero moderno - egli ricco d'una coltura così universale ed umana.
Senza ripetere che Schopenhauer mantiene del pensiero moderno la concezione
monistica della realtà, fondamentale nel pensiero moderno stesso - anche se
(genericamente) comune colla filosofia indiana - e di questo riconosce un me-
rito particolare a Spinoza» pur per altri motivi avversato; dalla filosofia me
derna assume anche l'idealismo - nel duplice senso che il mondo fenomenico»
estemo, è conoscere e il mondo noumenico, interiore, è volere - e il primato
della volontà; i quali sono pure elementi fondamentali e inoltre caratteristici
della stessa filosofia moderna, nonostantechè un generico idealismo si trovi an-
che in India, e il Buddha concepisca il desiderio quale principio di tutti i feno-
meni, come si è visto.
Kant è certo la radice fondamentale dell'idealismo di Schopenhauer ed
inoltre la radice prima del suo volontarismo : ma questo gli veniva pure da
Fichte e più da Schelling, due dei tre odiati sofisti - di Hegel non è nem-
meno il caso di parlare! Schopenhauer aveva seguito i corsi di Fichte -
come pure di Schleiermacher (i) - all'università di Berlino nel semestre d'in-
verno 1811-12 (sui fatti di coscienza), preso anzi note e discusso con lui (2). Ma,
come l'iniziale simpatia per l'uomo avrebbe dovuto ben presto mutarsi in una
radicale antipatia per l'insegnante oscuro e il pensatore contradditorio, così si
può dire che piuttosto scarsa sia stata l'influenza del pensiero di Fichte su
quello di Schopenhauer. Senza dubbio, l'io di Fichte è volontà, ma questa
volontà, nella sua stessa sorgente, è identica alla ragione e resta, in tutto il
suo sviluppo, illuminata dalla ragione, a differenza della volontà di Scho-
penhauer. Il quale pertanto spiega le somiglianze del suo pensiero col pen-
siero di Fichte - come con quello di Schelling - unicamente per la loro
comune origine da Kant.
Maggior affinità Schopenhauer ha invece con Schelling, che anzi - dei
tre famosi sofisti - è quello che odia meno e che ha studiato di più e per
primo, avanti allo stesso Kant. Egli trovava difatti nella Filosofia della
natura di lui più d'un tema che doveva più tardi svolgere nel suo sistema, e
anzitutto l'idea madre che il fondo dell'essere è volontà - senza dire che le
idee di Schopenhauer, le quali sono altrettanti gradi di obbiettivazione della

(1) Per lo Schleiermacher, Schopenhauer nutrì lo stesso odio che per Fichte, perchè
partecipe della stessa concezione ottimistico-storicistica della realtà, con raggravante di
essere uno di quei teologi protestanti, che volevano accordare il Cristianesimo col mondo
e vivere in armonia col secolo: scrivendo, p. es., alle amiche mondane le Lettere intime
su Lucinda, l'osceno romanzo di F. Schlegel, che il pastore luterano esaltava come il
vangelo del libero amore (cfr. : F. SCHLEIERMACHER, L'amore romantico , Lettere intime
sulla « Lucinde » di F. Schlegel, tradotte da E. De Ferri con introduzione di G. V.
AMORETTI, Laterza, Bari, 1928 * Biblioteca di cultura moderna).
(2) Dice Schopenhauer nella sua autobiografia latina del 1819: « Etiam Fichtium,
philosophiam tradentem suam, diligentissime auscultavi, ut postea justius de ea judi-
cium facere possem: nec non aliquando in eo colloquio, quod cum auditoribus ille ha-
bebat, diu cum eo disputavi, quam quidem disceptationem qui praesentes fuere, fortasse
adhuc meminerunt ». Cfr.: Vitae curriculum Arturii Schopenhauer, nel VI voi.
(p. 258) delle Schopenhauers Werke , a cura di E. Griesebach, cit.

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Volontà» hanno pure qualcosa di analogo alle potente di Schelling. Certo, per
Schelling» la volontà è l'elemento primo delle cose e precede la genesi dell'in-
telletto; ma tende verso l'intelletto come verso il fune che l'attira; è Iddio rea-
lizzante progressivamente tuttociò che racchiude in potenza. Eccoci pertanto
ben lungi dal voler vivere radicalmente cieco di Schopenhauer e» insieme, dal
suo pessimismo. Perchè, se Schelling pensa che la realtà risulti dei due ele-
menti: volontà (inconscia), esistenza da un lato, e ragione (derivata) essenza
dall'altro, come Schopenhauer, per cui il mondo noumenico è volontà irrazio-
nale, e il mondo fenomenico è teleologico, ossia in entrambi i filosofi la volontà
precede la ragione; è certo che la volontà di Schelling si sviluppa nella ragione
e culmina nell'essere divino, laddove la volontà di Schopenhauer, se nella ra-
gione a lei subordinata trova dapprima un mezzo alla sua attuazione fenome-
nica, nella ragione libera, assoluta, trova infine la negazione di se e dell'essere
' in universle. Si potrebbe dire che in ambedue si procede da un primato della
volontà ad un primato dell'intelletto: ma nel primo per prender possesso ra-
zionale della realtà, nel secondo per annientarla. Perchè la filosofia di Schelling
è un monismo ottimista, in cui il dualismo non è che un momento, il male un
accidente; mentre la filosofia di Schopenhouer è un monismo pessimista, in
cui il contrasto, il male è assoluto, e non si supera che con la negazione totale
dell'essere.
Una indiscutibile influenza ha per l'opposto avuto sul sistema di Scho-
penhauer - il che egli stesso afferma, anche se questa influenza si eserciti
piuttosto sopra elementi secondari ed accessori - la moderna scienza natu-
rale, come appare specialmente ne la Volontà nella natura ( Ueber den Wille
in der Natur) sovratutto la fisiologia, come risulta perfino dalla sua dottrina
della conoscenza. Dobbiamo ricordare che all'università di Gottinga egli s'era
da principio fatto iscrivere alla Facoltà di medicina; che, in seguito, sopratutto
a Berlino, ha frequentato il laboratorio dei naturalisti più che le lezioni dei
filosofi. Lesse allora Linneo, Buffon, De Lue, Cuvier, Oken; poscia si terrà
al corrente delle ricerche più recenti, prendendo man mano conoscenza dei
fisiologi della prima metà del sceolo, francesi e inglesi sopratutto: Cabanis,
Bichat, Geoffroy Saint-Hilaire, Magendie, Flourens, Milne-Edwards, Charles
Bell, Marshall Hall (i). Il suo discepolo Frauenstädt ha anzi notato che Scho-

