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CAPITOLO 11

IL CONTESTO DEL CONTROLLO: I CENTRI DI INVESTIMENTO

Problema 11.1 Lambda SpA

Sistemi di controllo – Analisi economiche per le decisioni e la valutazione della performance 15e
Robert N. Anthony, David F. Hawkins, Diego M. Macrì, Kenneth A. Merchant

©2021 McGraw-Hill Education


Problema 11.2 Lambda SpA

In questo vaso il costo variabile dei prodotti delle divisioni coincide con il costo variabile dell’impresa,
riducendo i rischi di sub-ottimizzazione. Poiché le quantità trasferite non cambiano rispetto al problema 1, allora
i costi standard pieni dei prodotti Y e Z (che qui non era richiesto di calcolare) rimangono gli stessi. Non così -
in presenza di quote di costi fissi addebitate mensilmente per la capacità produttiva impegnata - se i volumi
cambiassero.

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Problema 11.3

1.

La divisione C realizza il maggior reddito non modificando il prezzo di €28, mentre l'impresa consegue il
maggior profitto se il prezzo fosse ridotto per allinearlo a quello della concorrenza, qualunque sia la riduzione
del prezzo. Il sistema dei TP produce pertanto sub-ottimizzazioni. Come caso limite, se il prezzo scendesse a
€22 e la divisione non allineasse il prezzo di vendita, allora i ricavi (e il reddito per l'impresa) sarebbero nulli,
mentre adeguando il prezzo alla concorrenza, l'impresa conseguirebbe un margine di contribuzione di €80.000.

2.

Con il metodo in due fasi il costo variabile delle divisioni coincide con quello dell'impresa e, dunque, i
responsabili dei CdP evitano, almeno tendenzialmente, decisioni sub-ottime. In questo caso è nell'interesse dei
manager allineare i prezzi a quelli della concorrenza.

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3. Gli interessi economici dell’impresa sono definire un sistema di TP che motivi i responsabili dei CdP ad
assumere decisioni nell’interesse non solo del proprio CdP ma anche dell’impresa nel suo complesso. Il metodo
in due fasi e meglio ancora l’esistenza di prezzi di mercato, riducono il rischio del problema della sub-
ottimizzazione ma devono sussistere anche altre condizioni (per esempio libertà di vendere o approvvigionarsi
sul mercato etc.).

4.

Problema 11.4

1.

Con un TP pari al costo pieno standard il responsabile della divisione non farebbe alcuna pubblicità, per non
ridurre il proprio reddito, danneggiando però l'impresa (sub-ottimizzazione).

2.

Con il metodo in due fasi avrebbe tutte le informazioni per capire non solo che la pubblicità è, nelle ipotesi fatte,
sempre conveniente ma che il livello che massimizza il margine di contribuzione, che produce, quindi, il
maggiore aumento del reddito della divisione e dell'impresa, è un livello di spesa di €300.000.

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3. Anche in questo caso gli interessi economici dell’impresa sono quelli di definire un sistema di TP che
motivi i responsabili dei centri di profitto ad assumere decisioni nell’interesse non solo del proprio CdP ma
anche dell’impresa nel suo complesso.

4. Gli effetti differenziali per l’impresa sono quelli riportati nell’ultima colonna e pertanto la perdita sarebbe di
€78.000.

Si noti che la somma dei redditi delle due divisioni è uguale al reddito dell’impresa anche in presenza di scambi
infragruppo perché si elidono costi e ricavi nella stessa misura.

Problema 11.5 Enager Industries

Finalità didattiche
Il caso introduce il tema dell’adozione della responsabilità economica denominata di “investimento” (centri
d’investimento) in una struttura organizzativa divisionale, affrontando gli aspetti connessi alle motivazioni
della scelta di tale tipologia di responsabilità economica e alle problematiche di misurazione specifiche che
essa pone. In termini generali il tema s’inserisce in quello più ampio riguardante l'utilizzo delle misure
economiche a supporto delle politiche di decentramento decisionale. La misurazione economica, infatti, non
solo è capace di dare una corretta rappresentazione ai fenomeni economici osservati consentendone
l’interpretazione ma svolge anche un fondamentale ruolo di orientamento dei comportamenti, cioè di
supporto all'agire coordinato. Le misure, in sintesi, attirano l’attenzione sui fenomeni da esse rappresentati,
orientano i processi decisionali e stimolano nei manager comportamenti congruenti con l’obiettivo di
migliorare i risultati. Nelle strutture organizzative decentrate le divisioni costituiscono unità di presidio del
business alle quali è delegata un’autonomia ampia che si estende in molti casi dalla sfera della gestione
operativa (possibilità di gestire rapporti di scambio tra fattori diversi: entità delle vendite versus entità dei
costi, sostituzione tra costi di manodopera e di tecnologia ecc.) alla sfera della gestione competitiva (presidio
di rapporti competitivi di mercato, implementazione di programmi di modifica delle posizioni di mercato

