L’Umanesimo è la cultura della civiltà rinascimentale e fra i concetti di Umanesimo e di
Rinascimento c’è una stretta vicinanza se non sovrapposizione per certi aspetti. Il primo sottolinea in modo particolare il momento ideologico-culturale, mentre il secondo si riferisce soprattutto alle manifestazioni artistiche ed ai fenomeni di costume, alla civiltà nel suo complesso. La parola Umanesimo indica di per sé la coscienza di una differenza tra humanitas e divinitas e tra humanae litterae e divinae litterae, cioè tra la scrittura dedicata al mondo umano-naturale e quella invece consacrata a quello divino. Una tendenza alla laicizzazione della cultura era emersa già nel secolo XIII, mentre in quello successivo sono evidenti quei fenomeni culturali che vengono definiti in genere “preumanesimo”. Ma solo a partire dalla fine del Trecento, grazie a Petrarca e Boccaccio, lo studio della letteratura latina e greca diviene rivendicazione dei diritti dell’uomo naturale. Inoltre il concetto di humanitas serviva a sottolineare una proprietà tipica degli uomini: il desiderio di conoscenza che li distingue fra tutti gli esseri umani e a cui deve essere subordinata, nella concezione umanistica, la vita del saggio. La scoperta del mondo classico costituisce la indispensabile premessa culturale del Rinascimento. La parola Rinascenza viene usata nel XVI secolo per significare, insieme, la rinascita degli studi classici e l’inizio di un’epoca nuova dopo “i secoli bui” del Medioevo. Nell’Umanesimo giungono a maturazione e a completa realizzazione tutti i fermenti emersi nei secoli precedenti e introduce nella civiltà rinascimentale elementi di novità, quali l’individualismo, la laicizzazione della cultura, la sottolineatura del carattere naturale della vita, la ripresa consapevole della lezione dei classici; l’elemento più importante di novità è il senso del passato, la percezione di una distanza da esso. La culla dell’Umanesimo e del Rinascimento è l’Italia ed in Italia soprattutto Firenze, quindi il nostro Paese continua la funzione di guida nel campo della letteratura delle arti e dei costumi che era già emersa nel Trecento grazie a Dante, Petrarca e Boccaccio. Caratteristici del Rinascimento sono il classicismo formale, il sentimento della bellezza intesa come equilibrio spirituale e ordine intellettuale, una misura delle proporzioni che ha la sua massima espressione nelle arti figurative. Il classicismo, poi, per essere tale deve ispirarsi a dei modelli considerati ideali ed immutabili secondo il “principio di imitazione”, a cui si accompagna l’obbedienza alle regole aristoteliche nella “Poetica”, tradotta nel 1536, che regolano il funzionamento dei generi letterari, in particolare le unità di tempo di luogo e di azione. Il carattere chiuso del principio di imitazione determina, come reazione, il nascere di forze contrastanti, che alla fine del secolo cambieranno il quadro della letteratura. Del resto gli stessi capolavori più rappresentativi della civiltà rinascimentale sono percorsi da fermenti critici o “negativi” e irrazionali, che alludono alle condizioni di precarietà dell’esistenza: l’Orlando furioso di Ariosto ha come presupposto il motivo della “follia”; anche l’opera che meglio esemplifica il culto rinascimentale delle forme e delle maniere, il Cortegiano di Castiglioe, nasce dal ricordo delle numerose morti che hanno colpito i protagonisti del dialogo. L’anticlassicismo trova i suoi punti di forza nelle forme del comico e della parodia: se la letteratura ufficiale rappresenta le forme più elevate e nobili del reale, idealizzandolo, la letteratura anticlassicistica propone una visione delle cose dal basso. All’interno della letteratura rinascimentale, dunque, si possono individuare due linee distinte: una idealistica, che si afferma nel genere del trattato, ed una naturalistica, di tipo pragmatico che si può ricondurre alle opere di Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini. Più in particolare, sul piano filosofico nel corso del secolo si seguono sia tendenze platoniche (la realtà è interpretata alla luce delle