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Sono felice.

Apro gli occhi, circondato dall'ebano e le sete di una suite presidenziale, e


intravedo le cime delle palme di Rua Schaumann oltre la finestra.
Cosa ci faccio nel Jardins di Sao Paulo?
Al mio fianco dorme una ragazza di cui non ricordo il nome. Un attimo: non
ricordo proprio nulla – come sono finito qui, o il perché di questa gioia.
Il sorriso che avevo inconsciamente indossato si appiattisce mentre sbircio oltre
l'orlo delle lenzuola; la seta mi accarezza le labbra, liscia come il corpo della morena
che nel sonno si sta flettendo accanto a me, corpo di cui non condivido il profumo di
vaniglia.
Sposto una mano sul suo fianco, e la sento trasalire per una frazione di secondo.
Adesso ne sono certo: abbiamo condiviso soltanto il giaciglio; il che è piuttosto strano, e
mi fa venir voglia di alzarmi e schiarirmi le idee.
Mi sposto in punta di piedi verso il bagno senza sapere il perché di questa
inconscia cautela, illuminato dai raggi dipinti di pulviscolo che giungono dalla finestra; è
sollievo ad accarezzarmi le terminazioni nervose quando colgo la familiarità del mio
stesso volto nello specchio.
“Mi chiamo Marco,” sussurro in italiano, senza riuscire a ricordare il mio cognome.
Cosa significa questa pantomima? Mi trovo in un albergo da milionari insieme a
una specie di modella, e sono preda di un'illogica amnesia.
D'un tratto, uno schianto dalla camera da letto.
Mi affretto a chiudere a chiave la porta del bagno, e mi fermo, in ascolto.
Voci in un idioma che ignoro.
“Vieni fuori con le mani alzate, Skarbek! Abbiamo la ragazza!”
Maschio, voce baritonale, parla in italiano. 'Skarbek'?
Mi guardo in giro, e inizio ad aprire tutti i cassetti del mobile da bagno, mentre da
fuori la mia compagna di letto emette un gridolino.
Ho una sensazione, forse un ricordo: la mensola; sposto gli asciugamani, e trovo
una piccola pistola nera, abrasa nella parte bassa della canna. La raccolgo, premo il
pulsante di fianco al grilletto estraendo il caricatore (pieno), lo reinserisco, scarrello e
rilascio per incamerare il primo proiettile, e mi acquatto dietro alla porta.
“Caralho!” impreco fra i denti. Sembro a mio agio, con un'arma in mano.
Non potevo essere semplicemente uno qualunque, venuto in Brasile per le

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vacanze... un tizio normale, che magari ha esagerato con la cachaça e si ritrova con
un'amnesia alcolica al fulmicotone.
No, per la miseria; sarò un criminale o ancora peggio, una spia.
“Cosa volete?”
Mormorii sommessi.
“Lo sai benissimo, Skarbek. La scimmia di alabastro. Daccela, e vi lasciamo
andare!”
“La scimmia di alabastro?” mi ritrovo mio malgrado a urlare di rimando. Ma cos'è,
pulp anni '50 di infima categoria?
Gli anni '50... quale sarà la data di oggi? L'ultima cosa che ricordo è... la neve, era
Gennaio. Anzi Dicembre, 2013. Quando ho litigato con mia moglie, e-
“Sandra.” sibilo. Mia moglie.
Chi diavolo è la morena nel letto? Ma non ho tempo per pensarci: le voci nella
camera mi riportano alla situazione attuale.
“Basta così. Vieni fuori e non ti faremo del male.”
Se vogliono che li conduca alla 'scimmia di alabastro' mi conviene stare al gioco:
potrei avere un'opportunità per fuggire.
“D'accordo, sto uscendo.”
La pistola nella mano destra, apro la porta con la sinistra, e mi trovo davanti una
scena paradossale.
Un quarantenne brizzolato stringe a sé la ragazza, con una rivoltella puntata al
fianco; lei è di una bellezza eccessiva, da supermodella. Dietro di loro, disposti come
nella copertina di un disco, c'è il resto del gruppo: un omone di colore, un ispanico con i
baffi a manubrio, e un ventenne belloccio a torso nudo. Ciascuno di loro cambia
espressione nel vedermi, assumendo un cipiglio crudele; contemporaneamente
abbassano le proprie armi, e iniziano a sparare.
La detonazione del primo colpo riverbera contro le pareti, assordandomi con un
fischio lancinante; in qualche modo mi risveglio dallo stupore, e mi tuffo all'indietro sul
soffice tappeto del bagno; i tre tiratori continuano a sparare, straziando l'interno della
toilette, sommergendomi con carta da parati ridotta a coriandoli, e schegge di intonaco.
Quando scende il silenzio scatto in piedi e torno nella camera da letto con il
braccio steso, la pistola puntata; il 'capo' ha le mani sopra alle orecchie, ma è l'unico
con il caricatore pieno, oltre a me.

