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Che cos’è la grammatica?

All’interno di un sistema linguistico i diversi segni sono legati tra loro da rapporti di natura paradigmatica e di natura
sintagmatica; l’asse paradigmatico sarebbe la memoria di ciascun parlante, nella quale vengono immagazzinati i
diversi elementi di una lingua, questi successivamente vengono selezionati individualmente e collocati sull’asse
sintagmatico, ovvero l’enunciato, nel quale ogni elemento occupa una posizione specifica e stabilisce delle relazioni con
gli altri elementi. In una frase come “Il cane insegue il gatto”, sappiamo che le parole cane, inseguire e gatto fanno parte
del lessico mentale del parlante, ma la scelta di coniugare il verbo inseguire alla terza persona singolare ha a che vedere
con delle regole grammaticali obbligatorie, dettate dalle relazioni che vi sono tra gli elementi che costituiscono la frase,
cioè non sarebbe stato corretto dire “*Il cane inseguono il gatto”. L’insieme delle opzioni obbligatorie è la grammatica,
in altre parole è l’insieme delle regole che è necessario applicare per tradurre sintagmaticamente ciò che è stato
liberamente selezionato sull’asse paradigmatico. Il livello lessicale, il livello grammaticale (morfologia) e il livello
sintattico interagiscono tra loro in modo sistematico, tant’è vero che spesso morfologia e sintassi vengono unificate in
morfosintassi.

Quali sono le proprietà/caratteristiche della grammatica?

1. L’arbitrarietà→ la lingua è arbitraria poiché è un codice che nasce dalla convenzione dei parlanti, di
conseguenza anche la grammatica è arbitraria, e in una doppia maniera: - è arbitrario il numero delle
categorie/nozioni che una grammatica decide di codificare; - è arbitrario il modo in cui queste nozioni vengono
codificate; per fare un esempio, sappiamo che in italiano la categoria di numero codifica solamente il singolare
e il plurale, ma esistono lingue, come il greco e l’arabo, che oltre a queste codificano anche il duale.
2. La sistematicità→ la lingua è un sistema (Saussure) perché è un insieme di relazioni che si condizionano
reciprocamente, ciò significa che se modifico una parte di questo sistema, automaticamente modificherò tutto
il sistema. ES: Cosa ha comportato la perdita dei casi? La posizione del nome nella frase è diventata fissa,
l’articolo e le preposizioni hanno assunto un’importanza fondamentale. Verbo: Il perfetto latino non esiste più,
esso si è diviso in passato prossimo e passato remoto, dunque le funzioni di un solo verbo sono state distribuite
a due verbi.
3. La regolarità→ è la possibilità di trovare delle affinità tra gruppi di parole o nozioni che esprimono lo stesso
concetto. Non è possibile che gli elementi di una lingua siano l’uno staccato dall’altro, il parlante non
riuscirebbe a memorizzare nel momento in cui non vi fossero delle somiglianze. Poiché una lingua è formata
da elementi che fra loro hanno caratteristiche simili, possono essere raggruppati in classi.

La morfologia studia parole, le forme che esse possono assumere e le regole attraverso cui vengono formate nuove
parole.

Quali sono le classi dell’italiano?→ distinguiamo due principali classi dell’italiano, ovvero le categorie lessicali, anche
dette parti del discorso, e le categorie grammaticali.

- Categorie lessicali

Le parole che costituiscono il lessico di una lingua vengono raggruppate in nove categorie lessicali, le quali a loro volta
si suddividono in parti del discorso variabili e parti del discorso invariabili. Tali categorie sono:

1. Nome
2. Verbo
3. Aggettivo
4. Pronome
5. Articolo
6. Preposizione
7. Avverbio
8. Congiunzione
9. Interiezione

Nome, verbo, aggettivo, pronome e articolo fanno parte delle classi variabili, ovvero di quelle classi che possono
assumere forme diverse secondo le altre parole con cui si combinano in una frase, dunque sono soggette a opzioni
grammaticali; preposizione, avverbio, congiunzione e interiezione fanno parte delle classi invariabili, dunque sono
immagazzinate come tali nel lessico. Distinguiamo ancora classi aperte (nomi, verbi, aggettivi, avverbi) da classi
chiuse (articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni), le classi aperte sono quelle che possono continuamente
arricchirsi di nuovi membri, le classi chiuse sono formate da un numero finito di membri. Ovviamente tali classi
lessicali non hanno un valore universale, le uniche classi presenti in tutte le lingue sono nome e verbo.

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o Categorie e sottocategorie

Il parlante possiede anche altre informazioni circa le parole della propria lingua, per esempio sa bene che “il cane
insegue il gatto” è una frase ben formata, mentre “la sedia insegue il gatto” non lo è, dunque sa che il soggetto del verbo
inseguire deve essere dotato del tratto di animatezza. I tratti che permettono di sottocategorizzare il nome sono:
±umano, ±comune, ±animato, ±astratto, ±numerabile, ±maschile; i primi quattro tratti sono tratti lessicali, ovvero legati
al significato della parola, gli ultimi due sono tratti grammaticali. Le sottocategorie del verbo sono:
transitivi/intransitivi, regolari/irregolari, con/senza costruzione progressiva “stare + gerundio”.

Fiore: - umano, + comune, - animato, - astratto, +numerabile (informazione data dall’articolo, dunque morfo-zero),
+maschile.

o Categorie grammaticali

Quando parliamo di categorie grammaticali ci possiamo riferire a due cose: - appunto le parti del discorso, - una classe
di opzioni che fra loro sono complementari e omogenee (Raffaele Simone) → genere, numero, persona, caso, tempo,
modo, aspetto e diatesi. Sono omogenee perché realizzano diversamente la medesima nozione, complementari perché
l’uso dell’una esclude le altre (maschile/femminile, singolare/plurale).

o Il morfema

Il morfema è l’unità minima della morfologia, cioè l’unità linguistica più piccola dotata di significato. Tutte le parole
sono composte da almeno due morfemi, uno che mi dà il significato della parola, detto morfema lessicale, e uno che mi
dà il significato grammaticale, detto morfema grammaticale o funzionale. I morfemi lessicali sono anche dette parole
piene e denotano un referente completo, sono nomi, aggettivi, verbi; i morfemi grammaticali sono anche dette parole
vuote, sono gli articoli, le preposizioni, le congiunzioni. I morfemi grammaticali in passato potevano essere morfemi
lessicali, come nel caso di mediante, il quale prima era un semplice participio presente (che media) e che con il passare
del tempo ha preso la funzione di congiunzione (mediante il quale), si è dunque grammaticalizzato. Non sempre le
categorie grammaticali sono scoperte; diciamo che una categoria grammaticale è scoperta quando ogni membro
dell’opposizione grammaticale trova espressione direttamente nel morfema grammaticale, cioè quando questo da solo
mi dice se una parola è maschile, femminile, singolare, plurale etc. Il morfema grammaticale del nome codifica il
numero e il genere, ma questi non sempre sono facilmente individuabili, per esempio nella parola “crisi”, distinguiamo
il morfema lessicale cris-, e il morfema grammaticale –i; tuttavia, il morfema grammaticale da solo non mi dà nessuna
informazione su genere e numero, un apprendente di italiano potrebbe ricadere nell’errore di pensare che essa sia una
parola maschile plurale, in realtà sappiamo bene che si tratta di una parola femminile singolare, ma questa informazione
la otteniamo solamente aggiungendo l’articolo → La crisi. Nel caso dei verbi, invece, tutto il morfema grammaticale mi
dà le seguenti informazioni: 1- tempo, modo e aspetto, 2- persona. In italiano la categoria di aspetto non è scoperta,
sono i tempi verbali che mi danno la differenza di aspetto→ cantava – cantò: entrambi appartengono ad azioni passate,
tuttavia in cantò l’azione è conclusa, in cantava l’azione è nel corso del suo svolgimento nel passato; dunque abbiamo
un tempo passato di aspetto perfettivo e un tempo passato di aspetto imperfettivo. Distinguiamo, inoltre, tra morfemi
liberi e morfemi legati, i primi sono parole che occorrono sole, per esempio i pronomi, parole come bar, virtù, che etc.,
i secondi occorrono solo unitamente ad un altro morfema, questi si distinguono in morfemi flessivi (-a), dunque
singolare/plurale o maschile/femminile, le desinenze del verbo, e in morfemi derivativi, ovvero i suffissi e i prefissi. La
principale differenza tra i prefissi e i suffissi è che i prefissi non cambiano la categoria grammaticale, i suffissi invece sì.
Il morfema è un’unità astratta ed è realizzata a livello concreto da un morfo. Uno stesso morfo può esprimere più
significati (pacchetto morfemico→ l’insieme dei morfemi che esprimono le categorie grammaticali di una parola –R.
S.), come nel caso della terza persona singolare del verbo essere: i significati veicolati da è, cioè “essere/terza
persona/singolare/presente/indicativo”, non possono essere attribuiti a specifiche porzioni della parola. Cosa è il morfo-
zero?→ Si ha quando uno dei significati espressi dal morfema grammaticale non trova riscontro in un morfema
particolare, dunque quando vi è assenza di morfema. Ad esempio, in cant-avo, “avo” mi dice che si tratta di un
imperfetto, in canto, ho solo un’informazione di persona, nulla mi dice che si tratta di un presente. In alcuni casi, il
morfema si realizza in morfi diversi, detti allomorfi; un caso di allomorfia in italiano è la selezione dell’articolo
determinativo: lo, gli → s + consonante; il, i → negli altri contesti. Essa riguarda anche i morfemi lessicali, come nel
caso di buono-bontà. Parliamo invece di suppletivismo quando in una serie morfologicamente omogenea compaiono
forme radicali differenti ma connesse sul piano semantico, come nei casi di acqua-idrico, cavallo-equestre, vado-
andiamo.

