A cura di
LUIGI LUNARI
ISBN 978-88-586-5187-2
LA VITA E LE OPERE
L’ARTE DI CECHOV
Uno dei più radicati e diffusi luoghi comuni della letteratura critica su
Cechov è quello che divide la sua attività di scrittore, e di narratore in
particolare, in due periodi ben distinti e quasi antitetici tra loro: il primo,
che va dagli esordi al 1886, ci offre un Cechov allegro e umorista, il
secondo, che va dal 1887 alla fine, ci presenta invece un Cechov
malinconico e pessimista. Ogni luogo comune ha un suo fondamento di
verità, per quanto parziale e unilaterale essa sia, e una sua precisa
giustificazione storica. Il 1886 è effettivamente – come abbiamo visto –
l’anno in cui Cechov abbandona gli pseudonimi usati fino a quel momento
(Antoscia Cechonté, Il fratello di mio fratello, Un medico senza pratica) e
pubblica la prima raccolta di racconti con il proprio vero nome. Si può
supporre che l’abbandono degli pseudonimi rappresenti la definitiva scelta
di quel mestiere di scrittore iniziato durante gli studi di medicina, certo per
vocazione, ma anche per divertimento e soprattutto per dare una mano alla
famiglia; mestiere svolto all’ombra di un pur riconoscibile nom de plume,
come ad assumere non più che una responsabilità limitata per la generosa
faciloneria di tante pagine scritte per far ridere, aneddoti, parodie di autori
alla moda o di stili correnti… Può essere dunque vero che Anton Cechov
svolgesse, dopo il 1886, il proprio mestiere di scrittore con più rigore di
quanto non aveva fatto il giovane e spensierato Antoscia Cechonté, ma
rigore non significa né malinconia né pessimismo, né questo può
autorizzare l’assunzione del 1886 come rigoroso spartiacque tra un Cechov
allegro e un Cechov malinconico.
Da molti anni a questa parte, peraltro, questo luogo comune è ricordato
più che altro per dimostrarne l’inconsistenza, cosa del resto abbastanza
agevole ove si prendano in esame tutte le pagine malinconiche antecedenti
il 1886, e che si collocano cioè nel «periodo allegro», e tutte le pagine
allegre che si collocano invece nel «periodo malinconico»; ma a quel primo
luogo comune ne è subentrato un altro, che senza stabilire confini
cronologici parla però di due diversi umori, quasi due diversi modi d’essere,
che si alternano – prima o dopo l’86 che sia – a guidare la mano di Cechov
sulla carta. Secondo questa nuova opinione non esistono due periodi di
Cechov, ma due Cechov, in stretta coabitazione nella stessa persona, che si
alternano di pagina in pagina, ora il Cechov umoristico e allegro, ora il
pessimista-malinconico, al più con un certo prevalere statistico del secondo
sul primo man mano che il progredire della malattia lo avvicinava alla
morte. Anche questo luogo comune ha un suo fondamento di verità: esso si
fonda su un dato di fatto inoppugnabile – quello dell’effettiva esistenza di
opere comiche e di opere drammatiche – ma si limita a constatare questo
fatto senza fornirne la minima spiegazione, ed è quindi di scarsa utilità. La
stessa indicazione della morte imminente che piegherebbe in senso
drammatico la fantasia dello scrittore regge poco all’indagine, ove si pensi
che l’ultima opera teatrale di Cechov – proprio II giardino dei ciliegi – reca
insistita l’indicazione di «commedia», ed egli la sentiva tanto ricca di spunti
comici o umoristici da rifiutare ogni responsabilità nello spettacolo cupo e
malinconico che Stanislavskij ne trasse.
Una terza e più raffinata formulazione di questa conciliazione degli
opposti pone invece il confine tra comico e drammatico a metà strada – per
così dire – del procedimento creativo: Cechov cioè «vede» comicamente
ma «sente» tristemente, e l’immagine umoristica che gli suscita un dato
frammento della realtà dei suoi simili gli si trasforma, allatto pratico della
stesura letteraria, in una dolente e amara immagine della precarietà e della
meschinità dell’uomo, Questa tesi si trova avallata da quanto Cechov stesso
ebbe a scrivere alla scrittrice L.A. Avilova («Voi vi lamentate che i miei
personaggi siano tristi e cupi. Ahimè, non è colpa mia! Questo avviene
contro la mia volontà; quando scrivo, a me non pare di scrivere cose tristi, e
comunque, quando lavoro, sono sempre di ottimo umore. Ma provate a
osservare, e vedrete che gli uomini malinconici scrivono sempre cose
allegre, e quelli che sono allegri nella vita fanno venire invece la
malinconia!»), ed è illustrata da tutta una serie di indubitabili aneddoti,
quale il famoso episodio degli attori del Teatro d’Arte di Mosca che si
commuovono alla lettura delle Tre sorelle, malgrado Cechov fosse convinto
di avere scritto una commedia allegra; ma neppure questa risulta molto
convincente, se non altro perché ci ripropone l’immagine dei due Cechov
che a turno prevalgono, anche se in virtù di questa curiosa teoria della
«proporzionalità inversa» al Cechov triste spettano le pagine allegre e al
Cechov spensierato quelle malinconiche.
Al di là di questi luoghi comuni e delle loro parziali verità, avanzeremo
l’ipotesi che l’innegabile duplicità di Cechov rappresenti soltanto i due
momenti opposti di una ricerca che tende in realtà a superarli entrambi, i
due poli entro i quali questa ricerca si sviluppa. Non esistono cioè né i due
periodi di Cechov, né i due Cechov che lottano tra di loro, ma esiste bensì il
travaglio di un grande scrittore che – al di là dei racconti d’occasione e
della produzione di mestiere – persegue costantemente la più intima fusione
possibile di quei contrapposti elementi che convivono nell’esistenza umana:
il senso comico e il tragico. La letteratura dei generi ha sempre semplificato
questa realtà, deformandola sotto questo o quel profilo. Nascono così la
tragedia e la farsa, la commedia e il dramma, che rappresentano
convenzionali quadri di vita presi da questa o quella angolatura, un poco
come le fotografie scattate con lastre sensibili solo a una ristretta gamma di
lunghezze d’onda, che danno dell’oggetto un’immagine puntuale e
riconoscibile ma fortemente parziale e monocromatica. Anche il mestiere
letterario di Cechov inizia – né potrebbe essere altrimenti – con l’adesione a
questa convenzione: francamente comici e farseschi i più dei racconti di
Antoscia Cechonté, francamente drammatico e melodrammatico
l’interminabile dramma in quattro atti che egli scrisse a vent’anni e che
prese poi il titolo dal suo protagonista Platonov; l’adesione alla
convenzione si estende addirittura all’adozione dello stile drammatico per la
prima opera di sicuro impegno, in ossequio alla comune voce che vuole lo
stile «serio» più nobile e degno del «comico». Ma tutti i grandi poeti – da
Ruzzante, a Shakespeare, a Molière, per limitare ora il discorso al teatro –
hanno sempre sentito, non dirò l’impaccio delle convenzioni, poiché non vi
è segno d’impaccio nelle grandi opere, ma la necessità di superarle,
adattando la convenzionalità dei generi e delle forme alle loro superiori e
più profonde esigenze, onde attingere meglio quella verità deli uomo e della
storia che non può essere spiegata per intero come pura commedia o pura
tragedia, e dunque lasciando intendere sempre anche l’altra faccia della
medaglia. Mentre dunque la tragedia dell’Alfieri è pura convenzione
letteraria, e altrettanto lo è la commedia di Feydeau, fin dai banchi di scuola
si attira l’attenzione sul senso tragico di tanti personaggi comici di Molière
e sul carattere comico e grottesco di tante scene delle tragedie di
Shakespeare. Queste forme rigorose, d’antica origine classica ma riprese e
fatte proprie dalla cultura aristocratica dell’Europa umanistica e
rinascimentale, vennero attaccate con distruttiva violenza nel XVIII secolo
dalla nascente cultura borghese. In tutte le città in cui un ceto medio
mercantile aveva raggiunto un sufficiente grado di autonomia (e cioè nelle
città «mercantili» di Venezia, di Amburgo, di Londra) sorsero autori che
alle opposte cosmogonie della tragedia e della commedia opposero un
diverso genere drammaturgico in cui dialogo e situazioni si sforzavano di
riprodurre la verità dell’esistenza quotidiana, ordinata sì secondo criteri
d’arte, ma con quel carattere di medietà che è proprio dei casi della vita, e
dunque con elementi comici ed elementi tragici tanto più rari quanto più
estremi ed esasperati.