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ecc.). Le motivazioni che spingono dunque ad assegnare una responsabilità economica più ampia di quella
sul solo profitto risiedono nella convinzione che sia opportuno decentrare le decisioni d’investimento e,
conseguentemente, introdurre una misurazione esplicita degli investimenti che la divisione pone in essere a
supporto della propria attività. Tale responsabilizzazione è assegnata sia a livello degli investimenti,
soprattutto per quanto riguarda la parte corrente o circolante 1, sia sul loro economico utilizzo, sintetizzato da
misure di prestazione che mettono in relazione il reddito agli investimenti necessari per produrlo. Tali misure
vogliono essere in grado di rappresentare correttamente tutti gli effetti, reddituali, patrimoniali e finanziari,
delle politiche divisionali, per evitare di premiare decisioni e azioni capaci di massimizzare il profitto
(divisionale) tramite un impiego non soddisfacente del capitale investito (si prenda, per esempio, un
incremento dei ricavi ottenuto attraverso un aumento eccessivo delle dilazioni commerciali). Per tali ragioni
le divisioni sono sovente denominate "centri d’investimento" e vanno a costituire il perno, l'unità di base
sulla quale strutturare sia i meccanismi di misurazione delle prestazioni aziendali, sia i meccanismi di
monitoraggio competitivo, sia i meccanismi di analisi e gestione degli investimenti. In estrema sintesi la
misura "ideale" di prestazione divisionale deve al contempo guidare correttamente i processi d’investimento,
orientare coerentemente i comportamenti dei responsabili di divisione all'impiego ottimale delle risorse nel
breve periodo e al presidio delle cause della competitività di lungo periodo, valutare adeguatamente la
contribuzione della divisione al raggiungimento dell'economicità globale dell’impresa e le capacità manage-
riali del responsabile di divisione.

Il raggiungimento efficace di tutte le finalità sopra menzionate richiede che al sistema di misurazione delle
prestazioni divisionali si dedichi una serie di attenzioni. Il Caso Enager ha il suo focus nei suddetti temi,
presentando alcune difficoltà di funzionamento del sistema di misurazione delle responsabilità economiche.

Messaggi chiave

La chiarezza e la condivisione dei criteri di calcolo delle misure di prestazioni prescelte costituiscono le
precondizioni di efficacia del sistema di responsabilizzazione economica. In un sistema manageriale che pone
a fondamento dei sistemi di valutazione le misurazioni, occorre che queste siano "socialmente oggettive",
ossia si generi attorno a esse una condivisione fondata sulla comprensione della metrica e delle regole di
misurazione adottate e che tale metrica sia ritenuta equa, cioè in grado di misurare in modo soddisfacente il
fenomeno e il contributo apportato dal manager ritenuto responsabile di quella performance. Spesso, infatti,
la presunta semplicità delle misure adottate porta a sottovalutare le possibili ambiguità di significato delle
misure stesse così come percepite dai diversi manager.

Prendendo a riferimento il concetto di redditività degli investimenti una misura “semplice” che pone in
relazione il reddito al valore degli asset necessari a conseguirlo, cioè agli investimenti effettuati) si può, infatti,
sottolinearne agevolmente la sua ambiguità: basti sfogliare un qualsiasi testo di analisi economico-finanziaria

1
Il controllo delle immobilizzazioni tecniche, infatti, è di norma attuato tramite i meccanismi di analisi e di autorizzazione degli
investimenti basati sulle tecniche di Capital Budgeting.
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di impresa per accorgersi di quante differenti modalità di calcolo della redditività esistano. ROI (Return on
Investments), ROA (Return on Assets), RONA (Return on Net Assets) o l’equivalente ROCE (Return on
Capital Employed), sono le sigle più ricorrenti fra gli indicatori di redditività, ognuna caratterizzata da sottili
differenze di calcolo. È quindi necessario, per evitare difficoltà nell'accettazione delle responsabilità
economiche e conflitti in sede di valutazione delle prestazioni, che si sviluppi fra i membri
dell’organizzazione un linguaggio economico-finanziario condiviso che permetta di comunicare sul tema
evitando interpretazioni differenti degli stessi termini. La Tabella 3 del caso Enager, la quale presenta diversi
metodi di calcoli della redditività operativa, è significativa di quanto appena evidenziato. In tale caso occorre:

