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Uscito sull’Unità

Eleonora Fiorani, Geografie dell’abitare, Bologna, Lupetti, 2012.

Il futuro della metropoli che ci ha consegnato l’immaginario della fantascienza e del cinema
americano – basti Blade Runner con le sue notti fumiganti – è nero, si impasta bene con la
saggistica catastrofista e la nostra personale esperienza di città che si degradano e di periferie senza
redenzione, di cemento e di cinismo diffusi, di speculazioni senza fine e di amministrazioni
compiacenti. Le possibili degenerazioni della città nel progetto del “moderno” ci sono tristemente
sotto gli occhi anche in questi giorni, nel disastro molteplice di Taranto.
E invece il libro di Eleonora Fiorani riprende il filo di una riflessione necessaria, in cui il senso
della fine è felicemente trattato invece come un punto di partenza, e dà luogo a una paziente quanto
appassionante mappatura di ciò che germoglia e in certi casi già fiorisce nel mondo urbanizzato che
malgrado tutto abitiamo. Proprio dal senso ampio, antropologico dell’abitare s’invita infatti a
ripartire. “Abitare è la radice della condizione umana”, nella duplice dimensione interiore ed
esterna, capace di produrre senso del luogo, cioè istituzione di rapporti con una terra e gli altri che
la abitano. Ancora, “abitare è gesto che precede la progettualità, l’organizzazione e la reificazione e
l’organizzazione di oggetti artificiali in cui mettere in scena lo stare e l’agire, i ricordi e i desideri
(p. 8)”. E la forma urbana, alla prova della storia, risulta quella sempre e ancora privilegiata: dalla
casa alla postmetropoli, testimonia della inesausta e specifica “impollinazione” dello spazio operata
dall’uomo. Come dunque siamo cambiati, noi e l’abitare, o, ancora meglio, come potremmo forse
ancora cambiare? La risposta è nella fitta analisi di casi emergenti nell’urbanizzazione
contemporanea del mondo, in un procedimento per figure e nodi tematici, fra sguardi molteplici e
riferimenti disciplinari incrociati. Scopriamo così idee di città “ecologiche e futuribili”, che
incarnano un senso nuovo di immaginare il futuro, meno utopistiche e più vicine alle eterotopie di
Foucault, spazi effettivamente altri: dall’Eco-Città Compatta presentata a Bruxelles nel 2008 ad
Arcosanti, la comunità ecologica di Paolo Soleri insediata nel deserto dell’Arizona, o ancora a
VEMA, città ideale presente alla Biennale di Venezia del 2006, nel contesto di idee progettuali
dinamiche, organiche, morfogenetiche, connettive. Dai grandi temi chiave come la sostenibilità, si
passa a scoprire le ecopoli galleggianti progettate in Asia, o a vedere le forme di sperimentazione
possibili solo a Dubai, oltre lo scenario abituale che ne fa soltanto una capitale dell’iperconsumo. O
ancora al capitolo dedicato agli “spazi ermafroditi”, alle varie forme di reinvenzione del rapporto
fra natura e cultura che riscrivono la scena urbana, dai giardini verticali di Patrick Blanc ammirati a
Parigi e Madrid ai più comuni orti in terrazzo, dalla Hight Line di New York, riscrittura di una
ferrovia dismessa in forma di giardino di quartiere straordinariamente bello, fino ai grattacieli
verde. In questo contesto particolare attenzione, dunque, per il connubio verde e architettura, e
cioè, interpretiamo noi, per il progetto di paesaggio, nuovo campo di sperimentazione adatto ad
ogni scala. E’ tutto un inno al riuso, alla mobilità dolce, alla manutenzione volontaria, a un abitare
intelligente che sembra quasi a portata di mano. Giusto a non voler vedere, per contrasto, la triste
volgarità dei giochi per bambini appaltati in tutta Roma negli ultimi anni.
La nota conclusiva sull’etica e la decrescita iscrive questa mappatura nelle prospettive di “una
cultura etica come etica di frontiera, etica dell’alterità”, che tenga conto dei mutamenti epocali che
invitano a riconoscere margini e periferie non solo nei luoghi deputati dei mondi “terzi”, ma ormai
anche nel cuore delle nostre città, spazio di pluriappartenenze e multifocalità, crogiolo di una
potenziale identità di frontiera, che va però riconosciuta e attivata. In un momento di crisi di
sistema, Fiorani si ritrova nelle idee di Serge Latouche sulla decrescita, come progetto politico di
sostanziale demercificazione della società e di riorientamento dei suoi valori, verso la
decolonizzazione, la rilocalizzazione, una nuova visione del mondo. Solo in una visione globale
infatti, in una prospettiva larga di mutamento strutturale, anche le iniziative locali, le forme di
creatività abitativa e di economia solidale possono sviluppare il loro potenziale secondo logiche
partecipative delle comunità e dei territori, senza restare quadri da esposizione e fragili velleità.
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Arricchisce ancora il libro un capitolo iconografico autonomo di Diego Rizzo, che dialoga con il
testo senza illustrarlo, una galleria fotografica ragionata di luoghi, uomini, opere, monumenti, scelti
intorno ad alcuni nuclei tematici di grande suggestione – labirinti, piante-ritratto di città, particolari
di architetture antiche, opere d’arte contemporanee – che stabiliscono a rete interazioni, tracciati e
aperture significative. Un percorso ricco e complesso, quindi, che alla fine converge sulla forza
costruttiva delle idee e delle prospettive. Il che dimostra come per cambiare e tornare ad abitare
poeticamente il mondo ci voglia molta più semiotica che non realismo, e cioè lavoro e riflessione
sul senso e sulle tante forme, da adottare e da far fruttare, che ancora ci riserva l’efficacia simbolica.

Isabella Pezzini

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