Tra i coscienti e coerenti fondatori di questa drammaturgia – Goldoni a
Venezia, Lessing ad Amburgo, Lillo a Londra – e l’attività teatrale di
Cechov, non passano più di centocinquant’anni. In quest’arco di tempo la
borghesia ha esteso la propria egemonia all’Europa, e quale base economica
del proprio potere ha sostituito al precario esercizio della mercatura la ben
più solida struttura dell’industria capitalistica, alimentata da un più
scientifico e fruttuoso sfruttamento coloniale; ma sotto il profilo che qui ci
interessa, quei centocinquant’anni sono caratterizzati dai continui attentati a
quel delicato equilibrio di comico e tragico nella verosimiglianza, dal suo
rovesciamento, dalla sua precaria e ricorrente restaurazione: una «vita
difficile» che si era del resto annunciata fin dall’inizio, quando
all’affermazione del teatro borghese i generi tradizionali avevano reagito
con un irrigidimento intransigente, opponendo alla nuova commedia del
Goldoni – per rimaner nell ambito del teatro italiano – la favola di Gozzi e
la tragedia integrale dell’Alfieri. Questa intransigenza proseguirà dovunque
per tutto l’Ottocento, attraverso l’opera di Shelley, di Manzoni, di
Tennyson; ma è ormai un puro esercizio letterario che ha rinunciato al
palcoscenico e che non minaccia quella ricerca d’equilibrio di cui stiamo
parlando. Gli attentati a questo equilibrio nascono invece dall’interno stesso
del teatro realistico e borghese, un po’ per l’ovvia circostanza che non tutti
possono essere grandi autori, ma anche e soprattutto per il prevalere di
interessi «impuri» su quello puro e semplice dello studio sui «libri del teatro
e del mondo», come Goldoni ebbe a scrivere: l’interesse ideologico e
sociologico che è all’origine del dramma a tesi, la ricerca dello
stupefacente, del caso limite, del patologico che sta alla base del dramma
naturalistico di Zola e dello stesso Ibsen, la caccia al più facile gradimento
del pubblico che determina la dozzinale produzione di tutti i boulevards
d’Europa.
Ma la più profonda ragione di questa perigliosa esistenza del teatro
borghese è nella storia stessa della borghesia, e cioè nella sua crescente
difficoltà a conciliare la pretesa della ricerca della verità con la realtà della
vita sociale quale si andava determinando man mano che la borghesia
estendeva e radicalizzava la propria egemonia. L’ottimismo dei Goldoni e
dei Lessing, portavoce di una nuova classe che prometteva di creare un
mondo di liberi e di eguali, fondato sulla libera iniziativa, sul libero
scambio, industre e industrializzato, che avrebbe prodotto un benessere
crescente e sempre più diffuso, diventa cent’anni dopo manifestamente
insostenibile. Illustrare le proprie tesi e al tempo stesso rispecchiare la
realtà, diventa per la borghesia un irresolubile problema di conciliazione
degli opposti. Qualcuno vi insiste, e da questa insistenza nasce la sterminata
produzione di commedie edulcorate, dal lieto fine ad ogni costo, in cui, con
i tratti esteriori della verosimiglianza, si parla del mondo come se tutte le
promesse del sistema fossero state realizzate e nessuna contraddizione fosse
sorta invece a turbarle; ma ad un livello meno banale e stolido, la strada che
si apre all’autore borghese che si accorge dell’inconciliabilità tra la propria
ideologia di classe e la realtà sociale, è quella del ritorno alla convenzione
letteraria e all’invenzione autonoma. Tennyson e Boucicault, Feydeau e
Leopoldo Marenco, Ibsen e Gilbert & Sullivan hanno in comune – pur
nell’ovvia diversità dei valori, della sincerità individuale, della sofferta
partecipazione al problema – la tendenza verso un modo d’essere che
sostituisca al criterio della tangibile verosimiglianza criteri e interessi meno
compromettenti per la cosmogonia borghese e meno pericolosi per la sua
credibilità. All’estremo di questa evoluzione – e al polo opposto di quella
commedia evasiva di cui abbiamo fatto cenno – l’estrema Tule sarà toccata
dal teatro di Pirandello, che risolverà quell’inconciliabilità svalutando la
realtà tangibile e affermando la superiore attendibilità della letteratura e
dell’invenzione estetica sul controllabile dato dell’esperienza.
Nell’ambito di questa problematica si colloca la ricerca di Cechov.
Abbiamo detto di come all’inizio egli aderisse alla logica dei generi e delle
forme classiche; anche se – per ipotesi – le tradizionali distinzioni non
fossero state criticamente superate dalla pièce borghese; è lecito pensare che
la genialità di Cechov lo avrebbe portato a superarne gli intrinseci limiti,
mostrando sempre nelle vicende comiche quel che vi è di tragico o d’amaro,
e viceversa, come abbiamo più sopra ricordato esser vero per Shakespeare o
Molière. Ma la ricerca di Cechov fu qualcosa di più radicale e di più
coerente di una semplice «correzione» di toni: fu veramente la ricerca di un
valore esatto, della pièce impregiudicata, dell’atto o dell’azione teatrale
senz’altra precisazione, che «ordinasse» vicende e personaggi della realtà
quotidiana senza alterare l’aurea proporzione con cui il comico e il
drammatico, il tragico e il farsesco, l’umoristico e il serioso concorrono all’
indefinibile sapore della vita.
Elemento indicativo – seppur esteriore – di questa ricerca è la questione
delle definizioni che Cechov appose alle proprie opere teatrali. Platonov
(1880-81) è priva di titolo e l’edizione nazionale la riporta con la
definizione neutra di pièce, mentre tra gli atti unici taluni sono stati
sottotitolati da Cechov «studi drammatici» (Sulla via maestra, 1885, e Il
canto del cigno, 1886), altri «scherzi» (L’orso, 1888; Una domanda di
matrimonio, 1889; Tragico contro voglia, 1890, e L’anniversario, 1892),
tutte indicazioni, a voler guardare, un poco prudenti e solo relativamente
impegnative: «studi drammatici» che, come nella letteratura musicale, non
pretendono quasi a un risultato estetico quanto all’approfondimento tecnico
di un problema, e «scherzi», che vanno dunque presi per quel che sono. Ma
l’indiscusso capolavoro di queste composizioni «minori» –Il tabacco fa
male (1886) –riceve la definizione neutra di «monologo», mentre Le nozze
(1890) e soprattutto L’anniversario (1892), in cui sembra essere più audace
la convivenza di elementi farseschi e senso tragico e ossessivo, viene
definito dall’autore con il termine altrettanto neutro di «scena». Per quel
che riguarda i componimenti in quattro atti, Ivanov (1888) è un «dramma»,
perfettamente aderente allo spirito del genere, e come tale viene definito;
ma già Liesci (1889), pur nel suo carattere di opera poco riuscita, o anzi:
proprio per questo, rivela con estrema chiarezza gli opposti elementi che
Cechov tenderà a fondere. La definizione di «commedia» è smentita dai
primi tre atti, che si comportano in tutto e per tutto come atti di un dramma,
ed è riconfermata però nel quarto atto da un improvviso lieto fine, che a sua
volta smentisce le premesse poste durante i tre atti precedenti. Liesci rivela
chiaramente come Cechov perseguisse il superamento di convenzionali
andamenti del comico e del tragico, anche se qui non gli riesce che di farli
coabitare, senza intaccare la loro autonomia e senza fonderli,
distruggendoli, in un qualcosa di nuovo. A tanto riuscirà invece sette anni
dopo nel Gabbiano (1896), per il quale il sottotitolo di «commedia» appare
senz’altro limitativo e insufficiente; ma mentre nel Liesci la definizione di
commedia era insufficiente perché del tutto pertinente al quarto atto e del
tutto errata per i primi tre, nel Gabbiano l’insufficienza è qualcosa di più
sottile, che non tocca questo o quell’atto ma tutto il clima dell’opera: un
clima misto di umorismo e di dramma – diciamo, senza paura, un clima di
verità – che non si lascia ricondurre a nessuna delle consuete convenzioni.