a. Definire con chiarezza il metodo di calcolo del profitto divisionale. Ciò comporta l'identificazione di
quali componenti di ricavo e di costo entrino a far parte del calcolo (per esempio le imposte sul reddito
possono entrare o meno a far parte del calcolo) e l’individuazione dei metodi di valutazione di alcune
componenti di costo (per esempio, ammortamenti calcolati sulla base del costo storico versus il valore di
rimpiazzo dei beni).
b. Definire con chiarezza il calcolo del Capitale Investito. Anche in tale caso occorre identificare: (1) quali
elementi d’investimento (quali attività e passività) entrino a far parte del calcolo (ad esempio, i debiti
verso fornitori possono essere dedotti dal totale dell’investimento in attività, oppure possono essere
considerati una fonte di finanziamento) e (2) l’individuazione dei metodi di valutazione di alcune
categorie di investimento (per esempio, per buona parte dell'attivo fisso netto vale l'alternativa costo
storico versus valore di rimpiazzo dei beni).

La chiarezza delle scelte effettuate è particolarmente critica proprio allorché si ragioni attorno al concetto di
redditività dell’investimento divisionale, la quale va costruita partendo dal presupposto della controllabilità,
ossia del principio secondo il quale la natura e l'estensione della responsabilità economica assegnata alla
divisione devono essere coerenti con le leve di governo attivabili da parte dei suoi responsabili. Di qui
lo sviluppo di una serie di configurazioni di “reddito divisionale controllabile” tanto più utilizzate quanto più
i meccanismi di misurazione delle prestazioni abbiano collegamenti formali con il sistema degli incentivi.
Per esempio, si pensi al diverso trattamento del quale possono essere oggetto i costi dei servizi generali di
corporate, addebitabili o no ai centri di investimento. Il caso permette qui di rilevare come nella scelta della
misura di prestazione occorre sempre tenere ben distinti i due oggetti di analisi e valutazione: la performance
del manager divisionale e la performance economica del centro di responsabilità inteso come un investimento.
Gli addebiti proposti possono, infatti, essere considerati differentemente a seconda che si stia valutando i
risultati dell'attività manageriale oppure l'economicità della divisione. Nel caso in questione la casa madre
alloca tutto l’investimento e poi pretende, in modo contraddittorio (cioè non rispettando un principio di
autorità-responsabilità) di valutare la performance con indicatori di redditività.

La scelta della misura di prestazione di un centro d’investimento deve aiutare a prevenire fenomeni di
sub-ottimizzazione. Il caso presenta una situazione in cui le prestazioni delle divisioni sono misurate tramite

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il ROI e le prestazioni dell'intera impresa sono monitorate anche con altri indicatori, fra i quali assume
preminenza l'EPS (earning per share). L'analisi dei dati, inoltre, consente di verificare che la crescita del ROI
non coincide sempre e comunque con la crescita dell'EPS. Tale fenomeno rimanda alle problematiche di sub-
ottimizzazione, ossia alla possibilità che la massimizzazione dei risultati dei centri d’investimento non
conduca contemporaneamente a una massimizzazione dei risultati dell'intera impresa. Per quanto riguarda i
centri d’investimento, una delle possibili cause risiede nell'ignorare il costo del capitale nel calcolo del pro-
fitto divisionale. L'adozione di misure di reddito residuale o EVA potrebbe diminuire la possibilità del
verificarsi di tali eventi. Una seconda e ultima causa affrontata dal caso è nelle modalità di definizione dei
target di ROI per le divisioni. Sebbene appaia evidente come i tre centri d’investimento della Enager
possiedano dei profili di rischio alquanto differenti (e con essi potenziali di ROI altrettanto diversi), l'impresa,
come tipico, utilizza lo stesso target di ROI per tutte e tre le divisioni. Pare esserci dunque confusione fra ciò
che è considerabile come un soddisfacente ritorno per l'impresa nel suo complesso e ciò che è un sod-
disfacente ritorno da conseguire nei singoli business ove sono presenti le tre divisioni. La negoziazione del
ROI target, da compiersi durante i processi di budgeting, dovrebbe appunto servire a specificare gli obiettivi
di ROI. Da tale punto di vista il processo top-down seguito in Enager non pare efficace, cosi come le modalità
di valutazione economico-finanziarie del nuovo prodotto.

Temi generali sollevati dal caso

Sono descritti in sequenza vari temi che il caso fa emergere.

