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As/Saggi
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(Collana diretta da Roberto Bertoldo)
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ROMAN JAKOBSON

La fine del cinema?


a cura di Francesca Tuscano

BOOKTIME
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 4

Prima edizione novembre 2009

Proprietà letteraria riservata


© 2009 BookTime - Milano
ISBN 978-88-6218-152-5
www.booktime.it
info@booktime.it
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 5

INTRODUZIONE

Nella primavera del 1967 appare nella rivista «Cinema e


film» un’intervista a Roman Jakobson sul cinema.1 Al-
l’intervista segue la traduzione, di Caterina Graziadei,
del saggio che Jakobson dedicò al cinema, negli anni
Trenta, durante il soggiorno praghese,2 prima che l’in-
vasione nazista lo costringesse a emigrare negli Stati Uniti.
Úpadek filmu?, dunque, viene tradotto in Italia, con il
titolo di Decadenza del cinema?, negli anni cruciali della
fine del Neorealismo e della nascita del “nuovo cinema”
italiano, quelli dell’affermazione di grandi autori come An-
tonioni, Fellini, Pasolini, Bertolucci, Petri, ecc., e nel pie-
no della discussione sulla lingua o linguaggio del cinema,
che avrebbe coinvolto Christian Metz, Pier Paolo Paso-
lini, Roland Barthes. La rivista che ospitava le pagine de-
dicate a Jakobson, d’altronde, aveva già dato spazio a Pa-
solini e Barthes, proprio nel numero d’esordio,3 e sem-
1
Conversazione sul cinema con Roman Jakobson, a cura di A.
Aprà e L. Faccini, in «Cinema e film», a. I, n. 2, primavera 1967,
pp. 157-62.
2
Il saggio, scritto a Praga nel 1932, fu pubblicato da Ja-
kobson, con il titolo Úpadek filmu? in “Listy pro umčni a kri-
tiku”, I (1933), pp. 45-49.
3
«Cinema e film», a. I, n. 1, inverno 1966-67.
5
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pre a proposito della “linguistica” e della semiotica del


cinema.
All’interno di un dibattito che si era fatto subito ap-
passionato, il nome di Jakobson non poteva mancare,
soprattutto, poi, negli anni in cui in Europa, a partire
dalla Francia, si andava diffondendo la “moda” della cri-
tica letteraria e della semiotica russa. Eppure, tra le tan-
te opere del teorico russo, apparse in Italia, proprio que-
sto suo unico lavoro sul cinema non sembra aver avuto
grande risonanza. Molta più attenzione è stata posta, (ov-
viamente), agli scritti di linguistica, in particolare a quel-
li relativi allo studio delle afasie, e ad alcuni di critica let-
teraria (soprattutto, e giustamente, al saggio sulla morte
di Majakovskij).4 Così facendo, però, cioè prediligendo
lo Jakobson “praghese” e “americano”, ci si è spesso di-
menticati – non è il caso, certo, dei suoi maggiori studiosi
– delle origini russe e formaliste del pensiero del grande
teorico, giungendo quasi a negarle, (come se la ricerca
di Jakobson fosse iniziata con la fondazione dello Strut-
turalismo ceco).
Per Jakobson, però, non fu mai così. Lo stesso Strut-
turalismo ceco, da lui creato, nacque dall’esigenza di ri-
fondare i principi del Formalismo e, a più di quaran-
t’anni dalla sua partenza dalla Russia, nell’intervista del
1967 su «Cinema e film» Jakobson ricorda e cita idee,
uomini e “miti” del Formalismo. Idee, uomini e “miti”
4
Si tratta di O pokolenij, rastrativšem svoich poetov, Berlino
1931 (tradotto in italiano con Una generazione che ha dissipato
i suoi poeti. Il problema Majakovskij, Einaudi, Torino 1975).
6
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peraltro presenti in La fine del cinema?, saggio che, pur


appartenendo al periodo praghese, può, a mio avviso,
rientrare ancora tra i lavori che i Formalisti riservarono
al cinema (dai quali prende esplicitamente spunto).
Non è quindi inutile, anzi è fondamentale, prima di af-
frontare l’analisi del saggio sul cinema, come di ogni sua
opera, ricordare le origini della formazione di quello che
è stato uno dei padri della linguistica e della semiotica con-
temporanee.

L’epoca dei giovani sperimentatori. La formazione di Roman


Jakobson
Roman Jakobson frequentò l’Università di Mosca e l’Isti-
tuto Lazarev di Lingue orientali, e qui iniziò gli studi su
poesia e folklore, che, fino all’ultimo, sarebbero rimasti
tra gli oggetti di ricerca preferiti.
Giovanissimo, a soli diciannove anni, con altri due
studenti universitari altrettanto giovani, Pëtr Bogatyrëv
e G.O. Vinokurov, fondò il Circolo Linguistico di Mo-
sca, l’Mlk (Moskovskij lingsvističeskij kružok), che aveva lo
scopo di occuparsi di studi di linguistica, semantica e
folklore. Nello stesso periodo, a Pietroburgo, iniziavano
le riunioni tra linguisti e teorici della letteratura che avreb-
bero portato alla nascita dell’Opojaz (Obščestvo po izučeni-
ju poetičeskogo jazyka), la Società per lo studio del Lin-
guaggio Poetico. Tra i membri dell’Opojaz figuravano Bo-
ris Ejchenbaum, Jurij Tynjanov e Viktor Šklovskij. Così
ricorda quel momento lo stesso Jakobson:

7
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Era l’epoca dei giovani sperimentatori, tanto nel settore


delle arti quanto in quello delle scienze. Durante l’in-
verno 1914-15 un gruppo di studiosi fondò, sotto gli
auspici dell’Accademia delle scienze, il Circolo lingui-
stico di Mosca, inteso a promuovere studi di linguistica
e di poetica, secondo quanto affermava il programma
che gli organizzatori sottoposero al segretario dell’Acca-
demia, il famoso linguista Šachmatov. Per iniziativa di O.
Brik, sostenuto da un gruppo di giovani ricercatori, si
giunse alla prima raccolta collettiva di studi sulla teoria
del linguaggio poetico, che sarà conosciuta più tardi con
l’abbreviazione Opojaz e che coopererà strettamente con
il Circolo moscovita.5
I rapporti tra i due gruppi si basarono sulla discussio-
ne – che Jakobson stesso riteneva ciò che di “più signifi-
cativo” era rimasto del lavoro dei formalisti6 – che na-
sceva da ciò che era più importante per la ricerca del-
l’uno e dell’altro gruppo: semplificando, il linguaggio
poetico in relazione alla linguistica,7 per il gruppo di Mo-
5
R. Jakobson, Verso una scienza dell’arte poetica, in I For-
malisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Einaudi,
Torino 1968, pp. 7-11 (p. 7).
6
«[...] ciò che rimane di più significativo nei “formalisti” è
la discussione, sia che avvenisse oralmente, sia che trovi ri-
flesso negli scritti» (R. Jakobson, Verso una scienza dell’arte
poetica, cit., p. 9).
7
Esemplari, in tal senso, gli scritti del Circolo di Mosca tra
il 1918 e il 1919: Sugli epiteti poetico e Sul ritmo del verso di
O. Brik, Sul pentametro giambico di B. Tomaševskij e Il lin-
guaggio poetico di Chlebnikov di Jakobson.
8
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sca, e il linguaggio artistico in relazione alle teorie dell’arte,


per il gruppo pietroburghese. Entrambi i gruppi, tutta-
via, erano accomunati da un tratto che sarebbe stato ca-
ratteristico del Formalismo8 in generale, in quanto mo-
vimento teorico-letterario-artistico degli anni Venti rus-
si – lo stretto rapporto d’influsso reciproco tra teorici e
artisti delle avanguardie. Jakobson ricorda che:
[...] quello che ha influenzato in maniera primaria i miei
rapporti con la poetica e la linguistica deve essere stata
la mia vicinanza ai poeti ed ai pittori dell’avanguardia.9
Gli splendidi scritti che lo stesso Jakobson e Šklovskij
dedicarono all’amico Majakovskij,10 dopo il suo suici-
dio, testimoniano quanto importante fosse il rapporto
umano oltre che scientifico tra i giovani teorici e gli al-
trettanto giovani poeti, pittori, musicisti, autori di teatro
e di cinema che li frequentavano. I Formalisti vollero vi-
vere l’esperienza dell’analisi critica sempre “da dentro”,
8
Va ricordato che il termine Formalismo fu coniato, in re-
altà, dai detrattori dei giovani studiosi del Circolo di Mosca
e dell’Opojaz. Jakobson nota come il “formalismo” sia stata
«un’etichetta imprecisa e sconcertante che i denigratori han-
no messo in giro per stigmatizzare ogni analisi della funzione
poetica del linguaggio» (R. Jakobson, Verso una scienza del-
l’arte poetica, cit., p. 8).
9
R. Jakobson, Autoritratto di un linguista. Retrospettive, Il
Mulino, Bologna 1987, p. 265.
10
Il saggio già ricordato di Jakobson, Una generazione che
ha dissipato i suoi poeti, e, di Viktor Šklovskij, Majakovskij,
edito in Italia da Il Saggiatore nel 1967.
9
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operando in stretto contatto con gli artisti di cui esami-


navano l’opera, artisti di cui finivano per diventare ami-
ci (come il caso, appunto, di Jakobson e Šklovskij e Ma-
jakovskij, o dello stesso Jakobson e Chlebnikov).11 Inol-
tre, alcuni di loro vollero sperimentare di persona la crea-
zione che esaminavano – caso, ancora una volta, di Ja-
kobson e Šklovskij, autori entrambi, ad esempio, di sce-
neggiature per il cinema. Dall’altra parte, gli artisti, che
frequentavano l’ambiente formalista, si sentivano loro
stessi co-portavoci delle teorie degli amici teorici. Maja-
kovskij, nel suo Come far versi, manifesto di poetica “pra-
tica”, scrive, a proposito del suo lavoro di poeta e teorico:
Il mio tentativo è un debole tentativo personale, e io mi
giovo dei lavori teorici dei miei compagni filologi.
È indispensabile che i filologi dedichino la loro atti-
vità all’arte contemporanea e diano un contributo di-
retto al lavoro poetico da svolgere.12
In un clima di entusiasmo e slancio creativo, senza ri-
sparmiarsi in discussioni accese, i Formalisti attraversa-
rono anche uno dei momenti cruciali della storia con-
temporanea, la Rivoluzione d’Ottobre, che, nella tragi-
11
«È stato proprio l’incontro tra gli studiosi dell’arte poe-
tica e i suoi maestri a mettere alla prova e ad arricchirne la ri-
cerca, e non è certo un caso se tra i membri del Circolo lin-
guistico moscovita si potevano contare poeti come Majakov-
skij, Pasternak, Mandel’stam e Aseev» (R. Jakobson, Verso una
scienza dell’arte poetica, cit., pp. 9-10).
12
V. Majakovskij, Come far versi, Editori Riuniti, Roma
1993, p. 54.
10
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cità degli eventi, sembrava aprire ampissimi spazi di libertà


anche nelle arti e nel loro studio. Come ricorda Victor Er-
lich nel suo volume sul Formalismo russo,
Per quanto possa apparire strano, in quel periodo asso-
lutamente imprevedibile, non solo il poeta che urlava o
salmodiava le sue poesie, ma anche il teorico che si sfor-
zava di spiegare “come son fatti i versi” riusciva a trova-
re orecchi attenti e impazienti. [...] Le barriere del con-
formismo erano state abbattute. [...] «Qualunque cosa ci
si mettesse a fare, ad aprire una scuola di suggeritori per
un teatro della Flotta Rossa o a tenere un corso sulla teo-
ria del ritmo in un ospedale, il pubblico c’era sempre.
[...]»13
Questo momento straordinario avrebbe avuto vita bre-
ve. Gli anni Venti avrebbero già segnato l’inizio della
“normalizzazione”, che andava aprendo le porte alla tra-
gedia dello stalinismo. Il suicidio e le morti violente di tan-
ti dei protagonisti delle avanguardie, a partire da Chleb-
nikov, Majakovskij e Esenin, sarebbero diventati il sim-
bolo della fine di uno dei periodi più affascinanti della sto-
ria della cultura europea. Ma, proprio nel 1920, Jakob-
son abbandonava la Russia, per trasferirsi a Praga.

Da Mosca a Praga. Dal Formalismo allo Strutturalismo


Nel 1920, dunque, Jakobson si trasferì a Praga, dove con-
tinuò gli studi universitari. Diventò professore di Filologia
13
V. Erlich, Il formalismo russo, Bompiani, Milano 1966, p.
88.
11
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russa, sempre a Praga, nel 1933 e, nel 1937, presso l’Uni-


versità di Brno, professore di letteratura ceca antica.
Nel 1926, aveva fondato, insieme a un altro linguista
russo, Nikolaj Trubeckoj, e ad alcuni studiosi cechi, il
Circolo linguistico di Praga, all’interno del quale sareb-
be nato lo Strutturalismo ceco.
Ritenere che la fondazione, da parte di Jakobson, di
questa nuova corrente di ricerca linguistico-letteraria, ab-
bia significato, da parte sua, un allontanamento dal For-
malismo o, addirittura, il ripudio di esso, è un’ingenui-
tà.14 Pur vivendo in Cecoslovacchia, Jakobson (come Tru-
beckoj) seguiva con estremo interesse ciò che accadeva
in Russia, all’interno del dibattito culturale e, in particolar
modo, continuava a essere attento al destino del Forma-
lismo, che aveva contribuito a fondare. È del 1928 un
articolo firmato da lui e da Jurij Tynjanov pubblicato da
«Novyj Lef», il giornale dei neofuturisti (tra i quali figu-
rava Majakovskij), dal titolo Voprosy izučenija jazyka i li-
teratury (Problemi dello studio della letteratura e della lin-
gua). Nell’articolo, i due teorici proponevano delle ri-
flessioni teoriche che portassero al rinnovamento del For-
malismo che, alla fine degli anni Venti, attraversava una
profonda crisi. In realtà, quella crisi non avrebbe trova-
to soluzione e avrebbe portato il Formalismo alla fine,
una fine decretata poi, senza appello, dalla condanna sta-
linista alle avanguardie e ai loro teorici.
14
Per una storia della diffusione del Formalismo fuori dal-
la Russia, cfr. il capitolo Revisione del Formalismo, in V. Er-
lich, Il formalismo russo, cit., pp. 167-82.
12
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Jakobson e Tynjanov tentarono di riprendere i princi-


pi del Formalismo per renderli più maturi, superando
qualche ingenuità “giovanile” che aveva caratterizzato le
prime ricerche del movimento. All’interno di questo ten-
tativo, venne ripreso e approfondito il concetto di lite-
raturnost’ (letterarietà), elaborato proprio da Jakobson,
negli anni formalisti (concetto che sarebbe diventato cen-
trale nello Strutturalismo ceco). “Ciò che rende un’ope-
ra un’opera letteraria”, secondo la definizione jakobso-
niana, assunse definitivamente il ruolo centrale che il
teorico gli aveva dato sin dall’inizio, quando aveva affer-
mato che l’oggetto delle scienze letterarie non era la let-
teratura (literatura), ma, appunto, la letterarietà (litera-
turnost’ ). Si rafforzò, inoltre, anche il concetto di sistema
– altro punto forte delle riflessioni dei formalisti Tynja-
nov e Jakobson che passerà poi allo Strutturalismo ceco.
Dunque, come giustamente rilevato da Victor Erlich,
«il compito di rinnovare la sfida e far rivivere i principi
iniziali del Formalismo conservando le intuizioni più va-
lide del movimento ricadde sul Circolo Linguistico di
Praga».15 Lo stesso Jakobson avrebbe affermato che:
le attività del Circolo linguistico di Praga non provengono
da un gruppo isolato, ma sono strettamente connesse al-
le correnti contemporanee della linguistica occidentale e
russa.16
15
V. Erlich, Roman Jakobson, in Storia della letteratura rus-
sa, Einaudi, Torino 1988, v. III, t. 2, pp. 763-71, p. 767.
16
R. Jakobson, Autoritratto di un linguista. Retrospettive,
cit., p. 67.
13
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Nell’opera di rinnovamento dei princìpi del Formali-


smo va letta anche la riformulazione jakobsoniana del
concetto di ostranenie (straniamento). Formulato da Vik-
tor Šklovskij, nei suoi studi sulla prosa,17 l’ostranenie fu,
probabilmente, il concetto più popolare e diffuso del
Formalismo (lo stesso Brecht, nella sua teoria del teatro,
parlerà di Verfremdung, ossia straniamento).
Jakobson, riprendendo questo concetto, dimostrò –
aldilà della apparente polemica con Šklovskij – come fos-
se centrale in lui la formazione formalista (ancora nel
1965, anno di Verso una scienza dell’arte poetica, scritto
che contiene la riformulazione dell’ostranenie):
[...] si sarebbe in torto se si identificasse la scoperta, cioè
l’essenza del pensiero “formalista”, con le insulsaggini
intorno al segreto professionale dell’arte, che consiste-
rebbe nel mostrare le cose estraniandole dal loro auto-
matismo e rendendole sorprendenti (ostranenie), men-
tre in effetti si tratta di un mutamento sostanziale del
rapporto tra significante e significato, tra segno e concetto,
che avviene all’interno del linguaggio poetico.18
È evidente che questa “revisione” del concetto di ostra-
nenie non è che una ulteriore chiarificazione dello stes-
so, in quanto ciò su cui aveva appuntato la sua attenzio-
ne Šklovskij era, appunto, il mutamento del rapporto tra