Nome Articolo Aggettivo Pronome Verbo


√ √ √ √ x Genere
√ √ √ √ √ Numero
x x x x x Caso

2
x x x x √ Tempo/aspetto
x x x √ √ Persona

o Parole semplici e parole complesse

È possibile formare nuove parole del lessico a partire da parole-base; le parole base sono parole semplici,
immagazzinate come tali nel lessico, le parole nuove sono parole complesse formate tramite regole morfologiche
intuitivamente conosciute dai parlanti.

 Morfologia del nome in italiano


o Morfologia flessiva del nome

Distinguiamo principalmente tre funzioni del nome:

o Il nome ha una funzione referenziale, ovvero designa, rende noti oggetti e cose; il riferimento alla realtà
extralinguistica può essere un riferimento determinato o indeterminato.
o Ha anche una funzione attributiva quando non designa un individuo/referente, ma delimita un altro nome
relativamente ad una specificazione, ad esempio “un’auto pirata”.
o Ha una funzione predicativa quando descrive il referente di un altro nome non direttamente ma attraverso il
verbo.

Dal punto di vista semantico, i nomi vengono distinti in nomi astratti e nomi concreti. Inoltre, i nomi sono
morfologicamente marcati per le categorie di genere e di numero che vengono espressi dallo stesso morfema
grammaticale.

Categoria di genere → Fa parte delle categorie grammaticali, dunque è una classe di opzioni omogenee e
complementari; permette una classificazione del nome in due o tre classi, in italiano si realizza in femminile e maschile,
mentre vi sono altre lingue che presentano anche il genere neutro. Una lingua come l’inglese, invece, non presenta alcun
genere, è solo il pronome ad indicarlo. Distinguiamo tra generi naturali, ovvero corrispondenti al sesso di appartenenza
del referente, e generi arbitrari, cioè il cui genere non può essere ricondotto al sesso naturale. Generalmente è una
categoria scoperta, quindi si proietta anche sugli altri elementi che compongono il sintagma, cioè articolo e aggettivo (il
bimbo buono/la bimba buona). In alcuni casi la differenza di genere indica anche differenza semantica sistematica: in
italiano, i nomi degli alberi sono maschili, quelli dei rispettivi frutti sono femminili. Come si forma il genere in italiano?
→ In tre modi: - aggiunta dei suffissi: ad esempio –o, -a, -e, -essa, -tore, -trice, -ina, -one (avvocato,
avvocata/avvocatessa); - aggiunta di articolo: il dentista/la dentista, il giornalista/la giornalista. Nel caso di dentista e
giornalista siamo di fronte ad un morfo-zero, cioè nulla se non l’aggiunta dell’articolo ci dice se la persona in questione
sia maschio o femmina, questo fa sì che nell’italiano popolare si dica per esempio “sono andato dalla pediatra/dentista”
anche se il pediatra/dentista in questione è un uomo. Dent-ist-a: è un nome derivato perché ha un morfo legato, dunque
non libero in natura, attaccato ad una base; più precisamente è un derivato nominale denominale, ovvero un nome
(dentista) che deriva da un altro nome (denti). – Giustapposizione → ovvero l’aggiunta del nome “femmina” per quanto
riguarda gli animali: la volpe femmina, e l’aggiunta del nome “donna” per quanto riguarda le persone: il primario
donna. Molte volte, nonostante esistano le varianti femminili, vengono utilizzati i nomi maschili anche per indicare le
donne, avviene per esempio con i gradi accademici: “Tizia/Caia che è ricercatore/professore associato…”, questo
perché alcune professioni erano praticate originariamente solo da uomini, dunque la lingua rimane indietro rispetto
all’evoluzione sociale. È come se utilizzando la variante femminile il grado della persona in questione venisse sminuito
(direttore del dipartimento, piuttosto che direttrice del dipartimento).

È possibile distinguere tre sistemi di genere:

- coperto, quando la distinzione di genere non è espressa morfologicamente. La mano-le mani→ hanno un genere
coperto; l’uovo-le uova→ passaggio di genere dal singolare al plurale (sing. +maschile, plur. –maschile).

- sistema bipartito, ovvero quelle lingue che distinguono maschile e femminile.

- sistemi a più termini, quando una lingua possiede classi di nomi che esprimono generi diversi.

Categoria di numero → Indica la quantità e nella sua forma più semplice detta l’opposizione singolare/plurale, ma
come abbiamo detto ci sono lingue che codificano anche il duale e altre addirittura il triale. Esistono dei nomi in italiano
che, nonostante nell’uso comune vengano trattati come singolare, sono in realtà dei plurali, per esempio le forbici,
spesso chiamate la forbice. In italiano classifichiamo nomi numerabili, i quali hanno un plurale normale (cane-cani) e
che si possono numerare, e i nomi non numerabili, questi si dividono in nomi massa e nomi collettivi. I nomi massa
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designano un’entità che non si può scomporre, per esempio acqua, zucchero, olio, latte, oro. Non è possibile formare il
plurale dei nomi massa poiché le parole in questione al plurale assumono un significato differente, come in “Mi si sono
rotte le acque”, “Ho avuto un calo di zuccheri”, “Ho comprato dei Sali da bagno”. I nomi collettivi, invece, possono
essere scomposti, il loro significato comprende “un insieme di…”, ad esempio folla, gente, stormo, flotta. Il parlante
percepisce di stare parlando di qualcosa di plurale, dunque molto spesso formula frasi come “Sono arrivati una folla di
ragazzi”. Sono possibili le seguenti classi di flessione nominale:

1. Nomi maschili con singolare in –o e plurale in –i;


2. Nomi femminili con singolare in –a e plurale in –e;
3. Nomi maschili e femminili con singolare in –e e plurale in –i;
4. Nomi maschili con singolare in –a e plurale in –i;
5. Nomi maschili e femminili con singolare uguale al plurale (virtù).

Cosa è l’accordo e quanti tipi di accordo esistono:

L’accordo è la relazione che si istituisce tra gli elementi di un sintagma; distinguiamo due tipi di accordi:

- Accordo grammaticale → Il SN ha come testa un nome il quale proietta le proprie marche morfologiche sugli
altri elementi del sintagma, infatti articoli, aggettivi attributivi, apposizioni concordano con il nome per genere
e numero: Una bella giornata.
- Accordo semantico o a senso → Ciò che qui condiziona la concordanza è il significato dell’elemento lessicale
e non la sua morfologia; inoltre, questo tipo di concordanza ricorre di più nel parlato, mentre nello scritto
prevale l’accordo grammaticale. Un caso molto frequente riguarda l’accordo dei nomi collettivi con il verbo
flesso al plurale: “Sono arrivati una folla di ragazzi”.

Meccanismo di formazione delle parole:

Il lessico di una lingua si arricchisce principalmente attraverso due procedimenti, uno endogeno, il quale si articola in
derivazione e composizione, e uno esogeno, ovvero quando si prendono in prestito parole da altre lingue.

Prestiti → prestiti di necessità ≠ prestiti di lusso; Come si stabilisce il genere dei prestiti? Ci si basa sul corrispondente
italiano; E il numero? I goal (e non I goals).