1. Reddito versus redditività. È possibile sollevare questa questione chiedendo agli studenti: qual è
l’obiettivo generale di un’impresa orientata al profitto? Tipicamente la prima risposta è:
“massimizzare il reddito”. Si può quindi chiedere se questo significa che un’impresa che ha un
reddito netto di 100 ML€ abbia una redditività doppia rispetto a quella di un’altra impresa con un
reddito netto di 50 ML€. Gli studenti capiscono allora che il reddito deve essere rapportato agli
investimenti necessari per generarlo e si arriva così alla conclusione che la redditività degli
investimenti (misurata da indicatori tipo ROI) è una misura di prestazione più rilevante di quanto
non lo sia il reddito.
2. Utilizzo dei centri d’investimento. Una volta stabilito che il ROI è una misura di prestazione
d’interesse dell’alta direzione, è facile comprendere che la responsabilità di conseguire una
redditività complessiva adeguata può essere segmentata e decentrata, al pari della responsabilità di
conseguire reddito ricorrendo ai centri di profitto. Tuttavia, se il ROI è utilizzato per stabilire la
prestazione dei manager dei centri d’investimento, allora un principio di equità (il paradigma
autorità-responsabilità) richiede che il manager abbia la possibilità di influenzare significativamente
sia il reddito sia il livello degli investimenti. Nella maggior parte delle imprese una responsabilità
così ampia è riscontrabile solo a livello divisionale o più in alto (il termine divisione connota un’unità
organizzativa sostanzialmente autonoma con un ampio controllo sulle attività produttive, di
approvvigionamento e commerciali e su alcuni asset). A questo punto è utile tracciare una distinzione
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molto importante tra l’utilizzo del ROI come misura della prestazione economica di un CdR e come
misura di prestazione del manager che guida quell’unità, distinzione questa che è spesso non
conosciuta da molte imprese. Non c’è davvero alcun motivo di trattare un CdR come Centro di
Investimento se il suo manager non è in grado di influenzare significativamente il livello degli
investimenti della sua unità organizzativa. Questo non significa, però, che non possa essere
comunque conveniente calcolare il ROI per conoscere la redditività di quel CdR inteso come
investimento in risorse dalle quali ci si aspetta un ritorno adeguato, ma quest’informazione non
richiede una rilevazione frequente o regolare. In tal caso la misura del ROI è dunque una misura che
appartiene a un report economico non a un report di controllo.
3. Definizione del ROI. Sino al momento gli studenti sono consapevoli del fatto che il ROI è
genericamente definito come rapporto tra una qualche configurazione di reddito e una qualche
configurazione di investimento. Chiedo dunque: “Che cosa è l’investimento?” Non è conveniente, a
questo punto, entrare nel dettaglio di come valutare le singole attività, quanto piuttosto fare presente
che la nozione “investimento” è da taluni interpretata come (1) Totale attività, da altri (2) “Totale
attività – Debiti operativi”, differenza quest’ultima denominata Capitale investito 2, da altri ancora
come (3) Capitale investito dalla Proprietà, cioè Capitale Netto.

È utile allora ricordare che nessuno di questi concetti è giusto o sbagliato in sé, perché la sua rilevanza
dipende dalla prospettiva di chi è interessato al ROI. Un’azionista (e probabilmente un’analista
finanziario) è prevalentemente interessato ai valori del ROE. I responsabili finanziari della casa
madre focalizzano invece il ritorno sul capitale investito (RONA o ROCE) nella consapevolezza che
i debiti operativi non sono a interesse esplicito (si pagano da soli) e che, inoltre, si sviluppano
“automaticamente” con la crescita dei volumi (in tal caso l’investimento al quale riferirsi è il capitale
investito e cioè “totale attività – debiti operativi” e non “totale attività”). I manager operativi, infine,
non s’interessano a come le attività da essi gestite siano finanziate, quanto piuttosto da quanto bene
tutte le attività siano impiegate, giungendo così a una configurazione di ROA (ritorno sul totale
attività), come ad esempio quella utilizzata dall’azienda. La tabella 4 del caso contiene una
molteplicità di configurazioni di ROI per rimarcare il fatto che il termine ROI è fortemente ambiguo.
Nel calcolo del ROCE, ad esempio, (1) la configurazione di reddito utilizzata a numeratore è il
risultato economico dell’impresa unlevered (priva di debito finanziario) e (2) il totale delle attività è
al netto dei debiti operativi; non così però per il ROI utilizzato dall’azienda per valutare la prestazione
dei manager dei centri di investimento. Insomma, le organizzazioni sono entità tecnico-sociali
particolarmente complesse e, dunque, la loro performance è necessariamente multidimensionale. Il
fatto però che molteplici debbano essere gli indicatori di performance non significa che una stessa