17
Cfr. V. Šklovskij, L’arte come procedimento, in AA.VV., I
Formalisti russi, Einaudi, Torino 1965.
18
R. Jakobson, Verso una scienza dell’arte poetica, cit., pp.
8-9.
14
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significato e significante che, e non solo nel linguaggio


poetico, portava, necessariamente, anche alla distruzio-
ne dell’automatismo della percezione, a causa della qua-
le gli stessi oggetti, nella quotidianità, diventano invisi-
bili. In ogni caso, e per sgomberare definitivamente il
campo da eventuali dubbi circa il ruolo che il Formali-
smo ebbe nell’evoluzione scientifica del pensiero jakob-
soniano, è sufficiente, ancora una volta, riportare le sue
stesse parole:
Evidentemente lo sviluppo internazionale dell’analisi
strutturale, sia in linguistica sia nelle altre scienze socia-
li, quale si è avuta negli anni successivi, ha apportato nu-
merose correzioni alle ipotesi iniziali, ha dato nuove ri-
sposte alle vecchie domande e ha posto problemi non
previsti. Si deve però riconoscere il contributo decisivo
dei pionieri russi degli anni 1910-30, nel settore della
poetica, al progresso della meditazione scientifica attor-
no alla lingua nella varietà delle sue funzioni. E si deve
in modo particolare al gruppo russo-ceco, formatosi a
Praga nel 1926 a simiglianza del Circolo moscovita, se
queste idee vivificanti hanno potuto entrare nella circo-
lazione mondiale.19
Negli anni Trenta, Jakobson, continuando nel proces-
so di “rivivificazione” dei principi formalisti, che era al-
la base del suo Strutturalismo, scrisse alcuni dei suoi più
importanti lavori: O pokolenii rastrativšem svoich poetov
(Una generazione che ha dissipato i suoi poeti), del 1931,
Co je poezie? (Cos’è la poesia?) e Randbemerkungen zur
19
Ivi, p. 9.
15
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Prosa des Dichters Pasternak (Note marginali sulla prosa


del poeta Pasternak), del 1933, e Statuja v poetičeskoj mi-
fologii Puškina (La statua nella mitologia poetica di Puškin),
del 1937. Del 1933 è anche Úpadek filmu?

Le teorie del Formalismo sul cinema


Indubbiamente, il saggio sul cinema si inserisce piena-
mente nella elaborazione della linea che dal Formalismo
porta Jakobson allo Strutturalismo. Perciò è necessario,
prima di esaminarlo, riprendere alcuni concetti fonda-
mentali che sono alla base degli studi formalisti sul cinema.
Il Formalismo russo fu una corrente di critica che si oc-
cupò contemporaneamente e trasversalmente di ogni for-
ma d’arte, ponendosi sempre il problema delle arti più
nuove, come quella del cinema. Tra le arti a loro con-
temporanee, il cinema rappresentava per i formalisti una
delle più interessanti, per il materiale e i procedimenti 20
che utilizzava. Secondo le parole di Boris Ejchenbaum
Già da molto si sentiva il bisogno di una nuova arte di
massa, di un’arte i cui mezzi artistici fossero accessibili al-
la “folla” e precisamente alla folla urbana, priva di un
suo “folklore”. Quest’arte, se si fosse rivolta alle masse,
avrebbe dovuto possedere necessariamente le caratteri-
stiche di un nuovo “primitivo”, capace di contrapporsi
in maniera rivoluzionaria alle forme raffinate delle arti vec-

20
Per procedimento, in senso formalista, si deve intendere il
processo attraverso il quale il materiale extrartistico, che un’ar-
te utilizza, diventa artistico.
16
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chie, e al loro isolamento. Il carattere “primitivo” pote-


va derivare da un’invenzione che, ponendo in primo pia-
no un nuovo elemento artistico e trasformandolo in una
dominante costruttiva, rendesse possibile una particola-
re forma sincretica di fusione fra singole arti. [...] Nelle
varie epoche una determinata arte si sforza di diventare
arte di massa ispirandosi al pathos del sincretismo, cercando
di assorbire gli elementi delle altre arti. [...] La frattura
generale verificatasi in seno alla cultura, e che per molti
versi ci riporta ai principi in auge nel primo medioevo,
ha posto in essere un’esigenza ben precisa: la nascita di
un’arte nuova, libera dalle tradizioni, primitiva nei suoi
mezzi “linguistici” e grandiosa per le sue possibilità di
influire sulle masse. Dato il “tecnicismo”, che contrad-
distingue la cultura della nostra epoca, solo la tecnica
poteva esprimere dal suo seno un’arte quale è stato il ci-
nematografo nel suo stadio iniziale.21
Nelle parole di Ejchenbaum si legge anche lo slancio
futurista – al quale non erano estranei molti dei forma-
listi – verso un’arte che si fondava sul movimento e sul-
la tecnica. Lo stesso Majakovskij, d’altronde, aveva av-
vertito il cinema come un’arte fondamentale, impe-
gnandosi sia come autore che come attore, e come teo-
rico, accanto ai suoi amici formalisti.22 Ma, aldilà della
21
B. Ejchenbaum, I problemi dello stile cinematografico, in
AA.VV., I formalisti russi nel cinema, Garzanti, Milano 1987,
pp. 13-52, pp. 17-18.
22
Significative le parole con cui, in un suo scritto, il poeta
definisce il cinema: «Per voi il cinema è spettacolo. Per me è
quasi una concezione del mondo. Il cinema è portatore di mo-
17
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passione per un altro genere che si inseriva “naturalmente”


nell’avanguardia, i formalisti videro nel cinema tutte le
caratteristiche proprie di quella che, secondo i loro prin-
cìpi, poteva essere considerata arte, e, dunque, oggetto di
osservazioni teoriche specifiche.
Nel 1927, venne pubblicata a Mosca Poetika kino (La
poetica del cinema). Della raccolta facevano parte, oltre al
saggio Poezija i proza v kinematografii (Poesia e prosa nel
cinema) di Viktor Šklovskij, gli scritti di Boris Ejchenbaum
Problemy kino-stilistiki (Problemi di stilistica cinemato-
grafica), e di Jurij Tynjanov Ob osnovach kino (I fondamenti
del cinema) – lavori, questi ultimi due, che Jakobson
avrebbe ripreso in La fine del cinema?, ritenendoli parti-
colarmente interessanti.
Nella raccolta, i formalisti si erano posti il problema del-
la necessità di uno studio scientifico sul cinema, come
arte emergente, «quella di cui già da un pezzo si sentiva
la necessità»,23 e dell’identificazione della lingua cine-
matografica, con le sue leggi, “grammaticali” e stilistiche
(punto sul quale si fonderà poi il dibattito degli anni Ses-
santa, tra Metz e Pasolini). Il saggio che punta maggior-
mente l’attenzione sulla lingua del cinema è quello di Ej-
chenbaum. Il teorico, infatti, nell’affrontare le proble-
matiche dello stile cinematografico, aveva avvertito la ne-
cessità di identificare una “grammatica” del cinema. Non
vimento. Il cinema svecchia la letteratura» (V. Majakovskij,
Cinema e cinema, Stampa Alternativa, Roma 1993, p. 23).
23
B. Ejchenbaum, I problemi dello stile cinematografico, cit.,
p. 13.
18
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può esistere uno stile se non esiste un sistema entro il


quale questo stile organizzi le sue leggi,24 e il cinema non
poteva fare eccezione. Prima di arrivare alla definizione
della lingua del cinema, però, Ejchenbaum aveva senti-
to l’esigenza di affermare l’essenza del cinema in quanto
arte. Coerentemente ai presupposti teorici dell’Opojaz,
divulgati da Šklovskij, anche il cinema, per essere arte, do-
veva rispondere al “carattere convenzionale” che identi-
ficava, appunto, ogni genere artistico:
L’arte deve la sua vita al fatto di essere relegata ai margi-
ni del quotidiano perché priva di applicazioni pratiche.
L’automatismo quotidiano nell’uso delle parole lascia
inutilizzate intere masse di sfumature fonetiche, seman-
tiche e sintattiche che trovano posto nell’arte verbale
(Viktor Šklovskij). La danza si fonda su movimenti che
non fanno parte del modo di camminare normale. [...]
Ne deriva l’immancabile “carattere convenzionale” del-
l’arte, che nemmeno i più conseguenti “naturalisti”, fin-
ché rimangono artisti autentici, possono eliminare.25
Accanto alla convenzionalità, Ejchenbaum evidenzia
un altro tratto caratterizzante dell’arte in quanto tale –
quello che il teorico chiama “fondamento biologico”:
La natura primaria dell’arte consiste nella necessità di
dare sfogo a quelle energie dell’organismo umano che

24
Come già detto, il concetto di sistema, sempre più defi-
nito e approfondito, entrerà come principio centrale nello
Strutturalismo di Jakobson.
25
Ivi, p. 16.
19
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vengono escluse dalla vita quotidiana o impiegate solo par-


zialmente. Questo è il fondamento biologico dell’arte, che
le conferisce la potenza di un’esigenza vitale che va sod-
disfatta. Questo fondamento, sostanzialmente affine al
gioco, e sostanzialmente estraneo a qualsiasi “significa-
to” ben definito, si incarna in quelle tendenze “tran-
smentali” e “fine a se stesse” che traspaiono in ogni arte
e ne costituiscono il fermento organico. L’arte si “orga-
nizza” quale fenomeno sociale, quale “linguaggio” pe-
culiare, proprio utilizzando questo fermento per tra-
sformarlo in “potenza espressiva”. [...] La costante op-
posizione fra “transmentalità” e “linguaggio” rappresen-
ta l’antinomia interiore dell’arte, che ne sovrintende l’evo-
luzione.26
Il cinema diventa arte, dunque, secondo Ejchenbaum,
quando si appropria di due momenti fondamentali per
le teorie formaliste, la convenzionalità e il carattere tran-
smentale.
Quest’ultimo è identificato da Ejchenbaum, all’inter-
no del cinema, in un suo tratto caratteristico, la fotoge-
nia, della quale negli anni Venti si era scritto in Francia,
per opera di Louis Delluc (autore di Photogénie, tradot-
to in russo nel 1924). Come afferma il teorico russo:
La fotogenia è per l’appunto l’essenza “transmentale” del
cinema, analoga in questo senso allo zaum’, cioè al lin-
guaggio “transmentale”, musicale, verbale, pittorico, ecc.
Sullo schermo, la troviamo al di fuori di ogni nesso con
il soggetto: nei volti, negli oggetti, nel paesaggio. Vedia-

26
Ibidem.
20
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 21

mo gli oggetti come nuovi, li sentiamo come scono-


sciuti.27
Grazie al concetto di fotogenia, Ejchenbaum ritrova
anche nel cinema le caratteristiche del linguaggio delle
avanguardie pittoriche e poetiche a lui contemporanee,
il futurismo e il cubismo. Un linguaggio che era entrato
in quello formalista.
Zaum’ 28 – nome dato dal poeta e teorico futurista Alek-
sandr Kručënych alla poesia del suo gruppo, la “poesia
transmentale” – era diventato, nella teoria formalista de-
gli inizi, definizione di nuova poetica. Attraverso la zaum’,
la parola veniva ri-creata, per creare un mondo nuovo. Le
regole grammaticali e sintattiche erano distrutte, e ne na-
scevano di nuove. Il suono diventava segno. Il cinema
era assimilato nella creazione della lingua del futuro.29 I
formalisti avevano così il materiale più adatto, (come
avrebbe ammesso anche Jakobson), per creare nuovi spa-
27
Ivi, pp. 16-17.
28
La parola zaum’ è composta dal prefisso za che significa
aldilà, oltre, fuori e il sostantivo um che indica la capacità di
“intelligere” – da um deriva, ad esempio, l’aggettivo umnyj,
che in italiano è tradotto con “intelligente”.
29
Così scrive Aleksandr Kručënych, nel 1924: “Abbiamo fat-
to fuori la letteratura russa! Lo zaum’ trionfa su tutti i fronti:
non soltanto tra i poeti, ma anche tra i prosatori, non soltan-
to tra loro, ma anche tra i dotti pedagoghi. La nuova genera-
zione viene educata sotto il segno del grammofono, del fono
e cine-zaum’ !” (in AA.VV., L’avanguardia russa, Mondadori,
Milano 1978, p. 230).
21
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 22

zi di ricerca nell’ambito del linguaggio poetico, all’inter-


no dei quali la linguistica avrebbe avuto sempre più pe-
so.30 Non è casuale, quindi, che Ejchenbaum, interessa-
to a individuare una “grammatica” cinematografica, col-
ga anche all’interno del cinema il linguaggio zaum’.
A esso il teorico collega poi l’altro fondamentale con-
cetto formalista di ostranenie.
La fotogenia, cioè la capacità del cinema di essere arte,
è in realtà (proprio come il linguaggio futurista e delle
avanguardie) un procedimento nel quale si esplica lo stra-
niamento. Grazie alla fotogenia, ciò che appare sullo scher-
mo non è una semplice riproduzione della realtà, ma una
“trasposizione artistica” di essa. D’altro canto, lo stesso con-
cetto di fotogenia espresso da Delluc nella sua opera si
prestava bene a una lettura formalista. Secondo il regista
e critico francese, infatti, la photogénie, ossia il tratto este-
tico degli oggetti riprodotti cine-fotograficamente, è una
caratteristica già insita in essi, ma è la capacità di chi li
riproduce a evidenziarla. Dal punto di vista formalista,
questo significa che è il procedimento a “rinnovare” la per-
cezione dell’oggetto riprodotto artisticamente, a mutare
il rapporto tra segno e concetto, per riprendere le paro-
le di Jakobson. La fotogenia, dunque, non è la trasposi-
zione tecnica di un tratto naturale, ma un procedimento
che identifica il tratto convenzionale dell’arte cine-foto-
grafica. Il cinema, in conclusione, è, per Ejchenbaum,
30
È bene ricordare che Jakobson sarebbe giunto a indivi-
duare i princìpi della fonologia proprio grazie agli studi sulla
poesia delle avanguardie.
22
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 23

un’arte a tutti gli effetti, e il suo preteso naturalismo non


è diverso da quello delle altre arti, è, cioè, altrettanto con-
venzionale:
Il principio della “fotogenia” ha determinato la vera es-
senza del cinema, completamente specifica e conven-
zionale. Ormai la deformazione della natura ha occupa-
to nel cinema, come nelle altre arti, il posto che le spet-
ta. [...] I registi non si preoccupano soltanto della com-
posizione del film (montaggio), ma anche della compo-
sizione delle singole inquadrature, seguendo ormai prin-
cipi puramente pittorici; la simmetria, la proporzione, la
correlazione generale tra le linee, la distribuzione della lu-
ce ecc. [...] il naturalismo cinematografico non è meno
convenzionale di quello letterario o teatrale.31
Stabilita l’essenza artistica del cinema, Ejchenbaum
passa all’esame della lingua specifica di quest’arte. Per il
formalista, alla base della riflessione sul linguaggio cine-
matografico si trova il concetto di “discorso interiore”
dello spettatore. Il cinema, afferma il teorico, a differen-
za del teatro, “non si aspetta di essere applaudito”.32 Lo
spettatore cinematografico, all’interno della sala di pro-
iezione si sente solo, guarda le immagini come in uno
stato di “contemplazione” – “in fondo è come se egli ve-
desse il sogno di un’altra persona”.33
31
B. Ejchenbaum, I problemi dello stile cinematografico, cit.,
pp. 31-32.
32
Ivi, p. 21.
33
Ibidem. La raffinata osservazione di Ejchenbaum è stata
recentemente confermata da studi di psicologi e psichiatri co-
23
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 24