Derivazione → è il procedimento per cui si associano un elemento autonomo e una forma legata; a sua volta
comprende tre diversi processi:

1. Prefissazione → parliamo di prefissazione o prefissati quando aggiungiamo un prefisso a sinistra della base
(capace-incapace);
2. Infissazione → parliamo di infissazione quando aggiungiamo un infisso in mezzo alla parola;
3. Suffissazione → parliamo di suffissazione o suffissati quando aggiungiamo un suffisso a destra della base
(libro-libraio).

I principali prefissi sono: - quelli provenienti da preposizioni e avverbi: antipasto, preavviso; - prefissi intensivi:
ipercritico, benpensante, stralusso, iperteso (sono un metodo alternativo a –issimo); - prefissi negativi: permettono di
rendere negativa la forma di un nome o di un aggettivo, cortese-scortese.

La principale differenza tra prefissi e suffissi è che i prefissi non cambiano la categoria lessicale della base, al contrario,
i suffissi ci permettono di passare da una categoria all’altra. Inoltre la prefissazione non cambia l’accento della parola
base mentre ciò avviene con la suffissazione; altra differenza è che i prefissi non sono cumulabili, i suffissi invece sì.

Suffissi:

Nome → Nome

L’aggiunta di un suffisso a un nome può dare luogo a:

1. Nomi che indicano un’attività con focalizzazione di agente: Benzin-aio (il suffisso –aio talvolta può assumere
una connotazione negativa, come in pantofolaio), giardin-iere, bosca-iolo, bar-ista;
2. Nomi che indicano il luogo dove si svolge la fabbricazione di qualcosa o di commercio: Birr-eria, zuccher-
ificio, poll-aio/can-ile (luoghi adatti a custodire qualcosa), commissari-ato (luogo di una carica);
3. Nomi che esprimono quantità o hanno un valore collettivo (insieme di…): Cucchiai-ata, cost-aia, scogl-iera,
bosc-aglia, vocabol-ario;
4. Nomi scientifici/legati a linguaggi settoriali: polmon-ite, fibr-oma, artr-osi.
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Nome → Aggettivo

-ico (igienico), -ale (nazionale), -ese (milanese)

Aggettivo di relazione → mette in relazione il nome da cui deriva con il nome a cui si riferisce (Casella postale→ della
posta, mette in relazione casella e posta); è un tipo di aggettivo qualificativo, tuttavia differisce dai qualificativi per
diverse ragioni:

Aggettivo qualificativo Aggettivo di relazione


Relativi al nome Funzione restrittiva
Posizione libera rispetto al nome Posizione post-nominale
Soggetti a gradazione Non soggetti a gradazione
Possono avere funzione predicativa Non possono avere una funzione predicativa (*La casella
è postale)

- Un amico vecchio
- Un vecchio amico → La funzione prenominale è +soggettiva e +metaforica, significa Amico di vecchia data;
inoltre ha una funzione prettamente attributiva, in quanto attribuisce una qualità al nome.
- Biondi capelli → attribuisco una qualità ai capelli
- Capelli biondi → oggettivamente
- Un mio amico milanese
- *Un mio milanese amico
- Il sistema solare
- *Il solare sistema
- È un mio carissimo amico
- *È una casella postalissima

Le due caratteristiche che permettono di distinguere gli aggettivi dai nomi sono la posizione libera dell’aggettivo e la
gradazione; la gradazione è una caratteristica propria degli aggettivi, ciononostante alcuni nomi sono sottoposti a
gradazione (buongiornissimo), ma questo non è al 100% corretto. Una sorta di gradazione corretta del nome può essere
ottenuta grazie all’alterazione.

Verbo → Nome

1. Nomi che indicano l’azione: -mento, -zione, -ura, -aggio (insegnamento, circolazione, lavaggio)
2. Nomi che indicano l’agente: -tore/-trice, -ante (giocatore, cantante)

Nome → Verbo

-are/ire, -eggiare, -izzare, -ificare (galleggiare, canalizzare, ramificare, nidificare, armare)

Verbi parasintetici → sono un caso particolare di derivati che vedono l’aggiunta simultanea di un prefisso e di un
suffisso (in-cappucc-iare). Distinguiamo i verbi parasintetici dal prefisso che vi è anteposto, ovvero s- privativo, come
in s-bucc-iare, oppure a + raddoppiamento della consonante, come in a-bbotton-are, a-bbell-ire, im-brutt-ire.

Esempio di scomposizione di morfemi:

SBUCCIARONO →

- derivato verbale denominale parasintetico


- verbo passato remoto, aspetto perfettivo, deittico, 3^ persona plurale
- S (prefisso) – Bucc (morfema lessicale) – i (vocale tematica) – aron (suffisso + informazioni sul verbo) – o
(morfema grammaticale) (?)

Alterazione → è un tipo particolare di suffissazione in grado di far trasparire una qualità o il giudizio del parlante su
una determinata cosa. Casa – casetta – casina – casona – casaccia. Bisogna però saper distinguere gli alterati veri e
quelli falsi, gli alterati falsi sono parole che hanno un significato proprio non direttamente riconducibile alla base, per
esempio fantino, manette, canino. Il processo per cui un alterato diviene un’unità lessicale autonoma si chiama
lessicalizzazione.

Esercitazione:

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INSEGNAMENTO →

- Derivato nominale deverbale


- Insegn (morfema lessicale) – a (vocale tematica) – ment (suffisso) – o (morfema grammaticale)
- 1^ classe (masc. Sing.)

TENTAZIONE →

- Derivato nominale deverbale


- Tent (morfema lessicale) – a (vocale tematica) – zion (suffisso) – e (morfema grammaticale)
- 3^ classe (femm. Sing.) siamo di fronte ad un morfo zero, poiché il morfema grammaticale non ci dà nessuna
informazione riguardo il genere e il numero della parola, scopriamo essere un femminile singolare soltanto con
l’aggiunta dell’articolo (La tentazione).

FIACCOLATA →

- Derivato nominale denominale


- Fiaccol (morfema lessicale) – a (vocale tematica) – at (suffisso) – a (morfema grammaticale)
- 2^ classe

INCAPPUCCIATA →

- Derivato verbale denominale parasintetico


- In (prefisso) – cappucc (morfema lessicale) – i (vocale tematica) – at (suffisso +
imperfetto/imperfettivo/indicativo????) – a (morfema grammaticale)
- 2^ classe (femm. Sing.)

Composizione → è il procedimento morfologico che consente la formazione di parole nuove a partire da parole già
esistenti, da due forme libere. Distinguiamo composti nominali e composti verbali.

Composti nominali → I composti a base nominale derivano da una frase che contiene un predicato nominale: terraferma
= La terra è ferma.

- N + A (Terraferma)
- A + N (Biancospino)
- N + N (Arcobaleno)
- A + A (Pianoforte)

Composti verbali → I composti a base verbale derivano da una frase contenente predicato verbale

- V + V (saliscendi)
- V + N (fermacarte)

La testa del composto è l’elemento la cui categoria lessicale corrisponde a quella dell’intero sintagma: Camposanto →
Campo (N) + Santo (A), è un santo? No; è un campo? Sì. La testa del composto è un Nome, ovvero Campo. Un
costituente è testa di un composto quando tra tale costituente e tutto il composto vi è identità sia di categoria sintattica
sia di tratti sintattico-semantici.

Il plurale dei composti a base nominale

Regola 1 → A+ Nm fa il plurale solo nel secondo elemento: Bassorilievo → Bassorilievi, Francobollo → Francobolli

Eccezione: Mezzobusto → Mezzibusti

Regola 2 → A + Nf fa il plurale in entrambi gli elementi: Malalingua → Malelingue, Mezzaluna→ Mezzelune

Regola 3 → Nei composti N + N, se il genere dei due componenti è uguale, si modifica solo il secondo elemento:
Madreperla → Madreperle, Cavolfiore → Cavolfiori, Arcobaleno → Arcobaleni

Regola 4 → Nei composti N + N, se il genere dei due componenti è diverso, si modifica solo il primo elemento:
Pescespada → Pescispada (ma anche pescespada), Centrotavola → Centritavola, Capobanda → Capibanda

Regola 5 → N + A fa il plurale in entrambi gli elementi: Cassaforte → Casseforti, Terracotta → Terrecotte

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Eccezioni: Pellerossa → Pellirosse/Pellerossa, ciò avviene perché è una parola fortemente lessicalizzata, viene avvertita
come unitaria; Palcoscenico → Palcoscenici.

Regola 6 → A + A fa il plurale cambiando solo il secondo elemento: Chiaroscuro → Chiaroscuri, Pianoforte →


Pianoforti

Invariabili: Crocevia → Crocevia, Cruciverba → Cruciverba

Composti con parola “capo”: Il plurale dei composti con capo- cambia in base al rapporto che lega questo primo
elemento con il secondo elemento della parola composta e in base al genere di quest’ultima.

