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INTRODUZIONE ALLA MISSIOLOGIA

Cap. 2. La missiologia cattolica

La missiologia come disciplina teologica autonoma esiste solo a partire dalla


seconda metà del XIX secolo e quella cattolica solo a partire dall’inizio del XX
secolo.
Lo sviluppo della missiologia come disciplina teologica ha conosciuto diverse
fasi. La prima faceva perno sul bisogno di fiancheggiare e sostenere adeguatamente
lo sforzo missionario. Di fatto si traduceva in una teologia del missionario, dove si
accumulavano nozioni di geografia, di storia, di religione e il linguaggio dei nativi.
Ma più che di teologia della missione, si dovrebbe parlare di una teoria al servizio
della prassi del missionario.
Inoltre, questa lettura della missione, vista come azione missionaria della
chiesa verso coloro che non sono cristiani, si configurerà in termini territoriali: si
tratta di una concezione espansiva che assume e ripropone un modello storico di
chiesa, reso universale proprio dalla missione. Un periodo che va dal XII al XVIII
secolo.

2.1. Origine remota

- Raimondo Lullo (1232-1316), terziario francescano, missionario tra i


musulmani, aveva fondato già nel 1276 a Miramar (Maiorca, Spagna) un collegio
missionario (monasterio), che era concepito in modo particolare come preparazione
linguistica dei messaggeri della fede. A cavallo del sedicesimo secolo era affiorata
l'idea di una formazione missionaria specializzata, che aveva trovato nel 1612 la sua
concretizzazione storica nel Conventum o Seminarium Missionum gestito a Roma dai
Carmelitani scalzi dal XVII secolo fino al XIX secolo. Ma questa istituzione, unica
nel suo genere, non era destinata a durare.

- Nell’epoca delle grandi scoperte geografiche, l’attività missionaria si


moltiplicò enormemente. Soltanto nel XVI sec. partirono come missionari oltre 5.000
religiosi (francescani e domenicani). Pure nei successivi due secoli dell’epoca
coloniale spagnola e portoghese, il numero dei missionari inviati rimase alto e
raggiunse nel XVIII secolo un numero complessivo di 16.000 missionari forniti dagli
ordini religiosi, di cui oltre la metà erano francescani, seguiti dai gesuiti con 3.500
missionari.
I domenicani si dedicarono molto alla predicazione e durante l’anno liturgico
predicavano alcuni sermoni straordinari. Fu che in uno di questi sermoni,

1
precisamente durante la III dom. di Avvento del 1511, che fra Antonio de
Montesinos nell’isola di Santo Domingo, pronunciò una predica che rimase famosa,
contro gli abusi e le atrocità dei colonizzatori verso gli indios. Questo sermone è
considerato per gli storici come “la prima appassionata richiesta di giustizia in
America” (Hanke 1949, 15).

Era presente lì, un encomendero, cioè un grande proprietario terreno, Bartolomè de


las Casas. Questa istituzione spagnola venne introdotta nelle colonie d’America
all’indomani dell’arrivo dei conquistadores. In base a tale sistema gli abitanti di un
villaggio o di un gruppo di villaggi erano affidati a un colono spagnolo
(encomendero), cui spettava il compito di proteggerli e provvedere alla loro
cristianizzazione in cambio della riscossione di tributi in natura o in forma di lavoro
obbligatorio non retribuito, ma si perpetrarono molti abusi e ingiustizie.

- Bartolomé de Las Casas, si convertì nel 1514 sotto l’influsso dei Domenicani.
Si fece Domenicano e difese la causa degli indios presso la Corona spagnola. Cercò
di mettere in atto progetti missionari pacifici, le cui basi espose in una “teoria della
missione”, che tradusse in atto in Guatemala, non permettendo più l’arrivo dei coloni
spagnoli.
Nel 1544 fu nominato vescovo di Ciudad Real de los Llanos de Chiapas (oggi San
Cristobal de Las Casas) nel Messico meridionale.
Fu autore di vari scritti; resta celeberrima la Brevisima relacion de la destruccion de
las Indias (1522), che ha esercitato un influsso ininterrotto fino ai nostri giorni.
Inoltre, espose la sua idea positiva della diffusione del cristianesimo senza
violenze, in uno scritto teoretico di grande respiro sulla missione, il De unico
vocationis modo (1532), tale tesi contiene:

-da un lato, considerazioni sul fatto che gli indios sono dotati di ragione, sulla
loro cultura e sulla loro capacità di accogliere la fede;
-dall’altro lato, respinge metodi coercitivi (costringere, imporre) per ottenere la
conversione.