(i) Si cfr. a questo proposito il Ver£eichniss der von Schopenhauer hinterlassen Bi-
bliothek : Naturwissenschaften in Edita und Inedita S chopen haue riana , herausgegeben
von E. Griesebach (Leipzig, Brockhaus, 1888, pp. 161-166). - Per quanto concerne
Schopenhauer e la fisiologia francese, si cfr. Interessante saggio di P. Janet su Scho -
penhauer et la physiologie française : Cabanis et Bichat f in: « Revue de deux mondes », i°
maggio 1880, pp. 35*59» ove l'A., illustrata la grande influenza esercitata sopratutto da
Cabanis e Bichat sul filosofo tedesco, conclude (p. 59): « Questa filosofia, nella sua
parte obbiettiva, può ricondursi a due proposizioni. La prima è che le varie forze della
natura: gravitazione, coesione, affinità, istinto, sono essenzialmente identiche a ciò che
noi abbiamo chiamato volontà. Ora noi abbiamo trovato questa proposizione fondamen-
tale in Cabanis. La seconda è che la volontà è profondamente separata dairintelletto e
che è anteriore allo stesso intelletto; la volontà è la cosa in se, la sostanza che appare
a se stessa soggettivamente sotto forma d'intelletto. Ora, questa seconda dottrina, Scho-
penhauer la ritrova lui stesso nella distinzione delle due vite, la vita organica e la vita

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penhauer avrebbe perfino certi punti in comune con la scuola materialista te-
desea, quella di Moleschott, Liebig, Mulder e Wogt. Per lui un uomo che
pensa senza cervello è altrettanto impossibile come un uomo che digerisce
senza stomaco: come riduce il fenomeno della sensazione ai nervi, così riduce
quello della percezione, del pensiero, al cervello. Però dal materialismo - che
egli profondamente avversava, come il Darwinismo - si distingue per tre
idee fondamentali: Pidea che egli si fa della materia, il suo vitalismo, e la
finalità della natura. La materia per lui non è che una forza, la forza vitale
è il principio della materia, e questa forza ha un fine. Ma sopratutto si distin-
gue pel suo idealismo: sta bene che tutta la vita intellettiva - e l'universo
mondo - dipende dal cervello : però questo, noumenicamente, non è la realtà
assoluta (la quale è la volontà), e, fenomenicamente, è solo una rappresenta-
zione che ne condiziona altre.
La simpatia di Schopenhauer per la scienza - di contro alla metafisica
moderna - ha un riscontro con il suo culto per la classicità - di contro al
Romanticismo dei suoi templ. Ma come, ciononostante, elementi fondamentali
del pensiero moderno furono assunti nella sua sintesi filosofica, così voci ro-
mantiche echeggiano nella organica, classica struttura del suo sistema. È noto
che Schopenhauer ebbe una solida, anche se tardiva, formazione classica:
prima che egli entrasse all'Università, fu principale direttore dei suoi studi a
Weimar, come a Gotha, l'ellenista Franz Passow, più tardi professore nell'U-
niversità di Breslau. Schopenhauer divenne pertanto un classico convinto, nu-
trito di poeti greci e latini - che cita continuamente nelle sue opere: e
scrisse allora sulla prima pagina del suo Omero quell'orazione domenicale in
esametri - che ricorda la preghiera sull'Acropoli di Renan - ove chiede alla
magica lira dell'antico vate la liberazione dalle cure quotidiane e dal tragico
destino di questo mondo ! Così, a Weimar, sentì potentemente l'influsso cias*
sico dell'olimpico Goethe - forse l'unico dei contemporanei che ammira ed
esalta assieme a Kant; come, in genere, subì l'influenza del classicismo dei
suoi prediletti moralisti francesi, fratelli germani dei loro contemporanei e con-
terranei empiristi, a lui non meno cari. Non occorre dire che questa cultura
classica non fu in lui esteriore, retorica, accademica, di maniera, perchè rispon-
deva anch'essa ad una originaria esigenza della sua complessa personalità, e fu
da lui intimamente sentita e vissuta nella sua disciplina e serietà culturale:
onde giovò a lui - come ad altri - per liberarsi dal soggettivismo romantico

animale, che è il fondo del libro di Bichat: è la traduzione fisiologica del suo sistema.
Questo sistema, almeno nella sua parte obbiettiva, ha dunque la sua duplice ragione
nella fisiologia francese ». - E per i rapporti di Schopenhauer con la cultura.. francese in
genere, si veda: A. Baillot, Essai sur les sources françaises de Schopenhauer , in appen*
dice al volume Influence de la philosophie de Schopenhauer en France (1860-1900), Paris,
Vrin, 1927, di cui diamo il sommario: Introduction - Chap. I: Au seuil du XVIIIe
siècle (Bayle, Montesquieu) - Chap. II: Voltaire - Chap. III: J. J. Rousseau -
Chap. IV: Les encyclopédistes (Diderot, Helvétius) - Chap. V: Les moralistes (Vau-
vernargues, Chamfort) - Chap. VI: Savants et naturalistes (Buffon) - Chap. VII: Les
physiologistes (Cabanis, Bichat) - Chap. VIII: La fin du XVIIIe siècle - Conclusion»

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dei primi annit o potenziarlo in una sistematica ed organica concezione della


vita.
Tale il classicismo di Schopenhauer. Più complesso appare invece il pro**
Iblema del suo romanticismo. Ma, anzitutto, che cos'è il Romanticismo? Una
determinazione del Romanticismo in genere non riesce - come è noto - cosa
moko agevole: anzitutto il romanticismo germanico ha differenze notevoli da
quello latino, poi si può dire che ogni gruppo di romantici, e anzi ogni ro^
mantico, si distingue dagli altri, e infine risultano assai vari e numerosi gli
elementi che entrano nella sua orbita. E allora si conclude, psicologisticamente,
che il Romanticismo in genere sarebbe anzitutto uno stato d'animo: sensibi^
lità, passionalità, soggettivismo, individualismo, tumulto, scontento, cui rispon^
derebbe poi un'adeguata forma artistico4etteraria, ugualmente incomposta (i).
Ora il Romanticismo è un soggettivismo psicologico^estetico estremo senza
dubbio: il quale però ha - e deve avere - il suo significato profondo, spe*
culativo. Difatto, se da una determinazione esteriore, empirica, letteraria sa^
liamo ad una interpretazione interiore, dialettica, filosofica, il Romanticismo ci
appare più che uno stato d'animo - o una forma artistica: un contenuto di
pensiero e una concezione della vita, particolarmente presso coloro che ne sono
come la coscienza riflessa: ossia i filosofi di quel complesso movimento cui'
turale.
Un notevole tentativo di determinazione interiore del movimento roman^
tico appare quello di Benedetto Croce, che muove da una critica delle varie
definizioni del Romanticismo, anche se egli tenda a svalutare il Romanticismo
come tale - e specie l'arte romantica - quale incomposto moto di giovi>
nezza, che finisce poi a maturare e risolversi nell'equilibrio ed armonia della
classicità. Comincia a distinguere il Croce i vari aspetti del Romanticismo -
anche se esso debba essere nel fondo un'unità - considerandolo dal punto di
vista dei diversi valori spirituali. Avremo così una definizione morale del Ro^
manticismo: sentimentalismo, dissidio, mal du siècle - una defizione este *
tica : maggior valore dato al contenuto rispetto alla forma, intuizione parziale
mente determinata, opera vaga - una definizione filosofica: valore speciale
dato all'intuizione, alla fantasia, come organo del vero, di contro alla fredda
ragione, all'intelletto astraente - e una definizione politica : la quale non sa^
relbbe altro che la conseguenza del romanticismo filosofico, e come quello
contrassegnato da una forte storicità. « La triplice distinzione, che abbiamo
accennata, giustifica la partizione storica onde il romanticismo si fa coincidere
col periodo che va dalla fine del secolo decimottavo alla metà del seguente; e
giustifica anche l'altra per la quale esso si fa coincidere col germanesimo. Per^
che non si può disconoscere che, e nella civiltà germanica in genere ed m
quella europea del periodo ricordato, si hanno tutte insieme e in grado alto
manifestazioni di romanticismo filosofico (la sintesi a priori di Kant, l'io di
Fichte, l'intuizione intellettuale dello Schelling, l'idea dell'Hegel, la formola
ideale del Gioberti, ecc.; e, politicamente, la Restaurazione, la concezione libe"

(i) Cfr. : A. Farinelli, Il Romanticismo in Germania, Bari, Laterza, 1923; e II Ro-


manticismo nel mondo latino , Bocca, Torino, 1923 (3 voli.).