Se non si ammette che “la ricezione e la comprensio-


ne del film sono indissolubilmente legate al formarsi di
un discorso interiore che connetta le varie inquadrature
tra di loro”,34 non si può neanche iniziare lo studio del-
le “leggi del cinema” e, in particolar modo, del montag-
gio. Pur considerando che le osservazioni di Ejchenbaum
sono relative al cinema muto – l’assenza della parola
“complica” la visione del film, obbligando lo spettatore
a “indovinare” – non si può non riconoscere che, anche
nel cinema sonoro, il concetto di “cine-frase”, collegato
al “discorso interiore” dello spettatore, ha una sua rilevanza.
Indubbiamente, la creazione “interiore” di connessio-
ni all’interno del susseguirsi delle inquadrature è una ca-
ratteristica tipicamente propria delle arti audiovisive e
ancora adesso si potrebbe affermare con Ejchenbaum che
“proprio lo studio delle peculiarità di questo discorso
rappresenta uno dei problemi principali della teoria del
cinema”.35
Naturalmente, in questa prospettiva, il montaggio as-
sume una valenza notevole, in quanto procedimento per
l’“associazione fra le inquadrature”.36 In polemica con

me Cesare Musatti e Franco Fornari che hanno avvicinato il


linguaggio del cinema e delle tecniche audiovisive a quello dei
sogni e dell’ipnosi (cfr. Cinema e scienze dell’uomo a cura di G.
Braga, Studi monografici di Bianco e Nero, Roma 1973).
34
B. Ejchenbaum, I problemi dello stile cinematografico, cit.,
p. 23.
35
Ibidem.
36
Ivi, p. 35.
24
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 25

Semën Timošenko,37 per il quale il montaggio consiste in


un’“incollatura”, Ejchenbaum afferma:
Il montaggio è proprio montaggio, e non il semplice at-
to dell’incollare i singoli pezzi fra loro, poiché il suo prin-
cipio consiste nella formazione di unità semantiche e
nella loro concatenazione, la cui unità fondamentale è per
l’appunto la cine-frase. Se per “frase” si deve intendere
in generale una determinata segmentazione essenziale,
realmente percepita come un pezzo (corale, musicale, e
così via) del materiale in movimento, allora la si può de-
finire come gruppo di elementi, raccolti intorno a un
nucleo semantico di particolare rilievo. [...] Nel cinema,
[...] raggruppamento di vari piani e angolazioni.38
All’interno della riflessione sul montaggio, Ejchen-
baum inserisce la definizione di cine-frase, fondamenta-
le nell’identificazione della lingua del cinema, e, in se-
guito, aggiungerà a essa quella di cine-periodo.39
Le cine-frasi, infatti, compongono cine-periodi, attra-
verso un “nesso semantico” dato dai “rapporti spazio-
37
Regista e sceneggiatore russo, autore di Iskusstvo kino i mon-
taž filma (L’arte del cinema e il montaggio del film, Leningra-
do 1926), saggio citato anche da Jakobson in La fine del cinema?
38
B. Ejchenbaum, I problemi dello stile cinematografico, cit.,
pp. 38-39.
39
Entrambe le definizioni verranno poi riprese da Jakobson
– con le necessarie mutazioni, nel passaggio dal muto al sonoro
– in La fine del cinema?, e, torneranno, nella seconda metà
degli anni Sessanta, nella polemica sul cinema come lingua o
linguaggio tra Pier Paolo Pasolini e Christian Metz.
25
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 26

temporali”40 che mettono in relazione le inquadrature.


Certamente, anche spazio e tempo non vanno intesi in
senso “naturalistico”. Ad esempio, afferma Ejchenbaum,
il tempo, nel cinema, “non viene riempito, ma costrui-
to”,41 attraverso l’accelerazione o il rallentamento del “rit-
mo dell’azione”, e attraverso il montaggio. Anzi, proprio
dalla “fusione” del ritmo dell’azione e del ritmo del mon-
taggio nasce il tempo cinematografico.
Anche lo spazio – che, ricorda il teorico formalista, ci-
tando Balázs, “è indissolubilmente legato” al tempo42 –
è “costruito”, nel cinema, ovvero, al contrario dello spa-
zio teatrale, ha una vita al di fuori dell’azione dei perso-
naggi e dal “punto di vista” dello spettatore.43 Per questo,
afferma Ejchenbaum, “nel cinema lo spazio possiede
un’importanza non tanto “soggettivale” quanto stilistica
(sintattica)”.44 In altre parole, spazio e tempo, legati tra
loro, fungendo da legame significativo tra le inquadrature,
fondano la “logica peculiare del cinema”.45 Proprio sul-
lo spazio e sul tempo sarà centrato il saggio di Jurij Tyn-
janov Ob osnovach kino (Sui fondamenti del cinema).

40
B. Ejchenbaum, I problemi dello stile cinematografico, cit.,
p. 41.
41
Ivi, p. 42.
42
Ivi, p. 43.
43
«Lo spettatore cinematografico ragiona secondo un con-
cetto di spazio che esiste per lui al di fuori dei personaggi»
(Ibidem).
44
Ibidem.
45
Ibidem.
26
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 27

Il cinema, afferma il teorico, ha a che fare per sua na-


tura con entrambe queste realtà:
Per il suo materiale, il cinema si avvicina alle arti figurative
e spaziali, si avvicina alla pittura, mentre per “realizzare”
questo materiale, esso si avvicina alle arti “temporali”,
quella verbale e quella musicale.46
Citando Delluc e Balász – come aveva fatto Ejchen-
baum e come farà Jakobson – Tynjanov va oltre le rifles-
sioni dei due sul cinema come “pittura in movimento”
(Delluc) e sull’“uomo visibile” e l’“oggetto visibile” come
“protagonisti” del cinema (Balász). Ciò che fa dell’uomo
e dell’oggetto visibili il fondamento del cinema in quan-
to arte, afferma il formalista, è il loro diventare “segni se-
mantici”:
Il mondo visibile viene reso dal cinema non come tale,
ma nelle sue correlazioni semantiche, altrimenti il ci-
nema non sarebbe altro che fotografia viva (e anche non
viva).47
Tynjanov ripropone così, ancora una volta, il concet-
to di ostranenie, individuando nell’angolazione il proce-
dimento cinematografico a esso collegato:
L’angolazione trasforma stilisticamente il mondo visi-
bile. La ciminiera orizzontale di una fabbrica, appena
inclinata, il passaggio su un ponte ripreso dal basso, nel-

46
J. Tynjanov, Le basi del cinema, in AA.VV., I formalisti rus-
si nel cinema, Garzanti, Milano 1987, pp. 53-85, p. 60.
47
Ivi, p. 61.
27
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 28

l’arte del cinema costituiscono già trasformazione del-


l’oggetto pari, nell’arte delle parole, a un intero assorti-
mento di procedimenti stilistici che rendono comple-
tamente nuovo un determinato oggetto.48
Tynjanov, quindi, riprende quanto già detto da Ej-
chenbaum rispetto al concetto di fotogenia, e lo supera.
Non essendo gli oggetti “fotogenici in sé”, ma per l’an-
golazione e l’illuminazione che li rendono tali, (cioè per
dei procedimenti stilistici), per Tynjanov “il concetto di
‘fotogenia’ dovrebbe [...] cedere il posto a quello di ‘ci-
negenia’”. Infatti, angolazione e illuminazione, nel cine-
ma, (che è movimento), permettono di straniare la real-
tà come la fotografia, priva di movimento, non può fa-
re. Il movimento permette di “dissezionare” l’oggetto
rappresentato, di presentarlo cioè attraverso dettagli che
diventano segni.49
In questa prospettiva, lo spazio assume una valenza
del tutto particolare. In esso, grazie all’illuminazione, il
“rapporto fra uomini e oggetti”50 cambia profondamen-
te, il punto di vista viene “spostato” e ciò che lo spetta-
48
Ivi, p. 62.
49
Come afferma Tynjanov, la “sostituzione di un oggetto
con un dettaglio sposta l’attenzione: un determinato “segno
orientante” indica oggetti diversi (il tutto e la parte), e que-
sto spostamento dell’attenzione è come se smembrasse l’og-
getto visibile, trasformandolo in una serie di oggetti dotati
di un unico segno semantico, l’oggetto semantico del cinema.”
(Ivi, p. 63).
50
Ivi, p. 64.
28
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 29

tore vede non è più un “oggetto visibile”, ma un “ogget-


to dell’arte”.51 La “‘ripianificazione’ semantica del mon-
do”, che questo comporta, è ancora una volta il segno
del carattere artistico del cinema, ossia della sua capacità
di riproporre “stilisticamente” la realtà visibile, e non di
riprodurla, semplicemente.
Così, anche il “movimento” – caratteristica precipua del
cinema – assume la dimensione di segno:
Nel cinema il movimento esiste o quale motivazione del-
l’angolazione tramite il punto di vista di un uomo in mo-
vimento, o quale caratterizzazione dell’uomo (Il gesto),
o quale mutamento della correlazione tra uomini e og-
getti: l’avvicinarsi e l’allontanarsi dall’uomo o dall’og-
getto di determinati uomini e oggetti, cioè il movimen-
to cinematografico, esiste non in quanto tale, bensì qua-
le segno semantico determinato.52
Un tale movimento, ovviamente, non avendo a che
fare con il movimento “naturale”, non deve essere ne-
cessariamente contenuto in un’inquadratura, ma può de-
rivare anche dal montaggio.
A questo punto, Tynjanov introduce la nozione di tem-
po cinematografico.
Basato sulla “ripetizione dell’inquadratura”, il tempo
cinematografico ha, proprio per questo motivo, una “du-
rata correlativa”,53 cioè basata sulla relazione tra inqua-

51
Ibidem.
52
Ivi, p. 65.
53
Ibidem.
29
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 30

drature. L’alternarsi di piani lunghi e primi piani, ad


esempio, serve a creare una durata “artificiale”, che distrae
lo spettatore da quella reale dell’azione che viene rap-
presentata. Anche il tempo nel cinema, dunque, non ha
alcun rapporto con il “naturalismo”, ma con la conven-
zionalità.54
Altra fondamentale osservazione di Tynjanov, che non
poteva non affascinare Jakobson, è quella che riguarda
l’affinità esistente tra cinema e poesia.55 Le inquadratu-
re – assimilate ai versi – non hanno un andamento “re-
golare”, ossia, non si svolgono una dopo l’altra, “ma si al-
ternano a sbalzi”.56 Come nella metrica dei versi le uni-
tà cambiano, seguendo un ordine, anche il cinema “com-
pie degli sbalzi da un’inquadratura all’altra”. Le inqua-
drature, dunque, sono “unità autonome” che, nel mon-
taggio, assumono un ritmo ben preciso. Il cinema “nuo-
vo” – quello cioè contemporaneo a Tynjanov – si è dif-
ferenziato da quello “vecchio” (delle origini) per la per-
cettibilità di questo ritmo nel montaggio. Questa carat-
teristica lo rende simile alla poesia delle avanguardie (Tyn-
janov cita Majakovskij), nella quale “una facile monoto-
54
«[...] il “tempo cinematografico” non corrisponde a una
durata reale, bensì a una convenzionale, fondata sulla corre-
lazione fra le inquadrature o su quella fra gli elementi visivi in
seno all’inquadratura», (Ivi, p. 66).
55
«Per quanto possa sembrare strano, a voler tracciare un’ana-
logia fra il cinema e le arti verbali, unica analogia legittima
non sarà quella con la prosa, ma con il verso» (Ivi, p. 73).
56
Ibidem.
30
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 31

nia e l’impercettibilità di sistemi metrici fossilizzati han-


no ceduto il posto a una brusca percezione del ritmo nel
verso libero”.57

Fine del cinema?: una rilettura delle teorie formaliste?


I principi della teoria del cinema formalista, esposti in
Poetika kino, appaiono, per essere ampliati e adattati al ci-
nema sonoro, in La fine del cinema?
Il saggio praghese di Jakobson deve molto al Forma-
lismo. Il teorico lo afferma non solo attraverso le cita-
zioni che fa nel suo scritto, ma anche nell’intervista che
precede l’edizione della traduzione del saggio su «Cine-
ma e film». Alla domanda dell’intervistatore: «Che cosa
pensa degli articoli dei formalisti russi [...] apparsi nella
raccolta Poetika kino?», Jakobson risponde:
Li ho letti appena usciti [...] Ricordo [...] di essere stato
molto colpito da quelli di Ejchenbaum e Tynjanov, an-
che se avevo non poche cose da obiettare al primo; [...]
Invece non mi piacevano, li trovavo molto superficiali,
gli articoli di Šklovskij sul cinema, in generale. Altri te-
sti non li ricordo. Mi ricordo invece di alcune vivaci di-
scussioni – che ora hanno valore archeologico – svolte nel
Circolo Linguistico di Mosca, nel 1919, sul problema
se il cinema è o non è un’arte; mi ricordo che eravamo
soprattutto Sklovskij e io a insistere positivamente, men-
tre p. es. Osip Brik, che pure era un uomo di straordi-
naria intelligenza, era contrario.58
57
Ivi, p. 74.
58
«Cinema e film», a. I, n. 2, primavera 1967, p. 161.
31
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 32

Malgrado Jakobson si riferisca al tempo del Formali-


smo in termini “archeologici”, e ostenti un certo distac-
co da quel periodo (in effetti, cronologicamente già mol-
to lontano, nel 1967), tuttavia è evidente che, sia in sen-
so positivo (Ejchenbaum e Tynjanov), che in senso ne-
gativo (Šklovskij e Brik), il confronto con le tesi forma-
liste sulla teoria del cinema è per lui inevitabile, tanto
quanto il ricordo delle “vivaci discussioni” a cui aveva
partecipato direttamente.
È la lettura “diretta” di La fine del cinema?, però, a con-
fermare quanto questo saggio debba al Formalismo.
Proprio all’inizio dello scritto, a proposito del materiale
con cui lavora il cinema, Jakobson scrive:
Il regista sovietico L. Kulešov afferma giustamente che la
materia prima del cinema è la realtà stessa. Qualche tem-
po prima, il regista francese Louis Delluc aveva affer-
mato che la persona nel film è semplicemente un detta-
glio, semplicemente una particella della materia del mon-
do. Ma, d’altra parte, ogni arte ha a che fare con i segni,
e per gli autori di cinema la natura segnica degli elementi
cinematografici (delle unità) non è un segreto – l’ango-
lazione deve essere intesa come un segno, come una let-
tera, sottolinea Kulešov. Ed ecco perché nelle discussio-
ni sul cinema figurano continuamente, in senso meta-
forico, i concetti non solo di lingua del cinema, ma per-
sino di cine-proposizione con soggetto e predicato, di
“cineproposizione subordinata” (Boris Ejchenbaum) [...]
A parte la citazione di Delluc (che, come si è già visto,
era stato uno degli autori maggiormente citati nei saggi