- Josè de Acosta, gesuita (1540-1600), missionario nelle Ande (Cile). Nel 1589
scrisse un trattato: De procuranda Indorum salute. Presupposto indispensabile di ogni
attività missionaria è la conoscenza della natura e della cultura dei vari paesi.
L’opera parte dalla tesi della salvezza universale, secondo la quale nessuna
razza umana è esclusa dall’annuncio del vangelo e dalla fede. Esamina i lati giusti e
ingiusti della conquista e della guerra contro gli indios, e la fatale commistione

2
(mescolanza) tra conquista e missione: la spada e la croce. La sua critica fu talmente
forte che vennero censurati alcuni capitoli.
Definisce la missione in questi termini: «Per missione io intendo quei viaggi e
quelle peregrinazioni (in paesi stranieri), che vengono intrapresi luogo dopo luogo
per amore della parola di Dio»1.
Da qui passa a parlare della prassi missionaria:

i missionari devono disporre di una buona formazione e padroneggiare le


lingue indiane; uomini di virtù e di preghiera; contro l’avidità e insegnare con
il buon esempio come si vive e come si ama; devono dedicarsi alla catechesi
per far conoscere i misteri della fede e il decalogo. Perciò ci vogliono anche
dei piccoli catechismi nella lingua degli indios2.

Il III concilio di Lima (1582-83) sotto la guida di Acosta compose il


catechismo in tre lingue (spagnolo, quechua e aymara).
La teoria della missione di Acosta, dai tratti cristiani e umanistici, punta sul
fatto che l’uomo può essere formato culturalmente, pedagogicamente ed eticamente.
Quello di Acosta rappresentò un momento molto importante sulla riflessione della
missione ed esercitò un grande influsso nei posteri.

La missione in Asia

- Alessandro Valignano (1539-1606), gesuita, missionario in Giappone.


Propose per il contesto giapponese una concezione che differiva nettamente dai
modelli fino ad allora adottati, anche quelli adoperati nelle Americhe. I suoi principi
non miravano infatti allo scontro, ma prevedevano un’ampia adozione della cultura
giapponese.
Un tale modo di procedere era sembrato fino ad allora impensabile, perché lo
stretto legame europeo fra cultura e religione sembrava permettere solo un’adozione
del cristianesimo accompagnata da un’adozione della cultura europea. Ciò vale anche
per concezioni di missione adottate in America, come quella proposta da José de
Acosta, perché tali concezioni richiedevano una buona conoscenza delle lingue e
delle culture, ma non erano mai arrivati a pensare che si potessero adottare i costumi
e gli usi delle culture locali, perfino per quanto riguardava l'abbigliamento,
l'alimentazione e la vita quotidiana.

1
M. SIEVERNICH, La missione cristiana. Storia e presente, Queriniana, Brescia 2012, 182.
2
Ib., 182-183.

3
Valignano operò un cambiamento paradigmatico, che puntava sull’adattamento
alla cultura giapponese, una cultura da lui considerata degna di rispetto e altamente
apprezzabile.
Compose un manuale: Il cerimoniale per i missionari del Giappone (1583), nel
quale affermava a chiare lettere che in Giappone i missionari devono vivere e
comportarsi in modo diverso da come vivono e si comportano in Europa3.
Il suo atteggiamento positivo verso la cultura giapponese lo indusse a istituire
scuole per la gioventù giapponese e un seminario ad Arima, allo scopo di formare un
futuro clero giapponese e ulteriori collaboratori di indigeni per la missione. Mentre
contemporaneamente in America erano stati espressi dei divieti a proposito
dell’ordinazione sacerdotale di indios, Valignano caldeggiò la formazione di un clero
indigeno.
Il cambiamento missionario dei paradigmi, avviato da Valignano in Giappone,
non sarebbe rimasto limitato a quel paese, ma sarebbe stato applicato anche in Cina
dall'altro missionario gesuita Matteo Ricci.