È pensabile che con la definizione di «commedia» Cechov volesse attirare
l’attenzione su quella componente comica che era più facile sfuggisse al
lettore, tanto più che sappiamo da Stanislavskij che la prima impressione
alla lettura di un’opera di Cechov era sempre più drammatica e malinconica
di quanto poi l’opera non si rivelasse. Ma il testo successivo – Zio Vania
(1897) – riceve la definizione neutra di «scene di vita di campagna»; quasi
Cechov sentisse ormai – dopo un drammacommedia e un dramma comico –
di poter affidare le proprie opere a una definizione incondizionata ed
oggettiva, che più avvertiva rispondente alla propria ricerca. Le tre sorelle
(1901) è definito «dramma»; e questa volta è evidente come Cechov tenti il
giochetto inverso di quello tentato con II gabbiano: là sapeva che la prima
impressione sarebbe stata quella di un dramma, e vi appone il sottotitolo di
«commedia» per controbilanciare quell’impressione; con Le tre sorelle egli
è invece convinto non tanto di avere scritto una commedia (poiché egli non
intende scrivere, è chiaro, né drammi né commedie) quanto un’opera
abbastanza ricca di spunti comici e umoristici da dover creare nel lettore la
«prima impressione» che di una commedia si tratti; e vi appone la
definizione di «dramma», anche qui per controbilanciare quell’impressione
e stimolare il lettore (e il regista) alla ricerca della componente drammatica,
dei risvolti tragici, di una realtà insomma più articolata e profonda di quella
solitamente proposta dai singoli generi. La delusione per Cechov fu
abbastanza cocente, e il suo errore di calcolo risultò subito evidente, fin da
quando la compagnia del Teatro d’Arte – come già abbiamo avuto modo di
ricordare – lesse Le tre sorelle per la prima volta. «Ci scambiammo le
impressioni a proposito dell’opera appena letta – scrive Stanislavskij nella
Mia vita nell’arte – e alcuni la definivano un dramma, altri una tragedia,
senza notare che queste denominazioni stupivano Cechov… Risultò che
l’autore era certo di avere scritto una commedia allegra, mentre durante la
lettura tutti avevano preso il lavoro per un dramma e avevano pianto
ascoltandolo.» E il risultato fu che alla sua opera successiva, l’ultima, Il
giardino dei ciliegi (1903), Anton Cechov appose la definizione di
«commedia»…
Questo gioco dei sottotitoli e delle definizioni, che avrebbe potuto
fornire lo spunto per una delle satire letterarie di Antoscia Cechonté, è in
realtà l’esteriore manifestazione di una ricerca travagliata e difficile, che
oscilla tra dramma e commedia alla ricerca di un qualcosa di esattamente
mediano e superiore, un poco come eli antichi geometri tentavano di
stabilire l’esatto valore di pi greco iscrivendo in una circonferenza poligoni
sempre più grandi e circoscrivendovi poligoni sempre più piccoli. Ma come
questo esatto valore rimaneva sempre un po’ più grande di quello ottenibile
dal maggior poligono inscritto, e sempre un po’ più piccolo di quello
ottenibile dal minor poligono circoscritto, così tra la più drammatica delle
commedie possibili e il più comico dei possibili drammi vi è un qualcosa
che non possiamo definire né commedia né dramma, perché è un qualcosa
di radicalmente diverso, per il quale soccorrono i termini antichi e oggettivi
di pièce, o azione teatrale, o scena, o atto. Bisogna però guardarsi dal
credere che questa oscillazione dei sottotitoli e delle definizioni tra i poli
opposti di «commedia» e «dramma», con tutte le finte e i trucchi e le
seconde intenzioni con cui Cechov li ha usati, riguardi qualcosa di più che i
sottotitoli stessi e le preoccupazioni strategiche di Cechov per gli
avvertimenti da dare al lettore e al regista; ad eccezione del Liesci, che è
chiaramente un dramma che conclude in commedia, tutte le altre opere
maggiori del teatro di Cechov non sono né commedie spinte al limite del
drammatico né drammi spinti al limite del comico, ma sono esattamente
quel qualcosa di mediano e di superiore cui abbiamo accennato: più
fortunato degli antichi geometri, Cechov non ha difficoltà nell’afferrare il
trascendente.
Sotto questo profilo, bisogna però anche correggere il diffuso luogo
comune che Cechov ricercasse una nuova forma e abbia inventato una
forma nuova; nel senso più sopra chiarito, la ricerca di Cechov si muove
nell’ambito dei generi, ma dal punto di vista formale e strutturale non vi è
nessuna differenza tra Le tre sorelle o II giardino dei ciliegi e Le baruffe
chiozzotte di Goldoni, La dama dalle camelie di Dumas, La cagnotte di
Labiche, o La morte civile di Giacometti, per citare una serie di esempi
abbastanza vari e disparati. Identiche sono le premesse del realismo
borghese, identico il tipo di linguaggio perseguito, identico l’ossequio al
criterio guida della verosimiglianza, reale o apparente che sia, fondata o
meno. Solo che in Cechov questa ricerca è perseguita con un rigore
assoluto: essa non cede né a preoccupazioni ideologiche, come in Dumas o
in Giacometti, né al gusto della caricatura critica (e/o commerciale) come in
Labiche, e neppure alla convenzionale concessione del «finale», come
fatalmente avviene nelle Baruffe chiozzotte che pure è un altissimo esempio
di autonomia innovatrice rispetto ai generi tradizionali. La ricerca di
Cechov sotto questo profilo ha un carattere di drastica intransigenza, i suoi
risultati un valore assoluto: nella storia del teatro moderno, opere come Zio
Vania e Il gabbiano, Le tre sorelle e II giardino dei ciliegi rappresentano la
più compiuta, rigorosa e matura espressione nata dalle premesse poste da
Goldoni e da Lessing.
IL MESTIERE DI CECHOV
L’IDEOLOGIA DI CECHOV
LA FORTUNA DI CECHOV
Di pochi scrittori si può dire che abbiano conservato l’immagine più intima
della loro epoca, come di Cechov, il quale pure non ne trasportò nelle sue
opere gli avvenimenti esteriori come fu invece il caso di Gor’kij e in
generale degli scrittori realisti russi non solo della seconda metà del secolo
XIX ma anche dei primi anni del nuovo secolo. È interessante rilevare anzi
che non meno che al patriarca del realismo russo Tolstoj che tuttavia amò la
sua narrativa, non il suo teatro, Cechov fu caro anche proprio
all’«annunziatore della tempesta», al quale forse egli dovette anche un suo
orientamento politico-sociale, sebbene amasse – come tanti dei suoi eroi
«sospirano» o «predicano» – pensare ad un mondo migliore «fra duecento-
trecento anni». «Un allegro malinconico» lo chiamò Vladimir Korolenko,
quando cercò di conciliare i due aspetti più caratteristici dell’autore dei
Racconti variopinti e de La corsìa numero 6, conciliazione che a noi pare
possibile nella formula che Cechov vedeva «comicamente» ma sentiva
«tragicamente», nel senso che già attraverso i suoi «racconti comici» era
evidente la tragicità della vita e quelli tragici non erano mai privi di qualche
singolare battuta comica. Ciò si mantenne si può dire in tutta l’opera
cechoviana, non escluso ii teatro. (Ettore Lo Gatto, Teatro russo, Milano,
1960.)
Cechov descrive una realtà dove, della vita, non rimane che il peso immane
della mediocrità, la lentezza impassibile del tempo e la bellezza del dolore
umano. Un mondo, con ciò, miracolosamente sereno e semplice:
miracolosamente sensato e compassionevole, laddove non sembra rimanere
senso alcuno, tranne l’estremo e incomprensibile «ordine delle cose», né
esservi posto per altro sentimento che d’indifferente desolazione. Ma, se per
mondo ha da intendersi congruenza delle cose in un possibile significato,
Cechov, piuttosto che un mondo, ha descritto l’assenza di un mondo. In
questo deserto, la vita umana, «che non fa che continuare».
Orrore e pietà: l’essenziale della tragedia, cui non si giunge se non si è
veramente vista, o intravista, la forma silenziosa del destino. Con in più (o
in meno, se si vuole) il sor riso di Cechov, così perfettamente glaciale e così
completa mente umano. Al teatro, infatti, giunse infine Cechov. Non tanto
per necessità, quanto per completa maturità, da grande scrittore: quando fu
certo di poter affrontare faccia a faccia un pubblico e dire: «le cose stanno
così, questi siete voi» (Nicola Chiaromonte, La situazione drammatica,
Milano, 1960.)
Fin dalle sue prime novelle Anton Cechov ha saputo scoprire nel glauco
oceano della mediocrità un «comico» lugubrmente tragico. Basta leggere
attentamente i suoi racconti umoristici per convincersi che l’autore aveva
dolorosamente individuato ciò che esisteva d atroce e di odioso dietro il
comico delle parole e delle situazioni, sentendo nello stesso momento il
pudore di tacerlo.
Aveva un ritegno quasi da signorina e non si permetteva mai di gridare
apertamente al suo prossimo: «Ma cercate di comportarvi come si deve!»
nella vana speranza che venisse sentita l’urgenza di un nuovo
comportamento. Nemico di ogni mediocrità e di ogni volgarità, dipingeva le
turpitudini della vita con il nobile linguaggio del poeta e con l’ironia
leggera dell’umorista, così che, dietro la bellezza della forma, non si
distingueva quasi l’amaro rimprovero contenuto nell’idea. In ogni novella
umoristica di Anton Pavlovic io av verto il profondo sospiro soffocato di un
cuore puro e autenticamente umano, un sospiro di pietà senza speranza per
gii esseri che non sanno rispettare la loro dignità umana e, docilmente
sottomessi alla forza bruta, vivono come schiavi senza credere a niente che
non sia la necessità d’inghiottire ogni giorno un pasticcio il più grosso
possibile, senza nulla sentire salvo la paura che qualche svergognato
potente li batta. E non basta. Nessuno ha capito così chiaramente e così
finemente come Cechov la tragicità dei piccoli aspetti dell’esistenza;
nessuno prima di lui ha saputo con tanta spietata verità mostrare agli uomini
il quadro avvilente e vergognoso della loro vita nel fosco caos della
quotidianità borghese. Nemico della mediocrità, egli ha lottato per tutta la
vita contro di essa. L’ha schernita, l’ha disegnata con una matita tagliente ed
impassibile, scoprendone la muffa proprio là dove a prima vista ogni cosa
sembra appropriata, confortante e perfino brillante… E la mediocrità si è
vendicata con uno scherzo crudele, collocando la salma del poeta in un
vagone adibito al trasporto delle ostriche.