idee) che aristoteliche (la realtà è interpretata in base alle leggi della natura). L’intellettuale più importante della tendenza neoplatonica è Pietro Bembo, in particolare nella concezione dell’amore e, di conseguenza, della bellezza e dell’immagine femminile. All’amore fisico come piacere dei sensi, è anteposto l’amore spirituale, inteso come vagheggiamento e contemplazione della donna amata. La conflittualità di Petrarca viene risolta da Bembo attraverso la supremazia dell’amore divino che rappresenta la forma più alta e perfetta dell’amore. L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento va dalla fine del Trecento alla metà del Cinquecento, quando il Concilio di Trento (1545) apre la fase della Controriforma e la pace di Cateau- Cambresis (1559) quella del dominio spagnolo in Italia. In genere si distinguono al suo interno due fasi, divise tra loro dalla morte di Lorenzo de’ Medici e dalla scoperta dell’America (1492), a partire dalla quale comincerebbe l’età moderna. La prima fase raggiunge il massimo splendore nella Firenze di Lorenzo de’ Medici; nella seconda si manifestano forti momenti di crisi religiosa con la nascita della Riforma protestante, le scoperte geografiche, l’affermarsi delle armi da fuoco, la diffusione della stampa e, in Italia, di crisi politica con la perdita dell’indipendenza da parte degli Stati italiani, in seguito alla crescente debolezza del particolarismo che caratterizza la nostra penisola. Nella letteratura italiana, invece, nell’età che va dalla fine del Trecento al Concilio di Trento, si possono distinguere tre momenti: 1) il primo va dall’ultimo scorcio del Trecento all’ascesa di Lorenzo a signore di Firenze (1469); in esso prevalgono gli interessi umanistici : il latino diventa la lingua letteraria dominante e la trattatistica, lo studio delle letterature antiche e la filologia hanno il sopravvento sull’attività creativa. 2) il secondo momento corrisponde all’età di Lorenzo de’ Medici (1469-1492) ed è caratterizzato dalla rinascita della letteratura in volgare: è il periodo del cosiddetto Umanesimo volgare, anche se c’è sempre una produzione di letteratura umanistica in latino. 3) nel terzo momento, dalla morte di Lorenzo al concilio di Trento, l’attività creativa e artistica è centrale, ritorna il predominio del volgare come lingua letteraria e si giunge ad una complessiva riformulazione dei canoni e dei generi letterari. Il ‘500 poi si divide al suo interno in due momenti: Rinascimento (epoca di Michelangelo, raffaello, Ariosto, Machiavelli, Bembo, Castiglione), nei primi decenni, dalla morte di Lorenzo il Magnifico (1492) al sacco di Roma !527) e Manierismo (concetto che implica l’idea di una imitazione artificiosa dello stile o “maniera”) che ne rappresenta la crisi.
Politica, economia e società
La forma di governo in questo periodo è quella della Signoria, affermatasi in seguito alle lotte comunali, che vede il governo in mano ad un individuo, appartenente ad una famiglia importante della città, che poi lo trasmette ereditariamente. Il potere dei signori viene spesso legittimato dai titoli feudali conferiti dall’imperatore o dal pontefice e la Signoria si trasforma in Principato. Un’eccezione è Firenze, che nei primi decenni del Quattrocento, continua a reggersi secondo gli ordinamenti comunali, anche se il potere effettivo era in mano a poche ricche famiglie e nel 1435 passa sotto la Signoria di Cosimo de’Medici, appartenente ad una potentissima famiglia di mercanti e banchieri. Intorno a lui, come a tutti i signori, si forma una corte, di cui fanno parte il personale amministrativo ma anche intellettuali ed artisti, in quanto il signore ama proteggere la cultura e le arti per ricavarne prestigio e per assicurarsi il consenso interno. Nasce, così il fenomeno del mecenatismo. A tutto questo che è positivo fa da contrappunto lo spegnersi del dibattito politico ed i cittadini si trasformano in sudditi . Ognuna delle più potenti Signorie, poi, tende ad espandersi territorialmente a spese delle città più vicine e ciò porta al formarsi di Stati regionali: Milano, Venezia, Firenze, lo