32
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 33

formalisti del 1927), gli altri nomi che compaiono in


queste righe sono entrambi legati al Formalismo. In mo-
do diretto, evidentemente, quello di Ejchenbaum, in mo-
do solo apparentemente più indiretto quello di Lev Ku-
lešov. Quest’ultimo, infatti – come gli altri grandi mae-
stri del cinema russo-sovietico, Dziga Vertov e Sergej Ej-
zenštejn – aveva sviluppato la sua arte e il suo pensiero
nell’ambiente delle avanguardie e del Formalismo. Come
ricorda Silvestra Mariniello, autrice di un saggio sul re-
gista russo:
Il contributo teorico dei formalisti è essenziale [...] per
chiarire il carattere della sperimentazione e della ricerca
teorica di Kulešov e di Vertov.59
Dunque, Jakobson, facendo riferimento alle teorie di
Kulešov, si rifà ancora una volta a quelle del Formalismo
(d’altro canto, l’individuazione dell’angolazione come
segno, come si è già detto, è un concetto già presente in
Tynjanov). La base sulla quale costruire una semiotica
del cinema – anche se in modo assai succinto – provie-
ne quindi, in Jakobson, dall’ambiente formalista, anco-
ra ben presente nel 1933. Sarà poi riaffermata attraver-
so il pensiero di Sant’Agostino (distinzione tra “cosa” e “se-
gno”), ma, ricordando come nel cinema la sineddoche
abbia un’importanza fondamentale,60 Jakobson ci ripor-
59
S. Mariniello, Kulešov, La Nuova Italia, Firenze 1989, p. 30.
60
«Pars pro toto – questo è il metodo fondamentale, grazie
al quale nel cinema la cosa viene trasformata in segno.» (R. Ja-
kobson, La fine del cinema?).
33
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 34

ta immediatamente a Tynjanov. Non a caso, poco dopo,


Jakobson menziona esplicitamente il saggio di Tynjanov
apparso in Poetika kino, a proposito della “analisi del mo-
vimento e del tempo cinematografici”:
La definizione della funzione della luce nella fotogenia
di Delluc e l’analisi del movimento e del tempo cine-
matografici nei relativi lavori di Tynjanov, dimostrano
in modo evidente che ogni apparizione del mondo ester-
no sullo schermo si trasforma in segno.
Nella sua affermazione, Jakobson fonde la lettura da-
ta da Ejchenbaum della fotogenia di Delluc e il pensiero
di Tynjanov, giungendo così, alle stesse conclusioni dei
due formalisti – il cinema trasforma in segno la realtà, in-
tesa come “mondo esterno”. Siamo, quindi, alla riaffer-
mazione della convenzionalità del cinema e, perciò, del-
la sua identificazione in quanto arte (e sistema di segni).
Proseguendo nella lettura del saggio jakobsoniano, si
incontra un altro passaggio “formalista” – il rapporto tra
cinema e teatro, che il sonoro ripropone.61
Jakobson, pur ammettendo che il sonoro ha riavvici-
nato le due arti, prosegue nella distinzione che già i For-
malisti avevano notato tra cinema e teatro. Naturalmen-
te, esaminando il cinema muto, Ejchenbaum non si era

61
«Molti affermano che il cinema sonoro ha avvicinato in
modo pericoloso l’arte cinematografica al teatro. È precisa-
mente così, il cinema sonoro ha avvicinato di nuovo cinema
e teatro, com’era stato all’inizio del secolo, al tempo del “tea-
tro elettrico”» (Ibidem).
34
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 35

potuto soffermare sul valore della parola nei due generi,


cosa che, invece, fa Jakobson. Il teorico afferma:
[...] in linea di principio la parola sullo schermo e la pa-
rola sulla scena sono cose fondamentalmente diverse. Il
cinematografo ha avuto a che fare con la realtà visiva da
quando i film erano muti, adesso esso lavora sia con la so-
stanza visiva che con quella sonora. La sostanza del tea-
tro consiste nelle manifestazioni umane. La parola nel
cinema è un caso particolare della realtà sonora, a fian-
co del ronzio di una mosca, allo scroscio di un ruscello,
al rumore della macchine ecc. La parola sulla scena è uno
degli elementi del comportamento umano.
In modo non dissimile, Ejchenbaum afferma che “in
teatro è impossibile far recitare i dettagli”.62 Riferendo-
si, ovviamente, all’esperienza visiva dello spettatore a tea-
tro, Ejchenbaum giunge alle medesime conclusioni di
Jakobson – il teatro è fondato sulla presenza dell’attore,
centro anche dello spazio teatrale, e a questo deve tornare.63
Il cinema, annullando la distanza “naturale” tra spettatore,
attore e spazio, può riportare sullo schermo i “casi parti-
colari”, i “dettagli”. E può farlo tanto nella realtà visiva
che in quella acustica.
62
B. Ejchenbaum, I problemi dello stile cinematografico, cit.,
p. 29.
63
«[...] il teatro deve seguire un’altra via, trasformare il pal-
coscenico in un’arena in cui l’attore possa esprimersi com-
piutamente, distruggendo lo spazio teatrale quale luogo ben
preciso dell’azione, vale a dire ritornando ai principi del tea-
tro di Shakespeare» (Ibidem).
35
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 36

A proposito di quest’ultima realtà, Jakobson osserva


come anche il silenzio ne faccia parte, mentre è la musi-
ca, per il suo carattere di astrazione semantica rispetto
alla realtà, a indicare “l’interruzione della realtà acustica”.
A sostegno della sua tesi, il teorico ricorda i ricercatori che,
già ai tempi del muto, avevano individuato la “funzione
di neutralizzazione della musica nel cinema”. Il primo
nome a essere citato è quello di Balázs, e la frase riporta-
ta da Jakobson (“notiamo immediatamente quando la
musica finisce, ma quando la sentiamo non le diamo al-
cuna attenzione, e, in questo modo, qualsiasi musica fun-
ziona praticamente con qualsiasi scena”) è la stessa che ri-
porta Ejchenbaum, quando, nel suo saggio, affronta il
tema della “funzione della musica”.
Anche per il formalista l’osservazione del teorico un-
gherese è corretta, e, andando oltre, giunge a una con-
clusione non lontana da quella di Jakobson. Ejchenbaum
afferma:
Un buon film assorbe talmente la nostra attenzione che
la musica è come se non la notassimo: nello stesso tem-
po un film senza accompagnamento musicale ci sembra
povero. Di che si tratta? [...] A me sembra che la questione
vada risolta nell’ambito di quanto ho detto sul caratte-
re “intimo” della percezione cinematografica, sul fatto
di vedere il film come un segno. [...] l’accompagnamento
musicale facilita il processo di formazione del discorso in-
teriore e proprio per questo non viene percepito in sé e
per sé, cioè udito.64
64
Ivi, p. 27.
36
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 37

In altre parole, Ejchenbaum riconosce alla musica lo


stesso carattere di astrattezza che le attribuisce Jakobson,
astrattezza che, come molto giustamente osserva Ej-
chenbaum, “facilita” l’immersione dello spettatore nella
pellicola, e perciò non è più neanche percepibile. Nel-
l’esperienza “onirica” e “ipnotica” – (come direbbero gli
psicologi e psichiatri che si sono occupati di cinema) –
dello spettatore cinematografico, la musica non può non
avere un ruolo importantissimo. La sua “astrattezza”, in-
fatti, e la sua capacità “evocativa” non possono che favo-
rire la concentrazione di chi osserva, e, quindi, la sua ca-
pacità di costruire quello che Ejchenbaum chiama “di-
scorso interiore”, ossia la trama “sintattica” che collega
le inquadrature “dentro” lo spettatore.
Altro elemento “formalista” che emerge dal saggio di
Jakobson, di non minore importanza rispetto a quelli
teorici già ricordati, è la citazione di alcuni autori che
rientrano tra i “miti” del Formalismo: Griffith, Chaplin
ed Ejzenštejn, oltre che i teorici Delluc e Balázs. Tra que-
sti, però, il nome che spicca è senza dubbio quello del-
l’autore di Luci della città. Esaltato da Jakobson soprat-
tutto per la sua capacità di creare metafore, Charlie Cha-
plin – e il suo “doppio” Charlot – è uno degli autori più
amati dal Formalismo e dalle avanguardie russe, non so-
lo per le sue qualità artistiche, ma anche per il contenu-
to sociale dei suoi film. Šklovskij si rivolgerà, addirittu-
ra, direttamente a lui, in una “lettera” del 1931,65 e Ma-
65
Lettera a Charlie Chaplin, in AA.VV., I Formalisti russi nel
cinema, cit., pp. 219-22.
37
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 38

jakovskij gli dedicherà una poesia, nella quale uno “Char-


lot con le ali” si fa beffe dei borghesi “grasso-ventruti”, per
conto di tutti gli oppressi d’Europa.66

Metafora e metonimia
Non si può non menzionare un altro tratto importante
che avvicina La fine del cinema? ai saggi di Poetika kino,
e che riguarda uno dei temi centrali dell’opera di Jakob-
son – l’analisi di metafora e metonimia.
Per Jakobson, la riflessione sulla metafora e la meto-
nimia è uno dei punti centrali dello studio non solo del-
la letteratura, ma delle arti in generale e, infine, della lin-
guistica applicata alla psicologia e alla neurologia (Ja-
kobson è considerato uno dei padri della neurolinguistica).
Il 1933 sarebbe stato, per il teorico russo, un anno
particolarmente importante per lo sviluppo di queste ri-
flessioni.
L’interesse per lo studio di metafora e metonimia, co-
me ricorda lo stesso Jakobson, era nata molto presto, leg-
gendo i testi del polacco Mikołaj Kruszewski. Aveva co-
sì conosciuto il tentativo di quest’ultimo di “approfon-
dire e di applicare alla lingua una teoria delle associazio-
ni per similitudine e contiguità, che egli aveva ripreso
dai pensatori inglesi”.67 A partire da questa lettura, i con-
cetti di similitudine e contiguità e, conseguentemente,

66
V. Majakovskij, Cinema e cinema, cit., pp. 25-28.
67
R. Jakobson - K. Pomorska, Dialoghi. Gli ultimi suoni
del Novecento, Castelvecchi, Roma 2009, p. 161.
38
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 39

quelli di metafora e metonimia, sarebbero rimasti al cen-


tro delle riflessioni jakobsoniane, e nel 1921 Jakobson
avrebbe pubblicato il primo saggio nel quale li avrebbe
affrontati: Il realismo nell’arte. Così Jakobson ricorda que-
sto scritto:
[...] con l’articolo Il realismo nell’arte (1921) [...] notavo
che, tra le altre concezioni del termine polisemantico
realismo, con l’espressione letteratura realistica spesso si in-
tendeva l’ornamentazione di un racconto “con delle im-
magini scelte per contiguità, cioè seguendo la strada che
va dal termine proprio alla metonimia o alla sineddo-
che. Questa condensazione metonimica può completa-
re l’intreccio oppure addirittura annullarlo”. Compresi
perché l’associazione per similitudine, che determina il
corso metaforico della narrazione, suscitava attenzione in
quanto intervento artistico, laddove il corso metonimi-
co, che è diretto dall’associazione per contiguità, risultava
invece più passivo, dipendente più dalla situazione de-
scritta che non dalla volontà creativa dell’autore. Per que-
sto motivo il ricercatore riserva meno attenzione allo svi-
luppo metonimico piuttosto che a quello metaforico,
anche se in realtà la costruzione metonimica richiede la
stessa tensione e ricercatezza artistica che serve per crea-
re una similitudine.68
Sul concetto di “letteratura realistica” come “letteratura
metonimica”, Jakobson sarebbe ancora tornato,69 ma, nel

68
Ivi, p. 162.
69
«Lo sviluppo di un discorso può aver luogo secondo due
differenti direttrici semantiche: un tema conduce a un altro sia
39
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 40

1933, per motivi assai prosaici (necessità di guadagno),


un casuale avvicinamento al cinema l’avrebbe portato ad
allargare le sue riflessioni su metafora e metonimia anche
nel campo cinematografico:
All’inizio degli anni Trenta ebbi modo di capire ancora
meglio il valore intrinseco della struttura metonimica,
allorché l’aggravarsi della crisi economica causò un gran-
de ritardo per l’approvazione ministeriale del mio invi-
to all’Università di Brno, e il mio amico Vladislav Vančura
(1891-1942), grande maestro della prosa letteraria ce-
ca, mi invitò a lavorare sulla sceneggiatura di un film.
Potei così conoscere da vicino le peculiarità dell’arte ci-
nematografica, che nella sua essenza è profondamente

per similarità sia per contiguità. La denominazione più ap-


propriata per il primo caso sarebbe direttrice metaforica, per
il secondo direttrice metonimica, poiché essi trovano la loro
espressione più sintetica rispettivamente nella metafora e nel-
la metonimia. [...] Nella poesia varie ragioni possono deter-
minare la scelta fra le due alternative. Il primato del processo
metaforico nelle scuole romantiche e simboliste è stato sotto-
lineato più volte, ma non si è ancora compreso abbastanza
chiaramente che il predominio della metonimia governa e de-
finisce effettivamente la corrente letteraria cosiddetta “realistica”
che appartiene a un periodo intermedio fra il declino del ro-
manticismo e il sorgere del simbolismo, pur essendo opposta
ad ambedue. Seguendo la via delle relazioni di contiguità, l’au-
tore realista opera digressioni metonimiche dall’intreccio al-
l’atmosfera e dai personaggi alla cornice spazio-temporale.
Egli si compiace di sineddoche» (R. Jakobson, Saggi di lin-
guistica generale, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 40-41).
40
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 41

metonimica, ossia usa in modo intenso e vario il gioco


delle contiguità. Questo punto nevralgico del cinema di
allora risultava particolarmente evidente grazie alle spo-
radiche deviazioni verso la metafora manifesta. [...] Que-
sto abbecedario della tecnica cinematografica permette-
va di cogliere quell’incomparabile gioco delle contigui-
tà, che rifiuta di seguire servilmente gli stereotipi della vi-
cinanza nello spazio e della successione meccanica nel
tempo, un gioco sagace, che nelle opere di geniali mae-
stri e innovatori come Charlie Chaplin (1889-1977),
Buster Keaton (1895-1966) e Sergej Ejzenštejn (1898-
1948), ci lasciava sbalorditi. Sono loro che hanno libe-
rato la metonimia dal suo essere subordinata alle asso-
ciazioni per contiguità puramente meccaniche, e sem-
pre loro, nei procedimenti metaforici, hanno spezzato il
giogo di una similudine troppo evidente e maniacale.
Da questo punto di vista Boris Pasternak, virtuoso del-
la metonimia nella poesia come nella prosa poetica, è af-
fine a questi cineasti. Non è un caso infatti se dalle que-
stioni di cinema passai direttamente alla complessa pro-
blematica della prosa di questo poeta. [...] Così si accre-
sceva la mia esperienza nel comparare volutamente i due
tropi artistici antitetici [...]: mi riferisco alla metonimia
come trasformazione creativa delle contiguità, e alla me-
tafora come trasformazione creativa delle similitudini.70
Dunque, nel 1933, Jakobson scrisse due saggi nei qua-
li si occupava, tra l’altro, di metafora e metonimia, La
fine del cinema? 71 e Randbemerkungen zur Prosa des Di-
70
Ivi, pp. 162-64.
71
Come riferito da Jakobson nella sua intervista a «Cine-
41
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 42

chters Pasternak (Note marginali sulla prosa del poeta Pa-


sternak). Il passaggio dalla teoria del cinema alla lettera-
tura permetteva – si potrebbe dire, anche in questo ca-
so, in stile “formalista” – una verifica e un approfondi-
mento delle riflessioni sui due procedimenti che Jakob-
son considerava centrali nello sviluppo di ogni arte. Più
tardi, negli anni degli studi sulle afasie, questo tipo di ri-
flessione sarebbe passato anche alla linguistica, ma sen-
za mai dimenticare il ruolo di metonimia e metafora nel-
le arti (che, in quanto sistemi di segni, erano confronta-
bili con il sistema linguistico).
Negli Essais de Linguistique générale, del 1963, Jakob-
son, appunto nel saggio sulle afasie,72 avrebbe scritto di
metafora e metonimia, a proposito dei due tipi di di-
sturbi che egli individuava all’origine di due tipi di afa-
sia: il disturbo della similarità e quello della contiguità.
A distanza di trent’anni da La fine del cinema?, Jakobson
avrebbe ancora ricordato l’importanza della metafora e del-
la metonimia nel cinema:
La prevalenza alternante dell’uno o dell’altro di questi
due procedimenti non è affatto un fenomeno esclusivo
dell’arte letteraria: la stessa oscillazione appare nei siste-

ma e film», Vladislav Vančura lo aveva anche invitato a scri-


vere un articolo sul cinema, da inserire in una raccolta di scrit-
ti sul cinema, che poi non si realizzò. A quel punto, Jakobson
pensò di pubblicarlo nella rivista «Listy pro umčni a kritiku».
Si trattava di La fine del cinema?
72
Due aspetti di linguaggio e due tipi di afasia, in R. Jakob-
son, Saggi di linguistica generale, cit., pp. 22-45.
42
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 43