 Se capo- indica una persona che è a capo di qualcosa, la flessione al plurale riguarda solo il primo elemento →
Il capostazione – I capistazione, Il capogruppo – I capigruppo;
 Se capo- indica una persona che è capo di qualcuno, la flessione riguarda solo il secondo elemento → Il
capomastro – I capomastri, Il caporedattore – I caporedattori;
 Se il nome composto è femminile, il nome capo- rimane sempre invariato → le capostazione, le caporedattrici
 Se capo- è inteso nell’accezione di “ciò che eccelle sopra gli altri”, la flessione riguarda solo il secondo
elemento → I capolavori
 Nel caso in cui capo- sia seguito da un aggettivo, la flessione riguarda sia il primo, sia il secondo elemento →
Il caposaldo – I capisaldi (ma anche i caposaldi)

Il plurale dei composti a base verbale → Il verbo non può variare

Accendisigari → V + N - Gli accendisigari

Guastafeste → V + N - I guastafeste

Lavapiatti → V + N – I lavapiatti

Lavastoviglie → V + N – Le lavastoviglie

Se il nome presenta già un plurale, resta invariato.

Aspirapolvere → V + Nf - Le aspirapolvere

Portabandiera → V + Nf - I portabandiera

Posacenere → V + Nf – I posacenere

Se il nome è femminile, resta invariato.

Asciugamano → V + Nf - Gli asciugamani

Costituisce un’eccezione, nonostante mano sia femminile, si comporta come se fosse maschile.

Parafango → V + Nm – I parafanghi

Buttafuori → V + Avv – I buttafuori

Dormiveglia → V + N – I dormiveglia

Plurale dei composti con preposizioni

Ficodindia → N + prep + N - I fichidindia

Pomodoro → N + prep + N - I pomodori (I pomidori è la forma più antica; *I pomidoro non ha nessuna giustificazione)

Esercitazione:

ILLUSIONISTA

- Derivato nominale denominale


- Illusion (m.l.) – ist (suffisso) – a (m.g.)
- 4^ classe (genere coperto, morfo zero sul genere)

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ANTICONFORMISTA

- Derivato nominale denominale


- Anti (prefisso) – conform (m.l.) – ist (suffisso) – a (m.g)

DERIVAZIONE

- Derivato nominale deverbale


- Deriv (m.l) – a (vocale tematica) – zion (suffisso) – e (m.g.)
- 3^ classe (f.s.)

CONTESTUALIZZAZIONE

- Derivato nominale deverbale


- Contestu (m.l.v) – al – izza – zion (suffisso) – e (m.g.)
- 3^ classe

LIUTAIO

- Derivato nominale denominale


- Liut (m.l.) – ai (suffisso) – o (m.g.)
- 1^ classe

INAMOVIBILE

- Derivato aggettivale deverbale


- In (prefisso) – a (prefisso) – movi (m.l.) – bil (suffisso) – e (m.g.)

INTRAMONTABILE

- Derivato aggettivale deverbale


- In (prefisso) – tramont (m.l.) – a (v.t.) – bil (suffisso) – e (m.g.) /tramonta (m.l) – bil – e

BIANCONERO

- Composto A + A
- Bianc (m.l.) – o (m.g.) – Ner (m.l.) – o (m.g.)

PORTAFORTUNA

- Composto V + N
- Porta (m.l.v) – Fortun (m.l.n) – a (m.g.)

FICODINDIA

- Composto N + prep + N
- Fic (m.l.) – o (m.g.) – d – Indi (m.l.) – a (m.g.)

TAGLIAERBA

- Composto V + N
- Taglia (m.l.v) – erb (m.l.) – a (m.g.)

INTELLEGIBILE

- Derivato aggettivale deverbale (intendere)


- Intelleg (m.l.) – i (v.t.) – bil (suffisso) – e (m.g.)

PESOMORTO

- Composto N + A
- Pes (m.l.) – o (m.g.) – Mort (m.l.) – o (m.g.)

PARADOSSALMENTE
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- Derivato avverbiale deaggettivale
- Parados/sal/ment/e – Paradossal/ment/e ???

 Morfologia flessiva del verbo

Il verbo ha un rilievo centrale all’interno della frase; contrariamente a ciò che ci hanno sempre insegnato, potremmo
dire che una frase non è fatta da s + v, bensì da v + costituenti che vengono richiamati dal significato del verbo. Il verbo
ci dà principalmente tre informazioni:

1. Collocazione di un evento nel tempo


2. Successione degli eventi nel tempo, dunque sulle relazioni temporali che legano i vari eventi in un tempo
3. Struttura sintattica

Il verbo esprime diverse categorie →

Tempo > quando avviene?


Modo > In che modo avviene?
Aspetto > Con che prospettiva di sviluppo?
Persona > Chi compie l’azione?
Azionalità
Diatesi

Es: “Piove” > - zerovalente, - adesso, - attivo, - continuo (azionalità)

Successione di un evento: L’evento si divide in →

- Momento dell’enunciazione (Me) > Momento in cui io parlo


- Momento dell’accadimento (Ma) > Momento in cui effettivamente qualcosa accade
- Momento di riferimento (Mr) > Avverbi temporali, preposizioni temporali, complementi di tempo presenti nel
testo

Il momento dell’enunciazione è il momento centrale al partire dal quale guardiamo l’azione, la relazione che il Ma e il
Mr hanno con il Me può essere di posteriorità, di contemporaneità o di anteriorità.

Es: “Oggi piove” → Oggi = Mr, Me coincide con il Ma, dunque i due hanno una relazione di contemporaneità; “Ieri ha
piovuto” → Ieri = Mr, Ma è precedente al Me, dunque i due hanno una relazione di anteriorità; “Domani pioverà” →
Domani = Mr, Ma è posteriore al Me, dunque i due hanno una relazione di posteriorità.

Cosa succede nell’italiano neostandard? > “Domani piove”, il presente può avere un valore di futuro, in questo caso
l’informazione di tempo mi è data dall’avverbio “Domani”, ovvero il Mr.

Momento accadimento Momento enunciazione Momento riferimento


R. anteriorità Ha piovuto Ieri
R. contemporaneità Piove Oggi
R. posteriorità Pioverà Domani

Struttura sintattica: Il verbo, in base al suo significato, presuppone un determinato numero di partecipanti all’interno
della frase, ovvero partecipanti all’azione che esprime. “Luca regala…” è una frase che, sola, non ha senso, è normale
porsi la domanda: “Che cosa regala Luca?”

Sulla base del verbo:

- L’italiano è una lingua sincretica, nel senso che un unico morfema è in grado di veicolare più informazioni.
- Teoria della rilevanza: Le mappe morfologiche si collocano tanto più vicine alla radice quanto sono
semanticamente rilevanti. In italiano non abbiamo strumenti per capire quali tra tutte le informazioni date dal
verbo sia più vicina alla radice e dunque più rilevante; tutte le categorie del verbo sono importanti.

Categoria di persona → È la categoria che ci permette di distinguere l’emittente dal ricevente del messaggio. Io e tu >
Colui che produce il messaggio, l’emittente, designa automaticamente se stesso come ‘Io’, colui che riceve il
messaggio, il ricevente, corrisponde a ‘tu’, finché nell’atto comunicativo i ruoli non si scambiano. Io e tu sono
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universali linguistici poiché componenti imprescindibili nell’atto comunicativo e presenti in tutte le lingue. Sono,
inoltre, categorie deittiche perché mutano referenza secondo il contesto. In un certo senso sono anche esterne all’atto
comunicativo perché non figurano nella frase. Egli > Venne definita dai grammatici arabi come “colui che è assente”,
Benveniste la definì la non-persona; la terza persona non ha bisogno di essere ancorata al contesto del discorso, può
anche non essere presente, dunque non è necessariamente deittica e non è necessariamente espressa da pronomi
specializzati, per esempio ci si può riferire alla terza persona anche utilizzando i pronomi dimostrativi. Noi >
Distinguiamo un plurale inclusivo → Io emittente + ricevente, e un plurale esclusivo → Io emittente + terze persone.
Voi > è il plurale di tu, perché il ricevente di un enunciato può essere una pluralità di individui.

Categoria di tempo → Tempo ≠ temporalità > i tempi verbali, così come gli avverbi di tempo etc., sono la realizzazione
morfologica del concetto di temporalità. “Se dormo, lavoro meglio” → Il tempo verbale è lo stesso, ma questo non
implica che il tempo fisico coincida. A noi interessa il tempo linguistico, il quale è una categoria deittica, poiché
dipende dal contesto (extralinguistico) dell’enunciazione ed è l’insieme di relazioni temporali che si trasmettono con
segni linguistici per situare cronologicamente e porre in relazione gli eventi.