Stato Pontificio, ma anche Ferrara, con gli Estensi, Urbino le Marche e la Romagna con i Montefeltro. Con la pace di Lodi del 1454 ha inizio invece un lungo periodo di tranquillità, che durerà per mezzo secolo, fino al 1494, in quanto tra gli Stati italiano si stabilisce un delicato equilibrio, favorito dall’abilità politica di Lorenzo de’Medici e che consente un notevole sviluppo economico ed una grande fioritura artistica; l’aspetto negativo è che ciò impedisce il formarsi anche in Italia, così come in Francia, in Inghilterra ed in Spagna, di un’unità statale. Con la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) termina l’equilibrio tra gli Stati italiani e nel 1494 il re di Francia Carlo VIII scende in Italia con le sue truppe, aiutato da Ludovico il Moro, che riesce ad impadronirsi di Milano cacciando Giangaleazzo Sforza; entra facilmente in Firenze e viene accolto benevolmente dal pontefice Alessandro VI e si impadronisce senza difficoltà del Regno di Napoli, su cui rivendica diritti dinastici. L’Italia diventa terra di scontri e di conquista per le grandi nazioni europee, la Francia, la Spagna e l’Austria, di cui gli Stati italiani in lotta fra di loro ricercano il favore. Dopo la calata di Carlo VIII, i francesi scendono nuovamente in Italia, conquistando, nel 1500, il Ducato di Milano, mentre la Spagna si insedia nel Meridione. Nel 1527 le truppe mercenarie di Carlo V, i lanzichenecchi, incendiano e saccheggiano Roma, episodio che rivela la profonda crisi dell’Italia. Nel 1530 la Spagna vince sui Francesi e Carlo V viene incoronato imperatore a Bologna e re d’Italia dal pontefice Clemente VII. Anche lo Stato della Chiesa mostra la sua debolezza; il figlio del pontefice spagnolo Alessandro Vi, Cesare Borgia detto il Valentino, conquista le Romagne e tenta di creare uno Stato forte nell’Italia centrale, ma il suo progetto fallisce per la morte del padre (1503). A Firenze, dopo la discesa di Carlo VIII, una sommossa popolare porta alla cacciata di Piero de’ Medici ed alla proclamazione di una repubblica di tipo democratico, con il gonfaloniere Pier Soderini, che però fallisce con la scomunica e la condanna al rogo del frate domenicano Girolamo Savonarola, guida spirituale della città. Nel 1512 tornano al potere i Medici, ma nel 1527, per effetto del sacco di Roma, viene di nuovo proclamata una seconda repubblica, che cadrà dopo tre anni per l’ostilità dell’impero spagnolo e degli altri Stati italiani. Solo Venezia conserve le istituzioni repubblicane e mantiene la sua autonomia legata alla prosecuzione dell’attività mercantile e a ragioni strategiche; infatti il suo dominio che si estende alla Dalmazia ed alle isole greche, costituisce una difesa contro i Turchi. Con la pace di Cateau-Cambresis, a partire dal 1559, la situazione si stabilizza; la spagna estende il suo dominio in Italia occupando Milano, Napoli, la Sicilia e la Sardegna. Gli altri Stati italiani rimangono indipendenti ma privi di vera autonomia. Dal punto di vista economico, gli ultimi anni del Trecento erano stati dominati da carestie, epidemie e conseguente calo demografico e abbassamento del tenore di vita. Nel corso del Quattrocento c’è una graduale ripresa ma il dato più interessante è che il bene più importante e redditizio torna ad essere la terra perché l’agricoltura presenta meno rischi della mercatura. Così la grande borghesia cittadina tende ad assimilarsi all’aristocrazia, non solo negli stili di vita ma anche nella base del potere economico che è prevalentemente la rendita terriera. Si diffonde nei ceti privilegiati uno stile di vita basato sull’edonismo, la ricerca del piacere, del godimento, del lusso esteriore. Lo splendore della vita di questa élite accentua il divario dalla vita dei ceti popolari, in particolare dei contadini, che vedono peggiorare le loro condizioni di vita. L’economia è prevalente parassitaria, senza attività imprenditoriali produttive e questo stato di cose continua nei due secoli successivi, mentre i paesi europei sono, invece, vitalissimi e soprattutto nel Nord Europa nasce il capitalismo moderno: l’investimento del denaro nell’acquisto di macchine, attrezzi e materie prime porta ad una migliore organizzazione della produzione che a sua volta consente una moltiplicazione dei profitti. Le scoperte geografiche e le nuove vie commerciali incrementano questo tipo di economia. L’Italia, infine, rimane fuori dalla Riforma protestante. Centri di produzione e diffusione della cultura Nei primi decenni del secolo a Firenze il centro più importante è la cancelleria della Repubblica, dover si scrivono le lettere ufficiali e si tengono i rapporti diplomatici. La sua direzione è affidata a grandi intellettuali umanisti, quali Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini , che considerano l’attività culturale come “negotium”. Nel resto d’Italia e quando a Firenze si afferma la signoria, il centro più importante è la corte, con principi colti o amanti della letteratura e delle arti e che per questo amano circondarsi di scrittori, pittori architetti, musicisti e filosofi. I princìpi che ispirano gli intellettuali sono quelli di gusto estetico, di raffinatezza spirituale, di misura, di sobria eleganza, propri della élite che si raccoglie a corte e tutti espressi nelle loro opere. Comunque l’intellettuale che vive a corte è costretto a contraccambiare la protezione ed il mantenimento con opere che elogiano il signore. La corte è un luogo chiuso ed il pubblico a cui gli intellettuali si rivolgono è composto soprattutto, se non unicamente, da cortigiani. Le opere dei poeti vengono lette pubblicamente a corte. A partire dagli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento anche le corti vengono investite dalla crisi che attraversa la penisola. Si rafforza il mecenatismo e questo ha il risvolto positivo delle grandi opere di questo periodo soprattutto nelle arti figurative, dalla pittura all’architettura; il prestigio degli intellettuali però dipende dalla protezione del signore che può cessare in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo. Nel Quattrocento nasce un’istituzione nuova, l’accademia. Le accademie sono cenacoli dove gli intellettuali si ritrovano per conversare, discutere, scambiarsi conoscenze. Le riunioni avvenivano nei palazzi o nelle ville dei nobili mecenati o presso le corti sotto il patrocinio del signore, e le più significative sono l’Accademia Platonica di Firenze, che godeva della protezione di Lorenzo de’ Medici, o l’Accademia Pontiniana di Napoli, che aveva la protezione del re Alfonso d’Aragona. Nel corso del Cinquecento l’appoggio dei signori finisce per trasformare queste istituzioni in veri e propri organismi ufficiali, con regole precise e cerimoniale e tendono alla codificazione e conservazione della cultura, più che alla ricerca di novità. In età umanistica sopravvivono le università che continuano a formare i professionisti. Nel corso del Cinquecento anche esse sono sempre più poste sotto il controllo del potere. Importanti in età umanistica sono le scuole dove, attraverso lo studio delle discipline umanistiche ma anche attraverso l’attività fisica si formano le persone da parte degli intellettuali umanisti. Alla fine del Quattrocento, con la diffusione della stampa, nasce anche un altro centro di incontro e di scambio culturale, la bottega dello stampatore, la più famosa delle quali è a Venezia dove c’è lo stampatore più famoso, Aldo Manuzio, che fu animatore anche di un’accademia, l’Accademia Aldina. Ricevono impulso dall’invenzione della stampa, le biblioteche, che non sono solo luoghi di conservazione , ma anche di circolazione dei testi. Nel Cinquecento si affermò la stampa determinando una vera e propria rivoluzione. Rispetto al manoscritto, che richiedeva un lavoro molto dispendioso per la sua riproduzione, il volume a stampa consente una più rapida circolazione della letteratura, introducendo per la prima volta il concetto di pubblico in senso moderno, che, anche se rimane ancora molto ristretto, comincia ad acquisire una sua particolare consistenza e si propone come interlocutore diretto e privilegiato nei confronti dello scrittore; questi non scrive solo per