2 Il Capitale investito è pertanto pari alla somma dei debiti finanziari in senso stretto + il capitale netto, dunque il totale delle fonti
finanziarie a interesse esplicito.
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dimensione di performance (la redditività o l’economicità) possa essere misurata con N indicatori
diversi e anche contraddittori.
4. Crescita di ROI e di EPS (utile per azione) non sono necessariamente correlati. E’ bene fare
presente agli studenti che è possibile aumentare l’utile per azione, sia pure alla presenza di una
riduzione del ROI. Enager presenta, infatti, un incremento di EPS dal 2020 al 2021, ma una
contrazione del ROA. Una possibile causa di questo fenomeno è la circostanza che i principi contabili
ignorano il costo del capitale netto nel calcolo del reddito. Per esempio, un progetto con un risultato
operativo del 6% sui ricavi finanziato con debito all’8% riduce l’EPS. Ma lo stesso progetto
finanziato con autofinanziamento (ad esempio utilizzando liquidità con un basso costo di opportunità,
ad esempio 2%) produrrebbe un incremento dell’EPS (anche se il ROA del progetto fosse inferiore
del ROA aziendale senza il progetto), riducendo quindi il ROA a dispetto della crescita dell’EPS.
Come ben noto, infatti, è possibile ridurre il valore per gli azionisti (ROE inadeguato) sia pure
essendo positivi i risultati economici (in tal caso EVA sarebbe negativo). Nel caso Enager questo
fatto si è verificato perché la crescita del Risultato Operativo (€1.031) è stata maggiore della crescita
degli interessi passivi (€382) generando pertanto un aumento dell’EPS. Il rapporto tra l’aumento del
RO e l’aumento delle Attività (€11.387) è però del 9,1% (1.031/11.387), valore più basso del ROA
dell’anno precedente (9,5%). In definitiva affinché l’EPS aumenti è sufficiente che cresca il reddito
in assoluto (a parità di azioni in circolazione), mentre il ROA potrebbe ridursi se il rapporto tra
l’incremento del reddito e l’incremento delle attività risultasse inferiore del valore iniziale del ROA.
5. Definizione dei valori target del ROI. Sebbene appaia ovvio che diversi centri d’investimento
debbano affrontare livelli di rischio altrettanto diversi e dunque abbiano ROI target diversi, è
altrettanto vero che molte imprese utilizzano lo stesso valore obiettivo di ROI per tutti i centri
d’investimento sebbene collocati in business con caratteristiche di rischio e di rendimento atteso
diversi (così come posto in atto da Mr. Hubbard della Enager). I tre centri d’investimento di Enager
operano in settori diversi quindi con un mix di asset altrettanto differenti (ad esempio la divisione
che eroga servizi avrà certamente valori molto bassi di immobilizzazioni), dunque anche i ROI
potenziali (target) dovrebbero essere diversi, ma l'impresa, come spesso è tipico, utilizza uno stesso
ROI obiettivo per tutte e tre le divisioni. Pare esserci dunque confusione tra ciò che è
considerabile come un soddisfacente ritorno per l'impresa nel suo complesso e ciò che è un
soddisfacente ritorno sia per le singole divisioni sia per i singoli manager divisionali, considerate
le specifiche condizioni del settore e del business nei quali business e divisioni operano.
Probabilmente questo fenomeno accade per una ragione alla quale si è già prima accennato e cioè
confondere ciò che rappresenta un ragionevole rendimento sul capitale dell’impresa nel suo
complesso con quello che invece è un obiettivo di ROI ragionevole per i manager dei singoli CdI,
considerate le caratteristiche del settore e il fabbisogno e la natura di investimenti che richiede…. Se
lo scopo è valutare la prestazione dei manager, allora il ROI obiettivo dovrebbe essere negoziato tra
il responsabile della divisione e il suo superiore come parte integrante del processo di budget e