mi di segni diversi dal linguaggio. [...] dalle produzioni


di D.W. Griffith in poi, il cinematografo, con la sua svi-
luppatissima possibilità di variare l’angolo, la prospetti-
va e il centro delle inquadrature, si è distaccato dalla tra-
dizione del teatro e ha usato una gamma senza prece-
denti di primi piani sineddochici e di montaggi meto-
nimici in generale. In pellicole come quelle di Charlie
Chaplin questi procedimenti sono stati soppiantati da
un nuovo tipo metaforico di montaggio, con le sue “dis-
solvenze graduali”, autentiche similitudini filmiche.73
Ma in che rapporto si possono porre le riflessioni ja-
kobsoniane sulla metafora nel cinema con quelle di Ej-
chenbaum e Tynjanov?
Per Ejchenbaum, “la metafora cinematografica è una
particolare realizzazione della metafora verbale”,74 anzi,
“la metafora cinematografica è possibile soltanto a con-
dizione che essa poggi sulla metafora verbale”.75 Lo spet-
tatore si “appropria” della metafora cinematografica,
quando la assimila da un punto di vista “verbale”, ossia
quando la “riconosce” come metafora verbale. Così scri-
ve Ejchenbaum:
[...] se la metafora verbale non si realizza nella coscien-
za del lettore fino ad assumere una immagine chiara-
mente visiva (se cioè il senso letterale viene coperto da
quello metaforico), la metafora cinematografica non si rea-
73
Ivi, pp. 41-42.
74
B. Ejchenbaum, I problemi dello stile cinematografico, cit.,
p. 50.
75
Ibidem.
43
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 44

lizza nella coscienza dello spettatore cinematografico fi-


no ai limiti di una completa proposizione verbale.76
Dunque, per Ejchenbaum, in un cinema muto, la me-
tafora ha importanza essenzialmente per il suo riferi-
mento al “materiale verbale sullo schermo”.77 Tynjanov,
nella definizione di un “sistema” di segni all’interno del
linguaggio cinematografico, aveva individuato – come si
è già detto – nell’illuminazione e nell’angolazione due
procedimenti che permettevano di straniare oggetti e uo-
mini, di sostituire, cioè, l’“oggetto visibile” con l’“ogget-
to dell’arte”. La metafora cinematografica aveva la me-
desima funzione, e Tynjanov ce ne offre un esempio:
Una stessa azione ci viene presentata compiuta da altri
soggetti: a baciarsi non sono più gli uomini, ma bensì i
colombi. Anche qui l’oggetto visibile viene smembra-
to; sotto un unico segno semantico ci vengono presen-
tati oggetti diversi, ma nello stesso tempo viene smem-
brata anche l’azione, e nella seconda azione parallela (i
colombi) ce ne viene offerto un diverso colorito se-
mantico.78
Anche in Tynjanov, dunque, c’è un’assimilazione del-
la metafora cinematografica con quella verbale. La simi-
larità è alla base di questo procedimento, nel cinema co-
me in poesia. Lo “smembramento” dell’oggetto – che ci
riporta immediatamente al Cubismo e al Futurismo tan-
76
Ivi, pp. 51-52.
77
Ivi, p. 52.
78
J. Tynjanov, Le basi del cinema, cit., pp. 64-65.
44
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 45

to amati dai formalisti, Jakobson compreso – e dell’azione


straniano ciò che appare sullo schermo, esattamente co-
me avviene in un quadro della Gončarova o in una poe-
sia di Chlebnikov.
Jakobson, puntando a riconoscere nel cinema la me-
tafora come “trasformazione creativa delle similitudini”,
insiste, naturalmente, sul concetto di similarità, e, nel ri-
cordare le dissolvenze di Chaplin, non si allontana da
quell’idea di straniamento che è alla base dell’idea di me-
tafora cinematografica di Tynjanov. Allo stesso tempo, il
lavoro su Pasternak, quasi “derivato” da La fine del cine-
ma?, dimostra quanto per Jakobson, come per Ejchen-
baum, metafora (e metonimia) cinematografica e meta-
fora (metonimia) verbale siano vicine e, in qualche mo-
do, interdipendenti.
Anche nella ricerca sui “tropi artistici” che affascinavano
tanto Jakobson, il teorico russo continuava così la stra-
da “formalista”, superandola, in profondità e ampiezza,
ma restando fedele ai suoi principi fondamentali.

Da Jakobson (e il Formalismo) a Pasolini e Lotman


Che la prima traduzione in italiano del saggio di Jakob-
son sul cinema sia apparsa nella rivista «Cinema e film»,
e proprio nel 1967, lo abbiamo già detto, non è certa-
mente un caso. La rivista, infatti, nasceva, sin dal primo
numero, come uno strumento di riflessione sulla teoria
del cinema. Grazie alle traduzioni dal russo e dal ceco di
Caterina Graziadei, «Cinema e film» avrebbe proposto,
sempre nel 1967, scritti di diversi autori russi “formali-
45
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 46

sti” (lo stesso Jakobson, Dziga Vertov, Ejzenštejn), of-


frendo al lettore italiano, all’interno della storia del cinema,
un materiale di enorme importanza nella storia della teo-
ria cinematografica – la stessa importanza del materiale
“formalista” offerto, negli stessi anni, dalle traduzioni e
le opere di Erlich, Ambrogio, Strada e Ripellino per la sto-
ria della letteratura e la teoria dell’arte.
Nel dibattito sul cinema come lingua o linguaggio che
aveva contrapposto Pasolini e Metz, le letture offerte con
la “scoperta” del Formalismo russo e di Jakobson non
potevano non avere la loro rilevanza, fossero o non fos-
sero “dichiarate”.
Nell’intervista di «Cinema e film», non a caso, veniva
chiesto in modo esplicito al teorico russo un parere
sull’“applicazione degli studi linguistici e di semiotica al
cinema”,79 ossia di esprimere le sue idee sulle teorie enun-
ciate da Pasolini e Metz (in particolare). Jakobson ri-
sponderà, ricordando ancora una volta Sant’Agostino, e
scivolando, con leggerezza e profondità, su una polemi-
ca che, probabilmente, non lo toccava più di tanto.
Tuttavia, va detto che, tra i teorici del cinema di que-
gli anni, Pasolini sarebbe stato quello – sicuramente in am-
biente italiano – più vicino alle posizioni di Jakobson e
dei Formalisti (che diventeranno, con le loro opere, ad-
dirittura protagonisti della sua creazione letteraria, nel-
l’ultimo periodo).
È molto probabile, per non dire certo, che Pasolini
avesse letto la traduzione di La fine del cinema? di Ja-
79
«Cinema e film», a. I, n. 2, primavera 1967, p. 160.
46
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 47

kobson apparsa su «Cinema e film». Il poeta avrebbe col-


laborato con la rivista per tutto il 1967, e, quindi, diffi-
cilmente poteva sfuggirgli ciò che appariva sulle pagine
di «Cinema e film».
Inoltre, il 1967 era stato l’anno in cui Pasolini aveva
centrato le sue riflessioni teoriche sulla lingua parlata e
scritta80 e sulla lingua del cinema, e, perciò, era partico-
larmente attento a tutto ciò che veniva scritto sull’argo-
mento.
Nell’ambito delle sue ricerche sulla lingua del cinema,
doveva essere stata di particolare interesse l’affermazione
iniziale del saggio di Jakobson, riguardo al “materiale”
con cui il cinema lavora, la “realtà”. Un’affermazione che
confermava le sue teorie.
Per Jakobson, infatti, come per Pasolini, una seman-
tica del cinema era assolutamente possibile81 (ma, come
si è visto, lo era già per Tynjanov e i formalisti, e Jakob-
son non lo aveva dimenticato) ed era da ricondurre all’uso
della realtà come insieme di segni. Insistendo su questo
punto, Jakobson, com’era nella tradizione formalista, si
rifaceva ai classici, per spiegare come non fosse contrad-
dittorio parlare della lingua del cinema come sistema di
segni, e affermare, nello stesso tempo, che la realtà è il
“materiale” del cinema (contraddizione che era stata im-
80
Sono gli anni della polemica di Nuove questioni linguistiche.
81
«[...] per l’autore cinematografico la natura segnica degli
elementi cinematografici (unità) non è un segreto – l’angola-
zione deve essere considerata un segno, una lettera dell’alfabeto,
sottolinea ancora Kulešov» (R. Jakobson, La fine del cinema?).
47
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 48

putata anche a Pasolini, e che Pasolini aveva “scandalo-


samente” risolto con la Semiologia della realtà):82
[...] contraddizione l’aveva già risolta sant’Agostino. Que-
sto geniale pensatore del V secolo, distinguendo con sot-
tigliezza la cosa (res), da una parte, e il segno (signum),
dall’altra, ha insegnato che, accanto ai segni, caratteristica
importantissima dei quali è la significatività (značimost’),
esistono le cose, che possono essere usate come segni.
Proprio la realtà, acustica e visiva, trasformata in segno,
rappresenta la materia specifica dell’arte cinematografica.
Per Jakobson è l’inquadratura – proprio come per Pa-
solini – che trasforma l’oggetto in segno. Infatti, l’inqua-
dratura (ciò che “la camera può riprendere”) può com-
prendere solo “una parte per il tutto”:
Pars pro toto: questo è il metodo fondamentale, grazie al
quale nel cinema la cosa viene trasformata in segno.
Proseguendo nel riconoscimento dell’esistenza di una
semantica del cinema in rapporto alla realtà, Jakobson
compie delle riflessioni che ci riportano ancora a Pasolini:
[...] ogni apparizione del mondo esterno sullo schermo
si trasforma in segno.
Il cane non riconosce un cane dipinto, perché la pit-
tura, nel complesso, è segno. La prospettiva in pittura è
un procedimento artistico, un mezzo artistico. Lo stes-

82
Cfr. P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte (a cura
di W. Siti e S. De Laude), 2 vv., Mondadori, Milano 1999, v.
1, pp. 1680-86.
48
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 49

so cane abbaia ai cani che vede sullo schermo, perché


nel cinema noi abbiamo a che fare con gli oggetti della
realtà, ma non nota il montaggio e la correlazione se-
gnica delle cose che vede sullo schermo.
Il teorico, che contesta il diritto del cinema a definir-
si arte, non distingue il film dalla fotografia in movi-
mento, si rifiuta di prendere in considerazione l’esisten-
za del montaggio e non presta attenzione al fatto che nel
cinema esiste un particolare sistema di segni. Si com-
porta come chi legge una poesia e considera le parole
prive di senso.
Non diversamente, in La paura del naturalismo, Paso-
lini avrebbe scritto:
[...] mettiamo che lo spettatore veda un facchino muto:
il facchino di un film. Un facchino muto, meravigliosa-
mente fotografato: immagine, dunque. Perché lo spet-
tatore lo riconosce? Perché è un facchino della realtà. In
quel film sarà quello che volete, ma nel cinema è lo stes-
so che nella realtà. Riprodotto. Per esprimerlo, sia pure
come immagine, è lui stesso che io uso.83
Certo, un uso che comprende, naturalmente, la con-
sapevolezza che le cose reali riprodotte sullo schermo di-
ventano segni (cinematograficamente) nel momento in cui
non sono più naturali – da qui, come indicato da Ja-
kobson, Ejchenbaum e gli altri Formalisti, la necessità
del montaggio come “stilizzazione”, “sintesi” della realtà:

83
P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., v. 1, p.
1571.
49
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 50

In effetti, lo stesso inconsulto amore della realtà, tra-


dotto in termini linguistici, mi fa vedere il cinema come
una riproduzione fluente della realtà mentre, tradotto
in termini espressivi, mi fissa davanti ai vari aspetti del-
la realtà (un viso, un paesaggio, un gesto, un oggetto), qua-
si fossero fermi e isolati nel fluire del tempo. Insomma:
concepire il cinema come un infinito e continuo piano-
sequenza non ha niente di naturalistico. Anzi! Invece il
piano-sequenza in concreto, nei singoli films, è un pro-
cedimento naturalistico [...]. Ecco perché io evito il pia-
no-sequenza: perché esso è naturalistico, e quindi... na-
turale. Il mio amor feticistico per le “cose” del mondo,
mi impedisce di considerarle naturali. O le consacra o le
dissacra con violenza, una per una: non le lega in un giu-
sto fluire. Ma le isola e le idolatra, più o meno intensa-
mente, una per una...
Nel mio cinema perciò il piano-sequenza è comple-
tamente sostituito dal montaggio. La continuità e l’in-
finità lineare di quel piano-sequenza ideale che è il cinema
come lingua scritta dell’azione, si fa continuità e infini-
tà lineare “sintetica”, per l’intervento del montaggio.84
Il montaggio è, logicamente, il procedimento centra-
le del film, (ossia, secondo Pasolini, della realizzazione
concreta del cinema – intendendo il cinema come langue
[della realtà] e il film come parole), ciò che rende la sua
lingua “convenzionale”.
Su questo punto, non a caso, i Formalisti avevano cen-
trato la loro attenzione, sin dall’inizio della loro teoria
del cinema, (metalinguisticamente realizzata nei film di
84
Ivi, pp. 1546-47.
50
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 51

Kulešov, Ejzenštejn ecc.), e Jakobson aveva proseguito


lungo la loro strada. In Res sunt nomina, Pasolini torna a
definire il montaggio, e questa volta la citazione di Ja-
kobson è evidente:
Il montaggio istituisce contesti in cui il rapporto di con-
tiguità e di similarità è analogo a quello di ogni altro lin-
guaggio d’arte.85
Si riconoscono immediatamente le definizioni di “rap-
porto di contiguità” e di “similarità” che, come abbiamo
visto, avevano introdotto Jakobson allo studio della me-
tafora e della metonimia e sulle quali il teorico aveva sem-
pre continuato a lavorare.
Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia86 era sta-
to il saggio jakobsoniano, su questo tema, che si era di-
mostrato fondamentale per Pasolini. Illustrando i due ti-
pi di afasia – che Jakobson identifica attraverso il rap-
porto tra “codice” e “messaggio” – il linguista russo trat-
ta della “contiguità” e della “similarità”, giungendo al-
l’individuazione di due “direttrici semantiche” all’inter-
no dello “sviluppo di un discorso”:
Lo sviluppo di un discorso può aver luogo secondo due
differenti direttrici semantiche: un tema conduce a un al-
tro sia per similarità sia per contiguità. La denomina-
zione più appropriata per il primo caso sarebbe direttri-
ce metaforica, per il secondo direttrice metonimica, poiché
85
Ivi, p. 1590.
86
In R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, cit., pp. 22-
45.
51
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 52

essi trovano la loro espressione più sintetica rispettiva-


mente nella metafora e nella metonimia.87
In La fine del cinema?, si è già detto, Jakobson aveva in-
dividuato la metafora e la metonimia come principi co-
struttivi del film:
Il film è fatto di parti di oggetti, diverse e distinguibili
dal punto di vista della grandezza, e, nello stesso tempo,
sempre in relazione alla grandezza, di parti distinguibi-
li di spazio e di tempo. Queste parti si trasformano e si
organizzano secondo il principio di contiguità o di si-
milarità e contrasto, cioè il film è costruito secondo il
principio della metonimia o secondo quello della meta-
fora (secondo uno dei due fondamentali metodi di co-
struzione del film).
I concetti di direttrice metaforica e direttrice metoni-
mica, e quanto affermato su metafora e metonimia in La
fine del cinema?, sarebbero entrati nella teoria cinemato-
grafica di Pasolini, anche grazie alla lettura di Roland
Barthes.
In Dialogo I, rispondendo all’intervistatore di «Cine-
ma e film»,88 Pasolini ricorda quanto detto da Barthes
sulla “questione della lingua cinematografica” nello stes-
so numero della rivista,89 e si sofferma proprio sull’uso che
Barthes fa delle nozioni di “metafora e metonimia” mu-
tuate da Jakobson:
87
Ivi, p. 40.
88
«Cinema e film», a. I, n. 1, inverno 1966-67, p. 7.
89
Ivi, pp. 9-14.
52
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 53

