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SERIE TERZA
Anno LX - Fasc. II
2019
FONDAZIONE
CENTR O ITALIA NO DI S T U DI
SULL’ALTO MEDIOE VO
SP OLETO
STUDI MEDIEVALI
Autorizzazione n. 14 del 9 settembre 1960 del Tribunale di Spoleto
ISBN 978-88-6809-262-7
DISCUSSIONI
Ernesto Sergio Mainoldi, I problemi critici del Periphyseon
di Giovanni Scoto Eriugena alla luce delle due recenti edizioni-
traduzioni italiane .......................................................... pag. 735
Magdalena Maria Kubas, La lauda spirituale e i moduli
litanici .......................................................................... » 771
LETTURE E CONGETTURE
Maria Rosaria Marchionibus, Le storie di santa Cecilia nella
chiesa di Santa Maria Assunta de’ Carpinelli tra manifesto
politico e devozione ......................................................... » 787
Luca De Angelis, Sir John Fortescue e l’utrumque ius. Un
riesame .......................................................................... » 813
IN MEMORIAM
Claudio Buccolini, Tullio Gregory, un ricordo ....................... » 849
quella della II (866C: nereis contro aeris; 871A: immobile contro mobile;
872C: deiformitate contro deformitate ecc.). Questo modo di procedere
non manca però di dare vita a delle incongruenze metodologiche: in
905C si espungono le parole de ordine theophaniarum seguendo la IV
versione (come fa Jeauneau), ma senza darne alcuna informazione
al lettore né in apparato né in commento, dove per contro troviamo
un’accorata giustificazione dell’eliminazione di un successivo passo,
ritenuto «spurio» (il <3>); inoltre viene qui adottata la lezione caetera
dalla II versione, contro l’edizione Jeauneau (che segue la IV, come
per tutto il passo) e questo ancora senza alcuna segnalazione. Va infi-
ne detto che, quando il ms. A e la IV versione concordano contro H
ed M, l’apparato segnala soltanto A e omette di indicare anche la IV
versione (ad es.: 903A: diffusionis contro diuisioni; 910B: uisibili contro
inuisibili; 951D: fugiunt contro fiunt). Perché? Forse per evitare di far
sorgere il dubbio che la IV versione andasse considerata in modo
diverso?
Ma un’altra clamorosa espunzione dal testo operata da Dronke è
quella del nome di Wulfad, l’abate di Saint-Médard di Soissons a cui
l’opera viene dedicata nella chiusa del quinto libro. Al posto di Vulfa-
de, Dronke adotta (contro Jeauneau) la lezione uel, presente nei codici
della seconda versione, H ed M, ma anche attestata in J, codice del IX
secolo riportante la IV versione: l’editore inglese attribuisce a questo
uel, abbinato a un successivo et, valore copulativo. La dedica risulta
così indirizzata genericamente a un anonimo «amatissimo…collabo-
ratore nello studio della sapienza»: ci sembra tuttavia che in un libro
destinato alla pubblicazione una dedica che non offra un minimo ri-
ferimento al dedicatario sia una cosa del tutto inutile, motivo per cui
è più probabile che questo uel vada interpretato come abbreviazione
del nome uul<fade> che un copista ha mutato in uel per lectio facilior.
Dronke non mette peraltro in dubbio che l’opera sia davvero of-
ferta all’abate di Saint-Médard di Soissons, elevato all’episcopato di
Bourges nell’866, ma egli costringe ancora una volta il lettore a recu-
perare questa informazione nelle note sparpagliate tra l’Introduzione
e il Commento, senza peraltro informarlo, né qui né nell’Introduzione
generale, che la menzione di Wulfad è particolarmente importante,
perché essa costituisce il terminus ante quem – largamente accettato da-
gli studiosi – del completamento del Periphyseon. I toni intimi con cui
l’Eriugena si rivolge al dedicatario («dilectissimo frater [sic!]… in studiis
752 ernesto sergio mainoldi
che essa venne interpolata quando l’opera era conclusa o arrivata alle
sue ultime battute. Da questo e da altri analoghi interventi possia-
mo comprendere che la revisione del Periphyseon mosse anche dalla
necessità di fornire al lettore dei rimandi utili a navigare in un testo
che aveva ormai assunto dimensioni cospicue, ma soprattutto lascia
intuire che parte degli interventi di revisione del testo non si collo-
carono temporalmente a ridosso della prima stesura, ma dovettero
verosimilmente arrivare diverso tempo dopo e questo spiegherebbe
i ripensamenti che l’autore avrebbe potuto avere nel lasso di tempo
intercorso. I curatori delle due edizioni italiane non danno neanche
nelle note un commento a questa espunzione. Anche ammesso che i2
abbia aggiunto questa glossa di suo pugno, la possibilità di sapere che
egli la introdusse a libro quinto scritto o in scrittura è un fatto non
indifferente per la comprensione della genesi redazionale del testo, al
di là di chi gestì la revisione.