Tempi verbali in italiano > Trap. Remoto – Trap. Prossimo – Passato remoto – Passato prossimo – Imperfetto –
Presente – Futuro semplice – Futuro anteriore.

Vi è un numero maggiore di tempi passati, questo dipende dalla narratività, cioè dal fatto che le lingue sono fatte
soprattutto perché si sente la necessità di raccontare.

Tempi deittici → tutti quei tempi che instaurano una relazione diretta col momento dell’enunciazione, dunque con il
presente. Fanno avanzare la storia e danno informazioni di foreground, ovvero di primo piano, la linea principale degli
eventi.

Tempi anaforici → tutti quei tempi che trovano in un altro tempo presente nel testo il loro legame. Costituiscono il
background, lo sfondo narrativo.

“Quando sarai arrivato, mi telefonerai” A1 > sarai arrivato, A2 > telefonerai. Si presuppone una relazione tra futuro
semplice e futuro anteriore. Il futuro ha come caratteristica quella di essere posteriore al momento di enunciazione.

Il futuro semplice è deittico poiché è direttamente ancorato al Me in un rapporto di posteriorità; può assumere delle
sfumature modali:

- Dubitativo > pioverà domani?


- Concessivo > Sarà più bravo lui, ma tu sei più fortunato.
- Ingiuntivo > Gli chiederai scusa per quello che hai fatto.
- Deontico > I padroni di cani senza museruola pagheranno multe.
- Attenuativo > Sarò sincero con voi.

Usi non deittici del futuro → - epistemico > Ma = Me. “A quest’ora atterrerà a Parigi”, si contraddice la richiesta
posteriorità dell’evento e serve a presentare l’evento contemporaneo in una forma incerta.

Il futuro anteriore localizza l’evento anteriormente rispetto a un Mr che a sua volta è già situato nel futuro > “Quando
verrai avrò finito”. Può assumere anche un valore epistemico > “Giovanni sarà uscito, credo”.

Il presente esprime una relazione di contemporaneità tra il momento dell’enunciazione e quello dell’accadimento. Può
essere non deittico o deittico:

Usi non deittici del presente →

 Atemporalità, non ha uso deittico in quanto non è più legato ad “adesso”


- Definizioni scientifiche (2 + 2 fa 4)
- Affermazioni sentenziose (gli scozzesi sono tirchi)
- Sommari di narrazione (copioni teatrali/cinematografici)
- Didascalie (la libertà salva il popolo)
- Affermazioni di carattere universale (la verità è un bene supremo)
- Norme giuridiche (commette un reato chi…)
 Onnitemporalità
- Affermazioni di carattere geografico (Parigi è in Francia)
- Riferimenti di affermazioni altrui (Dante descrive i peccati…)

Usi deittici del presente →


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 Presente di contemporaneità/propriamente detto
- “Faccio lezione”, “Sto spiegando il verbo”
- Presente di attualità > Carla è malata; verbo esserci (esprime contemporaneità rispetto al momento in cui si
parla) “Oggi c’è il sole”
- Esprimere immediatezza > “Il calciatore supera l’avversario e segna”
- Atti performativi > compio un’azione tramite atti linguistici “Ti ringrazio”, “Giuro di dire la verità”
- Abitualità > soggetti attuali in grado di esercitare l’azione espressa dal verbo ogni qual volta si presenti
l’occasione “Franco guida l’automobile”
 Presente posteriore rispetto al Me/presente pro futuro
- “Domani non faccio lezione”, “Vengo stasera” → Lo posso utilizzare solamente con eventi prossimi o con
futuri certi “Il 28/02/20mai mi sposo”, per esempio non posso dire “Tra duemila anni l’uomo cammina sulla
luna”.
 Presente di anteriorità/presente storico
- Drammatico → improvviso presente in un contesto di passati
- Narrativo → la narrazione viene trasferita a livello temporale attuale

Categoria di aspetto → è una categoria di tipo morfologico che ha espressione nella categoria grammaticale del verbo.
Non è una categoria deittica, poiché la rappresentazione dell’evento non dipende dal contesto extralinguistico, cioè dal
punto di enunciazione. Esprime la prospettiva attraverso cui il parlante guarda il processo espresso dal verbo; posso
descrivere ogni processo a partire da tre punti principali: Inizio, svolgimento, fine. Secondo il rapporto che si instaura
tra le varie fasi è possibile avere l’espressione di un aspetto piuttosto che un altro. Distinguiamo aspetto perfettivo (la
perfettività descrive un evento come interamente concluso, dunque è + focalizzato sull’azione finale perché ci permette
di visualizzarla) e aspetto imperfettivo (l’imperfettività indica un’azione nel corso del suo svolgimento, dunque è -
focalizzato sull’azione finale). La differenza tra aspetto perfettivo e aspetto imperfettivo in italiano è affidata ai tempi
verbali.

- Gianni passeggiò/ha passeggiato (per due ore) → L’azione ha uno svolgimento e una fine (perfettiva)
- Gianni passeggiava → Non so se ha finito di passeggiare, guardo l’azione nel corso del suo svolgimento
(imperfettiva)

Imperfetto → Possiede sia degli usi temporali che degli usi modali. Negli usi propri, l’imperfetto ha un valore:

- Descrittivo
- Iterativo: sottolinea carattere abituale (in quel periodo mi alzavo presto la mattina) o segnala durata ininterrotta
(La juve vinceva da quindici giornate)

Negli usi modali, ha valore:

- Stipulativo/infantile e onirico (Io ero il re e tu la regina)


- Conativo: enuncia fatti lasciati a un livello di desiderio o con accezione imminenziale (un altro po’ e ci
riuscivo)
- Attenuativo/di cortesia: azione che metto nel passato per attenuare la mia richiesta, ma funziona esattamente
come il condizionale (volevo sapere). Molto usato nell’italiano neostandard.
- Epistemico: faccio una supposizione (Poteva succedere una disgrazia)
- Prospettico: usato al posto del condizionale composto (Ha promesso che tornava)

L’imperfetto, da solo, è generico, ha un aspetto imperfettivo; nel momento in cui aggiungo avverbiali particolari o
perifrasi progressive l’imperfetto assume una sfumatura di significato: Gianni passeggiava da due ore > azione in corso
di svolgimento; La situazione stava migliorando > progressivamente l’azione si avvia alla sua conclusione.

Passato prossimo e passato remoto →

“Mi ruppi una gamba dieci anni fa” > fatto concluso, la gamba non mi fa più male

“Mi sono rotto una gamba dieci anni fa” > Ho ancora delle ripercussioni

“Mi sono sposata quindici anni fa > sono ancora sposata, l’azione ha effetti nel presenti

“Mi sposai” > azione senza ripercussioni

“Persona x è nata”

“Manzoni nacque…”
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Dunque il passato remoto indica un’azione collocata in un momento anteriore a quello dell’enunciazione, la quale non
ha legami con il presente. Viene visualizzato nell’istante terminale. Il passato prossimo è in rapporto con il presente o
perché l’evento descritto perdura nel momento dell’enunciazione, o perché ne perdurano gli effetti (anche psicologici).
Viene utilizzato per l’espressione atemporale di fatti recenti (Corri, Giorgio s’è fatto male). Passato prossimo
esperienziale > confronto esperienze mie con quelle di altri (Sei mai stato in Francia?). Il passato prossimo può
assumere valore imperfettivo > “Negli ultimi due mesi ha vissuto in condizioni disagiate”. In frasi subordinate il passato
prossimo indica anteriorità rispetto a un futuro semplice o ad un presente > “Quando vedrai Gianni digli che sei venuto
a prendere il libro”. Presenta degli usi intemporali e serve per esprimere: -anteriorità rispetto a presenti intemporali
(Una persona che ha studiato non deve dire certe cose), - formule del tipo “come abbiamo già detto…”, - eventi che si
riferiscono al futuro (domani ho finito). Dunque, passato remoto e passato prossimo sono perfettivi, ma a parità di
azione perfettiva, distinguiamo un perfettivo compiuto, senza nessun effetto sul presente, e un perfettivo risultativo
che ha conseguenze sul presente. La differenza tra imperfetto, passato remoto e passato prossimo è di tipo aspettuale.