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rale del progresso dialetticamente ottenuto per antitesi di partiti, il neoguel-


fismo, il realismo politico» ecc.); di romanticismo morale (Werther, Oberman,
René, V enfant du siècle , eco); e di romanticismo artistico , che si mostra nella
frammentarietà di molte opere celebri e nell'incondito di molte altre (Goethe
nel Faust, Novalis, Byron, Schelley, De Musset, ecc.) » (i). All'unità specula-
tiva di questi vari aspetti e al valore positivo del Romanticismo il Croce poi
accenna facendo la storia della storiografia romantica: sarebbe quell'afferma-
zione di concretezza e svolgimento, che caratterizza la storiografia del Ro-
manticismo e diviene un concetto filosofico generale. « È esso il concetto infor-
matore della filosofia idealistica, culminante nel sistema hegeliano » (2). Onde
il secolo XIX fu detto secolo della storia , che dal romanticismo idealistico era
stata fatta centro della realtà e del pensiero.
Questo concetto della civiltà romantica, come concretezza dell'astratta ra-
gione dell'I Iluminismo, accetta fondamentalmente pure il Gentile - e l'idea*
lismo attuale in genere - accentuandone anzi l'unità e la positività : il Roman-
ticismo - nel suo profondo significato - è una concezione integrale, orga-
nica della vita, secondo un umanismo immanentistico, una dottrina del pro*
gresso, dello sviluppo concreto. Il Romanticismo in arte, Yldealismo in filosofia,
il Risorgimento in politica e la Rinascenza cristiana in religione sarebbero tutte
espressioni dello stesso movimento spirituale - idealistico e storicistico - che
il Gentile considera particolarmente in Italia, ma che può esser esteso, come
momento universale dello spirito, a tutti i paesi dell'Europa civile nella prima
metà del secolo XIX, sia pure nella concreta varietà degli atteggiamenti (3).
Interpretazione cui - prescindendo dal punto di vista filosofico onde muove
- noi crediamo fondamentalmente consona alla realtà storica. E allora filosofi
del Romanticismo non sarebbero più solamente Kant, per l'originarietà della
attività dello spirito, e più Fichte, per il suo soggettivismo assoluto, per il suo
Io creatore, e Schelling, per la sua filosofia intuizionistica e fantasia filosofica:
ma, per la sua idealizzazione della realtà, per la sua valorizzazione della sog*
gettività, secondo la dottrina razionale dell'universale concreto e dello sviluppo
storico - fondamentale elemento ispiratore del Romanticismo - pure e so*
pratutto Hegel (4), e i precedenti idealisti, per lo stesso motivo: laddove

(1) B. Croce, Le definizioni del Romanticismo in Problemi di estetica e contributi


alla storia dell* estetica italiana, Bari, Laterza, 1925, p. 294.
(2) B. Croce, Teoria e storia della storiografia , Bari, Laterza, 1920, p. 248.
(3) Cfr. : G. GENTILE, Rosmini e Gioberti , Pisa, Nistri, 1898, p. 67. Cfr. pure dello
stesso: Il carattere storico della filosofia italiana , Bari, Laterza, 1918.
(4) Cfr.: G. Della Volpe, Hegel romantico e mištico (1793-1800), Firenze, Le Mon-
nier, 1929 (Studí filosofici diretti da G. Gentile - Seconda serie - V). L'A. mostra il su-
peramento - specie per quanto riguarda la religione - di un iniziale Illuminismo
(razionalismo, astrattismo) da parte di Hegel (pp. 32-33), mediante una concezione intui-
tiva, concreta, storica (romantica) del reale (pp. 158, 172, 222): la quale resterà come
razionalità vivente anche dopo il periodo presistematico (mistico-romantico) nel suo
classico dialettismo (pp. 206 e 209). Il che non significa abbandono dell'ideale umanistico,
ma anzi una sua più piena attuazione nell'immanentismo. Si cfr. specialmente la conce-
zione hegeliana dello stato etico e della religione razionale , che permarranno fondamentali
nella sistemazione definitiva del suo pensiero. Per il primo punto: superiorità della mon-

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UMBERTO A. PADOVANI

Schopenhauer, con il suo sistema pessimistico ed antiumanistico, ne starebbe


precisamente agli antipodi.
È certo che l'ambiente culturale, ove si compie la formazione spirituale di
Schopenhauer, è l'ambiente del Romanticismo? ed è pure certo che il suo tem*
pera mento era fondamentalmente romantico, come vedremo meglio in seguito;
ed è certo infine che egli respirò abbondantemente in quell'atmosfera, leg'
gendo assai poeti e romanzieri, e frequentando anche gli ambienti romantici,
- per esempio il circolo di Tiek a Dresda (i). Viceversa Schopenhauer dichiara
una spiccata antipatia al Romanticismo, pel suo aspetto ottimistico ed entusia*
sta, cui risponde appunto l'opposizione fondamentale tra il suo sistema pessi*
mistico e i sistemi filosofici romantici in genere. Se caratteristica fondamentale,
principio speculativo del movimento romantico risulta - come si è detto - lo
storicismo, lo sviluppo, Schopenhauer non fu romantico, anzi l'opposto: il suo
radicale pessimismo nega fede al mondo, non crede nel progresso della civiltà
m genere del pensiero filosofico come della vita politica. Con questo non in*
tendiamo negare ogni elemento romantico nella struttura del sistema di Scho*
penhauer - comune anche con l'odiato idealismo immanentistico: che, tolta
l'antitesi ottimismo*pessimismo, anzi molte ispirazioni romantiche rientrano
nella vasta orbita del suo vario pensiero : e precisamente tutto ciò che (non con*
trasta o favorisce il suo fondamentale pessimismo. Dunque, anzitutto, la gno*
seologia romantica intuizionistica: la conoscenza filosofica, dell'assoluto, non è
data dalla ragione astratta, ma da una intuizione (intelligibile) più affine all'in*
tuizione geniale dell'artista che alla conoscenza concettuale dello scienziato.
Difatti per Schopenhauer il noumeno, la cosa in se, si intuisce direttamente
(metafisica), e così pure le idee , che ne sono le obbiettivazioni immediate, non
fenomeniche (arte): il pensiero astratto non fa altro che elaborare, nominalisti*
camente, un dato , senza poterlo trascendere mai: sia esso fornito dal senso iru
terno (noumenico) o dal senso esterno (fenomenico) - sempre per via d'intui*
zione. Di qui l'dmportanza fondamentale assegnata all'arte nel piano del suo
sistema (III libro del M ondo) come - iniziale - rivelatrice dell'assoluto e libe*
ratrice del mondo: la quale è dottrina romantica, anche se Schopenhauer sia
poi lungi dalla arbitrarietà soggettivistica e sopratutto dalla frammentarietà