altri intellettuali, né perché il testo venga letto in pubblico di fronte ad un uditorio, ma attraverso il libro che può essere facilmente acquistato, raggiunge direttamente il pubblico. Lo scrittore comincia, così, a considerare la sua attività come fonte di guadagno e nasce una editoria di mercato che ha il suo centro a Venezia. Con Aldo Manuzio, dove si forma un gruppo di intellettuali che svolgono mansioni editoriali, quindi una nuova figura di intellettuale il cui massimo rappresentante è Pietro Aretino. Intellettuali e pubblico Nel Quattrocento a Firenze sopravvive la figura dell’intellettuale cittadino, che non trae il suo sostentamento dalla professione intellettuale ma da altre attività e che partecipa alla vita politica del Comune, ricopre cariche pubbliche ed in ciò che scrive esprime i suoi ideali civili: tale intellettuale è il rappresentante del primo Umanesimo fiorentino detto appunto “Umanesimo civile”: Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini. E’ una figura che non scomparirà mai a Firenze (es. Machiavelli). Il tipo di intellettuale, però, che diviene dominante è quello cortigiano; a volte può venire da famiglia aristocratica e godere di rendite che gli consentono indipendenza economica, come nel caso di Matteo Maria Boiardo, o può addirittura essere il signore della città, come nel caso di Lorenzo il Magnifico; ma più spesso è alle dipendenze di un signore e ne riceve protezione e mantenimento in cambio dei suoi servizi. Si rafforza così l’istituto del “mecenatismo”. Alcuni sono stipendiate per svolgere la loro attività di poeti e studiosi, ad altri invece vengono affidati incarichi diplomatici o politici; altri ancora sono segretari, bibliotecari o precettori. I due aspetti che differenziano questa figura di intellettuale da quella dell’intellettuale cittadino sono la subordinazione al potere ed il fatto che è uno specialista che si dedica interamente all’attività intellettuale e da questa trae sostentamento. Si può quasi parlare di coincidenza tra la figura del cortigiano e quella dell’intellettuale, non solo perché l’intellettuale riveste spesso cariche di prestigio alla corte, ma perché entrambe queste figure tendono a fondersi in una sola immagine, come espresso nel Cortegiano di Baldassare da castigliane, che delinea il ritratto del perfetto uomo di corte. Pietro Aretino, invece, nella sua polemica alla vita di corte ci mostra il negativo di questa condizione: l’adulazione che diventa servilismo, le umiliazioni subite, la perdita di ogni dignità. Nel Quattrocento i signori lasciano ancora autonomia ai letterati, ma la situazione cambia nel Cinquecento. Gli avvenimenti negativi che si susseguono fra la calata di Carlo VIII (1494) ed il sacco di Roma (1527) mettono sempre più in evidenza la debolezza politica degli Stati italiani, comportano una progressiva perdita del potere delle corti che si risolve in una crisi del ruolo degli intellettuali, per cui al cortigiano vengono sempre meno richieste prestazioni culturali e sempre più ha mansioni burocratiche, che lo trasformano in un segretario. Gli intellettuali che non vogliono essere alle dipendenze dei principi, si fanno chierici, soprattutto nel Cinquecento in conseguenza della grave crisi politica delle corti italiane. Una caratteristica tipica dei letterati di questo periodo è il loro continuo movimento, che favorisce circolazione delle idee e, di conseguenza, omogeneità culturale Per quanto riguarda il pubblico, la cultura umanistica e rinascimentale è strettamente elitaria ed a questo contribuisce il ritorno al latino, che diviene nuovamente la lingua esclusiva dell’alta cultura; anche quando, nella seconda metà del Quattrocento si torna al volgare la situazione non cambia e la produzione è raffinata, rivolta ad un’élite colta che usa una lingua modellata sul latino. Il panorama comincia a cambiare con l’introduzione della stampa alla fine del secolo e la sua affermazione definitiva nella prima metà del Cinquecento, che dà un impulso decisivo alla diffusione dei testi letterari e porta alla costituzione di un pubblico nazionale.