Sulla non adeguata considerazione della letteratura secondaria
possiamo ancora osservare il seguente caso: nel commento di Dron-
ke al vol. I, p. 252, troviamo una digressione sul significato di sub-
stantia. Egli richiama opportunamente il significato che l’Eriugena
attribuisce a questo termine, anche se la sua conclusione – che l’Ir-
landese usi generalmente substantia come sinonimo di essentia – non
può che trovarci in disaccordo, in quanto l’Irlandese muove sì da
questa sinonimia, che è tipica della tradizione speculativa latina e
mediolatina, come è facile verificare dalla sua precedente opera, il
De praedestinatione, ma successivamente, a fronte di una accresciuta
conoscenza e preferenza per la teologia orientale, egli si risolse di
utilizzare substantia come calco di ὑπόστασις, ed essentia per tradur-
re οὐσία. Questo uso si è radicato con la scrittura del Periphyseon, e
seppure delle oscillazioni di significato si riscontrano, soprattutto nel
primo libro, tuttavia queste non sono senza una ragione filosofica,
come ad esempio nel riferimento alle substantiae dell’aer e dell’ignis.
La sbrigativa nota di Dronke rischia dunque di portare fuori strada
il lettore, mentre avrebbe potuto giovarsi degli approfondimenti of-
ferti dalla letteratura secondaria – su tutti C. Martello, Alle origini del
lessico filosofico latino. YPOΣΤΑΣΙΣ/SUBSTANTIA in Giovanni Scoto,
in Hyparxis e hypostasis nel neoplatonismo, Firenze, 1994, pp. 169-184.
Da quest’ultima osservazione ricaviamo l’impressione che Dronke,
oltre a seguire l’impostazione ecdotica di Jeauneau, in pratica si sia
i problemi critici del periphyseon 755
corrispondenti a diverse fasi del suo lavoro: alcune durante la vita del
maestro, quindi più fedeli al suo pensiero, mentre altre successive e più
libere rispetto al pensiero del maestro» (Gorlani, p. 57).
L’insistere sulla morte dell’Eriugena, della quale peraltro non si sa
nulla, introduce un paradosso ancora maggiore: perché un allievo si
sarebbe messo a correggere ed emendare il testo del suo maestro, se
questi fosse davvero morto, non avendo quindi più motivo di preoc-
cuparsi dei contraccolpi che questi avrebbe subito per aver profes-
sato dottrine eterodosse? Siccome il terminus post quem della morte
dell’Eriugena è riconosciuto nell’870, come pensare che l’allievo si sia
arrogato il compito di trasformare l’opera del maestro, che era stata
per giunta dedicata a un personaggio di primo piano del regno franco,
quale fu Wulfad, e verosimilmente a lui consegnata in uno o più esem-
plari in bella copia (come ci conferma anche il catalogo superstite
dei libri posseduti dall’abate, per cui cfr. M. Cappuyns, Les «Bibli Vul-
fadi» et Jean Scot Érigène, in «Recherches de théologie et philosophie
médiévales», 33 [1966], pp. 137-139)? Avrebbe potuto, vivente il ma-
estro, cambiarne l’opera a piacimento e autonomamente? Altrettanto
inverosimile è che egli abbia atteso quattro anni come minimo – dalla
conclusione dell’opera all’ipotetico decesso (866-870) – per rimettere
mano con libertà al capolavoro eriugeniano e produrne non una nuo-
va versione, bensì due!