danità greca sulla extramondanità cristiana, nociva allo stato (pp. 29*30 e 131) - la
chiesa inferiore allo stato (p. 54) - deplorazione che il Cristianesimo, d'origine straniera,
abbia conculcato le religioni nazionali, il Walhalla germanico (p. 59) - il nuovo Dio
cristiano, che prende il posto dello stato, poteva esser accettato solo da una umanità
corrotta, che ha perduta la libertà, creatrice dello stato stesso (p. 65); per il secondo
punto: infelicità della coscienza cristiana, che spregia le gioie del mondo (p. 66) - in*
naturalità e irrealtà del miracolo posta a priori (pp. 70*71 e 186) - la divinità di Cristo
frutto di fantasia della primitiva comunità cristiana (o. 180) - mostruosità dell'ascetica
cristiana, che dipende dal Crocifisso (p. 184).
(1) « Ma egli avea masticato e masticava l'oppio romantico, e la letteratura del do*
lore l'avea preso, sicché il mondo e la realtà gli si presentavano, pur senza ch'egli se ne
avvedesse, sotto un aspetto particolare, quello appunto onde gli si coloravano attraverso
la lente in cui l'occhio guardava ». G. ZUCCANTE, Genesi psicologica d'una dottrina, ossia
frammenti della storia d'un* anima (A. Schopenhauer), in Uomini e dottrine , Paravia,
Torino, 1926, p. 87.

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L'AMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

artistica, così frequente nei romantici (i). E così la morale fondata non sulla
astratta ragione» ma anzi sull'intuizione - dell'unità degli esseri - sul senti-
mento - della compassione - che ugualmente echeggia nel Romanticismo:
anche se Schopenhauer, nella sua vita concreta fortemente ordinata in un si-
stema di rinuncia - per quanto gli fu possibile - sia egualmente lontano
dallo squilibrio sentimentale e disordine morale dei romantici stessi. E poi la
intuizione panteistico-idealistica della realtà - ove lo spirito è creatore: anche
se, naturalmente, presso i romantici artisti e poeti essa rimanga vaga, subbici-
tiva, mistica, estetica; laddove presso Schopenhauer - come gli altri filosofi
del Romanticismo - essa assuma, più o meno, forma determinata, obbiettiva,
filosofia, logica. E, in fine, vari altri elementi: simpatia per la religione, pel
Cattolicesimo, per l'esotico e per l'Oriente; pel sogno, mistero, magia, spiriti-
smo; per la musica e la poesia lugubre e sepolcrale; per le tombe e rovine, so-
litudine e melanconia, ecc.
Viceversa Schopenhauer esclude tutti quegli elementi romantici, che col
suo pessimismo non potevano accordarsi: il culto della natura vivente, che
per i romantici era sede di pace e per lui di guerra; il culto cavalleresco per la
donna, in quanto egli vede dal fondo di essa emergere sopra tutto la femmina;
il culto romantico per la patria - e per i risorgimenti nazionali allora d'attua-
lità - che egli risolve realisticamente nello stato bene organizzato, avente il
compito di servire l'individuo umano; e - sopratutto, come si è detto - il
culto per la umanità, civiltà, progresso, in cui i romantici non cessano di aver
fede, anche se in modo diverso dagli illuministi, e in cui egli invece non crede
affatto. Perciò non condividiamo il giudizio del Meyer, il quale nella sua
classica opera sulla Letteratura tedesca nel secolo decimonono chiama Scho-
penhauer: « Der eigenthliche Philosoph der Romantik » (2). A meno che

(1) « Sicuro del suo processo, Hegel disprezza quel mistico e immediato afferrare
l'Universale, che era stata la caratteristica dei romantici. Ma con questi romantici ap-
punto, Schopenhauer ha in comune l'intuizione immediata, per cui coglie, non tanto
l'io universale, quanto, secondo lui, l'universale e irrazionale essenza o natura che sta
nell'intimo di ciascun io finito di tutte le cose, cioè la Volontà » (J. Royce, Op . cit.,
vol. I, p. 336).
(2) Cfr. : R. M. Meyer, Die deutsche Litteratur des XIX Jahrhunderts , Berlino,
Bondi, 1900 (II edizione), pp. 51-52. Lo stesso J. Volkelt, nel suo fondamentale studio
su A. Schopenhauer , seine Persönlichkeit, seine Lehre, sein Glaube (vierte Auflage -
Frommans - Stuttgart), sebbene affermi che molti e importanti elementi romantici si tro-
vano nel pensiero di Schopenhauer, pure conclude in fine - precisamente contro ň
Meyer - che egli non è il filosofo del Romanticismo, da cui lo dividono vari atteggia*
menti, sopratutto il suo radicale pessimismo, onde si avvicina piuttosto a Byron e Leo-
pardi (cfr. pp. 411-12; cfr. pure pp. 55-56, 84-88, 98-100, 294-96, 313-15 e 409-412 -
ove il Volkelt ritorna sulla questione dei rapporti di Schopenhauer col Romanticismo). E
il Ruyssen ( Op . cit,, p. 105) - dopo aver notato la comune malinconia di Schopenhauer
e dei romantici - conclude intorno al romanticismo di lui: « Infine, se il suo stesso
pessimismo è romantico d'accento, non lo è in teoria; esso è qualcosa di più profondo
e di più logico. Quello dei romantici non è in fondo che un amore scoraggiato della
vita; esso aspira alla voluttà, idealizza la sensualità, vanta i diritti della passione, pone
l'amore su di un altare. Il pessimismo di Schopenhauer è radicale. È la vita stessa
che egli vuole annientare; esso è volontà del nulla ».