Idee e visione del mondo
Tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento si diffonde fra gli uomini di cultura italiani il mito della “rinascita” della civiltà classica, nella letteratura, nel pensiero, nelle arti figurative, nella vita civile e politica. Nasce ora il concetto di Media aetas, di barbarie che si è venuta a frapporre tra l’antichità ed il presente, stravolgendo l’immagine dei classici e precludendo la comprensione del loro messaggio. Si sente il bisogno di far rivivere il mondo classico nella sua autenticità ed è per questo che è diventato corrente il termine Rinascimento per indicare il periodo di storia della civiltà iniziato nel Quattrocento e che si estende al secolo successivo. Di fatto noi sappiamo che il Medioevo non fu un’epoca di barbarie ma anzi un’epoca di alta civiltà e non ignorò il patrimonio della classicità, anzi lo conservò anche se lo assimilò alla propria visione del mondo; il concetto di rinascita, però, conteneva in sé la presa di coscienza di una diversità, la consapevolezza che era nata una civiltà nuova, data da una visione del mondo diversa. Il Medioevo aveva una visione del mondo teocentrica, ora invece si afferma una visione antropocentrica, in cui l’uomo pone se stesso al centro della realtà, come protagonista; si afferma una visione ottimistica dell’uomo, che appare sicuro e ricco di forze, in grado di contrastare il capriccio della fortuna con la propria intelligenza (Boccaccio lo aveva anticipato!!!!). questa visione laica della vita non implica il rifiuto del sentimento religioso cristiano, anzi, al contrario, questa è un’età profondamente religiosa che vuole tornare alla purezza originaria del messaggio cristiano. Il fine ultraterreno della vita è sempre cercato ma l’uomo cerca la sua realizzazione anche nella vita terrena, prima che in quella celeste, tra gli agi le bellezze che egli costruisce con la sua intelligenza e capacità. Ne scaturisce un atteggiamento edonistico, teso a cercare il piacere senza sensi di colpa. Ciò era in affinità con il mondo classico, perché anche la cultura antica, specialmente quella romana, si incentrava sul valore del mondo terreno, sulla vita attiva, sulla dignità dell’uomo e sulla sua capacità di farsi artefice del proprio destino. Per questo motivo gli intellettuali del Quattrocento sono affascinati dal mondo classico, in cui ritrovano una visione della vita affine alla loro; studiano, quindi, i testi antichi per trovare gli strumenti attraverso cui comprendere meglio se stessi, per trovare un modello ideale cui ispirarsi nel comportamento. Ecco che per tutto il Quattrocento ed il Cinquecento si afferma il principio di imitazione: se gli antichi hanno raggiunto un culmine insuperabile di perfezione, per ottenere validi risultati bisogna imitarli: si riporta in vita la filosofia di Platone, si scriver come Cicerone, si costruiscono edifici che riprendono gli stili antichi, in politica si riproducono le forme della repubblica romana, del principato augusteo, si scolpiscono statue che sembrano fatte dai greci. E’ però una imitazione creativa, perché c’è la consapevolezza che, pur affine, il presente è diverso dal passato, quindi i classici sono modelli ideali a cui tendere, ma ciò che conta è costruire il proprio mondo, sia spirituale che civile, adeguato alle esigenze del presente. Il principio di imitazione vuole che si conoscano nel modo più compiuto possibile gli autori antichi. Nel Medioevo, infatti si era continuato a leggere i classici e ad ammirarli, ma si leggevano solo alcuni autori, altri, anche fondamentali, non venivano letti; inoltre una parte consistente della cultura antica non era conosciuta nelle sue fonti originarie, ma solo attraverso compendi, riassunti di seconda mano; Inoltre nel mondo occidentale mancava la conoscenza della cultura e della lingua greca, conservata invece in Oriente. Già a partire da Petrarca e Boccaccio si cominciò a sentire la curiosità di conoscere anche gli autori latini di cui non si leggevano i testi e nell’arco di pochi decenni ci fu la riscoperta di autori latini dimenticati. Parallelamente si affermava il bisogno di conoscere direttamente la letteratura e la filosofia greche perché si comprendeva che erano il presupposto indispensabile della cultura latina, ma c’è un nuovo odo di accostarsi ai classici, che vengono recuperati nella loro autenticità e con il distacco necessario in quanto espressione di un altro periodo storico e di un’altra civiltà. Tutto ciò necessitava della conoscenza delle lingue classiche, così come del contesto storico, politico, economico, religioso e