La macchia verde sporco di tale veicolo mi parve allora l’enorme
sorriso della mediocrità che trionfa finalmente del suo nemico stanco,
mentre dietro gli innumerevoli «ricordi» della stampa in orgasmo, si
indovinava il respiro gelido e mefitico proprio di questa stessa mediocrità,
interiormente lieta della morte del suo nemico.
Davanti a una folla sinistra e grigia d’impotenti è passato un uomo, un
grande uomo che capiva e al quale nulla era indifferente. Ha guardato i
malinconici abitanti della sua terra e, con un triste sorriso sulle labbra,
dolcemente, ma con un accento di profondo rimprovero, un dolore senza
speranza nel cuore e sul suo volto sincero, ha detto con la sua bella voce:
«Voi vivete male, signori!». (Maksim Gorkij, Ricordi.)
Il giardino dei ciliegi è stato spesso accusato di non avere alcun intreccio,
ed è vero che la vicenda indica ben poco del contenuto o del significato del
dramma; non accade nulla, come spesso hanno notato i recensori di
Broadway. E neppure ha una tesi, sebbene siano stati fatti molti tentativi per
attribuirgliene una, per collocarlo nel quadro o per intenderlo come una
difesa nostalgica del vecchio regime. Il dramma non possiede molto
intreccio in nessuno di questi significati della parola, perché non è
indirizzato al pensiero raziocinante ma alla sensibilità poetica e istrionica. È
imitazione di un’azione nel senso più stretto, ed il suo intreccio si sviluppa
secondo il primo significato di questa parola così come l’ho precisato
altrove. Gli avvenimenti sono selezionati e disposti in modo tale da definire
un’azione in un certo modo; un’azione completa, con un principio, un
centro e una fine nel tempo. La sua libertà dall’ordine meccanico delle tesi
o dell’intrigo è il segno della perfezione dell’arte realistica di Cechov. E i
suoi avvenimenti apparentemente casuali sono in realtà composti con la più
raffinata e consapevole abilità per rilevare la vita che anima il dramma, e la
sua forma naturale e obiettiva. (Francis Fergusson, Idea di un teatro, Parma,
Kd. Guanda.)
LETTERA APERTA A CECHOV
(dal programma di sala del Piccolo Teatro di Milano)
Milano 1974
La stanza che è chiamata ancora la stanza dei bambini. Una delle porte
conduce alla stanza di ANIA. È l’alba, tra poco spunta il sole. È già maggio, i
ciliegi sono in fiore, ma il giardino è freddo, coperto di brina. Le finestre
della stanza sono chiuse.
Pausa
La signora Liuba son cinque anni che è all’estero, chissà adesso com’è.
Era una buona diavola. Gentile, alla mano. Mi ricordo che una volta, ero
un ragazzino di un quindici anni, mio padre buonanima – allora aveva
bottega qui in paese – mi ha dato un pugno in faccia, m’è venuto il
sangue dal naso… Eravamo qui in cortile insieme, venuti non so per che
cosa, e lui aveva bevuto. La signora Liuba, me lo ricordo neanche fosse
adesso, ancora ragazzina, tutta magrina, mi ha portato qui a un
lavandino, proprio qui in questa stanza, la stanza dei bambini. «Non
piangere» mi fa «contadinello, che per quando ti sposi ti passa…»
Pausa
Contadinello… Mio padre, lui sì, era un contadino, ma io eccomi qua col
gilet bianco e le scarpe gialle. Con questo muso da maiale, in mezzo ai
signori… Perché ormai sono ricco, sono pieno di soldi anche se, gira e
rigira, contadino sono e contadino resto… (Sfoglia il libro) Leggevo ’sto
libro e non ci capivo niente. E mi sono addormentato.
Pausa
DUNIASCIA I cani invece son stati svegli tutta notte, lo sentono, che
arrivano i padroni.
LOPACHIN Che cos’hai, Duniascia…
DUNIASCIA Mi treman le mani. Io dico che svengo.
LOPACHIN Quante smorfie che fai, Duniascia. E ti vesti, anche, come una
signorina, e ti pettini. Non va bene. Bisogna stare al suo posto.
(In piedi accanto alla porta) Mentre son qui che bado alla casa, anima
mia, tutto il giorno io non faccio che sognare una cosa. Che tu ti sposi
con qualcuno di ricco, così anch’io sarei tranquilla, me ne andrei in un
qualche ritiro, e poi in pellegrinaggio a Kiev… a Mosca, a visitare tutti i
luoghi santi…. Andare e andare. Che meraviglia!…
ANIA Gli uccelli cantano in giardino. Che ora abbiam fatto?
VARIA Le tre, credo. È ora che tu vada a dormire, anima mia. (Entrando
nella camera di Ania) Che meraviglia!
VARIA Qui, mamma, ci son due telegrammi per lei. (Prende una chiave ed
apre, facendolo stridere, il vecchio armadio) Eccoli.
LIUBA Vengono da Parigi. (Li straccia, senza finire di leggerli) Con Parigi
è finita…
GAIEV Ma tu lo sai, Liuba, quanti anni ha questo armadio? Una settimana
fa ho aperto il cassetto qui in basso, guardo, e vedo dei numeri a fuoco.
Questo armadio è stato fatto esattamente cento anni fa. Che cosa ne dici?
Eh? Una ricorrenza che si potrebbe celebrare. È un oggetto inanimato,
tuttavia però, in un modo o nell’altro, è un armadio libreria.
PISC’CIK (con meraviglia) Cent’anni… Ma tu pensa!…
GAIEV Sì… È una di quelle cose… (Tastando l’armadio) Carissimo,
venerando armadio! Io plaudo qui alla tua esistenza, la quale giusto
cent’anni or sono venne indirizzata ai luminosi ideali del bene e della
giustizia; il tuo silenzioso incitamento ad un profìcuo lavoro, lungi
dall’affievolirsi nel corso di questi cent’anni, ha mantenuto vivo
(commovendosi) nelle generazioni della nostra famiglia lo slancio, la
fede in un avvenire migliore, infondendo in tutti noi gli ideali della
giustizia e il senso della responsabilità sociale.
Pausa
LOPACHIN Già…
LUIBA Tu sei sempre il solito, Lienia.
GAIEV (un po’ imbarazzato) Palla dritta nell’angolo! Bella piena!
LOPACHIN (guardando l’orologio) Beh, per me è ora d’andare.
IASCIA (porge una medicina a Liubov Andrieievna) Credo sia ora di
prendere le sue pillole…
PISC’CIK Non bisogna prender tante medicine, cara signora… non servono
a niente, né in bene né in male… Dia qua a me… egregia. (Prende il
flacone, si versa le pillole nel palmo della mano, ci soffia sopra, le
ingoia e ci beve dietro del kvass) Ecco fatto!
LIUBA (con aria spaventata) Ma lei è impazzito!
PISC’CIK Le pillole le ho prese tutte io.
LOPACHIN Che lavandino.
Tutti ridono.
FIRS Sono stati qui da noi a Pasqua, e si son mangiati mezzo secchio di
cetrioli… (Borbotta)
LIUBA Che cosa sta dicendo?
VARIA Son tre anni che borbotta così. Non gli badiamo neanche più.
IASCIA La vecchiaia.
Tutti ridono.
GAIEV Mia sorella non ha ancora perso l’abitudine di buttare i soldi dalla
finestra. (A Iascia) Scostati un po’, giovanotto, sai di pollaio.
IASCIA (ghignando) E lei, signor Gaiev, è sempre ancora com’era una
volta.
GAIEV Cosa? (A Varia) Che cos’ha detto?
VARIA (a Iascia) Tua madre è venuta qui dalla campagna, è da ieri sera in
cucina, che vorrebbe vederti…
IASCIA Aspetta e spera!
VARIA Vergognati!
IASCIA Che fretta c’era. Non poteva venir domani? (Esce)
VARIA La mamma è sempre la solita, non è cambiata in niente. Fosse per
lei, darebbe via tutto.
GAIEV Sì…
Pausa
Quando contro una data malattia si ordinano tante medicine, significa
solo che la malattia è incurabile. Io penso, mi spremo il cervello, trovo
tante medicine, tantissime, ma questo significa, in sostanza, che non ne
ho trovata neanche una. Che bello che sarebbe ricevere un’eredità da
qualcuno, che bello che sarebbe se Ania sposasse qualcuno molto ricco,
che bello che sarebbe andare a Jaroslav a provare con la zietta contessa.
La zia è molto, molto ricca.
Ha sposato un non nobile e poi non si può neanche dire che sia sempre
stata irreprensibile. È bella, è buona, è brava, io le voglio molto bene, ma
per quante attenuanti le si riconoscano, tuttavia, bisogna ammetterlo, è
molto poco seria. E questo lo si sente in tutto quel che dice e quel che fa.
VARIA (sottovoce) C’è Ania sulla porta.