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UMBERTO A. PADOVANI

non si distingua dal Romanticismo nel suo complesso - che abbiamo cer-
cato di determinare più sopra - quel suo particolare, anche se importante
aspetto, che è il cosidetto dolore mondiale (Weltschmerz). Legittima rea*
zione ai tragici sogni ottimistici del razionalismo illuministico e rivoluziona*
rio: che noi crediamo rappresentare il vero valore teoretico - se non tutto il
significato storico - del movimento romantico, specie di contro alla volgare
concezione ottimistico-sentimentale; e in Giuseppe De Maistre ne cerchiamo
la prima e più generosa voce ideale; ma che fu Iben presto abbandonata e su*
perata nel nuovo umanesimo immanentistico e storicistico dell'età romantica
stessa (i).
Difatti al nascere e nella prima giovinezza di A. Schopenhauer dominava
in Europa, e specie in Germania, la cosidetta Letteratura del dolore mondiale
(Weltschmezliteratur). Dice il Carlyle a proposito del Werther di Goethe,
Topera iniziale e tipo di quella letteratura : « Il Werther non è che il grido di
quell'affanno profondo, oscuro, in cui languivano tutti i pensatori dell'epoca;
ne dipinge la miseria; vi esprime appassionatamente i lamenti del cuore; e le
voci di tutta Europa gli rispondono alto in una volta. Se la stanchezza della
vita, nel Byron, la sua tetra malinconia, la sua folle tempestosa indignazione,
espresse in versi bizzarri e senz'arte, potevano penetrare sì addentro in tanti
cuori inglesi, ora che la materia non è più nuova, anzi è vecchia e trita, pos*
siamo immaginare con quale trasporto deve essere stato salutato questo Wer *
thert che giungeva come una voce di regioni ignote, primo rintocco di quella
campana da morto, che, di paese in paese, gli orecchi ascoltavano, finche di*
vennero sordi a tutto il resto » (2). Dalla Germania questa letteratura si dif-
fonde in tutta Europa, che già eravi preparata e disposta. E avremo, in Inghil-
terra, le malinconiche Notti dello Jung, i canti tetri e patetici di Ossian, la
poesia mesta e sfiduciata, scettica e beffarda di Byron e di Schelley; in Italia,
le Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, i canti del Leopardi, la prosa e
la poesia dello stesso Manzoni, che è penetrato di un fine ma radicale pessi-

(1) Il pessimismo del conte De Maistre, anche se cristiano nella soluzione che dà
del problema della vita, è radicale ed ha vari aspetti comuni col pessimismo di A. Schox
penhauer, per la posizione del problema stesso. J. Bourdeau (A. SCHOPENHAUER, Pensées
et fragments, Paris, Alean, 1929, p. 75) ricorda questo pensiero del De Maistre, che fa
riscontro all'altro di Schopenhauer, contro l'ottimismo moderno: « Non vi ha che violenza
nell'universo; ma noi siamo rovinati dalla filosofia moderna, la quale ha detto tutto è
bene, mentre che il male ha contaminato ogni cosa, e che in un senso assai vero tutto
è male, perchè niente è al suo posto ». E A. Baillot ( Op . cit,, p. 65 dell'Appendice)
riporta un altro passo dello stesso De Maistre, di sapore assai schopenhaueriano : « Così
si compie senza tregua, dall'insetto fino all'uomo, la grande legge della distruzione vio^
lenta degli esseri viventi. La terra intera, continuamente inzuppata di sangue, non è che
un altare immenso ove tutto ciò che vive deve essere sacrificato senza fine, senza misura,
senza tregua, fino alla consumazione delle cose, fino all'estinzion del male, fino alla morte
della morte ». Si cfr. pure i passi caratteristici e radicali del De Maistre raccolti da D.
Giuliotti nell'Antologia di cattolici francesi del secolo XIX, Carabba, Lanciano, p. 11
e segg.
(2) Cfr. il saggio su Goethe (pubblicato nella « Foreign Review », n. 5, 1828) in: T.
Carlyle, Critical and Miscellaneous Essays, Chapman and Hall, London, vol. I, p. 164.

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L'AMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

mismo, se pur cristiano; e in Francia, la Confession d* un enfant du siècle di A.


de Musset e René del visconte di Chateaubriand, ecc. « Un'aria di pessimi-'
smo, adunque, - conclude G. Zuccante il bel saggio sull'argomento - di
pessimismo tetro, angoscioso - sincero o di maniera, sentito o voluto - gra-
vava su tutta l'Europa, si può dire, al finire del secolo XVIII e al principiare
del XIX. Nessuna meraviglia, perciò, che proprio allora, e in quella Germania
che aveva dato il massimo contingente al pessimismo letterario, sorgesse il
pessimismo come dottrina filosofica per opera di Arturo Schopenhauer» (i).
Di questo Romanticismo certo A. Schopenhauer è il filosofo - perchè ne ha
elevato a sistema le intuizioni immediate - anzi l'unico filosofo, se non il
filosofo ideale. Col Romanticismo propriamente detto, l'elemento principale che
Schopenhauer ha in comune è secondario, formale - la gnoseologia intuizio-
nistica - e se ne trova agli antipodi pel contenuto metafisico ultimo - irra-
zionalismo e pessimismo concreto contro concreto razionalismo e ottimismo -
nonostante il monismo comune. Invero di quel romanticismo del dolore mon-
diale egli ha tutto conservato, anche se ne ha elevato il contenuto a sistema
- nonostante il Croce pretenda che romanticismo sistematico, perfetto, mu-
tisi in classicismo, ossia tra i due non sussista che una differenza formale. Ma
elevandolo a sistema, con ciò stesso lo ha trasferito dall'intuizione al pensiero,
dall'arte alla filosofia.
Al qual proposito non sarà male che. conclusa col Romanticismo la rasse-
gna delle fonti schopenhaueriane, spendiamo qualche parola intorno al Leo-
pardi - il terzo della triade pessimistica Schopenhauer, Buddha, Leopardi -
per sfatare la corrente leggenda di un Leopardi filosofo del pessimismo,
anche se egli ne sia stato una delle maggiori espressioni artistiche, come lo
stesso Schopenhauer pensava, ponendolo accanto a lord Byron (2). La leg-

(1) G. Zuccante, Correnti di letteratura pessimistica al nascere di A. Schopenhauer,


Hoepli, Milano, 1917 (Estratto dai Rendiconti del R. Istituto Lombardo di 5. e L.t vol. L,
fase, ii, p. 438: ma cfr. in generale tutto il saggio).
(2) Schopenhauer chiude con queste paroie in lode di Leopardi il cap. XLVI ( Della
vanità e delle sofferenze della vita) del II voi. (Supplementi ai quattro libri del primo
volume ) del Mondo come volontà e rappresentazione (ediz. Griesebach cit., vol. II,
p. 693): « Nessuno tuttavia non è andato così al fondo del soggetto e non l'ha così
esaurito come ai nostri giorni Leopardi . Egli ne è tutto pieno e penetrato: l'ironia
e la miseria della nostra esistenza, ecco il quadro che egli traccia ad ogni pagina delle
sue opere, ma tuttavia con una tale varietà di forme e di andamenti, con una tale ric-
chezza d'immagini, che, lungi dal suscitare mai la noia, eccita piuttosto ogni volta
l'interesse e l'emozione ». Per quanto concerne i rapporti tra Schopenhauer e Leopardi,
si può dire che non vi fu alcuna influenza reciproca: perchè Leopardi molto probabil-
mente non conobbe l'opera di Schopenhauer, divenuto celebre dopo la morte di lui
nella stessa Germania; e Schopenhauer conobbe tardi l'opera di Leopardi, quando il suo
pensiero era ormai compiuto. A questo proposito cfr.: G. De Lorenzo, Leopardi e Scho -
penhauer , Napoli, Ricciardi, 1923: ove si ricorda come Schopenhauer fu primieramente
informato del Leopardi dal discepolo di lui A. von Doss (1854), il quale giudica il poeta
come buddista e schopenhaueriano, senza saperlo. Però, nonostante la sua ammirazione
e il riconoscimento di grande artista, poeta, e anche di profondo osservatore, pensatore,
pure il Doss esclude che Leopardi sia propriamente filosofo, per la mancanza di un si-
stema - onde poi deriva il suo empirico scetticismo. Egli sarebbe il commentatore poe-