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“Gettala a terra!” urlo verso di lui, che rimane con un'espressione corrucciata a
guardarmi; poi, come ricordando di avere un revolver in mano, abbassa il braccio destro.
Sono più veloce.
La pistola era già ad altezza volto, e strizzo semplicemente il grilletto.
La nuova esplosione viene filtrata dal fischio nelle mie orecchie, e il criminale
cade a terra con un piccolo scoppio di piume dal suo giubbotto.
I suoi tre compagni si stanno affrettando a ricaricare le proprie armi, lanciandomi
sguardi preoccupati.
“Fermo, buttala!” urla il ragazzotto, il primo a guardarmi attraverso un mirino.
Lo squadro con attenzione, abbasso l'arma, e poi inquadro il mio stesso piede
nudo oltre le tacche dorsali della pistola.
Premo il grilletto. Il colpo detona con fragore nella stanza, e il mio piede rimane
intatto.
“Clooney dei poveri, alzati. Ti avevo sparato in testa.”
Un lunghissimo attimo di silenzio segue la mia affermazione.
“Cos'è, una specie di candid camera?” domando rivolto alle appliques sulle pareti,
e a tutto ciò che potrebbe nascondere una telecamera.
In risposta, giunge uno schiocco dalla porta d'entrata, e tutta la parete si solleva
come un sipario, mettendo in mostra un magazzino, brulicante di persone e saturato di
computer.
“Pronti con le clip del giornaliero!” tuona una voce in lontananza.
“Puntata-intervista!” le fa eco una donna che intravedo oltre l'entrata della
stanza da letto, dove il corridoio moquettato da hotel scompare in una cabina di regia.
I tre 'tiratori' attorno a me sono come paralizzati, ed è infine il 'cadavere' a
infrangere l'impasse, alzandosi con un sorriso macchiato di sangue – o sciroppo.
“Sei un grande, Marco!”
Mi viene incontro, mi abbraccia.
Gli altri tre attori e la modella iniziano a battere le mani, e nonostante il
trambusto, anche il resto dello staff oltre la camera da letto si unisce all'applauso.
Dopo alcuni secondi, emerge dalla porta principale un uomo dal volto familiare,
con un taglio di capelli perfetto.
“Marco Nitta!” urla con un sorriso che mi rassicura, mentre l'acclamazione non
accenna a diminuire. Nitta, ecco il mio cognome.

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“Ti ricordi di me?”
Esito. “Jonathan?”
Il suo sorriso mi suggerisce che sono nel giusto.
“Esatto, amico mio. Ma avrai un sacco di domande... noi siamo qui per te. Tutti,
compresi i milioni che ti seguono da casa!”
Ma non sta più parlando con me. Sposta lo sguardo ora su questo muro, ora su
quello, facendomi ruotare con con abili torsioni del palmo della mano sulla mia schiena.
“Marco Nitta: ex-carcerato; ex-marito nonostante tutto ancora fedele alla donna
che l'ha lasciato; superstar di La Storia Infi-Nitta. Marco, come ci si sente a essere il
video-intrattenitore più famoso e pagato del pianeta?”
Mi spiace per chi sta seguendo la diretta.
“Io... non ricordo nulla.”
Jonathan mi scocca una rapida occhiata, e accentua il sorriso.
“Certo, come biasimarti... dunque, faremo ciò che ci chiedi per prima cosa a ogni
fine stagione: IL-PUNTO DELLA SITUA-ZIONE!”
La sua cantilena dà il via a un jingle, il grande schermo vicino alla vetrata prende
vita, e inizia la trasmissione di un mosaico di immagini che ritraggono sempre e solo me.
Qui ci sono io vestito da esploratore ottocentesco a dorso di elefante, là sto
giocando a blackjack a Las Vegas con un'attricetta al braccio...
Jonathan illustra le mie avventure, 'giunte ormai alla quinta stagione!', possibili
soltanto grazie al miracoloso Amnesia22. Un farmaco che ogni notte azzera i miei ricordi
a breve termine, garantendo 'le prospettive fresche e le imprevedibili reazioni' che
avevano caratterizzato la mia presenza su La Storia Infi-Nitta. Effetti collaterali: ha
incasinato ogni mio ricordo.
“E tutto questo per amore di sua moglie, amiche e amici!”
Già. Ricordo la malattia di Sandra, l'impossibilità di pagare l'operazione... e la
TeleDreams che cercava fra i carcerati un volontario per il concetto di reality show che
avrebbe rivoluzionato la televisione.
Il mio cuore inizia a battere più forte.
Non è il 2014, solo i miei ultimi ricordi ripuliti dall'Amnesia22 appartengono a
quell'anno. Sarà il 2018. Ah già, avevano provato a fare una stagione spin-off, con più
partecipanti.
2019? La tachicardia mi investe.

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Spingo via Jonathan, e corro verso la finestra.
Premo contro la zanzariera per saltare fuori, non importa se fossi anche al terzo
piano... non posso più fare questa vita!
Non riesco a incurvare la reticella, e realizzo che si tratta di un gigantesco
schermo LED.
Alle mie spalle Jonathan passeggia chiacchierando, rivolto a invisibili telecamere;
due energumeni in camice verde mi immobilizzano, un ago mi trafigge.
La tensione mi abbandona, e inizio a provare sollievo, felicità.
Le luci si abbassano, la farsa dell'intervista ha termine.
“Domani lasciamo perdere queste cavolate d'azione, e torniamo ai drammoni che
piacciono al pubblico, ok? Forza gente.”
La mia vita è una farsa, come posso sentirmi così bene?
Enantiodromia: l'altro effetto collaterale dell'Amnesia22, il fugace quanto
poderoso sovvertimento dei sentimenti del suo soggetto. Nel mio caso, la saudade.
Sono felice.

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