- Matteo Ricci (1552-1610).


Modificò e approfondì creativamente la politica missionaria di Valignano.
La sua apertura verso le tradizioni cinesi e la sua concezione dell'accomodamento
furono espresse nella sua grande opera La vera esposizione del Signore del cielo
1603.
Ricci rileva che la ragione deve essere lo strumento decisivo dello scambio del
dialogo, nel quale il cinese domanda e l'europeo risponde. Su questo piano razionale
gli pare che il problema di Dio sia un problema presente in tutti i popoli.
Le questioni di Dio dell'uomo sono affrontate soprattutto filosoficamente, per
cui Ricci si rifà alla tradizione cinese.
Inoltre, egli si occupa anche del pluralismo religioso esistente nell’impero
cinese ed esamina il movimento allora in voga del “tre in uno”, che cercava di
armonizzare le dottrine del confucianesimo, del buddismo e del taoismo. In proposito
egli richiama l’attenzione sui contrasti e sulle contraddizioni insite in questo
pluralismo religioso cinese.
Egli volle dimostrare che la dottrina cristiana è compatibile e armonizzabile
con le migliori tradizioni cinesi e che, anzi, ne rappresenta il compimento.
Ricci non praticò solo un adattamento esteriore alla cultura ma mirava anche a
una interculturalità intrinseca, grazie alla quale si arriva allo scambio scientifico e al
dialogo culturale. Ciò si manifesta anche in un ulteriore elemento della sua

3
Ib., 187.

4
concezione della missione, cioè nell’indiretta diffusione della fede mediante la
scienza e la tecnologia, cui servirono le sue traduzioni di opere matematiche.
Il metodo dell’accomodamento cade però in discredito per la “controversia sui
riti” e fu alla fine completamente vietato dalle autorità ecclesiastiche.

2.2. Scuole cattoliche di Missiologia

a) Scuola di Münster (Germania)


Pionere e fondatore della missiologia cattolica nel XX secolo è Joseph Schmidilin
(1876-1944) che insegnò all’università di Munster, ottenendo la prima cattedra di
missiologia cattolica nel mondo. Schmidilin si muove nella sia di Warneck, con cui si
confronta di continuo in maniera critica.
Per S. il ruolo centrale della missione è la conversione del singolo, ossia quello non
cristiano: «Missione nel senso più stretto […] significa pertanto diffusione della fede tra
i non cristiani e cioè, in linea discendente, in mezzo ai pagani, tra i maomettani e in
mezzo ai giudei»4.
Questa definizione della Missione è entrata nella storia della Missione cattolica
come “teoria della conversione”. Come concetto e la definizione di Missione della
“scuola di Münster” ha avuto un ruolo di primo piano nell’ambito della missionologia,
incontrandovi da un lato forti consensi, ma dall’altro anche aspre critiche e dissensi.
Sottolinea che il compito “più importante e fondamentale di ogni missione è quello
religioso, che consiste nella cristianizzazione, nel rendere e far diventare cristiano il
mondo non cristiano nel senso più ampio del termine”.
Schmidlin distingue:
- un obiettivo individuale della missione (conversione singola) e
- un o. sociale (cristianizzazione dei popoli)

ma non vede alcun contrasto o priorità fra i due.

Nella missione distingue i seguenti passaggi:


4
J. SCHMIDLIN, Katholische Missionslehre im Grundriss, Münster 1923², 34.

5
1. la predicazione del Vangelo o della fede cristiana fra i pagani;
2. la conversione interiore che avviene mediante il cambiamento della mente e
del cuore e
la conversione esteriore con la ricezione del battesimo e si entra a far parte
della Chiesa;
3. l’organizzazione della Chiesa, che va dall’iniziale formazione di una comunità
fino alla costituzione di una gerarchia completa.