GAIEV Come?
Pausa
Incredibile, mi è entrato qualcosa nell’occhio… non ci vedo quasi più. E
giovedì scorso, quando sono andato in tribunale…
Entra ANIA.
Entra FIRS.
Si avviano.
Sipario
ATTO SECONDO
Pausa
Sono diventata così apprensiva, sono sempre nervosa. I signori mi han
presa a servizio che ero ancora bambina, io ormai mi sono disabituata
alla vita semplice, ed ecco qui che ho le mani tutte bianche, come ce le
hanno le signorine. Sensibile son diventata, così delicata, così
aristocratica, ho paura di tutto… Una paura terribile. E se anche lei,
Iascia, mi inganna, io non so proprio quel che succederà, coi miei nervi.
IASCIA (la bacia) Ma petite! Certo, una ragazza deve saper stare al suo
posto, e se c’è una cosa che proprio non mi piace è una ragazza che si
comporta male.
DUNIASCIA Io mi sono innamorata pazzamente di lei, lei è così istruito, sa
parlare così bene di tutto.
Pausa
IASCIA(sbadiglia) Eh sì… Per me è così: se una ragazza fa vedere di
essere innamorata, questo vuol dire che non ha pudore
Pausa
È bello fumarsi un sigaro qui all’aria aperta… (Tendendo l’orecchio)
Vien gente… Sono i signori…
Pausa
GAIEV Mi hanno offerto un posto in banca. Seimila rubli all’anno… Hai
sentito?
LIUBA Ma figùrati! Sta lì buono…
Tutti siedono.
Tutti ridono.
Pausa
FIRS È stato così anche prima della disgrazia: la civetta gridava, e il
samovar seguitava a brontolare.
GAIEV Prima di quale disgrazia?
FIRS Di quando han dato la libertà ai servi.
Pausa
LIUBA Amici, è meglio che ci avviamo, ormai si fa sera. (Ad Ania) Hai le
lacrime agli occhi… Che cosa c’è, bambina mia? (L’abbraccia)
ANIA Così, mamma. Niente.
TROFIMOV C’è qualcuno che viene.
Si ride.
VARIA (con sgomento) Io vado via… io vado via… Ah, mamma, a casa non
c’è da mangiare per la gente, e lei dà via monete d’oro.
LIUBA Cosa devo fare, sciocca come sono! A casa do a te tutto quello che
ho. Lopachin, mi presti ancora qualcosa!…
LOPACHIN Obbedisco.
LIUBA Avviamoci, signori, è ora. Intanto, Varia, abbiamo combinato il tuo
matrimonio, tanti auguri.
VARIA (con gli occhi bagnati) Con queste cose, mamma, non si scherza.
LOPACHIN Ompelia, va in convento…
GAIEV E io intanto ho la mano che mi trema: troppo tempo che non gioco a
biliardo.
LOPACHIN Ompelia, o ninfa, ricordati di me nelle tue preghiere!
LIUBA Andiamo, signori. È quasi l’ora di cena.
VARIA Mi ha messo paura, quello. Ho il cuore che mi batte ancora.
LOPACHIN Signori, vi faccio memoria: il ventidue agosto il giardino dei
ciliegi va all’asta. Pensate anche a questo!.. Pensateci!
Escono tutti, ad eccezione di TROFIMOV e ANIA.
ANIA (ride) Grazie a quel viandante che ha messo paura a Varia, adesso
siamo soli.
TROFIMOV Varia ha il terrore che noi tutto ad un tratto ci si innamori l’uno
dell’altra, e in tutto il giorno non ci lascia un momento. Con la sua
mentalità ristretta lei non può capire che noi siamo superiori all’amore.
Andare al di là di tutto ciò che è effimero e volgare, che ci impedisce di
essere liberi e felici, è questo il fine e il senso della nostra vita. Avanti!
La nostra è una marcia irresistibile verso la stella luminosa che splende
in lontananza! Avanti! Non esitate, amici!
ANIA (battendo le mani) Come parli bene!
Pausa
Oggi qui è una meraviglia!
TROFIMOV Sì, è una bellissima giornata.
ANIA Che cosa mi hai fatto, Pietia, come mai adesso il giardino dei ciliegi
non l’amo più come prima? Una volta lo amavo così teneramente, ed ero
convinta che sulla terra non ci fosse niente di più bello del nostro
giardino.
TROFIMOV Tutta la Russa è il nostro giardino. Terra grande e bellissima,
piena di luoghi meravigliosi.
Pausa
Pensa, Ania: tuo nonno, il tuo bisnonno e tutti i tuoi antenati erano dei
signori feudali, padroni di anime vive, e non sembra ora a te che da ogni
ciliegio del giardino, da ogni foglia, da ogni tronco, degli esseri umani ci
guardino, non ti sembra di sentirne le voci… Esser padroni di anime vive
– ecco che cos’è che vi ha corrotti tutti, quelli che sono vissuti prima di
voi, e voi che vivete ora, al punto che tua madre, te, tuo zio, neppure vi
rendete conto del grande debito che avete, vivendo alle spalle degli altri,
alle spalle di questa gente alla quale voi non permettete neppure di
varcar la soglia della vostra anticamera… Noi siamo in arretrato di
almeno due secoli, non abbiamo ancora niente di nostro, non abbiamo
una precisa coscienza del nostro passato, non facciamo altro che
filosofare, lamentare la nostra pigrizia, o bere vodka. Mentre è chiaro
che se vogliamo cominciare a vivere nel presente, dobbiamo cominciare
col mettere in gioco il nostro passato, liberarcene, ma questo è possibile
solo con la sofferenza, con un faticoso, straordinario, indefesso lavoro.
Capisci questo, Ania?
ANIA La casa in cui viviamo, già da molto non è più casa nostra, e io me ne
andrò via, te lo giuro.
TROFIMOV Se hai un mazzo di chiavi, gettalo nel pozzo e vattene. Libera,
come il vento.
ANIA (con rapimento) Come l’hai detto bene!
TROFIMOV Credimi, Anna, credimi! Io non ho ancora trent’anni, sono
giovane, sono ancora studente, ma ho già molto sofferto! Come viene
l’inverno, eccomi affamato, malato, smarrito, miserabile, come un
mendicante, e – in quanti luoghi non m’ha portato il destino, dove non
sono stato! Ma la mia anima sempre, in ogni minuto, di giorno e di notte,
era piena di inesprimibili presentimenti… Io sento la felicità che si
avvicina, Ania, io già la vedo…
ANIA (assorta) Spunta la luna.
Si sente IEPICHODOV che suona sulla chitarra la sua triste canzone. Spunta
la luna. Da qualche parte, tra i pioppi, VARIA sta cercando ANIA e chiama:
«ANIA! Dove sei?».
Si avviano.
Sipario
1
Nell’originale: «…asiatismo…».
ATTO TERZO
PISC’CIK Io sono del tipo pletorico, già due volte ho avuto un colpo, ballare
per me è dura, ma come si suol dire, in mezzo ai cani anche senza
abbaiare \ almeno la coda la devi menare. Io sono sano e robusto come
un cavallo. Mio padre buon’anima, ch’era un mattacchione, dio l’abbia
in gloria, a proposito delle nostre origini, diceva sempre che l’antica
stirpe dei Simeonov-Pisc’cik discendeva nientemeno che dal cavallo che
Caligola aveva nominato senatore… (Siede) Ma ecco la mia disgrazia:
non ho un soldo! Il cane affamato sogna soltanto pezzi di carne…
(Comincia a russare ma subito si riscuote) E così io… penso solo ai
soldi…
TROFIMOV È vero che nella sua fisionomia c’è qualcosa di cavallino.
PISC’CIK Del resto… il cavallo è una brava bestia… un cavallo lo si può
vendere…
Da una stanza vicina si sente gente che gioca a biliardo. Dalla sala, sotto
l’arco, si affaccia VARIA.
LIUBA (canticchia una lesghinca)1 Perché tarda tanto Leonida? Che cosa
sta a fare in città? (A Duniascia) Duniascia, servi il the ai suonatori…
TROFIMOV Non avran fatto l’asta, è molto probabile.
LIUBA Allora l’orchestrina è venuta per niente, e la festa da ballo non ha
senso… Beh, non importa… (Siede e canticchia a bassa voce)
CHARLOTTA (porgendo a Pisc’cik un mazzo di carte) Ecco qui questo
mazzo di carte, pensi una carta qualsiasi.
PISC’CIK Pensata.
CHARLOTTA Adesso mescoli il mazzo. Molto bene. Me lo dia qui, caro
signor Pisc’cik. Ein, zwei, drei! Adesso cerchi bene, la carta è nella sua
tasca destra…
PISC’CIK (tira fuori la carta dalla tasca destra) L’otto di picche, è proprio
vero! (Stupito) Ma tu pensa!
CHARLOTTA (tenendo il mazzo sul palmo della mano, a Trofimov) Risponda
subito, che carta è la prima?
TROFIMOV Cosa ne so? Beh, la dama di picche?
CHARLOTTA Eccola! (A Pisc’cik) Che carta è l’ultima?