culturale che consentissero di ricostruire il contesto di quell’opera. Nasce con Petrarca e si afferma con gli umanisti la filologia, che studia i testi e li ricostruisce in modo critico per riportarli alle condizioni originali. Un esempio è la famosa donazione di Costantino, di Lorenzo Valla: tutta la civiltà medievale aveva creduto alla cosiddetta “donazione di Costantino”, un documento in cui l’imperatore lasciava Roma al papa, e da cui la Chiesa traeva legittimazione giuridica al suo potere temporale. Ma il filologo Lorenzo Valla, invece di accettare la convinzione universale, basandosi su una precisa analisi filologica della lingua del documento dimostrò che esso non poteva essere stato redatto nel IV secolo d. C. e che si trattava di un falso medievale. Il rapporto con i classici era fondamentale per la formazione dell’uomo, quindi le discipline letterarie acquistano una assoluta centralità: gli studi delle lettere classiche (litterae Humanae) vengono esaltati come studia humanitatis, quelli che formano l’uomo nella sua interezza, nell’armonia di tutte le sue facoltà, che lo arricchiscono in tutte le sue virtù.
La lingua: latino e volgare
La letteratura dell’età comunale aveva segnato il trionfo del volgare sul latino. Il quattrocento vede invece una netta inversione di tendenza ed i primi umanisti scrivono le loro opere esclusivamente in latino, ridando vita a generi classici come l’orazione, il dialogo, l’epistola. Il latino è quello dei classici, in particolare per la prosa è modello Cicerone, mentre per la poesia i poeti della letteratura augustea, Virgilio, Orazio, Tibullo, Ovidio. Il latino volgare rimane relegato a usi pratici, nella comunicazione quotidiana, nelle cancellerie, negli atti pubblici, nei tribunali. Le opere letterarie che si continuano a scrivere in volgare sono legate a radici popolari : prediche, laude, sacre rappresentazioni, canti carnascialeschi. Verso la metà del secolo si ha una nuova inversione di tendenza ed il volgare comincia a riprendere piede come lingua della cultura, in primo luogo a Firenze, con Lorenzo il Magnifico in testa. Oltre che a Firenze, però, il volgare riacquista dignità letteraria anche a Ferrara e Napoli e si accompagna al ritorno a generi come la lirica amorosa di ascendenza petrarchesca, la materia cavalleresca e la novella boccaccesca. Il volgare adottato è sostanzialmente quello fiorentino, ma non è un modello codificato e la letteratura del Quattrocento è caratterizzata da una grande liberà e varietà linguistica in parallelo con lo sperimentalismo delle forme e dei generi. Nel Quattrocento, dunque, si verifica l’affermazione definitiva di una lingua nazionale, il fiorentino, ma è solo una lingua letteraria, impiegata da una ristretta minoranza colta. Nel Cinquecento esplode la cosiddetta questione della lingua: forti sono le discussioni linguistiche sull’uso del latino o del volgare ed il ritorno al volgare fu condizionato dalla convinzione che l’uso letterario di una lingua italiana era legittimo solo in quanto lingua di alta elaborazione formale e ispirata ad una grande tradizione. La “questione della lingua” si può sintetizzare in questa domanda: quale doveva essere la norma linguistica capace di dare dignità al volgare scritto e a quello parlato dalle persone colte in Italia? Nei primi decenni del Cinquecento si fronteggiano sostanzialmente tre posizioni: 1. Quella di Pietro Bembo, che nelle Prose della volgar lingua propone una lingua basata sul modello petrarchesco nella poesia e su quello boccacciano nella prosa. 2. Quella dei fautori di una lingua comune o “cortigiana”, che prenda a modello la lingua in uso nelle corti italiane, cioè una lingua “mista”anche se su una base di toscano; è la tesi di Gian Giorgio Trissino nel dialogo Il castellano, o Baldesar Castiglione nel suo Cortegiano; 3. Quella di Niccolò Machiavelli, in Discorso intorno alla nostra lingua, e di altri intellettuali fiorentini che propongono l’uso del volgare fiorentino contemporaneo. Prevalse il monolinguismo teorizzato da Bembo. Ispirarsi per la scrittura letteraria ad una lingua di due secoli prima comportava una netta separazione fra scritto e parlato; ne derivava un classicismo linguistico riservato ad una ristretta élite e si produceva una sorta di “artificiale arresto dello sviluppo linguistico”. Verso la metà del XVI secolo la letteratura di livello alto è ormai unificata in tutta Italia e l’unificazione avviene in nome del “bello stile” e del classicismo linguistico. Il dialetto viene usato in chiave anticlassicista. La prosa subisce in misura minore la norma bembiana.