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UMBERTO A. PADOVANI

genda ha un certo fondamento nel fatto che il Leopardi ha contemplato il


dolore nell'universa realtà, e lo ha cantato si può dire in ogni suo aspetto -
nei versi lirici dolenti e specie nella fredda tragica prosa - come dolore mon*
diale. Questa ampiezza, questa universalità, questa profondità dell'opera let'
teraria e poetica leopardiana ha colpito, ed ha tratto in inganno, anche filo*
soii, come per esempio (E. Caro: il quale, in un saggio che abbiamo già avuto
occasione di ricordare, sostiene che Leopardi - a differenza di lord Byron o
del visconte di Chateaubriand - è pure filosofo, e non solo artista, appunto
perchè non considera il puro suo dolore, ma il dolore universale, e fa del do-
lore una legge cosmica e non solo dell'io, anche se non riesce a spiegarlo me^
tafisicamente, a dame un sistema filosofico vero e proprio (i).
Difatti, se noi consideriamo le uniche tre forme possibili di felicità - o
meglio i tre stadi dell'illusione umana - secondo il von Hartmann, Leopardi le
ha scorse e demolite tutte. Ossia la felicità cercata sopra la terra (ricchezze,
piaceri, onori; arte, sapere, azione), come fece specialmente l'antichità clas-
sica; o la felicità cercata nell'oltretomba - quale compenso delle miserie at*
tuali - come è proprio del Cristianesimo; o la felicità cercata nel futuro
mondano (progresso della civiltà, felicità collettiva), che sarebbe la caratteri-
stica dei tempi moderni. Leopardi ha cominciato col perdere e piangere le
speranze dell'immortalità. Come è noto, fino in sui vent'anni - 1818: quando
Schopenhauer faceva il suo primo viaggio in Italia - Leopardi fu credente, e
nel Dio del Cristianesimo trovava la soluzione del problema del dolore che lo
agitò ben presto - nello stesso modo che Schopenhauer era stato in gioventù
platonico, e in un modo trascendente precocemente cercava la soluzione
dello stesso problema. I progetti di Inni cristiani - di quegli anni - conten-
gono fervide, doloranti preghiere a Dio, Cristo, la Vergine, preghiere già di
un pessimista, ma cristiano. « Per l'inno al Redentore. Tu sapevi già tutto ab
eterno, ma permetti alla immaginazione umana che noi ti consideriamo come
più intimo testimonio della nostre miserie. Tu hai provato questa vita nostra,
tu ne hai assaporato il nulla, tu hai veduto il dolore e l'infelicità dell'esser no-
stro ec. ec. Pietà di tanti affanni, pietà di questa povera creatura tua, pietà
dell'uomo infelice, di quello che hai redento, pietà del gener tuo, poiché hai
voluto aver comune la stirpe con noi, esser uomo ancor tu... Per l'inno al
Creatore o al Redentore. Ora vo da speme a speme tutto giorno errando e mi
scordo di te, benché sempre deluso ec. Tempo verrà ch'io non restandomi
altra luce di speranza, altro stato a cui ricorrere, porrò tutta la mia speranza
nella morte: e allora ricorrerò a te ec. abbi allora misericordia ec. A Maria.
È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo, siamo tanto infelici. È

tico, lirico di Schopenhauer, alle cui medesime conclusioni avrebbe fatto capo, partendo
dalla classicità e dallo stoicismo, mentre quello aveva preso le mosse dairOriente e dal
Cristianesimo (v. specialmente le lettere del Doss a Schopenhauer in data 20 febbraio e
28 marzo 1858, e 20 febbraio 1859).
(1) E. Caro, La maladie du pessimisme au dix+neuvieme siècle , I: Un précourseur
de Schopenhauer , Leopardi , cit., in: « Revue des deux mondes », 15 novembre 1877,
p. 250 e segg.

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L'AMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

vero che questa vita e questi mali sono brevi e nulli» ma noi pure siam piccoli
e ci riescono lunghissimi e insopportabili. Tu che sei già grande e sicura» albbi
pietà di tante miserie» ec. » (i). Ma questa realtà trascendente» questa felicità
suprema cessa nell'illusione» quando Leopardi cade nello scetticismo. Non più
speranze d'oltretomba : « ...presso alla culla - immoto siede, e sulla tomba» il
nulla » (Ad Angelo Mai ) : « ...abisso orrido» immenso» - ov'ei precipitando,
il tutto oblia » (Canto di un Pastore errante ). Non più Cristo» non più Dio
in alcun luogo, ma « ...il brutto - poter che» ascoso» a comun danno impera»
- e l'infinita vanità del tutto » (A sè stesso). Alla domanda che F. Ruysch
rivolge alle sue mummie, per brev'ora risuscitate, su quel che segue la morte,
le mummie - dopo averlo soddisfatto per quanto concerne il punto del mo'
rire - ripiombano nel silenzio della morte. Alla domanda dell'islandese alla
Natura perchè l'ha fatto nascere, per poi abbandonarlo al dolore, e qual'è il
suo scopo, quella risponde che il suo scopo è la pura conservazione del mondo
- la vita del quale è un perpetuo circolo di produzione e distruzione - e
non la felicità o infelicità degli uomini. E alla nuova incalzante domanda di
lui : « a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, con"
servata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? », la Na-
tura tragicamente tace, e l'Islandese perisce vittima del bisogno della conser*
vazione e delle forze oscure di lei.
Se l'oltretomba è un sogno, il mondo presente è una triste realtà: tutti
i suoi beni, anco i più nobili, non sono che vanità: la patria, l'amore, la glo*
ria. Leopardi ama la patria, ma nel passato e non crede al suo avvenire: è un
patriota disperato. Si confronti l'ode All'Italia, e ancora Ad Angelo Mai, e sc^
pra tutto il Bruto minore , ove sembra proclamata in universale la follia del'
l'eroismo e la sterilità del patriottismo, che era la fede dell'antichità. Nel poema
eroicomico intitolato Paralipomeni della Batrocomiomachia schernisce triste*
mente e amaramente l'illusione patriottica, che pur aveva fatto battere il suo
cuore, e la redenzione nazionale, vagheggiata ai suoi templ. Quanto alla glc >>
ria, cui pure Leopardi aveva mirato (si confronti per esempio la desolata can*
clusione del Tristano ), nel Panni , ovvero della Gloria, dimostra che essa è dif-
ficile a conseguirsi anche da quelli che ne sono degni, e che è vana anche
quando la si consegue: sicché la gloria, sì povera d'utilità, sì difficile e in*
certa non meno a ritenere che a conseguire, è un'ombra vana. E Y amore?
Si crede il supremo conforto nei molti mali della vita, ma è illusione come il
resto; error beato, lo chiama il poeta, ma cui segue amaro disinganno. Si con*
fronti II risorgimento, Le ricordante, Il pensiero dominante, A se stesso, e
sopratutto Aspasia . La donna non si ama propriamente per sè, ma per un'i-
dea - la bellezza - che si crede incarnare: onde poi il disinganno di fronte
alla realtà - di un essere così fragile, debole, meschino - che incarna così
male l'alto ideale, il quale pure è chimera. Onde l'amore è l'ombra di un onv
bra; onde l'associazione dell'amore e della morte.