[...] sì, è giusto mutuare da Jakobson a scopi linguistici


due nozioni prosodiche o retoriche: metafora e meto-
nimia.
(Del resto, io stesso, benché Metz me lo rimproveri,
avevo fatto la stessa operazione, parlando di stilemi che
divengono sintagmi, dato che le varie paroles cinemato-
grafiche sono tutte nate sotto il segno appunto della pro-
sodia e della retorica, e non esistono paroles cinemato-
grafiche al di fuori dei film narrativi, a eccezione dei do-
cumentari, che però obbediscono sempre a regole pro-
sodico-retoriche.)
Il cinema è dunque senz’altro – ha ragione, e una ra-
gione illuminante, Barthes – un’arte metonimica. E pur
cause: la natura della sua lingua non è segnica, ma figu-
rale: la stilizzazione che porta alla scrittura come alfabe-
to, non è una stilizzazione dei segni, ma dei sintagmi,
cioè del montaggio.90
Nella nota intervista a Halliday, Pasolini avrebbe poi
chiarito ulteriormente il suo “debito” teorico nei con-
fronti di Jakobson:
Parlando del passaggio dalla letteratura al cinema, lei ha det-
to che l’unica grossa differenza era la mancanza della me-
tafora nel linguaggio cinematografico. Pensa ancora che sia
questo il problema maggiore? Be’, quello l’ho detto un po’
sbadatamente. Non conoscevo moltissimo sul cinema,
ed è stato molto tempo prima che iniziassi tutta la mia
ricerca linguistica in proposito. Fu un’osservazione but-
tata lì a caso, ma intuitivamente profetica, in una certa
90
P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., v. 1, p.
1550.
53
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misura: Jakobson, seguito da Barthes, ha parlato del ci-


nema come arte metonimica, in contrapposizione al-
l’arte metaforica.91
La riflessione di Jakobson su metafora e metonimia, co-
sì presente in Pasolini, sarebbe stata ulteriormente ap-
profondita dal poeta, in Teoria delle giunte, in un’analisi
parallela di poesia e cinema (seguendo anche in questo la
tradizione formalista e jakobsoniana). Pasolini compiva
così un ulteriore passo in avanti nella sua “linguistica del
cinema”:
Mentre “un poeta si riconosce da un verso” non è possi-
bile riconoscere un regista da un’inquadratura o da po-
che inquadrature: occorre almeno un’intera sequenza.
Questa è la proposizione empirica con cui il regista ri-
conosce nel proprio caso la teoria che definisce il cine-
ma essenzialmente metonimico, in opposizione al ca-
rattere essenzialmente metaforico della poesia.
Ciò viene a suggerire un’ipotesi: cioè che la doppia
articolazione del cinema non consista – è un discorso
che faccio discutendo con me stesso – nel rapporto crea-
tivo tra l’inquadratura e i suoi oggetti (come unità lin-
guistiche minime, chiamate “cinèmi” per analogia coi
“fonemi”): ma se mai nel rapporto creativo tra l’intero or-
dine delle inquadrature e l’intero ordine degli oggetti di
cui sono composte.92
Alla fine del saggio, il poeta, proprio grazie alla rifles-
sione sulla metonimia jakobsoniana, sente di poter af-
91
Ivi, p. 1307.
92
Ivi, p. 1622.
54
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fermare con più sicurezza la giustezza della sua analisi


linguistica del cinema:
Se è vero [...] che il carattere del cinema è metonimico
– fuori dalla prosodia che riguarda i films come meta-
linguaggio – non si potrà non ricorrere a un’analisi che
ne tenga conto a livello non estetico ma linguistico: e
non inserire il ritmèma nel cinèma come suo elemento
integrante e imprescindibile.93
Il concetto di ritmèma nasceva dalla considerazione
che Pasolini aveva fatto sul ritmo «che nasce dai rappor-
ti di durata delle varie inquadrature fra loro, e dalla du-
rata dell’intero film».94 Un concetto che sarebbe diven-
tato sempre più centrale man mano che Pasolini (negli an-
ni Settanta) si era andato addentrando nell’analisi di un
linguaggio cinematografico che scavava nella “Semiolo-
gia della Realtà”. In Teoria delle giunte scriveva:
L’ipotesi è che il cinema, come linguaggio d’arte – o al-
meno verificato e sperimentato solo in quanto tale – sia
una lingua spaziale-temporale, e non audio-visiva – se
non a una prima e materiale analisi.95
L’affermazione pasoliniana sembrerebbe quasi una ci-
tazione da Tynjanov, Ejchenbaum e lo Jakobson di La
fine del cinema? Che la coincidenza sia frutto di una ri-
flessione esclusivamente personale, o di un “ripensa-
93
Ivi, p. 1627.
94
Ivi, p. 1525. Anche in questa osservazione pasoliniana
sono evidenti le affinità con le teorie formaliste sul cinema.
95
Ivi, p. 1623.
55
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mento” di quanto letto, non è possibile stabilirlo con cer-


tezza. Ma, aldilà delle puntualizzazioni “filologiche”, ciò
che risulta più interessante è osservare come, nella fase fi-
nale della sua analisi, Pasolini, ripensando le sue iniziali
ipotesi e ampliandole, finisca per farle coincidere con le
prime osservazioni formaliste sul cinema, e con le idee di
Jakobson.
Idee che tornano anche a proposito di un altro punto
fondamentale per il “secondo Pasolini”, nel cinema co-
me in letteratura – il rapporto con la “lingua orale”.
In Il cinema e la lingua orale, Pasolini parte – come Ja-
kobson in La fine del cinema? – dalla difesa del cinema so-
noro. Jakobson aveva esaminato la realtà sonora del film
“in toto”, distinguendola da quella del teatro per la ri-
produzione della “realtà acustica”, fatta non solo di pa-
role, ma anche di suoni e di silenzi “reali”. Naturalmen-
te, nel 1933, la diffidenza verso il cinema sonoro – an-
che tra i teorici, che vedevano cadere molte delle loro
teorie, legate alla mimica e all’uso della didascalia – era
tale che la sua difesa doveva essere a tutto campo.
Pasolini, evidentemente, poteva ridurre le sue rifles-
sioni alla “questione”, per lui più urgente, della lingua
orale. Siamo nel 1969, nel pieno dei suoi interventi su que-
sto tema, e a un anno dalla pubblicazione su «Nuovi Ar-
gomenti» del Manifesto per un nuovo teatro, che fondava
il Teatro di Parola. Pasolini ricorre ancora all’amato Ja-
kobson, (non in qualità di teorico del cinema, ma di fi-
lologo e linguista), per difendere il cinema sonoro. At-
taccando i “difensori (antiquati) del cinema muto”, che

56
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“attribuiscono, nel cinema, alla parola, naturalmente


ORALE, una funzione ancillare”,96 il poeta tratterà del ruo-
lo della parola nel melodramma, (erano gli anni della
Callas), spiegando perché la parola orale non possa esse-
re mai “ancillare” in un’arte. A chi sostiene che sia la mu-
sica a contare nel melodramma e non le parole “scioc-
che e ridicole”, Pasolini avrebbe risposto:
Chi dice questo ignora la “ambiguità” della parola poe-
tica: l’ineliminabile contrasto in essa tra “senso” e “suo-
no”. La poesia è (Valéry, citato da Jakobson) “une exita-
tion prolongée entre le sens et le son”. Onde ogni poe-
sia è metalinguistica, perché ogni parola poetica è una scel-
ta non compiuta tra il suo valore fonico e il suo valore
semantico. Il rovesciamento dei rapporti tra contiguità
e similarità (sempre Jakobson) moltiplica smisuratamente
la polisemia della parola poetica. In conclusione: in ogni
poesia si ha inevitabilmente quella che si dice “dilata-
zione semantica”.97
Attraverso queste citazioni, Pasolini fa riferimento a
quanto affermato da Jakobson nel saggio Linguistica e
poetica, contenuto in Saggi di linguistica generale:
In poesia non soltanto la sequenza fonematica, ma così
pure ogni sequenza di unità semantiche tende a stabili-
re un’equazione. La sovrapposizione della similarità alla
contiguità conferisce alla poesia quell’essenza simbolica,

96
P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, v. 1, cit., p.
1596.
97
Ivi, p. 1597.
57
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complessa, polisemica che intimamente la permea e la or-


ganizza [...]98
Il punto è – afferma Pasolini – che la lingua “ORALE”
non ha mai avuto la considerazione di quella “SCRITTA”:
Nel cinema la parola [...] va considerata nel suo aspetto
ORALE. È questo che fa perdere la testa a coloro che non
hanno avuto occasione di leggere almeno Morris.99 E
che dunque sono convinti che la lingua sia un sistema pri-
vilegiato a sé, e non uno dei tanti posibili sistemi di se-
gni. Ora, noi siamo abituati da secoli di storia a dare va-
lutazioni estetiche esclusivamente sulla parola SCRITTA.
Essa sola ci pare degna di essere non solo poetica, ma
anche semplicemente letteraria. Poiché invece nel cine-
ma la parola è ORALE, essa viene naturalmente vista co-
me prodotto di poco pregio, o addirittura spregiato. Avrei
voluto vedere questi abitudinari ascoltare la parola ORA-
LE di Omero, quando diceva i suoi poemi, in tempi in
cui né la scrittura né la stampa erano inventate. Eh, cer-
to, era più difficile il giudizio: come ora è più difficile ca-
pire se un verso è bello o brutto se ascoltato dalla voce
di un attore: perché c’è di mezzo appunto la voce del-
l’attore e la sua interpretazione. Sempre Jakobson, mi
pare, ha fatto pronunciare a un attore una quarantina di
volte la parola “Buonasera” con una quarantina di sensi
diversi.100
98
R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, cit., p. 208.
99
Morris viene citato da Jakobson nei Saggi di linguistica ge-
nerale, dai quali Pasolini trae le citazioni di Jakobson.
100
P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., v. 1, p.
1598. Pasolini fa riferimento a questo episodio riportato da Ja-
58
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È chiarissimo, dalle citazioni fatte da Pasolini, che,


dietro alle sue riflessioni sulla lingua orale, sulla “lingua
della poesia” e sulla “linguistica del cinema”, ci sia la let-
tura dei Saggi di linguistica generale di Jakobson. E la con-
siderazione finale de Il cinema e la lingua orale, secondo
la quale “solo la semiologia” può risolvere i problemi re-
lativi alla lingua orale e a quella scritta, suona simile a
quella con la quale Jakobson aveva concluso il suo sag-
gio su Linguistica e poetica, e cioè che solo l’incontro tra
linguistica e critica letteraria può portare a una lettura
completa della poesia.
Ma è altrettanto chiaro che Pasolini non poteva non
essere stato influenzato anche dalla lettura di La fine del
cinema?

kobson nel saggio Linguistica e poetica: «Un vecchio attore del


teatro di Stanislavsky a Mosca mi raccontò come, al momen-
to della sua audizione, quel famoso direttore gli chiedesse di
trarre quaranta messaggi diversi dall’espressione segodnja večerom
(“questa sera”), variando le sfumature espressive. Egli fece un
elenco di circa quaranta situazioni emozionali, poi pronunziò
la frase in questione in rapporto a ciascuna di queste situa-
zioni, che il suo uditorio doveva riconoscere soltanto dai mu-
tamenti nella forma fonica di quelle due parole. Nell’ambito
della ricerca per la descrizione e l’analisi del russo corrente
contemporaneo [...] abbiamo chiesto a questo attore di ripe-
tere il test di Stanislavsky» (R. Jakobson, Saggi di linguistica ge-
nerale, cit., p. 187). Pasolini ricorda questo episodio anche
nell’intervista a Jean Duflot (cfr. P.P. Pasolini, Saggi sulla po-
litica e sulla società, cit. p. 1405).
59
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Altro autore, indubbiamente condizionato dalla let-


tura di Jakobson e dei Formalisti, nei suoi scritti sul ci-
nema, è Jurij Lotman. Che il pensiero del grande se-
miologo russo abbia le sue radici nel Formalismo e nel-
lo Strutturalismo ceco di Jakobson, è un dato acquisi-
to.101 E perciò, leggendo i suoi scritti sul cinema, è ine-
vitabile il rimando alle teorie già formulate dai suoi “mae-
stri”.
Anche Lotman, come già Tynjanov, e, naturalmente,
ancora più di lui, insiste sul “linguaggio” del cinema co-
me sistema di segni. I segni del cinema sono, ancora una
volta, le “immagini” che riproducono gli “oggetti del
mondo reale”. Ma, per Lotman, come per Ejchenbaum,
Tynjanov e Jakobson, è la “riproduzione” di questi oggetti,
la loro “trasformazione” nel passaggio dalla realtà allo
schermo, che fa lo “specifico” del cinema. I segni del lin-
guaggio cinematografico sono dunque le immagini, il cui
“significato” sono gli oggetti riprodotti in un’inquadra-

101
Così scrive Erlich a proposito di Lotman e dei suoi col-
leghi: «I loro studi raffinati e altamente specialistici sulla “poe-
tica strutturale” riprendevano quella creativa simbiosi di lin-
guistica e teoria letteraria propria del formalismo russo, anche
se tenevano conto degli sviluppi della semiotica in Occiden-
te. Com’è chiaramente implicito nel termine “strutturale”, la
metodologia di Lotman e Ivanov, pur ricollegandosi alle più
mature posizioni formaliste, deve molto a una tradizione sla-
va consanguinea, quella dello strutturalismo ceco»). V. Erlich,
Il Formalismo russo, in Storia della civiltà letteraria russa, Utet,
Torino 1997, v. II, pp. 254-70, pp. 268-69).
60
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 61

tura che, attraverso un uso particolare di tecniche proprie


del cinema, possono assumere, come le parole in lette-
ratura, significati aggiunti.
Così scrive Lotman:
ogni immagine sullo schermo è un segno, cioè ha un si-
gnificato, porta informazione. Ma si tratta di un signifi-
cato di natura duplice: da un lato infatti le immagini
sullo schermo riproducono certi oggetti del mondo rea-
le. Tra questi oggetti e le immagini si istituisce un rap-
porto semantico basato sulla riproduzione: gli oggetti ri-
prodotti sullo schermo fungono da significati delle im-
magini. Ma, d’altro lato, le immagini possono coordinarsi
con altri significati supplementari, a volte del tutto inat-
tesi. Luci, montaggio, gioco dei piani, cambio di velocità
ecc. possono fornire all’oggetto riprodotto significati
supplementari, di tipo simbolico, metaforico, metoni-
mico ecc. Se i primi significati sono presenti nella singola
inquadratura, per i secondi è necessaria una serie di in-
quadrature, una successione.102
Questa definizione del segno cinematografico avvici-
na senza dubbio Lotman a Pasolini. Così, come l’idea di
inquadratura (che, però, rimanda ancora una volta ai
Formalisti e a Jakobson).
Per Lotman l’inquadratura “finisce per acquistare una
libertà analoga a quella della parola: la si può isolare e
combinare con altre inquadrature secondo leggi di con-
catenazione non naturali ma fondate sul senso; può es-
102
Ju. M. Lotman, Introduzione alla semiotica del cinema,
Officina Edizioni, Roma 1979, p. 51.
61
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sere usata in senso traslato, metaforico e metonimico”.103


Inoltre, Lotman vede negli oggetti presenti nell’inqua-
dratura i segni del linguaggio cinematografico e nell’in-
quadratura «il principale portatore di significato del lin-
guaggio cinematografico».104 È in essa infatti che “il rap-
porto semantico – il rapporto cioè del segno nei con-
fronti del fenomeno rappresentato – è [...] maggiormente
sottolineato”.105 L’inquadratura obbliga lo spettatore ad
avere una percezione degli oggetti assolutamente parti-
colare e “diversa” rispetto al “normale” modo di vederli
nella realtà. Nello stesso tempo, però, il linguaggio cine-
matografico non ci fa notare questa “diversità”: un par-
ticolare in primo piano, che altera nettamente le pro-
porzioni e le dimensioni “reali” di un oggetto, non ci
sembra così strana come dovrebbe. Le dimensioni degli
oggetti nell’inquadratura ci sembrano in ogni caso ac-
cettabili. Tutto ciò ha notevole importanza per quanto ri-
guarda il significato delle immagini che appaiono nel-
l’inquadratura. Lotman afferma infatti che «nel trasfor-
mare uno spazio illimitato in inquadratura, le immagi-
ni, che diventano segni, possono significare non solo ciò
di cui sono la rappresentazione visibile. [...] [hanno] la ca-
pacità di diventare segni convenzionali, di trasformarsi da
semplici calchi dell’oggetto in “parole” del linguaggio ci-
nematografico».106
103
Ivi, p. 44.
104
Ivi, p. 46.
105
Ibidem.
106
Ivi, p. 4.9
62
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Dalle considerazioni che Lotman fa sulle immagini-


segni del linguaggio cinematografico e sulle inquadratu-
re si deduce un’altra considerazione che avvicina Lotman
ai Formalisti e a Jakobson (oltre che a Pasolini), l’im-
portanza della “realtà” come “linguaggio” primario del-
lo spettatore:
Il film è legato al mondo reale e non può essere com-
preso quando manchi, allo spettatore, una conoscenza det-
tagliata di quegli oggetti che, dalla sfera della realtà, pas-
sano sullo schermo107
e
alla base del linguaggio cinematografico c’è la nostra per-
cezione visiva del mondo.108
L’affinità di Lotman con Pasolini, nella considerazio-
ne della realtà come materiale semantico del cinema, ap-
parenta i due teorici in una comune ascendenza forma-
lista e jakobsoniana – più o meno “voluta”. Il dato di fat-
to, comunque, è che l’opera di due tra i più interessanti
teorici del cinema della seconda metà del Novecento con-
fermi che la lettura degli scritti formalisti e jakobsonia-
ni è fondamentale per approcciarsi con profondità allo stu-
dio del cinema come lingua e sistema di segni.
La fine del cinema?, pur nella sua (in realtà assai in-
tensa) brevità, è senza dubbio uno di quegli scritti.