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dovrebbe riflettere le caratteristiche del settore e poi il manager dovrebbe avere il controllo sia del
capitale circolante che delle immobilizzazioni materiali e del capital budgeting.
6. Definizione della configurazione di reddito a numeratore del ROI. Qualunque sia il livello di
dettaglio che s’intende utilizzare, gli studenti dovrebbero almeno comprendere che definire come
reddito la configurazione di risultato economico riportata agli azionisti in base ai principi contabili è
solo uno dei modi per calcolare il valore da porre a numeratore della formula del ROI. Per esempio,
le imposte possono essere omesse dal calcolo e così pure gli interessi passivi; l’ammortamento può
essere calcolato a costi di rimpiazzo piuttosto che a costi storici e il reddito potrebbe avere a
riferimento una valorizzazione delle rimanenze fatta con il variable costing piuttosto che con il full
costing. Inoltre, alcune aziende potrebbero utilizzare la nozione di reddito controllabile dal manager.
Ritengo in generale che una definizione di ROI che abbia a numeratore una configurazione di reddito
controllabile sia la migliore per un calcolo del ROI che abbia lo scopo di valutare le prestazioni del
manager del centro di investimento (report di controllo) e, al contrario, che una configurazione di
reddito comprendente anche i costi non controllabili sia più adeguata per svolgere analisi economiche
(report economici). È comunque prassi diffusa non compiere queste distinzioni.
7. Definizione della configurazione d’investimento a denominatore del ROI. Il fatto che si consideri
come investimento: (1) il totale delle attività, (2) il capitale investito (totale attività – debiti di
regolamento) o (3) il capitale netto modifica evidentemente l’ammontare dell’investimento. È prassi
diffusa anche in questo caso definire l’investimento come valore delle attività riportato agli azionisti,
cioè come valore del Totale attività presente nello stato patrimoniale. Gli studenti capiscono che
questa configurazione d’investimento fa crescere automaticamente il ROI con il passare del tempo
se non si effettuano nuovi investimenti (cresce infatti nel tempo il valore del fondo ammortamento)
e può segnalare miglioramenti di prestazione che invece non ci sono.
8. ROI versus Residual Income o EVA. Sebbene questo tema sia forse «advanced» per un caso di una
sessione che tratti del ROI, molti docenti ritengono che a questo punto dovrebbe essere introdotto il
concetto di E.V.A. o Economic Value Added). In tal caso si dovrebbe cercare di comunicare il
vantaggio concettuale del R.I. sul ROI. Utilizzare il ROI come misura di prestazione potrebbe infatti
motivare il rifiuto di un progetto di investimento che, sia pure avente un ritorno superiore al costo
del capitale aziendale e dunque in grado di produrre valore per gli azionisti, prospettasse un ROI
inferiore a quello iniziale della divisione. Il concetto di EVA ha anche a che fare con il problema di
come definire il reddito, giacché il concetto corrisponde sostanzialmente all’idea di reddito degli
economisti. Poiché il passare del tempo e la corrispondente riduzione (a motivo degli ammortamenti)
della “base di investimento” determina automaticamente una crescita sia del ROI sia dell’EVA, è
preferibile ai fini delle valutazioni manageriali ciò che viene denominato “EVA parziale” e cioè: il
reddito netto + gli interessi passivi meno il prodotto del costo del capitale (WACC) per la somma
delle rimanenze e dei crediti commerciali (escludendo pertanto dal valore dell’investimento le

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immobilizzazioni tecniche da valutare attraverso le tecniche di capital budgeting e successive attività
di audit a consuntivo).
9. Le proposte d’investimento in un sistema che utilizza il ROI. Questa questione consente di entrare
nel vivo del caso Enager. Se gli studenti hanno già studiato le tecniche di Capital Budgeting, allora
capiscono immediatamente che sarebbe necessario utilizzare tecniche di attualizzazione dei flussi di
cassa per valutare la proposta di Ms. McNeil’s e che, invece, l’utilizzo del ROI non è appropriato.
Nonostante questo, molti manager accettano progetti solo perché sono in grado di fare crescere l’EPS
o il ROI. Una questione che spesso incuriosisce gli studenti è la seguente: perché il livello minimo
di soglia di accettazione di un investimento (hurdle rate o cut-off rate) è maggiore del ROI obiettivo
della divisione? Una ragione è che molte risorse finanziarie aziendali (e divisionali) sono allocate in
progetti (spesso obbligatori) che non producono alcun beneficio economico immediato, come ad
esempio progetti per ridurre l’inquinamento. Un progetto “orientato al profitto” deve pertanto farsi
carico anche di queste risorse impegnate in progetti economicamente improduttivi in modo tale da
compensarne l’effetto. In alcuni casi è possibile approfondire questi concetti e comunicare
formalmente perché l’utilizzo del ROI per la valutazione degli investimenti sia inadeguato. La
tecnica (Capitolo 17) che utilizza il ROI per valutare un investimento è denominata metodo del
rendimento medio contabile (accounting rate of return): il rapporto tra il reddito medio contabile del
progetto (che sconta pertanto anche l’ammortamento) e il valore medio contabile netto
dell’investimento 3. Se questo rendimento è maggiore di un ROI obiettivo, il progetto può essere
accettato, viceversa dovrebbe essere scartato. Il rendimento medio contabile è quindi un indicatore
tipo ROI, sia pure espresso come valore medio su più anni. Un esempio. È facile verificare che un
investimento di €1.200 che generi incassi di €400 per quattro anni ha un rendimento (TIR) del 12,6%.
Con il metodo del rendimento medio i calcoli necessari (ignorando le imposte e supponendo che le
entrate di cassa coincidano con il reddito generato dal progetto + gli ammortamenti) sarebbero i
seguenti:
Componenti annuali positive di reddito €400
Meno: ammortamento (1/4 di €1.200) 300
Reddito netto generato annualmente €100