La singola missione trova la sua conclusione e raggiunge il suo traguardo, con la


costituzione della gerarchia, dotata da una relativa autonomia (finanziaria e forze locali)
e quando tutto il paese o popolo ha accolto la fede.
Se per mezzo del battesimo, i non cristiani vengono accolti nella Chiesa e
formano delle piccole comunità che si organizzano in Chiese autonome, allora, come
scrive G. Evers, «non è quindi del tutto giusto parlare di Schmidlin come se egli
sostenesse unilateralmente solo il principio della conversione e la salvezza delle anime,
senza pensare della fondazione della Chiesa. Invece, anche in Schmidlin si riscontrano i
fondamenti di una idea della tesi della plantatio, poiché egli pure accenna al fatto, che il
lavoro missionario dovrà avere come obiettivo la Chiesa autoctona»5.
Missionologia è «la ricerca scientifica e lo stabilimento di alcuni principi e regole
che dirigono il lavoro della diffusione della fede; cioè la conoscenza e l’esposizione
sistematica, debitamente fondata della propagazione della fede cristiana, sia nel suo
sviluppo attuale e storico, sia in relazione ai suoi fondamenti e alle sue leggi» 6. Questa
missione è capace di scienza perché le sue diverse materie possono essere
sistematicamente studiate.

Concludendo: Spetta a Schmidlin il merito di avere storicamente illustrato con


acribia (accuratezza) scientifica la prassi missionaria, di avere sistematicamente

5
EVERS G., Storia e salvezza, 21.
6
SCHMIDLIN Josef, Katholische Missionslehre, 1; cf. SANTOS A., La Escuela de Lovaina, in Teología
sistemática de la misión, EVD, Estella 1991, 25-26.

6
riflettuto su di essa e di avere insistentemente richiamato l'attenzione su questo campo
della prassi ecclesiale.

b) Scuola di Lovanio (Belgio)


Un accento diverso da quello della Scuola di Muster posero il gesuita belga
Pierre Charles e la Scuola di Lovanio, che impressero forte impulsi al movimento
missionario nei paesi di lingua francofona.
La tesi fondamentale di questa scuola è quella della plantatio Ecclesiae, ovvero,
la “costituzione della Chiesa visibile nei paesi, dove essa non è ancora costituita”.
Il fine specifico della missione non è di conseguenza tanto la “salvezza delle
anime”, ma l’istituzione di una chiesa visibile. «Il fine della missione consiste
nell’impiantare la chiesa visibile lì dove essa non esiste ancora, cioè nel mettere i mezzi
della salvezza, la fede e i sacramenti, alla portata di tutte le anime di buona volontà»7.
Secondo questa teoria dell'impiantazione, la chiesa deve crescere come
organismo e spostare in continuazione in avanti i suoi confini, fino a che le sue
dimensioni coincidono con quelle del mondo.
La teoria della plantatio ecclesiae sostiene una visuale ecclesiocentrica e
territoriale, che venne adottata poi anche in documenti ufficiali del magistero; però, a
questa teoria si è rimproverata soprattutto una visione unicamente ecclesiocentrica della
missione. «Sembra che la chiesa esista semplicemente per riprodursi, dal momento che
il suo dinamismo missionario si concentrerebbe unicamente nello sforzo di far nascere
dovunque nuove comunità cristiane»8. «E, se lo scopo della sua missione fosse quello
della sua autofondazione, esaurirebbe la sua missione nel riprodurre sé stessa»9.

Un bilancio:

7
P. CHARLES, Missiologie. Ètudes – rapports – conferences I, Louvain – Bruxelles – Paris 1939, 65.
8
S. DIANICH, Chiesa in missione. Per una ecclesiologia dinamica, Ed. Paoline, Torino 1985², 22-23.
9
ID., Chiesa estroversa. Una ricerca sulla svolta dell’ecclesiologia contemporanea, San Paolo, Cinisello Balsamo
2018, 41.