(i) Cfr. : G. A. Levi, Inizi romantici e inizi satirici del Leopardi, in: « Giornale critico
della letteratura italiana », fase, aprile-giugno 1929, p. 327.

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Ma ancor più triste del presente è l'avvenire: il progresso non ha fatto


che render l'umanità più infelice» togliendole le dolci illusioni dell'infan*
zia. Se il principio e lo strumento del progresso è il pensiero, ed il pensiero
non serve che ad aumentare la nostra infelicità, rendendocene coscienti, pen*
siero e progresso è un male. Più felici allora dell'uomo le greggi, che il Pastore
errante nell'Asia costudisce - come egli stesso canta in cospetto alla luna -
perchè almeno ignorano le loro miserie! Più felice la Ginestra , che cresce calma
e serena sui fianchi del Vesuvio, sopra la tomba di civiltà sepolte dal vulcano,
anche se la stessa fine la attende, poiché almeno non ha avuto - come gli
uomini - vane speranze d'immortalità! Leopardi ritorce duramente il pen*
siero di Pascal : « Quando l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe sempre
più nolbile di lui, poiché conosce di morire e conosce la superiorità che l'uni*
verso ha sopra di lui. Ma l'universo non sa nulla ». Che è invece la nostra
inferiorità, secondo Leopardi: sapere senza potere. La pianta e l'animale non
conoscono nulla delle loro miserie; noi misuriamo le nostre. E questo dolore
non tende a descrescere nel mondo: anzi, col progresso, ad aumentare. Gli
spiriti più illuminati, più delicati, acquistano solamente maggior capacità di
soffrire; i popoli più civili sono i più infelici. « Qui auget scientiam, auget do*
lorem ». Si confrontino i dialoghi di un Folletto e di un Gnomo , di Timandro
e di Eleandro, di un Venditore d'almanacchi e di un Passeggere, di Tristano
e di un Amico, La scommessa di Prometeo e sopratutto la Storia del genere
umano : dove si vede aumentare - col progredir dell'età - questo amaro
desiderio d'una felicità sconosciuta, che è il tormento umano, perchè essa è
straniera alla natura dell'universo; nonostantechè Giove vada ricolmando gli
uomini di tutti i beni materiali e spirituali, financo dei mali, a loro vantaggio.
L'ultimo e più funesto dono fatto agli uomini fu la verità: perchè la verità
è triste: perchè essa fa crollare le illusioni, che rendono l'esistenza tollerabile,
e le utopie, che la rendono meno ignobile. Perciò la filosofia - di cui la verità
è sostanza - Leopardi pensa che dovrebbe essere tenuta nascosta alla maggio*
ranza degli uomini, per non renderli disperati: benefattore vero dell'umanità
è colui il quale non si fa a illuminarla, ma anzi lascia sussistere quei pregiu*
dizi, che egli conosce falsi, e tuttavia sa essere beate illusioni. Condannata la
filosofia - come è frequente - ha forse Leopardi, il grande filologo, mag*
gior fede nella scienza e nei suoi progressi, quale rimedio ai nostri mali?
No: la scienza del secolo XIX - tanto esaltata - è in regresso per la quan*
tità e per la qualità dei dotti, rispetto al passato. I sapienti sono meno nume*
rosi di due secoli addietro, per lo stesso aumento estensivo del sapere; il quale
è poi più diffuso, ma meno profondo. Il secolo XIX è un secolo di bambini,
anzi di nullità: è il secolo dei giornali, che sempre più superfìcializzano il sa*
pere, della democrazia livellatrice, che uccide la genialità individuale. Dolore
il presente, l'avvenire regresso, illusione la vita futura, non resta che riaffer*
mare «il comun danno e l'infini ta vanità del tutto»; e concludere «nostra
vita a che vai? Solo a spregiarla » : onde, con tristezza, non invidiare altro
che i morti, perchè il nulla vai meglio della vita, di qualunque vita. L'Assoluto
è tenebra, il mondo è male, saggezza suprema la morte!

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LAMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

Senza dubbio Leopardi ha dato un quadro completo del dolore mondiale


- lo ha sentito come legge universale - ha posto» se pure poeticamente, il
problema del dolore. Ma ciò non basta per una filosofia: la quale non è solo
quantità, ma qualità - non solo empirica affermazione, ma deduzione - non
posizione fantastica, estetica, ma positiva, logica, e soluzione dei (mas*
simi) problemi. Al Leopardi, in una parola, manca l'unità logica e il fonda*
mento metafisico del sistema, che è invece la forte caratteristica dello Scho*
penhauer, come lo stesso Caro ammette: e nulla vale far ricorso all'obbiet*
tività della sua esperienza, alPuniversalità delle sue affermazioni, perchè è una
universalità subbiettiva, poetica, tutta colorata della personalità del poeta, che
nel regno della sua fantasia celebra il dramma dell'universo. Onde dice bene
il Croce : « Un Leopardi filosofo è un'invenzione di letterati : quali, di grazia,
le scoperte filosofiche del grandissimo poeta? a quali problemi di logica, di
etica, di filosofia generale o speciale, ha egli legato il suo nome? » (i). E con
lui il Gentile, svolgendo e approfondendo maggiormente lo stesso pensiero:
Leopardi « fu un poeta, un grande, un divino poeta, ma non fu un vero e
proprio filosofo », anche se egli credesse di avere una filosofia. « Egli è che
il poeta, checche si proponga e dica di aver fatto, non espone propriamente
una filosofia : ma esprime soltanto un suo stato d'animo, occupato, determinato
e quasi colorito da certi pensieri dominanti » : tale l'opera leopardiana, ed
anche la prosa è poesia, appunto perchè espressione di stati d'animo del poeta.
Invece « la filosofia vera e propria non deve aver niente dell'anima indivi*
duale di chi la costruisce. Essa è una liberazione assoluta compiuta dal filo-
sofo dai limiti della soggettività ». Il pessimismo leopardiano è pregno di eie*
menti ottimistici, perchè il pensiero di lui è logicamente frammentario e con-
tradditorio, vero segno del suo spirito poetico e non filosofico. E conclude il
Gentile: « Il materialismo della sua metafisica, il sensismo della sua gnoseolo*
già, lo scetticismo finale della sua epistemologia, l'eudemonismo pessimistico
della sua etica... sono spunti filosofici, anzi che principii d'un pensiero sistema*
tico; sono credenze d'uno spirito addolorato, anzi che veri teoremi di un or*
ganismo speculativo. Le sue pretese dimostrazioni non vanno mai al di là del*
l'osservazione empirica; e non servono ad altro che a dirci come vedeva le
cose Giacomo Leopardi ». Il quale no»n ebbe ne passione vera per la specula*
zione, nè soda cultura filosofica : « Egli, conoscitore e studioso dei classici non
si sforzò mai d'intendere il pensiero di Platone e di Aristotele », del medioevo
non studiò nessuna filosofia; e poco e superficialmente del pensiero mo*
derno (2).
In questa critica Croce e Gentile sono stati preceduti - come altre volte
- da F. De Sanctis, che era un letterato, ma un letterato intelligente, col fa*
moso dialogo filosofico Schopenhauer e Leopardi : il quale rappresenta quanto

(1) B. Croce, De Sanctis e Schopenhauer , in Saggio sullo Hegel seguito da altri


scritti di storia della filosofia , Bari, Laterza, 1913t p. 372.
(2) Cfr. : G. Gentile, La filosofia del Leopardi , in Manzoni e Leopardi, Saggi cri-
tici, Milano, Treves, 1928, p. 37 e segg.