Trapassati → prossimo > il processo narrato non ha più nessuna attualità ed è sganciato dal momento di enunciazione,
perché il Mr cui si riferisce lo distanzia anche psicologicamente (Fino alla scoperta della verità aveva pensato che le
cose erano andate in un altro modo). Ha usi modali che ricalcano quelli dell’imperfetto: -ipotetico, -attenuativo; remoto
> appartiene ad uno stile elevato. Si assume come Mr l’istante successivo al momento terminale dell’evento espresso
dal trapassato (Carlo mi prese in giro fino a che non ebbe ricevuto anche lui una multa).

Tempo Aspetto Deittico/anaforico


Presente imperfettivo deittico
Presente pro futuro imperfettivo
Presente storico perfettivo
Futuro imperfettivo deittico
Futuro anteriore→ passato del futuro, perfettivo anaforico
l’azione è conclusa nel futuro
Imperfetto Imperfettivo anaforico
Imperfetto narrativo perfettivo
Passato remoto perfettivo deittico
Passato prossimo perfettivo deittico
Trapassato prossimo perfettivo anaforico
Trapassato remoto perfettivo anaforico

Esempio frasi compito:

- Dopo che aveva lasciato sua sorella alla stazione, Marco decise che sarebbe potuto andare in centro, ma mentre
arrivava al politeama, incontrò Maria Chiara.

A1: aveva lasciato → legato ad A2, non con il momento di enunciazione. (anaforico) (antecedente rispetto a
decidere, non rispetto al presente)

A2: decise → legato al momento e. (deittico)

A3: Sarebbe potuto andare → tra a2 e a4, è un futuro nel passato. (cond. Comp.) (anaforico)

S1: arrivava → azione di secondo piano, descrive uno sfondo.

A4: incontrò → legato al me. (deittico)

A1-----------------------A2--------------------A3--------------------A4------------------me---

S1 ----------------------------------------------------

Azionalità → Il concetto di azionalità è strettamente legato al concetto di aspetto, nonostante siano due cose ben
distinte; l’aspetto ha una natura morfologica, è legato al tipo di morfema grammaticale, mi dà sincreticamente
informazioni di tempo e aspetto, l’aspetto lessicale invece è proprio l’azionalità, la quale deriva dalla classe semantica
a cui appartiene un particolare verbo. Sappiamo che in italiano è possibile dire “Vide un fulmine” ma non “Guardò un
fulmine”, sappiamo che in alcuni contesti è possibile utilizzare il verbo “sentire” e in altri “ascoltare”. La differenza tra i
verbi vedere e guardare, sentire e ascoltare è di tipo lessicale, cioè legata all’azionalità, alla semantica del verbo. Il
procedimento per cui i verbi assumono una diversa categoria azionale è la derivazione attraverso affissi. Le principali
opposizioni azionali sono:
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1. Verbi durativi e verbi non durativi → l’opposizione riguarda la durata del processo espresso dal verbo
(guardo ≠ vedo, ascolto ≠ sento)
2. Verbi telici e verbi atelici → a seconda che si riferiscano a processi che comportano il raggiungimento di un
fine oppure no, come nel caso di dipingere un quadro e arrivare (telici) rispetto al semplice dipingere e a
stupirsi. I telici comprendono in sé i verbi durativi e non durativi; i telici durativi sono i risultativi, i telici non
durativi sono i trasformativi. Gli stativi sono durativi atelici e rivestono una posizione particolare poiché non
possono essere utilizzati all’imperativo né con la perifrasi progressiva (*sii biondo!/*Giovanni sta provenendo
da una casata nobile).

Distinguiamo poi:

 Verbi stativi → ne fanno parte tutti quei verbi che indicano uno stato più o meno permanente (amare, sapere,
possedere, assomigliare, ecc.) Amare > ha a che fare con sentimenti, stato d’animo, dunque è un verbo
durativo stativo.
 Verbi trasformativi → ne fanno parte i verbi che indicano un passaggio di stato (svegliarsi, tornare, sorgere,
impazzire, partire, svenire, apparire, esplodere, morire) Innamorarsi > verbo non durativo trasformativo
 Verbi continuativi → indicano un’azione che si protrae nel tempo

I verbi che indicano eventi puntuali, cioè riconducibili ad uno specifico momento, sono detti puntuali (nascere, morire,
partire)

 Verbi semel-fattivi → verbi che descrivono un’azione puntuale, ma che si ripete a scatti (tossire, lampeggiare)
 Verbi risultativi → è un tipo di verbi continuativi, li vediamo sempre con un complemento oggetto (imparare,
congelare, bruciare, mangiare una mela, dipingere una parete ecc.) Si punta ad un risultato: Luca dipinge una
parete > punta al risultato di dipingere una parete.
 Verbi di attività → pensare, camminare, mangiare. Imparare > durativo, di attività (non stativo) Imparo/Ho
imparato l’inglese > risultativo

Benché l’azionalità agisca sul piano lessicale e l’aspetto sul piano morfologico, queste due categorie si intersecano nella
misura in cui l’uso di alcuni aspetti comporta una forzatura di significato. Se dico “Sta partendo” o “Sta nascendo”
utilizzo una perifrasi progressiva con verbi puntuali, rendendo durativa un’azione non durativa, dunque ampliandone il
significato. Se dico “Sto sentendo che qualcuno suona alla porta” forzo il significato del verbo sentire. “Luca è nato”,
“Luca nasce” → azione puntuale, guardo sempre al punto; “Luca sta nascendo” → forzata l’azionalità. “Luca dipinse la
stanza in un giorno” → “dipinse” è un verbo durativo risultativo, ma poiché utilizzo un tempo perfettivo, l’azione
durativa la fisso in un arco di tempo chiuso. Dunque, verbi durativi al passato remoto > blocco la durata.

“Luca dipingeva la stanza con grande passione” → continuò a dipingerla

“Luca dipinse la stanza con grande passione” → l’azione non continua, è limitata. Tuttavia, il verbo dipingere rimane
un durativo, solamente che è bloccato in un periodo particolare. L’analisi da fare è: azionalità > durativa risultativa,
tempo > passato remoto, aspetto > perfettivo.

“Giovanni dorme per 3 ore”/”*Giovanni si addormentò per 3 ore” → l’avverbiale “Per x tempo” non è compatibile con
verbi non durativi.

Modalità → È una categoria del verbo che esprime l’atteggiamento del parlante rispetto all’evento descritto. Aristotele
distingueva discorsi apofantici, ovvero discorsi dimostrabili, le cosiddette asserzioni, da discorsi non
apofantici/semantici o significativi/non asserzioni, ovvero discorsi non dimostrabili. Grado di dimostrabilità > se
posso dimostrare se una frase è vera o falsa, allora è un’asserzione. Per dimostrare un’asserzione uso il modo indicativo,
in quanto ha a che fare con la certezza di ciò che dico > Oggi piove/Oggi c’è il sole; le non asserzioni si dividono in
comandi, possibilità e auguri, utilizzo il congiuntivo, il condizionale e l’imperativo > si accomodi/arrivasse in tempo.

Congiuntivo nell’italiano contemporaneo: riprende una serie di funzioni che già aveva in latino. Vi sono delle
espressioni che necessitano dell’uso del congiuntivo > “Si accomodi” e non “*Si accomoda”, “Magari arrivasse” e non
“*Magari arrivava”. Delle volte, per una questione di semplificazione non viene utilizzato > nel periodo ipotetico, molto
spesso, viene sostituito dall’imperfetto.

“Credo che venga tra poco” √

“*Credo che viene tra poco” → Il modo indicativo indica certezza, il verbo credere indica di per sé un’incertezza,
dunque questa frase è errata.

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“Sono sicura che venga” √ - “Sono sicura che viene” √ → Entrambe le frasi sono corrette, in questi contesti il
congiuntivo non ha un valore modale legato alla sfumatura di certezza che io voglio dare, ha solo una funzione
sintattica, cioè legata al fatto che si tratta di una subordinata, una frase dipendente.

Condizionale > Piuttosto che il congiuntivo, quello che in italiano sta vivendo una vera crisi è il condizionale perché è
sostituibile e sostituito in più contesti (vedi usi modali dell’imperfetto).

Utilizziamo tre parametri per descrivere le differenze tra indicativo, congiuntivo e condizionale:

 Indicativo → [-soggettivo], [-controfattuale*], [-epistemico] (imperfetto-futuro usi modali +epistemico): è il


modo delle asserzioni, indica la realtà, presenta un fatto nella sua oggettività; per quanto riguarda le modalità
non assertive, i comandi vengono espressi con l’imperativo.
 Congiuntivo → [+soggettivo], [+controfattuale], [+epistemico]
 Condizionale → [±soggettivo], [±controfattuale], [+epistemico]: esprime l’apodosi del periodo ipotetico (se
me lo avessi detto, sarei venuto), richieste con valore attenuativo (vorrei un kg di pane), il futuro nel passato
(disse che sarebbe arrivato dopo un’ora).