7
Le scuole di Muster e di Lovanio, per quanto animate da buone intenzioni
ideologiche, sono debitrici di un’ecclesiologia che concepisce la chiesa ancora in
termini di confini etnici e culturali, come societas perfecta, misurabile e quantificabile,
secondo le espressioni della sua presenza storica in Occidente.
In una chiesa che si concepisce universale nei termini succitati, cioè come
un’unità storico-geografica, è inevitabile che la missione venga intesa come
dilatazione dei confini storici e geografici della chiesa europea. Si ripresenta, dunque,
ancora lo specchio colonialistico e imperialistico della missione.
Un altro limite delle scuole succitate, deriva non dalla missiologia come tale,
ma dalla teologia della fede, allora in voga, che sosteneva la necessità assoluta della
fede per la salvezza. Sicché chi è fuori della chiesa non può salvarsi, se non a
determinate condizioni. Abbiamo a che fare con un concetto piuttosto rigido di fede.
Le discussioni teologiche sviluppatesi, fin dall’inizio del Novecento, su questo
punto sono state decisive per mettere in crisi la tesi della missione come una
questione di vita o di morte per i pagani: pensiamo ai problemi teologici della
salvezza dei pagani, dei non credenti, dei bambini morti senza battesimo, degli adulti
morti prima di Cristo, ecc.

c) Scuola di Parigi
Si tratta di un gruppo di teologi che si raccolgono attorno alla rivista Parole e
Mission (1958)10. La loro teologia tenta di definire il concetto di Missione in base ad
un’analisi delle situazioni sociali che sia libera da presupposti aprioristici.
Punto di partenza di questa teologia è l’abbandono della rigida separazione tra “terra
di missione” e “terra cristiana” come concetto geografico prestabilito, nonché
l’accettazione come destinazione della Missione cristiana del “territorio non cristiano”
che è inteso non più in senso “geografico” ma “sociologico”11.
Nel 1943 fece scalpore la pubblicazione del libro France, pays de mission? di Godin
e Daniel. I due preti conoscevano bene l’ambiente della gioventù operaia francese e
fecero un’analisi critica della situazione della chiesa francese. Arrivarono alla
conclusione che anche la Francia (figlia primogenita della chiesa) era da considerarsi
“terra di missione”.
Venne coniato il concetto di “missione in un determinato milieu sociologico”;
“milieu” non è quindi inteso come zona geografica e territoriale, ma come realtà
sociologica. La classe operaia francese rappresenta “uno spazio sociologico” di questo
tipo verso il quale la Chiesa ha un mandato e quindi deve esercitare la “Missione”.
10
Per seguire lo sviluppo del pensiero missionologico francese, anteriore a questo periodo, cf. SANTOS A., Teología
sistemática de la misión, EVD, Estella 1991,237-301; specialmente la missionologia di P. Glorieux, Henri de Lubac,
Francis Clarkl, Albert Perbal, Louis Capéran e Alexandre Durand.
11
Cf. EVERS G., Storia e salvezza, 46-47.

8
Inoltre, la Scuola di Lovanio ha un influsso su quella di Parigi, perché il fondamento
della missione non va cercato nella necessità di rendere possibile la salvezza a tutti, ma
nella natura della Chiesa, cioè renderla presente in quei luoghi dove ancora non esiste.

Concludendo:
la Scuola di Parigi distrugge il “mito geografico” della missione: esso dimostrò che
anche l’Europa era “terra di missione”12. A partire da questo momento inizia per
l’Europa una nuova “età delle scoperte”, non l’esplorazione di nuove terre oltremare,
ma quella dei mondi dell’ateismo, del secolarismo, del relativismo e della superstizione,
dei “nuovi pagani” dell’Europa. La Chiesa si trova dovunque in situazione missionaria.
Inoltre, introduce un concetto nuovo di missione, quello sociologico.

d) Scuola di Burgos (Spagna)


Non è molto conosciuta. Venne fondata da p. Josè Zameza (1874-1957). Ha un
orientamento cristocentrico e molto dipendente dal pensiero paolino-agostiniano. Il
punto di arrivo non è la plantatio Ecclesiae, ma la trasformazione e l’incorporazione dei
pagani in Cristo nella Chiesa, suo corpo mistico. Il punto centrale è la Chiesa come
Mysterium Christi che accoglie tutti in se e costituisce la Chiesa ex gentibus.

12
D. J. BOSCH, La trasformazione della missione, 25.

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