PISC’CIK L’asso di cuori.
CHARLOTTA Eccolo! (Si batte sul palmo, e il mazzo di carte sparisce) Ma
che bella giornata che è oggi!
Entra IASCIA.
Entra ANIA.
ANIA (in agitazione) Poco fa in cucina c’era uno che diceva che il giardino
dei ciliegi l’han venduto oggi.
LIUBA E a chi l’han venduto?
ANIA A chi, non l’ha detto. È andato via. (Balla con Trojimoro, e i due
escono verso la sala)
IASCIA È una cosa che ha raccontato un vecchio. Un forestiero.
FIRS E di sua signoria ancora niente, non si è visto. Si è messo su il
soprabito leggero, il demisaison, vedrai che raffreddore. Ah, questa
gioventù!
LIUBA Io mi sento morire. Va, Iascia, cerca di sapere a chi l’han venduto.
IASCIA Ma se n’è andato da un bel po’, quel vecchio. (Ride)
LIUBA (con leggera irritazione) Beh, cosa c’è da ridere? Cos’è
quest’allegria?
IASCIA Mi fa ridere Iepichodov. Troppo stupido. Cento disgrazie.
LIUBA Firs, se venderanno tutto, tu dove andrai?
FIRS Dove comanda, lì andrò.
LIUBA Come mai hai una così brutta cera? Non stai bene? Dovresti andare
a letto, lo sai…
FIRS Sì… (Con un sorriso) Io vado a letto, ma senza di me chi serve, chi
mette a posto? Ci son solo io in tutta la casa.
IASCIA (a Liubov Andrieievna) Signora Liuba! Permetta che le rivolga una
preghiera, sia buona! Se torna a Parigi, porti anche me, mi faccia la
grazia. Restare qui, per me, non è proprio più possibile. (Si guarda
intorno, a bassa voce) Che cosa posso dirle, lo vede anche lei, un paese
incivile, gente immorale, e poi una noia, in cucina si mangia che è uno
schifo, con questo Firs sempre intorno che non fa che borbottare cose
senza senso. Mi porti con lei, sia buona!
Entra PISC’CIK.
Passano in sala.
IASCIA (canta a bassa voce) «Non vedi tu che m’hai rubato il cuor…»
La musica tace.
Entra IEPICHODOV.
VARIA Non te ne sei ancora andato, Iepichodov? Impertinente che non sei
altro, proprio. (A Duniascia) Via di qui, Duniascia. (A Iepichodov) Prima
giochi al biliardo e rompi una stecca, poi vai a spasso per il salotto come
un invitato.
IEPICHODOV Lei, consenta che le dica, non può chiedermi conto di quel che
faccio.
VARIA Io non ti chiedo conto di niente, io dico le cose. Tu non sai far altro
che andare a spasso da un posto all’altro, e non ti occupi del tuo lavoro.
Teniamo un contabile, ma a far che cosa non si sa.
IEPICHODOV (offeso) Che io lavori, vada a spasso, mangi o giochi a
biliardo, di questo possono giudicare solo quelli che capiscono meglio le
cose e son più vecchi di lei.
VARIA Tu osi rispondermi così! (Andando in collera) Tu osi? Sarebbe come
dire che io non capisco niente? Fila via di qui! E subito!
IEPICHODOV (impaurito) La prego di esprimersi con maggior moderazione.
VARIA (fuori di sé) Subito via di qui! Via!
Cento disgrazie! Non voglio vederti qui neanche dipinto! Non venirmi
più davanti agli occhi!
Entra GAIEV, con un pacchettino nella destra, con la sinistra si asciuga gli
occhi.
La porta che conduce alla sala del biliardo è aperta; si sentono il rumore
delle biglie e la voce di IASCIA: «Sette e diciotto!». GAIEV muta espressione,
ora non piange più.
Pausa
LIUBOV ANDRIEIEVNA è annichilita: cadrebbe a terra, se non si trovasse
accanto a una poltrona e ad un tavolo. VARIA si stacca il mazzo di chiavi
dalla cintura, lo getta per terra, al centro del salotto, ed esce.
Sipario
1
Danza caucasica, del Daghestan. N.B. Secondo Guerrieri, Liuba canta la sua battuta su quell’aria.
2
Non è che Firs dica questo di Trofimov. «Buon da niente» è quello che Firs dice dei servi che
dipendono da lui. Liuba raccoglie l’espressione e la calca, a sisignificare – con tutta probabilità –
«impotente».
ATTO QUARTO
La scena del primo atto. Non ci sono né tende alle finestre né quadri,
restano alcuni mobili che sono stati raccolti in un angolo come per essere
venduti. C’è un’impressione di vuoto. Accanto alla porta che conduce
all’esterno e sul fondo della scena sono raccolti pacchi, valigie eccetera. La
porta a sinistra è aperta, e di là si sentono le voci di VARIA e di ANIA.
LOPACHIN è in piedi e aspetta. IASCIA ha in mano un vassoio con dei bicchieri
di champagne. IEPICHODOV sta legando una cassa in anticamera. Dal fondo,
dietro la scena, un brusio. Sono i contadini venuti a salutare. La voce di
GAIEV: «Grazie, fratelli, grazie a voi».
GAIEV Gli hai dato tutto il portafogli, Liuba. Non è possibile! Non è
possibile!
LIUBA Non ce l’ho fatta! Non ce l’ho fatta!
Pausa
Qui fa un freddo del diavolo.
IASCIA Oggi non hanno riscaldato, tanto partono tutti. (Ride)
LOPACHIN Che cos’hai?
IASCIA Sono contento.
LOPACHIN Siamo in ottobre, ma il tempo è limpido e calmo come d’estate.
Buono per costruire! (Dopo aver guardato l’orologio, sulla soglia)
Signori, tenete presente che al treno mancano solo quarantasei minuti!
Vuol dire che tra venti minuti bisogna uscire di qui per la stazione.
Cercate di sbrigarvi.
Pausa
Ci arriverò o farò vedere agli altri la strada per arrivarci.
LOPACHIN Beh, addio, carissimo. È ora d’andare. Noi due storciamo un po’
il naso l’uno di fronte all’altro, ma la vita intanto va avanti per conto suo.
Quando io lavoro dalla mattina alla sera, senza respiro, allora i miei
pensieri diventano più leggeri, e mi sembra di vederlo chiaro anch’io
qual è lo scopo della mia esistenza. Eppure, fratello, c’è un sacco di
gente in Russia che esiste senza sapere a che scopo. Ma è chiaro
comunque che non è questo che fa girare il mondo. Il signor Gaiev,
dicono, ha trovato un posto, andrà in banca, seimila rubli all’anno…
Solo che non dura, è troppo pigro…
ANIA (sulla soglia) La mamma la prega, finché non è partita, di non far
tagliare gli alberi.
TROFIMOV Davvero, possibile non avere un po’ di tatto… (Esce verso
I’anticamera)
LOPACHIN Subito, subito… Ma che gente, è vero! (Esce dietro di lui)
ANIA Firs è stato mandato all’ospedale?
IASCIA Io stamattina gliel’ho detto. Penso che ce l’abbiano mandato.
ANIA (a Iepichodov, che sta traversando la sala) Iepichodov, chieda per
favore, se hanno portato Firs all’ospedale.
IASCIA (impermalosito) Gliel’ho detto io stamattina a Iegor. Cosa serve
domandarlo dieci volte!
IEPICHODOV II venerando Firs, secondo la mia conclusiva opinione, non è
più utilmente rabberciabile, ormai deve ricongiungersi ai suoi antenati. E
io posso soltanto invidiarlo. (Mette giù una valigia sopra una
cappelliera, che si rompe) Visto, ecco, certo. Lo sapevo. (Esce)
IASCIA (sarcastico) Cento disgrazie…
VARIA (sulla soglia) Firs l’hanno portato all’ospedale?
ANIA L’hanno portato.
VARIA E perché non han preso anche la lettera per il dottore?
ANIA Bisogna mandargliela subito… (Esce)
VARIA (dalla camera accanto) Dov’è Iascia? Ditegli che è venuta qui sua
madre, che vorrebbe salutarlo.
IASCIA (un gesto con il braccio) Ti fan proprio perdere la pazienza!
DUNIASCIA nel frattempo si è data da fare attorno ai bagagli; ora che IASCIA è
solo, gli si avvicina.
Dormo bene. Porti fuori i miei bagagli, Iascia. È ora. (Ad Ania) Bambina
mia, presto ci rivedremo… Io vado a Parigi, vivrò con i soldi che tua
nonna di Jaroslav ci aveva mandato per pagare l’ipoteca sulla proprietà –
alla tua salute, nonna! – ma son soldi che non dureranno molto.
ANIA Tu, mamma, torni presto, presto… non è vero? Io mi preparerò bene,
darò gli esami al ginnasio, e poi mi metterò a lavorare, ti aiuterò. Noi,
mamma, leggeremo insieme tanti libri… non è vero? (Le bacia le mani)
Di sera, d’autunno, ci metteremo lì a leggere, e saran molti libri, e
davanti a noi si aprirà un nuovo, meraviglioso mondo… (Sognante)
Mamma, torna….