Soggettività → partecipazione che io ho nei confronti di quello che dico; l’indicativo è –soggettivo perché ha a che fare
con qualcosa di oggettivo, è il modo della certezza; il congiuntivo è +soggettivo perché serve a rendere l’ipotesi, la
partecipazione del parlante; il condizionale è ±soggettivo, dipende da come lo uso > Vorrei un kg di pane (attenuativo),
I ladri sarebbero entranti dalla finestra (condizionale di dissociazione).

Epistemicità → grado di certezza o ipotesi, una cosa –epistemica è certa, una cosa +epistemica è un’ipotesi. Il presente
è –epistemico perché è certo, negli usi modali di futuro e imperfetto è +epistemico; il congiuntivo è +epistemico perché
ha a che fare con l’ipotesi, l’incertezza; il condizionale è +epistemico > “Disse che sarebbe arrivato” può essere che
arrivi, può essere che non arrivi.

Controfattualità → Ci aiuta a spiegare il periodo ipotetico. - controfattuale > avviene, + controfattuale > non avviene.
Condizionale > “Se vieni, andiamo al cinema” > vieni e ci andiamo, - controfattuale, “Se venissi, ti restituirei il libro”
±controfattuale, “se fossi venuto, ti avrei ridato il libro” > + controfattuale. *Nel caso dell’imperfetto, l’indicativo
diventa +controfattuale > “Se me lo dicevi, venivo”.

Esempio frasi compito: “Luca stava guardando un film quando sentì un rumore”

-----------------------------A1-----------------------me-------------

S1--------------------------------------------------------

La cosa che noi diamo per certa è che Luca sente un rumore, dunque Sentì=A1, inoltre sentire > non durativo, puntuale,
tempo passato remoto, aspetto perfettivo, deittico; Stava guardando = S1 > perifrasi imperfettiva, “guardare” è un verbo
durativo, continuativo, aspetto imperfettivo, progressivo, anaforico. Stava > semi ausiliare, guardando > modo non
finito, mi dice solo cosa succede, mi dà il significato lessicale.

Diatesi  È quella categoria del verbo che permette di osservare e rappresentare un evento in modi alternativi, dando
maggiore o minore enfasi ai partecipanti all’azione.

a) Marco ha rotto il bicchiere  L’attenzione è focalizzata sul partecipante che compie l’azione (agente), ovvero
il soggetto grammaticale;  Diatesi attiva
b) Il bicchiere è stato rotto (da Marco)  l’agente viene spostato dalla posizione iniziale alla posizione
secondaria e facoltativa di sintagma preposizionale, mentre l’attenzione si focalizza sul partecipante che
subisce l’azione (paziente);  Diatesi passiva
c) Il bicchiere si è rotto  nonostante l’attenzione sia ancora focalizzata su chi subisce l’azione, l’evento è
presentato come avente luogo spontaneamente.  Diatesi media

I ruoli semantici (o tematici) dipendono dal significato del verbo; i principali sono:

 Agente  l’autore di un’azione;


 Paziente  il partecipante che riceve o subisce l’azione;
 Beneficiario  colui verso cui è rivolta l’azione (ha dato il libro a Maria)
 Esperiente  colui che sperimenta un determinato stato (Io ho freddo)
 Strumentale  il mezzo di cui ci si serve per realizzare l’evento
 Locativo  il luogo in cui si svolge l’azione o anche da cui o verso è diretta

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I ruoli semantici e le funzioni grammaticali ricoperte dai diversi elementi non coincidono necessariamente. In italiano la
diatesi possiede tre valori: attivo/passivo/riflessivo. Nella diatesi attiva l’agente è il soggetto, essa può esprimete il
significato:

1. Agentivo  il soggetto compie effettivamente l’azione: Giorgio mangia una mela.


2. Causativo  il soggetto provoca un evento o una situazione: Marco ha spinto sua sorella.
3. Medio  il soggetto è coinvolto in un evento o una situazione: Luca arrossisce.

Nella diatesi passiva il paziente è promosso a soggetto e l’agente o viene omesso o è espresso come complemento
d’agente, il suo ruolo sembra essere quello di porre l’agente in secondo piano e dare rilievo all’azione. Inoltre, perché
avvenga la diatesi passiva il verbo deve essere transitivo. Guardiamo il verbo non dal punto di vista morfologico, ma dal
punto di vista sintattico. Sintassi  dal greco “metto assieme, combino”, ci serve per guardare le combinazioni di
parole all’interno di una frase, descrive il modo in cui le parole si combinano tra loro formando unità di livello
superiore, cioè sintagmi o frasi. Il sintagma è l’unità più piccola dal punto di vista sintattico, esso si colloca in un livello
intermedio tra singole parole e frasi; può essere formato da una o più parole e, se si tratta di un sintagma complesso, da
più sintagmi semplici. In base alla testa del sintagma, cioè alla natura della parola funzionalmente più importante del
sintagma, distinguiamo sintagma preposizionale (SP), sintagma nominale (SN), sintagma aggettivale (SA) e sintagma
verbale (SV). È importante guardare il verbo con tutti i partecipanti che gli si agganciano principalmente per due
motivi: 1) Da una lingua all’altra non è detto che uno stesso verbo abbia bisogno dello stesso numero di partecipanti; 2)
Non è detto che da una lingua all’altra il modo di agganciare i partecipanti sia lo stesso. Molti errori prendono luogo da
questi due aspetti. ES: In spagnolo è possibile dire “Chiama a tua madre”, in italiano standard questo è un errore, tale
frase viene identificata come italiano regionale, dunque dallo spagnolo all’italiano cambia il numero di partecipanti che
è necessario legare al verbo “chiamare”. Il concetto relativo al numero di partecipanti è chiamato valenza. Nel 1956,
Tesnière ha inventato la grammatica valenziale, tale modello di grammatica ci permette di capire come in una frase
una parte di quest’ultima agganci gli altri costituenti. Si basa sull’idea che il verbo nella frase sia centrale e che funzioni
come se fosse il nucleo di un atomo, ovvero attira a sé gli altri componenti così come avviene con la valenza in chimica.
In Italia, la grammatica valenziale fu molto studiata da Sabatini. Dunque, cosa è la valenza?  Il numero di elementi
che sono obbligatoriamente richiesti in una frase perché quella frase abbia senso.

In base al numero di attanti o argomenti che possono legarsi ad un determinato verbo, distinguiamo: verbi a-
valenti/zerovalenti  Non hanno bisogno di partecipanti, generalmente i verbi atmosferici (piove); monovalenti 
necessitano di un solo partecipante, verbi di movimento; bivalenti  hanno bisogno di due partecipanti; trivalenti 
hanno bisogno di tre partecipanti per far sì che il significato sia completo, tipicamente verbi ‘di dire’ e ‘di dare’.

Partire  monovalente; Dare  trivalente; Dire  trivalente; Sorridere  bivalente; Sapere  bivalente: Chi sa? Che
cosa sa?; Arrivare  monovalente; Giocare  monovalente; Perdere  bivalente; Illuminare  bivalente; Tossire 
monovalente.

1. Parto per Roma  Ha solo un partecipante, ovvero “io”; che io stia partendo per Roma non è un’informazione
fondamentale, potrei semplicemente dire che parto.
2. Maria dà una caramella a Luca  Posso dire “Maria dà una caramella” ma per capirne il significato completo
devo dire anche a chi dà questa caramella. Non posso fare a meno di nessun costituente.
3. Lei sorrideva ai cani  Posso dire “Lei sorrideva”, ma per capirne pienamente il significato devo sapere a chi
sorrideva.
4. Luca sa la verità  Non posso fare a meno di nessun costituente.
5. Sono arrivata a casa*  funziona come partire.
6. Gioco con mio fratello a carte  Che fai? Gioco. “Con mio fratello a carte” sono informazioni in più.
7. Maria ha perso le chiavi della macchina che aveva in borsa**  Potrei dire “Maria ha perso”, ma assumerebbe
un altro significato, cioè darei per scontato che Maria ha perso una gara oppure una partita, quindi in generale
devo dire che cosa ha perso Maria per avere un quadro completo della situazione.
8. Le luci illuminavano il percorso  Chi illumina che cosa? Non posso fare a meno di niente.
9. Mi illumino di immenso Illuminarsi = illuminare me stesso. È un verbo riflessivo.*** È bivalente. Io posso
dire “La città si illumina”.
10. Maria ha tossito per il raffreddore in continuazione  informazioni in più.