Dividendo il reddito medio netto (€100) per il valore medio dell’investimento (€600) il risultato che si
ottiene è 16,66%, diverso dal valore del TIR. L’errore nasce perché il metodo del rendimento medio
contabile non tiene conto del fatto che i flussi finanziari occorrono in periodi temporali diversi. Tratta
pertanto 1 € di entrata di cassa di un certo anno come se avesse lo stesso valore di 1 € incassato in un
altro qualsiasi anno, mentre la prospettiva dell’incasso di 1 € per l’anno prossimo è in realtà più

3 Si pone a denominatore il valore contabile netto medio (si ricorda che il valore contabile netto è la differenza tra il costo storico del
bene a utilizzo pluriennale e il suo fondo di ammortamento) perché a seguito dell’ammortamento questo valore si riduce
progressivamente fino a zero. L’ammontare contabile netto medio dell’investimento è pertanto, qualora l’ammortamento sia lineare, il
50% dell’esborso iniziale.
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interessante della prospettiva di un’entrata di cassa di 1 € tra due anni. Il metodo del rendimento medio
contabile dà troppa importanza ai flussi di cassa lontani, sicché il valore del rendimento medio
contabile tende a sopravvalutare il rendimento effettivo.

Esempio. Un’impresa sta valutando la possibilità di prendere in locazione uno spazio


in un centro commerciale e questo richiederebbe un investimento in attrezzature e mobili
di €400.000. Si assuma per ipotesi che la durata prevista di quest’attività commerciale
sia di cinque anni e che al termine del periodo il valore di mercato dei mobili e delle
attrezzature sia trascurabile. I ricavi, i costi e i dati necessari al calcolo del rendimento
medio contabile sono riportati in tabella. La concorrenza e la perdita dell’”effetto
novità” conducono, a partire dal terzo anno, alla progressiva contrazione dei ricavi e
del reddito. Il valore del rendimento medio contabile è calcolato prima determinando il
reddito medio nei cinque anni di durata del progetto, quindi calcolando il suo valore
medio (€30.500) e dividendo infine questo valore per il valore contabile netto medio
(€200.000).

anno 0 anno 1 anno 2 anno 3 anno 4 anno 5


Ricavi 500.000 550.000 600.000 400.000 300.000
Costi 350.000 385.000 420.000 280.000 210.000
Ammortamento 80.000 80.000 80.000 80.000 80.000
Reddito ante imposte 70.000 85.000 100.000 40.000 10.000
Imposte (50%) 35.000 42.500 50.000 20.000 5.000
Reddito netto 35.000 42.500 50.000 20.000 5.000

Esborso iniziale per attrezzature 400.000

Costo storico attrezzature 400.000 400.000 400.000 400.000 400.000


Fondo ammortamento 80.000 160.000 240.000 320.000 400.000
Valore contabile netto 400.000 320.000 240.000 160.000 80.000 0

Valore contabile netto medio 200000 (=400.000/2)


Reddito medio nel periodo 30.500

Rendimento medio contabile 7,6%

Infine, il metodo non utilizza flussi finanziari, ma valori di bilancio come i ricavi, i costi e il valore
contabile netto dell’investimento. Un qualunque metodo che non consideri il valore economico del tempo
e che si riferisca a una competenza economica e non di cassa non può produrre un risultato corretto.
Nonostante la superiorità concettuale del metodo del VAN, le ricerche empiriche mostrano che il metodo
del rendimento medio contabile è ampiamente usato nella prassi. Le ricerche mostrano anche che: (1) la
maggior parte delle imprese impiega contemporaneamente uno o più criteri per valutare la convenienza
economica delle proposte d’investimento e (2) quanto più rilevante è il budget degli investimenti, tanto
più ampia è la varietà delle tecniche usate. Diversi fattori spiegano l’utilizzo nella prassi dei metodi di
valutazione che non ricorrono all’attualizzazione dei flussi di cassa o addirittura nemmeno ai flussi di
cassa. In primo luogo, molti manager si preoccupano soprattutto delle conseguenze dei progetti sulla