LIUBA Torno, tesoro mio d’oro. (La abbraccia)
Mi fai così pena! (Rimette il fagotto al suo posto) E allora voi, per
piacere, trovatemi un posto. Io non posso restare così.
LOPACHIN Lo troveremo, signorina Charlotta, non si preoccupi.
GAIEV Tutti ci abbandonano, Varia se ne va… tutto ad un tratto nessuno ha
più bisogno di noi.
CHARLOTTA In città non saprei dove vivere. Ma di qui bisogna andare…
(Canticchiando) Non importa…
Entra PISC’CIK.
IASCIA tossicchia.
Questo si chiama sbevazzare…
LIUBA (con animazione) Perfetto. Noi ce ne andiamo… Iascia, allez! Vado
a chiamarla… (Sulla soglia) Varia, lascia stare tutto, e vieni qui. Corri!
(Esce con Iascia)
LOPACHIN (guardando l’orologio) Sì…
Pausa
Dietro alla porta un riso represso, poi finalmente entra VARIA.
VARIA (con gli occhi ispeziona a lungo i bagagli) Strano, non riesco a
trovare…
LOPACHIN Che cosa cerca?
VARIA L’ho portata io, ma non mi ricordo dove l’ho messa.
Pausa
LOPACHIN E lei adesso dove va, signorina Varia?
VARIA Io? Dai Ragulin… Ho combinato con loro che vado a occuparmi
della casa… come governante, più o meno.
LOPACHIN A Iasc’nievo, no? Saranno un settanta verste.
Pausa
Ecco che è finita la vita in questa casa…
VARIA (guardando i bagagli) Ma dov’è… O forse l’ho messa nel baule…
Sì, la vita in questa casa è finita… non ci sarà più niente…
LOPACHIN Io adesso invece vado a Charcov… col vostro stesso treno. Ho
un sacco di lavoro. Qui ci lascio Iepichodov… L’ho preso con me.
VARIA Bene!
LOPACHIN L’anno scorso, in questo periodo, c’era già la neve, non so se se
lo ricorda, adesso invece è sereno, c’è il sole. Solo che fa freddo…
Siamo a tre sotto zero.
VARIA Non ho guardato.
Pausa
E poi il nostro termometro è rotto…
Pausa
Una voce dal cortile: «Signor Lopachin!».
LOPACHIN (come se da tempo stesse aspettando questa chiamata) Subito!
(Esce in fretta)
LIUBA E allora?
Pausa
Bisogna andare.
VARIA (già non piange più, si asciuga gli occhi) Sì, mamma, è ora. Io dai
Ragulin faccio in tempo ad andarci oggi, basta che non perda il treno…
LIUBA (sulla soglia) Ania, preparati!
VARIA abbraccia con lo sguardo la stanza ed esce senza fretta. Escono IASCIA
e CHARLOTTA con il cagnolino.
LIUBA Veniamo!…
Escono.
La scena è vuota. Si sentono tutte le porte che vengono chiuse a chiave, e
poi le carrozze che partono. Ritorna il silenzio. Nel silenzio si sente il
rumore sordo della scure che cala su un albero, e che suona solitario e triste.
Si sentono dei passi. Sulla Porta, a destra, compare FIRS. Egli indossa, come
sempre, una giacca e un gilet bianco, e ai piedi ha delle pantofole. È malato.
FIRS (va fino alla porta, prova la maniglia) Chiuso. Partiti… (Siede sul
divano) Di me si son dimenticati…. Non importa… io mi siedo qui… E
vuoi vedere che sua signoria non ha neanche messo su la pelliccia, è
partito col soprabito… (Sospira con aria preoccupata) Io non ci ho
pensato… Gioventù scriteriata! (Borbotta qualcosa di incomprensibile)
La vita è passata, e io è come se non l’ho vissuta. (Si sdraia) Io mi sdraio
qui… Non c’hai più forza, non c’hai più niente, niente… Ah, sei un buon
da niente!… (Resta immobile)
Si sente da lontano, come venisse dal cielo, il rumore metallico di un
cavo che si spezza, morente, melanconico. Poi di nuovo il silenzio, nel
quale si sente soltanto, da lontano, nel giardino, la scure che cala su un
albero.
Sipario
DAGLI APPUNTI
PER «IL GIARDINO DEI CILIEGI»
DI GIORGIO STREHLER
14 gennaio 1974
Nella camera dei bambini del primo atto ci sono «le cose» che
appartenevano all’infanzia di Liubov e Gaiev. Le battute di Liubov non
lasciano dubbio in proposito. L’indicazione di Cechov è: la camera che è
«ancora» chiamata la camera dei bambini. E in quell’«ancora» è racchiuso,
con estrema densità, il senso che probabilmente Cechov voleva dare a tutto
l’ambiente-scena-racconto-situazione. La chiamano «ancora» dei bambini,
quella stanza, ma non è più dei bambini, perché «bambini» non ce ne sono:
l’ultimo è morto cinque anni prima ed era il bambino di Liubov. Ania ha «la
sua stanza», anche se è ancora quasi bambina, ma l’infanzia vera e propria è
finita in quella stanza, appartiene al passato. In realtà la stanza era solo
quella dei bambini Gaiev e Liubov.
Così credo sia necessario individuare alcune «cose» tipiche rimaste:
cioè plausibili ma che abbiano la stessa risonanza della «didascalia». Infatti
se noi osserviamo le «scene» delle diverse edizioni del Giardino da quella
del 1904 all’ultima di Visconti, tra le quali c’è anche quella di Giorgio
Strehler, in tutti i paesi, compresa la Cecoslovacchia, che sembra abbia oggi
un poco il monopolio della «riscoperta» di un Cechov «diverso» da
Stanislavskij, ci accorgiamo che se non lo si dice, nessuno può capire che
quella «era» ed «è» nonostante tutto la camera dei bambini. Si vede una
«stanza» qualsiasi, più o meno ben fatta, più o meno realistica o
semplicizzata ma il sentimento plastico dell’infanzia non c’è.
È probabile che la stanza sia stata usata, nel tempo, dopo i bambini,
come camera di passaggio. Infatti i personaggi passano, entrano quasi per
caso nella stanza. Liubov dorme altrove, Gaiev anche, Ania pure. La stanza
non serve più. E può essere una specie di vasta anticamera spoglia ma che
porta la traccia dei bambini di un tempo. Qualche mobile rimasto immobile,
mentre i bambini sono diventati vecchi.
Due banchi di scuola, piccoli, dipinti di bianco. Là, i «bambini», fratello
e sorella, facevano i compiti, un tavolino laccato, nano, e qualche seggiolina
e due poltroncine per un salottino «da gioco». Uno scaffale con la lanterna
magica a petrolio e qualche giocattolo restato lì, per caso. E un servizio per
giocare alla cucina o al «pranzo» di Liubov. Una piccola bilancina di latta
per «giocare al commercio», la credenzina con i cassettini per le spezie e un
servizio da caffè e tè, minuscolo. Ma c’è anche un divanone per grandi. E
c’è un armadio-mamma, da un lato, grandissimo, bianco a specchio dentro,
semplice, ma misterioso.
Gaiev e Liubov ritroveranno a poco a poco la loro infanzia perduta non
«soltanto» guardando il giardino nell’alba. Ma vivendo tra i fantasmi rimasti
di un’infanzia sepolta. Finiranno anche per sedere nei banchi, a malapena,
rannicchiati e parlarsi così. Gaiev si sporcherà le dita d’inchiostro come una
volta e Liubov peserà, lo zucchero con la bilancina e verserà un po’ di tè o
caffè nelle tazzine e giocherà con se stessa e con Gaiev, servendo tutto su
una guantierina di latta dipinta. Siederanno anche intorno al tavolino nano,
per un gioco impossibile che culminerà con lo spalancarsi dell’armadio che
incautamente Gaiev avrà battuto e poi aperto girando la chiave, nel suo
sermone sul passato. Perché dentro l’armadio c’è troppa roba stipata alla
rinfusa, che precipiterà in scena come una tenera e lancinante valanga, con
polvere e strass e piume e cappelli e veli e nastri e scarpe e scatole e
marinarette blu e tanto tanto altro, scatole con palle di natale che rotolano e
poi si rompono, carte e lettere e infine la carrozzina cromata di tela cerata
nera, come una piccola bara che correrà da destra a sinistra, sull’avanscena
per poi investire Liubov ignara ancora che si trova la carrozzina del suo
bambino, addosso. E allora, là Liubov piangerà in silenzio. E la stanza
apparirà allora come una specie di cimitero del tempo in cui invano Varia e
anche Liubov e Gaiev poi durante una parte della scena tenteranno di
mettere ordine. Senza riuscirci. Forse finiranno per sedersi per terra sui
vecchi vestiti, cappotti e una coperta di pelo, una volta bellissima, ora
smunta ma ancora morbida da accarezzare e farvisi su dentro. E Ania si
addormenterà così o in mezzo a tanto passato, anche lei a terra, dolcemente
o su un banco piccolo di scuola, senza accorgersi quasi e si farà portar via
così, mentre la luce invade quel terribile e dolce vuoto.