107
Ivi, p. 62.
108
Ivi, p. 63.
63
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66
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LA FINE DEL CINEMA?


(1933)
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“Siamo pigri e non siamo curiosi”.109 Il detto del poeta


vale ancora.
Stiamo assistendo allo sviluppo di una nuova arte. Es-
sa non si evolve di giorno in giorno, ma di ora in ora, si
sbarazza dell’influenza delle arti più vecchie e comincia,
addirittura, ad agire su di esse.110 Stabilisce proprie nor-
me e leggi, e in seguito le distrugge, di sua spontanea vo-
lontà. Diventa un potente mezzo di propaganda e di edu-
cazione, la quotidiana manifestazione sociale di un tipo
di spettacolo: in questo atteggiamento essa supera tutte
le altre arti.
Tuttavia, tutto ciò non colpisce la scienza che si occu-
pa dell’arte. I collezionisti sono interessati esclusivamente

109
A. S. Puškin, Polnoe Sobranie Sočinenie, Leningrad 1978,
p. 452.
110
È interessante confrontare questa frase di Jakobson con
la seguente affermazione di Boris Ejchenbaum, contenuta nel
saggio Problemy kino-stilistiki (Problemi di stilistica cinemato-
grafica) (in Poetika kino, Mosca 1927): «[...] in una maniera
o nell’altra, il cinema è entrato in contatto con l’intero siste-
ma delle vecchie arti, isolate fra loro, e pur respingendole in-
fluisce in maniera decisiva sulla loro evoluzione ulteriore» (B.
Ejchenbaum, I problemi dello stile cinematografico, cit., p. 30).
69
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alle opere dei vecchi maestri e ad altre rarità. Perché oc-


cuparsi del divenire e della autonomia dell’arte cinema-
tografica, quando è possibile avanzare fiabesche ipotesi sul-
l’origine del teatro, sul carattere sincretico dell’arte del
periodo pre-istorico – e quanto meno dati di fatto resta-
no, più è appassionante la ricostruzione dello sviluppo del-
le forme dell’arte. Ai ricercatori la storia del cinema sem-
bra un impegno troppo prosaico; d’altro canto, per loro,
essa è, in breve, una vivisezione, mentre la caccia alle ra-
rità antiquarie è la passione preferita. D’altro canto, non
è escluso che la ricerca delle opere di cinematografia sia
già diventata o diventerà presto compito degno di un ar-
cheologo. Presto i primi dieci anni di esistenza del cine-
ma “passeranno alla storia”. Per esempio, secondo il pa-
rere di uno specialista, dei film francesi girati prima del
1907, a parte i primi dei Lumiéres, non è praticamente
rimasto nulla a nostra disposizione.
Ma davvero il cinema è un particolare tipo di arte?
Chi ne è allora il protagonista specifico? E a quale materiale
il cinema dà forma?
Il regista sovietico L. Kulešov111 afferma giustamente
che la materia prima del cinema è la realtà stessa. Qual-
che tempo prima, il regista francese Louis Delluc112 ave-
111
Lev Kulešov (1899-1970), regista sovietico appartenen-
te ai FEKS, maestro di Pudovkin, fu uno dei grandi maestri
del cinema sovietico, oltre che un teorico del cinema prossi-
mo al Formalismo (lavorò con il suo collettivo, in quanto sce-
neggiatore, anche Viktor Šklovskij).
112
Louis Delluc (14 ottobre 1890 - 22 marzo 1924) è sta-
70
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 71

va affermato che la persona nel film è semplicemente un


dettaglio, semplicemente una particella della materia del
mondo. Ma, d’altra parte, ogni arte ha a che fare con i se-
gni, e per gli autori di cinema la natura segnica degli ele-
menti cinematografici (delle unità) non è un segreto – l’an-
golazione deve essere intesa come un segno, come una let-
tera, sottolinea Kulešov. Ed ecco perché nelle discussio-

to un regista cinematografico, sceneggiatore e critico cinema-


tografico francese. Pubblicò, nel 1920, Photogénie, volume nel
quale trattava, appunto, del concetto di fotogenia come carattere
specifico del cinema. Boris Ejchenbaum lo cita all’interno del
suo saggio sul cinema (Problemy kino-stilistiki), proprio a pro-
posito del concetto di fotogenia, che il teorico russo introdu-
ce per ricordare il momento in cui il cinema, distinguendosi
dalla fotografia, poneva l’accento sul “materiale” di cui si com-
poneva: «Sorse il problema della “fotogenia” (Louis Delluc),
la cui importanza sta nel fatto di aver introdotto nel campo ci-
nematografico il principio della scelta del materiale in base a
certe caratteristiche specifiche». Più avanti lo cita direttamente,
per precisare il collegamento tra la “fotogenia” e il processo di
“straniamento”. Infatti, attraverso la “fotogenia”: «Vediamo
gli oggetti come nuovi, li sentiamo come sconosciuti». Delluc
osserva: «La locomotiva, il transatlantico, l’aeroplano, la fer-
rovia sono fotogenici per la loro stessa struttura. Ogni volta che
vediamo passare sullo schermo le inquadrature del “cinema-
verità”, che ci mostrano il movimento di una flotta o di una
nave, udiamo gli spettatori lanciare esclamazioni di entusiasmo»
(AA.VV., I formalisti russi nel cinema, Garzanti, Milano 1987,
p. 15). Di Delluc fu tradotto in russo, nel 1924, proprio Pho-
togénie (Edizione “Novye vechi”, Mosca).
71
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 72

ni sul cinema figurano continuamente, in senso metafo-


rico, i concetti non solo di lingua del cinema, ma persi-
no di cine-proposizione con soggetto e predicato, di “ci-
neproposizione subordinata” (Boris Ejchenbaum),113 di
unità nominali e verbali nel film (A. Beucler)114 ecc.
C’è una contraddizione tra le seguenti affermazioni: il
cinema ha a che fare direttamente con gli oggetti della re-
altà e il cinema opera con i segni? Alcuni ricercatori ri-
spondono affermativamente a questa domanda, e per
questo ritengono la seconda affermazione non vera e, ri-
chiamandosi alla natura segnica delle arti, non annove-
rano il cinema tra queste. Ma questa contraddizione l’ave-
va già risolta sant’Agostino. Questo geniale pensatore del
V secolo, distinguendo con sottigliezza la cosa (res), da una
parte, e il segno (signum), dall’altra, ha insegnato che,
accanto ai segni, caratteristica importantissima dei qua-
li è la significatività (značimost’), esistono le cose, che pos-
sono essere usate come segni. Proprio la realtà, acustica
e visiva, trasformata in segno, rappresenta la materia spe-
cifica dell’arte cinematografica.
Di un individuo possiamo dire che è “gobbo” e che
ha un “naso lungo” o ancora che è “un gobbo con il na-
so lungo”. L’oggetto delle nostre formulazioni, in ogni
113
Boris Ejchenbaum (1886-1959), uno degli esponenti
principali e dei fondatori del Formalismo russo, appartenen-
te al gruppo dell’Opojaz.
114
André Beucler (1898-1985), scrittore e sceneggiatore, fi-
gura importante della cultura europea tra le due guerre. Fu ami-
co, tra gli altri, di Jean Cocteau, Paul Valery e Pierre Bonnard.
72
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caso, è sempre uno, ma i segni sono diversi. Nel cinema


possiamo riprendere questa persona di schiena – e allo-
ra sarà evidente la sua gobba –, poi di fronte, per mo-
strare il suo lungo naso, o di profilo, così che sia eviden-
te l’una e l’altra cosa. Da questi tre punti di vista noi ri-
ceviamo tre realtà, tre segni per un solo oggetto. Adesso
usiamo quello che in lingua è la sineddoche, e diremo
del nostro mostro che egli è semplicemente “gobba” o
“naso”. In modo simile alla sineddoche nella lingua, nel
cinema la camera può riprendere solo la gobba o solo il
naso. Pars pro toto: questo è il metodo fondamentale, gra-
zie al quale nel cinema la cosa viene trasformata in segno.
A questo proposito appare molto istruttiva la terminologia
usata nelle sceneggiature con le indicazioni di “primissi-
mo piano”, “primo piano” e “piano lungo”. Il film è fat-
to di parti di oggetti, diverse e distinguibili dal punto di
vista della grandezza, e, nello stesso tempo, sempre in re-
lazione alla grandezza, di parti distinguibili di spazio e di
tempo. Queste parti si trasformano e si organizzano se-
condo il principio di contiguità o di similarità e contra-
sto, cioè il film è costruito secondo il principio della me-
tonimia o secondo quello della metafora (secondo uno dei
due fondamentali metodi di costruzione del film). La
definizione della funzione della luce nella fotogenia di
Delluc e l’analisi del movimento e del tempo cinemato-
grafici nei relativi lavori di Tynjanov,115 dimostrano in
115
Jurij Tynjanov (1894-1943), altro insigne esponente del
Formalismo russo, anch’egli appartenente al gruppo del-
l’Opojaz.
73
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modo evidente che ogni apparizione del mondo esterno


sullo schermo si trasforma in segno.
Il cane non riconosce un cane dipinto, perché la pit-
tura, nel complesso, è segno. La prospettiva in pittura è
un procedimento artistico, un mezzo artistico. Lo stesso
cane abbaia ai cani che vede sullo schermo, perché nel ci-
nema noi abbiamo a che fare con gli oggetti della realtà,
ma non nota il montaggio e la correlazione segnica del-
le cose che vede sullo schermo.
Il teorico, che contesta il diritto del cinema a definir-
si arte, non distingue il film dalla fotografia in movi-
mento, si rifiuta di prendere in considerazione l’esisten-
za del montaggio e non presta attenzione al fatto che nel
cinema esiste un particolare sistema di segni. Si com-
porta come chi legge una poesia e considera le parole pri-
ve di senso.
Il numero degli avversari assoluti del cinema dimi-
nuisce costantemente. Però, al loro posto, arrivano i cri-
tici del cinema sonoro.
Così si possono sentire giudizi del tipo: “Il cinema so-
noro è la fine del cinema”, “impoverisce in modo so-
stanziale le possibilità artistiche del cinema”, “die Stilwi-
drigkeit des Sprechfilms”116 ecc.
La critica del cinema sonoro pecca di una fondamen-
tale tendenza alla generalizzazione prematura. Essa non
considera che singoli fenomeni nella storia del cinema
possono essere considerati come temporanei, severamente
limitati da un punto di vista storico.
116
L’avversità allo stile dei film sonori.
74
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I teorici hanno incluso con troppa fretta la mancanza


di suono nel complesso delle particolarità strutturali del
cinema e adesso se la prendono perché il successivo svi-
luppo del cinema non rientra nelle loro formule. Invece
che dire “tanto peggio per la teoria”, ripetono un abi-
tuale pro facta.
E il loro atteggiamento è altrettanto sconsiderato quan-
do riconoscono, come particolarità del cinema sonoro
contemporaneo, particolarità del cinema sonoro in ge-
nerale. Si dimenticano che non si possono confrontare i
primi film sonori con gli ultimi muti.
Lo stato attuale del cinema sonoro è caratterizzato da
una fondamentale passione per i nuovi mezzi tecnici (si
dice che è già bene che l’audio sia buono, ecc.); adesso il
cinema sonoro attraversa un periodo di ricerca di nuove
forme, un periodo corrispondente allo stato del cinema
muto prima della prima guerra mondiale, mentre il ci-
nema muto degli ultimi anni ha già raggiunto uno stato
di standard, ha sperimentato le sue opere classiche e, pro-
babilmente, proprio in questa classicità e nei canoni ela-
borati ha radice la causa della sua fine e la necessità di una
nuova svolta.
Molti affermano che il cinema sonoro ha avvicinato in
modo pericoloso l’arte cinematografica al teatro. È pre-
cisamente così, il cinema sonoro ha avvicinato di nuovo
cinema e teatro, com’era stato all’inizio del secolo, al tem-
po del “teatro elettrico”.117 Il cinema sonoro li ha di nuo-
117
Al contrario di quanto scritto in nota da Caterina Gra-
ziadei, nella sua traduzione in «Cinema e film», ritengo che Ja-
75
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vo avvicinati, ma proprio grazie a questo il cinemato-


grafo ha raggiunto una grande libertà, perché in linea di
principio la parola sullo schermo e la parola sulla scena
sono cose fondamentalmente diverse. Il cinematografo ha
avuto a che fare con la realtà visiva da quando i film era-
no muti, adesso esso lavora sia con la sostanza visiva che
con quella sonora. La sostanza del teatro consiste nelle ma-
nifestazioni umane. La parola nel cinema è un caso par-
ticolare della realtà sonora, a fianco del ronzio di una
mosca, allo scroscio di un ruscello, al rumore della mac-
chine ecc. La parola sulla scena è uno degli elementi del
comportamento umano. J. Epstein118 ha detto una vol-
ta che nel teatro e nel cinema i mezzi d’espressione sono
diversi già alla loro base, e questo rimane vero anche nel-
l’epoca del cinema sonoro. Perché sulla scena sono pos-
sibili le repliche “a parte” e i monologhi, e sullo schermo
no? Proprio perché il monologo interiore è relativo alle
manifestazioni umane, ma non alla realtà sonora. E pro-
prio perché la parola cinematografica è una realtà acustica,
nel cinema non è possibile il “bisbiglio teatrale”, che non
è udibile da nessuno dei personaggi presenti sullo scher-

kobson, con “teatro elettrico”, non intenda indicare «un no-


me probabilmente dato al cinematografo nei primissimi tem-
pi», ma proprio il genere creato dal Bauhaus.
118
Jean Epstein (1897-1953), regista e teorico del cinema.
Assistente di Louis Delluc, individua, come il maestro, nella
fotogenia, il tratto caratterizzante del cinema. Tuttavia, la sua
ricerca prosegue, fino alla definizione del cinema come arte del
movimento, prossima al sogno.
76
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mo, ma può essere udibile dallo spettatore. Un tratto ca-


ratteristico della parola nel cinema in confronto a quel-
la in teatro è la sua facoltatività. Il critico É. Vuillermoz119
ha trattato con biasimo questa facoltatività: «La convul-
sività e il disordine con cui la parola irrompe, e poi nel
momento seguente si interrompe, in un’arte preceden-
temente muta, distruggono l’integrità dell’azione e ren-
dono più chiara l’infondatezza della distruzione del si-
lenzio» – un rimprovero sbagliato.
Quando sullo schermo vediamo delle persone che con-
versano, in quel momento sentiamo le loro parole, o la
musica, ma non restiamo in silenzio. Il silenzio nel ci-
nema ha, di fatto, il valore di assenza di suoni o rumori
precisi; così, il silenzio è una delle manifestazioni della re-
altà sonora, accanto alla parola, la tosse o il rumore del-
la strada. Nel film sonoro noi percepiamo la mancanza
di suono come segno del silenzio reale. È sufficiente ri-
cordare come si stia in silenzio, in classe, nel film Prima
degli esami di maturità.120 Non è l’assenza del suono, ma
è la musica che indica nel cinema l’interruzione della re-
altà acustica. Nel cinema alla musica è dato questo ruo-
lo, perché la musica è un’arte i cui segni non sono colle-
gati con nessuna realtà. Il film muto, da un punto di vi-
119
Émile Vuillermoz (1878-1960), critico e musicista fran-
cese, fondatore, nel 1916, della critica cinematografica fran-
cese. Fu membro della Giuria del Festival di Venezia, nel 1936,
e poi fondatore del Festival di Cannes.
120
Před maturitou, film cecoslovacco del 1932, regia di Vla-
dislav Vančura.
77
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sta acustico, è pienamente “separato dalla realtà” e pro-