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performance di breve periodo, così come riportata in bilancio. Un progetto accettabile in base al VAN
potrebbe essere respinto perché potrebbe ridurre il reddito netto e i valori del ROI nell’esercizio prossimo
o nei due successivi. Se il management ritenesse che il ROI fosse l’indicatore usato dagli analisti
finanziari per valutare l’azienda, allora potrebbe preferire il ROI come criterio di scelta tra investimenti.
Il problema, più volte ricordato è quello che, spesso, i modelli decisionali teorici non sono coerenti con
i criteri di valutazione delle performance dei manager. I manager tendono, infatti, a favorire la scelta che
migliora i valori degli indicatori che misurano la loro prestazione, indipendentemente dal fatto che tale
scelta sia anche quella più conveniente per l’impresa e per la Proprietà. Quando i modelli decisionali
(come, ad esempio, il VAN) entrano in conflitto con i criteri di valutazione delle prestazioni manageriali
(ad esempio il ROI), prevalgono in genere quest’ultimi criteri.

Esempio. Un investimento ammortizzabile richiede un esborso di €100.000 e produce per tre


anni consecutivi tre entrate di cassa pari rispettivamente a €10.000, €50.000, e €200.000.
S’ipotizzi inoltre per semplicità che queste entrate di cassa si riferiscano a una differenza tra
ricavi e costi tutti con manifestazione finanziaria nell’anno di competenza. Se il costo
opportunità del capitale fosse il 10%, il VAN sarebbe positivo, pari a €106,7. Sebbene il VAN
sia maggiore di zero, il reddito aziendale del primo anno si ridurrebbe. Nell’ipotesi di
ammortamento lineare su tre anni, la quota annuale sarebbe, infatti, €33.333 (100.000/3)
quindi superiore ai benefici economici (€10.000) del primo anno. Il ROI e il reddito di
quest’esercizio subirebbero pertanto una riduzione e il management potrebbe rifiutare
l’investimento se fosse valutato sulla base del ROI.

Il manager di un centro di profitto potrebbe essere influenzato da preoccupazioni del tutto simili. Se
ritenesse che la possibilità di ottenere una promozione fosse strettamente dipendente dalla redditività a
breve del suo centro di profitto, potrebbe (anche se il progetto prospettasse un VAN positivo) non
presentare mai alla direzione una proposta d’investimento avente una conseguenza negativa sugli utili di
breve termine. Questo è tanto più vero quanto più i manager sono motivati da incentivi connessi ai
risultati di breve termine, come ad esempio bonus. È utile a questo proposito ricordare che sono le
persone a generare proposte d’investimento e, che i progetti non si materializzano da soli. Un altro fattore
che spiega perché progetti sia pure con un VAN positivo o un tasso interno di rendimento adeguato siano
talvolta respinti (o neppure proposti) è l’avversione al rischio da parte del management. Anche se un
progetto costituisse una scommessa accettabile per l’impresa nel suo complesso, un manager potrebbe
temere di essere personalmente penalizzato se il progetto non ottenesse il rendimento previsto.
L’avversione al rischio contribuisce probabilmente a spiegare l’uso diffuso, nonostante i forti limiti
teorici, del metodo del tempo di recupero. Se si prevede che il progetto A abbia un TIR del 20% e un
periodo di recupero di otto anni, mentre si stima che il progetto B abbia un TIR del 15% e un periodo di
recupero di tre anni, il manager del centro di profitto sceglie probabilmente il progetto B. L’orizzonte

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temporale del progetto A è molto ampio, quindi aumenta l’incertezza delle stime dei suoi flussi di cassa.
Dovranno inoltre trascorrere diversi anni prima di potere giudicare se il progetto sia stato o no un buon
investimento. Il manager spera poi di ottenere nel frattempo almeno una promozione, sicché tra otto anni
occuperà probabilmente un’altra posizione e il suo successore, oggi sconosciuto, raccoglierà buona parte
dei benefici del progetto A. Il progetto B, invece, può far fare “una bella figura” al manager nel breve
termine e aiutarlo a ottenere la promozione.

In definitiva fattori diversi dal valore economico in senso stretto (il VAN) influenzano notevolmente (e
comprensibilmente) l’approvazione dei progetti e condizionano addirittura il processo di selezione, cioè
il fatto che alcuni progetti, sia pure con VAN > 0 siano proposti formalmente al top management.

Una conclusione generale sul ROI. Il ROI è concettualmente semplice, ma difficile da implementare se
non si intuiscono (così come accade a Hubbard e Rendall) quali sono le “trappole” nelle quali si può
cadere. Gli studenti non devono essere lasciati con la sensazione che il ROI sia necessariamente da evitare,
quanto piuttosto con la convinzione che la sua implementazione richieda molta attenzione.

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