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Agli albori del conflitto il cinema non è ancora il fenomeno collettivo che conosciamo oggi.
Percepito sin dalla sua nascita come un innovativo strumento di documentazione del visibile, nel
corso dei primi anni del novecento vede formalizzarsi i suoi strumenti narrativi grazie a notevoli
contributi da parte di numerose ed eclettiche personalità della produzione artistica contemporanea.
La metamorfosi del cinema degli albori deve in parte la sua spinta innovativa ai generi teatrali del
melodramma e del varietà da cui attingerà sia per un perfezionamento della struttura diegetica che
per la formazione di un comparto attoriale e scenotecnico in grado di valorizzare artisticamente il
nuovo medium. Il cinema di finzione, pertanto, adotta la letteratura come fonte inesauribile di
ispirazione, e nel suo essere contenitore scopre, adattando un’espressività che non gli appartiene, le
caratteristiche peculiari che lo contraddistingueranno per tutta la sua storia.
In Italia il polo produttivo del periodo ha sede a Torino, dove le maggiori case cinematografiche del
tempo si contendono, con numeri che difficilmente si vedranno nel primo dopoguerra, la
concorrenza di mercati esteri come quello europeo e statunitense. L’origine della fortuna economica
e artistica del cinema italiano coevo è da ricercare nel peplum, fiction di genere storico che grazie ai
propri capolavori, unico fra tutti: Cabiria con la regia di Giovanni Pastrone, diede una forte svolta al
contesto internazionale, contribuendo all’evoluzione in chiave narrativa della produzione artistica
nel cinema.
Contemporaneamente alla sua strutturazione narrativa che gli fece guadagnare il prezioso
riconoscimento di settima arte, il mezzo cinematografico esplora e affina la sua caratteristica
originaria: la documentazione senza veli del visibile. Anche se dovremo aspettare gli anni 20 del
novecento per una legittimazione artistica del documentario con “Nanuk l’eschimese” di Robert J.
Flaherty, in Italia la stagione documentaria del primo novecento vede emergere due giovani
operatori, Luca Comerio e Roberto Megna, in grado di restituire ai posteri un repertorio di
immagini di notevole qualità ed enorme importanza storica, nel caso particolare è da annoverare il
loro prezioso contributo alle immagini che ritraggono segmenti decisivi del primo conflitto
mondiale.
Il cinema italiano, conseguenza dell’entrata in guerra del paese nel 1915, subisce pesanti ricadute
economiche sul fronte delle esportazioni, in quel momento importante fetta di mercato controllata
principalmente dagli europei e da lì a poco, con l’aggravarsi della situazione bellica, dominio
regolato principalmente dai produttori statunitensi che vedono nel conflitto un’opportunità
economica che garantirà loro un dominio incontrastato che si trascinerà con forza fino ai giorni
nostri; ciò nonostante il cinema italiano intravede nel conflitto bellico un’opportunità per il mezzo
cinematografico di legittimarsi agli occhi di un’importante fetta della popolazione quale forma di
intrattenimento “elevata”. Il cinema, considerato un medium popolare da gran parte dell’alta
borghesia e percepito più in termini circensi che come un vero e proprio mezzo dotato di piena
autonomia estetica ricerca la sua legittimazione culturale e politica, opinione peraltro avvalorata dai
numerosi interpreti provenienti dal varietà impegnati nella sperimentazione tecnica ed estetica del
primo cinema del novecento.
1.2.La rappresentazione della guerra nel cinema coevo di finzione
L’influenza che il conflitto bellico esercita sulla produzione cinematografica del tempo è graduale,
le prime produzioni a strumentalizzare la propaganda governativa sono gli sceneggiati che attingono
dai soggetti della classicità antica e dagli eventi risorgimentali, di stretta attualità persino a distanza
di qualche decennio per via delle rivendicazioni italiane nei confronti degli austriaci durante il
conflitto, si citano esempi come “Il tamburino Sardo”, “Amore e cospirazione” e “Guglielmo
Oberdan, il martire di Trieste”.