prio per questo richiede un continuo accompagnamen-
to musicale. Questa funzione di neutralizzazione della
musica nel cinema è stata casualmente scoperta da alcu-
ni ricercatori. Costoro sottolineano che «notiamo im-
mediatamente quando la musica finisce, ma quando la
sentiamo non le diamo alcuna attenzione, e, in questo mo-
do, qualsiasi musica funziona praticamente con qualsia-
si scena» (B. Balázs),121 «la musica nel cinema esiste per
non essere ascoltata» (P. Ramain),122 «la sua unica funzione
121
Béla Balázs (1884-1949), poeta, romanziere, dramma-
turgo, librettista, sceneggiatore e teorico ungherese. Teorico
del cinema di scuola marxista, aderisce al partito comunista nel
1931, ed emigra nell’URSS in seguito all’occupazione nazista del
suo paese. Autore de L’uomo visibile (1924), egli ritiene il ci-
nema una delle arti figurative. Considera fondamenti del lin-
guaggio cinematografico l’inquadratura e l’angolazione, il cam-
po lungo e il montaggio. Questi tre elementi elaborano, isola-
no, ingrandiscono e infine situano nella sincronia e nell’asin-
cronia i fattori della trasfigurazione cinematografica. Per Ba-
lázs, il cinema è un’arte di massa, con un importante compi-
to politico e sociale, e come tale è fondamentale la sua indi-
pendenza. La frase di Balázs citata da Jakobson è riportata an-
che da Boris Ejchenbaum nel suo saggio sul cinema (Mosca,
1927). La citazione appartiene al volume di Balázs intitolato
Der sichtbare Mensch oder die Kultur del Films, del 1924.
122
Paul Ramain (1895-1966), teorico musicale e cinema-
tografico francese, fu uno degli esponenti principali della cor-
rente del musicalismo, una scuola che usava il linguaggio mu-
sicale per definire i parametri filmici.
78
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è la neutralizzazione dell’udito, mentre tutta l’attenzio-


ne è concentrata sulla vista» (F. Martin).123 E non si de-
ve vedere un disordine che contraddice i princìpi del-
l’arte nel fatto che nei film sonori in alcuni brani ci sia
la parola e in altri la musica. Così come, grazie all’inno-
vazione di E. Porter124 e poi di D.W. Griffith,125 la camera
ha smesso di stare immobile di fronte all’attore ed è sta-
ta introdotta la varietà dei punti di ripresa (l’avvicenda-

123
Frank Martin (1890-1974), compositore. Legato dap-
prima al tardo romanticismo di matrice tedesca, Martin giun-
se – attraverso l’impressionismo di Debussy e Ravel e il neo-
classicismo di Stravinsky e Hindemith, alla lezione dodecafo-
nica di Schonberg. Scrisse per teatro, organici sinfonici e ca-
meristici: da rammentare le opere Der Sturm, del ’56, e Mon-
sieur de Pourceaugnac, del ’63.
124
Edwin Stanton Porter (1870-1941), cineasta americano.
Collaborerà con Griffith, che lavorerà come attore nel suo
film Rescued From an Eagle’s Nest (1907). Grazie ai suoi film
– e, in seguito, a quelli di Griffith – la struttura del film di-
venterà più complessa e si arricchirà della diversità dei piani,
dalla panoramica al campo lungo, così come della simulta-
neità delle scene d’azione.
125
David Wark Griffith (1875-1948), cineasta americano.
Interessato alla letteratura e al teatro, nel cinema perfezione-
rà la tecnica del montaggio parallelo. Il suo capolavoro sarà La
nascita di una nazione (1915), sulla guerra di Secessione, un
trionfo commerciale e il primo grande film epico sulla storia
americana. Farà avanzare così tanto l’arte cinematografica e
la regia, che Ejzenštejn affermerà di dovergli tutto, e che ogni
cineasta al mondo gli era debitore.
79
La fine del cinema:Jakobson 28-10-2009 17:39 Pagina 80

mento di primi piani, piani medi e campi lunghi), il ci-


nema sonoro, cambiando l’uniformità della struttura so-
nora dei film muti, che escludeva in pieno il suono dal
numero delle componenti del film, apporta una sua nuo-
va diversificazione. Nel film sonoro le realtà, acustica e ot-
tica, possono fondersi in un tutto unico o, al contrario,
opporsi l’una all’altra: la sostanza visiva può non essere
accompagnata dal suono, che dovrebbe risuonare in con-
temporanea, oppure il suono si mostra separato dalla re-
altà ottica (ad esempio, noi sentiamo ancora la fine di
una conversazione, ma al posto delle labbra di chi parla
vediamo sullo schermo altri dettagli di questa scena o
addirittura un’altra scena). In questo modo aumenta il nu-
mero delle possibili cinesineddochi. Parallelamente, au-
menta la quantità di metodi di passaggio da un brano di
montaggio a un altro (un passaggio puramente sonoro o
di conversazione, la separazione del suono e dell’imma-
gine ecc.). Le didascalie nei film muti erano un impor-
tante mezzo di montaggio, spesso erano usati con la fun-
zione di collegamento tra due piani di montaggio, e S. Ti-
mošenko,126 nel suo volume L’arte del cinema e il montaggio
del film. Un tentativo di introduzione alla teoria e all’este-
tica del cinema (1926), ha persino visto in questo il loro
scopo. Così, nel cinema si conservavano elementi di pu-
ra composizione letteraria. Perciò, più di una volta, so-
126
Semën A. Timošenko (1899-1958), sceneggiatore e re-
gista russo, autore di testi di teoria del cinema, tra i quali Iskus-
stvo kino i montaž filma (L’arte del cinema e il montaggio del film,
Leningrado 1926).
80
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no stati fatti tentativi di realizzare film senza didasca-


lie,127 ma questo ha condotto con sé o un’incredibile sem-
plificazione del soggetto, o una diminuzione del tempo
di narrazione. Solo l’apparizione del cinema sonoro ha re-
so possibile, di fatto, l’abbandono delle didascalie. Tra il
film contemporaneo, non interrotto da niente, e il film
interrotto dalle didascalie, c’è la stessa differenza che tra
l’opera e la commedia musicale (il vaudeville cantato).
È giunto il tempo del monopolio dell’unità puramente
cinematografica dei piani.
Se un personaggio appare inizialmente in un luogo, e
poi in un altro, non confinante con il primo, allora si
deve considerare un intervallo di tempo che intercorre
tra le sue due apparizioni, durante il quale il personag-
gio non era sullo schermo. Perciò, o il primo luogo vie-
ne mostrato dopo che il nostro personaggio lo ha lascia-
to, oppure il secondo viene mostrato prima della sua ap-
parizione o, infine, c’è uno “stacco”: da qualche parte si
svolgono degli avvenimenti ai quali il nostro personag-
gio non partecipa. Questo principio si attuava in modo
chiaro già nei film muti, ma, per collegare entrambe le
situazioni, era sufficiente una didascalia del tipo “E quan-
do egli tornò a casa...”. Solo adesso questo principio ha
una sua consequenzialità. Lo si può aggirare nel caso in
cui entrambe le scene non siano collegate per contigui-
tà ma per similarità o, al contrario, per contrasto (in en-
trambe le scene il personaggio si trova nella stessa situa-
127
Tra coloro che realizzarono questo tipo di pellicola va
ricordato Lev Kulešov.
81
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zione ecc.), e anche quando l’autore vuole sottolineare


la velocità di passaggio da una scena a un’altra o la sepa-
razione tra di esse. Così, sono inaccettabili, all’interno
di una stessa scena, i passaggi di camera ingiustificati da
un oggetto a un altro che non sia per niente collegato al
primo; ma quando questo salto avviene, allora sul se-
condo oggetto cade un grande carico semantico – viene
accentuata la sua inattesa intrusione nel soggetto.
Nel film contemporaneo, dopo un certo avvenimen-
to può essere mostrato solo un avvenimento successivo,
ma non un avvenimento precedente o contemporaneo.
Il ritorno al passato è possibile solo nella cornice dei ri-
cordi o del racconto di uno dei personaggi. Questa con-
dizione ha un’esatta analogia con la poetica di Omero
(così come gli “stacchi” nel film corrispondono all’horror
vacui di Omero). Così – afferma F. Zelinskij128 tirando
le somme – in Omero due azioni che si svolgono con-
temporaneamente o sono descritte come due avvenimenti
conseguenti, oppure una di esse si omette, ma allora si può
creare la sensazione del non detto e del disguido, se pre-
liminarmente questo avvenimento non è stato caratte-
rizzato in modo che noi si riesca facilmente a immaginarlo.
Non è cosa di cui meravigliarsi che il montaggio nei film
sonori sia sottomesso in pieno alle leggi della poetica del-
l’epica. Già nei film muti si avvertiva la tendenza alla “li-
nearità” del tempo cinematografico, ma le didascalie per-
128
Faddej F. Zelinskij (1859-1944), filologo, poeta e tra-
duttore, ma soprattutto insigne studioso russo del mondo clas-
sico, in particolar modo della Grecia antica.
82
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mettevano di allontanarsi da questa regola; da una par-


te, scritte del tipo: “E in quel tempo...” mostravano la
contemporaneità degli avvenimenti, dall’altra parte, il ri-
torno al passato era individuato da didascalie del tipo:
“Gli anni della gioventù li aveva trascorsi in campagna”.
Tenendo conto del fatto che la ricordata “legge del-
l’indissolubilità cronologica” si allarga alla consequen-
zialità degli avvenimenti nelle opere di Omero, ma non
nella poetica narrativa in generale, noi non generalizze-
remo troppo frettolosamente le leggi del cinematografo
nella sua situazione attuale. Il teorico, che cerca di adat-
tare l’arte del futuro alle sue formule, spesso finisce co-
me il barone di Münchausen, che voleva tirarsi fuori dal-
la palude per il capelli. Ma tuttavia, probabilmente, è
possibile rilevare una serie di potenzialità, che in futuro
potranno svilupparsi in tendenze più definite.
Non appena sarà consolidato il capitale dei mezzi poe-
tici, e gli esempi canonici saranno impressi nelle menti,
così tanto che l’abilità degli epigoni di manipolare con le
parole sarà considerato come un qualcosa di sottinteso,
la passione per ciò che è prosaico proromperà, come ac-
cade di solito. L’immagine nei film contemporanei vie-
ne elaborata con grande cura. E proprio per questo i ci-
neasti hanno iniziato a rivolgersi al secco, sobrio, epica-
mente sommesso reportage, proprio perché sempre più
spesso hanno iniziato a distaccarsi dalle metafore cine-
matografiche, dalle combinazioni dei dettagli che hanno
valore solo in sé. Nello stesso tempo, cresce l’interesse
per la pura costruzione dei soggetti, che fino a poco tem-

83
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po fa tutti trascuravano apertamente. Vale la pena di ri-


cordare anche solo i noti film di Ejzenštejn,129 quasi sen-
za soggetto, o Le luci della città di Chaplin,130 film in cui
si sentono gli echi della sceneggiatura di Gli amori di un
medico, del primitivo Gaumont dell’inizio del secolo: lei
è cieca, un medico gobbo la cura, lui è bruttissimo, la
ama, ma non si decide a dichiararsi; lui le dice che l’in-
domani le toglierà la benda dagli occhi, ed è sicuro del-
la sua guarigione – lei vedrà, e lui se ne va, lacerato dal
dolore, perché nel profondo dell’animo è sicuro che lei
lo disprezzerà per la sua bruttezza, ma lei gli si butta al
collo: “Io ti amo, perché mi hai guarita”. Bacio. Fine.
Una calcolata sciattezza, una mirata incompletezza e
sommarietà come reazione all’eccesso di rifinitura dei
film, alla tecnica in odore di decorativismo, sono già di-
ventate un particolare metodo artistico (per esempio, Il
secolo d’oro del geniale Buñuel).131

129
Sergej Ejzenštejn (1898-1948), famosissimo regista e
teorico russo, autore di capolavori come La corazzata Potëm-
kin, Que viva Mexico!, Ivan il terribile e Aleksandr Nevskij. Fon-
damentali per la storia della teoria del cinema sono i suoi scrit-
ti sul montaggio e il linguaggio cinematografico.
130
Charlie Chaplin (1889-1977), attore, regista e musici-
sta anglo-americano. Reso famoso dal personaggio di Charlot,
Chaplin è uno dei padri del cinema mondiale.
131
Luis Buñuel (1900-83), regista ispano-messicano. Assi-
stente di Epstein a Parigi, esordisce con Le chien andalou, scrit-
to con Salvador Dalì. L’Âge d’or (1930) film surrealista, alla
nascita del sonoro, porta già delle profonde innovazioni, gra-
84
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Il dilettantismo è diventato fenomeno di massa.


Le parole “dilettantismo” ed “ignoranza” suonano in ce-
co, ad alti livelli, in modo umiliante. Ma nella storia del-
l’arte – e ancora oltre, nella storia della cultura – il ruo-
lo positivo e progressista di autori di questo tipo non su-
scita dubbi.
Esempi? Rousseau, Henri e Jean-Jacques.132
Un campo ha bisogno di riposo dopo un abbondante
raccolto. Già più di una volta è cambiato il centro del-
l’arte cinematografica. Là dove erano forti le tradizioni del
cinema muto, il cinema sonoro si fa strada a stento. Il
cinematografo ceco sta vivendo da poco un periodo di rin-
vigorimento (gli almanacchi di Puchmajer ecc.). Poco di
ciò che è stato creato dal cinema muto ceco è degno di
menzione. Adesso, quando il suono ha fatto irruzione
nel cinematografo, hanno iniziato a comparire film ce-
chi che danno gioia allo sguardo. È assolutamente pos-
sibile che il non essere gravati dalle tradizioni aiuti la spe-
rimentazione. La decadenza qui, in effetti, si è mutata in
valore. (Qui si parla del cinematografo solo nell’ambito
della storia delle arti. In seguito questa questione deve
essere considerata nella storia della cultura, della politi-
ca e dell’economia). Gli artisti cechi usano il distacco
dalle altre tradizioni – è un fenomeno quasi caratteristi-
co nella storia della cultura ceca. La freschezza e l’origi-
zie all’uso dissociato di suono e immagine, della musica e del
dialogo fuori campo.
132
Naturalmente, Jakobson fa riferimento al pittore naif,
Henri Rousseau, e al filosofo illuminista Jean-Jacques.
85
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nalità del romanticismo provinciale di Karel Mácha133


difficilmente sarebbero state possibili, se la poesia ceca
fosse stata gravata di una norma classica resistente. E che
forse nella letteratura contemporanea c’è un compito più
pesante della scoperta di nuove forme di umorismo? Gli
umoristi sovietici imitano Gogol’ e Čechov, i versi di Kä-
stner134 sono l’eco del sarcasmo di Heine, le piccole ope-
re umoristiche francesi e inglesi ricordano in pieno i cen-
toni (versi creati sulla base di citazioni). L’irripetibile
Švejk135 ha potuto essere al mondo unicamente perché nel
XIX secolo in Cechia non esistevano delle tradizioni umo-
ristiche canonizzate.

133
Karel Hynek Mácha (1810-36), scrittore ceco, conside-
rato il maggiore rappresentante del Romanticismo nel suo
paese.
134
Erich Kästner (1899-1974), scrittore, sceneggiatore e
poeta tedesco.
135
Jakobson si riferisce a Josef Švejk, protagonista del ro-
manzo incompiuto Dobrý voják Švejk dello scrittore Jaroslav
Hašek (1921-23), in cui sono narrate le vicende di Josef Švejk,
caratteristico popolano praghese di buon senso, sullo sfondo
della prima guerra mondiale. Di ispirazione pacifista e anti-
militarista, il romanzo è stato portato sulle scene, tra l’altro
anche in una celebre riduzione curata, con altri, da B. Brecht.
86
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INDICE

5 Introduzione
65 Bibliografia
69 LA FINE DEL CINEMA? (1933)
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Stampato nel mese di novembre 2009


da Tipostampa - San Giustino (PG)

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