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UMBERTO A. PADOVANI

di meglio possieda tuttora la letteratura italiana sul grande filosofo tedesco -


nonostante il De Sanctis dissimuli una malcelata antipatia verso il radicale pes-
simismo di lui; e che fu pure tanto apprezzato dallo Schopenhauer stesso -
nonostante una ricambiata antipatia per il quarantottesco liberalismo e demo-
craticismo desanctisiano (i). Notato che entrambi - Schopenhauer e Leopardi
- affermano l'irrazionalità del reale, sebbene il primo sia naturalista, materia-
lista, ed il secondo spiritualista, idealista, dichiara il De Sanctis : « Leopardi e
Schopenhauer sono una cosa. Quasi nello stesso tempo Tuno creava la meta-
fisica e Tal tro la poesia del dolore. Leopardi vedeva il mondo cosi, e non sa-
peva il perchè. Arcano e il tutto - Fuor che il nostro dolor (ultima canto di
Saffo, 46). Il perchè P ha trovato Schopenhauer con la scoperta del Wille ». E
più avanti : « Leopardi s'incontra ne* punti sostanziali della sua dottrina con
Schopenhauer; ma gli sta di sotto per molti rispetti. Primamente Leopardi è
poeta... [¡Egli non ha] propriamente filosofato: chè a filosofare si richiede
metodo. iE questa è una delle glorie di Schopenhauer ». E lo stesso De Sanctis
ci suggerisce pure un fine argomento a sostegno del subbiettivismo estetico del
Leopardi - anche se lo crede un motivo di lode per lui contro Schopenhauer.
« Leopardi - egli dice - produce Peffetto contrario a quello che si propone^
Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la
fa amare. Chiama illusioni Pamore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto
un desiderio inesausto... È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede pos-
sibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo
amore per quella e t'infiamma a nobili fatti... E se il destino gli avesse pro-
lungata la vita infino al quarantotto, senti che te Pavresti trovato accanto,
confortatore e combattitore ». Infine, quasi dimenticandosi la differenza tra i
due, pocanzi acutamente notata, conclude con una vieta tirata anticlericale:
« Pessimista ed anticosmico, come Schopenhauer, non predica Passurda nega-
zione del Wille, Pinnaturale astensione del cenobita: filosofia dell'ozio che
avi ebbe ridotta l'Europa all'evirata immobilità orientale, se la libertà e Patti*
vità del pensiero non avesse vinto la ferocia domenicana e la scaltrezza gesui-
tica » (2). Ma quale filosofia pessimistica è mai quella, che continua a rimpian-

(1) Non ci risulta che Schopenhauer - pur così ammiratore e conoscitore delle bel-
lezze d'Italia - abbia avuto notizia e si sia interessato del pensiero romantico e idealistico
italiano, tutto teso al moto politico del Risorgimento: ma si può dire senza tema di andar
errati, che avrebbe avuto per il suo maggior esponente, Gioberti, lo stesso orrore che
per il suo equivalente tedesco, Hegel.
(2) Cfr. : F. De SANCTIS, Schopenhauer e Leopardi, Dialogo tra A. e D.t in Saggi
critici , a cura di P. Arcari, Treves, Milano, 1914, voi. 1, pp. 251, 266, 269. Questo dia-
logo fu prima pubblicato nella Rivista contemporanea di Torino, vol. XV, fase. 61,
pp. 369-408, dicembre 1858; poi raccolto nei Saggi con questa avvertenza; « Il dialogo
è scritto a Zurigo nel 1858; D. è l'autore, A. è un suo antico discepolo che viene da
Napoli ». E nell'una e nell'altra edizione il De Sanctis chiarisce in una nota: « Tutto
quello che D. dice di Schopenhauer, opinioni, invettive, argomenti, paragoni, fino nei
più minuti particolari, è tolto scrupolosamente dalle sue opere: per brevità si appongono
citazioni solo nei punti più importanti ». Zurigo ospitava nel 1858 una schiera di scho-
penhaueriani ferventi ed eletti: l'uno di essi, anzi, glorioso: Riccardo Wagner. Scho-

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L'AMBIENTE E LE FONTI NEL PENSIERO DI A. SCHOPENHAUER

gere in fondo al cuore» e - ciò che è più strano - ottiene l'effetto di far
amre quanto ha cercato di demolire senza posa e magnificamente: amore,
patria, gloria - rendendo così al tutto insolubile il problema della vita? E non
avevano qualche ragione coloro che facevano in fondo dipendere il pessimismo
del Renatese dalle sue personali miserie - per quanto egli ne dicesse in con*
trario e protestasse, per esempio nella lettera al de Sinner del 24 maggio 1832;
e per quanto quelli malamente potessero sostenere una tesi giusta: conceden-
dogli così la gloria di poeta e di grande poeta, ma negandogli quella, non
meritata, di filosofo?
Ben diverso il caso di A. Schopenhauer, il quale - uscendo dalla turbata
sfera dell'io - freddamente creò il sistema dell'assoluto pessimismo, con la
conclusione d'un ascetismo radicale, ove però è la pace nirvanica: senza esita-
zioni, senza rimpianti, senza amori, senza speranze : come potremo vedere dalla
vita di lui, la quale, più che ad altri, gli avrebbe dato il diritto di essere per-
sonalmente ottimista, e di fronte a cui vivamente, consciamente deplora che
troppo spesso essa l'abbia attaccato all'esistenza, senza lasciargli raggiungere
pienamente la perfezione ascetica proclamata e idoleggiata.

penhauer fu avvertito del saggio desanctisiano dal discepolo O. Lindner - traduttore


in tedesco di Leopardi - con una lettera in data 12 febbraio 1859. Per il giudizio di
Schopenhauer sopra lo stesso saggio, v. le risposte al Lindner del 14 e del 23 febbraio
1859, in Schopenhauers Briefe , herausgegeben von E. GRIESEBACH, Reclam, Leipzig,
pp. 405-6; e pure le lettere al Doss (i° marzo 1859) e a D. Asher (9 marzo 1859). ibidem,
pp. 381 e 438.

RIASSUNTO

Dopo aver illustrato il logico sviluppo del pensiero moderno al monismo umanistico
ed immanentistico - attraverso l'empirismo ed il razionalismo, Kant e l'idealismo poste-
riore fino ad Hegel - Ta. considera l'irrazionalismo e il pessimismo assoluto di Schopen*
hauer come la fatale conclusione critica di tutto quel movimento: se l'essere è uno, il
male è inerente all'Essere assoluto, che è pertanto irrazionale. L'a. mostra come a tale
sistema Schopenhauer sia giunto non solo attraverso il monismo moderno e l'idealismo
kantiano, ma tutta la tradizione spirituale dell'umanità, d'Oriente e d'Occidente, dal
Buddismo al Cristianesimo.

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