Con il passare del tempo le ambientazioni cinematografiche trovano nuovi spunti, la diegesi viene
costruita con uno sguardo rivolto al conflitto in corso: “Il sopravvissuto” e “Vipere d’Austria, a
morte”, sono due particolari esperienze del tempo che malgrado la scarsa rilevanza artistica si
riveleranno storicamente importanti per comprendere maggiormente l’approccio anacronistico del
cinema dinnanzi alla rappresentazione del conflitto. Il cinema di finzione del periodo che ha come
sfondo la Grande Guerra, costruisce una rappresentazione del conflitto che espone gli avvenimenti
del tempo attraverso dei modelli interpretativi appartenenti al passato, con conseguente
manifestazione idiosincratica.
Il cinema non è l’unico campo interessato, possiamo infatti parlare di disturbo dissociativo
mediatico collettivo, dove si intende l’incapacità dei singoli di adattare le proprie strategie
interpretative alle nuove condizioni strutturali create da un nuovo modo di esercitare la guerra, si
passa da analisi giornalistiche che dipingono guerre di manovra con truppe che avanzano e
retrocedono come durante una campagna bellica ottocentesca al fallimento della stessa leadership
militare che incapace di adattarsi istantaneamente al nuovo scenario bellico adotta strategie militari
offensive di stampo napoleonico, è una campagna illustrativa che ritrae una guerra dal sapore
romantico e idealizzante, fortemente distaccata dallo stato reale delle cose; vero è che ci troviamo di
fronte a un evento storico di immensa portata sotto molti di punti di vista, di fronte alla dimensione
ignota e a un inaspettato precipitare delle cose la tendenza generale è quella di affidarsi alla propria
memoria storica per interpretare e dare un senso allo straordinario corso degli eventi, la velocità con
cui questo accade è frastornante e impedisce alla collettività di organizzare i propri schemi
interpretativi di fronte alla natura del nuovo fenomeno. Questo comporta durante lo svolgersi del
conflitto una narrazione storica della guerra fortemente compromessa, non possiamo citare alcun
esempio di lungometraggio di finzione in grado di riprodurre fedelmente le dinamiche che per
esempio furono ben descritte nel libro “ Il fuoco” di Barbusse, questo accade principalmente a
causa di quella legittimazione governativa che il cinema ricerca nella classe economica e politica
dominante, è una situazione di convenienza dove nessun produttore cinematografico si sarebbe mai
lanciato nell’impresa di restituire fedelmente quanto accadeva al fronte, si preferiva guardare a
modelli narrativi farciti di luoghi comuni e motivi ricorrenti, a una spettacolarità melodrammatica
attualizzata dove a venir esaltate non erano le scenografie di qualche geniale architetto italiano ma i
nuovi strumenti di morte, prodotti ingegneristici di una nuova modernità industriale.
I temi che maggiormente si svilupparono durante gli anni della guerra furono orientati, più che
altro, all'esaltazione della stessa e ad un certo estetismo del campo da battaglia, soldati e donne
innamorate sono spesso protagonisti di una storia che si intreccia con la guerra, è un cinema che si
pone come fine quello di propagandare il campo di battaglia al fine di esaltare i suoi reali
protagonisti che trovano negli schemi narrativi di questa produzione un modo per interpretare e
giustificare la propria posizione all’interno di una terribile situazione che non avevano previsto, un
mezzo per esorcizzare le difficoltà e ritrovare il proprio ruolo difronte a un fenomeno
spersonalizzante, quello della guerra totale dove gli uomini sono resi piccoli, vittime in balia di una
forza titanica, citando Simmel: “Una guerra dove il singolo è ridotto a un granello di sabbia di
fronte a un’organizzazione immensa di cose e di forze che gli sottraggono tutti i progressi.”