15 gennaio
21 gennaio
L’idea di Cechov di far svolgere il primo e l’ultimo atto del Giardino nella
«camera dei bambini» non è casuale. Né lo è l’armadio, in quella stanza. È
strano che nessuno abbia mai dato l’importanza che merita a questa
evidente figura-simbolo: l’armadio di cent’anni.
A mio avviso l’idea dell’armadio, oggetto reale e plastico, e simbolo
appunto, integra perfettamente l’idea della «camera dei bambini», e cioè dei
giochi di una età ormai favolosa per i «vecchi». Proietta nella camera dei
bambini (oggetti, cose) un altro oggetto-cosa che prolunga il tempo della
stanza. Cioè, nella stanza dei bambini ci sono dei vecchi, e nella stanza c’è
anche una cosa ancora più vecchia, che rimanda ancora più indietro, ancora
più indietro di Firs che è il più vecchio. L’armadio è qualcosa di intermedio
fra la gente che agisce e il giardino, vero e presupposto o simbolico, che è
antichissimo. Il gioco del tempo viene così potenziato dall’armadio e ancora
non è un caso che Gaiev faccia quel lungo discorso proprio all’armadio. I
due termini, insomma, sono in una posizione plastico-dialettica di enorme
efficacia, purché di questo armadio si riesca a fare qualcosa di più di una
presenza relativa.
Non dimentichiamo che Cechov, ad esempio, dice in didascalìa: «Varia
apre l’armadio, che scricchiola». Cechov non scrive mai una didascalìa a
caso. Qui c’è dunque un’indicazione comica, di una cosa «antica», penosa,
che fa fatica, che evoca il senso del tempo, e tanto altro.
29 gennaio
11 febbraio
1 marzo
10 marzo
16 marzo
Il secondo atto del Giardino si svolge all’aperto. È l’unico atto che si svolge
all’aperto. Ha l’aspetto di un «intermezzo». di una cantata a più voci nel
corpo dei quattro atti della storia del giardino. In tutti gli altri atti «succede»
qualcosa: o anzi, succede molto. Nel secondo c’è come una stasi dell’azione
reale, c’è una specie di immobilità ineluttabile delle figure che «stanno lì»,
siedono dopo la passeggiata, «aspettano il tramonto», vedono la natura, e
parlano, discorrono.
E la vita ovviamente va, come i barchetti al filo dell’acqua, di Montale;
anche se i personaggi restano fisicamente immobili, l’azione continua
all’interno, anche se l’intrigo è come sospeso, in un arresto attonito, in un
ripiegamento su di sé, in una meditazione lirica, dove alcune posizioni
gestuali sono sufficienti e vengono appena variate. (L’esempio potrebbe
essere di colui che fuma una sigaretta, ripete i gesti soliti di chi fuma, ma
fra i tanti che fumano ognuno ripete quei gesti a modo suo, con un proprio
tempo, una propria attenzione o disattenzione, una propria voluttà o meno,
indifferenza o altro. Ma il gesto del fumare è uno solo ed uguale nel fondo
per tutti.)
Qui la natura è diventata il palco che ha assunto altre inclinazioni, e il
grande tappeto grigio lucente giardino diventa cielo nel fondo, tirato su e
srotolato dalla camera dei bambini, dal divano, verso l’alto. Attraverso una
grande lacerazione antica del tappeto-cielo-giardino, il plastico della città
che cresce e il trenino magico che passa all’orizzonte. Il trenino poi
ripasserà sul davanti, davanti ai personaggi che lo fisseranno e lo sentiranno
fischiare nella sua reale irrealtà di vita vera e gioco infantile e gioco di
palcoscenico.
Il secondo tempo sarà animato da questi passaggi… E qui andrà
eliminata tutta la simbologia segnata da Cechov: la cappella cadente, le
pietre tombali, i simboli di un mondo che sta in bilico, di cose morte, di una
verità che vacilla, del passato sepolto, del domani che cresce (la città e i pali
del telegrafo), della civiltà industriale che viene avanti, sempre più avanti…
Ho sempre pensato che questa simbologia fosse un retaggio di gusto
incerto, una pericolosa tendenza al simbolismo che Cechov quasi sempre
evita con una straordinaria abilità. (Anche qui, all’atto pratico della
rappresentazione, Cechov sembra fare macchina indietro sulle proprie
stesse didascalie: lettera a Nemirovic-Dancenko del 23 ottobre 1903: «Nel
second’atto non c’è nessun cimitero!».)
È una simbologia che non può arrivare al pubblico con la forza diretta
con la quale arrivano la simbologia della camera dei bambini, del salone
della festa, dell’ammucchiarsi dei mobili dell’ultimo atto, delle valigie della
partenza nella scena vuota con poca roba ammucchiata. Perché tutte queste
sono le simbologie che nascono da una realtà plausibile non composta,
mentre quella del secondo atto può essere plausibile ma è troppo «ben
composta» ad arte per non apparire artificiosa. Non c’è bisogno di questa
simbologia totale: basta la simbologia diretta della città che cresce e del
treno che passa: di quel treno che Cechov non voleva che passasse; o,
meglio, di cui poco gli importava. (Altra lettera: a Stanislavskij, 23
novembre 1903: «Se il treno si mostrasse senza rumore, senza alcun suono,
allora fatelo passare».) A Cechov bastano i silenziosi pali del telegrafo e le
ciminiere della città nella nebbia del fondo per dire che un mondo nuovo sta
sorgendo lì presso; che gli bastano i personaggi per dire che un mondo
vecchio muore.
Ma se noi faremo correre quel trenino non sarà per memoria di
Stanislavskij ma per immettere sempre il doppio tema dell’infanzia perduta
e del gioco in una doppia prospettiva: il treno lontano che passa nel fondo
può essere, è un qualcosa di vero; davanti, è un giocattolo che fugge, fugge
traballando sulle sue piccole finte rotaie.
…
È qui, nel second’atto, che per la prima volta si verifica quel «rumore»
famoso della corda spezzata; problema sul quale tutti i registi del mondo si
sono spezzati le corna. Non credo che la soluzione demistificatoria di
qualche regista attuale (un piccolo suono di gong per cambiare
«atmosfera») sia la soluzione giusta. Meglio allora, coraggiosamente, nulla.
E perché no? Perché questo suono-simbolo non potrebbe essere qualcosa
che i personaggi nel crepuscolo sentono: sentono «loro», ma non noi,
pubblico che guarda? Lo so che questo è forse un semplificare o un girare
attorno al problema (o meglio, così potrebbe forse apparire), ma
probabilmente quel suono proprio non si deve sentire! Deve restare
indeterminato, descritto da ciò che dicono gli attori-personaggi. Non è una
soluzione di comodo. Solo che ecco: il treno che passa improvvisamente si
ferma, e forse deraglia «in quel momento», e le ruote del giocattolo-mostro
girano a vuoto nell’aria con un rumore di sfere e di molle che si scaricano
freneticamente. Poi qualcuno rimette tutto al suo posto, la macchina di
nuovo carica, il trenino riprende ad andare e sparisce traballando in quinta
per poi riapparire sul fondo come prima. Ogni personaggio-attore avrà un
sussulto, e tutti guarderanno e tenderanno le orecchie in varie direzioni,
anche opposte tra loro. Uno verrà alla ribalta, scenderà magari verso il
pubblico cercando il «suono» nella platea, interrogando la platea con lo
sguardo e con un piccolo gesto della mano. Ma nessuno riuscirà a
individuare il «punto» da cui il suono «interiore» è partito. Quel suono è un
brivido della storia, al quale i personaggi danno la più banale delle
spiegazioni possibili. Unica Liubov, che dice: «Non so perché, ma non mi
piace». Il brivido della storia non lo si simboleggia né lo si oggettivizza con
un suono. Neanche con il marchingegno di Stanislavskij e Dancenko.
Oggi, fino a prova contraria, io credo che quel famoso suono sia una
illusione letteraria, un sedimento di scrittura per evocare un fatto sonoro,
che ha l’aspetto di una teatralità oggettiva. E questa ce l’ha per certo:
sembra fatto apposta per dare uno scatto ritmico al finale dell’ultimo atto,
ad esempio. Ma appunto lì si demistifica come tale: è cioè un espediente in
più. Io credo che nessuno possa rifiutare l’idea che lo stesso suono inteso al
secondo atto, ripetuto nell’ultimo atto a scena vuota, con Firs immobile,
nella sua reale-apparente morte, sia non necessario, e che sia anzi di troppo.
Tanto più che insieme a quel suono ci sono anche i famosi colpi di scure sui
ciliegi. Così, io penso che questo suono non lo realizzerò con un «suono»,
ma con un «suono silenzioso» più sonoro di un colpo di lama o di fucile.
Il punto è qui.
21 marzo
5 aprile
Personaggi
Atto primo
Atto secondo
Atto terzo
Atto quarto