Cosa notiamo? – In base alla semantica del verbo, cambia il numero di partecipanti, ovvero la valenza: io che conosco
il significato del verbo partire/dare/sorridere ecc. capisco quanti partecipanti devo inserire per formare una frase di
senso compiuto. Se dico semplicemente “Maria dà”, “Luca sa” non ho una piena consapevolezza del significato del
verbo, infatti mi domando “che cosa dà Maria?”, “A chi dà Maria?”, “Luca sa” posso dirlo, ma assume una sfumatura di
significato differente, significa che Luca è sapiente, “Luca sa la verità” ha tutt’altro significato. Bisogna tenere presente
che alcuni partecipanti sono necessari per comprendere pienamente il significato della frase, altri invece sono solo una
sorta di contorno: “Maria ha tossito per il raffreddore”, per comprendere il significato della frase basterebbe
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semplicemente dire che Maria ha tossito, sapere che la causa della tosse sia il raffreddore è un’informazione di cui
potremmo fare a meno; – Ogni verbo si lega direttamente agli altri costituenti, oppure si lega indirettamente tramite altri
elementi.

Verbi di movimento  Sono monovalenti, hanno solo bisogno di sapere chi fa l’azione, sapere verso dove/da dove si
muovono è secondario (partire, arrivare).

Verbo abitare  “Mario abita a Palermo”, “Mario abita” non posso dirlo. “a Palermo” – “a casa”* Nonostante entrambi
siano stato in luogo, non sono la stessa cosa: mentre per il verbo arrivare lo stato in luogo è facoltativo, per il verbo
abitare è necessario, ho bisogno di dire dove abita Mario.

** Maria ha perso le chiavi che aveva in borsa; Luca sa che domani piove: Il “che” è lo stesso?

- Che domani piove  frase oggettiva (completiva  subordinate che completano la valenza del verbo della
frase matrice, cioè si comportano come complementi). Sapere è un verbo bivalente. Scopriamo che alcuni
verbi bivalenti non solo possono reggere un secondo argomento, cioè un secondo partecipante all’azione, ma
anche un’intera frase introdotta da “che”, quest’ultimo è un “complementatore” e ha la funzione di introdurre
una subordinata come complemento di una principale. (In italiano che e di sono complementatori). In questa
frase il “che” è fondamentale per completare l’intero significato.
- Che aveva in borsa  introduce una subordinata, ma mi dà un’informazione in più, non necessaria.

***I verbi riflessivi non sono tutti uguali: “Mi lavo”  “Io lavo me stessa” = riflessivo proprio, bivalente; “Mi lavo le
mani”  “Io lavo le mani a me stessa/a mio vantaggio” = riflessivo apparente o transitivo pronominale, trivalente
(posso dire “lavo le mani”  Che fai? Lavo le mani); “Mi pento di quello che ho detto”/”Mi vergogno di te”  *Io
vergogno non può esistere, il “mi” di “mi lavo le mani” è in più, mi dà un’altra informazione, il verbo è transitivo, ma
nel caso di “mi vergogno di te” il “mi” è necessario  vergognarsi, pentirsi, dispiacersi + di… sono tutti verbi
intransitivi e hanno obbligatoriamente la particella pronominale, infatti si chiamano intransitivi pronominali. Dunque,
abbiamo quattro tipi di riflessivi:

1. Riflessivi propri  Il soggetto e l’oggetto coincidono. L’oggetto del verbo riflessivo è sempre costituito dai
pronomi personali atoni: Mi lavo. Sono bivalenti.
2. Riflessivi apparenti o transitivi pronominali  Si hanno quando le particelle pronominali atone non
svolgono la funzione di complemento oggetto ma di complemento di termine: Io (mi) lavo le mani = Io lavo le
mani a me stessa. Sono trivalenti.
3. Intransitivi pronominali  Il pronome atono è un componente obbligatorio del verbo. Mi vergogno di te =
Non è transitivo, è intransitivo perché c’è la preposizione. È bivalente. Mentre esiste un ricordo e mi ricordo,
non esiste un *vergogno, *pento, ma solo un mi vergogno e un mi pento.
4. Riflessivi reciproci  Si hanno quando vi è una reciprocità di azione. Maria e Luca si baciano; baciarsi 
bivalente

Ricapitolando: Alcuni partecipanti all’azione sono obbligatori, cioè sono necessari perché il verbo abbia senso. Dunque,
per far sì che una frase sia di senso compiuto ho bisogno del verbo + i suoi argomenti, cioè i partecipanti
obbligatoriamente previsti da quel verbo. Ci sono delle frasi che comprendono elementi che sono secondari, che danno
informazioni in più non strettamente necessarie  “Sono arrivata a casa” = posso staccare “a casa” da “sono arrivata”;
“Le chiavi della macchina” = “della macchina” è agganciata a “le chiavi”.

Frase minima  Si definisce frase minima quella frase contenente un verbo con i suoi argomenti obbligatori.

Frase nucleare  Ampliamento della frase minima. Tale frase si ottiene quando ad uno degli argomenti obbligatori
lego altre informazioni che prendono il nome di circostanti.

Sabatini dice che queste frasi possono essere visualizzate in degli schemi:

“Maria dà le caramelle a Luca”  Alcuni argomenti sono legati direttamente al verbo (dare le caramelle), altri
indirettamente (a Luca, legato al verbo da preposizione). Insieme formano una frase minima.

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Posso aggiungere anche altri elementi: “Maria dà le caramelle al miele a suo cugino Luca per merenda”  In questo
caso ottengo una frase semplice, ovvero una frase formata da un solo predicato, ma con varie circostanti che si legano
direttamente agli argomenti ma che danno delle informazioni in più rispetto a questi ultimi.

Per merenda, per premio, alla fine della giornata, a casa sua  sono espansioni; a differenza di “al miele”, per esempio,
possono essere spostate all’interno della frase. Differenza tra espansioni e circostanti  mentre i circostanti modificano
un argomento, si legano ad esso e non possono essere spostati (avverbi, aggettivi, preposizione + nome ecc.), le
espansioni allargano ulteriormente la scena e sono mobili.

Solo il complemento oggetto può essere argomento. (????)

V + argomenti  frase minima

V + argomenti + circostanti + espansioni  frase semplice

Frasi complesse  formate da più predicati

Che differenza c’è tra frase minima, frase semplice e frase complessa?  La frase minima è formata dal verbo e i suoi
argomenti, la frase semplice è formata dal verbo, gli argomenti e i circostanti ed eventuali espansioni, entrambe sono
frasi mono predicative. Le frasi complesse invece sono formate da più predicati verbali  Luca sa che domani piove.

Addirittura intere frasi possono comportarsi da circostanti o da espansioni  - Quando è finita la gara, Luca ha perso 
è una frase complessa, “quando è finita la gara” si comporta da espansione, infatti posso dire anche “Luca ha perso
quando è finita la gara”, è mobile. Nelle frasi complesse, tutte le subordinate si comportano come argomenti o come
espansioni, e solamente le relative si comportano come circostanti. La frase relativa è legata ad un singolo elemento
della frase principale detto antecedente o testa (a cui è riferito il pronome relativo che introduce la dipendente e che
deve trovarsi ad esso adiacente); distinguiamo la relativa limitativa/restrittiva (La squadra italiana che ha vinto più
scudetti è la juventus) che determina l’antecedente e la relativa esplicativa/appositiva (La squadra torinese, che era
reduce dalla partita di coppa, è parsa lenta) che invece può essere omessa poiché è una semplice aggiunta.

“Non so che fare domani”  Che cosa = frase interrogativa

“Sbrigati che è tardi”  Causale, Che polivalente.

Esercitazioni:

Colonialista  Derivato nominale deaggettivale (deriva da coloniale e non da colonia  derivazione a cumulo)

Post-colonialista  Derivato nominale/aggettivale deaggettivale  post/coloni/al/ist/a

Immangiabile  Derivato aggettivale deverbale (deriva da mangiare, derivazione a ventaglio)

Interdisciplinarità  Derivato nominale deaggettivale  Inter/disciplin/ar/it/à

Tergicristallo  composto v + n  terg/i/cristall/o

Antropomorfizzato  derivato aggettivale deverbale  antropo/morf/izz/at/o – antropomorf/izz/at/o

Seppe  Sepp/e = passato remoto, indicativo, 3^ persona singolare, perfettivo, deittico, durativo

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Avessero  avess/ero

Cong. Trapassato  anaforico (il tempo vince sul modo)

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