Prima fase dell’Umanesimo fiorentino: UMANESIMO CIVILE
Il primo umanesimo fiorentino è caratterizzato da un forte legame fra elaborazione intellettuale e impegno politico: d’altronde alcuni dei suoi massimi rappresentanti come Coluccio salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, concepiscono ancora l’attività intellettuale come un impegno al servizio della comunità. Questa concezione tenderà a venir meno nella seconda metà del secolo, quando l’elogio della vita contemplativa prevarrà su quello della vita attiva e si diffonderà una filosofia ispirata al neoplatonismo. Due aspetti caratterizzano l’Umanesimo civile fiorentino: il ritorno ai classici latini e greci e la teoria etica del primato della volontà come fondamento della vita civile
Seconda fase dell’umanesimo fiorentino: UMANESIMO CORTIGIANO
Se l’Umanesimo civile è il frutto della civiltà comunale, giunge a maturazione proprio quando questa sta per esaurirsi: nel 1435, infatti si instaura a Firenze la Signoria di Cosimo de’Medici, che cambia radicalmente il quadro in cui operano gli intellettuali. Nella corte è diversa la posizione sociale dell’umanista, che diventa un letterato di professione al servizio di un signore, isolato nella corte o nelle accademie. Ciò comporta un mutamento nella visione della realtà e porta ad anteporre la vita contemplativa a quella attiva. Un modello per questa concezione della realtà viene trovato nella filosofia di Platone che predica l’esistenza di un mondo ideale, di forme perfette ed eterne, al di là del mondo reale. Il platonismo esercita un forte fascino sugli uomini del secondo Quattrocento e diventa la forma di pensiero dominante nella civiltà cortigiana. Il centro del platonismo è l’Accademia fiorentina, protetta da Lorenzo de’Medici, che si chiama, appunto Accademia Platonica i cui frequentatori più importanti sono Giovanni Pico della Mirandola ed il filosofo Marsilio Ficino, il cui pensiero si pone in una prospettiva religiosa: la filosofia è definita filosofia religiosa e religione dotta. Filosofia, arte, etica e religione sono intimamente connesse, perché dipendono tutte dalla rivelazione di un Dio o “logos” o Uno immobile, superiore, da cui emanano tutte le cose esistenti. La realtà fisica è solo l’ultima emanazione e dunque si presenta come simbolo e immagine imperfetta di un assoluto che si può raggiungere solo per elevazione, attraverso uno slancio mistico d’amore, non per via logica e analitica. Entra così in crisi l’allegorismo medievale e nasce il simbolismo moderno. Mentre l’allegorismo medievale vedeva negli eventi storici e nei testi letterari un significato letterale e realistico e poi per via razionale vi cercava un altro significato, metafisico ma ragionevole e ben riconoscibile, ora il procedimento è solo intuitivo ed unisce il particolare ad un universale oscuro a cui ci si può approssimare in modo inadeguato.
Ermogene e la cerchia erudita. Manoscritti di contenuto retorico in Terra d’Otranto, in La tradizione dei testi greci in Italia meridionale. Filagato da Cerami philosophos e didaskalos. Copisti, lettori, eruditi in Puglia tra XII e XVI secolo, a cura di N. Bianchi, Bari 2011 (Biblioteca Tardoantica, 5), pp. 95-111.
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