Un altro campanello d’allarme – peraltro notato anche dagli
editori e traduttori – è costituito dal fatto che anche nel testo di
R lo stesso Eriugena utilizza formule dubitative analoghe a quel-
le del supposto scriba infedele (come nisi forte o fortasis quis dicet;
cfr. ad es. 584C, 607B, 612C, 620D, 636B) – espressioni, queste,
che appaiono rientrare anodinamente nella retorica dialogica e
nella metodologia dialettica con le quali l’Eriugena ha sviluppato
gli argomenti esposti lungo tutto il corso della sua opera –, ma a
questo si deve anche aggiungere che nell’unico manoscritto in
cui sono attestate entrambe le mani insulari (R) si può notare
una ordinata divisione delle parti in cui sono state introdotte le
rispettive glosse e questo dovrebbe far sospettare che i2 non tornò
sul lavoro del maestro in assenza di questi, ma i due si divisero in
modo pianificato – insieme ad altri copisti carolingi – il lavoro di
copiatura delle glosse marginali. Senza contare che, come notato
da Paul Dutton nel citato contributo, in R le cancellature sono ef-
i problemi critici del periphyseon 759
resta nel generico del discorso sulla dialettica e non entra nel merito
di questa significativa definizione.
Poco più sotto incontriamo una frase ben più problematica: modus
iste argumentationis, qui ex intelligibilibus sumitur (869C). Come inter-
pretare intelligibilibus? Come sostantivo (intelligibilia) o come aggettivo
(intellegibilis, -e)? E in quest’ultimo caso, riferito a quale sostantivo? Pe-
reira traduce «realtà intellegibili», dando un senso platonizzante a tutta
la frase; Gorlani legge «discipline intelligibili». Curiosamente i due
traduttori prendono qui delle decisioni opposte alle scelte fatte solo
pochi paragrafi prima per tradurre ex intelligibilium contemplationibus
(868C): Pereira sceglie un’espressione più neutrale: «dalle riflessioni
sulle cose intelligibili», poiché il contesto qui riguarda esplicitamente i
concetti della mente (anche se Dronke nel commento insiste sul senso
platonico dell’espressione), mentre Gorlani opta per «contemplazione
[al singolare] degli enti intelligibili», di sapore fortemente platonico.
Ora senza negare che per l’Eriugena i procedimenti argomentativi
della dialettica abbiano una corrispondenza con la struttura ontologi-
ca della realtà, bisogna guardarsi dal vedere nel suo pensiero le realtà
intelligibili alla stregua di paradigmi ontologicamente autosussitenti.
Per l’Eriugena infatti gli intellegibili non sono una sussistenza sepa-
rata dell’essere come nel platonismo, bensì concetti della mente, e
andrebbero compresi non tanto alla luce di un generico richiamo
alla filosofia platonica, quanto del realismo ontologico altomedievale
di cui l’Eriugena fu eminente propalatore (per cui cfr. Ch. Erismann,
L’homme commun: La genèse du réalisme ontologique durant le haut Moyen
Âge, Paris, 2011).
L’espressione ea quae sunt et ea quae non sunt, vero marchio di fab-
brica del pensiero eriugeniano, viene tradotta da Gorlani nell’incipit
dell’opera con «quelle [realtà] che sono e quelle che non sono» (441A);
il termine «realtà» – prediletto da Gorlani, cfr. anche 616AB et passim
– non ci sembra peraltro la scelta più opportuna per tradurre la termi-
nologia ontologica alto-medievale, ma non comprendiamo perché nel
seguito del testo questo binomio ontologico venga trasformato in un
binomio esistenziale, come in 871C: «Se infatti Dio è principio di tutte
realtà esistenti e non esistenti»; e analogamente, in 948D, nel tradurre
l’espressione super omnia quae sunt: «al di sopra delle realtà esistenti».
Pereira traduce quae sunt et quae non sunt in modo più aderente al testo
latino: «dio è il principio di tutte le cose che sono e che non sono».
768 ernesto sergio mainoldi
una delle opere più straordinarie del pensiero medievale. Agli studiosi
viene posto il problema del testo critico e di tanti aspetti dell’inter-
pretazione del pensiero eriugeniano, agli studenti viene messo a di-
sposizione un testo su cui essi potranno sviluppare proficue ricerche
(non senza approfondire però i problemi critici ad esso soggiacenti),
al lettore, infine, viene data la possibilità di avvicinarsi a uno degli
indiscutibili vertici della riflessione filosofica dell’Europa medievale –
dove l’esegesi scritturistica e la teologia si sposano e si armonizzano
con la speculazione razionale. Da qui ci sembra possibile concludere
affermando che l’insegnamento più attuale che l’Eriugena ha da ri-
volgere al nostro tempo è che «la vera filosofia è la vera religione, e
allo stesso modo la vera religione è la vera filosofia».